Biglietto di sola andata per l’Eldorado - eastwest.eu · stoffe esposte sono di fabbricazione...

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18 Perchè non si ripeta mai più” è scritto su un cartello appeso alle pareti ocra della “Maison des esclaves”, sulla picco- la isola di Gorée. Invece si ripete ancora, eccome. Allora schiavi verso le Americhe. Oggi clandestini verso le Canarie, porta d’in- gresso in Europa. Dalla “Casa degli schiavi” su questo scoglio davanti al porto di Dakar – tre secoli fa – iniziava un viaggio di sola andata. Passando attraverso la cosiddetta “porta del non ritorno”: una piccola uscita affacciata sul mare dove i bastimenti diretti oltreoceano imbarcavano il loro carico di merce umana. Ora i migranti salpano sulle grandes pirogues dei pescatori senegalesi trasformate in triremi del Terzo Millennio. Stesso Atlantico, altra destinazione: i campi di fragole dell’Andalusia invece di quelli di cotone dell’Alabama. Per tre euro all’ora quando va bene. E non si parte più nemme- no da Gorée, simbolo di una schiavitù con- dannata e abolita. Tra le viuzze di questa pic- cola isola-museo in un pomeriggio assolato di luglio trovi cascate di buganvillee e nego- zietti di souvenir con gl’immancabili batik. Le guide si disputano le comitive ciabattanti in arrivo, francesi ma non solo. Scolaresche in gita scattano le foto della memoria. Sulla banchina del porto, un gruppo di rasta scan- disce sui tamburi djembé il ritmo della risac- ca. Queste onde, ormai, sono solo per i turi- sti. Le galee della nostra epoca partono di notte dai litorali senegalesi cercando di sfug- gire ai controlli di un’Europa che alza barrie- re sul mare. Le frontiere dell’emigrazione intanto si stanno spostando sempre più a sud e si salpa ormai anche dalla vicina Guinea Bissau, dalla Sierra Leone e persino dalla Costa d’Avorio. Una sorta di circumnaviga- zione del continente all’incontrario, sulla rotta della disperazione e della voglia di una nuova vita. Ieri gli avventurieri coloniali europei calavano dal nord per saccheggiare le risorse dell’Africa. Oggi i figli africani della colonizzazione salgono verso il Vecchio Continente perché a loro è rimasto ben poco. Mbaye Fall, 31 anni, il suo viaggio se lo ricorda bene: “Dopo sette giorni di piroga, sbarcammo alle Canarie l’anno scorso nel giorno della vittoria dell’Italia contro la Francia ai mondiali”. Mentre da noi ancora si festeggiava, lui era già stato rispedito in Senegal a bordo di un volo organizzato dalle autorità spagnole. Rimpatriato. Senza soldi ma con uno stigma: “Essere rimandati a casa è un marchio di fallimento”, racconta a bordo del taxi che guida di notte. “L’auto non è mia”, puntualizza subito. “Me la presta un O Spagna o morte. Così si cerca in tutti i modi di scappare. E può co- stare fino a 800 euro il viaggio della speranza dalle coste del Senegal all’Europa. Spesso gli scienziati sociali descrivono i flussi dei clande- stini senza averne una conoscenza diretta. Qui si è cercato di fare il contrario, partendo dagli uomini in carne e ossa, dalla loro fame e dal loro sudore Biglietto di sola andata per l’Eldorado di Emiliano Bos REPORTAGE

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“ Perchè non si ripeta mai più” è scrittosu un cartello appeso alle pareti ocradella “Maison des esclaves”, sulla picco-

la isola di Gorée. Invece si ripete ancora,eccome. Allora schiavi verso le Americhe.Oggi clandestini verso le Canarie, porta d’in-gresso in Europa. Dalla “Casa degli schiavi”su questo scoglio davanti al porto di Dakar –tre secoli fa – iniziava un viaggio di solaandata. Passando attraverso la cosiddetta“porta del non ritorno”: una piccola uscitaaffacciata sul mare dove i bastimenti direttioltreoceano imbarcavano il loro carico dimerce umana. Ora i migranti salpano sullegrandes pirogues dei pescatori senegalesitrasformate in triremi del Terzo Millennio.Stesso Atlantico, altra destinazione: i campidi fragole dell’Andalusia invece di quelli dicotone dell’Alabama. Per tre euro all’oraquando va bene. E non si parte più nemme-no da Gorée, simbolo di una schiavitù con-dannata e abolita. Tra le viuzze di questa pic-cola isola-museo in un pomeriggio assolatodi luglio trovi cascate di buganvillee e nego-zietti di souvenir con gl’immancabili batik.Le guide si disputano le comitive ciabattantiin arrivo, francesi ma non solo. Scolareschein gita scattano le foto della memoria. Sullabanchina del porto, un gruppo di rasta scan-

