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Terra di laghi, fiumi e pescatori, tutto ti aspetteresti di trovare tranne che moschee. Invece i tartari, discendenti dei guerrieri di Gengis Khan, abitano qui. E qui, una volta l’anno, in una coreografia solenne, prega- no nei loro cimiteri. Alcuni, come Jakub, un musulmano dal nome giu- daico-cristiano, lo sanno fare meglio degli altri e per questo assumono un funzione particolare nella loro comunità Bielorussia, dove gli slavi leggono il Corano testo e foto di Monika Bulaj REPORTAGE 1 MoniKa Bulaj

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Terra di laghi, fiumi e pescatori, tutto ti aspetteresti di trovare tranne

che moschee. Invece i tartari, discendenti dei guerrieri di Gengis Khan,

abitano qui. E qui, una volta l’anno, in una coreografia solenne, prega-

no nei loro cimiteri. Alcuni, come Jakub, un musulmano dal nome giu-

daico-cristiano, lo sanno fare meglio degli altri e per questo assumono

un funzione particolare nella loro comunità

Bielorussia, dove gli slavileggono il Corano

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N otte fonda. Guido attenta a ogni fru-scio, a ogni ombra che muove la fore-sta. Quando il sonno sta per sopraffar-

mi, cerco d’istinto un fiume per dormirciaccanto, per uscire dal fitto del bosco. LaBielorussia è piena di fiumi e torrenti. Lospazio delle radure è intriso di una deboleluminescenza d’argento e il tocco vellutatodell’acqua scura accarezza e avvolge.Ricamati di grandi, immobili gigli bianchi,qui i fiumi rimangono neri anche all’alba.

Non una luce, non un villaggio. InBielorussia trovare un letto è un’impresa. Aparte le grandi città, non ci sono hotel, ostel-li e ristoranti. Dormo in macchina, un sonnobreve, profondo e pieno di calma; poi sorgeun’alba blu, nuvolosa, liquida, quasi lunare.Con mio figlio Stas, quindici anni, saltiamonel fiume vestiti; l’acqua è pura, lenta eregolare come una linfa fatata. Poi arrivanoragazzi dai villaggi vicini e anche loro si but-

tano di slancio nel fiume, a piedi e a cavallo,vestiti come noi, con le scarpe e senza i calzi-ni, i pantaloni strappati e le camicie madidedi sudore. Spingono avanti mandrie di vac-che e strigliano i cavalli con fastelli di pianteacquatiche divelte dal letto argilloso delfiume.Esce il sole, i prati fumano di vapore, sten-diamo i pantaloni bagnati ad asciugare.Sull’erba apriamo una tovaglia, ci mettiamosopra mele profumate, un pezzo di formag-gio secco e pane raffermo. Due bambini scal-zi emergono dalla scarpata portando pescidentro una retina appesa a un bastone.Sembra che abbiano acchiappato il sole: lescaglie mandano riverberi folgoranti.

“Arrivano gli angeli e chiedono agli uominichi sono e cosa hanno fatto, come sono vis-suti. Per questo bisogna dare ai morti undocumento per l’altro mondo, nella manodestra un foglio e nella mano sinistra un

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altro”. Jakub Aleksandroviã Adamoviã siinginocchia. Spinge nella terra smossa unfoglio scritto in caratteri arabi, beve un sorsodi vodka da una bottiglia e versa il resto suuna tomba. Morde un pasticcino, si sporge inavanti bisbigliando, e la sua barba bianca sidistende sull’erba umida come un tappeto.Jakub piange sulla tomba e tutti si mettono asinghiozzare: le vecchie infagottate negliscialli, le bambine in jeans e fazzoletto acolori, la giovane che abbraccia la lapideornata da una grande mezzaluna ricurva e dacaratteri arabi, il mullah Mustafà Radkjevicdalla faccia rubiconda come una mela matu-ra, tagliata da sottili occhi a mandorla. Tuttipiangono forte, senza misura, come un soluomo, come se avessero aspettato solo quelsegnale. Le lacrime si mescolano alle bricioledel pasto. Anche a noi vengono le lacrimeagli occhi.Poi il gruppo si trasferisce alla tomba succes-siva e si ricomincia da capo.In Bielorussia – terra di laghi, fiumi, pesca-tori – tutto ti aspetteresti tranne chemoschee. E invece i tartari, i discendenti deiguerrieri di Gengis Khan, abitano qui. E qui,una volta all’anno – come oggi – in unacoreografia solenne, pregano nei loro cimite-ri. Alcuni lo sanno fare meglio degli altri, eper questo – come Jakub, un musulmano dalnome giudaico-cristiano – assumono unafunzione centrale nella comunità. Un ruoloextra-confessionale, medianico, che talvoltali pone al di sopra degli stessi mullah.I fogli che Jakub seppellisce nella terra sonoil lasciapassare per l’Aldilà. Contengono cita-zioni del Corano. Al vecchio non sembraimportare che così venga infranto uno deipiù implacabili tabù dell’Islam, quello chevieta – pena la morte – di seppellire laScrittura.Quel rituale l’ha preso in prestito – ci spie-ga – dai suoi ex-vicini di casa, gli ebrei, peri quali, come è noto, ogni lettera sacra è unnome di Dio, quindi non puo essere calpe-stata e ha bisogno del suo funerale. L’hapreso in prestito con la stessa naturalezzadei buoni vicini quando si prestano il sale.I tartari sono un campione da laboratoriodi come si applica la grande lezione dellaconvivialità. E che si tratti di convivialitàtra islam, ebraismo, e critianesimo, nonimporta: in fondo, quando chiedo chi sono,rispondono con semplicità: “Siamo, tutejsi,gente di qui”. “La buona preghiera è buona

