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C’è una diaspora di cui nessuno parla, quella degli zingari della ex Ju- goslavia. L’odissea di uomini e donne senza nazione e senza scampo, espulsi da tutti, considerati nemici da tutti per essersi rifiutati di ucci- dere e non aver preso partito per nessuno. Un milione di orfani di uno Stato che non c’è più, senza più patrie di riserva, né dentro né fuori dall’Europa Rom, quando le streghe mungono la luna testo e foto di Monika Bulaj REPORTAGE MoniKa Bulaj

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C’è una diaspora di cui nessuno parla, quella degli zingari della ex Ju-

goslavia. L’odissea di uomini e donne senza nazione e senza scampo,

espulsi da tutti, considerati nemici da tutti per essersi rifiutati di ucci-

dere e non aver preso partito per nessuno. Un milione di orfani di uno

Stato che non c’è più, senza più patrie di riserva, né dentro né fuori

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I l bulldozer avanza, protetto dalla polizia, lafolla lo incita. Si ferma, riparte, mentretutto il paese guarda, sfonda il recinto, si

avvicina alla casa, la colpisce in pieno, la battea colpi ripetuti.La padrona di casa, Jelka Strojan, vedova ematriarca di una famiglia di 34 persone e scap-pata nei boschi. È sotto minaccia da settimane,la polizia l’ha fatta evacuare, costretta anche ariparare in un centro-profughi con tutti i suoi.Lei ha rivendicato inutilmente i suoi diritti. Ilpaese aveva già deciso: “o loro o noi“, e lapolizia ha dato la ragione alla gente. Ora lacasa è crollata. La folla armata di bastoni esul-ta, Jelka – cittadina con le carte in regola –dovrà andarse altrove. Non hanno altra colpa,i 34 senza tetto, che di essere Rom. Succede invillagio della Slovenia, nel dicembre del 2006alla viglia dell’ingresso nell’euro del paese ex-jugoslavo. Non c’è nulla capace di fermarel’onda xenofoba: nemmeno il presidente slo-veno Janez Drnovsek, che arriva sul posto conun piccolo convoglio di aiuti agli sloggiati e 2

casette-container. La folla gli urla “Drnovsekzingaro!”, “Drnovsek clochard!” Anche lapolizia lo respinge, la sua polizia. Può farlo; ilgoverno di destra è contro il suo presidente. Faciò che vuole alla faccia dello stato di diritto.Quindici anni dopo l’indipendenza in Sloveniaricommincia la pulizia etnica.

C’è una diaspora di cui nessuno parla, quelladegli zingari della ex Jugoslavia. L’odissea diuomini e donne senza nazione e senza scam-po; espulsi da tutti, considerati nemici da tuttiper essersi rifiutati di uccidere e non averpreso parte per nessuno. Un milione di orfanidi uno Stato defunto, sparsi ovunque e in fugada ovunque, senza più patrie di riserva, nédentro né fuori i confini dell’Unione Europea.Hanno il torto di non essere serbi, croati, slo-veni, albanesi o musulmani di Bosnia. Tribùdiverse, pezzi di uno stesso specchio infranto.Un’identità forte, aggrappata a radici millena-rie, ma egualmente inter-nazionale, inter-reli-giosa, inter-culturale. Forse, l’unica espressione

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autentica della federazione perduta, del soloPaese dove i Rom avevano potuto trovare –fino agli anni Novanta – dignità, protezione,diritti.

Nell’inventario delle vittime del conflittojugoslavo i Rom sono stati ignorati. I media ela politica li hanno cancellati esattamentecome la pulizia etnica fatta con le armi. Per iprofughi “giusti” c’erano le navi; per i Romc’erano solo i gommoni della mafia montene-grina. Accadde così anche a Norimberga, dovenon ci fu nemmeno una rappresentanza pergli zingari, pur massacrati a centinaia dimigliaia negli stessi lager degli ebrei. In quelcaso, il tribunale che doveva far giustizia ful'inconscio esecutore dello stesso pregiudizionazista che aveva sostenuto lo sterminio.

