Rivista DMA - Testimoni di Gratuità (Luglio - Agosto 2011)

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RIVISTA DELLE FIGLIE DI MARIA AUSILIATRICE damihi animas 2011 Anno LVIII Mensile n. 7/8 Luglio/Agosto Poste Italiane SpA Spedizione in Abbonamento Postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art.1, comma 2 - DCB Roma TESTIMONI DI GRATUITÀ

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Rivista delle Figlie di Maria Ausiliatrice

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damihianimas2011Anno LVIII Mensile n. 7/8 Luglio/Agosto

Poste Italiane SpA Spedizione in Abbonamento Postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art.1, comma 2 - DCB Roma

TESTIMONI

DI GRATUITÀ

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4 EditorialeLa scelta del non-possessodi Giuseppina Teruggi

5DossierTestimoni di Gratuità

13Primopiano14Passo dopo passoDon Boscoe la pedagogia di ambiente

16Radici di futuroDa Mornese al mondo

18Amore e Giustizia“...andate anche voi nella mia vigna”

20Filo di AriannaLa solitudine

RIVISTA DELLE FIGLIE DI MARIA AUSILIATRICEdma damihianimas

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dmaRivista delle Figlie

di Maria AusiliatriceVia Ateneo Salesiano 81

00139 Roma

tel. 06/87.274.1 • fax 06/87.13.23.06e-mail: [email protected]

Direttrice responsabileMariagrazia Curti

RedazioneGiuseppina TeruggiAnna Rita Cristaino

CollaboratriciTonny Aldana • Julia Arciniegas

Mara Borsi • Piera Cavaglià

Maria Antonia Chinello • Anna CondòEmilia Di Massimo • Dora Eylenstein

Laura Gaeta • Bruna GrassiniMaria Pia Giudici • Palma Lionetti

Anna Mariani • Adriana NepiLouise Passero • Maria PerentalerLoli Ruiz Perez • Paola Pignatelli

Lucia M. Roces • Maria Rossi

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27In ricerca 28CultureScuola viva

30 PastoralmenteLa pastorale giovanile di B.16

32Donne in contestoIl profumo della gratuità

34Nostra TerraAcqua un diritto negato

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ANNO LVIII • MENSILE / LUGLIO AGOSTO 2011

35Comunicare36Testimoni digitaliProfili del continente digitale

38Da persona a personaQuando non servono le parole

40Video In un mondo migliore

42ScaffaleRecensioni video e libri

44LibroOgni cosa alla sua stagione

46Lettera da un’amicaLa furbiziadel perdono

n.7/8 luglio agosto 2011Tip. Istituto Salesiano Pio XI

Via Umbertide 11,00181 Roma

ASSOCIATAUNIONE STAMPA PERIODICA ITALIANA

Bernadette Sangma• Martha SéïdeTraduttrici

francese • Anne Marie Baud giapponese • ispettoria giapponese

inglese • Louise Passeropolacco • Janina Stankiewicz

portoghese • Maria Aparecida Nunesspagnolo • Amparo Contreras Alvarez

tedesco • ispettorie austriaca e tedescaEDIZIONE EXTRACOMMERCIALE

Istituto Internazionale Maria AusiliatriceVia Ateneo Salesiano 81, 00139 Roma

c.c.p. 47272000Reg. Trib. Di Roma n. 13125 del 16-1-1970

Sped. abb. post. art. 2, comma 20/c, legge 662/96 – Filiale di Roma

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docco, a Mornese “non è la singola persona cheeduca, ma la comunità nella ricchezza dei doni ap-portati dai singoli membri, nell’integrazione e nel-l’armonizzazione delle differenze”. È questo il cri-terio che – sulla linea dei recenti documenti - gui-da i nostri cammini oggi per “unire le forze e coor-dinare le iniziative”.

L’attitudine al non-possesso costituisce ancheun allenamento per vivere in modo sereno la so-litudine, che tocca ogni vita umana e può diven-tare un’insidia in chi “non riuscendo a liberar-si da atteggiamenti infantili di egocentrismo, diripiegamento su di sé” assume forme di prepo-tenza, rigidezza, chiusura. Mentre una sanasolitudine può essere “creativa, feconda, aper-ta alle relazioni”, perché “solitudine e socialitànon sono due realtà opposte e incompatibili, macomplementari”.

Molti i testimoni del non-possesso, dentro e fuo-ri le nostre comunità. Come Maria Adele ed Elioche affermano convinti: “Se noi riusciamo (e sap-piamo quanto sia difficile) a svuotarci di noi edel nostro ego, a metterci a disposizione e la-sciamo che la vita scorra in noi come in un bic-chiere sempre aperto ad accogliere l’acquapura che ogni giorno ci viene offerta…, alloradiventiamo capaci di fare cose che non imma-ginavamo di poter fare, perché è la Vita che scor-re attraverso di noi e feconda il mondo”.

[email protected]

La scelta del non-possessoGiuseppina Teruggi

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C’è un motivo di fondo, quasi un filo rosso - lopossiamo denominare non-possesso – che at-traversa vari articoli di questo numero delDMA. Un rimando del tutto salesiano, e anchedi sapore francescano, se evochiamo le paroledi un noto recital su san Francesco d’Assisi: “Re-gola 1 - noi chiediamo il permesso di possede-re mai nessun possesso”. È una connotazionedella gratuità che, se diventa stile di vita, può ren-derci “le persone più libere, più felici” e aiutar-ci a prendere la vita con più umorismo. Viverela gratuità spoglia dalla preoccupazione di difen-dere spazi personali, aiuta a ridimensionare lapretesa di considerare “mio” quanto è dono dacondividere, che appartiene a tutti. Cammino diconversione difficile oggi: una provocazione,un’alternativa evangelica all’individualismo.

La scelta del non-possesso, oltre a liberare dapaure di espropriazione, permette di superarela tentazione di sentirsi “proprietari” invece che“amministratori”. Una tale ottica sostiene l’im-pegno dell’operosità assidua e responsabile dichi sa di essere collaboratore/collaboratrice alcompletarsi della creazione. La nostra Regola divita ci indica una via percorribile quando invi-ta a “sottometterci con generosità alla comunelegge del lavoro”, per dare un contributo al benecomune, mettendo a disposizione ciò che si è.Anche questo è “segno di amore”: può qualifi-care la nostra identità e caratterizzare il volto del-le nostre comunità, sempre più interculturali.Una scelta radicata nelle origini dell’Istituto. A Val-

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Testimoni

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te date” (Mt 10,8). Senza calcoli. Liberi. Essere consapevoli di questo ci fa entrarenella libertà e nella verità del grande miste-ro della nostra fede. Testimoni di gratuità dicevamo, che nonpossono non testimoniare felicità. Se soloper un istante, riuscissimo a percepire tut-to l’amore di cui siamo inondati, se solo riu-scissimo a sentire bene il grande e continuoabbraccio con cui ci avvolge il Signore, cimancherebbe il fiato, ci sembrerebbe trop-po, ci sentiremmo inadeguati a tanto bene. Ma esserne coscienti almeno un po’ ci fa-rebbe affrontare la vita con uno sguardo piùlibero, più sincero.Ci porterebbe a fare della nostra vita unacontinua esplorazione, un continuo cerca-re indizi che confermino il nostro sentirciamati, senza stancarci di cercare, e soprat-tutto senza pretendere di trattenere. Comela sposa nel Cantico dei cantici. Sa di nonaver fatto nulla per meritare tutto l’amoredell’amato, ma è cosciente che per il solofatto di esistere è degna di amore. Nel suopercorso per incontrare l’amato, sbaglia,cade, si ritrae, ha paura, ma riesce a trova-re il coraggio di rialzarsi, di correre alla ri-cerca di colui che è la sua unica felicità e dimetterlo come sigillo sul proprio cuore.

Il coraggio della gratuità

Bisogna aver coraggio per accettare di es-sere stati amati per primi. Ci vuole corag-gio ad accettare la gratuità di Dio.

Testimoni di GratuitàAnna Rita Cristaino

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“Che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto?”(1 Cor. 4,7).

La consapevolezza di essere stati donati anoi stessi, da un gesto puramente gratuitodi Dio, ci fa percepire la nostra vita comequalcosa di particolarmente misterioso, eallo stesso tempo avvincente. Basta guardarci intorno e scoprire che tut-to ciò che ci circonda è lì per un piano gra-tuito di Dio. Le persone, il creato, gli avve-nimenti, tutto ciò che entra in relazione connoi è qualcosa che, a pensarci bene, non cisiamo conquistati, ma tutto ci è stato dona-to per grazia. Se ne avessimo consapevolez-za, se riuscissimo in ogni istante della no-stra vita a capirlo, a rendercene conto,non potremmo smettere di dire grazie. Tutto l’Amore che Dio è, Lui ce l’ha dona-to. Tutto ciò che è, ci è stato reso prossimoda Gesù, dono per eccellenza del Padre, checontinua ogni giorno nell’Eucarestia.

Testimoni di gratuità, perché testimoni diuna concezione della vita che capovolge lepriorità. Al primo posto vi è il riconoscimen-to di essere stati amati da sempre, dall’eter-nità, amati dall’Amore. Poi viene il nostro intimo bisogno di con-dividere il dono ricevuto. Di entrare in re-lazione con tutto ciò che ci parla di Lui. “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamen-

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Ci vuole coraggio perché tutto questo cifa entrare in una logica in cui tutto puòsuccedere, in cui non ci sono calcoli edove alle previsioni non sempre corri-sponde l’esito desiderato. A volte si sentono alcuni genitori che dico-no ai propri figli: “Fai il bravo altrimenti lamamma (o il papà) non ti vuole più bene”.Dio non ragiona così. Lui ci vuole bene e ba-sta. Imparare la gratuità di Dio è esercizioarduo. Riusciremo noi a conservare l’affet-

to per i nostri amici anchequando questi ci deludono?Ad amare le nostre sorelleanche quando non condivi-diamo più niente di quelloche fanno? A volere la com-pagnia di persone che ci ir-ritano o che ci rimandanosensazioni negative? Credo che essere testimonidi gratuità sia proprio que-sto. Il nostro amare non è unamare romantico, fatto dicuoricini e stelline che si il-luminano. Il nostro amare èdifficile perché è gratuito.Perché non ha prezzo. Ma immaginiamo di viverenella più pura gratuità. Sa-remmo le persone più libe-re, più felici, e sapremmo si-curamente prendere la vitacon più umorismo. Niente ci è dovuto in cam-bio, niente considerazionio attestati di stima, nientegare ad arrivare primi, nien-te accaparramenti, nienteelucubrazioni mentali, nien-te guadagno da incrementa-re, niente da risparmiare,tutto da perdere.

È una strada tutt’altro che in discesa. Forseè necessario riscoprire la bellezza dell’equi-librio tra contemplazione e azione, di quel-l’equilibrio lieve, frutto di una mistica vis-suta con ottimismo, come ci hanno insegna-to don Bosco e madre Mazzarello.

L’esempio di Gesù di Nazareth

Gesù è testimone di una esistenza intera-mente gratuita. Agisce con gratuità assolu-ta e lo stesso raccomanda ai suoi discepo-

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pe lo scandalo della gratuità. In un certosenso, è anche un ritorno alla realtà, perchéci porta a comprendere che non tutto è ac-quistabile, convertibile in denaro, mercifi-cabile. Ci sono beni fuori prezzo, che sonoassolutamente trascendentali, e che opera-no nella natura profonda dell’uomo. Nella gratuità l’uomo diventa creativo,mentre nella mercificazione è ripetitivo.

Tutto è grazia

La gratuità è grazia, poiché è dono non soloper chi riceve atti di gratuità, ma anche perchi li compie, poiché la capacità di amaregratuitamente è qualcosa che accade in noisorprendendoci sempre, come quandosiamo capaci di ricominciare dopo un gros-so fallimento, o di perdonare davvero gra-vi errori degli altri e nostri. Abbiamo a che fare con la gratuità tutte levolte che un comportamento è posto in es-sere anche per motivazioni intrinseche enon primariamente per un obiettivo ester-no al comportamento stesso. Quando si attiva la dimensione della gra-tuità, la strada da percorrere è importantequanto la meta da raggiungere. La catego-ria che più dice cosa sia la gratuità è agape.Infatti, non c’è comportamento ispirato al-l’agape senza gratuità. Questa condizione necessaria serve già a di-

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li. Quando si scopre la vita come un dono,come un regalo prezioso e impagabile, al-lora la gratuità trabocca e raggiunge tuttisotto forma di segni incarnati. Nel racconto del profumo versato suipiedi di Gesù, lo sguardo di Gesù è puragratuità, l’unico sguardo gratuito tra ipresenti. Alcuni leggono il gesto consmisurato interesse e arrivano perfino acalcolare il prezzo di quel profumo. Ma Gesù vede soltanto la profondità dell’a-more che quella donna manifesta esterna-mente. E lo stesso avviene nel racconto del-la moltiplicazione dei pani. Mentre i disce-poli sono preoccupati per quanto costeràcomprare tutto quel pane, Gesù analizza ilmomento soltanto nell’ottica della gratuitàdi Dio nei confronti dell’umanità, un Dioche dona pane in abbondanza per tutti, tan-to che ne resta d’avanzo. Questo ci dovrebbe porre di fronte alla vitacon ammirazione e gratitudine coltivandoun costante desiderio di offerta e di dono.

La gratuità è una sfida, una provocazione almondo ordinato e pianificato. La gratuità ri-chiede di andare oltre il modello entro cuispesso siamo intrappolati. Ma questo pas-saggio lo facciamo a mani nude, attrezzatisolo della nostra umanità. Dove tutto sicompra e si vende, dove tutto è prodottoper essere consumato e scartato, lì irrom-

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L’amor proprio, l’amore di sé, quell’ego-centrismo che non solo tende a porci alcentro dell’universo, ma che ci fa rifiuta-re la logica del dono e della gratuità: tut-to ci è dovuto, tutto è nostra possibile pre-da, tutto è subordinato ai nostri deside-ri e ai nostri sogni. Ma così togliamo spa-zio vitale agli altri e senza accorgerce-ne, finiamo per toglierlo a noi stessi,

per soffocarci con le nostre stessemani: senz’altro infatti, non ci è dato divivere, ma spetta a noi fare degli altrio il nostro inferno o la sorgente di unarappacificazione condivisa e perciòautentica e duratura.