per tutti”, mi dice Jakub, che ha adottatoanche, sotto forma di scongiuro contro lemalattie di uomini e bestie, la preghieracattolica – in lingua polacca – alla Madonnae agli angeli.Nella moschea vedo gli ultimi eredi europeidell’Orda d’Oro leggere il Corano in linguaslava, fumi d’incenso disperso con l’abbon-danza dei preti ortodossi, sento il Salah, lapreghiera del muezzin, ma cantata in coroda una dozzina di uomini baffuti con beret-ti con la visiera, che seguono la polifoniabizantina.

BIELORUSSIA, DOVE GLI SLAVI LEGGONO IL CORANO

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E non basta.“Noi tartari”, ci spiega il mullah Radkjevicche ritroviamo nella sua casetta di legnopiena di libri e vecchi documenti, “accendia-mo candele per i morti e deponiamo coronedi fiori, come i cristiani. I peccati del mortopossono essere alleggeriti dai vivi, con lalogica delle indulgenze cattoliche. Preghiamosolo una volta alla settimana, di venerdì, maper bene, e più di qualsiasi altro musulmano.Dividiamo il cibo con i defunti, li piangiamoe parliamo con loro, perché così fanno i con-tadini bielorussi ortodossi, russi Vecchi

Credenti e i cattolici polacchi”.“Abbiamo sempre difeso con ardore questeterre pur conservando la nostra religione”, ciracconta. “Assieme alla coalizione slava, nel1410 combattemmo nella battaglia diGrunwald contro i Cavalieri Teutonici.Abbiamo ottenuto privilegi reali, terreni,titoli nobiliari e mogli bielorusse. Abbiamopartecipato a tutte le insurrezioni per l’indi-pendenza della Polonia. Durante la GrandeGuerra avevamo ventidue generali nell’eser-cito zarista. Nella campagna polacca del ’39contro i nazisti avevamo formato uno spe-

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ciale squadrone di cavalleria”.“I nazisti ci chiamavano turchi”, dice il mul-lah, “e avevano simpatia per noi. Venivano aguardarci nella moschea. Abbiamo resistitoanche allo stalinismo. Pagando tasse proibiti-ve al regime, siamo riusciti a tenere lamoschea sempre aperta”.

In fondo a un filare di pioppi vedo una volpeaccovacciata sotto un falcetto di luna. Scappadanzando a zig-zag, mentre il corno celestepende ancora a lungo, saldato alla stradacome un cartello stradale. Una luna familiare,messa come si deve, dritta come una parente-si in un compito di matematica. È la luna delNord. Niente a che fare con la storta lunamediterranea, o quella dei Tropici, che naviganel cielo come una barca di papiro.

Ripartiamo. Ed è proprio allora che per unattimo ci si affianca sferragliando il brucoluminoso del treno per Vilnius, così vicinoche sento l’odore noto delle tappezzerie, ilcigolio dei giunti, le chiacchiere dei passeg-geri, lo sbattere delle tendine.

Tramonto arancione, formazioni di oche sel-vatiche in decollo dai laghi. Le antiche stradedella Polesia, le gallerie d’ombra dei viali ditigli, la saggezza antica degli abitanti.Vorremmo perderci tra i mirtilli.Nel suo lungo viaggio ferroviario dopoAuschwitz, Primo Levi qui si commuove:“Quando lasciammo quella terra sterminata,[…] quegli orizzonti intatti e primordiali,quella gente vigorosa e amante della vita, cistavano nel cuore”. Sulla carta che ci haregalato la comunità ebraica a Minsk è scrit-to a grandi lettere che la Bielorussia è ilposto più piacevole e sicuro in Europa e che isuoi cittadini sono più gentili con gli stranie-ri di tutti gli altri popoli europei. Il nostrolusso è la mancanza di fretta. Abbiamo man-ciate, grappoli, interi mazzi di tempo. Lopotremmo ammucchiare, disperdere per iprati, dissipare. La strada porta dove vuole,scompare l’inutile, nuovi pensieri si forma-no, accumulandosi come sassi portati da unacorrente in un ruscello. Dai finestrini apertientra profumo di erbe. Ogni particolare,albero, vicolo, cavallo, si tramuta in segno.