disce sui tamburi djembé il ritmo della risac-ca. Queste onde, ormai, sono solo per i turi-sti. Le galee della nostra epoca partono dinotte dai litorali senegalesi cercando di sfug-gire ai controlli di un’Europa che alza barrie-re sul mare. Le frontiere dell’emigrazioneintanto si stanno spostando sempre più a sude si salpa ormai anche dalla vicina GuineaBissau, dalla Sierra Leone e persino dallaCosta d’Avorio. Una sorta di circumnaviga-zione del continente all’incontrario, sullarotta della disperazione e della voglia di unanuova vita. Ieri gli avventurieri colonialieuropei calavano dal nord per saccheggiare lerisorse dell’Africa. Oggi i figli africani dellacolonizzazione salgono verso il VecchioContinente perché a loro è rimasto ben poco.Mbaye Fall, 31 anni, il suo viaggio se loricorda bene: “Dopo sette giorni di piroga,sbarcammo alle Canarie l’anno scorso nelgiorno della vittoria dell’Italia contro laFrancia ai mondiali”. Mentre da noi ancora sifesteggiava, lui era già stato rispedito inSenegal a bordo di un volo organizzato dalleautorità spagnole. Rimpatriato. Senza soldima con uno stigma: “Essere rimandati a casaè un marchio di fallimento”, racconta a bordodel taxi che guida di notte. “L’auto non èmia”, puntualizza subito. “Me la presta un

O Spagna o morte. Così si cerca in tutti i modi di scappare. E può co-

stare fino a 800 euro il viaggio della speranza dalle coste del Senegal

all’Europa. Spesso gli scienziati sociali descrivono i flussi dei clande-

stini senza averne una conoscenza diretta. Qui si è cercato di fare il

contrario, partendo dagli uomini in carne e ossa, dalla loro fame e dal

loro sudore

Biglietto di sola andataper l’Eldorado

di Emiliano BosREPORTAGE

amico che di giorno lavora come tassista.”Nel gorgo infernale del traffico di Dakar leore notturne sono un sollievo. Di giorno, icoloratissimi car-rapide – i bus collettivi –sono api rumorose e inquinanti nell’alvearedella capitale, in un groviglio di lavori incorso che costringe a interminabili code.

DakarUno dei principali punti di partenza dei

migranti irregolari è Saint-Louis, 260 chilo-metri a nord di Dakar. Occorre però partireda qui, dalla capitale, per comprendere imotivi di un inarrestabile esodo di massa, diuna fuga parossistica verso il sogno chiama-to Europa. Avenue George Pompidou – inpieno centro – brulica di piccoli commerciinformali, una teoria di bancarelle giustap-poste che trasformano i marciapiedi in una“vuccirria” in salsa afro, un caotico mercatoall’aperto. È uno zig-zag tra venditori di ara-chidi tostate, calzini, cd, manghi, orologi,banane, scarpe. E t’imbatti pure nelle “soli-te” cinture Dolce&Gabbana vendute dal“solito” senegalese. Proprio come in viaDante a Milano o sul ponte di CastelSant’Angelo a Roma. Solo che lui stavoltagioca in casa. Casa sua. “La merce arriva alporto di Dakar dalla Cina via Dubai”, spiega

Mamadou, 29 anni. Merce contraffatta, s’in-tende. Non serve specificarlo. “Anche le stof-fe africane non sono più originali”, aggiungeIbrahim, che ha appena avviato un’attività inproprio dopo tre lustri di lavoro a Roma.“Abitavo a Porta Maggiore, là mi chiamava-no tutti Mario.” Ora lo chiamano così anchenel mercato dei tessuti del quartiere popola-re di “Pikine”, ribattezzata Pechino per ilsuo milione e passa di abitanti. “Tutte lestoffe esposte sono di fabbricazione cinese”,spiega Ibrahim-Mario. Mostra matasse lun-ghe dieci metri; se ne vendono a migliaia.Sotto gli aghi di vecchie “Singer” a pedale, lemani abili dei sarti trasformano queste stoffenegli splendidi bou-bou, i vestiti colorati esvolazzanti delle donne dell’AfricaOccidentale. Il vero panno originale dellaCosta d’Avorio – con gl’inconfondibili ghiri-gori multicolore – al tatto ha una consisten-za diversa che i polpastrelli percepisconoimmediatamente: “Però costa il doppio”, sor-ride il venditore.La globalizzazione include tutti. ma neesclude ancora troppi. Come nel quartiere diGuinaw Rail, periferia polverosa di Dakar.Per arrivarci si costeggia il mare sulla“Corniche”, una specie di tangenziale aridosso delle onde. A destra, scogli a picco. A