“Com’era bello quel giorno del 1999 in viaMoravska a Pristina, nel nostro bel quartiererom, quando mio figlio Mehemedt si è sposatocon Ramiza”, racconta il kosovaro SpejtimFetali con lo sguardo limpido, musicista

straordinario che si era ha fatto tutti i Balcaniper cercare i vecchi canti rom. Tutto era comedoveva essere. Le donne con i veli d'argento, lasuocera che bruciava i propri vestiti felice perla verginità di Ramiza, una grande orchestra,la folla dei vicini di via Moravska, serbi e alba-nesi. Ma c’erano soprattutto loro, i padroni dicasa, gli zingari. Come voleva il rito, Ramizaaveva toccato lo stipite della casa nuova con ledita bagnate nell’acqua dolce e Mehemedt,dopo averle dato una sberla, era fuggito.

Il bombardamento iniziò pochi giorni dopo.Sparavano tutti come indemoniati, albanesi eserbi; e gli zingari vennero presi in mezzo. Lecase di Spejtim finirono in polvere. Duròottanta giorni, due volte il diluvio universale,con i bombardamenti Nato a fasce orarie –dalle 9 alle 11 – per permettere ai jet di lineadi solcare gli spazi aerei vicini. “Dovevi capireall’istante se quello che avevi davanti col mitraera un serbo o un albanese, e inventarti ilnome giusto di conseguenza”, raccontaSpejtim. “Se indovinavi, salvavi la vita.” La

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sua famiglia aveva nome albanese, conosceval’albanese, frequentava scuole albanesi. Manon bastava: l’esercito (albanese) di liberazio-ne del Kosovo, l’Uck, aveva pronte le mappecon i nomi dei Rom da espellere, casa per casa.

Oggi i Fetahi sono in Italia, a Bergamo. Sonomusulmani, ma ogni maggio festeggianoEderlezi, il giorno di San Giorgio uccisore deldrago, l’eroe cristiano che vince il Male, ilfreddo, l’inverno. Spejtim sacrifica un agnelloal posto di sua figlia Ana, esattamente comefece Abramo con Isacco. Oggi racconta come lasua famiglia di Pristina e gli amici di KosovskaMitrovica sono usciti dall’inferno. Prima dibuttare le bombe sulla casa, i miliziani diederodieci minuti di tempo per andarsene, e loro,pagando cento marchi a testa (cinquanta perbambini), trovarono un passaggio sul carro diletame di un serbo che fuggiva con le suebestie verso Belgrado. Altri pagarono millemarchi per un gommone, ma qualcuno sparòanche sui gommoni, come accadde anche suiprofughi nascosti nei boschi.

“Ho passato sette canali e tanti fiumi”, rac-conta suo fratello, “nel buio ho perso per unattimo un bambino di due anni e mezzo.“Mangiavamo i radici, ho pagato tre milioni emezzo per arrivare in Italia.” Nei campi pro-fughi era meglio dichiararsi albanesi.Cancellando la loro identità, sono serviti solo afar numero per il censimento e per la rivendi-cazione di un Kosovo indipendente dal qualeora sono esclusi.” Ma anche in Italia erameglio non svelarsi. Si rischiava di perderecasa e occupazione. Sui pacchi-dono all'opera-zione Arcobaleno, destinati a Tirana, il mini-stero aveva aggiunto con evidenza la scritta“per gli albanesi, non per gli zingari”.

Serbia del Nord, Macedonia, Kosovo. DaVukovar – la prima città europea distruttadopo la Seconda guerra mondiale – fino aiconfini della Grecia, andiamo a cercare gli ulti-mi uomini della vecchia Jugoslavia, il rifugiodi popoli che non rispettano i confini.Cominciamo da Kumane, a dicembre, in unarete di strade ortogonali romane abitato da

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serbi, ungheresi e Rom della Vojvodina, unmondo danubiano di canali e fiumi, piattocome un oceano, con gazze ladre e falchi dallepiume gonfie sui pioppi dai rami vestiti dighiaccio. Qui i Rom hanno avuto più fortuna,la terra è fertile e loro dimenticati. LaVojvodina, con l’Istria e la Macedonia, è unadelle terre della ex Jugoslavia dove la tolleran-za è rimasta di casa.

