Onnigrafo Magazine - Volume 1, 13 giugno 2016

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Onnigrafo Magazine è una rivista letteraria, nella quale batte il cuore di un antologico. In questo primo numero troverete cinque romanzi inediti di cinque scrittori emergenti.

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Sommario

TARIFFE PUBBLICITARIEIn vigore dal 13 giugno 2016L’acquisto degli spazi pubblicitari è soggetto alla loro effettiva disponibilità mensile. La redazione si riserva inoltre di non accettare comunicazioni ed advertisement contrari alla linea editoriale e alla policy aziendale. Per ulteriori chiarimenti contattare la redazione all’indirizzo [email protected] interna € 75,001/2 Pagina interna € 50,001/3 Pagina interna € 35,00Interno romanzi (dimensioni variabili) € 40,00Redazionali Pubblicitari € 50,00

In redazioneEnrico Giacomelli – Editore

Roberta Filippi – DirettoreMirko Biagiotti – Curatore

Alice Giacomelli – Community Manager

CreditiIllustrazione di copertina

progettazione grafica ed impaginazionea cura di Mirko Biagiotti

Illustrazioni internea cura di Mirko Corridori

Revisione testia cura di Filippo Gliozzi

Onnigrafo Magazine è un supplemento alla testata giornalistica MaremmaNews, regolarmente

depositata al tribunale di Grosseto al nr. 939 registro stampa 1/00. Proprietà isEsoftware.

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dei singoli inserzionisti.

3 EditorialiCoesione tra Lettore e Scrittore

Apriamo il sipario

4 La stella di SalemCapitolo I — Viaggio a Sereth (parte 1)

8 Cronache di OscailtCapitolo I — Attesa

12 La Confraternita Dell'InfinitoFascicolo 01 — L'odore di Menta

16 Scatole CinesiRacconto Autoconclusivo

20 La figlia di CainoCapitolo I — Valigie

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EditorialiCoesione tra Lettore e Scrittore

Apriamo il sipario

Scrivere è passione che per

molti diventa professione.

Ma per saper scrivere è ne-

cessario leggere, e leggere

tanto e di tutto. Perché è

nei libri che spesso si tro-

va l’ispirazione, l’idea, quel

qualcosa che fa scattare in

molti di noi il desiderio di

scrivere, raccontare i propri

pensieri, condividere con

gli altri i propri racconti, e

leggere ciò che gli altri scri-

vono. C’è un luogo in cui

tutto questo è possibile, in

cui scrittura e lettura si in-

contrano, ed è Onnigrafo.

Onnigrafo è un modo nuo-

vo di presentare giovani

scrittori, di mostrare at-

traverso la letteratura gli

interessi di questa società

contemporanea così presa

dal business, dagli affari,

dall’apparire e spesso non

più capace di apprezzare il

valore e il piacere della let-

tura. Il web è oggi un mez-

zo di comunicazione veloce

che permette di raggiun-

gere mete lontane, e così

come un autore cavalca la

fantasia per raccontare so-

gni e desideri, le sue pagine

cavalcano la rete e raggiun-

gono luoghi visti e vissuti, o

anche solo immaginati, per

essere lette da chiunque.

Ecco allora che Onnigrafo è

collaborazione, scambio di

idee e opinioni per condivi-

dere la passione per tante

storie diverse da leggere in

ogni parte del mondo. On-

nigrafo è l’opportunità di

raccontare le proprie storie.

Ogni romanzo, ogni raccon-

to racchiude idee e pensie-

ri del suo autore che, una

volta trasformati in parole,

diventeranno sogni e desi-

deri di tutti.

In Onnigrafo troverete tan-

ti scritti inediti, espressio-

ne di personalità diverse,

giovani autori che, noi ce

lo auguriamo, potranno di-

ventare i grandi di domani.

Di volta in volta, argomenti

che seguono una tematica

comune lasciandoci scopri-

re, nel piacere della lettu-

ra, personaggi e situazioni

sempre nuove. In questo

primo numero racconti di

spade e di magia, il fantasy

che si intreccia con l’horror,

e poi ancora visioni, viaggi

in mondi e culture lontane,

sogni, e tante storie tutte

da scoprire…

Roberta FilippiDirettore responsabile

Chi può dire di conoscere il pote-re dell’immaginario?

La fantasia genera mondi e universi a cui è difficile credere. Dentro di noi sono nitidi, fanta-stici e immensi. Leggendo un li-bro percepiamo il potere delle parole, che, se ci invade, crea una realtà astratta. Chi scrive è sognatore e architetto della vita onirica; sa tirar fuori il bambino presente dentro di noi, che gioca

con i nostri ideali e, pizzicando le corde di una chitarra, suona una musica suadente che solo noi ri-usciamo a percepire, con un sor-riso o una lacrima.

La nostra speranza è quella di suscitare l’interesse di chi ha dav-vero voglia di sognare, di riuscire a far sentire il sapore delle parole che scivoleranno veloci su questi brillanti fogli digitali. Di spingere chi ci leggerà a investire un po’

del proprio tempo nella lettura e farci sentire i propri plausi o i propri fischi, come il pubblico di un’opera teatrale messa in sce-na ogni mese, sempre uguale e sempre diversa.

Mirko BiagiottiCuratore Editoriale

Onnigrafo Magazine – 3

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Capitolo I — Viaggio a Sereth: Parte ILa stella di Salem

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Onnigrafo Magazine – 5Onnigrafo Magazine – 5

Capitolo I — Viaggio a Sereth: Parte I

La stella di Salem

Nato il 10 gennaio 1978, resi-dente nella provincia di Gros-seto, ha sempre avuto sotto gli occhi campagne e mare. Ama leggere fin da piccolo, cosa che lo aiuterà ad avere un rapporto fruttuoso con la lingua scritta.

Affascinato dai racconti con spada e magia, prima con i libri game, poi con racconti veri e propri, incontra l'inar-rivabile Tolkien solo al liceo scientifico. In quel periodo si delinea anche la passione per il gioco di ruolo cartaceo, per i videogiochi, per il Giappone e la sua cultura, vissuta at-traverso manga e anime. Da lì a voler andare alla famosa fiera di Lucca il passo è bre-ve. E proprio lì scopre che i giochi di ruolo hanno anche un'altra declinazione: il gio-co di ruolo dal vivo. Per anni rimarrà un desiderio finché un giorno, nel lontano 2007, subirà il battesimo di fuoco, innamorandosi perdutamen-te di questa peculiare mecca-nica.

Un breve periodo di pausa in cui diventa operatore so-cio sanitario e poi l'occasio-ne fortuita di poter giocare di ruolo dal vivo ancora una volta, ma in modo massivo, con migliaia di altre persona: è amore.

Quando non veste i panni di Rios, il suo alter ego, aiu-ta nel ristorante di famiglia e scrive storie per diletto.

Alessio Serra

Il sole iniziò a sparire tra le colline; l’unica ragione che spronava la figu-ra stretta in un mantello ad allungare i passi era la voglia di arrivare in fretta a casa. Il lago che segnava l’ingresso della sua valle non era in vista, il che significava che ci volevano ancora diverse ore di cammino. Che si fosse perso? La figura ammantata cacciò il dubbio scrollando la testa. Per giunta, con la notte incombente, il freddo cominciava a farsi sentire e il mantello non gli bastava più. Sospirò e chiuse gli occhi, immaginando un camino acceso e una bella zuppa calda, suoni di menestrelli di taverna e grida dell'oste che, dalla cucina, chiede se le pietanze sono pronte. Quan-to lo desiderava…

Una vampata di calore e un colpo secco lo presero alla sprovvista: era in piedi, davanti a un tavolo semplice e massiccio, con uno sgabello rove-sciato proprio davanti alle sue gambe. Un eloquente dolore allo stinco sinistro fece capire all’uomo che non si era addormentato. Un ragazzino, passando, lasciò un piatto di stufato sul tavolo, come se lo avesse ordina-to il nostro sbigottito e infreddolito avventore.

Sconcertato e totalmente allibito, l’uomo si focalizzò sull’ambiente circostante. Era in una taverna: la struttura era tutta in legno di quercia, grandi tavoli e panche si srotolavano, in un caos accogliente, lungo tutta la sala, ai cui lati, in due enormi bracieri di pietra circolari, crepitavano due fuochi vivaci che riscaldavano l’aria e mandavano i loro fumi dentro enormi cappe di rame lavorato che salivano su, probabilmente al piano superiore.

La locanda era piena: su un palco in fondo alla sala, alcuni menestrel-li rallegravano l’atmosfera, viaggiatori e avventurieri sparsi tra i tavoli e attorno ai bracieri facevano arrostire pezzi di carne sulla fiamma viva o sorseggiavano del buon vino, parlottando. Il ragazzino che stava serven-do, una vera scheggia tra i tavoli, andava e veniva dalle cucine, nascoste dietro due grandi botti di birra. Da lì una voce prepotente, che sembrava femminile, gridava ordini perentori.

La fame ebbe la meglio sul bisogno di porre domande e la necessità di avere risposte e, col suo fare indipendente, ricordò all’uomo col mantello dello stufato che lo stava aspettando. L'uomo cedette: prese lo sgabello, lo rizzò e si mise a sedere.

