Volontariato e gratuità

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Il Centro Servizi per il Volontariato “Società Solidale”, come stabilitodal D. M. 8/10/1997, appronta “strumenti e iniziative per la crescita dellacultura della solidarietà, la promozione di nuove iniziative di volontariato”e, inoltre, offre “informazioni, notizie, documentazione e dati sulle attivitàdi volontariato”.

È in quest’ottica che il CSV organizza momenti di riflessione e di dibat-tito pubblico su temi pregnanti per il mondo del non profit della provinciaGranda. Per far sì che quanto emerso in queste occasioni non solo rimanga,ma si diffonda tra le Organizzazioni di Volontariato, pubblica la collana“Studi Sociali” su cui riporta gli approfondimenti di esperti.

Il CSV dedica particolare attenzione ai bisogni emergenti ed a quegliargomenti più innovativi, ancora poco noti o controversi. Sul quarto “StudiSociali” si affronta il tema della gratuità e si accenna al Volontariato di“Advocacy”.

Si parte, dunque, da un aspetto condiviso o facilmente condivisibile,quello del valore della gratuità, per esplorarlo sotto il punto di vista econo-mico, quantitativo, sicuramente inusuale, ma sentito in una società dovenessuno fa niente per niente e dove il gratuito, a volte, viene visto consospetto. Da un tema consolidato ad una sua lettura non consolidata, pas-sando per una parola che è diventata la chiave del volontariato: la gratuità.

Sulle pagine di “Studi Sociali”, seguono le relazioni sull’Advocacy, latutela dei diritti, nella convinzione che la gratuità possa esistere solo dove siabbina alla libertà.

Presentazione Studi SocialiGIORGIO GROPPO

Presidente CSV Società Solidale

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Con la speranza che “Studi Sociali” rappresenti per tutte le OdV dellaprovincia di Cuneo uno strumento di analisi e di valorizzazione della soli-darietà, auguriamo una gradevole lettura. Concludo con un’esortazione diMadre Teresa di Calcutta: “Se fai il bene, diranno che lo fai per secondi finiegoistici: non importa, fà il bene”.

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PARTE I

“VOLONTARIATO & GRATUITÀ”

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CUNEO - Sabato 25 ottobre 2008 nella Sala B della provincia di Cuneo, si ètenuto il convegno promosso dal CSV “Società Solidale” Niente ha più valoredi un atto di gratuità. Ad ispirare questo momento di riflessione e di dibattito,l’ultimo libro di Giorgio Groppo “Il valore economico della gratuità”. Durantela mattinata si è riflettuto sull’importanza del dono disinteressato all’internodella nostra società, ma soprattutto nell’agire volontario.

L’incontro, moderato da Silvio Magliano, portavoce de “Insieme per lasussidiarietà”, è stato aperto da Giorgio Groppo, presidente del CSV“Società Solidale”. La mattinata è proseguita con l’intervento del dott.Renato Frisanco, direttore del Settore studi e ricerche Feo-Fivol Roma, cheha sottolineato l’importanza etica del volontariato.

Suor Giuliana Galli, Associazione volontariato Cottolenghino, ha inve-ce messo in luce la base dell’impasto di tutta l’azione volontaria che è daricercare nell’amore. Ha chiuso i lavori l’Onorevole Mario Mauro, vicepre-sidente del Parlamento europeo. Nel suo intervento si è messo in evidenzail rapporto che esiste tra il volontariato e la politica.

Di seguito sono riportati gli interventi dei relatori al convegno “Niente hapiù valore di un atto di gratuità”.

Introduzione

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(cap. 1 del volume di Giorgio Groppo “Il valore economico della gratuità” – Ed. Insiemeper la sussidiarietà - 2008 )

Tibor Scitovsky nel celebre volume “Economia senza gioia” affermavache «Il nostro benessere economico è in costante aumento, tuttavia il risul-tato è che noi non siamo più felici». L’idea principale è costituita dalladistinzione tra beni di comfort e beni di creatività. I beni di comfort dannoun piacere immediato, ma la soddisfazione che conferiscono è estremamen-te evanescente e fugace. I beni di creatività, invece, hanno la caratteristicaopposta: pur richiedendo un sacrificio iniziale, la soddisfazione di cui si puòbeneficiare tende ad aumentare con il passare del tempo.

Nelle società occidentali, basate sulle dinamiche di mercato, le personesono indotte a indugiare troppo sui comfort poiché le economie di scalaimpongono i gusti della maggioranza all’intera società, e quando la maggio-ranza sacrifica la creatività per il comodo (ma noioso) comfort, la minoran-za “consapevole” fa molta fatica a uscire dalle secche del consumismo, e lamaggioranza “comoda e triste” galleggia perennemente in uno stato di infe-licità sazia e annoiata. In altre parole, il consumo di beni confortevoli,creando fenomeni di dipendenza, aumenta notevolmente il “costo” richie-sto per cambiare stile di vita, che quindi tende ad auto-rafforzarsi, nono-stante provochi stati di noia e renda la vita insipida.Scitovsky, rivolge una dura critica all’american way of life, denunciando conefficacia gli esiti paradossali di un assetto socio-economico centrato sul con-sumo di beni di comfort (parchi di divertimento, centri commerciali, spet-tacoli televisivi …), che quindi sacrifica i beni di creatività.

Nelle pagine di Scitovsky si trova invece una certa nostalgia per la suavecchia Europa (era di origine ungherese), per una tradizione orientata alla

Il valore economico della gratuitàGIORGIO GROPPO

Presidente CSV Società Solidale

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communitas e meno all’anonima società di mercato. Dopo trent’anni dalleconsiderazioni di Scitovsky, però, dobbiamo registrare che la distanza tra cul-tura americana e europea si sta riducendo, e i beni di creatività, in particolarei beni relazionali, sono sempre più scarsi sui entrambi i lati dell’Atlantico.

Tibor Scitovsky divide in due categorie di beni nell’economia contem-poranea:1) i beni individuali di confort danno stimolazioni immediate, sensazioni

piacevoli di breve periodo ma la soddisfazione che conferiscono non siprotrae nel tempo (utilità marginale decrescente), di conseguenza l’in-dividuo procede ad effettuare nuovi acquisti per rinnovare la sensazionedi utilità.

In tutti i Paesi del mondo il numero di ore trascorse davanti alla televi-sione è inversamente proporzionale all’indice di felicità.

2) I beni di relazionalità hanno le caratteristiche opposte: la loro utilitàmarginale è crescente. Quanto più se ne fa uso, tanto più arrecanobenessere. In molti casi i beni relazionali non si deteriorano con l’uso equindi non è necessario procedere a nuovi acquisti.

L’impegno civile è una attività che continua a conferire utilità neltempo. Nelle economie contemporanee c’è un eccesso di risorse destinate abeni individuali di confort che si accompagnano ad un atteggiamento pas-sivo del consumatore, a scapito di una più adeguata destinazione di risorsea fonti di stimolo e di felicità fondata su beni relazionali: si genera pertantoun gap di felicità dovuto alla scarsità di beni relazionali. Mi è capitato alcu-ni mesi fa di leggere due statistiche sui costumi degli italiani che mi hannoprofondamente scosso e meriterebbero di essere analizzate più diffusamen-te di quanto si possa fare in poche righe.

Secondo una ricerca Time Budget promossa dal Gruppo StarcomMediavest il 59,2% è il tempo che gli uomini trascorrono in casa in un gior-no medio nel 2003 (57,3% nel 2001) il 18,70% del tempo a lavorare, il3,60% il tempo trascorso nei locali pubblici nel 2003 (4,2% nel 2001 ) il17,70% il tempo trascorso davanti alla TV nel 2003 (17,5% nel 2001) edinfine lo 0,30% il tempo dedicato a cinema, teatro e concerti nel 2003, men-tre per le donne il tempo trascorso in casa aumenta rispetto agli uomini di

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12 punti percentuali; quindi nell’anno appena trascorso il tempo medio tra-scorso in casa propria degli italiani è cresciuto del 4% mentre le presenzenei locali di divertimento sono calate del 27% rispetto al 2001.

Le cause? L’avvento prepotente della tecnologia nelle case degli italiani.Infatti Home Theatre, Dvd, Vhs battono le grandi sale e sono stati 4 milio-ni i lettori dvd venduti negli ultimi due anni, 9 milioni i dischi Dvd vendu-ti e 720 milioni di euro vendita e noleggio di Dvd e cassette Vhs nel 2003.

Ne consegue che nelle economie capitalistiche avanzate, le Istituzioni (com-prese le imprese) tendono a trasformare i beni di confort in beni relazionali.

I Beni relazionali

I beni di relazionalità sono intimamente legati alla questione della par-tecipazione civile. Ci sono molti lavori scientifici che mostrano la correla-zione tra felicità e partecipazione civile nelle associazioni (culturali, religio-se, politiche ecc…)

Il rapporto europeo sulla life satisfaction (2000) mostra che l’Italia èquello, tra i quindici, con il più basso tasso di soddisfazione democratica,influendo il livello della “felicità pubblica”.

La fiducia verso le istituzioni dipende molto dal grado di partecipazio-ne alla vita associativa.

Ne consegue di avere istituzioni che diano spazio a forme di relaziona-lità genuina, ossia a beni relazionali, per esempio le associazioni non profitche operano nelle più svariate forme di solidarietà.

Quanto vale un atto d’amore?

Non sempre sappiamo quantificare il valore economico delle azioni chesvolgiamo. In molti ambiti agiamo senza fare una valutazione in terminimonetari del nostro comportamento.

Perché non si valorizza abbastanza la gratuità?

Il Prof. Luigino Bruni dell’Università di Milano Bicocca ne individuacinque motivi:

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1) una prima ragione di fondo è che la gratuità è legata alla sofferenza e lacultura contemporanea occidentale non capisce più il dolore, e fa ditutto per fuggire via;

2) La cultura sociale: miliardi di euro sono investiti in pubblicità per ven-dere merci, e molto pochi per “vendere” beni relazionali;

3) Soprattutto il mercato moderno tende a vendere merci che “simulano”i beni relazionali veri

a) Televisione come “mistificatrice” di rapporti veri con gli altrib) Le nuove tecnologie

4) I beni relazionali sono costosi e rischiosi (sono vulnerabili e fragili rispet-to alle scelte degli altri), mentre i beni di mercato molto meno. È il“paradosso di Aristotele”: la vita buona deve saper convivere con la fra-gilità;

5) Il prezzo “relativo” dei beni relazionali cresce sempre di più con lo svi-luppo tecnologico: oggi rapporti veri e gratuiti costano molto anche per-ché costano poco i rapporti “falsi”.

Il grande errore cui induce l’estendersi della logica del mercato è asso-ciare la gratuità al “gratis”, ad un prezzo nullo.

In realtà la gratuità corrisponde ad un prezzo “infinito” e davanti all’in-vasione della logica del “prezzo” la famiglia e la scuola prime di tutti, devo-no insegnare l’arte della gratuità, che ricorda che i beni più importanti nonpossono essere “prezzati”.

Il lavoro è importante ma la capacità di gratuità lo è di più: si può vive-re senza lavorare ma si muore presto senza dare e ricevere amore, inoltresolo se si sperimenta la gratuità si può essere capaci di essere buoni lavora-tori, costruttori di comunità di lavoro, perché anche in società ricche, comein quelle più povere, resta vero che “l’uomo felice ha bisogno di amici”(Aristotele).

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La gratuità, insieme alla solidarietà, rappresenta il fondamento etico delvolontariato, ne qualifica il modus operandi e lo distingue da tutte le forme diazione sociale. Non a caso l’organizzazione di volontariato è l’unica realtà delTerzo settore che non può remunerare in alcun modo i propri aderenti né averericompensa o rimborso dai beneficiari delle prestazioni che offre. D’altra parteil volontariato non è solo “socialmente utile” – l’utilità sociale è il paradigma ditutto il terzo settore – ma è anche “eticamente necessario” come soggetto chetestimonia valori e che crea legami sociali, beni relazionali e “capitale sociale”.

Attraverso la gratuità il volontario “dona” il proprio tempo e la propriacompetenza per fare qualcosa di creativo e di utile per gli altri, per la comu-nità di appartenenza o per l’umanità intera. Ciò significa “farsi carico”,“sentirsi responsabili” rispetto a qualcuno o a qualcosa con cui si è in rela-zione non strumentale, ma autentica e tale da fondare condivisione e reci-procità. Senza dono di sé agli altri – come nel caso in cui si offre semplice-mente del denaro – vi è filantropia, non volontariato. La logica del dono sicaratterizza per la sua finalizzazione all’altro in un’ineliminabile risultato disocialità e di relazionalità. È in virtù di questa specifica “missione” che ilvolontariato si caratterizza come spazio concreto e simbolico del dono checome tale non può prescindere dalla gratuità.

D’altra parte il volontariato non esiste per sé, per i volontari o per leloro organizzazioni, ma esiste in funzione degli esclusi e delle comunità perle quali si prodiga e a cui deve dare conto del proprio operato. È questo ilfondamento del dono, il suo statuto reale.

Dopo aver chiarito che il volontariato è dono nella misura in cui rispon-de alla sua missione di servizio agli altri/alla comunità, quali sono le mani-festazioni coerenti con tale logica?

Volontariato e gratuità come donoRENATO FRISANCO

FEO-FIVOL

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– Anzitutto nel costituire un laboratorio di sperimentazione di nuovi ser-vizi/interventi, nell’operare facendo innovazione in virtù della sua presadiretta con i bisogni, il territorio, le risorse esistenti che è in grado dimobilitare. È questa la missione profetica del volontariato.

– Il volontariato è dono quando, oltre ad affrontare dei problemi con spe-cifici ed efficaci interventi, contribuisce ad elevare la cultura dell’ope-ratività nel sociale, ad esempio, mutuando una funzione preventivapiuttosto che riparativa, assumendo un ruolo promozionale e non sem-plicemente assistenziale, operando come attore consapevole (“agire”)alla costruzione di nuova società piuttosto che limitarsi al “fare”.“Partecipazione”, “prevenzione” e “promozione” sono, non a caso, letre “P” su cui si basa il nuovo sistema di Welfare dove il volontariato èpartner progettuale e non solo gestionale.