(Lettere a un amico sulla vita spirituale,Bianchi Enzo, Qiqajon)

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stinguere la gratuità dall’altruismo o dallafilantropia. Il dono può essere gratuità, maanche no, quando nel dono prevale la di-mensione dell’obbligo. Un’altra parola chepuò aiutare a cogliere una dimensione ne-cessaria della gratuità è innocenza, che tro-viamo soprattutto nei bambini. C’è gratuità anche nell’azione di chi,come racconta Primo Levi, in un campo diconcentramento decideva di fare un“muro dritto” (e non storto), nonostantenon fosse utilizzato da nessuno e “nonservisse a nulla”. La gratuità è dunque unadimensione che può accompagnare qual-siasi azione a cui si può rispondere solocon un altro atto di gratuità o dono.

Il pericolo dell’aggettivo “mio”

Dio si rivela come Amore gratuito in se stes-so e in quello che fa. Tutto ciò che esiste,essendo frutto della creatività di Dio, por-ta in sé, come un marchio di fabbrica che

diventa la sua ragion d’essere, l’immaginedi questo amore gratuito. Ogni cosa che esiste è dono e come un te-soro prezioso o come un talento unico,non esiste per essere conservato o ammi-rato, ma per essere dato, in questo modosviluppa le sue potenzialità e peculiarità.Solo così ogni dono genera la vita e diven-ta, anche in questo, “immagine di Dio”. Tutto quello che siamo, anima e corpo, tut-to quello che possediamo, fisicamente e spi-ritualmente, tutta la creazione che ci circon-da con tutte le creature che la popolano, tut-ti gli affetti, i sentimenti, gli istinti, i deside-ri, le speranze… tutte queste cose sono“beni che appartengono agli altri”. Da questa coscienza dei beni che sono pergli altri, anche noi stessi, anche i nostri ta-lenti, nasce lo spirito del non possesso chedifficilmente usa l’aggettivo “mio”. L’aggettivo “mio” indica qualcosa che è dimia proprietà, ed è in opposizione a ciò che

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Se potessimo rivolgerci ad un grande scrittore russo del passato, come Lev Tolstòj echiedergli di descriverci la sua visione di gratuità, forse ci risponderebbe con l’inci-pit di uno dei suoi capolavori letterari, Resurrezione: «Per quanto cercassero gli uo-mini, raccoltisi in un piccolo spazio a centinaia di migliaia, di deturpare quella ter-ra sulla quale si stringevano, per quanto lastricassero di pietre la terra per non farvicrescere nulla, per quanto strappassero ogni filo d’erba che spuntava, per quanto af-fumicassero l’aria con carbon fossile e col petrolio, per quanto mutilassero gli albe-ri e cacciassero via tutti gli animali e gli uccelli, la primavera era primavera, perfinoin città. Il sole scaldava, l’erba, tornando in vita, cresceva e inverdiva dovunque nonfosse stata estirpata, non solo nelle aiole dei viali, ma anche tra i lastroni di pietra, ele betulle, i pioppi, i padi dilatavano le loro foglie viscose e profumate, i tigli gonfia-vano le gemme che già scoppiavano; cornacchie, passerotti e piccioni, sentendo laprimavera, già preparavano festosamente i nidi, e le mosche, scaldate dal sole, ron-zavano presso i muri. Erano allegri e i vegetali, e gli uccelli, e gli insetti, e i bambini.Ma gli uomini – quelli grandi, gli adulti – non smettevano di ingannare se stessi e glialtri. Gli uomini consideravano che sacro e importante fosse, non quel mattino di pri-mavera, non quella bellezza del mondo di Dio, donata per il bene di tutte le creature– bellezza disposta per la pace, l’accordo e l’amore – ma che sacro e importante fos-se quel che loro stessi avevano escogitato per dominare gli uni sugli altri».

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della vita è questo: un continuo passaredal ricevere al dare. Fra le cose create nonc’è pienezza di vita solo nel dare o solonel ricevere, solo nel parlare o solo nel-l’ascoltare, solo nell’amare o solo nell’es-sere amati, solo nel pensare senza agire,ma nell’alternanza dei due aspetti, chepossiamo trovare equilibratamente nellacooperazione, nel dialogo, nella comunio-ne, che sono frutto dell’amore. L’amore sa dare e sa ricevere. La vita in comunità, ci fa sperimentare il nonpossesso, anzi ci porta a donare noi stessi:diamo la nostra presenza fino a dare la no-stra vita. Siamo in comunità per gli altri, lanostra presenza è espressione del nostrosentirci là per gli altri.

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invece viene indicato dalla parola “comune”.Quindi ciò che è comune appartiene a mol-ti, a tutti. Nella comunità, tutto è messo incomune, quindi la comunità può essere vi-sta come il luogo della condivisione deldono e della responsabilità. È lo spirito della povertà, o essere poveri inspirito, che ci dà coscienza che abbiamo ri-cevuto tutto gratuitamente e che ognidono è per gli altri. Povero in spirito non è chi non ha beni néaffetti, ma colui che sa che tutte le cosesono beni per gli altri. La gratuità, dunque, porta a vivere ognicosa come dono; ricevuto e da donare,spontaneo come il respirare, che ci fariempire i polmoni prendendo aria e conaltrettanta naturalità svuotarli. Il respiro

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Paolo VI nella Populorumprogressio chiedeva di con-figurare un modello di eco-nomia di mercato capace diincludere, almeno tenden-zialmente, tutti i popoli enon solamente quelli ade-guatamente attrezzati. Chiedeva che ci si impe-gnasse a promuovere unmondo più umano per tut-ti, un mondo nel quale tut-ti avessero «qualcosa dadare e da ricevere, senza cheil progresso degli uni costi-tuisca un ostacolo allo svi-luppo degli altri» [94]. (…)Quando la logica del mer-cato e quella dello Stato siaccordano tra loro per con-tinuare nel monopolio deirispettivi ambiti di influen-

za, alla lunga vengonomeno la solidarietà nellerelazioni tra i cittadini, lapartecipazione e l’adesio-ne, l’agire gratuito, chesono altra cosa rispetto al“dare per avere”, propriodella logica dello scambio,e al “dare per dovere”, pro-prio della logica dei com-portamenti pubblici, im-posti per legge dallo Stato.La vittoria sul sottosvilup-po richiede di agire nonsolo sul miglioramento del-le transazioni fondate sul-lo scambio, non solo suitrasferimenti delle struttu-re assistenziali di naturapubblica, ma soprattuttosulla progressiva apertura,in contesto mondiale, a

forme di attività economi-ca caratterizzate da quotedi gratuità e di comunione.Il binomio esclusivo mer-cato-Stato corrode la socia-lità, mentre le forme eco-nomiche solidali, che tro-vano il loro terreno mi-gliore nella società civilesenza ridursi ad essa, crea-no socialità. Il mercato del-la gratuità non esiste e nonsi possono disporre perlegge atteggiamenti gra-tuiti. Eppure, sia il mercatosia la politica hanno biso-gno di persone aperte aldono reciproco.

(Caritas in veritate, 39)

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L’io comunione

Essere testimoni di gratuità è anche esseretestimoni di fraternità, passando dall’egoi-smo alla solidarietà, all’amore. In comunitàsperimento concretamente la mia capacitàdi dono, dando il tempo, la presenza, le for-ze, il tutto per un bene comune, a serviziodell’unica missione. Il nostro operare pasto-rale, se è segno di condivisione, di relazio-ne, di dialogo, parla di dono gratuito. Anche la nostra preghiera, quando non ècentrata sui noi stessi, diventa dono, rispo-sta alla decisione assoluta, prioritaria egratuita di Dio di entrare in relazione connoi, accoglienza della sua Parola e del suoSpirito. Preghiera che diventa decentramen-to dal nostro io per centrarsi nel Io di Cri-sto in un movimento di apertura che por-ta alla comunione con Dio per Cristo nel-lo Spirito Santo che spinge verso la carità. Se le nostre comunità educanti diventanoi luoghi dove donne e uomini, giovani emeno giovani, vivono e lavorano insiemecon gratuità, per servire il Vangelo attraver-so il servizio educativo, queste diventanoeloquenti del messaggio di Cristo. In queste comunità allora si possono testi-moniare i valori forti del perdono, della re-ciprocità, della gratuità, della riconcilia-zione, della sequela. Instaurare relazioni improntate alla gratuità,rende più semplice testimoniare l’amore. La gratuità dei gesti quotidiani che si com-piono è sovente l’unica dimensione elo-quente in un mondo e una società che sem-brano misurare tutto sull’apparire, sull’im-magine, sull’efficacia. Anche a livello sociale, come ricorda Be-nedetto XVI nell’enciclica Caritas in veri-tate, si può prendere coscienza di comenella logica dominante del mercato sipossono concretamente immettere istan-

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ze di gratuita fraternità, di solidarietàumana, di uno stile di vita più sobrio edessenziale, con una ritrovata dimensionedi fratellanza universale.

I passi della gratuità

È importante passare dall’essere consu-matori della vita ad essere distributoridella vita perché la percepiamo come gra-tuità. Ecco allora l’importanza di coltiva-re atteggiamenti di riconoscenza. La gra-titudine è segno di una personalità ma-tura e integrata. Essa si riflette in tutte leattività, specialmente nella preghiera.

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Il ringraziamento suppone infatti il sensodell’alterità, la messa in crisi del proprio nar-cisismo, la capacità di entrare in rapportocon un “tu”. È grato chi sa che vive una di-mensione di reciprocità con gli altri. Nel rapporto con il Signore la capacità eu-caristica indica la maturità di fede del cre-dente che riconosce che “tutto è grazia”,che l’amore del Signore precede, accompa-gna e segue la propria vita. Alla gratuità di Dio verso l’uomo rispondedunque il riconoscimento del dono e la ri-conoscenza, la gratitudine, dell’uomo. Il rin-graziamento è la modalità spirituale pecu-liare con cui il cristiano si rapporta al mon-do, alle cose, agli altri.

Il cristiano risponde al dono di Dio facen-do della propria vita un dono, un ringrazia-mento, un’Eucaristia vivente.Gli atti di gentilezza, ad esempio, comun-que si esprimano, costituiscono dei modiconcreti per manifestare la nostra gratitu-dine. Ogni gesto di riconoscenza infatti, ren-de quello successivo più facile. Il terminegentilezza, può causare piccole reazioni al-lergiche, soprattutto in chi l’ha dovuta pra-ticare per assolvere a doveri formali. Ma la gentilezza, intesa come virtù, non siesaurisce in questo o quel gesto garbato, dibuona educazione, ma è costituta da un in-sieme di qualità, è un habitus che rende lapersona buona, sensibile ai bisogni degli al-tri, generosa e premurosa, compassionevo-le e sempre motivata nel suo agire dall’at-tenzione verso il prossimo. È un atteggia-mento che plasma l’identità della persona.Dire grazie, non è solo un gesto di buonaeducazione, ma il riconoscere che l’altro pernoi è dono. Fare in modo, con le nostre azioni, che l’al-tro si senta a suo agio, si senta riconosciu-to, è un primo atto di amore gratuito. È un primo esercizio che mi fa decentrare,che distoglie la mia attenzione da me. La dimensione della gratuità fa crescere lanostra libertà e ci apre alla responsabilità.Tutti siamo liberi di scegliere che tipo diazioni intraprendere, ma non possiamouscire dal nesso che lega il bene ricevutodal bene donato. La vera libertà infatti è quella di sentirsi re-sponsabili del tanto amore ricevuto, poichénulla rende responsabili come l’amore ocome la coscienza di essere stati amati.

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ti dai singoli membri, nell’integrazione e nel-l’armonizzazione delle differenze.La casa per Don Bosco è, quindi, più cheuna struttura, un’esperienza di comunionetra persone che si aiutano, un processo dele con il cuore, nel riferimento costante aDio, quale custode e perfetto conoscitoredel cuore delle persone.

É la comunità che si prende in carico di tut-ta la realtà vitale dei giovani, e in una rela-zione di ‘reciprocità’ li coinvolge nella crea-zione e nell’esperienza di relazioni che sia-no realmente ‘generative’.

Don Bosco e la pedagogiadi ambienteMaria Fisichella

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Don Bosco sogna e propone a Valdocco unaesperienza di famiglia e crea uno spazio divita per i giovani che non hanno né casa, népunti di riferimento, offre un ambiente, unospazio vitale che vuole essere per ognigiovane: casa, famiglia, scuola, ‘cortile’.

Chiedendo a Mamma Margherita di ac-compagnarlo e di essere madre dei suoi gio-vani, esprime la convinzione, l’intuizioneche l’esperienza educativa ha bisogno di unafamiglia, di una comunità di riferimento.Non è la singola persona che educa, ma lacomunità nella ricchezza dei doni apporta-

RIVISTA DELLE FIGLIE DI MARIA AUSILIATRICEdma damihianimas

Come educatrici salesiane attuiamo la nostra missione in quanto comunità animata dallo spirito di famiglia (cf C 50).

In essa si trovano spazi per pregare, pensare, progettare, lavorare e celebrare insieme,

valorizzando e integrando gli apporti delle diverse generazioni.

Le parole di don Bosco risuonano particolarmente attuali: «L’essere molti insieme accresce l’allegria,

serve di incoraggiamento a sopportare le fatiche... e stimola a vedere il profitto degli altri;

uno comunica all’altro le proprie conoscenze, le proprie idee e così uno impara dall’altro.