Mentre lo stufato allietava palato e stomaco dell’uomo, la sua mente cercò di capire dove fosse finito. Non aveva memoria di taverne lungo la sua strada verso casa, né tantomeno di essere entrato e di aver ordinato. Cercò di focalizzarsi sulla voce femminile proveniente dalla cucina, sen-za successo. Nella sua testa non scattava alcunché, nemmeno scorrendo i visi degli avventori, il loro abbigliamento o la loro cadenza. Tutti, chi più chi meno, davano l’impressione di essere spaesati. Combatté la reti-cenza di sembrare stupido e appena vide il ragazzo che serviva ai tavoli, lo fermò con un gesto della mano. La sua faccia non sembrava per nulla scocciata da quell’interruzione, ma si notava quanto avesse fretta. «Siete nuovo, vero? Succede quasi sempre così. Ditemi pure»

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Onnigrafo Magazine – 6

L’uomo cercò di dimostrarsi più a suo agio di quanto non fosse. «Come si chiama la padrona di questa locan-da?», chiese al ragazzo. Dei nomi avrebbero potuto fare un poco di luce sull’intera faccenda.

«Le sorelle Irma e Ines. Irma gestisce la taverna, Ines la locanda di sopra. Desiderate della birra?»

Nessuna scintilla rivelatrice. «Sì, grazie. Quella della casa, se ne avete»

Tornò a guardarsi intorno, mentre lo stufato andava rapidamente finendo. Gente comune, per lo più vian-danti, dati i vestiti comodi e le calzature impolverate o infangate, a eccezione di due persone. Due paia di stiva-li neri perfettamente lucidi, un dettaglio decisamente appariscente, erano calzati da due uomini appoggiati al bancone. Indossavano dei tabarri blu, con il ricamo di un leone rampante argentato al centro del petto, che coprivano delle armature di cuoio a placche di metallo rivettato. Sembrava che fossero in pausa. Dietro di loro, vicino alla porta che immaginò essere l’ingresso, notò una tavola di legno inchiodata al muro a cui erano stati appesi dei fogli. Arrivata la birra, l’uomo finì il suo stu-fato e, con il boccale in mano, si diresse verso i fogli per soddisfare il suo bisogno di sapere. Due di essi attiraro-no la sua attenzione. Il primo risultò essere una sorta di regolamento e riportava le testuali parole:

La guardia cittadina del Borgo del Crocevia invita i viandan-ti giunti al Borgo a registrarsi presso il Corpo di Guardia per ottenere il proprio lasciapassare per la città di Sereth. Senza

tale lasciapassare non si può lasciare il Borgo.

Firmato: Capitano George Halamar

Conosceva molti paesi grandi e piccoli nel raggio di diverse leghe dalla sua valle, ma nessuno corrispondeva a quei nomi, neanche traducendoli nei pochi dialetti di cui era a conoscenza. Mentre pensava ai vari toponimi lesse distrattamente un altro foglio, su cui erano elen-cati gli orari di partenza delle carrozze da e per la fan-tomatica Sereth. Decise di smetterla di impegnarsi a sembrare uno sciocco e si convinse a rivolgersi alle due guardie. Meglio essere deriso che sentirsi perso. Prese un bel respiro, ingoiò un bel sorso di birra e si diresse verso di loro. Venne accolto da sguardi incuriositi: le guardie si aspettavano domande, a quanto pare.

«Scusate se vi disturbo, messeri, ma gradirei sapere in quale parte della Lega si trova Sereth. Temo di esser-mi perso»

I due si guardarono sghignazzando. «Eccone un al-tro!», disse uno.

«Messere, vedete» disse l’altro, «non so di quale lega stiate parlando. Questo è il Borgo del Crocevia, tutte le strade portano qui e una sola ne esce. Chi desidera an-dare in quel luogo [indicò un punto oltre le mura della taverna] si ritrova qui, fa quello che deve fare e poi par-te alla scoperta della Città Bianca. Evidentemente avete desiderato qualcosa o qualcuno che si trova qui, nel

Territorio del Nord, ai confini del Mondo Conosciuto»«... e la tua essenza ti ci ha condotto!», continuò uno

dei bardi che, nel frattempo, si era avvicinato: una gra-ziosa fanciulla che seguendo il ritmo del suo tamburello ballava un saltarello molto coinvolgente. «Tutti noi sia-mo giunti qui così» continuò, «ma non temere, non du-bitare e lasciati guidare»

«Da cosa dovrei farmi guidare? Sono disperso, Ishir sola sa dove!», pensò l’uomo col mantello. Il pensiero svanì in fretta quando la giovane donna lo prese per mano e lo portò a ballare in mezzo alla sala. Capelli ros-si e ricci legati senza troppa attenzione incorniciavano un volto dal candore perfetto, occhi di un azzurro chia-ro scrutavano la sala, con sguardo attento a cercare chi avesse bisogno di un piccolo incoraggiamento per anda-re a ballare. Il vestito di cuoio e stoffa la fasciava come una seconda pelle. L’uomo rimase colpito soprattutto dai movimenti della ragazza, sia quando ballava, sia quando, semplicemente, beveva; cercò varie volte di trovare il modo di descriverli a se stesso, ma riuscì sola-mente a definirli perfetti, a prescindere da cosa volesse dire. La birra, come i vari boccali che seguirono, aiutò molto l’impacciato disperso a non curarsi né del giudi-zio degli altri e a ballare, né a prestare troppo orecchio ai dubbi su dove effettivamente si trovasse.

La notte avanzò silenziosa e, dopo allegre danze e svariati boccali di alcolici, i vari avventori e le guardie abbandonarono la taverna alla spicciolata. Alcuni sali-rono al piano superiore, altri uscirono a prendere una boccata d’aria fresca per poi rientrare e andare a dormi-re. In tutto questo via vai, l’uomo col mantello si fermò vicino a uno dei due bracieri e tirò fuori dalle sue scar-selle un astuccio di cuoio con un piccolo simbolo bianco inciso da un lato. Dentro l’astuccio vi era il necessario per fumare, un gesto che lo aiutava a pensare. Finito che ebbe di chiudere la carta sottile che racchiudeva il tabacco, l’uomo vide la taverniera uscire dalle cucine e mettersi a rassettare. Era una donna enorme e massic-cia, la classica corporatura delle razze nordiche, almeno dalle sue parti: rossi e lisci i capelli, mani grandi e occhi azzurri. Curioso quante persone coi capelli rossi ci fos-sero da quelle parti.

«Milady, scusate. Vi sto intralciando» Si alzò a fatica, oramai ubriaco.

«Lasciate fare, al massimo vi alzo e vi sposto io» L’uomo non ne dubitava minimamente. «Siete nuovo?»

«Oh, si nota, vero? Mi hanno detto che, a quanto pare, sono potuto arrivare qui perché qui, ovunque dia-mine sia questo “qui”, si trova qualcosa o qualcuno che sto cercando. Che sia...?» Si fermò a riflettere. «Voi co-noscete per caso Lady Morgana?»

«Beh, ve lo siete scelto piccolo il desiderio!» La ta-verniera allungò la mano e spostò il bavero della cami-cia nera che l’uomo indossava «Non vedo simboli di ap-partenenza a gilde di alchimisti: chi siete e cosa volete da Milady?»

Capitolo I — Viaggio a Sereth: Parte I

La stella di Salem

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Onnigrafo Magazine – 7

«Gilde di alchimisti? No, no. Ho sentito parlare di lei e delle sue lezioni. Non sono che un taumaturgo che vuol conoscere meglio la sua arte. In quel che ho potuto sentire dai racconti che ho ascoltato su di lei, vi è qual-cosa che va al di là della stessa alchimia. Dite che la ra-gione possa essere questa? Che io lo voglia più di quanto io stesso creda possibile?» La birra gli aveva sciolto la lingua più di quanto avrebbe voluto, anche se le ‘esse’ venivano pronunciate strascicate.

«“Tauma” che? Senti, ragazzo mio: se vuoi una cosa, qui sei nel posto giusto, ma ricorda bene… la via per raggiungerla è lunga e non sempre facile. E tu, di tutte quelle che il Territorio del Nord può offrirti, hai scelto proprio la più importante. Domani, per prima cosa, vai al corpo di guardia e fai quello che ti dicono; non esita-re, e non aver paura di dire o pensare qualcosa di sba-gliato o falso. Il tuo lasciapassare sarà quello che sei, e ciò che vuoi diventare» Nel dire queste parole, la donna mostrò un pendaglio triangolare verde con incise delle rune strane, poi proseguì. «Ho visitato Sereth molte volte, ma non ho mai trovato ciò che cercavo. Infine, affranta, tornai qui per intraprendere di nuovo il viag-gio verso il mio lontano regno, ma né io e ne mia sorella abbiamo avuto il coraggio di lasciare questo piccolo avamposto» La donna si perse nei ricordi per qualche breve attimo per poi riprendersi e continuare. «La cola-zione viene servita alla settima ora. Hai tempo un’ora per il lasciapassare, prima che la carovana parta. Puoi dormire di sopra. Chiedi di mia sorella Ines»

L'uomo provò a replicare, ma i nuovi indizi e l’alcool in corpo non gli permisero di formulare lucidamente un

pensiero di senso compiuto, se non un biascicato «Sì. Grazie infinite. Lo farò».