– Nella prospettiva del dono e, quindi, di costituire risorsa per la comu-nità, l’organizzazione di volontariato opera in una “strategia delle con-nessioni” con gli altri attori sociali facendosi carico dei bisogni dei pro-pri utenti o beneficiari senza trascurare una visione d’insieme dei biso-gni e delle risorse, costruendo reti e alleanze con cui realizzare inter-venti e avanzare proposte. Ciò significa che se opera per sollevare lostato di povertà di gruppi di cittadini svantaggiati o ai margini si impe-gna anche per determinare politiche sociali incisive di sostegno o dilotta alla povertà con tutti i soggetti in campo - con spirito critico e crea-tivo rispetto a quelle esistenti - così come essa non può non interrogar-si e agire su fenomeni correlati alla povertà - l’immigrazione, la disoc-cupazione, la solitudine, la perdita del bene casa (barbonismo) - in con-nessione con le altre OdV che se ne fanno carico.

– Il “dono” rappresentato dal volontariato può fornire oggi un contribu-to non secondario in una duplice prospettiva di sviluppo sociale e dellasolidarietà: a) quella di concorrere a garantire condizioni di cittadinan-za che evitino un accesso ineguale al bene comune e incrementino l’at-tuazione di una reale “giustizia sociale”; b) quella di garantire unaresponsabilizzazione diffusa dei cittadini al “bene comune”. Per le orga-nizzazioni di volontariato ciò significa svolgere una funzione di sussi-diarietà reale promuovendo, da una parte, la capacità dei cittadini piùdeboli di tutelarsi rispetto ai propri diritti (funzione di empowerment)

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e, dall’altra, di favorire, attraverso una comunicazione efficace e di sen-sibilizzazione sui temi e problemi sociali, processi di partecipazione deicittadini alle attività di “interesse generale”.

– Nella logica del dono si intuisce l’importanza di un rapporto di stimo-lo critico, ma costruttivo con le Amministrazioni pubbliche, titolaridella programmazione dei servizi, oltre che garanti prime della rispostaai diritti dei cittadini. Tale rapporto non può che essere di reciprocitàben sapendo che il Pubblico non può fare a meno del volontariato e ilvolontariato non può fare a meno del Pubblico. Ciascuno dei due sog-getti deve essere interessato alla crescita e alla promozione dell’altroperché dal buon funzionamento dell’uno dipende anche il buon fun-zionamento dell’altro.

Due indicatori configurano una vera e propria strategia del dono orien-tata a corroborare la società:

1) la capacità di diffondere e allargare la cultura della solidarietà, della cit-tadinanza attiva, della partecipazione dei cittadini. Si tratta della fun-zione principale del volontariato che prima ancora che per quello che faè importante per il suo “saper essere”, per i valori che testimonia attra-verso il proprio agire (è “testimonianza saldata al fare”). Da qui anchequella «passione etica ed educativa» - come diceva Tavazza1 - del volon-tariato, non tanto per acquisire nuovi adepti quanto per formare citta-dini solidali in grado di farsi responsabili del “bene comune”. Personeche vivano una cittadinanza attiva nell’arco delle 24 ore e si attivinoeventualmente nel volontariato come ulteriore libero dono;

2) il largo coinvolgimento e la partecipazione alla realizzazione del nuovosistema di welfare comunitario e plurale al fine di favorire un soddisfa-cente tasso di solidarietà e di risorse necessarie da ripartite secondopriorità di spesa che tengano conto della realtà dei bisogni e dei pro-blemi. Ciò richiede alle organizzazioni di volontariato di avere non solo“mission” ma anche “vision”, ovvero una concezione del sociale, dellepolitiche sociali, del modello di società che intendono contribuire aqualificare, avvalendosi di un sistema di rappresentanze per essere inci-

1 Cofondatore, Presidente e poi Segretario generale della FIVOL, Fondazione Italianaper il Volontariato dal 1991 al 2000.

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sive nei luoghi/momenti dell’elaborazione delle politiche sociali.Dentro una programmazione comune o partecipata è importante ancheil ruolo del volontariato come gestore di servizi agili e “leggeri” (a bassacomplessità organizzativa e sostenibilità finanziaria, non certo pocoimpegnativi e importanti) integrati o complementari a quelli più strut-turati, realizzati da soggetti diversi, come ulteriore e specifico contribu-to alla qualità complessiva delle risposte ai bisogni e ai problemi dei ter-ritori comunitari.

In definitiva il volontariato moderno è orientato ad un “dono di qua-lità” quando non si pone come fine, ma come strumento, come movimentospontaneo di liberazione, quando si occupa del disagio sociale, del degradoambientale, delle povertà varie dell’umanità e dei “beni comuni” da tutela-re e valorizzare, senza dimenticarsi della società, dei suoi meccanismi di fun-zionamento, delle scelte istituzionali, dei valori imperanti, per incidere cri-ticamente e costruttivamente sulle politiche sociali, sperimentare nuovesoluzioni ai problemi e sensibilizzare l’opinione pubblica. L’esito del donoè il cambiamento sociale.

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La gratuità è uno degli elementi essenziali del volontariato descritto dallaLegge quadro del 1991 “organismo liberamente costituito … che si avvalga inmodo determinante e prevalente di prestazioni gratuite dei propri aderen-ti,…che nell’atto costitutivo devono essere espressamente prevedere l’assenzadi fini di lucro, la democraticità della struttura, l’elettività e la gratuità delleprestazioni fornite dagli aderenti”. La gratuità è elemento costitutivo “fonda-mento e cifra qualificante del volontariato”2. È un dono, ma anche una forteobbligazione umana sentita da tutti gli uomini, in tutti i luoghi della terra, intutti i tempi, nei momenti di grande calamità, nel proprio paese ma anchealtrove: è un sentire umano che non conosce frontiere, non conosce ragionilogiche di scambio, di profitto, di convenienza, di appartenenza religiosa.

Non si è solidali perché ci si sente potenti, integri, ricchi, buoni di frontea chi è povero e debole, ma perché apparteniamo ad un’unica realtà: la fami-glia umana. La persona che si propone per fare volontariato, alla domanda“Perché vuole impegnarsi?” raramente risponde “Perché io sto così bene chevoglio fare qualcosa per chi sta male”. Molto più sovente dice semplicemen-te “Voglio fare qualcosa per gli altri”. E si accorge, in corso d’opera, che ilprimo beneficato dal suo agire disinteressato è proprio lui o lei.

Lo scatto che fa intervenire con azione gratuita il volontario nasce dauna realtà ontologica, da una peculiarità della persona umana in quantotale, più radicale, più fondamentale di qualsiasi inquadramento religioso,etnico, politico: è la realtà umana che Giovanni Evangelista nobilita con l’af-fermazione “Il verbo si fa carne”.

2 Nicolò Lipari, “Cittadini tra dovere e gratuità” Rivista del Volontariato, N. 6; giugno2004, p. 30.

Ma… il volontariato è proprio gratuito?SUOR GIULIANA GALLI

Figlia di San Giuseppe Benedetto CottolengoAssociazione Volontariato Cottolenghino

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La parola creatrice si fa carne. Le traduzioni hanno cambiato “carne” in“uomo” credendo forse di nobilitare il termine. Ma, tra “l’umana carne”:concetto fondamentale, e “uomo” descritto delle filosofie, o di alcune ideo-logie, si stabiliscono parametri pensati, riduttivi, discussi, descritti, definiti,che escludono coloro non rientrano nella definizione. Di questi si puòdisporre! Gli spaventosi genocidi del secolo passato e che continuano sottoaltri cieli su altre terre, hanno radice nella percezione dell’altro come infi-mo, come estraneo, come inquinante. La difesa di “una” idea d’uomo giu-stifica l’esclusione: dell’armeno, dell’ebreo, dello zingaro, dell’omosessuale,di chi prega un dio che non è il proprio, di chi, politicamente, la pensadiversamente. L’appartenenza ad un gruppo religioso, politico, etnico,include ed esclude, concede diritti o li nega. La consapevolezza di appartenere “alla carne umana”, include tutti: è prin-cipio di fraternità e di solidarietà, di responsabilità.

La solidarietà umana: è l’espressione di quanto c’è di umano nell’uomo,è comune a credenti e non credenti o a credenti di diverse fedi. Nei momen-ti di grandi calamità come le guerre, o naturali, come le alluvioni e i terre-moti, lo scatto umano ci fu anche verso i nemici, gratuitamente. È consape-volezza della comune appartenenza alla fragilità dell’essere e insieme delsentimento di riconoscenza per essere stati, gratuitamente, risparmiati dadebolezze, emarginazioni, guerre, e calamità varie. La gratuità nasce dallaconsapevolezza di essere umani con gli umani e di avere gratuitamente rice-vuto l’essere e i beni che ad esso aderiscono. La solidarietà pura permettedi “sentire dentro di sé il dolore e la fragilità dell’altro e sentirli come pro-pri…spinge a voler risarcire l’altro per il nostro essere risparmiati … unpatire per le ferite ingiuste inferte da natura o dagli uomini o dagli dei, èassumere su di sé la debolezza dell’altro…”3. È consapevolezza che l’uomonon è lupo all’uomo, ma uomo all’uomo, carne della stessa carne: umana.

La Costituzione (valore laico) all’articolo 4 impone ad “…Ogni cittadi-no [ha] il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scel-ta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spiri-tuale della società.”

3 Pierangelo Sequeri, L’estro di Dio, ed. Glossa 200, p. 297.

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Ciò che la legge Costituzione italiana non esprime (non è suo compito)è da quale valore debba essere impregnata la solidarietà, come debba esse-re offerto il dono gratuito. Questo lo dice il Vangelo riconoscendo implici-to nell’intervento umano, solidale, gratuito4 un valore che scavalca frontie-re e nega ideologie. Il Samaritano, prototipo di ogni uomo veramente soli-dale, non è l’uomo della legge, non è l’uomo del tempio, è un Samaritano,un eretico! “Ritengo che questo sia un Manifesto del Volontariato, nonsolo cattolico, in quanto c’è tutto: modalità dell’impegno, gratuità dell’im-pegno, amore per il prossimo, condivisione della sofferenza”5. Ciò si appli-ca particolarmente al volontariato nella sanità e nell’assistenza. In questicampi la gratuità (del cristiano soprattutto) esclude persino il diritto di giu-dicare l’operato di Dio. Non di rado confrontati da situazioni tragiche edolorose, assurde; dove il confronto con la malattia e il disagio si pongonoai credenti soprattutto, domande profondamente imbarazzanti ma “Dov’èDio?”.

A questa domanda il credente trova una risposta e, pur patendo con chipatisce, non si scandalizza del “silenzio di Dio” perché egli sa che là doveun uomo patisce Dio patisce. Ad Auschwitz, cifra del Male più assurdo e sconcertante, uno fra i tanti epi-sodi di atroce ingiustizia vede morire lentamente tre impiccati dei quali unoè ancora bambino. Agonizza per mezz’ora sotto gli occhi dei prigionieri chedevono assistere “per imparare”! Un testimone scrive “Dietro di me udiiuna voce, “ma il Buon Dio dov’è, dov’è Dio?” E io sentivo in me una voceche gli rispondeva – dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca”6.“Il Verbo si fa carne e abita fra noi”. Con l’Incarnazione di Gesù, Dio simuove e va incontro all’uomo: ad ogni uomo, nella sua individua realtà esi-stenziale: e si identifica in chi ha fame, in chi ha sete, in chi è nudo, prigio-niero e straniero in chi ha patito l’abbandono dei suoi e ha vissuto il doloree la morte, il disonore e il fallimento.

4 Questo non disconosce che gli interventi di solidarietà, di Carità, di aiuto, lungo il corsodei secoli furono fortemente influenzati dal Cristianesimo vissuto con aderenza ai precetti delSignore Gesù.

5 Giorgio Groppo, Amerai il prossimo tuo:, il volontariato cristiano come dovere di testi-monianza, Centro Servizi per il Volontariato Sviluppo e Solidarietà in Piemonte, Settembre2005, p. 30

6 Elie Wiesel, La Notte, Firenze 1980, p. 68.

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Più grande di ogni idea di uomo e di volontario, laico o cristiano, è l’ac-coglienza di Dio per quelli che sapendo o no del Samaritano “fa[nno] altret-tanto”( Lc. 10, 29). Quelli che riconoscono in ogni uomo un fratello da sfa-mare, da dissetare, da vestire da visitare: nel carcere reale o nel carcere in cuiil nascere li ha rinchiusi.(Mt. 25,31). Nel Giorno del giudizio Egli li accogliebenché, stupiti, essi dicano di non averlo mai visto.

L’azione volontaria è supplemento d’anima ai programmi di welfaredisposti dall’Ente Pubblico d’obbligo e necessari. Questi, governati da con-tratti di lavoro (sacrosanti), a poco valgono se nella loro realizzazione mancal’accompagnamento, il con-patire, il con-soffrire, offerto da coloro (i volon-tari) che sono guidati da un’altra logica e in un altro ambito: quella dell’i-dentificazione con l’altro in ragione della Carità o della Solidarietà. Questi,senza pretese di compiere miracoli, camminano con chi fa fatica donando-gli dignità: semplicemente amandolo, e, consapevoli di essere deboli con ideboli, precari con i precari prestando la mano e il braccio fermo a chitrema, accompagnano il passo a chi è incerto, sono l’occhio di chi ha vistacorta, parola per chi non si esprime e anche voce di chi non ha voce peresprimere i propri diritti.

Rispetto ai grandi impegni di responsabilità politica e sociale attivato daparticolari settori della società, questi gesti sono come l’obolo della vedovache il Signore ha lodato.Il tornaconto personale, forse inaspettato, ma reale è dato dalla constata-zione e dall’affermazione di chi si impegna e dice: “Sono venuto per dare einvece ricevo”. Senza pretesa di sanare i mali del mondo, semplicemente“Fare del bene [risulta essere] un gesto profondamente liberatorio, quasiegoistico, nel senso positivo del termine; un’emozione che supera il recintodel dovere e del dover essere e incontra invece il “principio del piacere”,che incrocia principalmente due fasce sociali: gli anziani e i giovani che sonoi più liberi nella loro ricerca creativa e soggettiva nel fare del bene”7.

