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144 S ull’India arriva un altro Tsunami. È un secondo maremoto, che nasce dal primo e di cui nessuno parla. È l’economia d’assalto che trae vantaggio dal disastro, dagli equilibri sconvolti e dall’azzeramento demo- grafico della costa per stuprare ancora di più, deportare villaggi, cementificare, uccidere la libera pesca per impiantare turismo di massa, allevamenti iper-inquinanti di gamberi e pesci. Per fare altri schiavi, fare i ricchi più ricchi e i poveri più poveri. Per contrastare la legge del più forte, un esercito di operatori s’è messo in moto e svolge una guerra silenziosa e senza quartie- re, nonostante la minaccia di morte da parte degli sfruttatori collusi con la polizia, gente capace di sbattere in galera chiunque, anche un intero villaggio, quando si mette contro. Sono titolari di piantagioni schiaviste, filande in leasing dalle multinazionali, fornaci di mattoni e cave di pietra. Contro questo potere violento si muove gente di prima linea come quella del Cesvi, la Ong italiana che da anni coordina il lavoro delle associazioni indiane – Jeeva Jothi, Don Bosco Imbu Allam, Afti – ed è stata una tra le prime ad affrontare l’emergenza sulla costa più col- pita. Il Cesvi trova, valorizza e usa al massimo l’unica vera risorsa di questo Paese che non ha nemmeno l’anagrafe: il capitale umano. In questo mondo che brulica, i volontari indiani si muovono nel modo giusto. Non con pietà e sussidi, ma svegliando le comunità con la scuola e i microcrediti, con prestiti d’onore minimi. Basta poco, anche una mucca; e qui una mucca costa venti dollari. Vendendo il suo latte si può guadagnare il necessario ad acquistarne una seconda, per un’altra famiglia del villaggio. E così via all’infinito. Ho attraversato con questi giovani l’India più segreta, i luoghi più sperduti della costa. Ho visto i loro centri di accoglienza, le loro clini- che mobili che vanno oltre il pronto soccorso e diventano centro d’ascolto per chi non ha diritti. Basta poco: anche un corso di cucito per ragazzine. Le vedo arrivare a centinaia con i loro occhi sorridenti, sognanti e impau- riti. Fanno cose straordinarie gli operatori indiani, collaboratori del Cesvi. Giovani lau- reati, capaci di operare con calma nelle situa- zione più difficili, intrisi come sono dell’inse- gnamento non violento di Gandhi. Come Rose Mercy Felcita, grandi occhi neri, voce delicata ma decisa. Non c’è aggressività in loro, ma una determinazione silenziosa e invincibile. L’India cammina. Non aspetta. Lontano dalle città la ricostruzione procede veloce. A Il Paese cammina. Non aspetta. Lontano dalle città la ricostruzione procede veloce. Ma, dopo lo Tsunami, arriva l’onda del business a tutti i costi. A sud di Pondichéry, tra i villaggi più colpiti, non si sente odore di morte: la ricostruzione nei villaggi sprigiona un’energia da far invidia alla vecchia Europa. Ciascuno lavora per tutti, non perché si deve ma perché è logico così L’India, dove tutto è troppo grande e arcano di Monika Bulaj REPORTAGE

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S ull’India arriva un altro Tsunami. È unsecondo maremoto, che nasce dal primoe di cui nessuno parla. È l’economia

d’assalto che trae vantaggio dal disastro, dagliequilibri sconvolti e dall’azzeramento demo-grafico della costa per stuprare ancora di più,deportare villaggi, cementificare, uccidere lalibera pesca per impiantare turismo di massa,allevamenti iper-inquinanti di gamberi epesci. Per fare altri schiavi, fare i ricchi piùricchi e i poveri più poveri.Per contrastare la legge del più forte, unesercito di operatori s’è messo in moto esvolge una guerra silenziosa e senza quartie-re, nonostante la minaccia di morte da partedegli sfruttatori collusi con la polizia, gentecapace di sbattere in galera chiunque, ancheun intero villaggio, quando si mette contro.Sono titolari di piantagioni schiaviste, filandein leasing dalle multinazionali, fornaci dimattoni e cave di pietra.Contro questo potere violento si muove gentedi prima linea come quella del Cesvi, la Ongitaliana che da anni coordina il lavoro delleassociazioni indiane – Jeeva Jothi, Don BoscoImbu Allam, Afti – ed è stata una tra le primead affrontare l’emergenza sulla costa più col-pita. Il Cesvi trova, valorizza e usa al massimol’unica vera risorsa di questo Paese che non

