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ISFOA Istituto Superiore di Finanza e di Organizzazione Aziendale Libera e Privata Università Telematica a Distanza di Diritto Internazionale Ente di Ricerca Senza Scopo di Lucro e di Interesse Generale Ivana Vitone La Rivoluzione di Internet tra Minacce ed Opportunità ISFOA Edizioni Accademiche Scientifiche Internazionali Digitali

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ISFOAIstituto Superiore di Finanza e di Organizzazione Aziendale

Libera e Privata Università Telematica a Distanzadi Diritto Internazionale

Ente di Ricerca Senza Scopo di Lucro e di Interesse Generale

Ivana Vitone

La Rivoluzione di Internet

tra Minacce ed Opportunità

ISFOAEdizioni Accademiche Scientifiche Internazionali Digitali

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Ivana Vitone classe 1992 , maturità linguistica con buona padronanza della Lingua Inglese , Francese e Spagnola , Laurea Triennale in Culture Digitali e della Comunicazione all’ Università degli Studi di Napoli Federico II Dipartimento di Scienze Sociali , Laurea Magistrale in Organizzazione e Gestione Aziendale con specializzazione in Tecnica Industriale e Commerciale rilasciata dalla Facoltà di Scienze Aziendali ed Economiche di ISFOA Libera e Privata Università di Diritto Internazionale ed Attestato di Qualifica Professionale quale Educatore per l’ Infanzia , ha iniziato il proprio percorso professionale nel 2014 in una Casa Famiglia in qualità di insegnante , successivamente , seguendo la propria vocazione di impegno nel sociale è entrata a far parte dello staff operativo , occupandosi dell’ organizzazione degli eventi , in una importante associazione italiana di volontariato , La Tua Voce ONLUS , fondata nel 2007 , presente con numerosi sedi in Campania e Molise ed attiva nell’ assistenza rivolta a minori ed anziani .

Attualmente , dopo una esperienza maturata nella direzione amministrativa e finanziaria di un noto calzaturificio ubicato nella provincia di Napoli , riveste il ruolo di direttore operativo all’ interno della società Acta Agency Engineering and Solutions coordinando in particolare l’organizzazione e l’implementazione dei percorsi formativi professionalizzanti , obbligatori e di aggiornamento tecnico .

Acta Agency Engineering and Solution www.acta-agency.it è una struttura di professionisti associati rivolta a privati , aziende e consulenti attiva e specializzata nelle seguenti aree di attività : Lavori Edili ;Realizzazione di Impianti Elettrici , Antincendio , di Aspirazione e di Soppalcature in Ferro ;Immissioni in Atmosfera ed in Fogna ;Certificazione ISO 9001 :2015 ;Certificazione SA 8000 ; Certificazione CE ;RSPP Responsabile del Servizio Prevenzione e Protezione in Outsourcing ;Protocollo Sanitario e Medicina del Lavoro con Visite Mediche in Sede ;Certificazione Impianti e Strutture in Ferro ;Pratiche di Sicurezza Aziendale ;Progetti Antincendio ;Certificazioni di Conformità Impianti ;Perizie Fonometriche ;Analisi Merceologiche , Chimiche e Microbiologiche ;Corsi di Formazione , Qualificazione e Riqualificazione del Personale per la Salute e la Sicurezza sul Lavoro ;Dichiarazione e Pratica Inizio Nuove Attività SCIA - Segnalazione Certificata di Inizio Attività ed Antincendio .

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Contatti & Collaborazioni: Golf People Club Magazine www.golfpeople.eu Bastioni Porta Volta 13 - 20121 Milano - Telefono 02 3311404 r.a. [email protected] Tutti i diritti di riproduzione sono riservati.

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INDICE

INTRODUZIONE………..……………………………………………...… p. 1.

CAPITOLO 1Evoluzione e modalità di interazione nella società

1.1 Nascita e sviluppo della tecnologia media ………….………………......… p. 31.2 Secolo XX: la rivoluzione dei media ….………...……………………....... p. 41.3 Esiste una cyber-utopia? (Evgeny Morozov) …………………...………… p. 5

CAPITOLO 2Internet: Potere e Libertà

2.1 Libertà e sicurezza in Internet ………………………………….……...… p. 102.2 Limiti strutturali dell’informazione: Il controllo algoritmo …….……….. p. 132.3 Interessi politici ed economici: il dilemma del dittatore ………….……... p. 162.4 Controllo e censura grazie ad Internet …………………………….…….. p. 18

CAPITOLO 3Internet dal privato al sociale

3.1 Self-tracking: monitoraggio del proprio benessere vitale? ........................ p. 213.2 La privacy è solo un’illusione ………………………………………….... p. 243.3 La disintossicazione digitale …………………………………………….. p. 28 CONCLUSIONI ………………………………………………………....…. p. 31BIBLIOGRAFIA…………………………………………………...……..… p. 35

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INTRODUZIONE

Internet ha investito ogni ambito della nostra vita, da quello prettamente lavorativo a quello più squisitamente sociale, modificando e plasmando le nostre abitudini quotidiane, nonché il modo in cui comunichiamo.

Come è, quasi sempre, accaduto in occasione di ogni innovazione tecnologica epocale, l’avvento di Internet è stato da molti salutato come l’inizio di una nuova era di libertà e progresso.

In particolare, con lo sviluppo del web 2.0 e l’emergere dei social media come mezzo di comunicazione, si è aperto il dibattito sulla capacità, da parte del web, di influenzare l’attività politica esportando la democrazia all’interno dei paesi in cui esistono regimi autoritari.

Inoltre, i cosiddetti geek, i fanatici della tecnologia, sono convinti che le nuove tecnologie digitali, connesse all’utilizzo di Internet, porteranno ad un costante ed incessante miglioramento delle condizioni di vita dell’uomo.

Internet ha mostrato potenzialità inimmaginabili fino a qualche decennio addietro, tuttavia ha anche rivelato di non essere privo di lati oscuri e insidie, tanto che l’uso pervasivo del web, che caratterizza la società digitale, ha sollevato nuovi problemi legati proprio allo sterminato numero di informazione che siamo in grado di far circolare in rete. La rete, infatti, è ormai qualcosa di più di un semplice strumento mediale in cui si diffondono dati in modo neutrale, rivelandosi sempre di più come strumento capace di condizionare le nostre vite, in modo non sempre e necessariamente positivo.

Il presente lavoro si articola in tre fasi: nel primo capitolo verrà illustrata l’evoluzione delle modalità di interazione nella società, attraverso l’analisi dei diversi strumenti di comunicazione fino alla rivoluzione digitale e l’avvento di Internet, appunto.

Nel secondo capitolo si analizzerà l’ambiguo rapporto che si può instaurare fra Internet e il potere: si vedrà che la speranza di una intrinseca democraticità della rete è stata smentita dal fatto che anche i regimi autoritari hanno imparato a sfruttarne le potenzialità. Non solo: saranno messi in luce anche i limiti strutturali dell’informazione in rete, connessi

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all’uso degli algoritmi che regolano le principali piattaforme digitali.

Nel terzo capitolo, infine, l’attenzione sarà focalizzata sul tema della privacy e del suo progressivo sfaldamento, a causa della diffusione di pratiche come il self-tracking, che trasfigurano ogni aspetto della nostra vita in una dimensione social che crea quasi dipendenza, tanto che, da qualche anno, si stanno diffondendo pratiche di disintossicazione digitale che probabilmente, come vedremo, hanno intenti tutt’altro che liberatori.

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CAPITOLO I

Evoluzione e modalità di interazione nella società

1.1 Nascita e sviluppo della tecnologia mediale

Alla domanda “Dove nasce Internet” non si può avere una risposta ben precisa. L’avvento della globalizzazione e il sistema capillare di informazione scaturito dallo sviluppo economico, sociale e tecnologico ci porta a precisare che è difficile delineare ed indicare il posto o la casa in cui sia nato il web. Naturalmente non è possibile indicare il giorno preciso della sua nascita. L’ipotesi dei primi progetti di un sistema comunicativo che facilitasse l’interazione tra più persone collegandosi da diversi computer si diffuse notevolmente verso la fine degli anni Cinquanta. Una prima data di riferimento per la nascita di Internet risale al 1962, quando viene creata la prima rete di computer Arpanet negli Stati Uniti. Arpanet nasce nel periodo della guerra fredda, perché c’era un’imminente necessità di un sistema di rete che permettesse di diffondere informazioni sia di ricerca che di sviluppo militare. Essa era basata su un sistema di protocolli TCP/IP, per collegare i diversi dispositivi tali da rendere possibile lo scambio di informazioni. Con questo nuovo sistema, Arpanet ebbe un enorme successo e con il passare del tempo si aggiunsero ad essa altre reti, per cui nel 1982 Arpanet si trasforma in Internet, detta “Reti delle reti”.

Ma ciò che ha reso Internet una rete mondiale è stata la creazione del “World Wide Web” ad opera del ricercatore Tim Bernes-Lee negli anni Novanta, presso il Cern di Ginevra (Istituto per la ricerca scientifica). Tim Bernes-Lee definisce il “Word Wide Web” come una piattaforma, ovvero come una forma di condivisione. Il primo sito web fu introdotto con il linguaggio “HTML” e protocollo “http” per permettere la lettura ipertestuale dei documenti, saltando da un punto all’altro attraverso “hyperlink”. Da questo momento il web diventa pubblico e poteva essere utilizzato da chiunque, non solo da professionisti o ricercatori. Con il “Word Wide Web” si ha la prima rete di comunicazione globale, e come prerogativa ha la finalità di collegare una rete di terminali privati, e consente di divulgare, creare, condividere informazioni di qualsiasi natura in modo semplice e immediato.

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1.2 Secolo XX: la rivoluzione dei media

La rivoluzione digitale ha subito negli anni una continua metamorfosi dovuta al continuo, incessante progresso della tecnologia mediale. Con la rivoluzione digitale si ha il fenomeno della crescita e della propagazione dei canali di accesso all’informazione innescando trasformazioni in tutti i settori in relazione alla vita sociale.