Riguardo ai giovani, vale la testimonianza di Adelina, una universitariaventenne che dopo quindici giorni di volontariato al Cottolengo scrive:

7 Bruno Manghi, Fare del bene: Un piacere del nostro tempo, recensione di FrancescoLauria, ricercatore del Cesos-Cisl.

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“Ho lasciato la Piccola Casa della Divina Provvidenza meno di due ore fa…tutto è un po’ confuso e la mia casa sembra così vuota …La prima volta che ho sentito parlare del Cottolengo avevo 18 anni. Il mio pro-fessore di religione ci propose due settimane di servizio nei mesi estivi, ma nonpartecipai…Oggi dopo tre anni mi ritrovo ad attraversare un brutto periodo. L’universitàche frequento non si rivela essere appassionante e coinvolgente come speravoe questo mi fa spesso pensare ad un cambiamento .Comprensibilmente i mieigenitori, preoccupati per il mio futuro, fanno pressioni per tentare di convin-cermi a non mollare, tanto che spesso il nostro rapporto è piuttosto teso.A ciò si è aggiunta una crisi “sentimentale”, dopo 2 anni il mio ragazzo ed ioci siamo lasciati. Anche se vorrei nasconderlo, sto male.Nel pressante bisogno di staccare da tutto ciò che mi circonda e cercare me stes-sa, mi sono ricordata delle parole del mio professore, innamorato della PiccolaCasa e sono partita. Temevo, tuttavia, di sentirmi “fuori posto” infatti io noncredo in Dio, non pratico, non prego….avevo molti pregiudizi sulle suore etemevo che questo influisse negativamente sul servizio che stavo per offrire. Lamia non fede è stata del tutto rispettata.Un’altra mia preoccupazione era quella di non saper offrire un servizio “spe-cializzato”. Dovevo imparare tutto (da come imboccare a come comunicare, daportarle in bagno, a lavarle) e in certi momenti non è stato facile.Mi è capitato, per esempio, di dover tagliare le unghie ad alcune ricoverate.Sembra veramente un gesto banale, ma io non l’avevo mai fatto ...temevo disbagliare, di tagliarle, ferirle…che ansia!Ma, dopo 15 giorni, il bilancio è decisamente positivo: é stato faticoso, mameraviglioso. Non ho risolto i miei problemi, non mi sento una persona com-pletamente diversa, non sono diventata una fervente devota, ma in queste duesettimane mi sono sentita viva ,utile, quasi un dono.Ho imparato il valore della dignità umana, attraverso la dedizione e la curacon cui suore e volontarie si dedicano alle malate non solo per garantire lorole cure mediche: non viene trascurato nulla…attività ricreative, ginnastica,piccoli impegni lavorativi, persino la bellezza è importante.Con mio grande stupore, per esempio, ho scoperto che alcune parrucchiereoffrono un po’ del loro tempo per tagliare e acconciare [i capelli] alle ospitidella Piccola Casa.Ho capito che il volontariato è amore, vuol dire “ti voglio bene” ad una per-sona e cercare di aiutarla per il meglio”.

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Se per i giovani il volontariato è apertura a sé e agli altri e apre unosguardo nuovo verso il futuro, esso è fonte di soddisfazione e di piacere pergli anziani che dopo aver percorso un buon tratto della propria esistenza, inpossesso di risorse e di esperienze non spendibili sul mercato del lavoro, siimpegnano nel volontariato. Dicono: “Pensare di alzarmi il mattino e nonsapere come riempire le giornate fino a ieri scandite da un ritmo di lavoromi portava alla depressione, il volontariato mi ha aperto una nuova stradache percorro alcuni giorni della settimana con soddisfazione”.

A volte, purtroppo, è la tragedia improvvisa a spingere nel baratro delladepressione chi è sopravvissuto. L’incontro con l’altro è l’occasione perridare un senso alla vita e per recuperare e ri-impegnare un patrimonioaffettivo inutilizzato. Sotto il sole, il vento o la pioggia, nell’arco di qua-rant’anni, per tre giorni la settimana e quando specificamente richiesta,Vittoria attraversa la città per servire le sue “vecchiette”; a molte di questeterrà stretta la mano nel difficile momento dell’agonia.

Se il volontariato fosse solo sacrificio e fatica, l’impegnarsi durerebbepoco. È impegno che non ha riscontro economico, ma arricchisce l’essere,inserisce nella grande famiglia umana con maggior consapevolezza: ma… èproprio gratuito il volontariato?

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Oggi il dinamismo del volontariato, nel rapporto che esso ha con l’e-sperienza della politica, è essenzialmente un miscelatore di democrazia.Questo è un fatto di solare evidenza per una ragione semplicissima: in unPaese in cui manca la democrazia, il volontariato è proibito o fortementeosteggiato. Ad oggi, quando si fa un regime in Africa, prima di ogni altracosa, si cacciano i missionari.

Nella storia dell’umanità più recente, i leader dei totalitarismi, tra i qualisi inseriscono i fascismi, i comunismi, i nazismi, nel meccanismo di control-lo tipico di tali regimi, vale a dire di tutte quelle concezioni in cui il potereè tutto e l’uomo non è niente, prima di ogni altra cosa hanno bisogno diliberarsi della capacità di gratuità dell’uomo; della capacità dell’uomo difarsi dono, di affermare un ideale più grande di sé e del proprio interesse.

Per questo l’Unione europea, e con l’Unione europea tutte quelle isti-tuzioni a cui sta a cuore il senso stesso dello scopo per cui sono state crea-te, ambiscono a poter comprendere fino in fondo il mistero dell’esperienzadella gratuità.

Lo dico con grande semplicità: San Tommaso ha provato a lungo a inda-gare sul mistero del cuore dell’uomo ha sempre messo in evidenza la natu-ra così detta sinolica dell’uomo. Dice Tommaso D’Aquino: “L’uomo è uno:è quello stesso che prega e che bestemmia, quello stesso che si uccide e che sifa uccidere per difendere un bambino indifeso”.

L’uomo ha dentro una taratura e un livello di percezione della realtà chene fa il signore dell’universo, che, secondo la definizione profonda diPascal, “quando ci sarà l’ultimo momento dell’universo l’unico a renderseneconto nella sua fragilità, e questo lo farà soffrire immensamente, ma nella suagrandezza, e questo gli farà trasparire il destino, sarà l’uomo”.

Amano gli altri coloro che guardandoli negliocchi riconoscono la presenza di DioMARIO MAURO

Vice Presidente Parlamento Europeo

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In che modo questo si lega all’esperienza delle Istituzioni, alla politica?Che cos’è un uomo? Un uomo a che cosa serve? Che cosa lo caratterizza?Qual è il desiderio che c’è nel cuore dell’uomo? Quanti sono i tentativi chefacciamo per cercare di definirlo?L’uomo lo sentiamo profondo in relazione alla sua libertà, in relazione allasua capacità di costruzione, l’uomo che si è fatto da sé e che ha saputocostruire qualcosa nella vita. Se la gratuità, se la libertà, se la capacità dilavoro caratterizzano il cuore dell’uomo, come deve essere organizzato, adesempio, un sistema sanitario per servire fino in fondo il cuore dell’uomo?Come deve essere organizzato un sistema educativo per servire fino infondo il cuore dell’uomo? Come deve essere organizzato un sistema indu-striale, delle relazioni del lavoro, un sistema delle pensioni per far sì chel’uomo si realizzi, che l’uomo possa essere quello che per natura è chiama-to ad essere? Questo è il cuore del rapporto tra la politica e l’uomo, tra leistituzioni e l’uomo, il modo in cui l’uomo è chiamato ad affermare il pro-prio centro del mondo; quando a definire questo passaggio non c’è lo sguar-do amoroso alla realtà, ma c’è l’attrazione, si compie quel passo illegittimo,finisce l’esperienza dei governi e inizia quella dei regimi.

Quando Hitler in Mein Kampf parla dell’uomo, scrive pagine impres-sionanti, dice che l’uomo è il centro dell’universo e che è degno di ogniattenzione; alla pagina successiva dice che gli ebrei non sono uomini e netrae le debite conseguenze. Quindi in questo cortocircuito tra logica e metafisica c’è tutto il dramma dinon arrivare a comprendere come nel mistero della gratuità c’è la formula,in termini di cultura di democrazia, per far sì che l’esperienza di bene comu-ne che tendiamo a cercare di costruire nella società possa essere possibile.

Questo vizio dell’attrazione ha contrassegnato tutto il Novecento secon-do la struttura delle ideologie, perché, invece che guardare all’uomo vero,al suo bisogno, c’è stata la necessità di inventare un uomo nuovo. Comehanno fatti i bolscevichi che, quando non hanno trovato gli operai con cuifare la dittatura del proletariato, hanno preso 20 milioni di contadini, ikulaki e li hanno uccisi, come i nazismi e i fascismi che hanno corso il rischiodi discriminare la natura vera dell’uomo a seconda di criteri razziali; tuttaquesta astrazione ha fatto perno sull’incapacità di comprendere che la realtàè più grande di noi, che il mistero che c’è nell’umanità è più grande di noie che le istituzioni altro non sono che un patto di libertà chiamato a servire

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questo mistero. Un patto di libertà in cui cediamo quote della nostra sovra-nità in cambio di garanzie e di servizi; garanzie e servizi che vengono fattialla comunità e alla persona perché questa sia capace in qualche modo dirispondere ai propri bisogni, e quando invece a questa dimensione sussi-diaria si sostituisce l’ipertrofia dell’istituzione che vuol diventare essa stessarisposta a quel bisogno, ecco, ancora una volta cessa l’esperienza dei gover-ni e inizia quella dei regimi.

Non a caso – e so quanto possa essere contradditorio questo passaggio –ma anche l’esperienza degli stati liberali comincia da atti di esproprio dellagratuità. Quando nasce lo stato nazionale italiano, nasce con una legge, lalegge Crispi, che sottrae alla Chiesa cattolica gli ospedali, i luoghi della gra-tuità per eccellenza, perché per la politica ciò che sfugge alla dimensionedella gratuità entra nella dimensione della rendita politica.

Controllando la sanità, l’assistenza, la cultura, l’istruzione, il tempo libe-ro, lo sport, si gestiscono il presente e il futuro delle generazioni e su questoi grandi totalitaristi hanno basato la propria dimensione. Con questo torno adire che per le Istituzioni europee il volontariato è misuratore della qualitàdella democrazia, perché più società fa bene allo stato, più società rende allostato una risposta più esaustiva e più puntuale a quelle che sono le iniziativepiù impellenti nel cuore dell’uomo, che prendono la forza del suo desiderioe che si fanno metodo, organizzazione, dimensione progettuale.

Questo nell’esperienza dell’umanità ha avuto fasi storiche ben precise:pensiamo a una fase storica molto simile a quella attuale, quanto la barba-rie ha sconvolto il mondo allora conosciuto e dall’Est sono venuti popoliche hanno travolto l’impero romano, che per mancanza di ragione, perchénon esistevano più le motivazioni in cui era fiorita la Repubblica di Roma,ha ceduto sotto il colpo di una sorta di relativismo morale che ha portato legenerazioni di allora a non avere più ragioni per mettere su casa, per mettersu famiglia per mettere al mondo dei figli, per difendere la patria.

Ma questa ondata barbarica a chi ha giovato? Ai volontari, cioè aimonaci benedettini che attraverso la rifondazione di un’esperienza di un’u-manità condivisa hanno saputo integrare quelle popolazioni e hanno fannonascere l’Europa: cioè l’esperienza fiorita di quegli stati che saranno poi glistati nazionali che andranno a creare la struttura europea. È nel Medioevo

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che si genereranno e si distingueranno esperienze di prossimità dell’umano,le misericordie, le confraternite, cioè quei luoghi in cui il desiderio dell’uo-mo si faceva capacità di partecipare al destino del prossimo; indipendente-mente se tu ed io la pensiamo alla stessa maniera, indipendentemente se ilpotere ha previsto questo futuro, perché c’è una forza così grande in me,che desidera così grandemente per me l’infinito che nel vedere la tua diffi-coltà io desidero partecipare: si chiama carità.

Questo fuoco immenso è quello che ha segnato nella laicità la storiadell’Europa, e ha impedito, peraltro attraverso grandi sacrifici e sofferenze,come le guerre di religione, che anche per noi diventasse metodo il fonda-mentalismo, vale a dire prendere Dio come pretesto per un progetto dipotere e di conquista.

Questa è la forza della nostra storia, noi dobbiamo ravvisare il fatto cheoggi il volontariato non è il frutto di un’analisi statistica. Facciamo delle sta-tistiche e ci accorgiamo che tante persone “danno” un’ora, tanti danno dueore, tanti danno cinque ore; il volontariato è molto di più, è la qualità dellanostra democrazia, ma ancor più è la qualità delle ragioni per cui possiamopensare di poter vincere la sfida della vita. Perché, se io dò un’ora e nel tra-sferire questo aspetto della gratuità non viene fuori come un fuoco che midivora, allora perdo il senso della gratuità e questo è il dramma che l’uma-nità vive oggi. L’Europa è uno dei luoghi per eccellenza del volontariato econtemporaneamente è quel luogo che ha perso la gratuità per definizione:quello di mettere al mondo dei figli, tant’è che è la crescita è pari a zero daquarant’anni e l’Europa ha sostanzialmente poca speranza di sopravviveresullo scenario globale perché gli manca più di una generazione. Allora nelvoler dare un’ora di me io devo fare la battaglia di capire che cosa questosignifica. Dare un’ora di me per che cosa?

Se andate a vedere sulla spianata di fronte la Casa bianca, di fronte a unmonumento per i caduti di Cambogia vedrete una stele con su scrittoFreedom is not free, la libertà non è gratis. La gratuità non è gratis perché lagratuità è una battaglia che si fa per le cose che costano di più, costano lavita, costano e passano attraverso il senso di responsabilità di una culturadell’amore che sola può far sopravvivere la nostra esperienza di umanità.E sono talmente convinto di questo che chiudo con una citazione in cui vor-rei evidenziare il cristianesimo profondo di parole laiche.