Con mille domande ancora in testa si avventurò su per le scale in cerca dell'altra padrona del locale, per chiedere un letto per la notte. Gli venne assegnata una stanza calda, piccola ma accogliente, con un letto stra-ordinariamente morbido. L'uomo si affacciò dalla fine-stra per fumare e il firmamento del Nord si aprì davanti ai suoi occhi. Ripassò mentalmente la giornata e si pro-mise di capire di più di quella faccenda, a cominciare dal modo di tornare a casa. Non appena appoggiò la te-sta sul cuscino, le domande che lo assillavano lasciaro-no spazio ai sogni.

All’alba, un buon odore di uova, pancetta e pane cal-do lo svegliarono da un sonno placido e ristoratore. I profumi destarono anche il suo stomaco, invogliandolo a scendere rapidamente nella sala comune per mangia-re un boccone. Prese dal bancone il suo piatto e un bic-chiere e cercò un posto libero. Girò un poco tra le pan-che in cerca di un angolo dove sedersi quando una mano gli fece cenno, dal fondo della sala. Seguì la gentile indi-cazione e si mise a sedere; solo in quel momento, alzan-do gli occhi, scoprì di essere seduto a fianco della barda ballerina della sera prima. Era stata lei a fargli il cenno. Notò che aveva le orecchie a punta, anche se i capelli legati cercavano di coprirli. Forse la guardò per troppo tempo, perché lei gli tese una mano, sorridente: «Mi chiamo Evelyn e sono un bardo cantastorie. Conosco Se-reth come le mie tasche e credo che faremo il viaggio insieme».

«Piacere mio, Evelyn. Mi chiamo Rios»

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Capitolo I — Viaggio a Sereth: Parte I

La stella di Salem

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Capitolo I — AttesaCronache di Oscailt

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Onnigrafo Magazine – 9Onnigrafo Magazine – 9

Benedetti Emanuele nasce a Loreto nel 1988; si diploma nel 2007 in ragioneria per poi laurearsi in scienze politiche nel 2012. Dopo gli studi, de-cide di provare varie figure lavorative, tra cui il giardi-niere, l'addetto alle risorse umane e l'addetto alle ven-dite. Attualmente ricopre il ruolo di banconista salumie-re. Emanuele decide di but-tarsi dal 2015 nel mondo del-la scrittura più per gioco che per mestiere, pubblicando qualche racconto nei social media.

Prediligendo il fantasy, si ispira ai grandi classici del genere, come quelli di J. R. R. Tolkien e C. S. Lewis, non disdegnando anche i più re-centi J. Dever, G. Martin, A. Sapkowski, S. Erikson e M. Heitz. Appassionato di storia e romanzi storici, altri scrit-tori a cui si riferisce sono V. M. Manfredi, M. Raccasi, C. Iggulden, J. M. Auel, W. Smith e B. Cornwell. Infine, la vena dell'orrore va da attribuirsi ai grandi capisaldi del gene-re, cioè H. P. Lovecraft e E. A. Poe.

Emanuele Benedetti

Da qualche parte a nord di Ahrolsekey, Anno 857 D.F.I. (dalla fondazione dell’Impero)

Solo uno sguardo; altro non serviva. Così egli avrebbe riconosciuto la via. Il ciglio cangiante, il cuore sicuro. Il lupo avrebbe infine compiuto

il suo compito: solo le stelle conoscono la strada, giacché negli occhi di lui risiedono le

stelle.

Il lupo daglI astrI, estratto diun’antica leggenda del Nord

Il fuoco ardeva bramoso di legna davanti ai suoi occhi. Il sole era calato da diverso tempo alle sue spalle e nel cielo si stagliava l’astro notturno in tutta la sua maestà, completo, splendente. «L’ora è vicina», disse Khylos tra sé e sé, «lo sento».

Il suo famiglio, il suo migliore amico e la sua spalla fidata, il lupo che aveva trovato quando tutti e due non erano che cuccioli, rosicchiava oziosamente l’osso di una renna che avevano abbattuto pochi giorni pri-ma e che avevano fatto essiccare, per non far andare a male la carne. Contava sulla sua sovrannaturale percezione degli avvenimenti per anti-cipare le mosse del nemico.

Non avrei dovuto lasciare indietro gli altri, stava pensando Khylos, men-tre stuzzicava le fiamme con la punta di un corto ramo di pino, ma questa è la mia missione. Io e Khyler daremo il via alle danze.

Facevano parte di una squadra d’élite delle Lame Cremisi e a Khylos piaceva lavorare in squadra. Adorava la vita del campo militare e rispet-tava i suoi commilitoni, ma, sin da bambino, adorava andare in avansco-perta col suo fidato lupo; sapeva, inoltre, che sarebbe stato lui il primo ad avvistare il pericolo. Il suo passato parlava chiaro, ciò che era diventato tramite gli insegnamenti di suo padre e dell’esercito parlavano chiaro. Questa è la mia missione, si ripeté convinto.

Avevano ricevuto gli ordini più di due settimane prima, ma si era staccato dal resto della truppa da tre giorni, spostandosi di poche miglia in senso circolare, in attesa che succedesse quella che la sua classe guer-riera chiamava “l’apertura”. Qualcosa che solo Khyler, il lupo suo compa-gno, riusciva a vedere con i suoi occhi mistici.

Anni prima, quando era partito insieme al padre per la sua prima cac-cia di gruppo con gli adulti del villaggio, durante una pausa dalla battuta si era allontanato, sentendo qualcosa che lo spingeva verso un particola-re punto della boscaglia. Raccontandolo ai compagni di caccia, aveva det-to di aver sentito semplicemente i mugolii della creatura che poi aveva trovato in un piccolo avvallamento dove, chi sa per quale motivo, non cresceva nulla; ma lui sapeva che quello era un incontro voluto dal desti-no. Non c’era stato un solo rumore né dalla foresta, né dall'animale. Lui aveva sentito come un richiamo primordiale; doveva seguire quel sentie-

Capitolo I — Attesa

Cronache di Oscailt

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ro che solo lui vedeva, doveva aggirare quella quercia di chi sa quanti secoli, doveva scavalcare quella tana ab-bandonata da un tasso da chi sa quanto tempo. E infine lo vide; disteso in terra, la lingua fuori dalle piccole fau-ci. Corse verso di lui come se avesse visto il proprio mi-gliore amico in punto di morte, lo accolse tra le sue braccia e lo infilò subito sotto i suoi vestiti per trasmet-tergli un po’ di calore e lo riportò immediatamente all’accampamento.

Per il villaggio a cui apparteneva non era raro addo-mesticare un lupo e renderlo un compagno adatto alla caccia, quindi all’inizio tutti lo accettarono di buon gra-do. Fino a quel momento, durante la venagione, erano riusciti a cacciare un cervo e mezza dozzina di lepri, quindi il gruppo poteva ritenersi soddisfatto dell’uscita, tanto da poter tornare a casa e poter permettere al bambino di accudire il cucciolo appena trovato.

«Far crescere un lupo è una responsabilità gravosa, figlio mio», gli aveva detto il padre sulla strada di casa. «I branchi sono sottoposti a una gerarchia a cui devono attenersi rigorosamente. Spesso cercano di scavalcarsi a vicenda per avere più rispetto o più cibo. Visto che l’hai trovato tu, starà a te, e a te soltanto, insegnargli qual è il suo posto nella famiglia e nella comunità. Sarai tu a dover rendere conto di ogni suo errore; e se, quan-do crescerà, commetterà qualcosa di... irreparabile, probabilmente lo dovremo sopprimere. Capisci cosa si-gnifica?», gli chiese infine suo padre.

Khylos annuì, più a se stesso che non alle parole del padre. Sentendo che il cucciolo cominciava ad agitarsi lo sollevò e lo guardò negli occhi, e solo allora si accorse che erano uno diverso dall’altro, non solo per il colore: il bimbo riusciva a vedere oltre quello sguardo malinco-nico tipico dei lupi, come se fossero una finestra che si affacciava su un mondo inesplorato. E in quel mondo, Khylos vide avventura e imprevisti, successi e sconfitte, gioia e dolore... e tutto riguardava loro due. «Sta bene, padre. Khyler è una mia responsabilità», disse quindi Khylos, risoluto.

Il padre, che precedeva il bambino e il cucciolo di qualche passo, sentendo il nome che suo figlio aveva dato al suo nuovo compagno si immobilizzò seduta stante e si girò lentamente, guardando il figlio negli oc-chi con sguardo grave. «Quello che hai pronunciato è un nome molto importante per la nostra famiglia», disse con voce bassa e seria, «te ne rendi conto?»

«Lo so, padre. So benissimo che quello è il nome del fratello che non ho mai avuto», rispose Khylos, con voce prima rotta, poi sempre più decisa e convinta, «ma so che non è stato un caso che io abbia trovato questo cuc-ciolo. Pensaci, padre! Il lupo è il simbolo del nostro vil-laggio, tutti noi facciamo sempre sogni di un lupo con gli occhi luminosi, da quando abbiamo memoria abbia-mo sempre utilizzato i lupi per la caccia, persino l’astro notturno stanotte passerà davanti al Segno del Lupo. Padre, questo incontro è stato voluto dagli dèi, dalle

stelle, dalla nostra storia... dal Fato! Questo cucciolo dal manto bianco e grigio, da questo momento in poi, sarà mio fratello! È il Sommo Lupo a volerlo!», esclamò infi-ne il bambino.