In questo scenario di rivoluzione tecnologica, Internet gioca un ruolo fondamentale, infatti si passa dal web statico definito “web 1.0” degli anni Novanta del Novecento, concepito come strumento per visualizzare e scambiare documenti ipertestuali attraverso l’uso del linguaggio HTML, al web dinamico, ovvero “web 2.0” apportando tantissimi cambiamenti plasmando sia il nostro modo di pensare, il modo di vivere e interagire con gli altri. Le principali peculiarità del “web 2.0” sono: la condivisione dei contenuti e l’interattività tra gli utenti, per cui la comunicazione non è incentrata più sulla semplice trasmissione di dati, ma acquista una rilevanza sociale. Sul web infatti vengono inseriti tutte le particolari esigenze e le attività di ogni singolo cittadino del mondo. È una grande quantità di visualizzazioni, che va dall’economia, la politica, la finanza, i social network, l’informazione, il commercio, la condivisione dei propri interessi, l’istruzione con i suoi problemi, la ricerca e lo sviluppo del linguaggio. Investe altresì la formazione universitaria, il giornalismo e in generale la vita della società. Mentre negli anni Novanta, connettersi ad Internet era quasi un lusso, in quest’era digitale il numero degli utenti che accede ad Internet è cresciuto in modo esponenziale, ciò è dovuto anche alla facilità di accesso economico agli strumenti digitali. Internet oggi rappresenta praticamente tutto, non è una semplice tecnologia, ha favorito una vera e propria rivoluzione, fino ad investire anche sulla sfera privata e sentimentale, ma ha creato una nuova visione del mondo abolendo le barriere spazio-temporali. Prioritariamente diciamo, che vi sono vantaggi e svantaggi sul fatto che Internet abbia ribaltato il mondo dell’informazione, come concordano gli “Internet addicted”, ed anche coloro che hanno nostalgia del tempo passato, ovvero con i precedenti modi di interagire. Entrambi giungono a dire che poche altre invenzioni come Internet hanno rivoluzionato il mondo della comunicazione. Il web 2.0 contiene applicazioni come: Facebook, Twitter, forum, blog, chat, infatti siamo abituati con ripetitività giornaliera a “messaggiare e twittare”, a pubblicare foto, ad

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inviare posta con estrema facilità. Quando facciamo riferimento alla nostre abitudini di comunicazione, prima dell’avvento di Internet, sembra di andare lontano indietro in un tempo lontano nella storia.

Eppure si tratta di fare un passo indietro nel tempo non più lungo di venti anni pressappoco.

Ma come avveniva la comunicazione nel secolo trascorso prima che Facebook creasse i presupposti di potere “monitorare” la vita di una persona? Bisogna evidenziare le proprie qualità o mettere a nudo i difetti altrui? Prima della nascita dei social network il rapporto comunicativo sociale e interpersonale era esplicitato con la “parola” o con la “scrittura”. Internet avrebbe creato un vero ciclone, un turbinio di novità incessanti, con un continuo proliferare di database. Prima la comunicazione avveniva certamente in forma minore, in termini di quantità, ma era più profonda e migliore in termini di qualità. La vita di relazione era creata in modo che potesse interagire con meno persone, anche se con più assiduità. Non necessariamente lo scambio di conversazioni avveniva con compresenza fisica, grazia alla creazione anche del telefono, ma a quei tempi anche la vita di tutti i giorni era per certi versi differente. I contatti telefonici di una volta si sono moltiplicati con la rete digitale fino all’eccesso, per esempio attraverso i messaggi di whatsapp. Ammettiamo anche che la reiterazione di questi contatti risulta spesso inutile se non inefficace.

Oggi lo schermo di un computer, di un tablet o di uno smartphone diventa l’elemento quasi insostituibile per la ricezione dei messaggi e non possiamo più farne a meno.

Il contatto istituzionale o interpersonale con la scrittura tradizionale è pressoché scomparso.

1.3 Esiste una cyber-utopia? (Evgeny Morozov)

Internet, strumento potentissimo, ha avuto un impatto irreversibile sulla nostra vita tale da aver rivoluzionato tutti gli aspetti della nostra vita trasformando e plasmando le nostre abitudini quotidiane e personali. Con l’avvento di Internet siamo sempre più connessi, quasi da non riuscire più a distinguere la percezione tra reale e virtuale, creando una

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condizione in cui i due mondi si intrecciano, dove prevale il ruolo virtuale. L’opinione prevalente è che Internet ha davvero migliorato la nostra vita offrendoci tante opportunità anche nel mondo del lavoro, semplificando le attività che svolgiamo quotidianamente. La visione ottimistica della rete porta fino all’eccesso tutte le aspirazioni a voler centralizzare in uno spazio ben definito i propri modi di vedere, le proprie esigenze e le proprie finalità. Si può parlare addirittura di un vero e proprio “cyberspazio”. Il cyberspazio è un termine coniato dal romanziere William Gibson, termine per indicare Internet come entità astratta, immaginaria, creata dai computer, uno spazio digitale navigabile da persone di realtà diverse, diventa un luogo dove tutto è reso possibile anche se non c’è una presenza fisica. Evgeny Morozov, nato in Bielorussia, è un esperto giornalista di geopolitica, autore di “L’ingenuità della rete” e “Internet non salverà il mondo” in cui espone le sue critiche e opinioni in contrapposizione all’utopia di Internet. Morozov parte dal presupposto che attualmente viviamo in una condizione di “Internet-centrismo”, ponendo Internet al centro di tutto. I sostenitori dell’Internet-centrismo immaginano la rete come una divinità colma di essenza mitologica che incombe in qualsiasi ambito della società. L’internet-centrismo si è diffuso come un modello religioso, che ha pervaso e condizionato la nostra esistenza, tanto da avere la certezza che l’innovazione tecnologica curi e migliori la qualità della vita delle persone e che produca solo effetti positivi. Secondo gli Internet-centristi Internet è un fenomeno straordinario, grazie ad esso il mondo è libero dalle congetture poiché abolisce i limiti del tempo e dello spazio, e ha reso possibile la collaborazione e la solidarietà tra i popoli. Causa del forte e diffuso “utopismo cibernetico”, emergono ipotesi che Internet è in grado di creare una società ideale e perfetta in cui si è liberi di esprimere e di dialogare tra i cittadini senza intermediari, senza più pressioni in nome di una democrazia integra e onesta favorita dal libero accesso ad internet e dalla trasparenza.

Il concetto di utopismo cibernetico è stato coniato da Evgeny Morozov per indicare quella linea di pensiero secondo cui Internet non solo è una tecnologia capace di cambiare la nostra vita, ma uno strumento capace di lottare efficacemente contro l’autoritarismo e la restrizione della libertà in tutto il mondo. Ma è davvero così? Evgeny Morozov mostra quanto la rete può essere controllata e strumentalizzata1. Le sue critiche si articolano su due prospettive: La prima critica che solleva si oppone fortemente alla visione troppo

1 Mozorov E. L’ingenuità della rete, Codice Edizioni, Torino 2011.

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ottimista della rete, perché l’atteggiamento cyber-utopista ci rende ciechi, ci freniamo solo all’apparenza senza analizzare e prendere in considerazione il lato oscuro di Internet. La seconda critica invece riguarda il concetto del “soluzionismo digitale” in quanto sostiene che le tecnologie non contengono soluzioni per problemi complessi di diversa natura come per esempio la politica e l’autoritarismo che richiedono un’analisi e uno studio dettagliato e approfondito. Morozov mostra l’esempio della “rivoluzione di Twitter” durante la “primavera araba” dove si è discusso sul ruolo svolto da Facebook e Twitter durante la diffusione delle rivolte. Primavera araba è un’espressione giornalistica coniata per indicare quei movimenti volti a portare cambiamenti in società ancora legate ad una concezione centralizzata del potere. Questi social, giocando un ruolo determinante nelle comunicazioni di una società moderna e alterando il modo in cui i cittadini si relazionano, conversano e scambiano informazioni, idee e notizie fra di loro, sono stati considerati inesattamente come uno dei possibili motivi che hanno portato delle rivolte popolari a spodestare dei regimi autoritari. Il rapporto tra Internet e Potere è un tema molto sensibile al riguardo. Il web è uno strumento capace di produrre cambiamenti? Di creare una vera e propria rivoluzione? L’opinione prevalente è che cittadini di paesi dove la libertà di espressione è stata per troppo tempo repressa, grazie a tali mezzi di comunicazione hanno trovato nuovi sbocchi per unirsi e pianificare grandi lotte di protesta contro un governo oppressivo e autoritario e per poter abbattere la dittatura. Grazie a Twitter molti sono convinti che, la diffusione di questo nuovo metodo di informazione più capillarizzato, poteva creare i presupposti per una vera e propria società libera precedentemente chiusa in un mondo non informatizzato. Per molti il trionfo di Twitter aveva dato vita ad una rivoluzione di natura globale perché la stragrande maggioranza delle informazioni si diffondeva principalmente tramite di esso, e grazie ai veloci tweet, alle foto e ai video pubblicati dagli stessi protestanti, era come se tutto il mondo partecipasse agli eventi iraniani. Ciò ha contribuito sicuramente a gonfiare le aspettative popolari su ciò che si poteva davvero ottenere.

La domanda che sorge spontanea è: Questa rivoluzione sarebbe avvenuta lo stesso senza Twitter? Molti ritengono che tutto ciò non sarebbe mai stato possibile. Ma Morozov ritiene che tutto ciò è stato sicuramente agevolato, ma non determinato e causato solo dall’aspetto informativo della realtà mostrata da Twitter. In realtà queste rivolte sono dovute al fatto che

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la vera spinta verso questo agognato cambiamento sia stato determinato dalle condizioni sociopolitiche di queste società, ovvero la penuria, la fame, la situazione economica e le difficili condizioni di vita, corruzione, libertà oppresse.

In verità, si può avere una svolta di un nuovo governo quando ci sono fattori e condizioni che lo permettono come per esempio un sistema governativo che tende a vacillare indipendentemente dall’utilizzo di una tecnologia come Internet. D’altronde, secondo Morozov le tecnologie senza un’accurata analisi politica non producono nessun cambiamento politico.

Se da un lato Morozov, pone al centro della sua attenzione il cyber utopismo, dall’altro critica marcatamente anche il “soluzionismo tecnologico”. Il soluzionismo è conseguenza dell’internet-centrismo, entrambi sono due facce della stessa medaglia e si uniformano a vicenda. Morozov definisce il soluzionismo digitale come vera e propria follia, come tendenza delle tecnologie digitali a risolvere ogni problema, ovvero come tendenza a vedere nelle tecnologie digitali la soluzione ad ogni interrogativo2. Questa modalità è incentivata soprattutto dai tecnologi e dalle aziende della Silicon Valley, che è un polo di concentrazione della maggior parte delle aziende in cui vengono prodotti e creati software, computer e tecnologie di ogni genere. Tali aziende spesso per accrescere il loro business creano soluzioni a problemi che in realtà nemmeno esistono. Di conseguenza, di questo passo quello che è certo è che la tecnologia farà sempre più parte della nostra esistenza non solo per comunicare, fare foto o telefonare, ma terrà sotto controllo tutta la nostra vita ed anche la nostra salute per assicurarci le condizioni più favorevoli al percorso della vita.

Morozov mostra alcuni esempi di soluzionismo applicato alla tecnologia, tra cui “BinCam”: un bidone della spazzatura intelligente, dotato all’interno di un piccolo smartphone che scatta una foto ogni qual volta che il bidone viene richiuso, ovviamente è un modo per monitorare cosa si butta e se si fa bene la raccolta differenziata.