“I Rom sentono la guerra prima degli altri”,mi dice il vecchio Dede Dura, il vecchio capodella famiglia Radu. Sorridente, con la sigaret-ta fissa nell’angolo della bocca, gentile. “Laguerra è come una nube sospesa nell'aria e noisiamo l’unico popolo che non ha mai fattoguerra a nessuno.” La guerra significa caos, ildisordinato vagare delle anime dei morti; e iRom hanno paura dei morti. Tredici donnesono state date in sposa a Dede Dura. Gli zin-gari si sposano da piccoli e la prima volta fuquando lui aveva undici anni. Sola la tredicesi-ma moglie ce l’ha fatta a restare con lui: Cuca,donna dolce dalle mani grandi come badili. Èlei che mi fa accomodare nella casa dalle paretiimmacolate a disegni fleoreali, dove dormocome una regina sotto i pizzi e farfalle dicarta, protetta, lavata e nutrita. Qui imparo leprime parole serbe. Mjesec, il mese che è laluna. Dunav, il fiume che è tutto. Maglaj,nebbia. Pljeskavica, polpetta di carne. Luka,cipolla. Pivo, birra.

Cuca mi spiega che ogni primavera la casa,come la tenda nomade, si rifà e si pulisce dacca-po. Al mattino, gratta via il ghiaccio dalle fine-stre, spiega che la casa “deve essere trasparente,tutti devono sapere degli altri e nulla va cam-biato”. Sulle pareti le fotografie, solo di lorodue e dei loro numerosi figli, quasi degli spec-chi per marito e moglie nelle lunghe notti d'in-verno. In due, leggono il futuro nei fagioli bol-liti. Una casa con tante farfalle di carta, duecani, due cavalli, e due vecchi che mangianodalla stessa scodella. “È così buono mio mari-to”, mi dice Cuca. “Fa tutto quello che voglio.Solo che è così piccolo e fragile.” Sulla staccio-nata un paio di tortore. E due nipotine – chesembrano nonna Cuca in miniatura – corronosui campi spaccando il ghiaccio con i tacchi alti.

Ancora Vojvodina, ciuffi d’erba agitati dalvento nelle pozzanghere di ghiaccio, macchie dicanne e arbusti radi, paglia che brilla nei solchigelati, odore di carbone bruciato. Fertile paese,

serbatoio di popoli dimenticati. A Kovacica,trovo l’antica comunità slovacca, con le donneche dipingono un mondo ideale fatto di papere,grano maturo e arcobaleni. Le incontro in unachiesa protestante, chiuse nel bozzolo del velonero, solide, burrose, la pelle bianca come latte.Katarina Karlecikova tira fuori immensi quadridai colori sgargianti, si ricorda ancora quandolegavano i covoni alla luna eclissata perché lespighe si chinavano e non ferivano le dita.

Kikinda, sul confine ungherese. Jozsef Botka, ilparocco cattolico che protegge anche i Romortodossi, viaggia con la mente tra numeri,stelle, atomi, arnie e orologi. La sua casa è sti-pata di libri. “Dio è il numero”, dice. “Guardal'atomo del platino, lì dentro trovi il mondoinvisibile. Guarda la perfezione degli alveaeri.Nel disegno divino abita la matematica.” DonBotka fa parte di quello strano mondo chesente la magia dei numeri: sette musulmanenate nel Caucaso, ebrei cabalisti impegnati inspeculazioni sull’apocalisse o in calcoli sull'ar-

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rivo del Messia. Si affaccia alla finestra, leggead alta voce i destini racchiusi nei numeridelle targhe. Si preoccupa, perchè non sa spie-garmi i concetti astratti in lingua serba.