L’essere in molti che fanno il bene ci anima senza avvedercene» (MB VII 602”)

Progetto Formativo 27

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tamente, promuove la vita di ciascun mem-bro, crea condizioni perché ciascuno sia sestesso, dia e cresca nella parte migliore disé. È uno stile che responsabilizza e coin-volge i giovani, come primi attori e prota-gonisti dell’azione educativa.Don Bosco era consapevole che la rela-zione è costitutiva della persona e inquanto tale la fa essere ciò che è in rap-porto a se stessa e di fronte all’altro. Manon ignorava allo stesso tempo le diffi-coltà e le ambivalenze che possono attra-versare ogni relazione. Per vivere l’auten-

tico spirito di famiglia è necessario un co-stante cammino di purificazione, di libe-razione interiore che trova nell’amore ilsignificato più autentico (Cf FP 27).

Lo stile dell’accompagnamento educativodi Don Bosco che continua ad ispirare chiopera nel campo dell’educazione salesiana,ha il volto del pastore-educatore che si pro-tende alla ricerca delle sue pecorelle, le rag-giunge nel loro ‘qui ed ora’, se ne fa caricoe cura tutto ciò che può aiutare a predispor-re l’animo alla confidenza.

L’educazione in stile salesiano, si concretiz-za nell’assistenza, in una presenza amore-vole e discreta, ma ferma e chiara, che ac-compagna con la persuasione e la bontà, fa-cendo appello alla ragione e all’amore. Si at-tua quando la relazione percorre le stradedel cuore perché per Don Bosco “l’educa-zione è cosa di cuore”.

Il ‘cuore’ di cui parla Don Bosco è amore-volezza che fa sentire ai giovani di essereamati, che ama ciò che i giovani amano. Maè anche ragione e religione che fa cresce-re nella relazione con Gesù attraverso lasola forza della persuasione e dell’amore.

L’educatore, l’educatrice accompagna, quin-di, nello stile del Sistema preventivo, libe-randosi da ruoli rigidi o schemi riduttivi peraprirsi ad accogliere il mondo vitale dell’al-tro e, in alcuni casi, attendendo di riceve-re da lui il permesso di entrarvi.

Maria, madre ed educatrice, è Colei a cuiDon Bosco si ispira per imparare l’artedella sintesi: fondere insieme il principiopaterno che richiama le persone al sen-so di responsabilità, e quello maternoche rimanda all’accoglienza illimitata ealla misericordia incondizionata qualesolo una madre sa offrire.

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É l’intera comunità che crea ambienti for-mativi ricchi di stimoli, con ritmi e attivitàcoinvolgenti e attraenti, con presenze dieducatori e amici significativi.

A Valdocco, lo stile, il clima che si respira èquello tipico della famiglia, una famiglia ric-ca di relazioni che accoglie incondiziona-

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merica nel novembre 1875: “Ricordati cheper ottobre noi faremo di spedire trenta Fi-glie di Maria Ausialitrice con una decina diSalesiani; alcuni anche prima, se vi è urgen-za” (Ep. III 11). La realizzazione sarà possi-bile nel 1877 con solo sei FMA, straordina-rie nella loro giovane età, umili e forti pio-niere, aperte senza pregiudizi a nuoverealtà sconosciute. “Don Cagliero ha fattola scelta, e le sei designate studiano alacre-mente lo spagnolo e si preparano alla par-tenza nel prossimo novembre” (Ep. III 213).Con coraggio e zelo intuiscono già nell’av-venturoso viaggio come coniugare fatichee missione, dal mal di mare (“ad una gira-va la cabeza, l’altra sentivasi lo stomaco ri-volto…offrivamo il lavoro al Signore e poidormivamo”) al catechismo, al canto, alla te-stimonianza serena che colpisce i compa-gni di viaggio, capitano compreso. “In ba-stimento abbiamo potuto intendere quan-to bisogno c’è di far conoscere e amare ilbuon Dio e noi ardiamo dal desiderio di dar-ci alle anime” (Cron. II 304). L’accoglienza non sarà ottima, neppure lacasa è pronta, la povertà è tipicamentemornesina come l’allegria e il gioioso sa-crificio. “In alcune orette da mastello, ciprende qualche volta la nostalgia delle ani-me; e allora: Oh, vieni qua tu, lenzuolac-cio tremendo! lasciati lavare ben beneché, tu solo così pesante come sei e cosìmalandato, puoi regalarci un peccatoronedi prima qualità” (Cron. III 42), scrive poi

Da Mornese al mondoAnita Deleidi

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“Prego Dio - scrive don Bosco - che in tutte infonda lo spirito di carità e di fervore, affinchè questa nostraumile Congregazione cresca in numero, si dilati in altri e piùremoti paesi della terra”(Orme di vita D 118).

Da Mornese ecco la pronta disponibilitàalla preghiera che accompagna un sogno:“Preparino una casa ben grande per noigiacché le educande vogliono farsi tanti mis-sionari” (Lett. 4,12). L’ardore missionario del-la Casa dell’amor di Dio“contagia” anche leragazze. Gli orizzonti di Mornese benpresto si allargano al mondo… Non c’è ti-more o un entusiasmo superficiale, passeg-gero, ma una convinta passione missiona-ria nella semplicità di giovani vite animateda vero impegno apostolico.

Perfino la Madre insiste, scrivendo a don Ca-gliero: “Adesso senta che cosa le voglio dire:mi tenga, ma davvero sa? un posto in Ame-rica. È vero che son buona a far nulla, la po-lenta però la so fare, e poi starò attenta al bu-cato che non si consumi troppo sapone; ese vuole imparerò anche a fare un po’ di cu-cina, insomma farò tutto il possibile perché‚siano contenti, purché mi ci facciaandare”(L.6,11). Non ci stupisce perciò lapromessa sbalorditiva che lo stesso don Bo-sco aveva fatto nei primi giorni del 1876 inuna lettera a don Cagliero, partito per l’A-

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suor Giuseppina Vergniaud. Nonostante le difficoltà portate dalla mas-soneria e dall’anticlericalismo diffusi, le pri-me missionarie si dedicano con coraggioalle attività richieste, pronte a tutto purchél’annuncio evangelico generi speranza. “Fondare un Istituto educativo in un pae-se vuol dire fare un segnalato benefizio atutte le classi dei cittadini che vivono ades-so e a tutti quelli che vivranno dopo di noi”(Ep. III 213), scrive ancora don Bosco alla be-nefattrice Elena Jackson, residente in Uru-guay, che aveva contribuito alle spese delviaggio. La dimensione missionaria è unelemento essenziale dell’ identità dell’Isti-tuto ed espressione della sua universalità(Cost. 75) e connota strettamente la suamissione educativa, ravviva lo spirito di fa-miglia, l’audacia apostolica e la collabora-zione all’interno della stessa Famiglia sa-lesiana. Le fondazioni sono sempre carat-terizzate da un taglio educativo-pastorale.Salvare le anime ed estendere il Regno diDio era l’unico scopo che spingeva lemissionarie a dare risposte inculturate, an-che se a quei tempi il termine era scono-sciuto. Il da mihi animas vissuto con fe-deltà mornesina, ma attento alla nuovee ignote realtà, permette al carisma sale-siano di arrivare al cuore delle giovani,

dei giovani più poveri, de-gli immigrati fin dai primisemplici – e spesso audaci,se visti nel contesto deltempo, degli ambienti edel le persone – approccievan gelizzatori.

Da Mornese al mondo

L’espansione missionaria ini-ziata nel 1877 continua eraggiunge oggi i cinque con-tinenti; nuove e inaspettate

frontiere si aprono, mentre altre si trasfor-mano; i contesti sono sempre più multire-ligiosi, spesso con i cattolici in minoranzao lontani dalle loro radici cristiane. La sfi-da dell’interculturalità dà un volto diversoall’attività missionaria delle FMA, maturauna maggiore consapevolezza di formazio-ne e qualità di presenza educativa, favoren-do reti di collegamento tra l’Istituto e i grup-pi, le istituzioni che si occupano della di-gnità della donna, specialmente nei conte-sti di maggiore povertà. Sta crescendo nel-l’Istituto una più solida consapevolezzamissionaria: ogni comunità, fondata sullafede e sulla fraternità in Cristo (Cost. 36), èchiamata ad essere segno ed annuncio diun Amore che salva, ogni comunità è evan-gelizzata ed evangelizzatrice.Essere un “segno d’amore” qualifica la no-stra identità e caratterizza il volto delle no-stre comunità sempre più interculturali, perle presenze e per i destinatari. L’esperien-za missionaria delle origini continua: “Ve-nite a vedere quanto sia grande il Signorenei suoi mari e nei suoi firmamenti equanto sia più grande servirlo e l’amarlo…siamo felici!” (Cron. III 42). I nostri confinisono quelli del mondo. “Con coraggio,senza paura andate avanti” (Lett. 66,4).

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suoi massimi livelli storici per il terzo annoconsecutivo dall’inizio della crisi economi-ca. A lanciare l’allarme è l’OrganizzazioneInternazionale del Lavoro (ILO) nel suo rap-porto annuale sulle tendenze globali del-l’occupazione. La disoccupazione giovanile, inoltre, ha rag-giunto un livello record negli ultimi dueanni ed è destinata a crescere ulteriormen-te. Questo fenomeno rischia di creare «unagenerazione perduta, costituita di giovani chesono stati spinti fuori dal mercato del lavoroe che hanno perso ogni speranza di poter vi-vere in modo decente» (Kapsos). Inoltre,non solo sono disoccupati, ma anche pove-ri. L’ILO calcola che circa 152 milioni di gio-vani lavoratori nel mondo, cioè un quarto de-gli occupati giovanili, vivano in situazioni diestrema povertà. Vulnerabili e senza diritti.

Alle sorgenti dell’amore

La disoccupazione, afferma Mario Toso inun’interessante riflessione sulla dignità dellavoro, può avere varie cause, anche a se-conda delle regioni del mondo in cui si ve-rifica. In alcuni Paesi, le cause sono il man-cato progresso culturale, tecnico e scienti-fico e la carenza di politiche del lavoro; op-pure, il passaggio troppo repentino da unsistema economico prevalentemente accen-trato ad uno di libero mercato; il mutamen-to strutturale del mondo industriale, prodot-to dal progresso tecnologico, cui corri-sponde, in molti casi, un aumento enorme

“… Andate anche voi nella mia vigna…” (Mt 20,7)Julia Arciniegas

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Il corso della storia è contrassegnato dalleprofonde trasformazioni e dalle esaltanticonquiste del lavoro, ma anche dallo sfrut-tamento di tanti lavoratori e dalle offese allaloro dignità. Il Magistero sociale della Chie-sa con la forza della profezia, ha affermatoche il lavoro è un diritto fondamentale edè un bene per l’uomo (…). Di conseguen-za addita la disoccupazione come una«vera calamità sociale», soprattutto in rela-zione alle giovani generazioni. (Cf. Compendio DSC 287-288)

Parlano i fatti

- Vincent fa credere alla propria famiglia diaver cambiato lavoro e di essere un impor-tante funzionario. Ma in realtà è disoccupa-to da settimane, e trascorre intere giornategirovagando. Mentire diventerà la sua occu-pazione a tempo pieno (Laurent, L’emploidu temps).

- Dopo aver perso il suo posto di operaio,il giovane Yusuf si trasferisce dal suo pae-se natale a Istanbul in cerca di una nuova oc-cupazione. Ma la città si rivelerà, per lui, unambiente estraneo ed ostile (Bilge, Uzak).

Il cinema ha spesso raccontato storie comequeste toccando il tema della disoccupazio-ne con il racconto di storie disperate, malin-coniche, tragiche. Nella realtà quotidiana ladisoccupazione è diventata l’incubo del no-stro tempo, la calamità che affligge i popoli. La disoccupazione mondiale è salita ai

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della produttività senza un corrisponden-te allargamento dell’impiego di mano d’o-pera. La disoccupazione appare soprattut-to conseguenza dell’incapacità dei sistemieconomico-sociali di essere vitali, di saper-si articolare ed organizzare nel modo piùadatto per valorizzare adeguatamente le ri-sorse umane, mettendo al centro le perso-ne e i loro diritti, realizzando la loro prio-rità e supremazia rispetto al capitale. Il lavoro appartiene alla condizione origi-naria dell’uomo. Fatto a immagine e somi-glianza di Dio stesso (Cf. Gen 1,26) nell’u-niverso visibile, e in esso costituito perchédominasse la terra (Cf. Gen 1,28). La descri-zione della creazione, che troviamo già nelprimo capitolo del Libro della Genesi è, altempo stesso, in un certo senso il primo«Vangelo del lavoro». Durante il suo ministero terreno, ancheGesù lavora instancabilmente per liberarele persone dalla malattia, dalla sofferenza

e dalla morte. Egli non approva il compor-tamento del servo fannullone che nascon-de sottoterra il talento (Cf. Mt 25, 14-30). Pa-ragona il Regno di Dio a un padre di fami-glia che uscì all’alba per procurarsi lavora-tori per la sua vigna: ne trovò alcuni che at-tendevano di essere assunti da un padro-ne, altri che stavano sulla piazza sfaccenda-ti e, finalmente, trovò altri disoccupati.Mandò tutti a lavorare nella sua vigna. La Chiesa ha sempre mostrato una partico-lare sollecitudine per il male sociale delladisoccupazione di massa. Novant’annidopo la Rerum Novarum, Giovanni Paolo IIdedica l’enciclica Laborem exercens (1981)al lavoro, bene fondamentale per la perso-na, fattore primario dell’attività economicae chiave di tutta la questione sociale. Que-sti orientamenti sono raccolti, approfondi-ti e sviluppati dal Compendio della Dottri-na Sociale della Chiesa (2004).