ha nemmeno l’anagrafe: il capitale umano. Inquesto mondo che brulica, i volontari indianisi muovono nel modo giusto. Non con pietà esussidi, ma svegliando le comunità con lascuola e i microcrediti, con prestiti d’onoreminimi. Basta poco, anche una mucca; e quiuna mucca costa venti dollari. Vendendo ilsuo latte si può guadagnare il necessario adacquistarne una seconda, per un’altra famigliadel villaggio. E così via all’infinito.Ho attraversato con questi giovani l’India piùsegreta, i luoghi più sperduti della costa. Hovisto i loro centri di accoglienza, le loro clini-che mobili che vanno oltre il pronto soccorsoe diventano centro d’ascolto per chi non hadiritti. Basta poco: anche un corso di cucitoper ragazzine. Le vedo arrivare a centinaiacon i loro occhi sorridenti, sognanti e impau-riti. Fanno cose straordinarie gli operatoriindiani, collaboratori del Cesvi. Giovani lau-reati, capaci di operare con calma nelle situa-zione più difficili, intrisi come sono dell’inse-gnamento non violento di Gandhi. ComeRose Mercy Felcita, grandi occhi neri, vocedelicata ma decisa. Non c’è aggressività inloro, ma una determinazione silenziosa einvincibile.L’India cammina. Non aspetta. Lontano dallecittà la ricostruzione procede veloce. A

Il Paese cammina. Non aspetta. Lontano dalle città la ricostruzione

procede veloce. Ma, dopo lo Tsunami, arriva l’onda del business a tutti

i costi. A sud di Pondichéry, tra i villaggi più colpiti, non si sente odore

di morte: la ricostruzione nei villaggi sprigiona un’energia da far invidia

alla vecchia Europa. Ciascuno lavora per tutti, non perché si deve ma

perché è logico così

L’India, dove tutto è troppo grande e arcano

di Monika BulajREPORTAGE

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Tharangambadi, sulla costa più colpita, quat-tro anziani pescatori di bellezza statuaria,seminudi, assieme ad altri giovani, erigonouna casa con gesti collaudati, incastrano cannecon se fosse un gioco, lavorando di cunei,spago e stuoia di palmizio. Vanno così in fret-ta che non faccio in tempo a cambiar pellicolache la casa ha già cambiato forma. Li guardo,loro ridono felici del mio stupore. In mezz’orala capanna è fatta. Solida, ventilata, collauda-ta. I vecchi hanno memoria. Sanno che nonha senso fare case di cemento nella terraequatoriale dei tifoni e dei maremoti. Ilcemento affonda nella sabbia, il cemento s’èvisto che fine ha fatto il 26 dicembre. E lebaraccopoli costruite dall’Occidente, con i lorotetti di lamiera, sono un inferno a quarantagradi, con l’aria che non circola e la puzza dicatrame che toglie il fiato.A sud di Pondichéry, tra i villaggi più colpitidallo Tsunami, dovrebbe essere un viaggionella morte, invece è un inno alla vita. Laricostruzione nei villaggi sprigiona un’energiada far invidia alla vecchia Europa. Nel villag-gio di bambù tutto resta elegante, calmo, alle-gro. Donne selezionano le macerie, separando

legno, ferro, oggetti utili. Un uomo pulisce illetto di un fiume intasato dall’onda assassina.Nulla è più lontano da questa gente dell’im-perativo morale occidentale. Ciascuno lavoraper tutti, spontaneamente, e non perché sideve, ma solo perché è logico così, perchésarebbe insensato altrimenti. È come se ildisastro avesse rafforzato, anziché distrugge-re, il senso comunitario di questa gente.In un paesino sul mare i pescatori avrebberogià i soldi per costruire la prima barca ma nonfanno niente. Per evitare gelosie, aspettano ilmomento in cui ci saranno soldi per tutti. Quinessuno esce da solo in mare e, al rientro, inattesa c’è un intero esercito di donne conceste, bilance e reti, con la spartizione bendefinita dei ruoli. In un altro villaggio un paiodi barche sono rimaste intatte, perché i pesca-tori erano al largo e non si sono accorti di