Durante il suo breve discorso aveva tenuto Khyler vicino al suo cuore e, nell’enfasi del momento, l’aveva un po’ strapazzato, ma il cucciolo non si era lasciato sfuggire un guaito. Solo alla fine, quando da un occhio di suo ‘fratello’ scese una singola lacrima, si dimenò per raggiungere il viso e per leccarla via, come se fosse una malerba da strappare da un orto.

Allora si guardarono per la seconda volta negli occhi e si appoggiarono piano l’uno all’altro, fronte contro fronte. In quel momento Khylos sentì di nuovo quella strana sensazione, non adrenalinica come poco prima, ma più calda, come una promessa sussurrata da una voce amica.

«Sì, padre», disse quindi Khylos a bassa voce, la testa ancora appoggiata a quella del lupo. «Khyler sarà il suo nome, la nostra casa la sua casa... e io sarò il suo fratello del Fato».

Le stelle avevano fatto il loro giro per una dozzina di volte, e ora i due fratelli erano lì, fianco a fianco, in at-tesa degli eventi che solo Khyler poteva preannunciare.

Guardando tra le fiamme e pensando al passato, Khylos aveva perso di vista il suo compagno e, spostato lo sguardo dove prima era il lupo, vide solo l’osso che stava addentando. Khyler era a qualche spanna di di-stanza, la coda distesa con l’estremità rivolta verso l’al-to, lo sguardo che puntava verso ovest, nel fitto della foresta.

Forse ci siamo, pensò subito Khylos.Si alzò e, dal bivacco che si era preparato per quella

notte, andò a recuperare il cinturone con la lunga spada nel fodero e i bracciali dell’armatura che si era tolto per consumare il pasto serale. Allacciò strette le cinghie e si affiancò al lupo con trepida aspettativa.

Dapprima cercò di scrutare nella direzione verso cui guardava Khyler, ma naturalmente non poteva scorger-vi niente se non buio e qualche albero e arbusto vicini; infine spostò la sua attenzione negli occhi del suo fami-glio... e non poté credere a quello che stava vedendo: gli occhi di Khyler stavano brillando come quelli del lupo della profezia del suo villaggio!

Cercò di tenere a bada le tante emozioni che provava in quel momento, concentrandosi sulla missione che aveva atteso così tanto; quindi si inginocchiò, accarezzò il garrese del lupo e avvicinandosi alle orecchie dell’ani-male, gli sussurrò: «guidami, fratello... mostrami ciò che vedi!»

Con un balzo il lupo corse verso la boscaglia.Khylos gli corse subito appresso e, nonostante l’agi-

lità dell’animale, nonostante il fitto intrico di rami e ar-busti in cui il lupo era deciso a passare, nonostante l’ar-matura di cuoio che indossava, non gli fu difficile trovare la scia del suo fido compagno. Proprio come la

Capitolo I — Attesa

Cronache di Oscailt

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prima volta che lo aveva trovato in quell’avvallamento, anche stavolta poteva contare su una traccia lasciata solo per lui, che solo lui poteva percepire. Superò alberi caduti, scansò buche coperte di neve, saltò fossi pieni di rovi come se anche lui fosse dotato di quattro possenti zampe da lupo. Infine, si ritrovò alla base di una guglia rocciosa che puntava verso l’alto; là in cima stava suo fratello, in attesa, lo sguardo fisso davanti a sé.

Khylos si arrampicò velocemente andando vicino alla punta della roccia, stranamente senza il minimo cenno di affaticamento. Una volta raggiunto il fianco del lupo, si alzò in piedi e vide dove il suo amico stava

puntando.Ed infine, vide.Allora Khyler rivolse il muso verso l’alto e, con tutto

il fiato che aveva nei polmoni, lanciò il suo urlo di guer-ra verso le stelle, verso l’astro notturno, verso il nemi-co, finalmente visibile in lontananza. E mentre suo fra-tello ululava, Khylos estrasse la sua spada dal fodero; stretta nella sua mano, la sentì vibrare, assetata di bat-taglia.

«Finalmente», sussurrò il giovane tra i denti, stretti in un ghigno feroce, «l’ora è giunta!»

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Capitolo I — Attesa

Cronache di Oscailt

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Fascicolo 01 — L’odore di MentaLa Confraternita Dell'Infinito

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Fascicolo 01 — L’odore di Menta

La Confraternita Dell'Infinito

Nipponista, attore, compo-sitore e, questa volta, anche scrittore. Ancora studente della Facoltà di Studi Orien-tali della “Sapienza”, Luca Moretti inizia la sua carrie-ra di attore di kyōgen, antica farsa giapponese, che lo por-terà nei più prestigiosi teatri giapponesi tra cui il Teatro Nazionale di Nō di Tōkyō, af-fiancando illustri maestri. In-tanto in Italia fonda la band Misty Morning ricoprendo i ruoli di cantante, chitarrista e autore di testi e musiche. Stampa “Martian Pope” con l’inglese Doomanoid Records e parte per un tour oltrema-nica. Successivamente colla-bora alla colonna sonora di “Buddha Bentō”, produzione nippo-americana, è ospite della TV giapponese, incide i dischi “Saint Shroom” e “GA.GA.R.IN.”.

Nell’«Onnigrafo Magazine» si cimenta per la prima volta con la prosa, come suo nuo-vo strumento per esprimere ed approfondire i mondi fan-tastici delle sue canzoni, dei suoi spettacoli ma soprattut-to della sua mente visionaria. Tra scrittura, musica, teatro e passione per il Giappone.

Luca Moretti

«Signore, io ti ringrazio profondamente per avermi lasciato compiere questo volo. Grazie per il privilegio di avermi consentito di partecipare a questa impresa; grazie per avermi fatto giungere in un luogo eccelso da cui potessi godere tutte le meraviglie che tu hai creato. Aiuta tutti noi astronauti a indirizzarci sulla giusta strada, in modo che possiamo plasmare le nostre vite al fine di essere dei buoni cristiani. Ma soprattutto aiutaci a perfezionare con successo la nostra missione, sorreggici nella futura battaglia per lo spazio. Assisti i nostri cari. Sii accanto alle nostre famiglie. Infondi loro coraggio e siine la guida. Fa’ loro sapere, Signore, che

tutto, tutto va proprio bene quassù. Noi preghiamo nel tuo nome».

Preghiera dell’astronauta1

Esiste un ordine monastico-militare rimasto celato da secoli tra le pieghe delle cronache. Veglia sulle ignare greggi del Signore. Angeli custodi in incognito controllano e prevengono pericolose incursioni esterne. La segretezza del loro operato è d’importanza capitale, così come sono ignote le loro identità.

Questo fascicolo, corredato da rapporti, resoconti e trascrizioni au-dio, contiene l’unica prova dell’esistenza di questo ordine. Gli inter-venti di carattere personale che lo intervallano provengono dal diario manoscritto di un santo membro di questo ordine, trascritto in forma-to telematico dall’Autore che preferisce rimanere nell’anonimato.

Questa è la storia dei paladini nell’ombra. Questa è la storia dei frati volanti. Questa è la storia di mio padre.

Roma, 11 NovembRe 2011, Sole Nero

VI quadranta, II gradu, IX turno.«Ivi, Apis I. Contatto visivo. Attendiamo istruzioni. Laudetur»«Ivi, C.C.III. Avvicinati a distanza di sicurezza e descrivi l’obiettivo.

Laudetur»Era la prima volta che la vedevo dal vivo. L’avevo fantasticata guar-

dando le miniature sui manuali del seminario, ma non immaginavo di rimanere impietrito davanti quella struttura. Era perfetta. Ma non era una creatura di Dio; forse proprio per questo motivo era così abile a sus-surrare ai miei istinti. Dovevo controllarmi.

«Ivi, Apis I. Exostruttura di classe Mantas al primo stadio. Per ora se ne sta tranquilla a ricalibrare gli strumenti. Rimaniamo all’erta aspettan-do la schiusa. Semper» E con un gesto sicuro della mano destra, il frate si tolse il respiratore e mi disse: «Tutto bene, fratello Giosuè? Di colpo ti sei ammutolito»

Avevo undici anni quando sentii la chiamata. Molti la descrivono come una voce che parla all’anima. Non fu così per me. Era più come una sensazione, o meglio, tutte le sensazioni in una. Difficile da spiegare. Una

1 Di L. Gordon Cooper Jr., trascrizione dall'audio del primo volo del Faith 7 (15 maggio 1963); Link.

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nube extrasensoriale che ha iniziato ad avvolgermi e a circondarmi, cambiando le prospettive. Provavo gioia, un’infinita gioia espansa oltre i naturali limiti della feli-cità. Ne parlai con padre Alfonso.

«È la voce di Dio. Preparati al seminario, sei un bravo ragazzo. Penserò a tutto io»

Non ricordo molto di quegli anni. Passare dalla ca-nonica al seminario fu come un percorso obbligato. Il volere di nostro Signore. Ricacciare questi demoni ten-tatori da dove sono venuti.

«Tutto bene, padre Isacco. Non le nascondo che fati-co ancora un po’ ad allinearmi ai comandi, ma per ora tutto nella norma» Fingendo più naturalezza possibile. Buon Dio, aiutami: sto per vomitare!