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sinistra, ville lussuose e residenze diplomati-che con trionfi di jacarande fiorite. Si oltre-passano le due “mammelle”, due piccolealture sabbiose così chiamate per la loroinconfondibile sagoma. Si prosegue versopunta Almadies, capezzolo proteso dellaMadre Africa verso l’Oceano. È questo ilpunto più a ovest dell’intero continente. Nellabirinto della banlieu della capitale spuntaGuinaw Rail, ammasso di casupole tra stra-dine di sabbia lungo una ferrovia. “Siamouna rete che riunisce 55 associazioni didonne per la promozione di attività lavorati-ve” spiega Maye N’Dour, coordinatrice del“Reseau” di piccole organizzazioni femmini-li di un quartierone con centomila abitanti.Una creatività poliforme per campare: tessi-tura di batik, trasformazione di cereali, pro-duzione di sapone, microgiardinaggio.Durante un incontro con i delegati della“Casa della Carità” di Milano, che stannostudiando alcuni interventi di solidarietà inSenegal, la donna – avvolta, anche lei, neltradizionale abito multicolore – racconta delloro sistema di risparmio collettivo per lespese sanitarie. Venti centesimi di euro almese per ogni componente della famiglia.Una mutua-fai-da te con 612 iscritti, che incaso di necessità possono usare questi fondi

per pagarsi farmaci e cure mediche. È labanca di chi non ha soldi e deve inventarsi lasopravvivenza. Con dignità e fantasia: perquesto il “Reseau” ha realizzato anche uncentro internet, una radio comunitaria e unacooperativa di produttori di djembé, i popo-lari tamburi senegalesi. E mentre gli uominisono costretti a partire in piroga per una vitapiù dignitosa, le donne sono condannate arestare. Perché sono la locomotiva del conti-nente. E anche la carrozza-Senegal è trainatadalla forza-motrice di madri e mogli.

Sola andataIn francese li chiamano “candidati” all’e-

migrazione. Ma non c’è nessun esame néconcorso da superare. Solo la roulette russadi una bonaccia per sei-sette giorni, il tempod’approdare sugli scogli di Tenerife oLanzarote. Il proiettile nascosto di questogioco pericoloso col destino s’annida tra leprocelle dell’Atlantico. Lo sa bene YayiBayam Diouf, 49 anni. La incontriamo aThiaroye sur Mer, casette basse di fronte allaspiaggia e un dedalo di stradine di sabbia allaperiferia meridionale di Dakar. Da qui nelmarzo 2006 partì suo figlio Al Umar. Nonfece più ritorno, inghiottito dai flutti impla-cabili di queste latitudini di mare. “Gli dissi

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io stessa di partire per le Canarie pur cono-scendo gli enormi rischi. Ho atteso per oltreun mese la sua telefonata”, racconta ladonna. Il suo figlio unico ventisettenne nonl’avrebbe mai chiamata. “Un parente da LasPalmas mi comunicò che Al Umar era mortoin mare per una tempesta durante la traver-sata dell’Oceano insieme a decine di altriclandestini.” Il ragazzo – prosegue la madrecon voce leggermente incrinata – venneingaggiato a Nouadibou, in Mauritania. Unpasseur gli chiese di condurre una pirogacarica di un’ottantina di aspiranti immigratisub-sahariani – non solo dal Senegal, maanche da Mali, Niger, Guinea, Liberia –verso le Canarie, territorio spagnolo emiraggio europeo visto dall’Africa. Da anniquesto tratto di Atlantico inghiotte centi-naia, forse migliaia, di clandestini senzanome; una cinquantina gli ultimi, naufragatia luglio, e oltre un migliaio quelli spariti nel2006. Dopo la disgrazia per la perdita del

figlio, Bayam Diouf ha iniziato la sua perso-nale battaglia. “Ho voluto incontrare lemadri delle altre vittime, perché mio figlioera il responsabile della piroga e sono mortitutti a causa sua”, spiega. È difficile parlare auna madre che ha perso un figlio, aggiungela donna. “Siamo noi mamme che spessofinanziamo le loro partenze verso la Spagna.“Per questo”, dice ancora Bayam Diouf, “hoiniziato andando in spiaggia a dire di nonpartire, di non rischiare la vita.” Le primerisposte positive sono arrivate da altremamme. Da qui l’idea di creare il “Collettivodelle donne per la lotta all’immigrazioneclandestina”, che tra l’altro promuove attivi-tà generatrici di reddito in un’ottica di pre-venzione dell’immigrazione clandestina.“Lottare contro la povertà significa permet-tere una vita dignitosa senza bisogno di fug-gire altrove”, sostiene la mamma anti-immi-grazione. Che ha voluto incontrare anche ipescatori perché “i trafficanti vengono quicon denaro contante, comprano una piroga eun motore, poi cercano i nostri figli pescatoriper condurre la barca alle Canarie”. Il ricattodei passeur è semplice: a chi si prende ilrischio di salpare alla guida delle carrettedella morte offrono passaggio gratuito edenaro per la famiglia che resta. “Qui aThiaroye sur Mer almeno 600 giovani sonopartiti, 115 sono morti, 19 rimpatriati. E cisono degli scomparsi di cui non abbiamonotizie”, racconta. La sua è la prima associa-zione impegnata su questo fronte in Senegale probabilmente in tutta l’AfricaOccidentale. “Quando si iniziano a metterebarriere nei mari o costruire muri con scelteche provocano la morte di giovani”, concludeBayam, seduta in un cortile dove una coope-rativa di donne produce saponi e pesce essic-cato – bisogna fermare queste politiche epermettere ai nostri giovani di costruire illoro Paese con dignità e onestà.”