Il prete mi porta a Mali Bedem, la baraccopolidegli zingari, quelli che vengono sempre pian-gere da lui. “Hanno paura che i buldozer rada-no al suolo i loro tetti di lamiera e cartone.Perché loro vivono là, sotto, nella terra.”Spiega: “Non vanno nella loro chiesa ortodos-sa perchè sono troppo poveri, non hanno soldiper i funerali”. Entriamo. In una buca dentrola terra dormono quattro bambini, quasi indi-stinguibili nei mucchi di stracci raccolti nelladiscarica, con i ratti. Milica, una donna nongiovane e non vecchia, ma già morta, contasulle dita delle mani il numero dei suoi figli,quelli vivi e quelli morti. Non si ricorda inomi di tutti. Il suo sguardo è di vetro. La pic-cola Veronica mi corre accanto aggrappata auna bambola senza gli occhi. Vorrei raccontar-le storie di bisce che nascono assieme ai bam-

bini e bevono il loro latte, di tortore e troteche sguazzano nel mare di luce d’argento. Mala luna di dicembre è qui ancora più pallida,pannonica e la notte sembra senza fine.

Notte d’inverno e nebbia sul campo nomadi aNovi Sad, capitale della Vojvodina, forse ilpiù grande spazio di raccolta Rom d’Europa.Piccole luci di lampade ad olio e candele, amigliaia; un’infinità di tetti in lamiera epapere che ci camminano sopra. Pecore,cavalli, oche, carri, trattori, slitte, mercedesscassate. Bambini che si scaldano bruciandoroghi di plastica, copertoni e rifiuti. Donneche lavano i tappeti nell'acqua gelida dellefontane. Alle finestre, negli angoli delle stan-ze buie, quadri di madonne bizantine avvoltein asciugamani ricamati, ma c’è anche PadrePio in mezzo ai fiori, e poi grandi pietre blu,il rimedio turco contro il malocchio.Profughi da tutta la Jugoslavia, tribù antichedai nomi impronuciabili, dalle religioni con-fuse, dalle genealogie false.

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Alcuni dei Rom della Vojvodina si autodefini-rono “egiziani” nel censimento del 2003.Accadde anche sul lago di Ohrid inMacedonia, alla fine degli anni Novanta, dovei nostri aprirono una moschea, autoprocla-mandosi tribù nilotica e invitando l’ambascia-tore egiziano. Da sempre, nei tempi difficili, iRom mascherano la loro provenienza, e quellaegiziana è una delle più nobili e rassicurantida contrabbandare. È appunto dalla parola“egizio” che discende il termine “zingaro”,“tzigano”, “zigeuner”, “Cyganie”. Il segno diun mascheramento misterioso, avvolto diun’aura di poteri occulti ed esotismo, di unmito di facile consumo che funziona a meravi-glia fin dal Medioevo.

È con loro, venuti da chissà dove, che cammi-no sulle strade di fango della Vojvodina, terradi eserciti e imperi, dove Austria e GrandePorta si confrontarono nel modo più duro. Liaccompagno all’alba, quando escono dallebaracche ancora gonfi dal sonno, e al tramon-to, quando tornano sfiniti e affamati dal lavo-ro sulle discariche, sulle strade e nei mercati.“Miracoli e meraviglie”, scrisse un bel giornonel IX secolo Ibn Battuta, “i ricordi si spengo-no, tutto diventa cenere. Rimane, forse, l'an-golo di una casa, la polvere di un vicolo dovegiace lo zoccolo rinsecchito di una capra.”