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Un aspetto essenziale della nostra povertàè l’operosità assidua, industriosa e respon-sabile, con cui collaboriamo al completar-si della creazione e della redenzione delmondo. Le Costituzioni ci propongono disottometterci con generosità alla comunelegge del lavoro, condividendo anche inquesto la sorte dei poveri che devono fati-care per guadagnarsi il pane e a svolgereogni nostra attività con spirito apostolico econ la dedizione instancabile di don Boscoe di madre Mazzarello.- Quali segni / atteggiamenti rendono leg-gibile alla gente con cui condividiamo legiornate questo nostro stile di vita?

Educare al lavoro significa non solo tra-smettere abilità e competenze, ma anche esoprattutto aiutare il/la giovane a prenderecoscienza della professione come dimensio-

ne costitutiva della sua vocazione umana equindi accompagnarli nello sviluppo etico,sociale, spirituale perché la esercitino comeservizio agli altri, al bene comune.

- In che modo è presente questa attenzionenel nostro ambiente educativo? Possiamo evi-denziarla in alcune delle nostre proposte?

Il lavoro è un bene di tutti. Chi è disoccu-pato o sotto-occupato vede compromessala propria personalità e rischia di essere po-sto ai margini della società. La ricerca della piena occupazione resta unobiettivo doveroso per ogni ordinamentoeconomico socialmente orientato, giusto edemocratico.

- Quali strategie abbiamo individuato nellanostra comunità educativa per collaborare allacreazione di posti di lavoro per tutti nel ter-ritorio in cui ci troviamo ad operare?

Tocca a me… tocca a noi …

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ne attraverso facebook e altro, non sembra-no contenti e soddisfatti. Essi, essendo alleprime esperienze di un rapporto profondocon se stessi e faticando a gestire i dinami-smi che insorgono, sono spesso tentati disfuggire con l’uso di droghe o con il suicidio. La situazione di solitudine si fa più proble-matica per le persone anziane, per chi nonè autosufficiente e per chi si trova nelle pe-riferie della vita. Ma non ne sono esenti nep-pure le persone che si trovano nell’età del-la pienezza: è che costoro, essendo prese damolti impegni, hanno poco tempo per starecon se stesse e ascoltarla. Le persone anziane si trovano naturalmen-te più sole. Col passar del tempo, vengonomeno le persone con le quali avevano con-diviso gioie e dolori, speranze, amicizie eideali. Si sentono sole anche perché devonolasciare quelle occupazioni che, offrendo oc-casioni di incontri, fanno sentire alla perso-na di essere socialmente viva. Una suora interpellata sull’argomento, espri-meva la sofferenza di chi, non avendo un im-pegno particolare, si sente nessuno. Lei,però, sentendosi qualcuna per il Signore, rie-sce a vivere la sua situazione con serenità.

La solitudine è un’esperienza umana norma-le e complessa che attraversa tutte le età eche presenta aspetti diversi e talora opposti.È uno stato d’animo inevitabile, ma ancheuna necessità. Essa, infatti, protegge dall’in-vadenza del mondo esterno, permette disuperare il senso di smarrimento provoca-

La solitudineMaria Rossi

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«La solitudine è un’esperienzafondamentale e inevitabile dell’esistenza.Fa parte della condizione umana».Segue l’essere umano dalla nascita alla morte. Ha molti aspetti.

Attualmente se ne parla come di un males-sere proprio del nostro tempo, una sofferen-za che la presente generazione, più delle pre-cedenti, avverte pesante e intollerabile. E sicolgono tutte le occasioni per evidenziarnegli aspetti negativi. «È una brutta cosa», mi di-ceva una ragazza interpellata a bruciapelosull’argomento. E lo affermava con una cari-ca emotiva che esprimeva disagio. Eppuremai, come oggi, ci sono stati tanti mezzi dicomunicazione di facile accesso.Si fa sentire in modo particolare nell’adole-scenza, nell’età anziana, di fronte alla mor-te di persone significative, a tradimenti, all’an-nuncio di una malattia grave, nelle feste conun forte richiamo all’intimità, come il Nata-le e anche nell’anonimato che si sperimen-ta in mezzo alla folla. Un’infermiera che viveda sola, mi confidava che, nelle festività sioffre a sostituire le colleghe. Trascorrere lafesta nelle corsie dell’ospedale è, per lei,meno pesante che viverla in solitudine. La solitudine nell’adolescenza è un capito-lo a parte. È però interessante notare comele/gli adolescenti, pur essendo super-attrez-zati e abili nell’uso di telefonini sofisticati, nel-la navigazione in internet, nella comunicazio-

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to dal ritmo incalzante della vita quotidia-na e consente di essere se stesse/i. Molto diversa è la situazione se la solitudi-ne è vissuta come una scelta, se è accettataserenamente oppure se è sentita come im-posta. Atteggiamenti non evoluti di egocen-trismo la possono rendere patologica, ste-rile, distruttiva, altri, invece, un’esperienzadi crescita personale. La cultura contempo-ranea ha enfatizzato soprattutto gli aspettinegativi che nel vivere non mancano.È l’interfaccia del bisogno normale di comu-nicazione. Noi viviamo con e per gli altri.Elaboriamo la nostra identità in rapportoagli altri e raggiungiamo il pieno sviluppoquando riconosciamo di aver bisogno de-gli altri. La maturità personale, però, oltreche dalla capacità di stabilire rapporti inter-personali profondi, si misura «anche dallacapacità di essere soli con se stessi in unostato di tranquillo benessere». Si avverte la solitudine soprattutto quandovengono a mancare le persone significative,quando si vorrebbe comunicare il propriosentire profondo e non si trovano le stradegiuste per farlo o le persone in grado di ac-cogliere i contenuti della comunicazione nelloro vero spessore e quando, non riuscen-do a gestire le dinamiche del proprio mon-do interiore, non si sta bene con se stesse/i. Il non riuscire a soddisfare il bisogno norma-le e sano di contatto e di relazioni positivecon se stessi e con gli altri crea un senso dimalessere, di angoscia, di paura. Le reazio-ni per superare il disagio sono varie e com-plesse: possono essere costruttive, ma anchenegative e patologiche. Alcune persone tendono a fuggire dalla so-litudine buttandosi in un’attività frenetica,riempiendo le agende di impegni, dando-si a un altruismo ad oltranza. Le attività, oc-cupando il tempo, diminuiscono la possi-bilità di pensare, di stare con se stesse, di

sentire il disagio; altre, pur di sentirsi ac-cettate, adottano la logica del conformismoal gruppo, agli altri. Il problema si presen-ta quando le attività non sono più sosteni-bili e quando coloro che hanno sfruttatola gregaria o il gregario, la/o ignorano,creandogli intorno il deserto.Alcune persone cercano aiuto assumendo at-teggiamenti di vittima, lamentandosi di tuttoe colpevolizzando sempre e solo gli altri,specialmente chi ha qualche responsabilità.Questo atteggiamento ottiene general-mente l’effetto contrario. Chi imboccaquesta strada allontana le persone e si au-tocondanna a una solitudine triste. Anchecoloro che, non riuscendo a liberarsi da at-teggiamenti infantili di egocentrismo, di ge-losia, di ripiegamento su se stesse, assumo-no forme di prepotenza, rigidezza, aggres-sività, maleducazione, si autoisolano.

Perché la solitudine non diventi problema-tica o patologica, ma serena, costruttiva ecreativa, bisognerebbe fare in modo di starbene con se stesse/i. Non si riesce ad entra-re in una relazione soddisfacente con gli al-tri se prima non si è stabilita una buona re-lazione con il proprio mondo interiore. Perstar bene con se stessi, occorre conoscersi,accettarsi, stimarsi e amarsi in modo sano.Questo può sembrare scontato, ma non loè. L’accettazione di sé, con la propria finitu-dine, i limiti personali, le proprie peculiaritàe potenzialità, non sempre è facile. Così pure l’accettazione e la elaborazio-ne della propria storia con successi esmacchi, gioie e sofferenze, amicizie fede-li e tradimenti, realizzazioni e sogni in-compiuti, non solo è difficile, ma anchemai totalmente compiuta.Pure l’accettazione della propria corpo-reità, specialmente quando non è conformeai canoni della moda o quando va verso la de-

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mente dalla presenza o dall’assenza degli al-tri, dal loro appoggio o dal loro biasimo». Coloro che non riescono a gestire positiva-mente il loro mondo interiore, ad accettaretutta la loro storia, ad accontentarsi di quel-lo che sono e che hanno, rischiano di trovar-si in una solitudine angosciante, sterile, distrut-tiva, infelice, che «paralizza l’esistenza e assu-me il volto buio della notte. Volto che neppu-re la compagnia degli altri riesce a rischiara-re». La fede è un grande aiuto per arrivare aduna solitudine serena, creativa, feconda. Essaconsente di sperimentare una solitudine abi-tata, oltre che dalla presenza delle personecare che hanno già raggiunto la Pace, anchequella della Trinità, dell’Amore che avvolge,protegge, perdona; che considera ciascuna/oimportante e unica/o. La fede, anche se attorno si fa il deserto e lanon autosufficienza limita gli spazi e gli oriz-zonti fisici, consente di sentirsi amati, soste-nuti, perdonati. Il sentirsi importanti perQualcuno rafforza l’autostima e la capacità diautoaccettazione che sono alla base di una so-litudine serena.L’accettazione di quello e di come si è, ricon-cilia con la vita anche di fronte a vissuti inter-ni e a stimoli esterni più o meno gradevoli esoddisfacenti, apre alla grande compassionenei confronti di ogni essere vivente e consen-te di accettare tutti per quello che sono, conle diversità e i limiti che li caratterizzano. Lagrande compassione stimola anche a sostareaccanto a chi si trova sola/o e nello sconfor-to, a chi non riesce ad aver pace, senza esige-re nulla. Il gesto può essere interpretato ne-gativamente, come a volte succede, ma puòanche aprire strade di Luce.

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Le citazioni e parecchi spunti sono tratti dal volume di CA-STELLAZZI V. L., Dentro la solitudine. Da soli felici o infe-lici?, Edizioni Magi, Roma 2010.

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cadenza, diventa problematica e difficile.Nel rapportarci con gli altri, possono sorge-re in noi, indipendentemente dalla volontà,sentimenti di gelosia, di odio, di vendetta, dirancore. Sono sentimenti che, se trattenuti ecoltivati, possono avvelenare l’anima e lavita. Per poter star bene con se stessi, occor-re guardarli in faccia senza paure e sensi di col-pa, riconoscerli per quello che sono, elabo-rarli in senso positivo e superarli. Se trattenu-ti, non consentono di realizzare quell’unità in-teriore che è fonte di serenità e che richiedeuna piena riconciliazione.Quando una, conoscendo e accettando tut-to di sé, riesce a stimarsi e a volersi bene inmodo sano, sta bene con se stessa. La solitudine, allora, non è più un peso ango-sciante dal quale fuggire, ma diventa serena,creativa, feconda, aperta alle relazioni. Solitu-dine e socialità non sono due realtà oppostee incompatibili, ma complementari. Solo lapersona capace di serena solitudine è dispo-nibile, in modo costruttivo, all’accoglienza po-sitiva dell’altra/o in una relazione reciproca-mente soddisfacente.Il senso di vuoto profondo che accompagnaogni distacco, ma particolarmente la mortedi una persona cara, può essere superatocon una sana elaborazione del lutto. Que-sta comporta che, «accanto a momenti di no-stalgia, l’oggetto perduto venga introiettato,simbolizzato e archiviato come un dolce ri-cordo che fa compagnia. […] Infatti, superando il dolore dell’assenza fi-sica dell’oggetto d’amore, lo si ritrova psichi-camente vivo e presente nel proprio mon-do interiore. Lo si scopre come una parte disé che ci accompagnerà sempre».«Vivere una solitudine felice è, tra l’altro, unchiaro sintomo di maturità psichica, una ma-turità che nasce dall’esperienza di essersi sen-titi, all’inizio della vita, talmente amati da sco-prirsi poi capaci di amarsi, indipendente-

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IL TUO AMORE CI FA CRESCERE

E CI GUIDA

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”Lasciatevi prendere da Gesù, solo in Lui

si realizza la vera felicità”.

(Benedetto XVI)

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O Cristo, nostro amico,nostro Signore.

Noi saremo forti in te

(Inno della GMG)

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Scuola vivaMara Borsi

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Due sorelle dell’America Latina, suor Edis Ruiz (VEN) e suor Yrma Pérez (ANT) ci portano dentro la Scuola salesiana: un ambiente educativo vivo, amicodei giovani e che continuamente si ripensa perché le nuove generazionisiano promotrici di un umanesimo solidale.

Qual è stata l’esperienza pastorale più significativa per te?

Suor Edis

L’esperienza più significativa in questi ulti-mi anni l’ho vissuta nella scuola partecipan-do al processo della Scuola Salesiana Ame-rica (ESA III). La sfida più impegnativa è sta-ta affrontare, con il gruppo animatore del-l’opera, la gestione e l’animazione dellaScuola per potenziare la qualità dei proces-si formativi e accompagnare tutti i membridella comunità educante, specialmente igiovani più poveri e bisognosi, a scoprire ilsenso della vita. Lavorare come gruppo ani-matore mi ha veramente arricchito; moltobello il cercare insieme cammini nuovi peraccompagnare la vita, i sogni delle perso-ne che ci sono affidate nella missione, so-prattutto i giovani e le giovani. Ho avuto lagrande opportunità di ascoltare e conosce-re la storia di vita anche degli adulti, di farecon loro un percorso di accompagnamen-

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to, scoprendo il “sapore” della vita e inessa il passaggio di Dio. Un’altra esperien-za che mi ha fatto crescere è stata l’avvi-cinare le famiglie; uscire dalla Scuola perincontrare le famiglie dei giovani, deibambini, delle bambine e conoscere laloro realtà, dove vivono, come vivono…ascoltare e condividere i loro bisogni.