Rimesse, colonna del PILIl biglietto di sola andata per l’Europa

può costare fino a mezzo milione di franchilocali, circa 800 euro. I conti sono prestofatti: ogni imbarcazione trasporta in mediaun’ottantina di aspiranti clandestini, chegarantiscono un bel gruzzolo ai trafficanti. Agiugno la polizia di Sant Louis ha fermatoun gruppo di 98 quasi-immigrati che stavaper salpare sfidando le onde di notte. I pas-seur avevano denaro contante equivalente al

REPORTAGE

_Sopra, quel che rimane della “Maison des ésclaves”,

sull’isola di Gorée, da dove partivano gli schiavi per le

Americhe. Oggi dal Senegal si parte per le Canarie, che

per molti rappresentano la porta d’ingresso in Europa

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reddito annuo di decine di pescatori. “Io hogià pagato”, ci racconta Abdulaye, 20 anni,maglietta scura e sguardo timido. Insieme aun coetaneo è entrato in contatto con unodei “mediatori” della rete informale chegestisce il traffico di piroghe. “Voglio partireper l’Europa per guadagnare più soldi. Là c’èdenaro e ci sono possibilià di lavoro, qui inSenegal, invece, se hai fortuna lavori duroma non guadagni. Altrimenti aspetti un’oc-casione che non arriva mai”, sostiene. Il suo“passaggio” a caro prezzo per l’Europa l’hacomprato a Mbour, una località turisticafamosa a sud di Dakar. Da lì, il giovane èarrivato in bus a Saint Louis, l’antica capitalecoloniale francese. Seguiamo anche noi lostesso tragitto salendo dalla capitale versonord. Su un rullo d’asfalto infuocato – diprimo pomeriggio – si intuiscono meglio imotivi della fuga da queste terre. La stataletaglia in un due il Sahel, cintura africana tradeserto e foresta. Il Senegal è tra i primiproduttori mondiali di arachidi. Ti chiedidove le coltivino. All’improvviso dalla stradasi intravedono campi che sembrano pettinaticon l’aratro. Qua e là occhieggiano grandibaobab, isole d’ombra in lastre di sole. Lapioggia è davvero imprevedibile: di solitoconcentrata nei temporali tra luglio a set-tembre. Poi, a volte, zero pluviometrico permesi. Si prosegue sfiorando Louga, una dellecittà col più alto tasso d’emigrazione delSenegal. Un nulla rovente e polveroso.L’Harmattan soffia come un asciugacapellipuntato dentro il finestrino. Gli emigratigarantiscono un indispensabile contributo ailoro famigliari e all’intero Senegal: le rimes-se rappresentano ormai il 7-8% del Pilnazionale. Secondo Mohamadou Mbodi, pre-sidente del Forum Civile di Dakar, i senega-lesi portano 250 miliardi di franchi CFAall’anno, circa 400 milioni di euro. Un circolo“virtuoso” che transita per Saint Louis, lacittà dal fascino decadente con le sue case instile coloniale e il grande ponte ad arcatemetalliche costruito da Gustav Eiffel, lo stes-so della celebre Torre. Destinato al Danubio,fu invece montato qui, dove oggi è un tram-polino di lancio verso l’Europa.

Saint Louis, tra fiume e oceanoLa certezza di trovare un passaggio per le

Canarie – anche a caro prezzo – attira quimigliaia di giovani senegalesi e non solo.“Questa zona è un punto di reclutamento e

di passaggio, uno snodo per tutta l’AfricaOccidentale”, spiega Abdullaye Niang,docente di Sociologia dello sviluppoall’Università “Gaston Berger” di SaintLouis. “Da quando sono aumentati i control-li, è cresciuta anche la clandestinità”,aggiunge il professore durante una conver-sazione nel suo studio. L’Europa – attraversoi programmi dell’agenzia “Frontex” – tentadi sigillare le frontiere via mare. Schieramotovedette per fermare il flussodall’Africa. Il Senegal, in base ai nuoviaccordi con Bruxelles, prova a intensificarecontrolli e repressione anche via terra. Mada qui si continua a scappare. Con il rischiosempre più frequente di essere rimpatriatidopo poche settimane. “A me è andatamale”, racconta Ahmed Kanteh, titolare diun piccolo chiosco a Guet N’dar, il quartieredi pescatori di Saint Louis. Aveva racimolatorisparmi suoi e della famiglia allargata perraggiungere un cugino a Madrid. “Quasitutti abbiamo un parente in Spagna o in

BIGLIETTO DI SOLA ANDATA PER L’ELDORADO

Con un tasso di

disoccupazione ufficiale

del 48%, in Senegal

non ci sono prospettive

per il futuro.

Per tutto il Paese

risuona solo

un tetro refrain:

Barça o Barzak,

Barcellona o l’“aldila”.

O Spagna o morte.