«Di solito i novizi, appena dopo il decollo, hanno la tendenza a rigurgitare i loro pasti nell’abitacolo» Per l’appunto.

«Stai andando alla grande, Giosuè. Mantenere viva la conversazione aiuta e distrae; ma soprattutto ci evita le ramanzine di fra’ Teodoro»

Quel giorno pioveva e io, come al solito, ero in biblio-teca. Le nuvole scure sembravano avere la meglio sulla mia concentrazione e ringraziai il Cielo quando padre Matteo, il sacerdote che seguiva i miei progressi in semi-nario, entrò nella sala giustificando l’interruzione e in-troducendo una gradita distrazione nella routine della mia giornata. Quella distrazione vestiva un saio, portava una folta barba nera e un paio di fulve sopracciglia e ri-spondeva al nome di frate Isacco. A differenza dei miei coetanei, abituati più agli adoni patinati che alle imma-gini dei santi che hanno scandito tutta la mia infanzia, le persone con la barba non mi hanno mai spaventato. Sot-to quelle sopracciglia c’erano due fuochi ardenti che stridevano con l’aura di pacatezza emanata dal frate. L’eremo di Monte Marte. Nostro Signore che scandisce la mia vita. Visioni dell’inferno da annientare.

«Ivi, Apis I. L’obiettivo non dà segni di schiusa ma noto movimenti anomali all’altezza del caput» Taglian-do corto, padre Isacco si rimise il comunicatore. «Non vorrei dire eresie, ma ha tutta l’aria di essere un Man-tas che sboccia come un Gladius. Mai vista una cosa si-mile. Datemi le analisi più in fretta possibile, fratelli e togliete la bolla al Neo Malleus. Laudetur» Tutto d’un fiato.

Un picco sul grafico degli isotopi e una fitta come un ago alla base del collo. L’exostruttura aveva aperto un varco sulla sommità del carapace dal quale stava uscen-do a fatica, come spinta a forza dalle sue viscere, un’o-scena escrescenza carnosa. Il progressivo indurimento a contatto con l’aria la trasformava in un cuneo brillan-te. Un malato incrocio tra un rinoceronte e una piovra gigante. Nel silenzio più totale del bosco, l’immonda creatura cambiava radicalmente i suoi connotati come mai riportato nelle cronache. Era il momento di mante-nere i nervi ben saldi e prepararsi al peggio. Dio è con me.

«Ivi, C.C.III. Picco isometrico. Confermate?»«Affermativo», e nefasto. La mia prima parola nel

comunicatore.«Seguite la procedura. La bolla rimane al suo posto,

così come l’N-M. Non rileviamo cambiamenti significa-tivi di massa. Stazionate in prossimità. Laudetur»

«È un Gladius!»Le parole di padre Isacco rimbombarono dentro il

mio casco come un’eco nella navata centrale. Scorsi mentalmente le pagine dell’Exo-bestiarium alla ricerca di comportamenti anomali delle strutture Mantas. Cono-scevo quel libro a menadito, ma non riuscivo a ricorda-re il motivo di quel nome. Forse ricordava gli omonimi marini, ma è ben noto che questi non posseggono escre-scenze tentacolari. Forse i nostri fratelli negli antichi satelliti geostazionari, ormai un lontano ricordo a causa delle crescenti minacce esterne, avevano assistito alla sporulazione di questi demoni nel vuoto dello spazio, vedendoli fluttuare come pesci negli oceani. O, molto più prosaicamente, un semplice refuso perpetrato negli anni che, di conseguenza, era assurto al rango di lette-ratura scientifica. Che i Mantas venissero dalle profon-dità della terra era uno dei pochi dati certi, come che Mantus fosse la divinità etrusco-pagana dell’oltretom-ba: uno più uno, meno l’antico refuso, e il conto tornava alla perfezione. Sorrisi. Non so se per la mia divagazione mentale o per il nervosismo crescente.

Non ci era ancora dato sapere quale fosse la ragion d’essere dell’exostruttura Mantas, ma le sue apparizioni erano sporadiche e soprattutto innocue, quanto bastava a giustificare la mia presenza nell’abitacolo del velivolo di padre Isacco. Era la mia prima uscita come secondo del frate e avevamo l’occasione di fare dei rilevamenti immediati. Le nostre squadre di terra avevano avvistato il Mantas pochi secondi dopo l’emersione e avevano av-vertito il comando appena in tempo per allontanarsi ed evitare le radiazioni emanate dalla struttura. Con un raggio di cinque metri di larghezza e poco più di due metri di altezza, il Mantas appariva come una via di mezzo tra una stella marina e un polpo rovesciato. Il numero delle escrescenze tentacolari era variabile da tre alla dozzina e anche se potevano sembrare dei ten-tacoli, a un primo colpo d’occhio la loro mobilità, o per meglio dire immobilità, era più simile a quella di singo-lari radici, ma senza la caratteristica nodosità. Più di trecento anni di studi dalla fondazione del nostro ordi-ne segreto non erano riusciti a spiegare le sue funzioni e le particolarità delle radiazioni che emanava. In tutto e per tutto identica, in un primo momento, al processo di decadimento alfa conosciuto in natura, la radioattivi-tà del Mantas si distingueva da essa non lasciando trac-ce di isotopi a distanza di poche ore dall’emissione. Dove finissero e di che natura fossero quegli isotopi, non ci era ancora dato saperlo.

Con questa nuova forma del Gladius stavamo assi-stendo a un caso unico nella storia degli studi esobiolo-

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gici. Per il momento l’eccitazione e la meraviglia non lasciavano spazio alla paura, ma sentivo che sarebbe durata poco.

«Ivi, Apis I. Comportamento anomalo dell’obiettivo. Ho un novizio al suo primo volo a bordo. Richiedo di abortire la missione di ricognizione. Troppo rischioso, rientriamo. Laudetur»

«Ivi, C.C. III. Richiesta accordata. Ma allontanatevi con cautela. Lo scriptorium sta elaborando i nuovi dati. Non sappiamo come si comporterà l’obiettivo. N-M. al-lertato. Tenete gli occhi aperti. Laudetur»

«Non so come sia possibile ma quello è un Gladius e c’è sicuramente qualcosa di strano, brutto e cattivo in quei dati se lo scriptorium vuole togliere la bolla all’N-M. Anche se siamo tentati di rimanere qui a vedere padre Giovanni in azione, ce ne faremo una ragione. Dico bene, fratello Giosuè?» E con un gesto esperto sui co-mandi, Padre Isacco iniziò ad allargare le orbite del no-stro velivolo intorno all’oggetto che poteva vantare di aver conquistato lo status di ‘non identificato’ in così breve tempo.

In risposta a Padre Isacco, grugnii un assenso nel co-municatore. Avrei potuto fare qualcosa di più, ma la si-tuazione iniziava a suggestionarmi. Ero convinto che quella che poteva essere la testa del Gladius, o perlome-no la parte che il nostro istinto antropico inconsciamen-te identifica come tale, stesse seguendo la nostra rotta. Quella escrescenza polposa, quel corno carnoso, con i due lati appiattiti uniti da una morbida cresta, tale da sembrare un’antica daga romana, un Gladius appunto, fuoriusciva ritmicamente dal duro dorso del Mantas. L’estremità puntuta di quell’essere descriveva un moto circolare, costantemente rivolto verso il nostro aeromo-bile. I miei occhi increduli seguivano ogni movimento di quella diabolica danza che si ripeteva sincronicamente sul mio terminale sotto forma di picchi isometrici. Con

una bizzarra associazione di idee, quelle pulsazioni cro-matiche mi riportarono alla mente i primi giorni all’ere-mo di Monte Marte.

Per nulla stupito dall’austerità dell’eremo, tanto ero avvezzo a ogni sorta di rigore cenobitico, rimasi a lungo attonito e affascinato di fronte ai videoterminali dello scriptorium di elaborazione. La prima volta che ci mo-strarono i miracolosi progressi dell’elettronica custodi-ti in quelle sale, fui come folgorato dalla visione paradi-siaca di quei colori e quei caratteri che si rincorrevano sugli schermi. La mia fantasia, abituata alla fissità delle parole scritte o alla staticità delle icone, ruppe ogni ar-gine cercando di spiegare con pindariche elucubrazioni cosa si celasse dentro quei macchinari, come potessero creare quelle visioni. La sera stessa, nella mia stanza, più di un brivido mi corse lungo la schiena quando mi resi conto di non aver ricondotto tutte le spiegazioni all’unica possibile: Nostro Signore Onnipotente. Per la prima volta la mia fede vacillò, sedotta dalla fantasia. Come avevo potuto mettere in disparte l’Altissimo? Per una così futile ragione, per giunta! Che si possa cadere nell’abisso dell’eresia nell’attimo di un respiro?

Trasformai quelle torbide esitazioni in limpide pre-ghiere e mi addormentai. Sognai un candido infante che dormiva serafico. Gesù Bambino senza dubbio era venu-to a rischiarare i miei sogni, ma con lui non c’era la Be-ata Vergine. Non avendo mai conosciuto mia madre, non sono mai riuscito a trasporre una figura materna nel mio mondo onirico. Non importa. Ciò che contava veramente era quell’odore indimenticabile di menta. Lo stesso che avvertivo chiaramente in quel momento nell’abitacolo.