Oppure come la creazione di una forchetta dotata di un dispositivo capace di stabilire il dosaggio della quantità di cibo che si ingerisce, oppure applicazioni che contano i passi che si effettuano ogni giorno monitorando il battito cardiaco.

Questi sono esempi portati all’eccesso però servono a farci capire l’invadenza della

2 Morozov E. Internet non salverà il mondo, Mondadori, Milano 2014.

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tecnologia digitale nella vita di ogni giorno. Il soluzionismo applica una risposta decisa e in modo rapido e veloce senza che le persone possano riflettere a fondo sulla complessità del problema. Gilles Paquet dice: «Il soluzionsimo concepisce ogni questione come un rompicapo per il quale esiste una soluzione, piuttosto che come un problema per il quale potrebbe esserci una risposta»3. Secondo questa concezione, siamo ossessionati dalla mania della perfezione, e nel momento in cui associamo Internet alla perfezione, pretendiamo che qualsiasi avvenimento si adegui e si configuri secondo le sue prerogative per renderli migliore. Ciò crea la pretesa che tutto sia perfetto, e non abbiamo bisogno più di nulla, ma realisticamente Internet non può rappresentare il “rimedio universale” a tutti i problemi, sarebbe veramente una forma illusoria per risoluzione delle proprie esigenze, tale da avere effetti devastanti sulla vita dell’uomo, arrecando come conseguenza una vera regressione della società. E ancora Morozov sostiene che ci stiamo avviando verso una nuova era priva di elementi semplici e fondamentali per la crescita dell’individuo come la possibilità di sbagliare, e di essere imperfetti e soffermarsi sull’importanza dei valori che si stanno dissolvendo. La critica di Morozov è volta ad eliminare la presunta magia salvifica che sprigiona Internet, ed esordisce: “Internet non salverà il mondo ma l’etica salverà Internet”. Egli vuole esaltare tutti gli aspetti critici, in modo di essere consapevoli dei limiti e delle possibilità che Internet ci offre accettando anche il lato oscuro in modo tale da poterci permettere di farne un uso ragionevole e coerente, e di considerare Internet per quel che davvero è, liberandoci dall’assuefazione. Ma siamo di fronte ad una pretesa estremizzante per cui tutto ciò che è tecnologia non può essere fonte di sicura soluzione. Sembrerebbe un’esplicita forma di “luddismo tecnologico”, che sicuramente porta a conoscenza dati e fatti ma non incide assolutamente sulla natura umana. Per questo motivo Morozov afferma: “La tecnologia cambia in continuazione, la natura umana quasi mai”.

3 Paquet G., The New Geo-Governance: A Baroque Approach, Ottawa, Universuty of Ottawa Press, 2005, p. 315.

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CAPITOLO II

Internet: potere e libertà

2.1 Libertà e sicurezza in Internet

I concetti di libertà e democrazia sono da sempre oggetto di studi e dibattiti che ancora oggi non hanno raggiunto un’univoca conclusione. Che cosa debba intendersi per libertà, quali sono le minacce alla sua espressione, sono ancora oggi questioni controverse rese ancora più spinose dai grandi mutamenti sociali della nostra epoca. Fra questi il più rivoluzionario è stato sicuramente l’avvento di Internet, che ha di fatto mutato i costumi sociali, il modo attraverso cui si fa comunicazione, e finanche il modo attraverso cui i governi esercitano il loro potere di controllo sui cittadini.

Lo sviluppo della tecnologia, specie nel campo delle comunicazioni online, ha raggiunto livelli che fino a qualche decennio addietro erano assolutamente impensabili. La globalizzazione e l’era digitale hanno accelerato ulteriormente questo processo per cui la società è diventata sempre più connessa e in rete viaggia un sempre maggiore numero di dati sensibili. Per questo motivo, nel corso degli ultimi anni si è andato sempre più intensificando il dibattito sulla contrapposizione fra tutela delle libertà individuali garantite dalle norme sulla privacy e l’esigenza di sospendere tali principi in nome della sicurezza. Il problema è sorto nel momento in cui, dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001, è stato costruito un “allarme sicurezza” contro la minaccia del terrorismo, che ha portato parte dell’opinione pubblica ad una diffuso senso di accettazione verso le restrizioni alle libertà personali e alle violazioni della privacy.

Tuttavia le informazioni emerse in seguito alla scandalo datagate hanno sollevato interrogativi importanti, specialmente se si considera un particolare della vicenda piuttosto inquietante: la presunta collaborazione dei principali service provider, come Google e Facebook, utilizzati quotidianamente da milioni di utenti. Tutti i provider chiamati in causa dalle dichiarazioni di Snowden hanno ammesso le richieste da parte del governo

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statunitense, ma hanno smentito categoricamente di aver acconsentito a diffondere i dati dei propri utenti. Tale vicenda ha senza dubbio gettato un’ombra lunga sull’illusione collettiva secondo cui Internet sarebbe, essendo privo di limitazioni sia fisiche che regolative, un’oasi di libertà. Al contrario il cosiddetto “far west web” è spazio dove prevalgono gli interessi dei soggetti più forti e strutturati, sicché a ben guardare la mancanza di principi è tutt’altro che garanzia di libertà.

Tuttavia Internet è un fenomeno inarrestabile, il più grande spazio pubblico che l’umanità abbia mai avuto, tanto che considerarlo solo uno fra i tanti media risulta riduttivo. Per questo motivo sono sorte diverse iniziative volte all’elaborazione di principi in tema di diritti e doveri relativi ad Internet. Di particolare rilievo, visto che proviene per la prima volta da un soggetto istituzionale, è la Carta dei diritti di Internet, approvata il 28 luglio 2015 dall’omonima Commissione promossa dalla presidenza della Camera dei deputati della Repubblica italiana:Art. 1. (Riconoscimento e garanzia dei diritti).

Art. 2. (Diritto di accesso).

Art. 3. (Diritto alla conoscenza e all’educazione in rete).

Art. 4. (Neutralità della rete).

Art. 5. (Tutela dei dati personali).

Art. 6. (Diritto all’autodeterminazione informativa).

Art. 7. (Diritto all’inviolabilità dei sistemi, dei dispositivi e domicili informatici).

Art. 8. (Trattamenti automatizzati).

Art. 9. (Diritto all’identità).

Art. 10. (Protezione dell’anonimato).

Art. 11. (Diritto all’oblio).

Art. 12. (Diritti e garanzie delle persone sulle piattaforme).

Art. 13. (Sicurezza in rete).

Art. 14. (Governo della rete)

Come scrive Stefano Rodotà, coordinatore della Commissione: «Attraverso la considerazione dei diritti fondamentali, già previsti o di cui si chiede il riconoscimento, si giunge così al tema della “cittadinanza digitale”, per molti versi ancora nebuloso, ma che consente di ricondurre alla persona un insieme di situazioni che concorrono a definirne la

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condizione nel cyberspazio»4. A tal proposito di particolare importanza risulta l’art. 2 che sancisce il diritto di accesso ad Internet, in quanto è da qui che deve iniziare la riflessione sulla cittadinanza digitale. Le discussioni su come vada inteso il diritto d’accesso non mancano, come dimostra il dibattito fra i padri di Internet: Cerf Vinton, informatico statunitense, e Tim Bernes-Lee, importante ricercatore presso il CERN e inventore del “World Wide Web”. Secondo Cerf non si può parlare di un autonomo diritto per l’accesso ad Internet dal momento che la rete è solo uno strumento utilizzabile per raggiungere determinati risultati. D’altra parte Tim Bernes-Lee affronta l’argomento con la premessa che Internet non deve essere considerato tanto come un bene oggetto, quanto piuttosto, nella prospettiva del rapporto fra persone e beni, come un bene il cui concreto utilizzo è essenziale per l’esistenza umana, come l’accesso all’acqua. Solo secondo questa concezione si può parlare di cittadinanza digitale, tale da essere considerata come un’estensione della cittadinanza già esistente per ogni individuo.

Secondo Rodotà a differenza della televisione e della stampa il cui accesso è limitato agli addetti ai lavori, la natura di Internet consiste nella possibilità di ogni persona di utilizzarlo direttamente. Per questo è necessario esprimere la garanzia di accesso nella forma di un diritto fondamentale, sebbene esistano già diverse formule che tutelano la libertà di espressione attraverso ogni mezzo come – nel caso del sistema italiano – l’art. 21 della Costituzione, l’art. 19 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo dell’Onu, l’art. 10 della Convenzione europea e l’art. 11 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

Il diritto d’accesso dunque non può essere considerato come mero diritto ad essere tecnicamente connessi, ma deve essere interpretato come diritto fondamentale della persona in quanto rappresenta la garanzia contro ogni forma di censura e di limitazioni indirette, come ad esempio il tentativo di tassare il consumo di Internet da parte dell’Ungheria. L’insieme di tali diritti non rappresenta solo una generica garanzia di libertà in rete, bensì mira ad «impedire la dipendenza della persona dall’esterno, l’espropriazione del diritto di costruire liberamente la propria personalità e identità, come può accadere con l’uso intenso di algoritmi e tecniche probabilistiche»5

4 Rodotà S. Il mondo nella rete. Quali i diritti, quali i vincoli, Editori Laterza, Roma 2014, p. 13.5 Rodotà S., Verso una dichiarazione dei diritti in Internet, p. 3.

http://www.camera.it/application/xmanager/projects/leg17/attachments/upload_file/upload_files/000/000/193/

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2.2 Limiti strutturali dell’informazione: il controllo algoritmo

Il sempre crescente numero di informazioni insieme all’aumento della velocità con cui queste circolano ha determinato una crescente automazione della gestione dei flussi di dati la quale è affidata ad algoritmi che ormai regolano ogni aspetto della nostra vita quotidiana. In nome di una maggiore rapidità ed efficienza, nonché di riduzione del rischio, i software realizzati grazie a sofisticati modelli matematici riducono o eliminano del tutto l’intervento umano anche in settori rilevanti come le transazioni finanziarie. A tale proposito si è parlato di una “dittatura dell’algoritmo” per sottolineare la scomparsa del ruolo decisionale della persona la quale risulta ridotta ad oggetto in balia delle procedure automatizzate.

Il problema che nasce dalla gestione automatizzata del flusso di dati risiede proprio nella spersonalizzazione della lettura delle informazioni, ossia nel fatto che i dati non vengono più interpretati, ma solo registrati, catalogati.

Considerando la crescita esponenziale del web Google intuì che per avere un motore di ricerca più efficiente non poteva basarsi sull’uso di personale umano, ma esclusivamente su algoritmi. L’algoritmo di Google sfrutta l’ipertestualità del web, infatti, nell’indicizzarne le pagine il PageRank tiene traccia di tutti i legami ipertestuali che indirizzano una certa pagina partendo dalla premessa che quanto più sono numerosi, tanto più alta è l’importanza della pagina stessa. Dopodiché prende in considerazione quante citazioni hanno a loro volta le pagine da cui provengono le citazioni alla pagina target e in base a questo si assegna un valore alla citazione, che è tanto più importante quanto più è citata e viceversa. Dunque tale analisi si basa esclusivamente sulla forma linguistica e non sul significato del termine6.