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_Solo un’onda lunga, poi più nulla. Al ritorno non hanno

trovato più il loro villaggio. Così aspettano, bevono, man-

giano frutta e dormicchiano sotto le stuoie. Annegano la

loro tristezza nel silenzio del caldo equatoriale

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nulla. Solo un’onda lunga, lunga, poi piùnulla. Al ritorno non hanno trovato più illoro villaggio. Così aspettano, bevono, man-giano frutta e dormicchiano sotto le stuoie.Annegano la loro tristezza nel silenzio delcaldo equatoriale.Ma altri sorseggiano thè e leggono ad altavoce un giornale commentando le notizie.Intanto bambini preparano per la straniera ilthè caldissmo al latte, con gesti precisi e rapi-dissimi, poi me lo versano ridendo da unmetro d’altezza dritta nella tazza. I loro occhisono pieni di luce e dignità, mi accorgo chequi nessuno piange: non riuscirei a offrireall’Occidente fotografie capaci di far metterela mano al portafoglio in nome della miseri-cordia. Qui la gente ha molta più voglia divivere che in Europa. Lo Tsunami, ti accorgi,è solo uno dei mille disastri di cui è costellatala storia indiana. La gente ci vive con pochidrammi. L’inferno, il nemico vero, lo sannotutti, è altrove.L’inferno è nelle periferie delle città infuocate,identiche a quelle della Turchia, dell’Iran o delMarocco. Le strade trafficatissime con file dinegozietti anonimi, i loculi di cemento, le

gente che ti guarda. I luoghi dei diseredati, deimiserabili e degli intoccabili hanno tutti lastessa faccia. A Thiruvarur, quaranta gradiall’ombra, con una luce calcinata e abbacinan-te, con polvere dappertutto, mi gira la testa,perdo la nozione del luogo, complici alcunedonne musulmane velate che mi portanoimprovvisamente in altre latitudini. Mi pren-de il panico, poi mi dico: sei in India, vicinoall’Equatore, sulla costa del disastro.Ed ecco che, all'improvviso, mi trovo sottouna pioggia di petali, in un profumo di rose eresina. Da lontano arriva un battito di cemba-li, un tintinnio di campanelli. Centinaia dipiedi battono il ritmo sulla sabbia coperta disterco e plastica. Solo uomini, ragazzi scalzi evecchi senza età, a torso nudo, con risate,balzi, salti si fanno largo tra mucche e caprerandagie, motociclette e risciò, sotto i gigante-schi occhi truccati delle dive delle soap operaindiane sui cartelloni pubblicitari. Dalla pol-vere emerge un carro altissimo, reale. Nelleghirlande di fiori, sotto un baldacchinoaddobbato di fiori, vedo per un attimo il visodolce di una bambina morta. Bellissima, indif-ferente. Sembra il funerale di una regina, e

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invece è solo un funerale di diseredati. Poi ilcarro viene inghiottito dalla danza dei piediscalzi, risate, urla di ambulanti, clacson, polve-re.“Il quaranta per cento delle vittime delloTsunami sono bambini, figli di pescatori. Almattino, erano là, sulla spiaggia, a far toilette,a raccogliere le conchiglie”, dice LeonardoNiccolai, responsabile unico del Cesvi pertutto il sub continente indiano. Una laurea inScienze internazionali e diplomatiche, studi inlingue orientali e sulla “coabitazione” frainduismo, cristianesimo, islam ed ebraismo. “Igenitori hanno vagato”, spiega Mercy, la suaassistente. Che racconta: “È sparita una inte-ra generazione. I genitori hanno vagato persettimane sulla sabbia, sussurrando i nomi deiloro ragazzi”. Ma questo non ha fermatol'ondata di richieste d'adozione dall'Italia, letroupe della Tv italiana in ricerca d’orfanelliinesistenti, una ricerca decisa a tavolino ecieca di fronte alla realtà. “Qui”, ti spiegano“esiste un concetto di famiglia completamen-

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A Thiruvarur già all’alba

senti caldo umido,

profumo forte di gelsomini.

Ovunque ronzano

ventilatori grandi e lenti

che rievocano racconti di

Conrad ed epoche

coloniali.