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Platone nel Convivio mette in bocca a Socrate una definizione bellissima,che dice: “Amano gli altri coloro che guardandoli negli occhi riconoscono lapresenza di un Dio”, cioè coloro che capiscono che nel donare per l’altroaffermano un punto che li trascende e che solo è capace di metterli insieme,perché altrimenti verrebbe sempre prima il colore, lo schieramento, la posi-zione politica, la casta economica.

Guardate all’odio che si è creato contro i cristiani in India o che ha por-tato al rapimento delle due missionarie in Africa, un odio che si è concen-trato soprattutto sull’attività educativa di suore e ordini religiosi, perché inquella attività educativa c’è un livello di gratuità che scompagina l’ordinepolitico, fa saltare il principio delle caste in cui si è organizzata la vita di unPaese. E allora proprio lì si capisce che non solo la gratuità non è gratis masoprattutto che la gratuità non è indolore. La gratuità porta la spada dellaseparazione e nel frattempo auspica l’intervento della giustizia.

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PARTE II

“VOLONTARIATO & ADVOCACY”

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Introduzione

Attraverso una serie di convegni organizzati da “Società Solidale”, apartire da quello del 21/02/2003 ad Alba, passando per quello del18/06/2005 a Bra, fino ai momenti proposti in Italia da altri Enti, il CSV haseguito, sin dai primi passi il Volontariato a tutela dei diritti, il cosiddettoVolontariato di avvocatura, più noto come “Advocacy”.

Un nuovo modo di essere solidali che, di fronte ai crescenti fenomeni diemarginazione e solitudine, acuiti dalla crisi economica, diventa bisognoemergente. È un Volontariato che richiede certamente preparazione e deter-minazione nel farsi promotori dei diritti altrui, vigili del rispetto a tutti ilivelli.

La riflessione parte, in fondo, da alcune domande cruciali. La solida-rietà si deve limitare a soccorrere o può agire nel tessuto sociale come atto-re riconosciuto che tutela diritti violati, che denuncia e difende? Quali sonole vie da percorrere per legittimare le Organizzazioni di Volontariato adinformare e a farsi portavoce delle persone svantaggiate? Se ormai leIstituzioni e la società civile si appellano ai volontari quando si presentaun’emergenza, non altrettanto si verifica quando sono i volontari ad inter-pellare Istituzioni e società civile per segnalare una situazione di disagio, ocome sottolineò in diverse occasioni il compianto Professor Achille Ardigò,uno dei padri dell’Advocacy, “per perorare la causa di persone, famiglie egruppi in stato di marginalità e di bisogno e per sollecitare riforme pere-quative e riparative nei confronti delle autorità incaricate”.

L’obiettivo di “Studi Sociali 4”, partendo dal concetto di gratuità, è ditracciare un percorso sì rivoluzionario, ma anche evolutivo per la solida-rietà. Il Centro Servizi vuole offrire un primo passo per aprire nuove strade

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di Volontariato. Agire in tale direzione, dice ancora Ardigò, significa “per-fezionare di frequente il confronto critico in senso riformatore per correg-gere in senso morale e politico democratico i guasti di una globalizzazioneche si è rivelata portatrice di enormi sviluppi, ma carica, sino all’inverosi-mile, di furti, di ingiustizie, di saccheggi”.

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SOMMARIO: 1. La Carta degli impegni – 2. CIV, Co.di.ci. e Tribunale della Salutea tutela dei malati – 3. Il finanziamento delle cure per i non-autosufficienti – 4. Laprevidenza sociale: similitudini e differenze rispetto all’assistenza sociale e sanitaria– 5. Il fondo per la non-autosufficienza – 6. Un nuovo campo di intervento a tuteladei diritti del malato: come ridurre i costi migliorando le cure – 7. Il ruolo dellafamiglia – 8. Il ruolo del volontariato – 9. La tabella di ripartizione del DPCM 29novembre 2001 sui LEA: chi paga per i servizi sociosanitari.

1. Carta degli impegni

La carta dei servizi, qui di seguito nominata Carta degli impegni, è undocumento che dichiara i diritti garantiti all’utente, in quel servizio o inquell’unità operativa che lo accolgono, orientato al miglioramento dellaqualità del servizio reso, intesa sopra tutto come qualità verificata dallaparte dell’utente, secondo quanto previsto dall’art.14 del Decreto legislati-vo n. 502/1992. Il fine che deve guidare l’azienda sanitaria è quello dicostruire un documento che partendo dal punto di vista del cittadino uten-te, e seguendolo dall’ingresso nell’unità operativa ospedaliera o, general-mente, nell’area sanitaria, lo orienti fornendogli uno strumento pratico perla miglior utilizzazione possibile del servizio, che gli dia la certezza dei suoidiritti e la misura delle legittime attese.

Seguendo questo percorso logico, la prima verifica di qualità la si provasull’accoglienza, poi nella possibilità di orientamento, nella possibilità di acce-dere alle informazioni e nella capacità della struttura di adattarsi alle abitudi-ni ed alle esigenze del paziente-utente. Sono queste le prime verifiche, spessoinconsapevoli, che toccano gli aspetti più immateriali e che probabilmenteincidono maggiormente sul giudizio complessivo del cittadino-utente: sitratta di problemi di informazione, di personalizzazione e di umanizzazionedei servizi, in particolare del rapporto con gli operatori. Si ricorda che un

La carta dei servizi: garanzia del rispetto deidiritti dell’utenteCARLO HANAU

Università degli Studi di Modena, Reggio Emilia, Bologna e Padova

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servizio di accettazione alla portineria di tipo trascurato pregiudica la per-cezione della qualità globale dell’intero servizio.

Un secondo ordine di verifiche qualitative attiene ad aspetti più concretie tangibili, riferibili all’efficienza qualitativa, quali il servizio alberghiero, itempi d’attesa, i servizi di supporto.

Soltanto in ultimo il cliente cerca di compiere una verifica qualitativadell’efficacia clinica dell’intervento, in termini di miglioramento del suostato di salute, disponendo peraltro di pochissimi elementi di giudizio.

Proprio per affiancare ed aiutare il cittadino in tutti questi suoi bisogni, ilSettore Accoglienza offre la Carta degli impegni, una dichiarazione su quantol’utente deve attendersi dal servizio, sottolineando di essere a disposizione, nel-l’interezza dell’équipe presentata, di chiunque esprima una richiesta di aiuto.Si è scelto di chiamare questo documento Carta degli Impegni per sottolinea-re che, per la prima volta, oltre alle informazioni logistiche e organizzative esi-ste un impegno vero dichiarato dai professionisti che ogni giorno lavorano peri cittadini negli ospedali. La Carta degli Impegni generale del presidio sanita-rio è sempre disponibile come consultazione del suo voluminoso peso cartaceood elettronico; è comunque essenziale che la Carta specifica dell’area in cui l’u-tente soggiorna e dell’unità operativa dalla quale riceve il servizio venga messaa disposizione e distribuita dalla caposala o dal personale infermieristico che siattiva nel percorso di accoglienza in ogni unità operativa del presidio ospeda-liero, ogni qualvolta gli utenti vengono accolti ed ospitati per una degenza oper funzioni ambulatoriali.

La Carta degli Impegni ha lo scopo di favorire una piena consapevolez-za per i cittadini utenti sui servizi erogati, sui propri diritti e sugli obblighidel Servizio Sanitario Nazionale, nell’ottica di attuare un’efficace politica diinformazione sanitaria.

2. C.I.V., Co.di.ci. e Tribunale della Salute a tutela dei malati

I malati hanno molte difficoltà a far valere i propri diritti: la situazione dimalato, peggio se ricoverato in ospedale, è di per sé una posizione di sogge-zione ai curanti e alle strutture burocratiche. Una considerazione che vale amaggior ragione nel caso dei malati cronici non autosufficienti, che vengono

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spesso sottoposti a dimissioni selvagge, vengono cioè dimessi dall’ospedalecontro la loro volontà, quando sono ancora ammalati e bisognosi di cure,senza preparare alcuna alternativa fra quelle che il diritto garantirebbe loro:assistenza domiciliare integrata, ospedalizzazione a domicilio o residenzasanitaria assistenziale (da non confondersi con le case di riposo del settoredell’assistenza-beneficenza). I malati che hanno superato l’acuzie hannodiritto a essere riabilitati al meglio subito dopo la fase acuta, negli appositiletti di riabilitazione che l’ospedale deve riservare loro, in gestione diretta oin rapporto di accordo con una struttura privata accreditata; quelli in fasecronica hanno il diritto di restare in un ospedale nei letti per lungodegenti,finché non sia stata predisposta una soluzione alternativa: in EmiliaRomagna si sono attivati per questo scopo i P.A.R.E. (post acuzie e riabili-tazione estensiva) e poi le Residenze sanitarie assistenziali RSA. Occorreperò che qualcuno aiuti queste persone a far valere i loro diritti, poiché incaso contrario vengono dimessi precocemente e contro la loro volontà. Unesempio di associazione di avvocatura di questi diritti, troppo spesso calpe-stati anche in omaggio alle direttive volte al risparmio, è stato negli anni ‘80il CIV, Coordinamento Italiano del Volontariato, a cui è succeduto neglianni ’90 il Coordinamento per i diritti dei cittadini, CO.DI.CI., un’associa-zione di secondo livello di associazioni locali di volontariato, indipendentedai movimenti politici, volta alla tutela dei diritti dei cittadini, in particola-re delle persone più indifese ed emarginate. Oltre ai malati queste associa-zioni si sono occupate di anziani e handicappati, spesso indigenti, pergarantire il diritto di fare udire la propria voce, di proposta e di protesta, atutti quanti non riescono a farlo autonomamente, e per affermare unasocietà più democratica e solidale. CO.DI.CI. si è successivamente scioltoma le associazioni locali continuano la loro opera. A Bologna e Ancona, peresempio, il Tribunale della Salute partecipa insieme a molte altre associa-zioni ai Comitati Consultivi Misti che sono istituiti presso ogni Aziendasanitaria e, in Emilia Romagna, anche al CCRQ, Comitato consultivo regio-nale per la qualità dalla parte dell’utente, illustrato nel seguente sito dellaRegione Emilia Romagna http://www.saluter.it/wcm/saluter/sanitaer/comi-tato_consultivo_regionale.htm.

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3. Il finanziamento delle cure per i non autosufficienti

Secondo le disposizioni vigenti, a principiare dalla legge n. 692 del 1955,gli anziani e tutte le persone affette da malattie tipiche degli anziani, i malatiacuti, cronici non autosufficienti, lungodegenti e convalescenti hanno gli stes-si diritti di tutti gli altri malati nei confronti dell’assistenza sanitaria: la curasenza limiti temporali, sia a domicilio che in istituzione, che in precedenza eralimitata a sei mesi l’anno. Dal 1955 una buona parte degli italiani ha conti-nuato a versare, anche dopo l’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale e l’e-stinzione delle mutue, tutti i contributi previsti, che se pur non coprivano iltotale delle spese sanitarie pubbliche, coprivano tuttavia le spese di coloro cheversavano i contributi: ovviamente non ci si riferisce a coloro che usufruisco-no degli “sconti” che lo Stato concedeva a molte categorie di lavoratori ed anon lavoratori, per condizioni particolari e per aree geografiche.

La legge n. 833 del 1978 pone gli oneri finanziari delle cure a carico delServizio Sanitario Nazionale, salvo il pagamento di ticket e compartecipazionialla spesa da parte dell’utente, che all’epoca non esistevano. Tuttavia la realtàconcreta è parecchio difforme dalla prescrizione del diritto, e la maggior partedei malati in situazione di cronicità e non autosufficienza grave sopravvive sol-tanto grazie alla dedizione dei propri cari ed al patrimonio familiare, senza riu-scire ad ottenere le prestazioni che spetterebbero loro di diritto per tutto iltempo della malattia, senza alcun limite di durata delle cure.

La scelta di fondo che sostiene la formula del finanziamento pubblico delSSN nel 1978 è che i servizi di cura per i malati debbano essere pagati non daimalati, ma dalla collettività, attraverso la fiscalità generale, così come accadeper l’istruzione obbligatoria, la giustizia ed infine per i servizi dell’assistenza-beneficienza rivolti agli indigenti, che per definizione non sono certo in gradodi contribuire. È questa l’applicazione del principio di massima solidarietà,poiché non sembra opportuno fare la perequazione dei redditi profittandodel momento della malattia, particolarmente di quella grave, chiedendo inquesta occasione alle persone agiate che hanno la sfortuna di versare in statodi malattia (e soltanto a quelle) di pagare le proprie cure.

D’altra parte la persona più agiata, che paga imposte e tasse più deglialtri, a causa della progressività delle imposte e della differenza delle tassesui beni di lusso, rivendica quantomeno lo stesso trattamento degli altri

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quando ha la sfortuna di cadere malato: in caso contrario si incentiva pesan-temente il ricorso a servizi paralleli, gli uni a pagamento riservati ai più agia-ti e gli altri ai più indigenti, il cui livello qualitativo è destinato a decaderequasi inevitabilmente.

A proposito del finanziamento, il SSN istituito dalla Legge n. 833 del1978 non ha introdotto drastici cambiamenti: fin dai tempi delle mutue ilpagamento dei contributi e tributi sanitari grava principalmente su chi pro-duce reddito, escludendo alcune rendite, come quelle pensionistiche.Pagano principalmente i sani, le classi forti della società, mentre l’interven-to e la spesa sanitaria si concentrano sopratutto su quegli individui che sitrovano nell’ultimo anno di vita e – in misura minore – nei primi giorni divita, mentre la restante piccola parte di iperconsumatori è formata da parti-colari malati e da persone con disabilità, che hanno bisogni sanitari elevatiper tutta la durata della vita. Come nella previdenza, anche per il compartomalattia vige il principio della “ripartizione”, per cui non si accumula nullae le entrate degli uni vengono immediatamente utilizzate per le spese deglialtri: in tale situazione ogni riduzione dell’intervento pubblico viene perce-pita come una recessione unilaterale dello Stato dagli obblighi che si eraassunto e per i quali era stato pagato il contributo.