Ma la traversata della

speranza miete sempre

più vittime

Italia”, spiega il negoziante. “Il vero proble-ma”, aggiunge “è ricominciare dopo averinvestito tutti i risparmi per il viaggio versol’Europa”. La solidarietà famigliare permet-tere di raggranellare i denari per la traversa-ta, poi però i parenti-azionisti chiederanno illoro dividendo al congiunto che avrà ungiorno trovato lavoro come operaio in pro-vincia di Brescia. Con un tasso di disoccupa-zione ufficiale del 48%, in Senegal non c’èprospettiva per il futuro. Per tutto il Paese –da Dakar a Kaolack fino alle splendide costedella Casamance nel sud – risuona un solotetro refrain: “Barça o Barzak”, Barcellona o“l’aldilà”, Barzak in lingua wolof. O Spagnao morte. Qui l’Unione Europea non prendeforma con la sagoma isolata di Lampedusa,

ma con le coste frastagliate delle Canarie,distanti oltre un migliaio di chilometri dimare. Sette-otto giorni di navigazione sugrandi piroghe, 80-100 aspiranti clandestiniinscatolati sotto il sole a bordo della stessaimbarcazione. Nel 2006 sono sbarcati alleCanarie oltre 31.000 disperati dell’Africasub-sahariana; nei primi sei mesi del 2007 siè registrato un calo, il 55% in meno dell’an-no precedente. Impossibile definire il nume-ro di vittime morte durante la traversata.Una macabra contabilità senza riscontrioggettivi. “Sappiamo il numero di arrivi manon quello delle partenze”, osservaMamadou Biaye, direttore del giornale “LeQuotidien” di Dakar. “Siamo al punto in cuiper gli immigrati è diventata la stessa cosamorire in mare sulle piroghe o vivere qui inSenegal: questo è davvero troppo”, commen-ta Mouhamadou Seck, coordinatore dellaRete africana per la difesa dei diritti umani(Raddho) a Saint Louis. L’imperativo catego-rico è uno solo: partire. Qui la quasi totalità

REPORTAGE

_Yayi Bayam Diouf ha perso il suo unico figlio durante

una traversata in oceano alla ricerca di una vita migliore.

Ora è promotrice del “Collettivo delle donne per la lotta

all’immigrazione clandestina”

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delle famiglie “può sopravvivere grazie a unparente emigrato in Europa. Questo spinge inostri giovani, dal Senegal e da tuttal’Africa Occidentale, a salpare verso leCanarie”, dice ancora Seck, un avvocato cheda anni si occupa di diritti umani. Dalletestimonianze raccolte, non esiste una vera epropria rete “criminale”: si tratta semprepiù spesso di gruppi auto-organizzati, converi e propri armatori che acquistano lepiroghe dei pescatori per trasformarle poi in“barconi della disperazione”. “Ormai i cari-chi di uomini valgono più dei carichi dipesce”, scuote la testa Samba Diop, un gior-nalista locale. Per l’avvocato dei dirittiumani si tratta comunque di una specula-zione sulla miseria altrui: “Possiamo assimi-larlo tranquillamente al traffico di droga,perché questi ‘passeur’ vendono morte ailoro passeggeri”. Il meccanismo è semplice:di fronte alle crescenti difficoltà soprattuttodel settore ittico – spina dorsale dell’econo-mia di questa regione – c’è chi preferisce

investire denaro per costruire una pirogadestinata ai clandestini: “Poi recluta untimoniere e un motorista per condurla finoalle Canarie e organizza un carico a voltecon un centinaio di aspiranti immigrati: èinaccettabile, occorre fermare questo tipo diorganizzazione”, picchia duro l’attivista deidroits de l’homme. Sia nel 2006 che que-st’anno ci sono stati arresti lungo tutto illitorale senegalese; a Saint Louis nelle scor-se settimane si è aperto il primo processocontro i trafficanti di immigrati. Le partenzeperò proseguono. “Le cause di questa emi-grazione di massa sono complesse. Dadecenni assistiamo all’esportazione abusivadi pesce nel nostro mare e di tutte le nostrerisorse da parte dei pescherecci stranieri”,osserva l’avvocato. “Lungo le nostre costeavviene un vero e proprio saccheggio”, s’in-digna Oumar Sarr, vice-presidente delComitato di quartiere del villaggio di GuetN’dar, una sorta di vicesindaco. “I battellieuropei di notte invadono i tratti di mare

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riservati alla pesca artigianale e ci sottraggo-no enormi banchi di pesci, provocando graviconseguenze per tutto il settore a livellolocale.” Guet N’dar è il villaggio di pescatoripiù famoso del Paese, abbarbicato sullaLange de Barbare, la sottile striscia di sabbiatra la foce del fiume Senegal e l’OceanoAtlantico. Dal 2006, dice ancora Sarr, “alme-no un migliaio di giovani sono partiti da quiverso le Canarie. Restano donne, bambini eanziani, ma intanto perdiamo la nostraforza-lavoro altamente qualificata”. Sullecapacità degli esperti di Guet N’dar non cisono dubbi. Tant’è che da anni grandipescherecci asiatici – prima russi, ora nordcoreani – vengono qui ad “affittare” piroghee pescatori. “Caricano i nostri uomini con le

loro barche sui grandi battelli e li portano apescare in Gabon e Angola per due o tremesi”, spiega il vicesindaco. “Poi riportanoqui i nostri pescatori e fanno rotta versol’Asia col loro bottino ittico”. Congelato epronto da inviare nel mondo.