A proposito dei rischi del controllo algoritmico, Evgnij Morozov, racconta il caso di una rivista accademica online, “Guernica”, che si vede sospendere l’iscrizione a AdSense

Internet_Libe.pdf6 Francesco Antinucci, Istituto di scienze e tecnologie della cognizione, Roma, cit. in Fiore S. Algoritmo, l‘apriti sesamo di Internet, Almanacco della scienza, N 0 – 14 gen 2009.

http://www.almanacco.cnr.it/reader/ArchivioTematico_tema?MIval=cw_usr_view_articolo.html&id_articolo=250&id_rub=32&giornale=370

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perché i software di Google avevano segnalato il sito come inappropriato ritenendo che violasse le norme etiche. Ciò era accaduto in seguito alla pubblicazione di un racconto, dedicato alla scrittura autobiografica innovativa, che trattava delle prime esperienze sessuali. Insomma, una rivista di tutto rispetto che ha ospitato interventi di autori del calibro di Noam Chomsky e Amartya Sen viene giudicata pornografica perché gli algoritmi di Google registrano delle parole che contravvengono al suo codice etico, non tenendo conto del contesto in cui quelle parole sono utilizzate. Tale vicenda induce il sociologo russo a chiedersi quale piccolo editore si spingerà a pubblicare ancora un tipo di racconto del genere se ciò può comportare dei danni economici come quelli subiti dalla rivista “Guernica”7. Google, da parte sua, afferma la neutralità dei propri algoritmi e sostiene che i risultati del comportamento automatico rispecchiano semplicemente le chiavi di ricerca già usate da altri, affermando che i suoi algoritmi sono un riflesso oggettivo della realtà. Tuttavia, a ben guardare, il ruolo di Google nella società odierna, così come di altri colossi del web, non si limita a riflettere, bensì a plasmare, se non addirittura a manipolare, la realtà. Scrive così Morozov: «Google, da parte sua, dovrebbe smettere di nascondersi dietro la retorica degli specchi e dei riflessi, e riconoscere l’enormità del proprio ruolo nella definizione della sfera pubblica, per cominciare a svolgerlo in maniera più responsabile»8

Questa capacità da parte di tali colossi informatici di influenzare le nostre scelte si estende, come si è detto, a moltissimi aspetti della nostra vita. Così, ad esempio, se si effettua un acquisto tramite la rete, si può subito notare – come accade con Amazon – che, ogni volta che si ritornerà a consultare il sito, questo ci proporrà notizie ulteriori sui libri più venduti dello stesso genere, inducendo le persone ad acquistarli seguendone il suggerimento. Per tale motivo potremmo affermare che il successo di un libro viene condizionato più dall’algoritmo di Amazon che dal suo effettivo valore culturale.

L’utente del web è convinto di avere una quantità enorme di informazioni e di riceverle gratuitamente, ma non si rende conto che questa forma apparentemente gratuita viene a costare un prezzo perché vengono sfruttati in modo occulto i suoi dati personali. Questi dati vengono poi sfruttati per le ricerche di mercato, per individuare sempre meglio le

7 Morozov E. Internet non salverà il mondo, cit., pp. 164-165.8 Ivi, p. 170.

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necessità e i gusti di tutti i potenziali consumatori.

Edgerank è uno degli algoritmi più importanti utilizzati da Facebook per stabilire ciò che deve essere mostrato nel flusso delle notizie di ogni utente, trascurando ciò che non viene considerato importante. L’algoritmo Edgerank decide cosa noi dobbiamo leggere perché sceglie quali sono le notizie che gli utenti tendono ad apprezzare di più. Aziende come Facebook hanno cominciato ad utilizzare algoritmi in grado di esaminare il comportamento delle persone: un semplice “mi piace” può essere l’indicatore di orientamenti politici, gusti, modo di vivere e di pensare, consentendo di realizzare attività di profilazione degli utenti. Aziende come Facebook hanno iniziato ad usare gli algoritmi e i dati storici per stabilire quali utenti potrebbero commettere reati utilizzando i loro servizi, rivelandosi alleati potenti per la polizia statunitense. I sistemi di raccolta dati di Facebook sono in grado di classificare certi utenti come sospetti sulla base di determinati comportamenti, come, ad esempio: scrivere solo a minorenni; avere solo un certo tipo di contatti; scrivere parole chiave sospette etc9.

Così come Facebook e Google, anche Twitter si serve di algoritmi per stabilire quali sono i tweet da mostrare, ovvero i temi più trattati sulla piattaforma. Gli argomenti di tendenza diventano un “trend” in base ad una serie di fattori, non del tutto noti, presi in considerazione dall’algoritmo. Anche in questo caso, Morozov fa notare come Twitter, con questo meccanismo, non si limiti a riflettere la realtà, bensì concorra a crearla attivamente.

La costante raccolta di dati da parte dei colossi del web produce la costante ed incessante produzione di profili di ogni genere, da quelli individuali a quelli di gruppo, privando il singolo individuo del diritto alla costruzione della propria identità. Come scrive Rodotà, nella società dell’algoritmo le persone sono state private di quelle garanzie in grado di proteggerle dal potere tecnologico di espropriazione dell’identità umana. Se è vero che le tecnologie dell’informazione e della comunicazione hanno avuto il merito di permettere un maggior controllo sul potere, è pur vero che per farlo, le persone utilizzano le informazioni raccolte, selezionate e gerarchizzate da Google e dal suo algoritmo senza però poter minimamente conoscere il funzionamento di quest’ultimo che, anzi, resta circondato dalla segretezza più assoluta. Il che vuol dire che restiamo impotenti di fronte ad un soggetto

9 Ivi p. 214.

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che ormai influenza e si impadronisce della vita di tutte le persone. Insomma il cuore del potere è impermeabile al nostro controllo.

Per questo Rodotà evidenzia l’importanza del diritto di conoscere “la logica applicata nei trattamenti automatizzati dei dati”, riconosciuto dalla direttiva europea 95/46, sottolineando che il ricorso all’algoritmo non può rappresentare un capro espiatorio per l’esercizio deresponsabilizzato del potere.

Se da un lato non si può negare che l’algoritmo sia uno strumento utile per razionalizzare le procedure e calcolare possibili variabili difficili da governare, dall’altro è necessario considerare l’imprevedibilità degli accadimenti storici, soprattutto quando si prende in considerazione l’unicità delle persone appartenenti a contesti diversi e che non possono essere ridotti a meri dati statistici. Alla luce di tali considerazioni, Rodotà afferma l’esigenza di utilizzare un “principio di precauzione” per costruire un contesto istituzionale adeguato in cui il rapporto fra uomo e macchina non sia squilibrato a favore della sola logica economica. Se non si riuscirà a preservare le informazioni personali, evitando di darle indistintamente in pasto all’algoritmo, si rischierà di cadere nelle mani di un determinismo tecnologico che, inficiando i diritti fondamentali delle persone e mettendone in discussione l’autodeterminazione e la libera costruzione della propria identità, solleverà inquietanti interrogativi sulla democraticità stessa della società dell’algoritmo10

2.3 Interessi politici ed economici. Il dilemma del dittatore

Internet ha giocato un ruolo fondamentale nell’allargamento del numero di persone che può accedere ad informazioni e conoscenze, tanto che molti hanno identificato la rete con la dimensione per eccellenze in cui si realizzano libertà e democrazia, attribuendogli, anzi, un vero e proprio ruolo rivoluzionario che dovrebbe lentamente spazzar via ogni regime autoritario. Proprio questa necessità dei regimi autoritari di esercitare la censura si è scontrata, negli ultimi anni, con l’opportunità di fare affari in un settore emergente e

10 Rodotà S. Il mondo nella rete. Quali i diritti, quali i vincoli, cit., pp. 38-40.

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in fortissima espansione come quello delle telecomunicazioni. Tali governi sono quindi costretti a mediare tra i propri interessi politici e quelli economici. Il problema di trovare un equilibrio tra istanze politiche ed economiche viene definito in letteratura “dilemma del dittatore”.

Premessa di fondo del dilemma è il concetto secondo il quale la globalizzazione e i mercati sempre più interconnessi obbligano i governi ad una scelta: se mantenere o meno il controllo diretto su questo tipo di telecomunicazioni a costo dell’isolamento economico. Il dilemma sorge dal fatto che anche i principali gruppi economici di quei paesi avranno l’esigenza di operare su quel mercato per poter fare affari. I governi, quindi, sono costretti ad accettare queste nuove forme di comunicazione per poi introdurre, in un secondo momento, barriere di diversa natura per controllare, limitandola, l’attività degli utenti su tali strumenti, al fine di mantenere saldo il proprio potere.

Per quei regimi, come la Corea del Nord, che dovessero decidere di non aprirsi, l’unica soluzione sarebbe quella di creare una rete totalmente chiusa e scollegata dalla comunità internazionale. I regimi autoritari sanno che è teoricamente possibile bloccare il traffico Internet disabilitando i principali nodi di connessione, ma sanno altrettanto bene che ciò comporterebbe delle conseguenze negative per le economie nazionali11. Inoltre bisogna tenere presente che si tratta di appetibili opportunità economiche (sia sotto forma di investimenti interni che di capitali esteri) cui i governi non vogliono rinunciare. Ogni regime decide che tipo di barriere utilizzare e «la loro incidenza deriva da come un regime decide di sciogliere il proprio dilemma del dittatore»12.

Il dilemma del dittatore ha trovato molti sostenitori tra coloro che credono fermamente nel ruolo positivo della rete nel processo di democratizzazione. Ciò è dovuto al fatto che tale teoria implica un forte nesso causale tra l’avanzare della democrazia e lo sviluppo tecnologico che sarebbe latore della rivoluzione dell’informazione. Come scrive Morozov, si ritiene che Internet sconfiggerà l’autoritarismo a colpi di informazione. Insomma, i

11 Howard, P. The Digital Origins of Dictatorship and Democracy: Information Technology and Political Islam, Oxford University Press, New York 2010. Cit in Matiz A. Tra social media e democrazia non c’è nessun legame, «Limesonline. Rivista italiana di geoplotica», 09/05/2012.

http://www.limesonline.com/tra-social-media-e-democrazia-non-ce-nessun-legame/3478612 Matiz A., op. cit.

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governi autoritari sarebbero così condannati.