I ponti di Novi Sad, distrutti dai bombarda-menti della Nato, con la città che si accoccolanell’ansa del Danubio, diventa un mucchio dinebbie pastello ricamate di lumini. NelSettecento arrivarono qui serbi, ungheresi,

rumeni, ruteni, zingari, slovacchi, ebrei, attira-ti dal lavoro offerto dall’immensa fortezzaaustriaca di Petrovaradin, in costruzione su uncolle della riva Sud. Novi Sad, il GiardinoNuovo, nacque per questo: come città di rifor-nimento e appoggio all’ultimo bastione dell’a-quila bicipite di fronte all’impero turco. Unposto che un giorno sarebbe diventato l’AteneSerba per la quantità delle lingue ufficiali.Ventidue, si dice. Intraprendenti immigraticostruirono ponti galleggianti, s'imbarcaronosu chiatte, con galline, casseruole, moglie, orsie cavalli. Vienna aveva fame di soldati, fabbri,cuochi, conciatori di pelli, suonatori di trom-be. E le trombe zingare nell'esercito serboavrebbero avuto un ruolo importante, talvoltadecisivo. Come nel 1912, quando riuscirono aimitare la tromba del nemico e provocarne laritirata.

Il vento freddo del tramonto, lo sguardo chevola lontano, non trova ne appoggi ne ostacoli.Da Petrovaradin, col bel tempo potrei vedere iCarpazi. Il fiume per un attimo riposa piegatocome un serpente. Conto i suoi nomi, Donau,Dunaj, Duna, Dunav, Dunarea, dalle sorgentifino alla fine. Attorno a noi, l'infinita rete dicanali e fiumi, le venature sottili di uno spazioimmenso fatto di brina, alberi solitari e canned'argento. Verso est il fiume da tre nomi,Cisa,Tisza, Tisa, nata vicino ai sorgenti delPrut nella catena di Carnohora in Ucraina. Ilvento gelido spinge via dalla fortezza le reclu-te in gita e le vecchie zingare dalle gonne gon-fie come aerostati che vendono il destino.Chissà, forse era gia stato scritto nel destino

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che in quest’ultima guerra la città-bastionedegli imperi, proprio essa, avrebbe prodotto ilmaggior numero di disertori.

Novi Sad, una Cassiopea di luci che brillano escompaiono nella brume della sera. Più in là,nel campo dei finti discendenti dei faraoni, deisuonatori di guzle e degli incantatori dei ser-penti, mi par di toccare i piccoli giardinettichiusi da carcasse di frigoriferi, archi di fioriper bambine-spose sopra i cancelletti deglisteccati, coccarde di rosmarino con il filo blucontro il malocchio e, nelle baracche di fango,Vlamim, Sehad, Suzana e Daca, bambini dainomi turchi e slavi che aspettano la notte,immobili davanti ai cerchi rossi delle stufe chesbuffano. La notte sopra il Danubio è come undiaframma che si rompe. Il fiume è assenza etrascina via tutto, tradimenti e separazioni, ilfuoco e le bombe all’uranio.

Belgrado, hotel Moskva, sovietico, monumen-tale. Le poltrone di velluto rosso, i candelabrigrotteschi, il fumo di sigaretta che ristagna anubi dense. Le torte fatte a scale di glassa rosa,come i tetti dei palazzi dalle fiabe di Puskin.La cameriera, candida e enorme, che emana ilpotere indomabile nelle sue bianche scarpeortopediche totalmente prive di civetteria. Suuna parete c’è ancora la carta della Jugoslaviadi Tito. Al pianoterra, in un limbo del tempo,si beve lentamente il caffè guardando la cittàche si addobba dei primi manifesti pubblicita-ri, di carretti zingari, merda dei cavalli e mac-chine luccicanti. Dalle vetrate vedo donne conla mano come un moncherino che chiedono

l’elemosina e negozi dove trovi scarpe a rate.Viaggio in questo mausoleo vivente come nel“Treno della Nostalgia” che ogni settimanaparte per il Kosovo, la terra dove mille anni fanacque la Serbia e dove oggi – con l’assensodella diplomazia mondiale - cresce uno statoalbanese indipendente.