L’iniquità generazionale delle restrizioni imposte al bilancio della sanitàè palese, se si considera la posizione di un sessantenne che ha contribuitoper quarant’anni senza gravare più di tanto sulle spese e che ora si vedenegati quei servizi sanitari di cui comincia ad avere bisogno, concessi inve-ce gratuitamente alla generazione precedente. La sua situazione è aggravatadal fatto che la riforma sanitaria del 1978 aveva abolito la “sua” mutua, altempo obbligatoria e non discriminante, e che oggi le assicurazioni volonta-rie esigerebbero un premio molto alto per coprire il suo rischio-malattia,che l’età ha reso molto probabile.

Una situazione simile si verifica nel settore previdenziale, dove ai lavo-ratori attuali si prospetta un progressivo allontanamento dell’età pensiona-bile, con il risultato paradossale che una insegnante di 55 anni si vede nega-re il diritto alla quiescenza ed è obbligata a continuare l’attività e quindi acontribuire per mantenere la pensione a una sua ex collega di 50 anni, giàda dieci anni in quiescenza. Tutto ciò è aggravato dalla prospettiva di unagestione sempre più difficile del fondo negli anni futuri, dato che si assotti-gliano le coorti di lavoratori giovani che entrano nel sistema di “ripartizione”,

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sia perché le coorti di nati dopo il 1964 si riducono progressivamente finoa dimezzarsi, sia perché coloro che entrano nel mondo del lavoro contri-buiscono di meno (agevolazioni sul primo impiego e sul lavoro interinale,part-time, cooperative, salario convenzionale ecc.) o non contribuisconoaffatto (lavoro nero, esenzioni territoriali, borse di studio ecc.).

Incombendo la crisi del fondo previdenziale, gli stessi giovani accettanodi buon grado la fuga dal sistema, consapevoli che il loro ingresso nel merca-to del lavoro viene facilitato da questa riduzione del costo del lavoro, ottenu-ta a spese dei contributi per previdenza e malattia, dai quali non si aspettanoalcuna contropartita: così l’aspettativa di un peggioramento della situazionegenerale futura determina comportamenti individuali di tipo egoistico, cheaggravano la situazione generale presente (si pensi alla massa di domande diprepensionamento presentate), in piena analogia a quanto succede nelServizio sanitario nazionale, ove il diritto a ciò che resta delle prestazionigarantite si riduce anno dopo anno e non è correlato ai versamenti effettuati.

Ciò che differenzia profondamente sanità e previdenza è la componente diassicurazione del rischio, che nella sanità è massima mentre è ridotta nella pre-videnza. Il singolo è ben lieto di pagare un contributo e di non ricevere nessu-na prestazione sanitaria in cambio, quando la sua buona salute gli consente difarne a meno. Le vecchie mutue e il Servizio sanitario nazionale universale ten-dono a distribuire gratuitamente le prestazioni secondo la logica “a ciascunosecondo i suoi bisogni, da ciascuno secondo le sue possibilità”, affinché il costodegli interventi sui malati venga sostenuto dalla collettività - prevalentementedai sani - mediante un’imposta sulla salute. Una deviazione da questo princi-pio è la compartecipazione, che costituisce una tassa sulla malattia; ma a partequesta eccezione (purtroppo sempre più frequente), il servizio sanitario tendea lenire le avverse condizioni della fortuna sanitaria dovute al patrimonio gene-tico, alle condizioni di vita e di lavoro e al grado di istruzione.

4. La previdenza sociale: similitudini e differenze rispetto all’as-sistenza sociale e a quella sanitaria

La previdenza, al contrario, premia sopratutto chi vive più a lungo, condi-zione che viene ritenuta già di per sé più favorevole dalla generalità dell’opi-nione pubblica: a prescindere dall’inizio del pensionamento, la somma totale

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delle prestazioni erogate è direttamente proporzionale alla durata della vita.Pertanto si può affermare che il sistema pensionistico non contiene il forteelemento di perequazione presente nel servizio sanitario.

In altri tempi questo problema non si poneva nella pratica, perché lepensioni rappresentavano un sussidio molto modesto, che consentiva disopravvivere per quel poco di vita che rimaneva dopo l’uscita dal lavoro,spesso in condizioni di salute ormai usurate. Oggi le migliorate condizionigenerali della società e dei pensionati e i progressi della medicina consento-no un aumento della quantità e della qualità della vita, che costituisce il piùimportante fenomeno demografico di tutti i tempi.

Oggi il servizio sanitario contribuisce sempre più spesso ad allungare lavita delle persone malate che hanno oltrepassato la soglia della vita media,compensandone i deficit con interventi continuativi (cronici) e non risoluti-vi: l’allungamento della vita induce perciò un aumento dei costi sanitarilento e continuo (meno dell’un per cento all’anno) e un aumento ben mag-giore delle spese previdenziali. In questo senso il servizio sanitario e quelloprevidenziale si possono considerare come fattori sinergici, tendenti all’au-mento della spesa in favore dell’allungamento e del miglioramento della vitaanche in favore di chi ha superato la media attesa. Si rende pertanto neces-saria una riflessione complessiva sui tre grandi settori qui ricordati (previ-denza, beneficienza e sanità), particolarmente attuale nel quadro della rifor-ma dello stato del benessere del nostro paese, senza dimenticare l’esigenzadi integrare al massimo gli interventi dei tre settori, spesso fra loro comple-mentari oppure sostitutivi: l’eccesso di medicalizzazione (sostituzioneimpropria di servizi sanitari ad altri servizi) non è soltanto criticabile dalpunto di vista del bilancio, in quanto comporta uno spreco di risorse moltocostose, ma anche dal punto di vista dei risultati, in termini di benessereottenuto.

Nei 20 anni successivi alla sua approvazione si è gradualmente applica-ta la norma della legge n. 833 del 1978, che prevedeva la fiscalizzazionedegli oneri mutualistici: dapprima lo Stato percepiva gli stessi importi (dise-guali) che le precedenti mutue imponevano obbligatoriamente sui redditida lavoro; poi la cosiddetta “tassa sulla salute” ha parificato le percentualidovute estendendole anche ad altre fonti di reddito, compreso quelle dacapitali; infine è stata istituita l’Imposta regionale sulle attività produttive

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(IRAP), al posto delle quote gravanti sul lavoro, che costituisce il primopasso verso la completa autonomia e responsabilizzazione delle Regioni,delegando insieme la facoltà di decidere la spesa sanitaria, anche oltre laquota capitaria garantita dallo Stato (che dovrebbe consentire di erogarealmeno le prestazioni comprese nei LEA, i Livelli Essenziali di Assistenza,e la necessità di coprire la spesa stessa. I trasferimenti dallo Stato alle fami-glie, come quelli pensionistici, restano generalmente esclusi dal prelievo,così come è ben comprensibile se si pensa all’origine dei contributi mutua-listici, pagati mentre si era adulti attivi proprio per garantirsi l’assistenzanella terza età, più frequentemente colpita dalle malattie. Dal gettito della“tassa sulla salute” (i contributi sanitari) e da quello della “tassa sulla malat-tia” (la compartecipazione, il ticket) si ricavava all’incirca metà della spesasanitaria pubblica; tuttavia non si deve trascurare il fatto che negli ultimianni, riducendosi la spesa sanitaria pubblica per rispettare l’impegno euro-peo a ridurre il deficit del nostro Stato, si è molto allargata la spesa privata,in particolare di quella pagata direttamente dai malati di tasca loro, poichéquella mediata da un meccanismo mutualistico è quasi trascurabile.Paradossalmente la tassa sulla malattia pagata direttamente di tasca propriadai malati è molto inferiore negli USA che in Italia. Si stima che la spesa pri-vata in Italia sia rapidamente aumentata ed ora superi il 40% della spesapubblica: si noti che in tale somma vengono conteggiate soltanto in parte lespese sostenute per le rette delle case di riposo per malati non autosuffi-cienti e per l’assistenza a domicilio privata.

La carenza di finanziamento della sanità pubblica è drammatica e siripercuote pesantemente sui livelli di assistenza di quasi tutte le regioni,compreso l’Emilia Romagna, che aveva accumulato un deficit ragguardevo-le negli anni passati. Per avere una dimensione di quello che dovrebbe esse-re il finanziamento della spesa sanitaria pubblica necessario per fornire unbuon livello di assistenza, tale da contenere le spinte all’aumento della spesaprivata, si può prendere ad esempio la Provincia Autonoma di Bolzano,dove la spesa pubblica capitaria è molto superiore rispetto a quella mediaitaliana.Purtroppo la carenza di disponibilità di risorse finanziarie del SSN si scari-ca sopra tutto sui servizi per gli anziani, ed in particolare su quelli per mala-ti cronici non autosufficienti, in quanto risulta politicamente più accettabi-le tagliare i finanziamenti in questo settore rispetto, ad esempio, a quello deiservizi per giovani malati acuti in pericolo di morte.

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Nella situazione descritta, la dottrina e la giurisprudenza non mettononeppure in discussione il diritto soggettivo perfetto all’assistenza malattia,distinto dall’interesse legittimo all’assistenza-beneficienza, sia per gli anzia-ni come per i giovani: tuttavia, a causa delle restrizioni finanziarie, è inne-gabile che per i malati cronici non autosufficienti questo diritto vengarispettato soltanto in pochi casi, quando ad esempio il cittadino viene ade-guatamente difeso da associazioni come quelle aderenti al CSA di Torinooppure dal nostro Tribunale della Salute di Bologna e delle Marche, oppu-re da raccomandazioni autorevoli.

La compresenza di due distinti enti pubblici di decisione e di finanzia-mento, ASL e Comuni, entrambi sottoposti ai vincoli legislativi e finanziaridella Regione o Provincia Autonoma di appartenenza, non aiuta a realizza-re l’equità distributiva, né a razionalizzare e integrare i servizi e neppure araggiungere la somma necessaria per il funzionamento di servizi di qualità.Pertanto si sente la necessità di aumentare le disponibilità di finanziamentoper la cura di questi malati, attraverso la costituzione di un fondo, che èstato definito “per la non autosufficienza”, che consentirebbe di estendereun’adeguata assistenza a domicilio oppure in residenze sanitarie assistenzia-li alla generalità dei malati in queste condizioni, nel rispetto dell’equità ditrattamento fra tutti i cittadini ed in particolare del principio del diritto sog-gettivo alle pari opportunità già ricordato in precedenza. Questo fondofinalizzato, non definito sociale né sanitario, può prefigurare l’unificazionedei due settori, in analogia a quanto auspicato per il Ministero del Welfaree per quello della Salute.L’importo complessivo di questo fondo deve essere molto elevato: la situa-zione di non autosufficienza riguarda mediamente oltre un anno di vita procapite, con grande variabilità dovuta alle diverse forme di malattia: ad esem-pio la sindrome di Alzheimer giunge a coprire anche gli ultimi quindici annidi vita. I costi medi di una Residenza sanitaria assistenziale, necessaria aprovvedere a queste situazioni, quando la famiglia non è in grado di tenereil malato a domicilio, possono essere stimati prudenzialmente nell’ordine di30.000 Euro l’anno (con grandi differenze fra regione e regione e fra cittàgrande e provincia) mentre l’assistenza domiciliare integrata costa moltomeno. In prospettiva saranno sempre meno le famiglie in grado di provve-dere e sostenere l’assistenza a domicilio e pertanto non è azzardato preve-dere mediamente un costo di un anno in residenza sanitaria assistenziale perogni cittadino che giunge al termine della vita.

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Sulla base di queste premesse tale cifra non può certo essere raccolta colmeccanismo del ticket: infatti occorrono 6.000 milioni di Euro per le spesecorrenti annuali relative a 200.000 posti in RSA e altri 2.500 milioni pergarantire l’assistenza domiciliare integrata e l’ospedalizzazione a domicilio atutti i malati che oggi ne avrebbero necessità e diritto: si pensi che, senzaconsiderare i bambini e gli adulti handicappati gravi mentali e plurimi, chesuperano l’un per cento della popolazione, oltre 300.000 persone sono tenu-te a domicilio, totalmente incapaci di alzarsi autonomamente dal letto, a cui sisovrappongono 400.000 anziani affetti da sindrome di Alzheimer e 300.000 daaltre forme di demenza senile (cfr il sito www.handicapincifre.it).

Il principio di massima solidarietà nei confronti dei malati non significaautomaticamente che il malato non debba contribuire al suo sostentamen-to, quando l’assistenza a domicilio o in istituzione comporti per lui unrisparmio delle risorse usualmente impiegate per vivere (pasti a domicilio,alloggio e vitto in istituzione). La compartecipazione in tali casi non dovreb-be mai superare il livello del costo di quella stessa prestazione (vitto, tra-sporto, vestiario etc.) per una persona normale inserita in una famiglia nor-male, per la quale la spesa media capitaria totale è di 700 Euro al mese,desunta facilmente dall’indagine ISTAT sui bilanci familiari. La malattia e lesue conseguenze sono la causa delle maggiori spese che eccedono quellasomma: pertanto spetta alla solidarietà sociale coprire i maggiori costi, senzapreoccuparsi di distinguere spese sanitarie, spese a rilevanza sanitaria e altrespese, campo ove è veramente difficile tracciare una demarcazione.Ovviamente dal computo sono esclusi gli eventuali lussi, optional che pos-sono essere a pagamento diretto oppure tramite mutua integrativa di tipovolontario, che le recenti disposizioni fiscali favoriscono come fondi inte-grativi cosiddetti “doc”.

La solidarietà sociale da privilegiare per coprire le spese dovute ai costidovuti alla malattia, quelli che eccedono 700 Euro al mese, è sopra tuttoquella della collettività civica, la cosiddetta mutualità orizzontale, che inve-ste tutti i residenti in un dato territorio, contrapposta a quella verticale,riguardante ad esempio gli operatori di una impresa o di una categoria dilavoratori.