La risorsa pesceEppure la situazione – in termini di

pescato – non sarebbe “catastrofica” secondoPierre Morand, dell’Istituto di ricerca per losviluppo di Dakar. “La quantità di pesce pre-sente in questo tratto di mare è piuttostostabile e si mantiene sugli stessi livelli anchequello raccolto dai pescatori artigianali”,malgrado l’assenza di dati recenti. Secondola Direzione per la pesca del Senegal, nel2003 sono state prodotte 350.000 tonnellatedi pesce “artigianale”, contro circa 100.000tonnellate di pesce industriale destinato aimercati esteri. “Questi dati sono equivalentia quelli di cinque-dieci anni fa”, dice l’esper-to in un’ampia intervista al giornale “Le

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_Nel porto di Saint Louis sono ancora una volta protago-

niste le donne. Sono loro che aspettano le grandes piro-gues che rientrano dal mare e che si occupano della tra-

sformazione e della vendita del pescato

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Quotidien”. Il problema – aggiunge unsecondo ricercatore, Didier Jouffre – è unaltro: “Il volume del pescato non si è davve-ro abbassato, ma sono aumentati i pescatorie la pressione della pesca”. Le risorse nonsono dimiuinte però – è il ragionamentodegli esperti – se la torta è sempre la stessa eaumenta il numero di invitati, le fette siriducono sempre più. Di parere diverso ilsindacato dei pescatori, secondo cui le imbar-cazioni europee – che dovrebbero mantener-si ad almeno 8-10 miglia dalla costa – pene-trano di notte nelle acque riservate alla pescalocale. Fino al 2006, gli accordi per permette-re l’attività dei grandi motopescherecci stra-nieri – soprattutto europei, cinesi e giappo-nesi – garantiva al governo di Dakar 64milioni di euro all’anno, con un accordo perassegnare almeno una percentuale minimadi questi ricavi alle associazioni di categoriadei pescatori. Che invece lamentano la totalemancanza di sostegno da parte delle autoritàsenegalesi. Beffa doppia, perché invece lesocietà straniere del settore ittico ricevonoforti sussidi dai loro Paesi: la Cina paga duemiliardi all’anno di dollari per il carburantedei pescherecci, mentre Unione Europea e iPaesi membri – secondo il “Wall StreetJournal” – non meno di sette miliardi. Nonsolo, le ripercussioni negative in Senegal siabbattono su una filiera di 600.000 persone,che costituisce il primo settore produttivodel Paese. E spesso sono le donne a pagarnele conseguenze. Perché la “trasformazione”del pesce – e la vendita sul mercato locale – ètutta affidata a loro.Per rendersene conto basta andare la mattinapresto nella zona del porto di Saint Louis.Donne d’ogni età – anche anziane e ragazzi-ne – aspettano le grandes pirogues che rien-trano dal mare. Appena si avviciano a riva,gli scaricatori fanno la spola con la terrafer-ma infilandosi nell’acqua fino alla vita.Sistemano sulla testa casse di pesce pesantidecine di chili, che sgocciolano come unagrondaia dopo un acquazzone. Entrano edescono rapidi dai flutti come piccoli bulldo-zer anfibi; ai piedi indossano scivolosi sanda-letti di plastica che si trasformano invece incingolati di caterpillar. Sgattaiolano verso icamion-frigo che attendono sulla banchina.Rombi, razze, occhiate, sardine, branzini. Ilpesce buono prende subito la via di Dakar overso l’interno del Paese. Il resto viene scari-cato su grandi teli di plastica dove sono pro-

prio le donne del posto a selezionare i pezzimigliori da prendere a credito e rivenderepoi nell’affollato mercato ittico. Aminata,una ragazzina fragile che indossa le imman-cabili infradito, si carica un secchio colmo dipesce fresco sulla testa e s’incammina verso ipadiglioni del mercato. Chi può permetterse-lo, evita la fatica del percorso a piedi viag-giando a bordo di un piccolo calesse trainatoda un ronzino bolso, alternativa economicaai tradizionali taxi. Una parte del pescato èdestinata all’essicazione e alla preparazionesotto sale. Il “laboratorio” all’aperto – qui,sulla riva del fiume dove attraccano le piro-ghe – ha atmosfere surreali da film in biancoe nero di un’altra epoca. Il terreno è unmelma fangosa grigiastra impastata di scartidi pesce e conchiglie. Dentro grandi bidoniormai neri di grasso si cuociono sardinellericoperte poi di sale. Persino le vesti cangian-ti delle donne sembrano stinte in questogirone dantesco, tra lische di pesce marcite efile di rombi esposti all’aria per l’essicatura.Mani rugose ma esperte – di donna, ancorauna volta – attizzano un piccolo rogo. Fumie miasmi si mescolano nella luce tremula diun tramonto senza bagliori. “Sono necessa-rie regole igieniche che qui non sono piùrispettate da tempo”, spiega a East LaminKan Joum, responsabile del “Servizio pesca”del comune di Saint Louis. “In queste condi-zioni l’attività di trasformazione non puòcontinuare, nei prossimi mesi tutta la zonaverrà smantellata”, aggiunge il funzionario