Le osterie di Belgrado, i caffè dove ancora sidiscute di politica o si dorme, la vera Belgrado,il mondo a parte, lo specchio di una città che èmetafora del caos, luogo letterario, dissociato eautoreferenziale, città definita da Paolo Rumizdi “bestiale solitudine e deliri di massa”, chenon sa come smaltire il suo tremendo surplusdi energia. Al tramonto i vecchi ballano nelparco del Kalemegdan, sui bastioni della for-tezza che domina il Danubio e la sterminataPannonia. Cerco un taxi, ma i tassisti hannofacce da brivido e guida brutale: molto meglioi vecchi tram per andare oltre la Sava, a NoviBeograd, la città creata dal nulla per decretosul triangolo di sabbia alla confluenza colGrande Fiume. Vi incontro giovani raffinati,un mondo di cultura che non esiste in nessunaaltra città balcanica e mi ricorda la Poloniaanni Ottanta. Belgrado non ha nulla, ma è unacittà più vitale di Milano.

Poi trovo Mirjana, una specie di maga post-bellica e post-moderna, una bellezza ossigena-ta dal maxi-seno rifatto che fa a pugni con lasua visione arcaica dell'immaginario slavo.“Sei come vetro”, mi dice cercando di legger-mi il futuro. Diventa pallida, s’imperla disudore. Come il parocco di Kikinda, cerca l’e-

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quilibrio spezzato del suo Paese nell'ordinesegreto dei numeri. Mi parla del business del-l'esoterismo, prodotto dall'onnipresente ango-scia serba.

“Vengono da me per capire. Gente persa checerca gente scomparsa. Mi chiedono se partireo non partire, chiedono perché sono mortiuomini che amavano, perché persone buone sisono messe a uccidere. Nessuno trova rispostenella chiesa. Uomini d’affari chiedono doveinvestire, in quale business o in quale aman-te.” Mi racconta delle Porte del Tempo, “VrataVremenia”. “Chi le troverà avrà il potere. Ciprovano persino gli americani. Si trovanonelle montagne di Radan Planina, dove ci sonole tombe più vecchie, le più vecchie chiese. Làci sono le rivelazioni, là è nascosto il segretodella Jugoslavia.” Quale segreto, non si sa.“Dai turchi ci è rimasto l’approccio estremoalla vita. Niente vie di mezzo. Non conoscia-mo la morbidezza del dubbio.”

Belgrado ha la sua moschea. È un bel postodalle pietre grandi e dagli archi delicati dovemi sento a casa. La abitano uomini miti diaspetto distinto, “sufi” della confraternitaestatica Rufai presente anche in Macedonia,Kosovo, e Albania. Trovo delle ragazze che dis-cutono passi del Corano. La più esperta sichina verso le giovani, curiose, sorridenti, deli-cate. Le insegna, passo dopo passo, i gesti e leparole della preghiera. Penso come è limpidoil messaggio del sacro quando non ha tenta-zioni di egemonia. Come in cristiani nelleterre dell’Islam, qui i musulmani vivono ai

margini, in stato di allerta. Tutte le volte chegli albanesi del Kosovo attaccano i monasteriortodossi c’è il rischio di una ritorsione. Comenel maggio del 2005, quando una folla infero-cita ha tentato di dare alle fiamme l’edificio.

Quando vado da rabbi Yitzhak Ariel, nellabella sinagoga di Belgrado, ho l’impressioneche il profumo dei sufi mi sia rimasto addosso.Forse lui l’ha fiutato: lo sceicco Abdullah dellamoschea, la chiamano a Belgrado Jamija, dice-va che quello è un odore che ti rimane addos-so per sempre. In sinagoga mi raccontano chea Nis, ultima grande città del Sud prima dellaMacedonia, i Rom del Kosovo si sono insediatisenza complimenti nel cimitero ebraico e lohanno riempito di case alte fino a tre piani.Gesto incomprensibile, vista la paura dellamorte che regna tra gli zingari. “Che dobbia-mo fare”, si preoccupa Stefan Sadlitz, cantoredella sinagoga e giovane regista teatrale disuccesso, “dobbiamo scegliere i vivi o imorti?” Per i pochi ebrei rimasti in Serbia lastoria di Nis è una vergogna. La tradizioneebraica vieta di spostare le tombe. E invece lìc’è chi le copre di escrementi. E i bambini gio-cano con le ossa di un rabbino.