Nel quadro europeo ed italiano ci sono differenze radicali a livelloregionale e comunale. L’invecchiamento della popolazione, che è uno dei

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più importanti fattori che determinano il fabbisogno, sia sanitario che socia-le e previdenziale, è molto diversificato nelle varie aree del nostro Paese.L’utilizzo dei servizi è pure molto diversificato nelle varie aree: ad esempiola percentuale di anziani ricoverati è tre volte più elevata al nord che al sud.I livelli di reddito sono pure molto diversi: la linea di povertà dovrebbe esse-re diversa; il costo del lavoro, che costituisce la grande quota dei costi delloStato Sociale (servizi personali), è molto diverso sia nel privato che nellacooperazione che opera al sud, al nord ed in alcune zone del centro. Datutte queste premesse discende che esiste una grande diversità regionale neibisogni reali, che viene ulteriormente aumentata dalla diversità dei prezzi(costo del lavoro), e quindi ancor più diverse sono le necessità di finanzia-mento dei servizi necessari per far fronte alle diverse necessità.

Un altro motivo per il quale è necessario fare riferimento alla collettivitàlocale invece che a quella nazionale è costituito dall’impegno dei politici e deitecnici dell’economia (di maggioranza e di opposizione) affinché non si aggra-vi sull’intero territorio nazionale il carico fiscale contributivo, sia sui redditi ingenere che su quelli da lavoro in particolare. Purtroppo a livello nazionale laproposta del testo unificato di legge presentata dall’On. Zanotti a fine anno2003 ha subito una battuta d’arresto, nonostante il parere favorevole concor-de dei due ministeri interessati. E’ auspicabile che le Regioni a più elevato red-dito decidano di aumentare la contribuzione finalizzandola a migliorare alcu-ni servizi specifici: ad esempio alcune Regioni, come l’Emilia Romagna,hanno già deciso percentuali maggiorate sulle imposte locali proprio per farfronte ai deficit creati dalle gestioni sanitarie. La Regione autonoma che com-prende Trento e Bolzano è molto avanzata nell’elaborazione di una propostadi legge per l’istituzione del fondo per non autosufficienti.

Da quanto sopra deriva la proposta di accentuare e combinare l’auto-nomia della decisione e la responsabilità di reperire i fondi per iniziative cheeccedano i livelli essenziali (LEA) garantiti a livello nazionale dal piano sani-tario nazionale e dal DPCM 29 novembre 2001. Autonomia e responsabi-lità vanno collocate a livello di ogni Regione e di ogni comunità di Comuni,che dovrebbe coincidere con i confini dei distretti e delle AUSL.

Un esempio di sanità federale era stato fornito dalla Slovenia, quandoera ancora inserita nella Federazione Jugoslava, e doveva pertanto fare iconti con una profonda diversità di bisogni e di possibilità di finanziamento

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rispetto al sud del Paese: attraverso un referendum veniva approvato unpacchetto di interventi, spesso nel campo sanitario (ad esempio una resi-denza sanitaria assistenziale, una nuova ala ospedaliera), al quale corrispon-deva un’imposta pari a meno dell’un per cento dei redditi percepiti dallapopolazione residente, che si riservava il diritto di utilizzare prioritariamen-te i benefici dei servizi derivanti dal maggior impegno finanziario.

Per il fondo non autosufficienti le esperienze sono state fatte a livello diStati interi: in Olanda esiste da tempo un’apposita assicurazione obbligato-ria, A.W.B.Z., che copre i rischi della cronicità e della non autosufficienza,ed il relativo fondo è circa eguale a quello dell’assicurazione destinata allemalattie acute. In Germania l’assicurazione obbligatoria contro la non auto-sufficienza prevede che l’1,7% dei redditi totali sia devoluto alla costituzio-ne di un fondo che copre il rischio specifico, sia per le cure a domicilio chein residenze apposite. Dall’inizio del 1999 anche lo Stato del Lussemburgoraccoglie l’1% dei redditi a questo scopo, e tale importo viene integrato dal-l’erario nella misura di 45 franchi per ogni 55 franchi raccolti.

Probabilmente tutti i concittadini, compreso quelli meno agiati, i pensio-nati, una volta che fossero chiamati a scegliere, accetterebbero in maggioran-za l’opzione della massima solidarietà possibile, garantendo il finanziamentodi iniziative di grande valore sociale, come quelle in favore dei non autosuffi-cienti, anche sobbarcandosi l’onere aggiuntivo, purché condiviso da tutte lecategorie. Si potrebbe pertanto sbloccare la situazione di stallo che si è venu-ta a creare nel nostro Paese su questo importante ed urgente problema.

5. Il “fondo per la non autosufficienza”

Generalmente viene accettato che il fondo per non autosufficientidebba aggirarsi attorno all’1% del PIL. In effetti è questa la dimensione delfondo nei Paesi che fino ad ora lo hanno adottato, Germania eLussemburgo. Tuttavia non si deve dimenticare che in Italia, prendendo ariferimento il 2001, vi sono state altre forme di finanziamento per coprire lestesse necessità, che vanno ben oltre i 12.000 miliardi di vecchie lire che ilMinistro Sirchia ha indicato come somma fra la spesa corrente di 7.000miliardi dello Stato (indennità pensionistiche) e 5.000 miliardi dei Comuni,divisi fra servizi in natura e trasferimenti monetari, come assegni di cura,

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minimo vitale ed altri benefici. Secondo il Ministro sarebbe necessario repe-rire 20.000 miliardi l’anno aggiuntivi, pari a 10 miliardi di Euro, per ottenereil fondo necessario per i non autosufficienti (presumibilmente il calcolo si rife-risce ad ogni età).

Se il fondo per non autosufficienti dovesse coprire tutte le esigenze sani-tarie e sociali della categoria di disabili gravi di ogni età si dovrebbe forseprevedere non 1 ma 3% del PIL, così come avviene in Olanda, ove l’assi-curazione AWBZ appositamente dedicata alla non autosufficienza giunge aquesti livelli di spesa. La cifra non deve stupire, poiché é noto che nei Paesiindustrializzati come il nostro il 5% della popolazione consuma in valore il50% dei servizi sanitari e sociosanitari offerti dal SSN, equivalente al 3%del PIL (perché in totale il Fondo sanitario nazionale rappresenta pocomeno del 6% del PIL), e che la maggior parte di questa piccola quota dellapopolazione è costituita da disabili gravi, spesso anziani, oltre che da alcu-ni malati gravi vicini alla morte.

Tuttavia in Italia il Fondo sanitario nazionale già copre una parte consi-stente di queste necessità: lo stesso DPCM 29.11.2001, che pure addossaagli utenti (non ai loro familiari) e, in carenza di disponibilità di reddito e dipatrimonio degli utenti, ai Comuni una parte di spesa a nostro parere ecces-siva, mantiene ancora la competenza del fondo sanitario comune sulla mag-gior parte della spesa in beni e servizi sanitari per i non autosufficienti.Si può quindi mettere in dubbio l’esigenza di 20.000 miliardi di fondiaggiuntivi per i non autosufficienti, a meno di non ritenere che, essendo laspesa sanitaria pubblica italiana decisamente inferiore a quella pubblica e/omutualistica degli altri Paesi industrializzati (che va sempre oltre il 7% delPIL), con la finalizzazione di questi fondi a questo scopo, si voglia in realtàliberare una parte consistente del fondo sanitario nazionale, attualmenteutilizzata dai non autosufficienti, per destinarla alla sanità degli acuti, per laricerca, per lo svecchiamento delle strutture sanitarie.

Il caso limite della Lombardia

L’esame della situazione della Lombardia nel 2002 può aiutare a stima-re le necessità reali attuali della popolazione dei non autosufficienti. LaLombardia, pur avendo una popolazione anziana simile alla media nazionale,

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ben lontana dai livelli di invecchiamento della Liguria e dell’EmiliaRomagna, detiene il primato del numero di ricoverati parzialmente a caricodel fondo sanitario regionale, pari a 45.000 unità. A questi andrebberoaggiunti coloro che sono ricoverati in residenze non convenzionate con ilSSN e che non sono a carico del fondo sanitario: si tratta di casi abbastan-za rari, in quanto i non autosufficienti necessitano di servizi sanitari impor-tanti, che spettano gratuitamente indipendentemente dal reddito, per cuitutti sono incentivati ad attivare questo finanziamento.

La Lombardia, secondo i dati della indagine multiscopo ISTAT riferitaal 2000, che indaga sulle condizioni di salute delle persone residenti in fami-glia, ha 168.000 confinati in casa di cui 53.000 tra 6 e i 64 anni e 114.000 di65 anni e più. Pur non essendo sinonimo di gravità assoluta il confinamen-to in casa costituisce pur sempre un indicatore di una condizione di nonautosufficienza abbastanza grave. Se consideriamo invece coloro i quali alladomanda: “è affetto da una malattia cronica o da una invalidità permanen-te che riduce l’autonomia personale fino a richiedere l’aiuto di altre perso-ne per le esigenze dalla vita quotidiana in casa o fuori casa” hanno risposto:si, in modo continuativo, o per esigenze importanti 280.000 persone. Se nedesume che il numero dei ricoverati è pur sempre molto inferiore a quellodei non autosufficienti che restano a domicilio; tuttavia la gravità dei rico-verati è mediamente più elevata di quelli che restano a domicilio.

Qualunque politica assistenziale che si limitasse a finanziare la residen-zialità, costituendo un incentivo all’istituzionalizzazione, avrebbe delle con-seguenze pesanti sulla restante parte dell’assistenza, semiresidenziale edomiciliare, che, secondo consenso unanime, costituiscono invece la partepiù meritevole di sviluppo.

In molte parti della Lombardia l’Assistenza domiciliare integrata, persi-no nella sua variante più costosa denominata ospedalizzazione a domicilio,è da tempo abbastanza sviluppata, avendo avuto inizio proprio a Milano,con punte di eccellenza come Merate di Lecco, ove anche il tasso di ospe-dalizzazione risulta perciò più contenuto.

In questa Regione si ritrovano tuttavia le condizioni sociali ed economi-che più vicine a quelle dell’Europa del centro e del nord, che rendono il tassodi ricovero in RSA molto elevato, pari a 0,5% sulla popolazione intera.

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Per i non autosufficienti ricoverati il costo di gestione della RSA, che siaggira attorno ai cinque-sei milioni di lire al mese, viene sostenuto per circametà dal fondo sanitario e per l’altra metà dall’utente e/o dal Comune.

Il fondo aggiuntivo per la non autosufficienza istituzionalizzata dovreb-be coprire, al massimo, soltanto la parte che viene pagata dall’utente, che inRSA non supera i tre milioni al mese. Considerando che quasi tutti gli uten-ti usufruiscono di indennità di accompagnamento (820.000 lire) e di pen-sione (minimo un milione al mese) sembrerebbe equo che il totale(1.800.000 lire al mese) venisse devoluto come compartecipazione a frontedi un servizio che provvede vitto ed alloggio in modo completo. Diversa epeggiore la situazione di coloro che, essendo disabili dalla nascita, nonhanno mai lavorato e percepiscono perciò soltanto la pensione d’invaliditàcivile: si tratta tuttavia di casi relativamente poco frequenti e quindi scarsa-mente incidenti su questo conto, che avrebbero dovuto essere parificati aglialtri negli interventi governativi annunciati dal Governo.

Sulla base delle precedenti considerazioni il fondo aggiuntivo dovrebbeperciò coprire 1.200.000 lire al mese per 45.000 persone, pari a 648 miliardidi lire all’anno per l’intera Regione e a 76.000 lire pro capite di residente.

Si deve infine notare che vi sono non autosufficienti gravi che non usu-fruiscono di alcun finanziamento pubblico perché pagano direttamente tuttol’ammontare della retta: si tratta di pochi casi rispetto ai 45.000 ricoverati instrutture che ricevono fondi sanitari, ma a questi si dovrebbe estendere il trat-tamento, indipendentemente dalle loro condizioni economiche, sotto formadi diritto soggettivo non condizionato dalla situazione economica.

Questa cifra consentirebbe ai Comuni, che oggi intervengono per copri-re parzialmente o totalmente la quota “sociale” della retta degli indigenti(ad esempio in Emilia Romagna diversi Comuni coprono circa un quartodei costi totali delle rette in convenzione, restando un quarto in capo agliutenti e la metà al fondo sanitario), di risparmiare una consistente partedelle attuali ingenti spese per residenze, estendendo le altre forme di assi-stenza oggi carenti, in particolare l’assistenza domiciliare e semiresidenzialee gli assegni di cura per il congiunto di riferimento o care giver, che esisto-no fin dal 1988 nella Provincia di Bolzano, poi estesi anche ad altre Regioni.In nessun caso la stessa persona non autosufficiente dovrebbe sostenere una

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compartecipazione inferiore per la sistemazione in una residenza, in parti-colare in quelle maggiormente sanitarizzate, in quanto verrebbe incentivatoun cattivo uso delle risorse più costose, quelle istituzionali, che per motividi efficacia e di efficienza devono restare l’ultima spiaggia dell’assistenza,quando non sia disponibile la soluzione alternativa a costi ragionevoli.

Egualmente si devono evitare code di attesa per le varie sistemazioni,che potrebbero favorire l’inserimento nel posto meno adatto perché in quelmomento c’è soltanto quel posto disponibile.L’applicazione della Legge 328/2000, che prevede il riordino dei trasferi-menti monetari e dell’erogazione di servizi in natura, unificando il tutto incapo all’ente locale Comune o Comuni compresi e organizzati nel distrettosanitario, consentirà di evitare le inefficienze dell’aziendalismo ora impe-rante, che spinge talvolta l’Azienda sanitaria locale, l’Azienda ospedaliera eil Comune a scaricare gli uni sugli altri il peso dell’assistenza, senza riguar-do ai diritti dell’assistito e neppure alla spesa pubblica complessiva.

Volendo rapportare all’intero Paese la dimensione della Lombardia, cherappresenta il caso limite dell’istituzionalizzazione, la dimensione del fondointegrativo per l’assistenza residenziale così come sopra indicato giungerebbea 4.270 miliardi di lire/anno, e si libererebbero per l’assistenza a domiciliomolte risorse che i Comuni dedicano attualmente all’assistenza in istituzione.

Il caso dell’Emilia Romagna

In Emilia Romagna la situazione è molto più favorevole: nonostante ilmaggior invecchiamento della popolazione il numero dei residenti in RSA ocase protette coperti per la parte dei servizi sanitari dalle AUSL non supe-ra le 13.000 unità, pari allo 0,35% della popolazione (lo standard dei postiletto è fissato dalla Regione in 4% degli ultrasettantacinquenni). Si consta-ta una domanda insoddisfatta di letti per malati gravi non autosufficienti,provata dalle dimissioni precoci dagli ospedali e dalle file di attesa perentrare in case protette ed RSA.