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riferendosi all’“inferno” in chiaroscuro cheabbiamo appena visitato al porto. Altrove,invece, la collaborazione con alcune organiz-zazioni non governative internazionali hadato risultati incoraggianti: bisogna percor-rere un paio di chilometri sulla stessa peni-sola e oltrepassare Guet N’Dar. Nel puntodove la lingua di sabbia tra fiume e Oceanomisura poche centinaia di metri, hanno tro-vato spazio i locali della “Djamabar Syn”,una delle quattro cooperative del villaggiodove lavorano in tutto oltre duecento donne.Spazi puliti, igiene, acqua corrente: rispettoal marasma nauseabondo del porto, qui pareun padiglione della Nokia. Lo stipendiomensile si aggira intorno ai 20-30.000 fran-chi CFA, 35-40 euro. “Troppo poco anche pernoi”, spiega una delle coordinatrici, SenebaNdiaye, 48 anni e cinque figli. “La vedequella casa? È stata costruita coi soldi deinostri parenti che lavorano in Spagna daalcuni anni”. Suo figlio Seydou vorrebbepartire per raggiungere un cugino a Siviglia.“Dico di no, è diventato troppo pericoloso”,ammette Seneba, che intanto spalanca leporte della sua abitazione semplice ma acco-gliente. Subito per l’ospite si prepara tie-boudienne, pesce cotto con verdure. Delizia

per il turista, ripetitiva, ma proteica pietanzaunica per gli abitanti di casa. Il vero piattoforte è comunque la “teranga”, la proverbia-le “ospitalità” senegalese che supera percalore e spontaneità anche cortesie già col-laudate in altre lande d’Africa.

Clandestini di serie BIntanto chi non fugge è costretto ad arra-

battarsi. Pochi chilometri a nord di GuetN’Dar scorre il confine con la Mauritania,altra terra di partenza per le piroghe ma, lecui spiagge sono ormai presidiate dalla guar-dia costiera locale e spagnola. Dal villaggio diGouum Bahx partono anche fuoristradaimbottiti di persone e mercanzie diretti alpiccolo abitato di Ndiago, poche casette pre-fabbricate di metallo già in Mauritania. Inmezzo, tra i due Paesi, sette chilometri didune e mare con una frontiera non tracciata.Solo senegalesi e mauritani possono attra-versarla, ma non gli stranieri. Consapevoli diessere clandestini per un’ora, c’infiliamocomunque su una “4x4” che slitta tra la sab-bia algida di un mezzogiorno infuocato. Unamanciata di minuti ed è Mauritania. Unpoliziotto blocca subito il “bianco” intrufola-to tra i locali e gli intima di ripartire con laprima jeep disponibile dopo un breve inter-rogatorio con piglio minaccioso. Decisionenon inattesa, che permette comunque disbirciare da vicino il via-vai di piccoli trafficiin questa quasi-terra-di-nessuno. Sul tettodel fuoristrada si accumulano pacchi, bidoni,bottiglie di plastica, taniche. Contrabbandopuro e semplice. Come per qualsiasi taxi col-lettivo africano, l’unico criterio per la par-tenza del viaggio di ritorno verso il Senegalè il “tutto-esaurito”. Mezz’ora dopo si rag-giunge quota dodici passeggeri. Si riparte.L’auto slitta sulla sabbia come in uno slalomdel Sestriere. Dal finestrino s’intravvedonocolline ondulate e colonie di granchi nell’ac-qua stagnante del fiume. All’improvvisodalle uniche palme di tutto il tragitto sbucauna pattuglia della polizia senegalese.Dall’alto del fuoristrada due ragazzi scarica-no all’istante ogni tipo di merce, come sefosse un copione ben conosciuto. Le tanicherotolano tra la sabbia. Attimi di panico abordo, l’autista pigia e non si ferma. Ladonna di fronte a noi apre una confezione didodici spray “Ddt” e li distribuisce con gestirapidi. Ne infila un paio sotto la sottana,tutti prendono e nascondono una bottiglietta

REPORTAGE

_Uno dei principali punti di partenza dei migranti irrego-

lari è Saint Louis (sopra a sinistra), paese dedito alla pe-

sca e situato a circa 260 km a nord della più caotica Da-

kar (sopra)