«Ivi, Apis I. Rientro immediato. Il mio secondo ha perso i sensi senza motivo. Ripeto: rientro immediato. Semper. Ragazzo, non fare scherzi! Rispondimi, Giosuè, per l’amor del cielo!»

Fascicolo 01 — L’odore di Menta

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Racconto AutoconclusivoScatole Cinesi

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Onnigrafo Magazine – 17Onnigrafo Magazine – 17

Calabra d’origine e d’indole, passa i primi diciotto anni della sua vita fra il mare ed i libri, fra le lunghe giornate di sole e le calde notti stellate. Ad iniziarla al viaggio sono i genitori, la madre architetto ed il padre letterato, facen-dole attraversare lo stivale ancora in fasce ed abituan-dola ad italiche traversate di famiglia, scomode e dense d’arte e di luoghi dimentica-ti. Dopo l’amore per le lingue classiche del liceo, la pren-de quello per tutte le altre all’università, dove si laurea in Lingue e Culture Orienta-li a Roma, specializzandosi in arabo e persiano. Da qui i lunghi viaggi in Medio Orien-te, in Siria e Giordania, ed il profondo amore per i popo-li, le arti e la letteratura. Da quattro anni lavora nel tu-rismo sostenibile, accompa-gnando viaggiatori in Oriente e cercando di illuminare per loro le schegge di bellezza che animano il mondo. E con-tinuamente scivolando sotto la superficie delle cose, per coglierne i mutamenti e rac-contarli dall’interno.

Marta Pelle

tara cara,finalmente posso ricordarmi di te. a noi piacciono ancora le lettere, con la loro

lentezza e l'odore della carta straniera. te lo dirò, amica mia. ho perso un faro nei tuoi occhi, quel giorno, e penso fosse

ancora acceso.qui non è facile. qui ci sono i ghul1. io avrei voluto continuare a credere alle fate,

avrei voluto rivederti, amica mia. lo senti? piove nel pineto e tu sei terra bagnata.

non dovresti scrivermi delle stelle, le sento lontane e morte e ho smesso di parlar-ci quel giorno che abbiamo resettato il mondo. quel giorno ho perso gli occhi che

ti piacevano tanto. siamo entrati nelle nebbie e ci siamo confusi.e non smettere di scrivermi, amica mia. è sempre come se parlassimo. siamo ac-qua e farina di riso e ci porteremo sempre addosso. e non smettere di ascoltar-mi, per te avrò sempre il suono del tè alla menta. abitare mondi lontani è una condanna, ma posso sopravvivere per te, amica mia, posso ancora trovare il tuo

orizzonte degli eventi. posso ancora toccare il tuo ricordo.mi senti, amica mia?

tornerai a sham2 e io potrò ancora abbracciarti, inshallah3. non smettere di sen-tirmi.

Tara stacca la penna dal foglio con un ultimo punto sala-to. Ricopia le lettere da quando era bambina, per schiaf-farsele sull'anima abbastanza forte da non perderle mai.

Guarda il soffitto e riesuma un paio di ricordi polve-rosi di pomeriggi nel tè alla menta, fra il freddo del diwan4 e le ore allungate di Damasco. Ci sono − si dice − posti alla fine del mondo, in cui l'esistenza è scandita dal bisogno di tempo, più che dal tempo stesso. Uno di questi è Damasco, che ti concede il tempo di cui hai bi-sogno, non un attimo di più né uno di meno, e trasforma un'ora in quattro e quattro in una a seconda della len-tezza con cui bevi il caffè. Il soffitto si appanna. Sa'id ha lasciato la sua casa, ha perso qualcuno e qualcosa. Ma'ruf ha lasciato una donna senza velo, ha perso il suo ventre gonfio. Basil ha lasciato se stesso, ha perso il suo pozzo artesiano. Tara ha lasciato un pezzo di sé, ha perso le spezie di quella più decadente e polverosa, più mistica e misteriosa, fra le sue città.

Quando il sonno e le lenzuola la vincono, Tara smette di vivere per qualche ora. Non ricorda mai i sogni al

1 Ghul: (arabo) mostro, orco.2 Sham: abbreviazione dialettale per Damasco.3 Inshallah: (arabo) se Dio vuole.4 Diwan: (dialetto damasceno) luogo della casa in cui si accolgono gli ospiti.

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Onnigrafo Magazine – 18

mattino, solo gli incubi. Storie di mostri familiari, troppo lenti per raggiungerla e troppo svelti per non preoccuparsene. Sono incubi innocui, tutti simili, tutti giochi d'ansia, tutti semplicemente estenuanti. E poi c'è lui, l'ombra nera che le si pro-ietta sulla vita, che la trapassa da parte a parte e si porta via la sua dolcezza. Torna da lei, nei suoi incubi, quando le cose vanno davvero male. Torna violento a riprendersi la sua vergogna, il suo corpo impotente. Torna a sprofondarla nelle sue stesse viscere, svuotandola. E Tara si sve-glia, coi pezzi del puzzle della sua mente sul tappeto.

Lo scrittore stacca la penna dal foglio e la usa per grattarsi il solito punto dietro l'orecchio. Ha appe-na deciso che Tara morirà, perché non si può vivere quello che ha vissuto lei e passarla liscia. E poi, da un punto di vista pratico, se la protagonista muore è tutto molto più interessante, vero, commovente.

Allo scrittore rode un po' il fegato, in realtà. Il fat-to è che qualche mese fa un tizio gli era piombato in casa, dicendo di aver letto il suo manoscritto e di vo-lerlo assolutamente pubblicare. Lo scrittore, bisogna dirlo, non si era mai reputato un granché. Così se n'era stato per un po' sulle sue ad ascoltare i deliri dell'omuncolo su fama e denaro. Bisogna dire pure che lo scrittore era da un po' che campava d'aria, nel senso che la spesa, a fine settimana, o si faceva da sola o non si faceva affatto. E poi c'era il fattore bol-lette, pagami o ti strozzo, a dare il colpo finale. Lo scrittore, insomma, s'era preso un attimo per guar-darsi allo specchio e per assicurarsi che l'ombra scu-ra sulla sua faccia fosse ancora barba incolta, che le mezzelune sotto gli occhi fossero ancora occhiaie. Poi aveva tirato un gran sospiro e aveva pensato a Julie, all'ultima cena che le aveva offerto. Non se l'e-ra ricordata. Così, cinque minuti dopo l'omino logor-roico usciva di casa sua, lo sguardo avido e un con-trattino coi fiocchi nella ventiquattrore.

Adesso lo scrittore è in un oceano di guai. Il con-trattino coi fiocchi di cui sopra prevede che il roman-zo venga terminato il 17 luglio − sì, fra una settima-na, caprone d'uno scrittore − e che il finale sia “colmo di pathos, imprevedibile e commovente”. E stamatti-na, a scavare un po' più a fondo la fossa dello scritto-re, il telefono ha gracchiato la voce spazientita del famoso omino, con la traduzione della clausola che ho citato. “Vedi di assicurarti che quella baldr... che la protagonista crepi! Non ce ne facciamo nulla di un altro lieto fine. La gente ormai lo sa benissimo che il mondo va a rotoli e vuole pure sentirselo dire!”. E quindi ha deciso di ucciderla - e voi sapete che inten-do “lo hanno costretto ad ucciderla” -, ma la faccen-

da è anche meno semplice di quanto appaia. Julie, quella della cena mancata, ve la ricordate? Julie, pro-prio lei, proprio quella che sta preparando la cena a questo fallito d'uno scrittore. Julie, l'unico raggio di meraviglia della sua vita, l'unica cometa. Julie, che non fa altro che suonare il piano sulle corde della sua mente con una sofficità che lo disgrega e poi sublima in rugiada fresca.

Ecco, si dà il caso che questo mentecatto abbia raccontato di Julie nel suo libro. Proprio così, Julie è Tara e Tara è Julie, con tutto l'oceano di mondi che ha attraversato, con tutta la vastità della sua vita spre-muta sulla carta.

Lo scrittore, a questo punto, si alza, si ricompone gli occhi, riflesso della sua anima lavata, e se ne va in cucina. A spiegare a Julie che la ucciderà. A chieder-le come vorrebbe morire.

La giornalista stacca la penna dal foglio e si riflette nello specchio sopra la scrivania. Si dice che un pezzo del ge-nere non può essere pubblicato. Domani scriverà quello serio. Quello meno vero.

***PELLE, dI arthur N.Fra le prossime uscite, Pelle promette di essere una

delle più interessanti dell'anno.Un libro dai toni accesi e dalla luce sfocata, è la storia

di una viaggiatrice perduta fra le molte città della sua vita, in bilico fra le arti orientali ed un retaggio cultura-le profondamente legato all'Occidente. La pelle, elemen-to che ricorre sin dalla prima pagina, è la patina che vive sul mondo, sotto la quale pulsano le vene di uomini dai contorni luminosi, dalle carezze ai lunghi simposi, perennemente sfiorata dagli incanti della natura, dalle aurore boreali ai miraggi del deserto. Un'opera, questa, che sposta i punti di vista in direzioni contrarie e coin-cidenti, tanto da lasciare un dubbio amaro sulla punta della lingua: è protagonista Tara, oppure il mondo? No-nostante la recente fuga di notizie su un presunto ritar-do nell'uscita, l'autore, che abbiamo incontrato ieri, promette che i tempi saranno rispettati e che il mano-scritto definitivo verrà a breve mandato in stampa. Ha accettato di concederci questa brevissima intervista.