In realtà, ammonisce il sociologo russo, alla base del dilemma del dittatore c’è la convinzione che sia impossibile attivare dei meccanismi di censura in grado di impedire attività politiche su Internet. Tale idea si è rivelata incredibilmente falsa in quanto, come vedremo, i governi hanno imparato ad utilizzare gli strumenti tecnologici a disposizione per limitare l’attività degli utenti in rete, operando online attivamente e non necessariamente ricorrendo alla semplice censura o alla chiusura di siti e social media.

2.4 Controllo e censura grazie ad Internet

Già nell’ambito del mercato Internet può essere usato per esercitare forme di controllo sugli utenti tanto che le grandi compagnie dell’industria digitale studiano a fini commerciali i comportamenti dei propri utenti: Google imposta la pubblicità sulla base delle ricerche effettuate, mentre Facebook tenta di proporre pubblicità più mirate tenendo conto del contenuto delle pagine che godono del nostro “mi piace”. Grazie al monitoraggio dell’attività dei propri utenti in rete, possono personalizzare l’offerta pubblicitaria in modo da renderla sempre più efficace. Ora, come fa notare Morozov, i meccanismi di personalizzazione su cui si fonda Internet 2.0 possono essere tranquillamente usati a scopi tutt’altro che innocui. Si tratterebbe di due sistemi praticamente identici con l’unica differenza che nel primo caso un sistema ci osserva ed impara tutto di noi per mostrarci una pubblicità, mentre nell’altro ci osserva ed impara tutto di noi per impedire l’accesso alle pagine considerate pericolose. Morozov sottolinea che è riduttivo prestare attenzione soltanto alle forme convenzionali di controllo della rete, come il blocco di accesso a certi indirizzi e che la censura su internet guarderà sempre più in profondità nelle cose che facciamo, cercando di carpire abitudini e stili di vita del singolo utente. Sebbene i governi autoritari ci abbiano messo un po’ di tempo a capirlo, oggi sfruttano sempre di più le possibilità offerte dai meccanismi di personalizzazione del web. La Cina, ad esempio, nel 2009 annunciò che tutti i computer del paese avrebbero dovuto installare un software chiamato “GreenDam”. A prescindere dal fatto che il progetto fu poi abbandonato a causa

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dell’enorme mole di critiche, anche internazionali, occorre sottolineare la particolarità di GreenDam che consiste nel suo approccio preveggente alla censura. Andando oltre il semplice controllo meccanico di una lista di risorse proibite, è in grado di analizzare ciò che l’utente sta facendo, tutte le attività in cui è impegnato. Il GreenDam è stato programmato per studiare il comportamento dei computer degli utenti, cercando di impedire loro di svolgere attività giudicate inappropriate, dai siti web ai file di testo e foto. Inoltre, il software può comunicare e condividere ciò che ha scoperto a proposito dell’utente sorvegliato, fornendo così ad altri computer GreenDam presenti in rete, nuove istruzioni per poter scovare contenuti inappropriati. Come scrive Morozov «GreenDam è un sistema di censura con un potenziale immenso per l’auto-apprendimento equilibrato […] Bisogna considerarlo come il cervello globale della censura. Ogni secondo che passa può assorbire i dati che provengono da milioni di utenti che tentano di sovvertire il sistema e usarli immediatamente per rendere queste ribellioni tecnicamente impossibili»13. La Cina, inoltre, ha creato dei siti alternativi sotto il controllo specifico di Pechino, capaci di sostituire le principali piattaforme occidentali: sono sorti così Baidu come alternativo a Google e Sina web come social network alternativo a Twitter. Sono attivi anche commentatori “di professione” favorevoli al governo noti con il nome di partito dei 50 centesimi, presunta somma guadagnata per ogni commento favorevole al governo.

Dunque la libertà di informazione raggiunta grazie alle innovazioni digitali della rete è, nei regimi autoritari, limitata proprio grazie a quella stessa tecnologia. I dittatori hanno la necessità di controllare i propri cittadini per assicurare la continuità e la stabilità del proprio regime, ma se da un lato Internet è considerato un vero e proprio pericolo, perché mezzo di informazione capillare, dall’altro proprio attraverso la rete i sistemi di intelligence sono in grado di censurare, spiare e controllare i cittadini. Ciò avviene, oltre alla Cina, in molte altre nazioni: in Thailandia è vietata qualsiasi forma di critica alla monarchia e a tale scopo è stato creato un nuovo sito “ProtectTheKing.net”; in Arabia Saudita, dove è vietato parlare e trattare argomenti di filosofia, è stato bloccato l’accesso a “Tomaar”, un forum che tratta proprio di filosofia e che stava diventando di grande successo; in Russia il Cremlino adotta una diversa tattica che si potrebbe definire dell’“intrattenimento” in quanto cerca di distrarre tutti coloro che utilizzano l’informazione online, ampliando tutti

13 Mozorov E. L’ingenuità della rete, cit., p. 94.

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gli spazi di intrattenimento online.

L’idea che Internet sia troppo grande per essere censurata è, a detta di Morozov, illusoria: mentre il web diventa sempre più social, i governi sono in grado di costruire macchine da censura potenziate da tecnologie simili a quelle di Amazon o Netlix. Al momento, un limite di questi metodi di censura è rappresentato dal fatto che la navigazione è ancora perlopiù anonima. Tuttavia, continua Morozov, non possiamo essere certi che fra qualche anno sarà ancora così, basti pensare che sul versante commerciale si assiste ad un’integrazione sempre maggiore fra social network e siti web (ad esempio si può cliccare “mi piace” su molti siti) per cui è sempre maggiore la possibilità di far sapere chi siamo ai siti che visitiamo.

I cosiddetti paesi occidentali sono abili nel costruire strumenti in grado di infrangere i firewall dei governi autoritari, ma allo stesso tempo permettono a molte imprese di non rispettare la privacy dei loro utenti. Come scrive Morozov: «nonostante la parola d’ordine attualmente sia difesa della libertà di internet, ci sono poche possibilità che i politici occidentali vogliano impegnarsi a risolvere i problemi creati da loro stessi»14. Anzi, il caso Snowden, cui si è accennato sopra, ha mostrato che anche nelle democrazie occidentali la distinzione tra “tecnologie della libertà” e “tecnologie del controllo” è molto labile e la gravità di quanto accaduto risulta tanto più eclatante quanto più si considera che si è verificato negli Stati Uniti d’America, paese che da sempre si erge a paladino della democrazia e della libertà nel mondo.

Alla luce di queste considerazioni appare ancora più importante il “diritto all’inviolabilità dei sistemi, dei dispositivi e domicili informatici” stabilito dall’art. 7 della Carta dei diritti di Internet, che indica una soluzione circa le controversie derivanti dalla volontà dei governi democratici di autorizzare, senza alcuna forma di tutela, intrusioni informatiche nei computer degli utenti, anche se per finalità di difesa e sicurezza nazionali.

14 Ivi, p. 96.

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CAPITOLO III

Dal privato al sociale

3.1 Self-tracking: monitoraggio del proprio benessere vitale?

Nel V secolo a.C. Socrate faceva suo il motto che campeggiava sul tempio di Apollo a Delfi: “Conosci te stesso”. Oggi sembra che l’uomo dell’era digitale, senza dover fare neppure lo sforzo introspettivo richiesto dall’iscrizione delfica, sia in grado di raggiungere la conoscenza di sé grazie alle nuove tecnologie: da qualche anno gli smartphone e i tablet sono provvisti di strumenti per il cosiddetto self-tracking, cioè strumenti in grado di tracciare, appunto, e monitorare gli indicatori biometrici. La ricerca, anche sui materiali, ha condotto ad uno sviluppo delle tecnologie per la raccolta dei dati che ha permesso la creazione di sensori portatili sempre più piccoli, ma allo stesso tempo precisi e affidabili, ma soprattutto poco costosi e quindi alla portata del grande pubblico. Hanno fatto il loro ingresso sul mercato, dunque, braccialetti, sensori, caschetti, cerotti in grado di calcolare e simulare l’andamento di uno o più parametri vitali, trasmettendo poi i dati ai nostri normali dispositivi mobili.

Il percorso di conoscenza del sé, dunque, è affidato a numeri e statistiche: “Quantifica te stesso” è l’evoluzione 2.0 della massima socratica.

Nato a partire dal 2007 come una passione di pochi, che hanno cominciato a riunirsi per misurare e condividere i dati personali registrati durante le più svariate attività quotidiane, il self-tracking, ossia la quantificazione delle proprie abitudini, ha ben presto trovato due estimatori e, allo stesso tempo, promotori di grande rilievo: Gary Wolf, editor di Wired, e Kevin Kelly, tra i fondatori della rivista. Nel 2010, sul New York Times, è apparso un articolo scritto da Wolf dal titolo The Data Driven Life, diventato il manifesto del movimento Quantified Self (Sé quantificato). I fattori alla base della rapida ascesa del self-tracking, secondo quanto scrive Wolf nell’articolo, sono quattro: i sensori elettronici si sono rimpiccioliti e sono diventati più potenti; se introdotti negli smartphone possono viaggiare ovunque; attraverso i social media la condivisione dei dati è diventata un’azione

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spontanea; grazie al cloud computing è possibile scaricare i nostri dati anche su server lontani dove possono essere intrecciati con dati di altre persone per poter fornire indicazioni ancora più accurate, in una sorta di – come si esprime Wolf – super-intelligenza globale chiamata, appunto, cloud.

A questo si aggiunge lo sviluppo sempre maggiore della gamification, ossia la trasformazione in gioco di comportamenti che appartengono alle normali attività quotidiane e che non hanno niente a che fare con il giocare. Con la gamification ci si muove a cavallo tra vita online, dove si acquistano punti per superare i livelli del gioco, e vita offline dove si compiono quei comportamenti reali necessari ad avere punti virtuali nel gioco online.

Come sottolinea Morozov, l’aspetto della condivisone e quello della “nuvola” sono molto rilevanti in quanto il fatto di rendere pubblici i propri dati può fornire un’ulteriore spinta motivazionale ai partecipanti, oltre a rafforzarne il senso di comunità (come accade in programmi di condivisione dei problemi come quello degli “Alcolisti anonimi”). Inoltre i dati immagazzinati in cloud hanno il vantaggio di occupare poco spazio, di essere facilmente trasferibili e in più possono essere redditizi: «Dimensioni ridotte, mobilità, redditività: sono un oggetto ideale da accumulare nella nostra era ipercapitalistica»15.

Coloro che sostengono il self-tracking sperano che i numeri, in qualche modo, possano mettere in luce la verità su ciò che siamo realmente, svelando l’essenza profonda del sé. Ciò sarebbe possibile perché «la numerazione delle cose consente di eseguire verifiche, confronti, esperimenti. I numeri attenuano la risonanza emotiva dei problemi, ma li rendono intellettualmente più gestibili»16.