Emili

ano

Bos

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per spirito di solidarietà. Anche noi la infilia-mo nello zaino. La pattuglia si ferma nellastriscia di nulla tra i due confini, all’arrivo interritorio senegalese i passeggeri si dilegua-no in un batter d’occhio. Ognuno restituiràpoi il “Ddt” alla donna, l’unica che ha salva-to il suo piccolo malloppo. Il resto, scivolatotra la sabbia dal tetto della jeep, è statosequestrato dalla polizia. “Accade spesso, lapolizia cerca di spaventare la gente”, com-menta sornione l’autista. “Ma noi dobbiamopur sopravvivere”.La stessa frase – letteralmente – che ti sentirivolgere la mattina dopo all’alba a bordodella piroga “Ahmadou Bamba”. “Dobbiamosopravvivere”, sbotta Doudou Gueye, 22anni, un terzo della sua vita già trascorsa agettare e reti. Salpiamo da Guet N’dar alleprime luci. Onde alte a ridosso della riva, poiil respiro lento dell’oceano. Sull’autostradainvisibile dell’Atlantico il timoniere vira ababordo come per una sosta all’autogrill. Hariconosciuto la porzione di mare dove ierimattina – stessa ora, stesse riflessi diafani inun verde increspato – i marinai avevano get-tato le reti. Bottino magro anche oggi: qual-che sarago, rombi, occhiate, salpe. “Capisciperché ce ne vogliamo andare? Qui perdiamotempo. Chi è in Spagna lavora davvero.Anch’io voglio partire come clandestino”,insiste Doudou. Fosse per lui, farebbe rottadirettamente verso le Canarie con questabagnarola, che invece punta di nuovo versoGuet N’Dar per il rientro a terra. A mezzo-giorno sono allineate centinaia di piroghesulla spiaggia, in un mosaico dalle mille tona-lità che conferisce alle barche quasi la solenni-tà di sculture colorate. L’immigrazione si ali-menta anche di paradossi: dall’Europa lerimesse dei senegalesi all’estero finanziano lepartenze di nuovi aspiranti immigrati. A pocofinora sono servite le misure dell’UnioneEuropea per fermare i boat people africanicon i dispositivi di sorveglianza delle frontieremarittime. Il bilancio del ministerodell’Interno del Senegal degli ultimi novemesi è di 2.506 fermi, sequestro di 32 piroghee di 30.000 litri di carburante. Nella primametà del 2007 la Spagna ha già rispedito acasa – secondo fonti ufficiali di Madrid –8.142 migranti irregolari. “Ai miei studentidico che Italia ed Europa non sono l’Eldorado.Per convincerli porto a lezione anche gliimmigrati”, scuote la testa il professorIbrahim Diawara, docente di Italianistica

all’Università di Dakar. “C’è qualcuno che facredere loro nella partenza come unica solu-zione. Ma tocca ai nostri giovani organizzarsiqui, anche con creatività”. Il “folle volo” – insenso opposto – verso l’Europa “non è solouna questione economica ma dipende ancheda una forte volontà di cambiamento”, insisteil sociologo Abdullaye Niang. Malgrado l’altonumero di rimpatri forzati, sostiene, “moltisono recidivi”. Cioè ci riprovano. Nuova col-letta famigliare e nuova roulette russasull’Oceano cercando un’altra vita nel VecchioContinente. I “refoulées” – rispediti inSenegal per via aerea in base alle nuovenorme europee – qui a Saint Louis si sonoaddirittura organizzati in un’associazione.Conta già 430 iscritti il “Réseau du fleuve”, larete di clandestini della regione del FiumeSenegal, che riunisce i rimpatriati di questazona. “Sappiamo che in piroga ci sono rischima non abbiamo altra scelta”, spiega il coor-dinatore Nouckobaye Ndiouf, mandato a casain aereo da Las Palmas nell’ottobre 2005.“Europa vietata”, scrive “Jeune Afrique” –una delle migliori riviste del continente – inun’ampia inchiesta dedicata all’emigrazione.Un’Europa che adotta “metodi radicali” – vi silegge – contrari ai suoi stessi principi, adot-tando misure come espulsioni forzate, mano-vre militari nel Mediterraneo e nell’Atlantico,campi di rimpatrio nel Maghreb. Una vera epropria “guerra” che finora – secondo la rivi-sta – ha portato sì all’abbassamento delnumero di richiedenti asilo ma anche all’au-mento delle vittime. A Saint Louis esiste per-sino un’associazione che cerca di sensibilizza-re i giovani sui rischi della traversata in piro-ga verso l’Europa, coinvolgendo i leadermusulmani della città (il 90% dei senegalesi èdi religione islamica), associazioni locali, par-rocchia cattolica e istituzioni. “Non possiamofermare gli immigrati”, spiega padre FernandSambou, “ma almeno spiegare loro come siusa il giubbotto di salvataggio”. Samba non èin grado di utilizzarlo ma assicura di sapernuotare. Ha già pagato un passeur di SaintLouis per un passaggio in piroga alle Canarie.“Aspetto solo una telefona per sapere quandosalperemo di notte”, confida a east. E garanti-sce di spedire una mail al suo arrivo in terraspagnola per confermare il buon esito dellatraversata. Non hai paura di morire? “Non hoalternative”. Insciallah, aggiunge, che Dio cela mandi buona. Ma la mail – finora – non èancora arrivata.

BIGLIETTO DI SOLA ANDATA PER L’ELDORADO