Donne mi mettono fiori

nei capelli, la mia pelle

ha già cambiato odore,

ha l’odore dell’India

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pescatori dorme nell’ombra delle barche.Tirumarugal è la Lourdes dei Tamil, con i suoitempli bianchi come meringhe kitsch. Qui ipellegrini arrivano sulle ginocchia, strisciandonella polvere. E poi, dalla chiesa spagnoleg-giante, una strada stretta porta verso il mare,costeggiata dai barbieri che fanno un tagliorituale ai bambini, prima del bagno nel maresacro, nel grande Gange. Su questo stradone,il 26 dicembre, l’onda ha trascinato via due-milacinquecento musulmani, cattolici e indù.Al tramonto la spiaggia si riempie di pellegri-ni. Bambini con le teste rasate cosparse dicenere ocra sgranocchiano ceci abbrustolite,donne musulmane in chador neri e donneindù in sari scarlatti, guardano insieme l’oriz-zonte come si guarda un miraggio.A Thiruvarur già all’alba senti caldo umidoequatoriale, profumo forte di gelsomini,ovunque ronzano ventilatori grandi e lentiche rievocano racconti di Conrad ed epochecoloniali. Donne mi mettono fiori nei capelli,la mia pelle ha già cambiato odore, ha l’odore

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te diverso. Chi ha perso genitori, trova subitoi familiari anche più lontani”.Nagappattinam è un enorme cimitero di bar-che. Per capire cosa era lo Tsunami, basta tuf-farsi in questo labirinto di pescherecci ridottia scheletri, balene di legno arenate, stese suun fianco in un porto deserto. Sono centinaia,non ne vedo la fine, e non una di esse è inte-ra. Ma anche in questa flotta di relitti formi-cola l’umanità. Chi prova a ricuperare pezzi dilegno con martelletti, usando seghe, persino acalci. Un uomo seminudo batte come unmatto un grande martello per strappare dallacabina un grande pezzo di legno forato.Bambine buttano nel fuoco lamiere, si muo-vono nel fumo nero per pulire il ferro da pla-stica e catrame. Ma la maggior parte dei

_Quasi la metà delle vittime dello Tsunami è fatta di

bambini, figli di pescatori. Al mattino erano là sulla

spiaggia... È sparita un’intera generazione. I genitori han-

no vagato sulla sabbia sussurrando i loro nomi

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dell’India. Fuori dalla finestra la città si sve-glia, ma forse non ha mai dormito; è un con-certo delicato di campanelli e trombette, unmare induista dove senti miagolare solitariosolo qualche muezzin.Nella penombra, dentro a un tempio cherisuona di gong e tamburi, si agitano milledivinità di pietra e gesso, proboscidi, teste,membra, pance, seni, sessi. Che allegria nelpoliteismo! Un’allegria barocca e ridondante,eppur priva di pompa, che segna tutta ladistanza dell’India dall’Occidente cristiano,dall’Islam e dal mondo ebraico, le tre religionidel dio unico che dall’undici settembre hannoperso la pace. Che distanza, anche, dal prag-matismo cinese, sempre più ateo e materiali-sta. Qui regna l’invisibile, nascosto dietromille forme e mille nomi. Già da lontano,dalle torri dei templi, la sensualità degli deiincatena lo sguardo, le forme umane diventa-no metafore dei grembi vegetali nella danza,nel volo, si specchiano nei laghi pieni di fioridi loto.Le donne mi dipingono la fronte di polverebianca, mi portano verso una cripta illumina-ta da luce al neon, dove pende una liana verdein mezzo ad altre divinità senza nome.Andiamo in cunicoli stretti verso il buio, ilsancta sanctorum, una discesa nel grembo.Qualcuno accende un cero, una mano apreuna tenda, scintillano lucernette, un torso

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nudo e unto luccica e, accanto a vesti colorocra, l’incenso avvolge una statuetta neragrondante d'olio. La stessa mano scura chiudela tendina. Restano grandi occhi neri nel buio,melodia di armonium, cembali, campanelli. Ilricordo di qualcosa già sentito: forse il tintin-nio, l’incenso, le litanie, i petali del CorpusDomini nel caldo secco d’estate a Varsavia.In India tutto è troppo grande, abbondante,arcano. Pensi che non la capirai mai. Ma lacalma che ti circonda ti aiuta a guardare, adascoltare. La gente ti osserva, sorride, e poidondola la testa come imbambolata. Come ilcameriere di una locanda dove chiedo riso everdure. “Scegli tu”, gli dico,“quello che mipiacerà.” Anche lui oscilla il capo, e quell’o-scillazione è piena di significati: dolcezza, con-senso, stupore, ammirazione, voglia di essereutile. Una raffica di segnali che qui, solo qui,assumono un unico, silenzioso, elementaresignificato. “Sì.”

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