***Le quattro di notte, la giornalista riprende a battere

sui tasti. La notte le lascia sempre un segno: le ricorda quanto distante sia la realtà dell'articolo dalla realtà nuda e cruda del pomeriggio precedente, in casa di Ar-thur e Julie.

Faccio ancora fatica a credere a come risolve la sua vita, quest'infame d'uno scrittore. Eravamo lì, tutti e tre, Julie indaffarata, io che prendevo appunti e lui che si torceva le mani e la coscienza.

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«Arthur, questa sua storia non si può raccontare prima dell'uscita del libro, lo sa?»

«Lo so, maledizione, lo so − e intanto fissava Julie, che si stava chinando, raccogliendo inconsapevole quello sguardo, a pulire una goccia d'acqua − ma lei ha un intero universo dentro. È tutto quello che vo-glio raccontare»

«Arthur, avremmo quell'intervista da fare»«Tre domande»«Ma...»«Tre domande, niente manipolazioni»«Molto bene, cominciamo −, e qui, lo ammetto, ho

provato a trafiggerlo con gli occhi. − Come ha comin-ciato a scrivere questo libro?»

«Credo sia colpa di un jinn. Sa cos'è un jinn? Un demone arabo, capace di perfidie acutissime e di ge-nialità diffuse. In arabo la parola “folle” si traduce con “toccato da un jinn”, appellativo di tutti i poeti preislamici»

«Mi scusi la franchezza, lei sarebbe quindi un paz-zo?»

«No, solo un toccato dalla follia... spero»

E poi s'erano rincorsi, fra domande lecite e illeci-te: a) i pensieri dello scrittore che rincorrevano una Julie nuda e lucente di stelle, a tratti preda di un'ec-citazione allegra, a tratti scossa da un pianto ance-strale; b) la mia compassione, la rabbia, l’insoddisfa-zione per le risposte svogliate, lo stupore per le sue perle di lucidità, la fascinazione, infine, per la mente di quel fallito d'uno scrittore; c) i movimenti lenti di Julie che dava acqua alle piante, vestita del tramonto che le filtrava attraverso, lontana come un'isola.

L'odore della sera aveva cominciato a colare sui vetri, proprio mentre quell'imbranato d'uno scrittore s'apprestava a falciare lo spirito della sua donna. Mentre fissava il foglio, pronto a cominciare, si ripe-teva che gli stratagemmi del jinn e di Julie lo avreb-bero salvato. Toccato dalla follia, dice, ha iniziato a scrivere.

Tara muove le dita fra i capelli del gigan-te cieco che le dorme addosso. Un raggio di mattino le disegna un contorno d'oro lungo il fianco nudo, mentre un'ombra avanzata dalla notte le nasconde le gambe. La stanza ha il sapore della polvere e delle bombe. Di fuori mormora un silenzio tempestoso, rotto solo dalla salmodia del mattino. Al-tri muezzin s'uniscono al coro, fino a mi-schiarsi in un unisono asincrono e confuso.

Damasco è un fantasma del marmo. È uno spirito di arabeschi e caravanserragli. È un immortale che tentenna, un albero del-la vita che si secca. Damasco è l'ombra dei suoi stessi secoli. Ma Tara aveva già

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sognato la sua risposta ben prima di ri-comporre il puzzle dei sui pensieri, ben prima di puntare la penna sul foglio come una spada contro il nemico.

jihan, vita dei miei respiri,ho sentito sham chiamare fra le nebbie, un faro nella melma

scura dei miei sogni. mi vedi, ya habibi5? sono nel fuoco del tuo deserto, a crepitare

per la lontananza, ad estinguermi di solitudine.tu hai ragione, siamo fatti di polvere sottile e di foglie pro-fumate, siamo le ore di parole nel cortile, siamo pioggia nel

pineto e vivere a secoli di distanza è troppo difficile.ero dietro i tuoi occhi, poche ore e scivolerò davanti,

ti sarò dentro. il 17 luglio.

5 Ya habibi: (arabo) amore mio.

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Capitolo I — ValigieLa figlia di Caino

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Capitolo I — Valigie

La figlia di Caino

Natascia nasce nel 1976 in una cittadina di provincia fumosa e un pò anonima. Talmente anonima da essere spesso collocata nella regione sbagliata. La città con le cimi-niere è Terni, città dell'ac-qua, dell'acciaio e del pane sciapo. Qui passerà quasi tut-to il resto della sua vita, tran-ne le estati, perché quelle si passano in Calabria dai nonni dietro alle pecore a cavallo protetta da un enorme cane maremmano. Ribelle, indi-pendente e testarda finisce per laurearsi in lettere con indirizzo storico per la sua grande voglia di insegnare. Ma le riforme le mozzano le gambe prima del tempo e lei, che già non è troppo alta, ri-piega su altri lavori. Milano. Trieste. Venezia. Pordenone. Diventa quasi una donna in carriera ma qualcosa di mol-to bello la ferma e la riporta nella città fumosa. E diventa mamma. E diventa una mae-stra della scuola dell'infan-zia. Scrive per passione e per diletto. Dipinge. Gioca di ruo-lo. Sogna. Racconta storie ai suoi bambini e a sua figlia.

Natascia Norcia

«Prendo solo poche cose, tanto starò fuori solo un paio di giorni, al mas-simo tre»

Poi, invece di ritornare, continuava a chiedere che gli venissero man-dati i suoi bagagli. Dopo l’invio di valigie di vestiti, in casa cominciarono a essere tolti anche i libri e tutti quegli arnesi per il giardinaggio che gli potevano servire a coltivare le sue piante. Alla fine la mancanza di Edo-ardo quasi non si sentiva, anzi. La casa era tranquilla e serena, magari con meno gente e meno feste mondane, però i tempi erano più dilatati. Justine riusciva a ritagliarsi tutti quegli spazi che di solito non poteva concedersi; passava ore davanti allo specchio a pettinarsi, sceglieva con calma i suoi vestiti, aveva persino ricominciato ad andare a teatro con maggiore assiduità. Era quasi serena per quella lontananza di cui non conosceva il motivo. Di giorno poteva dormire senza preoccuparsi di nul-la. La notte scorreva lenta e senza scossoni di alcun tipo. Rideva, si nutri-va senza generare troppo clamore, si concedeva teneramente al suo fida-to André. E del suo mentore e protettore, e carnefice e tiranno a porte chiuse, non sentiva alcuna nostalgia.

«Credo sia arrivato il momento che tu mi raggiunga»Poche parole. Alla fine Edoardo non amava esprimersi con troppa

gentilezza e troppa diplomazia, soprattutto con Justine. Era il tipico uomo abituato a esprimersi con ordini e a emanare sentenze senza che nessuno si azzardasse a contraddirlo.

Bisogna che cominci a pensare di andar via, ma forse sarà soltanto per poco tempo. Justine se lo diceva come per convincersi di qualcosa di cui, però, conosceva già l’esito contrario.

«Vuota la casa Justine, prendi tutte le tue cose»Era piuttosto complicato raccogliere in pochi giorni i ricordi di una

vita tanto lunga. Scatole di lettere, qualche foto sbiadita, libri di ogni tipo, compresi quelli da mettere nel baule piccolo, avvolti nei vecchi asciuga-mani di lino con le cifre ricamate J.O.F., Justine Orsini del Ferrante.

Quei libri antichi, rovinati, con le copertine ricamate da lettere incise ormai sbiadite dal tempo. Alcuni pieni di fogli scritti con la stilografica e fiori messi a seccare tra le pagine. E poi tutti quei vestiti, quei cappelli, quelle scarpe, borse di ogni foggia, di ogni materiale, di ogni colore. E gioielli che provenivano dai posti più strani e dalle epoche più svariate. Piccoli e grandi simboli di una vanità radicata in lei meglio di una quercia secolare.

Pochi giorni per poter raccattare una vita. E poi cambiare di nuovo il letto dove si dorme.

A Justine i cambiamenti non piacevano affatto: le mettevano ansia, aveva sempre paura di non trovare ciò che la potesse rendere serena, e riempire i bauli con le sue cose non faceva che accrescere questa sua enorme tensione.

La sua vita con Edoardo si era ormai ridotta a un’interminabile sequela di ordini a cui obbedire. Era solo grazie a quell'alto uomo dai

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capelli rossi e la barba incolta se aveva fatto grandi passi nella comunità cainita che viveva a Torino. Dove arrivava lui, pareva che arrivasse un nuovo re Mida. Qualunque cosa gli interessasse, cominciava in poco tempo a rigurgitare denaro e guadagni sotto ogni forma possibile. Nei rari momenti in cui Justine provava a sollevare la testa in un bagliore di orgo-glio, e non solo per civettuoli atteggiamenti vanesi, lui le ricordava quale creatura smarrita fosse quan-do lui l’aveva raccolta.

Ma da dove?Era una domanda che la donna si faceva spesso.