Suor Yrma

Le esperienze pastorali che ho vissute in di-versi ambienti educativi sono state moltobelle, arricchenti e significative. Vorrei con-dividere con voi quella di insegnante diScuola superiore e responsabile di aula. Holavorato in una classe di ragazzi tra i 14 e i16 anni di età considerati molto difficili, ir-responsabili e indisciplinati. All’inizio è sta-to veramente difficile ma pian piano misono resa conto che dovevo anzitutto co-noscerli, interessarmi a ciascuno in modopersonalizzato perché dietro a comporta-menti indisciplinati questi ragazzi celano di-sagi, problemi personali e familiari. Sono ar-rivata a capire che la loro indisciplina erasoltanto un grido di aiuto. Con pazienza,umiltà, con l’ascolto e la comprensione misono guadagnata la loro fiducia e anche illoro affetto. Ho imparato tanto da loro, perprima cosa a sapere ascoltare, senza pregiu-dizi, a mettermi nella loro pelle, a cammi-nare accanto senza imporre, a farmi amarepiuttosto che temere. Alla fine dell’annoscolastico posso dire che i ragazzi davano

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segni di miglioramento. Nella loro vitaqualcosa era cambiato e anche nella mia.

Quali sfide, bisogni, aspettative ti sei trovata ad affrontare nella missione tra i giovani?

Suor Edis

Sono tante le sfide che provocano, molti ibisogni di formazione nei nuovi luoghi diaggregazione dei giovani. Le fratture dellefamiglie, la promiscuità, le nuove culturegiovanili non ci lasciano tranquille. I giova-ni hanno bisogno di adulti che siano pun-ti di riferimento credibili, testimoni di unamore che diventa ascolto, accoglienza, gui-da. Necessitano di qualcuno che li ami cosìtanto da accoglierli per quello che sono eche desideri portarli alla pienezza della vita.Urgente è accompagnare le famiglie nellaformazione integrale dei figli ed essere at-tente alle situazioni di bisogno al di fuoridell’ambiente scolastico.

Suor Yrma

I giovani oggi vivono in un nuovo ambien-te: Internet. Lì noi siamo chiamate a ren-

derci presenti. Le nuove generazioni vivo-no una vita virtuale, in una rete di contat-ti e di amici virtuali, ma rimangono piut-tosto soli. Affrontare il cyber spazio è unagrande sfida per noi educatrici. I giovani manifestano, insieme alla pauraper le scelte durature, la necessità di espe-rienze profonde, e nella maggior parte deicasi, si coinvolgono quando viene fattaloro una proposta forte, decisa, autentica.Una grande sfida per noi è come presenta-re la spiritualità salesiana. La significatività ed efficacia della pastora-le dipende dalla coerenza tra ciò che pro-clamiamo e ciò che viviamo. I giovani seguo-no i modelli ma non tollerano i discorsi.

Quali segni di speranza intravedi nella realtà giovanile del tuo contesto?

Suor Edis

In mezzo a tante sfide ci sono anche mol-te speranze perché credo che il cuore deigiovani anela a “cose grandi”! Credo che igiovani possano diventare a loro voltaevangelizzatori di altri giovani. Essi hannobisogno di Dio. A noi il compito di accoglie-re questo anelito facendo proposte alte, ca-paci di portare al loro cuore la felicità chesolo può venire da Dio.

Suor Yrma

La loro grande sensibilità per i valori uma-ni: la solidarietà, la disponibilità, la giusti-zia, la pace. Ricordo con tanta ammirazionei ragazzi e i giovani dell’ultima comunità incui ho vissuto, la loro creatività e lo spiritodi sacrificio nelle diverse iniziative di solida-rietà intraprese. Un altro segno di speran-za è la loro recettività e accoglienza delleproposte di profonda spiritualità e la ricer-ca di modelli veri e di testimoni credibili.

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così importante per i giovani «poter fareesperienza della Chiesa come di una com-pagnia di amici davvero affidabile, vicina intutti i momenti e le circostanze di vita».

Ampio coinvolgimento

La pastorale giovanile, forse più di tutti glialtri settori dell’impegno pastorale dellaChiesa, richiede il coinvolgimento di tuttala comunità cristiana. Per questa ragione Be-nedetto XVI sollecita gli operatori della pa-storale giovanile non solo alla comunioneprofonda con il Signore, ma anche alla co-munione tra educatori: «la disponibilità eprontezza a lavorare insieme, a “fare la rete”,a realizzare con animo aperto e sincero ogniutile sinergia». L’invito è in evidente contra-sto con un diffuso individualisino degli ope-ratori della pastorale giovanile, e li solleci-ta a unire le forze, a coordinare meglio leiniziative, per evitare una frammentazionedispersiva e deleteria.Si tratta inoltre di coinvolgere tutte lerealtà aggregative, le associazioni giovani-li, i movimenti e le nuove comunità eccle-siali, ma anche gli oratori, la scuola cattoli-ca e soprattutto le famiglie cristiane.

La pastorale giovanile di B.16Mara Borsi

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I giovani si rivolgono all’attuale Papachiamandolo affettuosamente B. 16,un’ulteriore dimostrazione di benevolenza e simpatia nei confronti di questo Papa,professore e fine teologo che, come il suo predecessore, dimostra una chiara predilezione per la gioventù.

Da numerosi interventi e discorsi di PapaBenedetto è possibile comprendere checosa egli si aspetti dalla pastorale giovani-le. Innanzitutto, egli ritiene che la gio-ventù deve essere realmente la priorità dellavoro pastorale. Per lui la meta principaleè l’educazione delle nuove generazioni“alla fede, alla sequela e alla testimonian-za”. E nella situazione di isolamento e di so-litudine in cui vivono i giovani d’oggi, il Papaintende la pastorale essenzialmente comeun «accompagnamento personale» da par-te della comunità ecclesiale. I giovani devo-no sentirsi amati, compresi e accolti. «Que-sto accompagnamento deve far toccarecon mano che la nostra fede non è qualco-sa del passato, che essa può essere vissu-ta oggi e [...] che il modo di vivere cristianoè realizzabile e ragionevole». Per questo è

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I pilastri

Il magistero di Benedetto XVI ci sollecita ariconsiderare seriamente le scelte di fondodel nostro impegno in favore delle giova-ni generazioni e ci aiuta a tornare all’essen-ziale. Nell’insegnamento del Papa, incon-triamo alcuni “grandi temi” che possiamoconsiderare come i “pilastri” della pastora-le giovanile. Li richiamo ora brevemente:

La centralità di Dio nella vita della personaumana. Il problema fondamentale è la que-stione di Dio: e la risposta non è un dio qua-lunque – insiste Benedetto XVI – ma il Dioche ha il volto di Gesù di Nazaret. Ormai lafede non può essere data per scontata. Legiovani generazioni hanno il diritto di rice-vere l’annuncio di Dio in maniera esplicitae diretta, senza ridurlo a un pretesto per trat-tare questioni che alla mentalità modernaappaiono forse più interessanti. Il Papa co-munque ci offre la regola fondamentale perguidare il nostro impegno pastorale: «Chinon dà Dio dà troppo poco».

Il principio della ragionevolezza della fede,davvero importante per i giovani, dato cheoggi in loro prevale la dimensione affetti-va e sensoriale, a scapito della ragione. Be-nedetto XVI ribadisce: «Il desiderio della ve-rità appartiene alla natura stessa dell’uomo.Perciò, nell’educazione delle nuove gene-razioni, la questione della verità non puòcerto essere evitata: deve anzi occupare unospazio centrale. Ponendo la domanda intor-no alla verità allarghiamo infatti l’orizzon-te della nostra razionalità, iniziamo a libe-rare la nostra ragione da quei limiti troppoangusti entro i quali essa viene confinataquando si considera razionale soltanto ciòche può essere oggetto di esperimento e dicalcolo». Dunque la nostra pastorale giova-nile non può accontentarsi di esperienze ef-

fimere e superficiali, ma deve puntare inprofondità. Ricordiamo in proposito il pres-sante invito a dar vita a una vera e propria“pastorale dell’intelligenza”.

La pastorale giovanile, che punta all’edu-cazione integrale della persona – tocca di-rettamente l’ambito della libertà e delsuo uso corretto, perché sia davveroorientata alla crescita umana e cristiana deigiovani. Si tratta di una questione decisi-va per la vita, riguarda infatti le scelte vo-cazionali. A questo proposito il Papa pun-tualizza: «Un’educazione vera ha bisognodi risvegliare il coraggio delle decisioni de-finitive, che oggi vengono considerateun vincolo che mortifica la nostra libertà,ma in realtà sono indispensabili per cre-scere e raggiungere qualcosa di grandenella vita [...] quindi per dare consistenzae significato alla stessa libertà».

La bellezza. Qualche giorno prima dellaGMG di Colonia nel 2005, un giornalistachiese a Benedetto XVI: «Santità, cosa vor-rebbe in modo speciale trasmettere ai gio-vani che stanno arrivando da tutto il mon-do?». Il Papa diede una risposta significa-tiva: «Vorrei convincere questi giovaniche essere cristiani è bello! I giovanihanno bisogno di vivere la fede comegioia, di assaporare quella serenità profon-da che nasce dall’incontro con il Signore[...]. La fonte della gioia è questa certezzadi essere amati da Dio». Il Vangelo dischiude davanti a noi un appas-sionante orizzonte per il quale “vale lapena” impegnarsi, vale la pena scommette-re tutta la vita su Cristo”! Ecco, dunque, unasfida decisiva per la pastorale giovanile: sve-lare ai giovani il volto luminoso di Cristo edel suo Vangelo, convincerli che essere cri-stiani non solo è giusto, ma è bello!

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dona a chiunque, né si usa inutilmente. È un dono destinato a dimostrare deferen-za a persone molto amate. L’unzione del-la donna sprigiona un aroma di gratuità.

L’economia del dono

È una teoria sviluppata soprattutto da Ge-nevieve Vaughan, fondatrice della Founda-tion for a Compassionate Society e autricedi un libro dal titolo Per-dono, una criticafemminista dello scambio. Genevieve afferma che ci sono due paradig-mi economici di base che coesistono nelmondo oggi. Un paradigma è visibile, alta-mente valutato ed è rapportato agli uomi-ni mentre l’altro è invisibile, sottovalutatoe associato alle donne. La sua proposta è di dare valore al paradig-ma connesso alle donne per effettuare uncambiamento dei valori che reggono la no-stra vita, le politiche e l’economia. Al neoliberalismo, che lei considera unariproduzione del discorso coloniale, pro-pone un’alternativa basata sulla praticadel dono. Questa pratica ha come icona la cura del-l’altro é quindi strettamente collegata alladonna ed è centrata sull’altro, creandocooperazione e comunione, mentre ilneoliberalismo si fonda sullo scambioorientato verso l’ego, crea antagonismoe concorrenza. Si dice che il lavoro domestico gratuito del-le donne, se fosse calcolato in termini eco-

Il profumo della gratuità Paola Pignatelli, Bernadette Sangma

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La donna del profumo

È un titolo attribuito alla donna senzanome del Vangelo di Luca (7, 36–50) da Nu-ria Calduch-Benages, una teologa spagno-la. L’identità di questa donna è confusa fraMaria di Betania, sorella di Marta e Lazza-ro, e Maria Maddalena. «Per noi, invece, èsemplicemente la donna del profumo, è co-lei che versò il suo vaso di alabastro soprai piedi del Maestro» dice Nuria. Il Vangelo dice che Gesù “entrò nella casadel fariseo e si mise a tavola. Ed ecco unadonna, una peccatrice di quella città... ven-ne con un vasetto di olio profumato”. Non era tra gli invitati, non ha nome, nonha identità, l’unico attributo della sua per-sona sembra essere “peccatrice della città”.Si sommano in lei tutti i possibili aspetti del-la marginalità. Ciononostante, lei non si la-scia condizionare da niente. L’audacia con cui supera ogni ostacoloper lanciarsi nella dimostrazione del suoamore per Gesù è ben delineata nelle pa-role del Cantico dei Cantici: “Le grandi ac-que non possono spegnere l’amore né i fiu-mi travolgerlo” (Ct 8, 7). Nella sua descrizione, Nuria dice che «Ladonna del profumo è la donna del moltoamore, la donna della gratitudine infinita,la donna che non sa esprimere in parolequanto il suo cuore sente per Gesù. E giac-ché non sa parlare, il suo cuore la spingead un gesto audace». Il profumo non si

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nomici, aggiungerebbe come minimo il40% al PIL della maggioranza dei Paesi. Questo contributo delle donne può esse-re considerato un dono al mercato. L’assunzione del paradigma del dono po-trebbe guidarci su strade decisamente di-verse rispetto agli effetti disastrosi a cui ilcapitalismo patriarcale ha portato il mondo. Le donne, protagoniste nell’attuare il para-digma del dono, potrebbero accompagna-re la nostra società in questa direzione.

Ascoltiamo Maria Adele

Maria Adele Roggero, presidente delMEIC (Movimento Ecclesiale di Impe-gno Culturale), associazione che da anniopera a Torino nel campo della formazio-ne e dell’accompagnamento delle donnemagrebine, si è raccontata, nella lumino-sità del suo sguardo.«Quando 43 anni fa con mio marito Elioci siamo uniti in matrimonio eravamomolto innamorati, pieni di programmi(tanti figli, lavoro, impegno sociale…) si-curi di poterli portare avanti con le no-stre giovani forze, il nostro ottimismo el’aiuto di Dio su cui entrambi contavamocon una fede serena e attiva.