In parallelo con la Lombardia, l’Emilia Romagna, secondo i dati ISTAT,ha 81.389 confinati in casa di cui 11.000 sotto i 65 anni e 70.000 oltre i 65anni. Sono 160.000 coloro che rispondono alla domanda “è affetto da una

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malattia cronica o da una invalidità permanente che riduce l’autonomia per-sonale fino a richiedere l’aiuto di altre persone per le esigenze dalla vita quo-tidiana in casa o fuori casa”. Le percentuali sulla popolazione residentesono superiori a quelle della Lombardia, presumibilmente a causa del mag-gior invecchiamento della popolazione.

I costi delle RSA o case protette sono simili a quelli della Lombardia el’attuale compartecipazione degli utenti giunge egualmente a superare tremilioni di lire al mese nel 2002. Applicando lo stesso principio di compar-tecipazione alla spesa appena indicato si ottiene che la necessità aggiuntivadella Regione si aggira sui 187 miliardi di lire, pari a 50.000 lire pro capitedi residente: la somma è molto inferiore a quella della Lombardia a causadel numero più contenuto di persone istituzionalizzate. È facile prevedereche una maggiore disponibilità di residenze aumenterebbe anche la doman-da, oggi spesso compressa da lunghe file di attesa. Volendo rapportare ladimensione e le caratteristiche dell’Emilia Romagna all’intero Paese, ladimensione del fondo integrativo per l’assistenza residenziale giungerebbea 2.760 miliardi di lire/anno.

Si potrebbe ripetere l’esercizio per altre Regioni italiane, fino ad arriva-re alla Sicilia, ove la popolazione è più giovane, il numero degli utenti diRSA o case protette è percentualmente sugli anziani molto inferiore (unterzo di quello della Lombardia) e dove il costo di gestione di una RSA ocasa protetta è quasi dimezzato rispetto a quello della Lombardia. Poichétutti questi fattori si vanno a moltiplicare, l’esigenza attuale di un fondointegrativo risulterebbe di un ordine di grandezza inferiore rispetto allaLombardia. Ci si rifiuta tuttavia di riportare il calcolo aritmetico perché taleoperazione non terrebbe conto dell’esigenza di equità che i livelli essenzialidi assistenza dovranno tutelare per tutti i cittadini italiani.

Dalle considerazioni esposte emerge che alla data del 2002 circa 5.000miliardi/anno, un quarto dei 20.000 miliardi proposti dal Ministero, sareb-bero più che sufficienti a recare un drastico miglioramento alle condizionidei non autosufficienti di ogni età e di tutte le Regioni, consentendo di sol-levare da compartecipazioni troppo esose coloro che già usufruiscono del-l’assistenza e di aumentare l’assistenza domiciliare, quella semiresidenzialee residenziale, sopra tutto in quelle Regioni che sono più arretrate.

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Queste considerazioni inducono a ritenere che una tassa di scopopotrebbe essere ben tollerata dalla popolazione di ogni Regione, conside-rando che le Regioni che hanno maggiormente bisogno di fondi sono quel-le a più elevato reddito pro capite. Ogni Regione potrebbe istituire dettofondo, nell’ambito dell’autonomia che la Costituzione garantisce.

Alternativamente potrebbe essere approvato dal Legislatore centrale unfondo nazionale: la ripartizione del fondo nazionale ipotizzato, per la partedi spesa corrente, dovrebbe dipendere dal grado di istituzionalizzazione esi-stente e dall’invecchiamento della popolazione, mentre l’eventuale parte inconto capitale dovrebbe tendere ad accelerare la perequazione fra le varieRegioni.

Fra le ipotesi di tassazione andrebbe presa in considerazione l’IRAP,regionale, oppure altre formule di prelievo previdenziale obbligatorio, ana-logo ai contributi INPS. A questo fine sarebbe necessario che mediantelegge venisse concessa alle Regioni a statuto ordinario la facoltà di istituireun fondo per le persone gravemente non autosufficienti, così come previstoper le PP. AA. di Trento e Bolzano dal decreto delegato n. 259 del 4 mag-gio 2001, finalizzato a garantire prestazioni sociosanitarie specifiche per nonautosufficienti di ogni età.

Prima di operare qualunque previsione di spesa è pregiudiziale che sistabilisca cosa si intende per non autosufficiente, per i fini assistenziali. A talfine sono molto utili i dati dell’ISTAT, ricavati da indagini che si svolgonosia a domicilio che in istituzione. In Italia, secondo i risultati della rilevazioneMultiscopo ISTAT sullo stato di salute e il ricorso ai servizi sanitari del1999-2000, coloro i quali dichiarano di essere totalmente confinati in casasono 1.152.000 di cui 254.000 tra 6 e 64 anni e 898.000 oltre i 65 anni di età.

La Lombardia ha 168.000 confinati in casa di cui 53.000 tra 6 e i 64 annie 114.000 di 65 anni e più. L’Emilia Romagna ha 81.389 confinati in casa dicui 11.000 sotto i 65 anni e 70.000 oltre i 65 anni. Il numero dei disabili gravi varia a seconda dell’indicatore scelto.La reale gravità di un individuo deve essere misurata sulla base di un pianoindividuale che tenga conto delle sue personali esigenze di aiuto per rag-giungere il livello che la società ritiene debba essere considerato il livelloessenziale garantito alle persone.

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In ogni caso non si può assolutamente affermare che in Italia vi sianodue milioni di disabili gravi non autosufficienti. L’indagine ISTAT sui resi-denti in istituzioni censite (molte sfuggono alla rilevazione) ritrova circa300.000 ricoverati, dei quali la gran parte sono non autosufficienti gravi, chetuttavia percepiscono l’indennità di accompagnamento. Per quantificare ilfenomeno dei gravi non autosufficienti, dovendo prendere un riferimentounico, sarebbe meglio assumere il numero di coloro che ricevono l’inden-nità di accompagnamento e similari, che sono oltre 670.000: questo nume-ro va comunque diminuito di coloro che pur avendo una gravissima meno-mazione (ad esempio ciechi totali) sono abbastanza autosufficienti da lavo-rare produttivamente e da vivere autonomamente. Sono in corso di stampadue elaborazioni di questi dati tendenti a delimitare la consistenza delnumero dei non autosufficienti secondo le diverse accezioni (cfr. AlessandraBattisti, Carlo Hanau, Tendenze, n. 3, 2004).

6. Un nuovo campo di intervento a tutela dei diritti del malato. Come ridurre i costi migliorando le cure.

L’aumento delle spese sanitarie è un fenomeno comune a tutti i Paesiindustrializzati ed ormai molti si chiedono se i risultati ottenuti dall’impie-go di tante risorse valgano la spesa: in altri termini ci si pone il problemadell’efficienza nel settore sanitario, che come tutti gli altri settori produttiviha il dovere di massimizzare la resa e ridurre gli sprechi. Si richieda la razio-nalizzazione della sanità, che nel gergo economico si traduce in “massimiz-zare l’efficienza”, solitamente espressa come una frazione ove a numeratorestanno i risultati ed a denominatore le spese sostenute per realizzare i risul-tati di cui sopra.

Per definire e quantificare i risultati ci si scontra con le difficoltà pecu-liari alla sanità, ove la misurazione può avvenire, con difficoltà via via cre-scenti, sulla base delle seguenti unità: prestazioni eseguite, vite umane sal-vate, anni di vita guadagnati, semplici, ponderati per qualità di vita (QALY)ed anche per equità nella loro distribuzione (EQALY) ed in utilità percepi-te dall’utente del servizio. In altri settori del consumo di beni e servizi è piùagevole misurare le utilità percepite dal consumatore, ultimo e più impor-tante anello della catena, misurando il prezzo che questi è disposto a paga-re sul mercato per avere la soddisfazione di usare il bene o il servizio: nellasanità, invece, le difficoltà nel funzionamento del mercato sono tali che nep-

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pure i Paesi ove il liberismo è maggiormente radicato possono contare suquesto meccanismo “automatico”.

Proprio dalla Confederazione Elvetica, che di questi Paesi costituisceuno dei più coerenti esempi, ci viene un’opera che, a dispetto dello scarsovolume delle pagine, riporta decenni di esperienze e considerazioni teorichedi grande profondità, che dovrebbero costituire una guida per coloro cheingenuamente ritengono di poter razionalizzare la spesa sanitaria introdu-cendo semplicisticamente la concorrenza fra produttori di cure e la liberascelta dei consumatori.

Domenighetti, un economista che dirige da molti anni il DipartimentoOpere Sociali, servizio di sanità pubblica del Canton Ticino ed insegnanell’Università di Ginevra, è un erede della tradizione di ArchibaldCochrane per quanto concerne il rigore nella valutazione dell’efficacia degliinterventi sanitari, non soltanto di quelli curativi ma anche di quelli educa-tivo sanitari e preventivi, che raramente vengono sottoposti a verifica: pro-prio per questa attività l’OMS ha assegnato al gruppo ticinese da lui diret-to il premio per l’educazione alla salute nel 1992.

Non c’è da stupirsi se la verifica dell’efficacia viene estesa a tutto campo,senza dar nulla per scontato: le possibilità di intervento che la tecnologiasanitaria oggi offre sono ormai quasi illimitate, e poiché le risorse destinatealla sanità, pubbliche e private, non possono coprire tutto il possibile,occorre procedere ad una selezione e ad una graduatoria fra i programmi,eliminando anzitutto quelli per i quali l’efficacia non è stata ancora dimo-strata. Non si tratta di un’opera di dissacrazione come quella di Ivan Illich:non esiste alcuna forma di prevenzione ideologica contro la medicina deiricchi e contro il libero mercato, che indubbiamente favorisce coloro chehanno maggiori disponibilità di spesa.

La critica alla possibilità che il mercato libero possa introdurre la desi-derata razionalizzazione viene dall’interno della logica del mercato stesso,che presuppone l’informazione del consumatore ed il suo comportamentorazionale, che consisterebbe nella scelta del migliore intervento rispetto alcosto relativo. Lo stesso esperto della medicina, pur avendo compiuto gran-di passi verso una conoscenza scientifica degli effetti positivi e negativi degliinterventi, troppo spesso si dibatte nell’incertezza professionale e decisionale:

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a maggior ragione non si può ritenere razionale il consumatore-paziente,che deve affidarsi al proprio esperto di fiducia, verso il quale esiste un rap-porto di agenzia del tutto squilibrato. Spesso neppure a posteriori il pazien-te può giudicare l’efficacia dell’intervento, se questo giudizio si svolge sullabase del singolo caso, in quanto la variabilità biologica individuale può ren-dere indipendente il risultato rispetto alla bontà dell’intervento eseguito.

La soggezione del paziente al medico trova pochi riscontri in altri set-tori, fuori della sanità, e pertanto l’azione più efficace per una razionalizza-zione della medicina deve coinvolgere entrambe le parti, ciascuna a suomodo, incentivando i comportamenti più corretti e l’uso appropriato dellerisorse.

Le analisi dei consumi sanitari che raffrontano regioni e Paesi diversidimostrano senza alcun dubbio che le differenze nella frequenza di moltiinterventi medici e chirurgici non sono spiegabili con motivazioni epidemio-logiche, ma semmai con la maggior densità di operatori o di opportunità tec-niche (ad esempio sale operatorie) oppure con l’incentivazione perversa alconsumismo rivolta verso gli operatori o i pazienti da parte del sistema difinanziamento. Alcuni fra gli esempi più significativi sono i tassi operatoristandardizzati nei Cantoni svizzeri, che dipendono strettamente dai postiletto chirurgici, i tassi di tonsillectomie ed isterectomie, in vari Paesi, ed itrattamenti dell’ipertensione e dell’influenza senza complicazioni.

Eclatanti sono i casi degli stimolatori cardiaci applicati al BrooklynHospital, che dopo un’impennata fra il 1872 ed il 1978, che ne quintupli-cava il numero, vennero ridotti a meno della metà in un solo anno, il 1977,mediante l’introduzione di una discussione collegiale sulle indicazioni del-l’intervento. Nella Provincia canadese dello Sasktchewan il numero delleisterectomie, raddoppiato fra il 1966 ed il 1971, in concomitanza con l’in-troduzione del terzo pagante generalizzato, si è dimezzato nei quattro annisuccessivi, con l’introduzione di una revisione a posteriori fra pari sullanecessità degli interventi. Negli Stati Uniti una conferenza di consensoaveva ritenuto eccessiva la percentuale di parti cesarei, che risultava del23% nel 1987; a seguito di questa opinione, il dipartimento di ostetriciadell’Università dell’Illinois ha introdotto il secondo parere (second opinion)preliminare all’intervento ed alcuni protocolli di comportamento, riducen-do dal 17,5 al 11,5% la percentuale dei cesarei in un solo biennio.

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Al fine di trovare uno “standard aureo” di riferimento l’autore dell’o-pera ha esaminato i consumi sanitari dei medici, dei loro familiari e di unacategoria verso la quale si mostra una particolare attenzione, quella degliavvocati e dei loro familiari. Per queste categorie particolari gli interventipiù impegnativi, come quelli del trattamento dell’ipertensione, sono deltutto paragonabili a quelli eseguiti sul resto della popolazione, mentre dif-ferenze significative in aumento si riscontrano per malattie “meno serie” eda tali parametri si può fare riferimento per indicare uno standard di com-portamento ottimale, idoneo a risparmiare probabili sprechi di risorse.

Da queste considerazioni ha tratto le basi una campagna di educazionesanitaria rivolta al pubblico attraverso i mezzi di comunicazione del CantonTicino, ove il tasso di isterectomie misurato nel 1983 dava valori intermedifra i vari Paesi industrializzati: con l’accordo della società dei medici spe-cialisti si sono invitate le pazienti a chiedere un secondo parere prima del-l’operazione, ed in tal modo il tasso di isterectomie si è ridotto del 26% inun solo biennio, assestandosi sul livello di quello della Gran Bretagna.