Attraverso il monitoraggio delle proprie attività si ricerca una correlazione tra i diversi comportamenti così da poterne individuare le cause. Maggiore il numero di dati a disposizione, maggiormente accurate saranno le statistiche ottenute. Un approccio del genere parte dal presupposto che il sé si possa considerare fatto solo di comportamenti che si ripetono e che, per questo, possono essere prevedibili, quantificabili e modificabili. Tuttavia, a ben guardare, risulta completamente spogliato di una psiche17. Quest’ultima è

15 Morozov E. Internet non salverà il mondo, cit., p. 266.16 Gary Wolf, Tha Data-Driven life, in «New York Times», 28-04-2010.17 Rossetti A. Self-tracking: più o meno potere? 9 settembre 2014

http://albertorossetti.com/2014/09/09/self-tracking-piu-o-meno-potere/

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estremamente complessa e presenta sempre – l’inconscio ne è la prova – qualche cosa che ci sfugge. Per questo non è detto che da un approccio che tenta di ridurre la vita dell’essere umano ad una serie di comportamenti quantificabili, possano derivare necessariamente dei benefici; anzi, in una visione dinamica del sé come qualcosa che si costruisce per gradi, diventa importante considerare non ciò che facciamo o non facciamo, bensì anche come lo facciamo. Non sempre i nostri comportamenti, ma soprattutto le dinamiche ad essi sottese, sono inquadrabili in una cifra numerica. Al riguardo, Morozov fa l’esempio della dieta, cosa apparentemente semplice: se si mangiano cibi ricchi di calorie, si ingrassa; se si mangiano cibi a basso contenuto calorico, si dimagrisce. Dall’evidenza, quasi assiomatica di tale premessa, deriva il successo enorme di vari siti e app che calcolano le calorie del cibo che ingeriamo. Ad esempio, una app per smartphone chiamata Meal Snap consente, attraverso una foto del cibo che stiamo per mangiare, di calcolarne le calorie. Tuttavia pensare alla questione del cibo solo dal punto di vista delle calorie – solo perché rappresentano l’aspetto più facile da computare – può risultare estremamente riduttivo: le app di questo tipo, infatti, non prendono minimamente in considerazione i valori nutrizionali dei cibi, né la loro composizione. Insomma non misurano l’alimentazione, in senso stretto, ma solo il mero dato numerico delle calorie.

Ma la vera ingenuità che muove i fautori del self-tracking è l’idea che i dati che registriamo in seguito al monitoraggio dei nostri comportamenti siano “naturali”, esisterebbero cioè “in natura”, e che l’essere umano abbia solo trovato il modo migliore per raccoglierli e analizzarli. Ciò che si dimentica è il fatto che ogni misurazione è preceduta dalla scelta del metro con cui misurare e che alla base della scelta stessa del metro c’è sempre un impianto teorico all’interno del quale i dati vengono letti e interpretati. Come scrive Morozov: «Il modo in cui noi scegliamo di selezionare la realtà, evidenziandone alcuni elementi e trascurandone altri, avrà un’enorme influenza sul tipo di misurazioni che produrremo»18. Dunque, anche le misurazioni che facciamo con il self-tracking rappresentano solo una modalità con cui vengono raccolte alcune informazioni sul proprio conto: quello che il sé

18 Morozov E. Internet non salverà il mondo, cit., p. 282. A tal proposito Morozov cita Nietzsche in un passo che vale la pena di riportare: «che abbia ragion d’essere una sola interpretazione del mondo, quella in cui voi vi sentire a posto, quella in cui si può investigare e continuare a lavorare scientificamente nel vostro senso (per voi, in realtà, meccanicistico?) che altro non ammette se non numeri, calcoli, uguaglianze, cose visibili e palpabili, è una balordaggine e una ingenuità, posto che non sia una infermità dello spirito, un’idiozia!». Nietzsche F. La gaia scienza, trad. it. di F. Masini, Adelphi Milano 1984, p. 252.

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quantificato restituisce non è che una delle possibili rappresentazione di sé19.

Il fascino sempre crescente del self-tracking può essere compreso solo se si prende in considerazione il narcisismo e la spasmodica ricerca dell’originalità che caratterizzano i nostri giorni: la tracciabilità delle proprie abitudini è un effetto collaterale del tentativo di ostentare la propria immagine cercando di veicolare un’idea di unicità in un mondo in cui ognuno, come sembrò profetizzare Andy Warhol, può avere i suoi quindici minuti di gloria. Il self-tracking consente ai suoi seguaci di immortalare e soprattutto condividere gli aspetti più originali, o almeno creduti tali, della loro individualità. Insomma: «se non sei originale, semplicemente non stai tenendo conto di un numero sufficiente di indicatori; potremo anche pensare tutti le stesse cose e guardare tutti gli stessi video virali, ma di certo le nostre feci non sono identiche»20.

3.2 La privacy è solo un’illusione

La vera peculiarità del self-tracking, secondo Morozov, consiste nel fatto che, paradossalmente, la conoscenza di sé non è affatto il fine ultimo. La cosa più importante è che il monitoraggio dei dati possa offrire benefici reali. Ad esempio, attraverso il monitoraggio delle nostra ricerche, Google mira ad offrirci pubblicità mirate e personalizzate, con lo scopo di riscuotere un maggiore tasso di gradimento, oltre che semplificarci la vita con il completamento automatico delle chiavi di ricerca. In qualche modo, i presunti vantaggi del self-tracking potrebbero indurre a far sì che ci si domandi perché non tutte le applicazioni registrano i nostri dati calibrando le loro risposte sulle nostre esigenze individuali. Insomma il dibattito sulla privacy, fa notare Morozov, potrebbe essere capovolto: non ci si lamenterebbe più del fatto che ogni nostra azione sia registrata, ma del fatto che non lo sia abbastanza, impedendo un miglioramento delle nostre vite. Anzi, se gli utenti possono autotracciarsi, allora possono decidere cosa fare dei propri dati: la preoccupazione sulla privacy si sposta dal come salvaguardarla al come farla fruttare, attuando così una vera e

19 Rossetti A. op. cit.20 Morozov E. Internet non salverà il mondo, cit., p. 268.

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propria invasione della logica di mercato nelle discussioni sulla privacy. In tal modo risulta svantaggioso proteggere i nostri dati personali, anzi la stessa privacy diventa un servizio negoziabile. Nicholas Felton, fondatore di Daytum.com – una comunità di 80.000 utenti che consente di monitorare i dati personali condivisi automaticamente dai suoi utenti – ha dichiarato che «la privacy è perlopiù un’illusione, ma se ne può avere quanta se ne vuole, se si è disposti a pagarla»21. Il filosofo Glen Newey ha definito questa capacità di mercificare la privacy come una progressiva “ryanairizzazione della vita sociale”, ossia la scomposizione di operazioni normalmente gratuite in micro pacchetti fatturabili, in riferimento ad una proposta da parte della compagnia Ryanair di sottoporre a pagamento anche le soste per la toilette.

Addirittura, sulla scia della possibilità di lucrare grazie ai dati personali, sono nate diverse start-up note come “casseforti digitali” che mirano a rassicurare gli utenti sulla perdita o rivelazione dei dati e che permettono anche di gestirli sul mercato, scegliendo di renderli noti in cambio di vantaggi e sconti. Se si guardasse al di là del vantaggio del singolo, si vedrebbe che la diffusione dell’autodisvelamento potrebbe nascondere delle insidie anche per coloro che non conoscono nemmeno l’esistenza di queste casseforti: man mano che aumentano le persone che decidono di fare self-tracking, aumenta la difficoltà per gli altri di rifiutarsi di fare altrettanto. Morozov illustra tale questione con un semplice esempio: teoricamente tutti hanno diritto a non avere un telefono cellulare o un account Facebook, ma in pratica chi non ne è in possesso è visto come una persona disadattata, se non addirittura pericolosa. Se, fino a qualche anno fa, la scelta di non avere un profilo Facebook era vista come una forma di luddismo digitale o come un’espressione di voluto anticonformismo, oggi è vista come sintomo di una personalità sospetta, che ha qualcosa da nascondere. Infatti, riporta Morozov, dopo la strage di Aurora – avvenuta in occasione della proiezione della prima de Il cavaliere oscuro, il ritorno – il giornale tedesco “Der Tagesspiegel” sottolineò che James Holmes, autore di tale strage, e Andres Behring Breivik, responsabile della strage del 2011dell’isola di Utøya, avevano in comune la mancanza di un profilo Facebook.

Tutta questa condivisione (forzata?) rischia di portare a quello che viene definito uno

21 Cit. in ivi, p. 271.

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“sfaldamento della privacy”: «né le tecnologie per la salvaguardia della privacy né le leggi più restrittive – cardini del tradizionale attivismo in difesa della privacy – saranno più sufficienti, perché sarà consigliabile condividere anziché proteggere i nostri dati […] Il tentativo di salvaguardare la privacy [può] essere visto come un indizio di colpevolezza»22.

Scott Peppet, docente di diritto alla Law School della University of Colorado, è dell’opinione che la diffusione del self-tracking ci costringerà a creare il nostro “prospetto personale”, una raccolta assortita di tutta una serie di casseforti digitali contenenti le nostre informazioni. Chi conduce uno stile di vita sano, è in buona forma e in ottima salute, guida in modo virtuoso ed è produttivo sul lavoro, non avrà problemi a condividere i suoi dati, ma il problema sorge per coloro che non lo sono, per coloro che sono malati o sono in difficoltà economiche. Il rischio è quello di mettere in evidenza il fatto che certe persone non fanno attività fisica perché non possono permettersi la retta della palestra; oppure sono in sovrappeso perché hanno un’alimentazione disordinata dovuta ai vari lavori “scombinati” fra loro. Insomma, sembrerebbe che il self-tracking sia un’esclusiva dei ricchi in buona salute e, in tal senso, rischia di essere un evidenziatore di disuguaglianze sociali.

Quanto più aumentano le persone che fanno propria la mentalità del “monitora-e-condividi” tanto più coloro che non vogliono prendervi parte pagheranno delle conseguenze sul piano sociale. A tal proposito, così si esprime Peppet:

«La tua scelta di autoquantificarti (per gusto personale o per profitto) ha pertanto profonde implicazioni, se costringe me a quantificarmi sotto la pressione dello sfaldamento. E se io non fossi uno di quelli che vuole conoscere tutti questi dati in tempo reale su se stesso, mentre intorno a me si sviluppa un’economia che richiede queste misurazioni? E se la quantificazione fosse un tabu per la mia costituzione estetica o psicologica? E se la quantificazione fosse in conflitto con l’architettura interiore su cui io ho costruito la mia identità e il mio modo di conoscere?»23

Per questo, afferma Morozov, se consideriamo ancora la privacy come una componente essenziale per condurre una vita prospera, allora bisogna sottoporre la decisione di fare self-tracking ad una valutazione morale molto più articolata e complessa di quanto abbiano fatto finora “gli evangelisti del sé Quantificato”.