Insieme a molte altre. Ma, come tante altre volte, le risposte restavano appese a chissà quale chiodo.

Avevano parlato poco per telefono quella notte, sembrava come se le telefonate dovessero essere sot-to forma di telegramma. Poche informazioni. “Tanto non servono Justine”

«Ma avrò una casa laggiù? O comunque un posto dove stare?»

«Sta’ tranquilla. Con tutta la roba che ti porti die-tro non puoi certo andare a dormire per strada!»

Ironico come sempre, nonostante le sue paure gli fossero ben note; la cosa che gli riusciva peggio era di infondere coraggio a chi aveva intorno. Ma Justine forse non ne aveva bisogno, perché di coraggio ne aveva, altrimenti non sarebbe arrivata fin dove era; o forse non era coraggio, ma una assurda ingenuità che ancora si portava dietro.

«Ho trovato un appartamento, molto grande. Lo tro-verai pieno di tutto quello che ti piace, ti ho scelto delle tende di velluto pesante. E tappeti. Molti. E c’è il bagno padronale con una grande vasca. È proprio di fronte alla residenza di Agnes, dove alloggio io»

«Ma la residenza di Agnes è un bordello!»«La residenza di Agnes è una bellissima dimora dove

va gente altolocata a distrarsi dai disagi quotidiani»Il tono secco di chi ha appena ricevuto una puntura

d’insetto. Un tono immediatamente riconoscibile, che anche solo attraverso un cavo del telefono genera im-mediatamente un rientro nei ranghi.

«Resta comunque un bordello, Edoardo. E sono an-che illegali»

«Meglio che ignori quello che hai detto, Justine. Piuttosto, ti dirò di più, mia cara: l’appartamento sicu-ramente non sarà finito per quando sarai arrivata, quin-di per qualche giorno dormirai alla maison. Agnes sarà contenta di ospitarti: le ho parlato molto di te, vedrai che diventerete subito amiche»

Justine tollerava poco persone del calibro di Agnes. Trovava assurdo e viscido che una donna potesse barat-tare il proprio corpo, fingendo piacere con uomini sco-nosciuti in cambio di denaro.

Il sesso non è una compravendita, il sesso è uno scambio, un dono, un rituale alchemico. Ecco perché l’i-dea di dover non solo essere sua vicina di casa, ma addi-

rittura sua ospite, non la metteva nella miglior disposi-zione d’animo per farle fare le valigie.

Forse era il momento di cominciare a fare i capricci. Justine non voleva proprio crescere: piuttosto che inta-volare una discussione matura e paritaria con quell’uo-mo, preferiva pestare i piedi e piagnucolare isterica.

«Non voglio venire giù. Non mi piace quella città e sicuramente non mi piace la gente che ci vive. Io non parto Edoardo, non voglio partire»

«Credo che dovrebbe interessarti poco la gente che c’è e il posto. Ho bisogno di te qui. Justine, gli affari stanno girando in maniera diversa. In questa zona si la-vora bene e siamo abbastanza insospettabili»

«Non potresti continuare a stare lì da solo? Posso co-munque continuare a gestire gli affari da Torino. Non cambia molto!»

«Ho bisogno delle tue mani qui. Della tua mente, del-le tue conoscenze. Sai come chiamano questa zona e questa città? La chiamano “la conca”. Ecco, sotto questa conca, che, ti avviso, sicuramente non ti piacerà, c’è qualcosa che ribolle. Qualcosa che, nel momento in cui spunterà fuori, e speriamo di essere in grado di evitarlo, farà un bel po’ di rumore. Ci sono giri strani qui, Justine: gente che sparisce, strani personaggi che appaiono. Ecco, un soggetto come te renderebbe tutto molto più bello, un po’ come una rosa all’interno di un giardino incolto. E comunque, tesoro mio, non puoi dirmi di no»

Non era stato affatto convincente, anzi. Non era af-fatto riuscito a tirarle fuori la minima voglia di prende-re e partire. E poi non era davvero abituata a far bagagli. Se non avesse avuto delle persone attorno che la aiuta-vano non ci sarebbe mai riuscita.

In quei giorni, il salone di casa era diventato una sor-ta di ripostiglio, un grande magazzino variopinto pieno di valigie, bauli, borse.

Non ho abbastanza cappelliere, i cappelli si rovinano se si mettono uno sull’altro.

Ma i cappelli non vanno più di moda, si potrebbero anche buttare, magari basta tenerne un paio, giusto per sicurezza. E anche le pellicce, Justine, ormai sanno di vecchio e hanno odore di chiuso. Cambiando città e casa, magari, lasciarsi qualcosa dietro non sarebbe male.

La prima valigia che ricordo di aver visto avevo 5 anni, quando ho lasciato Vondé. Lì ero stata allevata da una coppia di agricoltori di mezza età che con somma fatica, una bella mattina di maggio, mi hanno dovuto restituire a quella che era mia madre, quando è tornata a reclamare la sua progenie. Sono cresciuta in una casa di campagna, con tutte le cure che si potessero immaginare a quei tempi. Nata a Vondé nel 1890, in Francia. Mia madre faceva la ballerina in qualche locale nei dintorni di Nancy, una cittadina all’epoca piuttosto ano-nima, anche se alla famiglia aveva raccontato di fare l’attrice a Parigi. Probabilmente, data la fretta di liberarsi di me, avrà semplicemente fatto la prostituta in qualche bordello, dato che non sapeva pronunciare più di tre o quattro frasi in fran-

Capitolo I — Valigie

La figlia di Caino

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cese. Ecco perché, quando stavo per nascere, si è spostata in Bretagna e lì mi ha lasciata in custodia a una famiglia che non aveva avuto figli. È stata quella mattina che ho visto per la prima volta una valigia. Era una valigia di pelle, o forse di cartone color pelle; aveva delle grandi chiusure dorate ed era abbastanza grande in mano a quella donna magra, dai capel-li castani e gli occhi dello stesso colore della terra, così poco affascinante e talmente banale da confondersi tra la folla di un mercato di paese. Pochi istanti dopo averla vista entrare dalla porta di casa, vengo a sapere che si trattava di mia ma-dre. La valigia l’aveva portata vuota con sé, e quelli che io pensavo fossero i miei genitori le hanno aperto i cassetti del comò nella mia stanza dicendole che poteva prendere tutte le mie cose. Mentre la donna che mi ha cresciuto piangeva me-sta in un angolo, tenendosi un lembo del vestito a comprimer-si gli occhi, mia madre, quasi schifata, tirava fuori i miei ve-stiti da quei cassetti profumati di lavanda. Nella valigia finirono solo poche cose: qualche maglioncino colorato, di quelli fatti ai ferri, un paio di vestitini a fiori, delle calze di lana. Le altre cose le lasciò in disparte: erano troppo dozzinali, troppo da campagna, e poi, guardandomi, non faceva altro che ripetere che tanto sarei cresciuta in fretta e quindi quelle cose non mi sarebbero più andate bene. Mise un paio di libri, una Bibbia e un libro di favole di Perrault, delle foto di me bambina, una bambola di pezza di cui non ricordo né il nome né il viso, un cappellino di paglia e nulla più. Chiuse la valigia, ringraziò i due agricoltori con freddezza, mi prese per mano e mi portò via, senza chiedermi che cosa preferissi fare. Ma so-

prattutto senza farmi nemmeno una carezza. Eppure non ho pianto, credo.

Quindi tornai con mia madre, quella sconosciuta, in Italia, a conoscere quelli che erano i miei nonni. Lei era partita appe-na diciottenne per la Francia insieme a degli zii emigrati già da anni, aveva lasciato i borghi e le campagne intorno a Viter-bo per rincorrere un sogno assurdo: sognava di fare l’attrice e la ballerina. Ma non era bella abbastanza, e soprattutto non era troppo furba e ha finito per vivacchiare come prostituta e rimanere incinta. La mia nascita, ovviamente, è stata raccon-tata con dovizia di fantasiosi dettagli ai miei parenti: frutto di un amore folle e contrariato con un nobiluomo della Parigi per bene, morto poi in circostanze tragiche prima che io na-scessi. Ecco perché mi ritrovavo il cognome di mia madre.

A 5 anni non sapevo parlare una sola parola d’italiano, ep-pure mi è stata messa una valigia in mano e, nel giro di poco tempo, la Francia era diventato solo un ricordo sbiadito.

Ma ora, da donna, certe immagini sembrano essere indelebili nella sua mente. Justine si culla nell’odore di un passato talmente lontano da apparire scolorito e quasi irreale. Eccolo, il secondo nome di quella ambigua creatura: Nostalgia. E la cosa peggiore è aver nostalgia di qualcosa che nemmeno si ricorda davvero. Una volta abbandonate cose ormai inutili in angoli bui della casa, chiude i suoi bagagli che la precederanno di un giorno.

Perché in una nuova casa ci si entra con le proprie cose al loro posto.

Capitolo I — Valigie

La figlia di Caino

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. . .e nel prossimo numero,in uscita a luglio...

La stella di SalemCapitolo 1 — Viaggio a Sereth: Parte 2

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La Confraternita Dell'InfinitoFascicolo 02 — Questo mio soffitto

Il fermaglio di Marlene e l'AmmazzasonnoRacconto Autoconclusivo

La figlia di CainoCapitolo 2 — Conca

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