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Steccati di legno, recinti di legno, case dilegno, tegole di legno ricoperte di muschio.L’unico lusso sono le campanule delle malvee i grappoli di dalie che ricoprono come unvelo da sposa le finestre scure. L’infanziadell’Europa, un paesaggio di cento, duecentoanni fa: prima del tempo in cui gli uominidestinati alla fucilazione avrebbero dovutoscavarsi la fossa sulla riva dei fiumi.I boschi, quando ci si entra, sembranometropoli. Arcipelaghi di carpini legati dalponte sottile di una strada sabbiosa. Viali disalici tarlati, un folto sottobosco di sterpi,bianche colonne di betulle. E la certezza chetra un attimo vedremo l’immobile specchiod’acqua, il calamo aromatico, il ponticellostorto di legno e i salici. I fiumi sembranostar fermi, da quanto qui l’acqua è piatta.

Nella toilette di un ristorante a Pinsk unosciame di ragazze si cambia la gonna. Si sfi-lano i collant, le camicette attillate, buttanovia con un calcio le loro scarpine dai tacchialti. In silenzio, senza un sorriso, smagrite,indifese. Si truccano i grandi occhi con una

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“Ripartiamo. Ed è proprio

allora che per un attimo

ci affianca

sferragliando il bruco

luminoso del treno

per Vilnius, così

vicino che sento l’odore

noto delle tappezzerie, il

cigolio dei giunti,

le chiacchiere dei

passeggeri, lo sbattere

delle tendine”

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matita nera, si ingrandiscono le labbra sottilicon una matita rossa. In sala stanno sedutiin silenzio uomini dai colli taurini e bianchescarpe da ginnastica. Sono compagni dellaloro vita? Bevono birra e fissano ora laporta, ora la finestra.Fuori si infittisce il crepuscolo, sparisce ilcolleggio dei Gesuiti e con essa l’ombra invi-sibile di sant’Andrea Bobola, il martire irato,il più controverso – anche se minore –patrono della Polonia. Sant’Andrea, patronodel conflitto tra cattolici e ortodossi, è ingenere raffigurato con le spade cosacche chegli trafiggono il corpo oppure come un pove-ro viandante, difensore degli antichi confiniorientali.E al primo piano del ristorante oggi c’è ungrande ballo con palloncini, fiori finti, festo-ni. Ci sono i polacchi più anziani di Pinsk,quelli che nel ’45 non sono riusciti ad andar-sene. Poi Stalin prosciugò le paludi e fondò ikolchoz, sparirono le barche piatte dei pesca-tori che portavano pesci e miele, infine arri-vò Cernobyl.Vespri alla polacca. Canti patriottici. Poesiedi Slowacki. Perfette l’intonazione e la pro-nuncia vecchia maniera della “l”, la liquidaanteriore dentale, la stessa che usano imigliori attori dei teatri polacchi. Danzano ilvalzer stretti come adolescenti.

Non è facile trovare Anna Borusewicz, natanel 1888, forse la donna più vecchia delmondo. Bisogna non vedere Minsk – la suacittà – e seguire un’altra geografia, segreta.Ignorare i viali costruiti per le parate militarie gli aeroplani, il monumentalismo prospet-tico e un certo frettoloso sparire di limousi-ne. A Minsk puoi morire di fame prima diriuscire a raggiungere un negozio. La cittàera trent’anni avanti rispetto al mondosovietico circostante. Oggi è un fossile, lariserva indiana del pensiero unico, un luogocosì particolare che l’Unesco l’ha annoveratotra i patrimoni dell’umanità. Lo sguardo siperde all’infinito. E sul collo si sente il caldorespiro del Grande Sceneggiatore. Per fortu-na c’è Valja, una scrittrice che sembra viverein un mondo a parte e vede quello che nonc’è. Al posto dei palazzi staliniani, della fore-sta di casermoni informi e dei campi di cavo-li, vede residenze, parrocchie, palazzi princi-peschi, quartieri ebraici, mahal tartari, sina-goghe, chiese ortodosse e cattoliche.«È il vizio dell’immaginazione», spiega. È