22 Ivi, p. 275.23 Peppet S. R. Unraveling Privacy: the personal prospectus and the threat of a full disclosure future, cit in. Ivi, p. 279.

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Come fa notare Rodotà, anche se può sembrare eccessivo dire che “noi siamo i nostri dati”, è certamente vero che siamo sempre più conosciuti da soggetti pubblici e privati attraverso i dati che forniamo e che, ormai, la nostra rappresentazione sociale è sempre più affidata ai nostri profili digitali e alle informazioni che ne sono alla base, sparse nelle varie banche dati. Da questo punto di vista la tradizionale nozione di privacy – nata come diritto individuale a escludere gli altri dalla propria sfera privata – non è più adeguata ai profondi mutamenti determinati dalla rivoluzione digitale, anzi è stata da quest’ultima trasformata diventando, come si è visto, sempre più luogo di scambi, di condivisione di dati personali, di informazioni. In questo senso la tutela della privacy, adattandosi al mutato scenario dell’era digitale, si sta sempre più strutturando come diritto di ogni persona al mantenimento del controllo sui propri dati, ovunque essi si trovino. Ciò proprio in virtù del fatto che ogni persona cede continuamente dati che la riguardano e la pura e semplice tecnica del rifiuto di fornire le proprie informazioni, implicherebbe l’esclusione da tutta una serie di beni e servizi, nonché da un numero crescente di processi sociali. Per questo motivo, come scrive Rodotà: «divenute entità disincarnate, le persone hanno sempre più bisogno di una tutela del loro “corpo elettronico”»24. Si tratta dell’invocazione di un habeas data, evoluzione di quelle garanzie personali che si sono storicamente sviluppate a partire dall’habeas corpus.

Affinché non si sgretoli, la nozione di privacy deve arricchirsi, configurandosi, in nome di un diritto all’autodeterminazione informativa, come diritto alla protezione dei dati personali. In tale direzione viaggia la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea il cui art. 8, che riconosce proprio il “diritto alla protezione dei dati personali”, è separato dal diritto “al rispetto della propria vita privata e familiare” riconosciuto dall’art. 7. Se in questo caso ci troviamo di fronte ad una tutela statica che si limita ad escludere invasioni nella sfera privata, in quello la tutela è dinamica in quanto segue i dati nella loro circolazione e fissa regole sulle modalità del loro trattamento, nonché concrete forme di intervento. Inoltre, come sottolineato da Rodotà, i poteri di controllo e intervento non sono attribuiti solo ai diretti interessati, ma sono affidati ad una autorità indipendente, come sancito dall’art. 8.3: da una dimensione prettamente individualistica, la tutela diviene una responsabilità pubblica25.

24 Rodotà S. Il mondo nella rete Quali i diritti, quali i vincoli, cit., p. 30.25 Ivi, p. 32.

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3.3 La disintossicazione digitale

Nella società dell’iperconnessione, tuttavia, si sta facendo sempre più largo una pratica conosciuta come digital detox, cioè disintossicazione digitale. Nata negli Stati Uniti, in particolare proprio nella Silicon Valley, si sta diffondendo con sempre maggiore successo anche in molti altri paesi. Consiste in un periodo di tempo durante il quale una persona rinuncia all’uso di qualsiasi dispositivo elettronico in grado di connettersi alla rete, così da condurre uno stile di vita a contatto con la natura, che permetta di ridurre lo stress, di concentrarsi sulle interazioni sociali reali e di curare quel costante senso di FOMO (fear of missing out), ossia la paura di restare esclusi perdendosi ciò che accade sul web. Insomma, il fine ultimo è la mindfulness, consapevolezza, o meglio l’utilizzo consapevole della rete.

Nel 2012 – proprio grazie ad un’esperienza di “scollegamento” dalla rete, in seguito ad un viaggio in Cambogia – il californiano Felix Levi fonda un’azienda, chiamata proprio “Digital Detox”, con lo scopo di vendere vacanze “no hi-tech” con la promessa «di disconnettersi per riconnettersi»: disconnettendoci dai nostri dispositivi, ci riconnettiamo con noi stessi; gli uni con gli altri; con le nostre comunità; con il mondo intorno a noi; diventando più presenti, autentici, compassionevoli e comprensivi26.

Ormai sono sempre più numerosi anche gli hotel che cercano di seguire questa nuova tendenza, chiedendo ai clienti di lasciare tutti i dispositivi elettronici alla reception. Ad esempio il Quincy Hotel di Washington Dc offre l’opzione be unplugged, mentre alle Antille hanno pensato di consegnare ai clienti che accettano di lasciare a casa tutti i dispositivi, una sorta di libretto di “sopravvivenza senza tecnologia”, unitamente ad un coach che offre aiuto extra, in caso di difficoltà27.

Infine si assiste anche ad una proliferazione di applicazioni in grado di monitorare il tempo trascorso connessi e limitare la permanenza degli utenti in rete bloccando le altre

26 http://digitaldetox.org/about/ (Traduzione nostra).27 Angela Manganaro, Come disintossicarsi dal web. Quanto vale e cosa c’è dietro la disconnessione digitale, in «Il Sole 24 Ore» 10/03/2013.

http://www.ilsole24ore.com/art/tecnologie/2013-05-10/boom-digital-detox-quanto-120747.shtml?uuid=Ab7ckguH

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applicazioni del telefono, o addirittura la stessa connessione alla rete.

L’aspetto curioso di questa vicenda, secondo Morozov, è che a questa nuova moda del “sabato digitale” hanno aderito anche guru della rete come Mark Zuckerberg e il presidente di Google Eric Schmidt, secondo il quale occorre stabilire quando essere on e quando, invece, essere off, tanto da aver preso la decisione di non tenere con sé i dispositivi tecnologici durante i pasti. Emblematico anche il caso di Arianna Huffington, una delle maggiori promotrici della mindfulness, che con il suo blog ha lanciato una app per rilevare lo stress, chiamata Gps for the soul, Gps per l’anima28. Tale possibilità di disconnessione, offerta dalla società dell’iperconnessione risulta quasi paradossale, sospetta, soprattutto se consideriamo che la fonte degli introiti dei colossi della comunicazione digitale è proprio il nostro essere costantemente connessi e che – dal momento che ogni nostro clic è estremamente prezioso – loro interesse primario è far sì che gli utenti siano sempre attaccati ai monitor dei propri dispositivi, sviluppando una dipendenza da Internet. In realtà, come si è visto, maggiore il tempo trascorso online sulle loro piattaforme, maggiore la possibilità di monitoraggio delle nostre attività. In tal modo possono profilarci e monetizzare quella interazione attraverso pubblicità personalizzate.

Dietro questa logica – come afferma Morozov nel corso del suo intervento al “Wired Next Fest” – si nasconde la prima insidia: non solo accettiamo l’idea che serva un prodotto, peraltro sempre proveniente dalla Silicon Valley, per “disintossicarci”, ma accettiamo anche che il problema sia una mera questione individuale. Insomma, il trascorrere troppo tempo sui social media deriva dalla mancanza di controllo che l’individuo è in grado di esercitare su stesso29. Dunque, lo stress causato dall’essere in rete viene attribuito a una qualche forza autonoma e inesorabile – modernità, progresso, tecnologia – e noi siamo gli unici colpevoli in quanto siamo incapaci di reagire o, peggio ancora, sui nostri smartphone o tablet non abbiamo app contro lo stress. Questa strategia, continua Morozov, rappresenta

28 Morozov E., The mindfulness racket, in «New Republic» 24/02/2014.

https://newrepublic.com/article/116618/technologys-mindfulness-racket

trad. it. di Sepa M., in «Corriere della Sera». http://lettura.corriere.it/i-social-media-sono-come-le-slot-machine/29 «Il rehab ai tempi dei social media: Evgeny Morozov al Wired Next Fest»

http://www.wired.it/internet/social-network/2014/05/17/il-rehab-ai-tempi-dei-social-media-evgeny-morozov-al-wired-next-fest/

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la via, una volta esaurito il periodo di detox, per rinvigorire la nostra partecipazione all’imperativo categorico del nuovo millennio: “condividi tutto”. A ben guardare, dunque, la riconnessione promessa dalle pratiche di digital detox si riferisce ad una rinnovata vitalità virtuale: tornati online, saremo carichi e pronti ad esaurirci di nuovo.

Questo approccio individualistico al problema comporta una conseguenza ancora più grave: si diffonde l’idea secondo cui l’unico atteggiamento ragionevole sarebbe rinunciare a ogni tentativo di controllo e adottare un comportamento di distaccata accettazione del mondo così com’è, cercando di ritagliarsi al suo interno la propria oasi di pace. La ricerca della mindfulness potrebbe consentire, secondo i suoi predicatori, la conciliazione di spiritualità e capitalismo. In realtà il motivo per cui i manager abbracciano la mindfulness è lo stesso per cui accolgono le altre forme del “nuovo spirito del capitalismo” – si tratti di yoga sul posto di lavoro o di infradito alle riunioni: è un modo di ri-confezionare l’alienazione come emancipazione30.

Occorrerebbe, invece, sottoporre anche i social media alla stessa analisi critica che è stata applicata alla progettazione delle slot machine dei casinò di Las Vegas: «come ha mostrato Natasha Dow Schüll nel suo eccellente libro Addiction by Design: Machine Gambling in Las Vegas, mentre gli operatori dei casinò vogliono farci credere che la dipendenza dal gioco sia il risultato di una nostra debolezza morale o di qualche squilibrio biologico, sono loro ad aver progettato le macchine in modo da creare dipendenza. Nei social media – come nel caso delle slot machine o del fast food – la dipendenza è indotta, non è naturale»31.

30 Morozov E., The mindfulness racket, cit.31 Ibidem.

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CONCLUSIONI

Come si è visto, sono diversi i pericoli e le insidie che Internet può riservare, soprattutto se si assume un atteggiamento acritico tendente quasi a divinizzare la rete. Rifiutarsi di riconoscere le problematiche e le questioni che il mondo digitale solleva è, dunque, pericoloso, ma – come fa notare Morozov – ancora più pericoloso è quell’atteggiamento che pone la tecnologia al centro del problema e della soluzione, e che limita le capacità di intervenire sulle radici del fenomeno.