Cerco altri pezzi del mondo religioso serbo,torno a nord-ovest per vedere i mitici mona-steri della Fruska Gora, ma non trovo niente.Muri bianchi, alti e lunghi, da fortezza blinda-ta in stato di assedio, dove non trovo nessuncancello aperto, nessun passaggio, nessunaporta aperta. Giro attorno a lungo, solo vento,neve e silenzio, l’eco della pianura lontana,

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oltre il Danubio. Da quassù, dicono, partivanonell’autunno del 1991 gli ordini di tiro in dire-zione di Vukovar e Osijek.

Il messaggio religioso serbo splende altrove,nelle terre perdute del Kosovo. In luoghi comeDecani. Ci andrò l’estate successiva, con l’atto-re Moni Ovadia e Paolo Rumiz, giornalista di“Repubblica”. Troverò monaci giovani belli,colti, umili e raffinati, a lavorare la terra, alle-vare le mucche, scrivere le icone, studiare itesti antichi.Il monastero sta in un luogo straordinario:alla fine di una gola piena di acqua e boschi,ma può sopravvivere alle rappresaglie solograzie ai soldati italiani, ai rotoli di filo spina-to, ai muri di sacchi con la sabbia. In quel lagola luce dell’alba si accende come un falò dietrol’iconostasi, e la sera riempie tutta la valle diun’aura sublime.Di sera sul tavolo del ballatoio si parla di teo-logia ortodossa e musulmana, di spiritualitàebraica, del Danubio di Claudio Magris e delfilm di Tarkowski, non del costante pericolo dimorte. Non si dice che bisogna alzarsi allequattro per portare l’acqua dal fiume, nascostinel buio, e che serve un giorno e mezzo perandare a Belgrado, scortati dai soldati e chemeglio non suonare le campane per non irri-tare gli albanesi.

Primavera, viaggio verso il confine greco suuna vecchia Wartburg gialla guidata da unamico macedone, il dolce Dean di Skopje,uomo che mi parla di pietre e minerali. Campifertili, serre fino alle montagne. Le valli mace-

doni sono il giardino dei Balcani, qui nessunoha tempo di fare la guerra. Questa è l’unicadelle ex-repubbliche di Tito che ha ottenutol'indipendenza senza combattere. E non basta:i Rom sono i padroni di casa, persino nominatinella Costituzione.

Dean mi parla dei bogomili, un’eresia cristianadel X° secolo nata a Dragovica, sul confinemacedone e turco. Racconta che forse percausa loro in questa parte d’Europa è rimastovivo un mito molto speciale sui “problemi tec-nici” della Creazione.

Pare che creare il mondo fosse una cosa troppocomplessa per il Signore e altri dovettero dar-gli una mano. Era stanco il Signore, o forsedistratto e imbranato, e così, non sapendo chefare, fece un pisolino a metà dell’opera. Avevadifficoltà a separare la terra dal cielo; allora ilporcospino gli suggerì di schiacciarle tra lemani, e fu così che nacquero le montagne. Poisi fece aiutare dal Diavolo per pescare dall’o-ceano il pugno di melma necessario a creare laterra, ma poiché si era dimenticato dello zin-garo, che dormiva beato, a quest’ultimo nonrimase la terra ma solo la danza e il canto.

“È straordinario”, dice Dean, “come qui l’uo-mo abbia applicato a Dio le proprie debolezzeper giustificare la sua assenza e la sua indiffe-renza verso tragedie troppo grandi da soppor-tare. Le gente pensa che, vista la pigrizia didio, nella storia dovrà apparire in scena qual-cun altro, un demiurgo più sveglio, per nonlasciare gli uomini da soli.”

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