Ora guardando a ciò che la vita ci hachiesto possiamo dire con un sorriso cheeravamo molto ottimisti, un po’ incoscien-ti e certamente poco preparati ad affron-tare tutto ciò che poi Dio ci avrebbe pre-sentato. Sì, le vicende della nostra vita sonostate decisamente diverse dai programmiche avevamo in mente: i figli naturali nonsono arrivati, una pesantissima malattia diElio, che dura tuttora, ci ha costretti a ripro-grammarci in tutto…verso sponsalità egenitorialità alternative!E così i figli sono arrivati non dalla mia pan-cia, ma da un altro continente e ci hannodato gioie e preoccupazioni e soddisfazio-ni come tutti i figli di questo mondo. La malattia di Elio, che comporta severissi-me limitazioni alla sua mobilità, ha insegna-to a lui, così sportivo, dinamico, protago-nista in tutto ciò che faceva, a svilupparel’aspetto contemplativo della vita interio-re, a gioire delle piccole cose, a guardaregli altri agire. E a me che avevo in lui il miomotore e la mia vitalità, ha insegnato l’ar-te del muovermi anche per lui, portando-mi dentro, come una grande forza, la suaspiritualità e il suo amore. E qui entra in gioco la gratuità, davvero lavita ci ha insegnato il più grande dei suoisegreti: se noi riusciamo (e tutti sappiamobene quanto è difficile!) a svuotarci di noie del nostro ego, a metterci a disposizio-ne e lasciamo che la vita scorra in noicome in un bicchiere sempre aperto adaccogliere l’acqua pura che ogni giornoci viene offerta come eterno Dono di Dio,allora diventiamo capaci di fare cose chenon immaginavamo di poter fare, perchéè la Vita che scorre attraverso di noi e fe-conda il mondo».

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Ci chiediamo sommessamente:L’inequivocabile “vado io” resta l’animadel nostro respiro fraterno, regala anco-ra ali al nostro vivere e lavorare insieme? Le braccia aperte di Gesù, appeso al no-stro collo, inchiodate per amore, spalan-cano il nostro cuore alle dimensioni so-lari del “gratuitamente avete ricevuto,gratuitamente date”?

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la comunità internazionale ad “invertire ildeclino allarmante degli investimenti nel-l’acqua e nei servizi igienico-sanitari”.C’è chi calcola che nel 2050 quattro miliar-di di persone non avranno acqua potabile.Fatto gravissimo perché favorisce le emer-genze sanitarie, (ad esempio le epidemiedi colera). La risorsa scarseggia per moti-vi climatici, di espansione urbana, di inqui-namento. Ma anche a causa di politiche diprivatizzazione e di speculazione sui prez-zi dei servizi idrici, a scapito delle fasce po-vere della popolazione. In diversi Paesi delmondo la società civile tenta di tutelarequesta risorsa attraverso pratiche di usosostenibile e campagne di sensibilizzazio-ne, anche perché gli interventi dall’altonon sembrano risolutivi.

E noi? Importante è informarsi sulle diver-se politiche pubbliche delle nostre città ri-guardo all’acqua, la gestione delle sorgen-ti, o la costruzione di dighe e acquedotti,per vigilare che venga tutelato il diritto ditutti ad usufruire di un bene essenzialeper la nostra vita e che non diventi un “te-soro” solo per chi ha risorse economiche.Ma la nostra sensibilizzazione si può tra-sformare in gesti concreti di attenzioneall’uso sobrio di questa risorsa, a limitar-ne lo spreco e soprattutto ad educare astili di vita sostenibili.

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Acqua un diritto negatoAnna Rita Cristaino

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Acqua come bene comune daconservare e distribuire in modoequo. Infatti, acqua vuol dire anchesalute e sviluppo.

Secondo dati Unicef, nel mondo 884 milio-ni di persone, pari a circa un sesto della po-polazione del pianeta, non hanno accessoad acqua pulita; tra queste, otto su dieci vi-vono in aree rurali. 1,6 miliardi di personenon hanno accesso all’acqua potabile e 2,6miliardi, pari a circa due quinti della popo-lazione mondiale, non hanno accesso adadeguate misure igieniche. Ogni annoqueste carenze igieniche, insieme all’uso diacqua contaminata, provocano la morte di1,4 milioni di bambini, uno ogni 20 secon-di, per diarrea. Il Programma di valutazio-ne delle risorse idriche mondiali fondato nel2000 dalle Nazioni Unite stabilisce che il fab-bisogno minimo giornaliero di acqua puli-ta per bere, cucinare e lavarsi è pari a 20-50litri per persona, e sottolinea la gravi spere-quazioni nell’utilizzo di questa preziosa ri-sorsa. Nei Paesi in via di sviluppo, infatti, ognipersona consuma in media non più di 10 li-tri di acqua al giorno; valore che in Europasale a 200 litri e nel Nord America tocca ad-dirittura i 400 litri. E intanto, nel sottolinea-re che “senza acqua non vi è dignità e pos-sibilità di fuga dalla povertà”, Ban Ki-moon,segretario generale Onu, invita i governi e

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Il 100% dei ragazzi coinvolti nell’esperimentoha un telefonino, l’85% un computer proprioe la maggioranza (59%) ha mosso i primi passisu Internet prima dei dieci anni (il 18% addirit-tura prima dei cinque anni). Arrivati all’univer-sità, questi ragazzi cresciuti con l’interruttoresu “on”: il 42% passa fra le 3 e le 4 ore al gior-no in Rete e il 25% tra le 5-6 ore quotidiane.È certo, però, che non solo i giovani sono cir-condati da un mondo che ormai parla attra-verso schermi e display (tv, cellulare, pc,playstation, tablet, smartphone, ecc.). Pertutti, anche per gli adulti, vivere offline richie-de uno sforzo di volontà, in quanto è diffici-le anche dal punto di vista pratico. Che lo sivoglia o no, ci troviamo circondati da scher-mi che non sempre si possono evitare: «Sonosceso nella metro – scrive un ragazzo – e quan-do ho alzato gli occhi tutto quel che ero riu-scito a evitare fino ad allora mi ha investito:uno schermo al plasma con il telegiornale. Hocercato di allontanarmi, ma non posso nega-re di aver ascoltato le notizie». Che volto sipuò disegnare, allora, delle generazioni digi-tali, nate e cresciute masticando pane e tec-nologie? Quali relazioni intrattengono?

Buone notizie dalla Rete

Secondo Chiara Giaccardi, sociologa dell’U-niversità Cattolica di Milano, la centralità deiSocial Network (SN) nella vita dei giovani èdi tipo valoriale. Le piattaforme per la socia-lità in Rete si inseriscono con forza nel tem-po quotidiano dei giovani, i loro servizi di-

Profili del continente digitale

I volti dell’era cross medialeMaria Antonia Chinello

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Il 58% dei bambini che hanno tra i 2 e i 5 annigioca ai videogame, sa destreggiarsi con l’i-Pad, ma non sa andare in bicicletta e l’11%,non sa come allacciarsi le scarpe e non sa ri-spondere correttamente quando viene lorochiesto l’indirizzo di casa. Sono i risultati diuna ricerca su come è cambiata l’interazio-ne tra bambini e tecnologie.Secondo il Progetto Eu Kids online dell’Unio-ne Europea, il 93% di chi ha tra i 9 e i 16 anninaviga almeno una volta alla settimana, men-tre il 60% tutti i giorni o quasi. Online si cer-cano informazioni per fare i compiti (85%),giocare (83%), guardare video (76%) e comu-nicare con i propri amici con l’Instant Messa-ging (62%), condividere immagini (39%) e ge-stire il proprio profilo (59%).Lo studio «The world unplugged» condot-to dall’Università del Maryland (Stati Uniti)su mille universitari di tutto il mondo, hadato come risultato che, se lasciati per 24 oresenza cellulari, web e tv, è subito sindromeda vuoto digitale. Senza connessione, i na-tivi digitali, si sentono persi. Molti dei gio-vani hanno definito “crudele” lo studio: «Ilsilenzio mi stava uccidendo». Sembra che senza connessione non sappia-no più vivere: «Le relazioni sociali dei gio-vani oggi viaggiano attraverso la tecnologia.Questi ragazzi sono cresciuti con una con-nessione sempre disponibile» dice SusanMoeller, coordinatrice della ricerca e diret-trice dell’International Center for Media al-l’Università del Maryland.

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ventano sempre più “indispensabili”, inquanto legati a una contemporaneità acce-lerante e complessa, che necessita di stru-menti che semplificano e stabilizzano rela-zioni e tempi, aumentano la molteplicità delreale e le occasioni di relazionalità.La connessione sempre più wireless è senzaconfini di tempo e di spazio, scandisce le ami-cizie, gli affetti, il tempo libero, il lavoro: si puòcontinuare a “stare” e “chiacchierare” con gliamici, “costruire” comunità attorno ad interes-si e gusti, “moltiplicare” i contatti, “produrre”audio, video, testi, immagini che vengono poicondivisi e distribuiti sulla Rete e “ascoltati”insieme con l’iPod… I due mondi, quello del-

l’online e dell’offline, non sono paralleli, maun unico spazio “reale” di esperienza, diver-samente articolato e unificato dalle prati-che: i giovani stabiliscono continuità e noncontrapposizione tra le relazioni che vivonoe sperimentano dentro e fuori la Rete. La cen-tralità dell’interazione si gioca nelle dinami-che del riconoscimento e della fiducia comechiave di accesso alle cerchie sociali, che co-struiscono condivisione, custodiscono memo-rie e si aprono alle potenzialità del futuro. Vie-ne messa in atto una vera e propria capacitàdi “stare-con”, di condividere, di accompa-gnarsi a vicenda sia nei momenti di passaggiodella vita, sia nella quotidianità.

Benedetto XVI, nel Messaggio per la Gior-nata Mondiale delle Comunicazioni socia-li 2011, ci sollecita, a partire dal fatto che ivolti del web 2.0 sono segnati dalla socialità,a dar vita a un nuovo umanesimo, inaugu-rando anche nel continente digitale “comu-nità” che siano casa-scuola di comunione,laboratori e agende di speranza, luoghi dibellezza e autenticità. Ri-costruire la Rete.C’è bisogno dell’ “esserci” autentico e re-sponsabile di tutti e di ciascuno.

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«L’educatore oggi non può più esserequello di ieri, ma è colui che incontral’educando in un terreno in cui que-st’ultimo si muove meglio. Non si tratta più di trasmettere qualco-

sa che non c’è, ma di tirare fuori qual-cosa che c’è già. L’educatore deve ascoltare perché solo

così può sintonizzarsi con lui e metter-si in relazione».

(Chiara Giaccardi)

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a Dio quasi danzando. Ora il suo passo si fapiù lento, più pacato, più posato. Ora il suosguardo è attento a dove è, a dove si trova. Ha voglia di silenzio. Ha voglia di capirsi.Vuole ritornare ad ascoltarsi. Ogni giornola sua vita passa attraverso gesti quotidia-ni che sembrano sempre gli stessi. Quan-ti volti, quanti sguardi incontrati. Ognunoha lasciato un’impronta sul suo cuore.Ognuno ha rappresentato un pezzo delmosaico della sua vita. In quegli incontrisembrava svelarsi il senso del suo essereper gli altri, in quelle relazioni, giornodopo giorno ha imparato a conoscersi, a ve-dersi. Ma ora le sembra tutto scontato. È ametà della sua vita. Cerca in tutti i modi divincere la tentazione dei bilanci, di tirarele somme. Ma ha bisogno di capire. Un giorno incontra una donna che vienechiamata da tutti, la donna delle marmel-late. Una donna serena, che non fa nullaper attirare l’attenzione su di sé. Discre-ta. Aurora si accorge che questa donna datantissimi anni svolge sempre le stessemansioni, seguendo un rituale scandito daorari precisi che fanno dire a chi la cono-sce: la donna delle marmellate ora sta fa-cendo questo, o quello. Aurora le si avvicina, vuole carpirle qual-che segreto. Da dove nasce tutta quella se-renità? Su che cosa si fonda la sua vita? La donna delle marmellate la invita ad unapasseggiata nel bosco. Camminare in un bosco, su sentieri traccia-

Quando non servono le paroleAnna Rita Cristaino

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Andai nei boschi per vivere con saggezza, vivere con profondità e succhiare tutto il midollo della vita,per sbaragliare tutto ciò che non eravita e non scoprire, in punto di morte,che non ero vissuto. (Henry David Thoreau)

Aurora, donna di Dio, ha appena riscoper-to il senso della novità di ogni giorno. Diol’ha consacrata a sé, e lei si è lasciata coin-volgere in questa avventura di amore.Sono passati molti anni in cui ha visto la suagiovinezza riempirsi di gioia del dono al Si-gnore. Lui il Re della sua vita, l’ha accom-pagnata su sentieri di luci ed ombre. Lei ha continuato a camminare tenendo fis-so lo sguardo avanti a sé, sapendo che il fu-turo era la parte più lunga da vivere. Ora però il suo sguardo inizia a voltarsi in-dietro. Ripensa a ciò che ha fatto, a ciò cheavrebbe potuto fare. Ripensa ai fallimenti,ai successi. Si fa tornare alla mente lecose per cui ha gioito e quelle per cui hasofferto di più. Scopre, dopo anni in cui lesembrava di aver imboccato una strada bendelineata, di ritrovarsi di nuovo ad ungrande incrocio. Le strade da percorrere ele possibilità sono tante. Si ritrova di nuo-vo nell’incertezza di scegliere. La prima volta, il suo innamoramento le ave-va talmente riempito il cuore, che aveva in-trapreso quella strada di donazione totale

RIVISTA DELLE FIGLIE DI MARIA AUSILIATRICEdma damihianimas

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ti, magari in primavera inoltrata, quando ètutto un ritornare alla vita, quando si vedo-no gli alberi rinverdire, i frutti di bosco farecapolino dai loro cespugli in modo così di-screto, quando il volo spensierato delle far-falle guida lo sguardo su fiori di ogni tipo,fiori liberi, nati quasi per caso, in posti dovenessun uomo ha piantato, diventa me-tafora del ritornare in se stessi. Aurora ini-zia ad ascoltare il bosco, il suo cammino ela sua attenzione sono presi dal sentiero,da dove deve mettere i piedi, un passodopo l’altro, cercando di evitare buche, fos-si o pietre. La sua attenzione è sollecitatadalla presenza di tanta bellezza. Fiori, arbu-sti, spighe, erba, foglie, rami, alberi, raggidi sole, giochi di ombre, farfalle. È accompagnata da un sottofondo di cantidi uccelli: allodole, merli, usignoli, cucù, pic-chi. Sente lo strusciare delle lucertole, il ron-zio delle mosche e delle api. Passa per sentieri più tortuosi, per vie piùdritte, per selve più oscure. Allora inizia asentire anche il battito del suo cuore e l’af-fanno del suo respiro. Gode del sole fra irami, teme il buio dei sentieri più impervi,gioisce per gli spazi più aperti, prende co-

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raggio nell’affrontarepiccole e grandi salite,nello scegliere la dire-zione giusta. Fa atten-zione a tutto ciò chepotrà poi aiutarla a ri-trovare la strada. Mette alla prova le pro-prie forze, la propriavolontà, il propriobuon senso. Da solanel bosco si ritrova difronte a se stessa, allesue paure, alle sue an-sie, alle sue gioie e

spensieratezze. Non pensa a dove dovràarrivare e quanta strada manca, cercasolo di non perdersi niente di quello cheincontra durante il percorso. Aurora racconta alla donna: «Il bosco ci in-segna l’arte dell’attenzione, dell’ascolto, del-la lettura, del sentire. Ponendo attenzionesu ciò che potrebbe sembrare insignifican-te, su ciò che è naturale che esista, su ciòche è così quotidiano e normale, ci ritrovia-mo a riguardare a noi stessi con più concre-tezza e consapevolezza. Allora, in quel silenzio abitato da tante voci,la nostra e quelle della natura, ho riscoper-to il senso della lode, del ringraziamento,dell’affidamento, della richiesta di aiuto. Hofatto quasi un percorso di purificazione». La donna delle marmellate le ha sempli-cemente detto: diventa te stessa. Come i fiori, le fragole, i mirtilli, le farfal-le, gli alberi, gli uccelli non fanno altro cherimanere fedeli alla loro natura, Aurora èchiamata a rimanere fedele alla sua iden-tità di donna amata e amante. Solo l’attenzione alle cose più piccole, ci fascoprire la novità di ogni giorno.