L’atteggiamento di fondo assunto nei confronti degli eventuali problemi che nascono dall’utilizzo di Internet, è quello di proporre reazioni individuali che non prendono minimamente in considerazione modelli alternativi a quello basato sugli introiti pubblicitari, e dunque sul monitoraggio e la raccolta incessante delle nostre attività online. Lo si è visto per il detox – con la nascita di app che limitano l’utilizzo di altre app – ma lo stesso è accaduto, come rileva Morozov, in risposta alle questioni sollevate dalle rivelazioni di Edward Snowden: sono state ideate app e software per cifrare le nostre comunicazioni, come se la politica fosse totalmente impotente nei confronti della tecnologia di controllo32. L’aspetto, probabilmente, più grave derivante dal connubio di “Internet-centrismo” e “soluzionismo” è proprio l’atomizzazione della società digitale: nell’era della connessione e della condivisione in tempo reale, paradossalmente, le persone non sono più in grado di trovare risposte collettive ai problemi posti dalla rete. Ognuno ripiega sul proprio spazio individuale, restando delle mere unità atomiche che non riescono a legarsi in alcuna “specie chimica”. Tuttavia gli esseri umani sono in possesso di uno strumento, per sua natura collettivo, in grado di trasformare la realtà: la politica. Sono proprio le soluzioni politiche, afferma Morozov, ciò di cui abbiamo bisogno: ad esempio in Francia e in Germania, sono state imposte delle restrizioni sulla disponibilità da parte dei lavoratori a rispondere alle email aziendali dopo l’orario di lavoro. Occorre, dunque, adottare un modello giuridico – ben più radicale, che implichi, in tal caso, un ripensamento delle politiche del lavoro.

32 «Il rehab ai tempi dei social media: Evgeny Morozov al Wired Next Fest», cit.

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A ben guardare il soluzionismo tecnologico, promosso dalle aziende della Silicon Valley, nasconde un atteggiamento reazionario che induce ad accettare lo status quo, gettandosi a capofitto nel «consumismo informativo»33. Secondo Morozov, invece, dovremmo essere noi, in quanto collettività, a regolamentare il modo in cui le tecnologie digitali possono influenzare la nostra vita. In fondo, come ricorda il sociologo russo, è quanto già successo nel corso dell’ultimo secolo, quando le città iniziavano ad essere invase dai rumori dell’industrializzazione: se da un lato si ponevano coloro che li accettavano come connaturati allo sviluppo tecnologico – e dunque, come segno inevitabile del progresso – chiedendo all’uomo di adattarsi; dall’altro, gli attivisti si sono mobilitati per ottenere una risposta legislativa, testimoniando che si può e si deve far sì che la tecnologia si adatti all’uomo e non viceversa.

Il punto, dunque, non è demonizzare la tecnologia, assegnandole il ruolo di nemico giurato, ma di avere il giusto atteggiamento critico nei suoi confronti, comprendendo che è possibile pensare modelli alternativi a quello attuale in cui la privacy è diventata una commodity, un bene acquistabile sul mercato delle nuove tecnologie. Parafrasando la massima kantiana, bisognerebbe pensare l’uomo come un fine, non come mezzo della lex mercatoria.

Proprio nella direzione di una risposta politica alle questioni sollevate da Internet vanno gli sforzi dei vari gruppi di attivisti, nonché, come si è visto, della presidenza della Camera dei deputati italiana, di elaborare una Carta dei diritti di Internet.

Tuttavia occorre, come fa notare Rodotà, una iniziativa “costituzionale” nuova cha attinga dalla rete le sue modalità di costruzione. Un esempio può essere rappresentato dalla vicenda dell’Internet Bill of Rights, una proposta nata in occasione delle iniziative promosse dall’Onu sulla società dell’informazione e che si è venuta formando attraverso le idee elaborate da gruppi spontanei e informali, nell’ambito di un lavoro svolto da una pluralità di attori, secondo un modello definito, appunto, multistakeholder e multilevel. Tali gruppi hanno poi trovato forme di unificazione e metodi comuni che si sono manifestati negli Internet Governance Forum, promossi ancora una volta dall’Onu.

33 Cfr. Morozov E., Information Consumerism and the Price of Hypocrisy, 2013.

http://www.faz.net/aktuell/feuilleton/debatten/ueberwachung/information-consumerism-the-price-of-hypocrisy-12292374.html

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La scelta della formula del Bill of Rights è simbolica in quanto vuole evidenziare che non si vuole limitare la libertà in rete, ma proteggerla attraverso il riconoscimento di principi e diritti “costituzionali”, i quali però possono essere calati dall’alto. Come sottolinea Rodotà, conformemente alla natura della rete, l’Internet Bill of Rights deve essere il risultato di un processo di costruzione orizzontale, in cui si instaurano relazioni peer-to-peer, trasferendo nel settore della regolazione giuridica procedure tipiche del “metodo wiki”, fatto di progressivi aggiustamenti34. Per quanto riguarda le possibili obiezioni – come, ad esempio, quelle su chi sia il legislatore, o su quali giudici applicheranno i diritti proclamati – Rodotà rileva che si tratta di osservazioni fatte ancora utilizzando i tradizionali concetti della modernità politica. Ciò testimonia che il pensiero politico e giuridico non è in grado di elaborare nuove categorie interpretative adeguate a pensare l’attuale scenario di progressiva crisi della sovranità nazionale da un lato, e di complessa nascita di una organizzazione sovranazionale, dall’altro. In tal senso l’Internet Bill of Rights esprime un diverso modello culturale che nasce proprio dalla consapevolezza che Internet è un mondo senza confini. Tale modello, scrive Rodotà:

«Potrà favorire la circolazione delle idee e potrà subito costituire un riferimento per quella folla di giudici che, nei più diversi sistemi, affrontano ormai gli stessi problemi posti dall’innovazione scientifica e tecnologica, dando voce a quei diritti fondamentali che rappresentano oggi l’unico potere opponibile alla forza degli interessi economici»35

L’aspetto più rilevante di questa vicenda è che le istituzioni tradizionali non sono rimaste estranee a tale processo, anzi stanno provando ad offrire il proprio contributo: l’Onu si presenta come punto di riferimento di tale iniziativa e il Parlamento europeo, prendendo atto di un’iniziativa non istituzionalizzata, in una risoluzione del 2011 ha fatto esplicito riferimento all’Internet Bill of Rights. Se è vero, come fa notare Rodotà, che non la si può enfatizzare, è d’altra parte vero che tale vicenda non può essere trascurata visto che su Internet vi è una proliferazione di “dichiarazioni dei diritti” a testimonianza di una sensibilità costituzionale diffusa, che non può essere ignorata visto che è spinta da soggetti e procedure diversi da quelli tradizionali. Il che rende sempre più impellente l’esigenza

34 Rodotà S., op. cit., p. 62.35 Ivi, p.64.

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di affrontare il problema della “costituzione di Internet” e il tema della libertà ad essa collegata.

Per potersi confrontare con i processi reali e con le trasformazioni determinate dalla tecnologia, evitando una sterile e passiva accettazione dell’esistente, occorre un ripensamento dello spazio politico in cui mettere a punto nuovi strumenti in grado di ridefinire i principi fondativi delle libertà individuali e collettive.

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STEFANO MASULLO

Classe 1964, laurea in Scienze Economiche e Master in Comunicazione, Marketing e Finanza, Cavaliere dell’Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme e dell’Ordine Costiniano di San Giorgio, Custode delle Insegne e Componente del Collegio Magistrale dell’Ordine dei Santi Contardo e Giuliano l’Ospitaliere, attivo nel settore finanziario dal 1984, già Rappresentante alle Grida alla Borsa Valori di Milano, autorizzato CONSOB, e Broker registrato al NASD a New York, è specializzato nella consulenza e gestione di patrimoni mobiliari ed immobiliari, nella finanza di impresa, nella pianificazione fiscale, nella comunicazione finanziaria e nella formazione.

Ha iniziato a lavorare nella società Consulenti Finanziari SpA, creata da Pompeo Locatelli, in seguito, ha collaborato, per oltre un lustro, nello Studio di Agenti di Cambio Leonzio Combi, costituito a Milano nel 1907, uno dei più importanti in Italia. Dal 1995 fino alla vendita, avvenuta nel 2006, fondatore, presidente e azionista di riferimento, del gruppo di consulenza ed intermediario finanziario ex articolo 106 T.U.B., autorizzato Ufficio Italiano Cambi, Opus Consulting S.p.A., capitale sociale 625.000 euro.

Socio fondatore, nel 1996, e tuttora segretario generale ASSOCONSULENZA Associazione Italiana Consulenti di Investimento la prima ed unica associazione di categoria riconosciuta a livello istituzionale in Italia; è inoltre socio fondatore, nel 2008, e segretario generale ASSOCREDITO Associazione Italiana Consulenti di Credito Bancario e Finanziario di cui è presidente Luigi Pagliuca, già presidente del Collegio di Milano e Lodi dei Ragionieri Commercialisti.

Rettore Università ISFOA, autore di oltre 300 pubblicazioni e di 23 best sellers aziendali, di cui uno, nel 1999, adottato dall’Università Bocconi di Milano; opinionista presso i più importanti media di settore, quali CNBC Class Financial Network e Bloomberg Television, è stato chiamato come relatore, in Italia ed all’estero, da prestigiose istituzioni quali Marcus Evans, Istituto di Studi Bancari, ISTUD, IUAV Università di Venezia, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano; nel 2002 ha realizzato il primo libro dedicato al Consulente di Investimento.

Autore nell’ottobre del 2001, del primo testo dedicato al Bahrein, è direttore editoriale delle prima rivista svizzera di finanza islamica, Shirkah Finance, risultando uno dei principali esperti italiani del settore.

Socio fondatore e direttore responsabile della testata internet di finanza www.trend-online.com, con oltre 80.000 I Like su Facebook e 2,5 milioni di visitatori annui, risulta essere la più importante ed influente testata giornalistica on line di finanza operativa, ranking Alexa in Italia pari a 1.669 ed a livello mondiale pari a 16.069, fondata nel 2000.

Socio fondatore e direttore responsabile di Golf People Club Magazine, rivista leader assoluta ed incontrastata nel proprio segmento di riferimento, Golf-Business & Lifestyle, con oltre 250.000 copie diffuse tra la versione cartacea e quella digitale, destinata agli appartenenti alla specifica classe sociale degli high net worth individuals, cioè individui che possiedono un patrimonio netto globale personale, immobile di residenza escluso, superiore al milione di dollari; in passato vice direttore del magazine dedicato al lusso World & Pleasure Magazine e direttore editoriale Family Office: Patrimoni di Famiglia, la prima rivista italiana multimediale, internet e cartacea, specializzata nella tutela e conservazione dei patrimoni di famiglia.

Ha svolto incarichi direttivi o consulenziali in gruppi bancari, assicurativi, finanziari, industriali quali: Norwich Union, CIM Banque, Broggi Izar, Henderson Investor, Fleming, Corner Bank, Lemanik, Nationale Nederland, Banca Popolare Commercio Industria, 81 SIM Family Office SpA, Prudential Vita, Banca Popolare di Milano, Cassa di Risparmio di Cento, Cassa di Risparmio di Perugia, Société Bancarie Privée, Liberty Financial, FMG Fund Marketing Group, Credito Italiano, IW Bank, ING Group, Colomba Invest SIM, MPS Banca Personale.

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