dolce e saggia Valja. Racconta che sua nonnaanalfabeta cantava in quattro lingue: polacco,bielorusso, russo e yiddish.E così, all’improvviso, in quella città cheneppure esiste, ci vengono incontro davveroi paesaggi della sua immaginazione, soprav-vissuti dietro i casermoni staliniani: il murobianco di un palazzo con i portici, l’attoavventato del gotico, case con facciate inlegno, rese brune, quasi violacee dal sole edalla pioggia. E poi campanili che ardonocome ceri, un fanciullo con i peoth che sidondola su un libro in una yeshiva incastra-ta fra i cadenti falansteri di era crusceviana,anatre che marciano nel fango, vecchi onta-ni, selciati, stradine di sabbia.Anna Borusewicz abita in fondo a tutto que-sto. Ha una faccia dolce piena di calore ecomunicativa. Ha uno sguardo vuoto mafiuta fortissimamente la nostra presenza. Halavorato nei kolchoz fino a novantacinqueanni. Cieca, ci parla dell’inferno e del paradi-so con una tale cura per i particolari chesembra descriva i corridoi della sua anima.Non sente, a volte afferra solo una parolache le apre la memoria come una chiave.“Lenin? Lo ricordo benissimo. Ci liberò dallozar. Ricordo anche Stalin. Fece deportare miomarito, dichiarato nemico del popolo. InSiberia, per sempre”.Allora Anna è rimasta sola con i suoi nume-rosi bambini. Non sente quando le chiedoquanti fossero. Nemmeno sua figlia se loricorda.“Ne morirono tanti”.Ha battezzato nipoti e pro nipoti di nascosto,in bagno, con l’acqua di una bacinella, tuttasola. “Dio è morto. Gesù è morto. Sonomorti tutti. Non c’è nessuno. Dall’altraparte, ci sarà solo il respiro di Dio”.La bacio, e quando la lascio la città di Stalinriprende possesso di noi. Nella piazza princi-pale, piena di belle ragazze con tacchi a spil-lo, mi colpisce un uomo esausto e smarrito,che sparge parole come brandelli di tele-gramma. Si chiama Jurij, è in odore di oppo-sizione, e per paura dei servizi segreti dormeogni notte in una casa diversa. Intorno a luic’è gente che sparisce. Dimitrij Zavadzkij,Viktor Gonãar, e molti altri. Desaparecidos.Jurij non fa mai nomi, nemmeno quello diLukashenko. Dice soltanto “Lui”.“Lui è riuscito a mettere in moto una mac-china del tempo. Alla televisione ci sono tre,quattro ore ininterrotte delle sue prediche.

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Ha rianimato il sistema del controllo asso-luto, il cadavere sovietico collaudato perquattro generazioni. I giornali escono conpagine interamente bianche, cancellatedalla censura, poi vengono chiusi. Siamovicini a Varsavia, ma per l’Europa siamosolo un Aldilà. E sì che chiediamo poco:solo stare in pace, senza più guerre, avereun pezzo di pane, un sacco di patate, unpezzo d’orto”.

La sbarra della dogana ucraina nel villaggiodi Nieviel non spaventa nemmeno i passeri.Separa due vuoti identici. È un monumentoall’insensatezza.Siamo gli unici visitatori, ma impieghiamoore a passare. Una trafila esasperante: compi-lare, copiare, timbrare, firmare, incollare,staccare il modulo, timbrare di nuovo, umet-tare il retro del bollo, timbrare, attaccare,copiare, incollare la foto, il permesso, cosìnon si deve, non si può, così va bene, ancoraun timbro punto a capo.Le guardie hanno un aspetto davvero pocoserio. Qualcuno le ha portate in questa cam-pagna sterminata, qualcun altro ha dato lorouna divisa, un berretto con visiera e un’ar-ma, e ora restano impettite, dritte come gira-soli. Scorrono le dita sui bordi dei visti post-sovietici, a lettere d’oro, dal doppio strato dicolla, grandi e rigonfi come gli altipianidell’Anatolia, poi sui timbri sbiaditi delMedio Oriente in caratteri arabi, oramaiilleggibili.Il mio passaporto irrita le guardie per la suatotale mancanza di logica, per gli itinerariinsensati che racchiude, simili al girare intondo dei miei centocinquanta rabbini.Umettano le pagine del passaporto, le accar-tocciano come se fossero fatte di unasostanza aliena e scompaiono nell’ufficioinsieme al documento per tempi infiniti incui trionfa il ronzio delle mosche.Passeremo, ne siamo certi. In fondo questafrontiera inutile ha senso solo perché noi laoltrepassiamo.E difatti ci lasciano andare. Ma prima dellasbarra c’è un ultimo ostacolo: una pozzaenorme come un lago, piena di un liquidopuzzolente per la disinfestazione. Lì biso-gna immergere i piedi, le ruote dei carri edelle automobili, gli zoccoli dei cavalli edelle vacche. Per emendare quali colpe?Delle contadine che vanno in giro a spette-golare? Del bestiame che si perde?

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