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Quale il mondo migliore?

Il “Mondo migliore” della Bierintende parlare dell’uomo al dilà del colore della pelle, dellalatitudine, del domicilio fisca-le. E dell’età. La sua cornice ciporta in due ambientazioni an-titetiche raccontate in modoparallelo: l’Africa povera e de-vastata del Darfur, e una citta-dina della Danimarca opulen-ta. Anche i personaggi appar-tengono a due coppie con duerispettive età, quella adulta deigenitori e quella preadolescen-te dei figli. La prima è una cop-pia di medici - uno dei quali,Anton, lavora in Kenia in tem-

pi di emergenza, soccorrendomalati e feriti, vittime di carne-fici. La moglie invece presta ser-vizio in un ospedale danese,patria dei due, dove vive insie-me al figlio Elias, timido e ber-sagliato dai compagni di scuo-la. L’altra coppia è composta daun vedovo di mezza età e daChristian, da poco arrivato daLondra, arrabbiato ‘dentro’ con-tro la vita e con il padre, che ac-cusa di aver desiderato-favori-to la morte della madre. I dueragazzi sono alunni di scuolamedia. Per la conformazionedel volto, Elias viene definito«muso di topo» dai bulli com-pagni che lo perseguitano, ap-profittando della sua ingenuità.Christian non può sopportarele ingiustizie e si schiera insuo favore con il pretesto che

«chi si fa pecora, il lupo lomangia!». Lo difende addirittu-ra a mano armata di coltello, eminaccia alla gola un bullo ag-gressore. Per il momento ottie-ne successo ed Elias che vienelasciato in pace si lega a lui inun’intensa ma rischiosa amici-zia. Un giorno però succedeche - durante un breve soggior-no dall’Africa – è il padre me-dico in loro compagnia, a resta-re vittima senza reagire agliinsulti e schiaffi di un manescomeccanico. E Christian ne me-dita vendetta-giustizia. Conl’aiuto dell’amico confezionadei candelotti ricavati da giochipirotecnici scoperti in soffitta,e fa saltare in aria la vettura delmeccanico. L’iniziativa riesce,sennonché Elias, nel tentativodi allontanare dall’esplosione

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RIVISTA DELLE FIGLIE DI MARIA AUSILIATRICEdma damihianimas

IN UN MONDO MIGLIORE di Susan Bier - Danimarca/Svezia 2010

Cinema etico e cinema appassionato quello diSusan Bier. «Ambizioso e riuscito apologo mo-rale su famiglia, educazione e non-violenza» –sintetizza nell’incipit la recensione proposta dal-la Rivista del Cinematografo. La regista spiegache il film: «Esplora la nascita delle relazioni vio-lente nei figli adolescenti e le difficoltà degli adul-ti che, con l’esempio personale, tentano di in-dicare la strada del comportamento civile, ar-rivando a ‘porgere l’altra guancia’. Ci si chiede – aggiunge – se la nostra cultura‘avanzata’ sia il modello per un mondo miglio-re o se piuttosto il caos sia in agguato sotto lasuperficie della civilizzazione».

Gran Premio dellaGiuria e Migliorfilm votato dal pub-blico al Festival delCinema di Roma2010, nel 2011 ha

ottenuto l’Oscar come Miglior film Straniero eMiglior film dell’Unione Europea. Un’opera avvincente e drammatica, da conosce-re-valorizzare «come proposta per avviare rifles-sioni con tutti: adulti, adolescenti e giovani, suimolti temi importanti che affronta» (CVF). Parte da situazioni tristemente ordinarie – tra cuiil bullismo a scuola, le liti per futili motivi in stra-da – ma conduce ad intuire come la crisi dell’e-ducazione sia l’altra faccia della crisi della mo-rale, chiamata più che mai oggi a rendere ragio-ne di se stessa, di fronte ad un mondo in cui «lafollia della violenza appare razionale dentro unsistema di prevaricazione molto diffuso».

a cura di Mariolina Perentaler

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una signora con un bambinoche sbucano all’improvviso sul-la strada, corre loro incontro. Lipreserva dalla morte, ma ri-mane vittima dell’attentato.Christian è talmente turbatodalle conseguenze del suo fol-le gesto vendicativo da medita-re il suicidio. Raggiunto in ex-tremis dal padre di Elias che losalva, si reca poi all’ospedaleper salutare l’amico e gli chie-de perdono… A questo punto nasce una do-manda: è davvero la violenza

con il suo strascico di vendet-te la vera protagonista del film?O non è piuttosto il perdono aesserne il vero centro gravita-zionale? La scena che mag-giormente tocca il cuore ditutti è quella in cui vediamoChristian pentito riconciliarsi –finalmente – in un abbracciosconfinato e senza parole an-che con il padre, dopo avermantenuto un impressionante-interminabile atteggiamentoglaciale. L’autrice danese cercadentro i suoi personaggi – e ne-

gli attori diretti alla perfezione– una legge morale (ancora)possibile. I volti e gli sguardi deipiccoli protagonisti – da unaparte Christian ed Elias, in ba-lia delle crisi di una societàemancipata, dall’altra i ragazzi-ni africani che affollano consorridente ingenuità i campimedici “della speranza” – ren-dono testimonianza delle con-trapposizioni esistenziali di unmondo non certo eticamenteglobalizzato e tuttavia, apertoad uno possibile: “Migliore”.

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ANNO LVIII • MENSILE / LUGLIO AGOSTO 2011

L’idea del filmporre un interrogativo ineludibile: “Come si staal mondo? Quale legge bisogna seguire? Quel-la della vendetta o quella della non-violenza?

Nella sua essenza l’opera della Bier sembra chie-dere con appassionata tensione: che efficaciapuò avere l’educazione in un mondo rassegna-to alla violenza? Che futuro consegnare al fu-turo? E tenta la sua risposta in Anton, nel suoimpegno per riuscire ad essere oggi “un buonpadre”. La regista cerca di mostrare che cosadeve fare (o non fare) un padre per essere al-l’altezza del ruolo più in crisi in Occidente. Ne vede in primo luogo la ‘presenza’, capace dinon rispondere alle provocazioni, che non si ab-bassa a restituire il colpo, ma mostra al figliocome la debolezza (momentanea) possa tradur-si in forza. A rischio di perdere (momentaneamente) la fac-cia. C’è però anche un’altra responsabile edu-cativa che viene alla ribalta nella trama del film:la scuola. Non si può lasciare alla sola famiglia il compi-to di educare la coscienza. Questa si costruisce praticamente in base a ciòche si fa e si sperimenta ogni giorno nel con-testo sociale. In una cultura relativista non sieducano coscienze.

Il sogno del film:quello di una rivoluzione etica coraggiosa e pro-vocatoria, un nuovo inizio a partire dal perdono.

A fine visione si riconosce come il racconto con-segni a tutti una storia ben diretta e ben inter-pretata, capace di dire alcune certezze. In par-ticolare che “il male a volte cova dentro”, e “dal-l’esterno” viene soltanto la scintilla che lo pro-voca, lo innesca. L’adulto (famiglia-scuola-so-cietà) dovrebbe saperne leggere i segnali di al-larme, se c’è lo sguardo e la presenza educa-tiva. Di più, nel suo insieme l’opera accompa-gna lo spettatore alla consapevolezza di quan-to sia facile e devastante imboccare la strada del-la vendetta, spiegando anche come il passo ver-so il perdono sia invece non solo possibile, masi configuri come l’unica possibilità per ricomin-ciare a vivere. Per costruire “un mondo miglio-re” appunto. La vicenda narrata si presta a piùdi una lettura, affrontando temi delicati comel’elaborazione del lutto (la morte della madre)e l’incomunicabilità genitori-figli. Temi diffici-li, come quello della crisi di coppia, che a suavolta racconta di adulti che fanno fatica a tro-vare la propria collocazione in un mondo sem-pre sull’orlo di una violenza insensata chenon risparmia neppure i giovanissimi.

PER FAR PENSARE

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commenta la scheda di valutazione pastorale del-l’ACEC. Danny, quattro anni, non c’è più da 8 mesi,travolto da un’auto mentre tentava di rincorrere ilcane fuori di casa. La tragedia sconvolge l’esisten-za di entrambi, gettandoli in una spirale di ricor-di, sensi di colpa, desideri, rabbia da cui non rie-scono ad uscire. Lui continua la vita di prima: la-vora, gioca a squash, cerca un “contatto” quotidianocon la moglie e, soltanto di notte si apparta solo aguardare fino allo sfinimento i video del suo bimboche gioca. Lei invece è bloccata, sospesa tra l’incan-cellabile pensiero di quel figlio che non può più go-dere, veder crescere, e la spinta verso un superamen-to che deve disfarsi, cancellare qualunque cosapossa continuare a ricordarle di Denny. «Il regista nonè mai retorico, mai consolatorio, si accuccia in unadimensione patologica rarefatta in ostaggio al gran-de cast, ai suoi silenzi più che alle parole, e ci spez-za il cuore a nostra insaputa – scrive il critico Mau-rizio Porro – Ma, al di sopra di tutto, pone e vincela forza dell’amore reciproco che resta».

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John Cameron Mitchell

Rabbit Hole

STATI UNITI, 2010

Misurato e splendidamente interpretato ha ilgrande pregio di sapersi confrontare in maniera di-gnitosa con un tema delicatissimo: l’elaborazionedi un lutto, centrando insieme anche la questio-ne del perdono. Il regista indipendente John Ca-meron, realizzando la pellicola, cerca lui stesso dielaborare personalmente la morte del fratellino,dieci anni più piccolo, che l’ha segnato per sem-pre dalla sua adolescenza. «Ben trasmesso dai volti dei due protagonisti(Aron Eckhart e Nicole Kidman), il dolore passa da-gli occhi alla pelle ed entra nel cuore dei due ge-nitori, laddove la tenerezza si sostituisce al pian-to e la consapevolezza dell’amore ‘a due’ riesce in-fine a far accettare quell’irreparabile perdita»,

RIVISTA DELLE FIGLIE DI MARIA AUSILIATRICEdma damihianimas

salvaguardare i piccoli e la mamma. Disposta a tut-to si mette alla ricerca del genitore scomparso conuna determinazione irremovibile ed eroica. Il contesto in cui vive è infatti gestito da ferree chiu-sure mentali, da gente soggetta ad una legge tri-bale violenta, in particolare quando entrano in bal-lo il traffico e i rapporti con le autorità istituziona-li. Siamo in Missouri, in pieno Midwest, dove i le-gami di sangue che la uniscono alla maggior par-te di coloro con cui deve confrontarsi è intriso didiffidenza, rabbia ed omertà. Nell’opera emerge quindi un’America del tutto oquasi sconosciuta, con una splendida fotografia chesvela un paesaggio bello e al tempo stesso ostile,con ambientazioni poverissime e la descrizione mi-nuta della squallida quotidianità in cui vivono tut-ti i personaggi. La giovane protagonista diciasset-tenne rappresenta l’altra faccia di una comunità ma-lata che ha toccato il fondo del male e forse é pron-ta per riscattarsi. Laddove manca la famiglia e il contesto sociale eculturale è del tutto inadeguato, è la vita, per quan-to dura e crudele, ad insegnare e far crescere.

Debra Granik

Un Gelido Inverno – (Winter’s Bone) STATI UNITI – 2011

Il titolo italiano riprende quello del romanzo da cuiè tratto. L’autore del libro uscito nel 2007 è DanielWoodrell, nato proprio sulle montagne Ozark nelMissouri, e racconta luoghi/ situazioni che cono-sce molto da vicino. Ecco la vicenda: nella picco-la comunità montana, Ree ancora minorenne ac-cudisce i fratellini e una madre disabile. Gestisce la casa, un terreno, cani, gatti e cavallo –povere e indispensabili proprietà di famiglia – riu-scendo a stento a sfamarli grazie a quel poco cheriesce a trarre dalla caccia e dalla raccolta di legnanel bosco. Il padre, produttore illegale di anfeta-mine da spaccio, ha ipotecato il tutto per pagarela propria cauzione ed uscire dal carcere. Quando arriva la notizia che se non si presenta alprocesso tutto verrà sequestrato, Ree già schiac-ciata dalle responsabilità è stretta nell’urgenza di

a cura di Mariolina Perentaler

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Thomas Merton LA MONTAGNA DALLE SETTE BALZE

Il libro fu pubblicato in America oltre mez-zo secolo fa, e rese subito famoso l’autore,che ne scrisse in seguito molti altri, ricchidi una spiritualità profonda e insieme acces-sibile a tutti. Questo è la storia di un’anima,che non ha però nulla d’intimistico ma coin-volge aspetti interessanti di tutta un’epocastorica ed ecclesiale: prima e dopo il Vati-cano II. La prima parte ci conduce per unaspecie di lungo vagabondaggio, attraversoun intreccio di esperienze, d’incontri, diemozioni, in una ricerca d’indefinito appa-gamento, che diventa gradualmente co-sciente ricerca di Dio. Seguiamo il bambi-no, poi l’adolescente e il giovane, in un an-dirivieni di paese in paese, dapprima se-guendo gli spostamenti del padre, pittoredi talento in cerca di sempre nuova ispira-zione e di successo: Francia, Spagna, Inghil-terra, Stati Uniti … In America il giovaneMerton vivrà fino al suo ingresso nel mo-nastero trappista del Getsemani, dopo es-sere passato, dalla vaga religiosità familia-re di stampo fortemente anticattolico, alter-nata a momenti di ingenuo ateismo, fino albattesimo sotto condizione nella ChiesaCattolica e alla professione cisterciense. Uncammino faticoso, che già si esprime nel ti-tolo evocante l’ascesa del Purgatorio dan-tesco. Più che una vita tutta di peccato (poi-ché il severo giudizio che dà di sé è tipicodi ogni coscienza di convertito), ThomasMerton, divenuto fratello Louis, si è lascia-to alle spalle la vita dissipata e gaudente ditanta gioventù sazia e insoddisfatta delsuo tempo; oggi, ancor più di ieri, essa èl’accorato assillo della Chiesa. Anche perquesto il libro, scorrevole come un roman-zo, può essere tuttora interessante.

Ernesto Olivero PER UNA CHIESA SCALZAPriuli & Verdicchia 2010

“É un atto d’amore verso la Chiesa, il gridoferito d’un innamorato che vuol togliereogni ruga dal volto della Sposa, un’appas-sionata proposta di ritornare al vangelo“sine glossa”. Così il card. Comastri nellaprefazione. Il titolo del libro può far suppor-re chissà quali infocate polemiche. No,qui le argomentazioni sono fatti, fatti rea-li, e vi si respira un’aria di ottimismo e di uni-versale misericordia. Olivero non è forse ungrande scrittore, ma ha una mente libera elucida (poche idee ma chiarissime), ungrande cuore, un animo intrepido: si vedequi cosa possa diventare questa stoffa,non poi così comune, quando la si abban-dona nelle mani di Dio. Il Sermig sappiamoormai tutti cos’è: un gruppo missionariofondato da un giovane laico, (bancario, spo-sato con tre figli) e da una decina di ragaz-zi convinti che il mondo va cambiato e chesi può cambiare. Dal Sermig nasce, una ventina d’anni dopo,quella meraviglia che è l’Arsenale della Pace.Vista dall’esterno, quest’opera incredibilepuò destare solo stupore e ammirazione:bisogna entrarci dentro perché se ne col-ga il segreto, e faccia pensare, e susciti in-quietudini benefiche. Non bastano le cifreda capogiro, occorre incontrare volti uma-ni, leggere storie umane: da Cavallero (lospietato pluriomicida) alle mille creatureanonime, salvate dalla miseria o dalla dispe-razione per aver trovato “porte sempreaperte”; dalle migliaia di volontari d’ogniclasse sociale, ai giovani che nei bollori de-gli anni ’60 si fidarono di un uomo senza ap-parenze né risorse e lo seguirono per unarivoluzione diversa, portata avanti con lesole armi dell’amore e della preghiera.

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a cura di Adriana Nepi

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si un rito, e l’assaporare del buon vino incompagnia era un celebrare le gioie dell’a-micizia; la ricorrenza dei morti e il culto del-le tombe, non ancora mescolati alle carne-valate di Hallowe’n; il Natale non ancora of-feso dalle false luci di una pubblicità sfre-nata. Non c’è amarezza in queste rievoca-zioni, pur nel confronto con un mondo cheappare per tanti aspetti smemorato e imbar-barito. La realtà umana è contemplata conprofonda partecipazione, ma insieme conil sereno distacco di chi la guarda dal silen-zio di una cella: nella luce di una speranzache riposa nella promessa di Dio… Le ultime pagine, di rara bellezza, sono piùscopertamente autobiografiche. Si appren-de che l’autore proviene, figlio unico, dauna poverissima famiglia. La morte prema-tura della mamma lascia un bambino di ottoanni solo con il padre: una convivenzasenza vera comunicazione, che pesa comeuna cappa di piombo sull’orfano timido etriste. Il ritratto del padre è pieno di reali-smo e insieme di rispettosa ammirazione.Pinèn (Giuseppe), come lo chiamavanotutti, era un socialista nemico dei preti e del-la gente di chiesa, che amava pure provo-care con motteggi. Era tuttavia un uomoprofondamente onesto, pieno di una suarude saggezza. Tra le rade parole paterne,queste rimasero sempre impresse nell’ani-mo del ragazzo: “Sappi che se diventi ladroio ti ammazzo!”, “Non dire mai quello chenon pensi”, “Tutti i giorni avrai l’occasione

Ogni cosa alla sua stagione

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C’è chi lo giudica il più bel libro di EnzoBianchi. Difficile incasellarlo in un genereletterario: un’autobiografia? Un saggio?Un libro di memorie per trasmettere ilbuon sapore della vita? Un po’ di tutto que-sto e altro ancora… L’autore comincia con l’introdurci nellasua prima cella di monaco, rivelandoci unpo’ del suo segreto: “…Un letto, una sedia,un tavolo, un lume a petrolio, una stufa a le-gna… Per quindici anni è stata così la miacella, senza luce elettrica, spoglia e nuda:anni in cui ho toccato con mano quanto siadifficile l’arte di abitare con se stessi, e quan-to lungo imparare ad armonizzare lo studioe la preghiera, il lavoro e il riposo, la soli-tudine e la comunione… Lì ho capito lascienza dei Padri che dicevano: cella con-tinuata dulcescit.” Segue una serie di flash (ma il termine nonrende la pacatezza con cui essi scaturisco-no dalla pagina bianca della memoria). Edecco il ritratto della vecchia Muchèt, la sel-vatica solitaria, con la veste lacera e bisun-ta e cuore e mente di regina: sempre ulti-ma a parlare, pronta a concludere con ar-guti aforismi pieni di saggezza.Ed ecco tante care consuetudini del passa-to: i falò di S. Giovanni Battista, con l’alle-gro affaccendarsi dei ragazzi a raccogliererami secchi o manichi di scopa per appron-tare la catasta e darle poi fuoco la sera del-la vigilia; le belle tavolate delle cucine di unavolta, quando il mangiare insieme era qua-

RIVISTA DELLE FIGLIE DI MARIA AUSILIATRICEdma damihianimas

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di non essere un vigliacco”. Se dovevaesprimere un giudizio su qualcuno, era ca-tegorico: “Quello è un giusto” oppure:“Quello non sa che cos’è la giustizia” o ma-gari: “Mai dare da mangiare a un viandan-te lasciandolo fuori dalla porta: sarebbe in-giusto!”. Quando il figlio adulto si gettò nel-l’avventura che l’avrebbe portato a fonda-re la comunità di Bose, il padre disse scon-solato: “In ogni famiglia nasce un figlio stu-pido, e io ho avuto un figlio solo… “e nonvolle avere più relazioni con lui. Alcuni annidopo, senza preavviso, andò a Bose, osservòcome viveva la piccola comunità, e disse:“Forse la cosa più giusta l’hai fatta tu qui”.La Provvidenza aveva messo sulla strada diEnzo due donne straordinarie: una era la po-stina del paese, l’altra la maestra. Quandomorì la mamma, esse si presero cura del pic-colo orfano. Non ricche, buone amiche le-gate tra loro dalla fede comune e da un veroardore di carità, furono le benefattrici nonsolo materiali del ragazzo, ma gli donaro-

no l’affetto, la comprensione, la fiducia chesono l’ossigeno necessario alla crescita fe-lice di un bambino. In casa loro (vivevano in-sieme) trovavano accoglienza i contadini delluogo che andavano a sfogarsi dei loro guaie a trovare consiglio, da loro andavano, lamattina, il medico e il parroco a prendere ilcaffè, preparato con la signorile premura do-vuta all’ospite. La sera il medico tornava a vol-te ad ascoltare con loro musica classica. “E io ero là e imparavo a vivere”.Le ultime pagine sono quasi un canto aldono dell’amicizia: Bertino, Nanni e Rober-to furono i mai dimenticati amici della pri-ma giovinezza. Poi ne vennero molti altri,a riscaldare con la gioia della condivisioneil cammino arduo della vita. Queste paginededicate al tema dell’amicizia meriterebbe-ro più ampio discorso, come quelle, pienedi verità e di poesia, sulla realtà dell’invec-chiare e morire. “Ho piantato un viale di ti-gli lungo la strada che conduce al mio ere-mo: mi sono chiesto se riuscirò a goderedella loro ombra e delle ventate di profu-mo dei loro fiori nel mese di maggio. Ma liho piantati per lasciare più bella la terra chelascerò, li ho piantati perché altri siano ine-briati dal loro profumo ”. E che dire dell’e-pilogo? Partito dalla cella, il monaco ritor-na alla cella. La Bibbia è la sua cella fedele...“Ovunque io sia, in qualunque momento,mi basta aprire la mia Bibbia perché essa di-venti il mio luogo di solitudine e di silenzio,il luogo del pensare e del pregare…”. E il Vangelo! “Un libro a quattro voci chesfugge a ogni compendio che lo ridurreb-be a un sistema teologico o dogmatico o aun trattato di morale. Un libro la cui bontàè sempre espressa dalla bellezza: due lin-guaggi che parlano al cuore… “.Chiudendo il libro, si sente di avere incon-trato un uomo vero, un monaco dal cuoredi carne.

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RIVISTA DELLE FIGLIE DI MARIA AUSILIATRICEdma damihianimas

La “furbizia” del perdono

Un po’ di amarezza, prima o poi, la sentiamo tutte. Il ricordo di un torto subito. Di un’offesa. Di un’ obbedienza ricevuta nel modosbagliato. Di una mancanza di sensibilità che si protrae negli anni. Allora si in-comincia a rimuginare, a provare, col passare del tempo, un po’ di rammarico,a bloccarsi dentro una sensazione di insoddisfazione e di negatività.“Ho sempre lavorato in congregazione, senza risparmiarmi , ma con la sensazio-ne di non contare molto, di non essere valorizzata come persona, di essere mes-sa da parte quando non servivo più. Sono andata in pensione, dopo tanti annid’insegnamento, senza che mi si dicesse neppure un grazie”, scrive una FMA, dan-do voce a un sentimento abbastanza diffuso.Dobbiamo perdonare. Errori magari involontari, commessi su di noi, mancanze che la nostra sensibi-lità ci fa sentire gravi o che sono gravi davvero.Le radici cristiane del perdono le conosciamo bene. Leggiamo il Vangelo da unavita. Ma le ragioni umane meritano attenzione anche queste e, con le dovutedifferenze del caso, le parole di Mario Calabresi mi sembrano illuminanti: Mia madre ci ha sempre detto:”Non dovete coltivare l’odio, il rancore, la rabbia,la rivalsa. E, nonostante sia una persona profondamente religiosa e di fede, nonlo diceva per motivi religiosi. Lo diceva per un motivo che io definirei utilitari-stico, ma che in realtà è qualcosa di molto più grande.Diceva che il rancore è una fregatura. Perché è un sentimento talmente forte epotente che si mangia qualunque altra cosa. Se la mattina vi svegliate con un pen-siero di rabbia, quello si è mangiato la vostra giornata. Vi ucciderà qualunque pos-sibilità di divertirvi, di costruire, di pensare, di innamorarvi,di appassionarvi perqualche cosa. E quindi sarà una fregatura. Ogni mattina che vi sveglierete e sa-rete rancorosi, quella mattina avranno vinto i terroristi, perché avranno ancoradettato loro lo svolgimento della vostra giornata.Se voi siete allegri e pensate di farvi la vostra vita fate giustizia alla memoria divostro padre che sarebbe felice di vedere che i suoi figli non sono prigionieridella rabbia.” Perdonare insomma è un modo per non perpetuare un errore, pernon dargli forza. Il perdono sottrae all’altro il potere di continuare a influenza-re la nostra vita e noi scegliamo di non considerare più noi stessi come vittime,ma come protagonisti. Forse il mondo ha bisogno di questa lezione di felicitàe di grandezza.

La tua amica

Page 47: Rivista DMA - Testimoni di Gratuità  (Luglio - Agosto 2011)

DOSSIER: Testimoni nelle periferie

PRIMO PIANO: Filo di Arianna Pazienza e audacia

IN RICERCA: Pastoralmente Quale via per la felicità?

COMUNICARE Testimoni digitali Strade e sentieri del continente digitale

NEL

PR

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LE ANIME PIÙ PURE E PIÙ PENSOSE SONO QUELLE

CHE AMANO I COLORI. (JOHN RUSKIN)

Page 48: Rivista DMA - Testimoni di Gratuità  (Luglio - Agosto 2011)

SULLA TUA PAROLA

COME UNA MADRE CONSOLA UN FIGLIO

COSÌ IO VI CONSOLERÒ.IN GERUSALEMME

SARETE CONSOLATI.

(ISAIA 66,13)