Il più grande impegno è stato profuso nei confronti dell’educazionesanitaria verso le persone sane, al fine di cambiare i comportamenti danno-si in comportamenti salutari. Fra il 1984 ed il 1989 ogni adulto è stato rag-giunto da una media di 1000 contatti tesi all’informazione ed alla formazio-ne utilizzando tutti i mezzi di comunicazione. Fumo sedentarietà ed ali-mentazione sono stati i campi di impegno prioritari, ottenendo la modificadi dodici indicatori standardizzati di fattori di rischio. La mortalità cardio-vascolare ticinese nel 1988/89 è diminuita del 26%, mentre nel Cantone diVaud, preso come controllo, è diminuita soltanto del 14%.

Infine in Canton Ticino sono stati affrontati programmi di educazionesanitaria che coinvolgono le scelte sull’ambiente, in stretta connessione conle scelte politiche: i risultati sono ottenibili in tempi lunghi, talvolta noncompatibili con le esigenze elettorali, ma si spera di poter dimostrare l’effi-cacia in termini di salute per la popolazione in futuro.

Questi ed altri risultati positivi nella lotta contro i tumori sono stati pos-sibili utilizzando al meglio le possibilità che lo “Stato” offre, mentre èimpensabile pensare che il “mercato” possa impegnarsi in simili azioni diprevenzione primaria. Il settore sanitario non può funzionare, nel suo insie-

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me, secondo le leggi classiche dell’economia di mercato, data l’esistenzaovunque, anche nella Confederazione Elvetica, del terzo pagante (diretto oindiretto) e dell’assoluta priorità individuale e sociale della salute. In ognicaso l’informazione del consumatore e quella dell’operatore costituiscono lapremessa per una razionalizzazione dell’intervento sanitario, indipendente-mente dalla scelta politica verso un sistema più privatistico oppure più soli-dale (servizio sanitario nazionale). La ricerca dell’efficienza limitata allariduzione dei costi per prestazione effettuata, come ad esempio richiestadalla riforma finanziaria dei DRG, rischia di introdurre il mero efficienti-smo, se non accompagnata da una valutazione continua dell’efficacia che leprestazioni generano a livello di salute. Il nostro Paese, facilitato dallacomunanza della lingua con il Canton Ticino, potrebbe prendere esempioda quanto fatto oltre Alpe, importando le metodiche e la strumentazioneper ottenere, si auspica, gli stessi risultati.

7. Il ruolo della famiglia

Nel corso degli ultimi decenni, nei paesi dell’Unione Europea l’invec-chiamento della popolazione, le trasformazioni nelle strutture familiari,l’aumento della partecipazione femminile al mercato del lavoro e di formed’occupazione meno stabili, unitamente all’aumento delle disuguaglianzenella distribuzione del reddito, hanno profondamente modificato la strut-tura della domanda sociale.

L’invecchiamento della popolazione, in particolare l’aumento delle per-sone anziane non autosufficienti, unitamente alla diminuzione dell’intensitàdelle relazioni parentali e alla rarefazione crescente della coabitazione tragenitori e figli coniugati, ha alimentato forti pressioni sul lato della doman-da e tensioni sull’organizzazione delle prestazioni dei servizi sociali e sani-tari. La struttura familiare è, infatti, al centro di profonde trasformazioni. Ilmodello tradizionale di famiglia nucleare, sebbene continui ad essere pre-valente, sta lentamente declinando. La dimensione media della famiglia sicontrae mentre si moltiplicano in numero assoluto i nuclei familiari e lefamiglie formate da un singolo componente (prevalentemente donne anzia-ne). La crescente partecipazione al mercato del lavoro delle donne, l’allun-gamento dell’età media al matrimonio, la riduzione dei tassi di nuzialità,l’aumento delle quote di celibi e nubili e dell’instabilità matrimoniale, sono

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tutti fattori che significativamente stanno contribuendo a modificare i rap-porti interni e i tempi del ciclo di vita familiare, riducendo la disponibilitàdi aiuto e la quantità di tempo dedicata alle attività di sostegno e di cura.Nei paesi del Nord Europa, e più recentemente, in quelli dell’area conti-nentale, il sostegno alle responsabilità familiari, in particolare delle donnesulle quali gravano maggiormente i carichi di lavoro di cura, è parte inte-grante delle politiche sociali e della più ampia gamma dei diritti di cittadi-nanza. I paesi dell’area mediterranea, come l’Italia, si caratterizzano inveceper un intervento sussidiario rispetto alla centralità della famiglia. Il sistemadei servizi di cura alle persone, nel nostro paese, sebbene sia assai diversifi-cato a livello territoriale, complessivamente si basa su:

• un elevato affidamento alle responsabilità di cura dei familiari;

• un intervento pubblico modesto, prevalentemente caratterizzato da tra-sferimenti monetari e da una fornitura di servizi residuale e insufficienterispetto alla potenzialità della domanda;

• un’offerta privata di servizi socio-assistenziali affidata in gran parte allavoro sommerso e al funzionamento delle reti informali.

L’assenza per lunghi anni, di una legge quadro sull’assistenza ha deter-minato nel nostro paese patterns alquanto diversi di sviluppo territoriale deiservizi. Nella geografia della cittadinanza italiana, l’Emilia-Romagna sicaratterizza per uno sviluppo dei sistemi locali di protezione assai innovati-vo, sia in termini di diffusione della rete dei servizi sul territorio, sia in ter-mini di riorientamento complessivo dell’intervento pubblico verso politicherivolte all’inserimento sociale. Tuttavia le liste d’attesa, in particolare perl’accesso ai servizi per i minori e per gli anziani, in presenza di vincoli dibilancio, indotti dalle politiche economiche restrittive, pongono anche perla nostra regione il dilemma di come conciliare equità ed efficienza.

Le politiche di contracting out, orientate a migliorare la produttività dellaspesa, hanno contribuito a stimolare la crescita dell’offerta dei servizi privati(profit e non profit), ma si sono rivelate insufficienti nell’attenuare la pressio-ne della domanda, ponendo al contempo problemi rilevanti nella qualità deiservizi. D’altra parte, l’avvio di politiche selettive, tese a specializzare l’offertarivolta alle fasce di popolazione più deprivate, rischia di accentuare la pola-rizzazione sociale, soprattutto tra la popolazione che per condizioni di reddi-to si colloca tra l’utenza indigente e quella a maggiore potere di acquisto.

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In una impostazione di tipo universalistico, cosi come viene auspicatodalla Legge quadro sulla assistenza e dal Piano Sociale Nazionale, la scelta diampliare l’offerta di servizi per soddisfare una domanda crescente e qualitati-vamente differenziata, in un contesto macroeconomico di politiche restrittive,pone il problema di risorse aggiuntive rispetto a quelle oggi disponibili.

La soluzione di tale problema richiede profonde innovazioni sia nelleforme di finanziamento (compartecipazione ai costi da parte dei beneficiari,introduzione di forme assicurative specifiche per la non autosufficienza, redi-stribuzione delle risorse pubbliche esistenti secondo nuove priorità), sia nellariorganizzazione delle politiche e degli interventi, per fornire risposte effi-cienti ed efficaci ad una domanda di lavoro di cura, assai diversificata da partedelle famiglie, che favorisca un uso complementare e più flessibile del sistemadei servizi e dei trasferimenti monetari, mediante una mirata riallocazionedelle risorse.

8. Il ruolo del volontariato

La Consulta Nazionale del volontariato in Sanità è stata ricostituita conD.M. 10.12.1999, con la presidenza del Dr. Claudio Calvaruso, presso ilMinistero della Sanità, essendo venuto a scadere il mandato del primo bien-nio 1997-99. Avendo fatto parte di entrambe le Consulte fino al loro con-gelamento ed esaurimento nel 2001 ad opera del Ministro Sirchia, devosegnalare che uno dei principali argomenti trattati dalla Consulta è stato ilruolo del volontariato nell’integrazione sanitaria e sociale. Il documentofinale della Consulta del Volontariato precedente, pubblicato dal Serviziostudi e documentazione del Ministero alla fine del 1999, comprende unospecifico capitolo così intitolato: Ruolo del volontariato nell’integrazionesociale, che si allega al testo.

In particolare si fa rinvio ai punti ove si sottolinea la necessità assolutadell’integrazione della pluralità dei servizi (in primis sanitari e sociali) attornoall’unicità del soggetto assistito, integrazione che il volontario rivendica conmaggiore forza in quanto è particolarmente attento alla persona del malato,accanto al quale ed al servizio del quale si pone gratuitamente.

L’organizzazione dei servizi deve adeguarsi alle esigenze delle persone,e non viceversa, per cui la valutazione multidimensionale delle esigenze

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della singola persona e la risposta corale che ne consegue deve entrare nellapratica quotidiana, sopra tutto in quelle situazioni, sempre più frequenti nelnostro quadro epidemiologico, in cui la malattia è cronica e l’assistenza èdomiciliare.

Fin dall’elaborazione del piano personalizzato assistenziale il volontariopuò dare voce meglio di altri alle esigenze della persona che non è in gradodi farsi udire, in quanto gli operatori-produttori possono essere interessatia piegare la domanda reale alle capacità ed alle possibilità dell’offerta, ori-ginando il fenomeno dell’offerta che plasma a sua misura la domanda, bennoto in sanità e nei servizi sociali e da me indicato come il letto di Procustedel malato.

Anche per ciò che riguarda l’accreditamento (secondo quanto previstodal Decreto legislativo n. 229 del 1999) ed il controllo continuo dell’attivitàdei servizi, le associazioni di volontariato, che non hanno interessi materia-li né privati né associativi nello svolgimento delle loro funzioni, sono ilmiglior referente per l’amministrazione pubblica che intenda ampliare ildiritto di voce degli utenti. Le amministrazioni devono rinunciare acostruirsi rappresentanze degli utenti accondiscendenti, condizionate dafavori, appalti o commesse.

Il volontariato assume sempre più un ruolo diverso da quello stereotipotradizionale, che lo voleva “tappabuchi”, “pannicello caldo” e “stampella”di un servizio pubblico inadeguato alle necessità reali degli assistiti, incapacedi proporre le modifiche strutturali e quindi funzionale al mantenimento deidifetti.

Per evitare che simili accuse siano rivolte al mio intervento, sono costret-to a ricordare che nella definizione dell’integrazione sanitaria e sociale si pos-sono giocare i diritti dei malati, ed in particolare di quelli affetti da gravi disa-bilità permanenti e da malattie croniche e degenerative: si tratta dei “soggettideboli”, ai quali un altro capitolo del documento della Consulta del volonta-riato è dedicato, ove si rileva che per costoro l’emersione dei bisogni e l’ac-cesso alle cure sono fortemente limitati e perciò si esige una facilitazione daparte del volontariato e degli operatori. Al contrario si assiste sempre piùspesso ad un tentativo di scaricare sulle famiglie, sul volontariato e sui servizidi assistenza agli indigenti il peso della loro cura.

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Si ribadisce anzitutto che la persona conserva il diritto soggettivo per-fetto all’assistenza sanitaria, che comprende tutte le prestazioni necessariein conseguenza delle malattie, delle malformazioni e dei traumi, sia per lacura delle fasi acute e croniche che per la riabilitazione, senza alcun limitedi tempo. Ogni eventuale partecipazione alla spesa dovrà essere richiestaattraverso leggi statali o regionali, che fissano per il malato (e non per i suoifamiliari) l’importo e le modalità di riscossione.

Ritengo eticamente errato il tentativo, che dal 1992 in Italia si è andatosempre più allargando, di introdurre la c.d. tassa sulla malattia, la compar-tecipazione alla spesa sanitaria: non sembra che l’equità contributiva e redi-stributiva vada perseguita nel momento in cui per un cittadino o un suofamiliare si verifica uno dei gravi rischi della vita, come la malattia e la disa-bilità grave. Realizzare l’equità è lo scopo della fiscalità generale, che megliodi ogni altro strumento può essere utilizzata, purché comprenda redditi epatrimonio del soggetto interessato.

I provvedimenti che interessano sono:

– i decreti che regolano la partecipazione al costo delle prestazioni e deiservizi (D. Lgs. 109/98 - D. Lgs. 124/98 - D. Lgs. 221/99 e, da ultimo,il Decreto Lgs. N. 130 del maggio del 2000, che invita a considerarel’handicappato grave come nucleo familiare a sé stante in funzionedell’ISE (Indicatore della Situazione Economica), così come dovrebbegià avvenire per l’anziano disabile

– il decreto di avvio della Riforma Sanitaria (D. Lgs. 229/99),

– la Legge n. 328 del 2000, la riforma dell’assistenza,

– Il DPCM del 29.11.2001 sui Livelli essenziali di assistenza, LEA, lariforma del titolo V della Costituzione sul federalismo.

Anzitutto si deve stigmatizzare il comportamento di alcune ASL e di alcu-ni Comuni, i quali avevano ritenuto che le norme dei decreti 109/98 e 221/99dessero loro la possibilità di imporre, tramite regolamenti e/o tramite diretteazioni legali, di sostituirsi ai malati, i diretti interessati, nell’azione del dirittopersonalissimo alla richiesta degli alimenti e del mantenimento ai familiari, inbase all’art. 433 e ss. del codice civile.

Al proposito è intervenuta la nota dell’Ufficio legislativo del Ministrodella Solidarietà sociale On. Livia Turco, che in data 15.10.1999 ha affer-mato vari principi:

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– i decreti hanno esclusivamente lo scopo di stabilire i criteri per la valuta-zione della condizione economica delle persone che chiedono prestazionisociali agevolate come centri diurni, comunità alloggio, asili, soggiornivacanza;

– soltanto l’interessato o il suo tutore possono richiedere gli alimenti aifamiliari obbligati;

– l’ente erogatore può individuare un nucleo familiare diverso da quellotipizzato dall’art. 2 del Decreto n. 109/99.

Su quest’ultimo punto è intervenuto il decreto legislativo n. 130/2000,che in analogia con la situazione degli ultrasessantacinquenni conviventi infamiglia (di cui al Decreto n. 124/98) prescrive che siano considerati a parte iredditi ed il patrimonio dei disabili gravi non anziani: in entrambi i casi sareb-be assurdo penalizzare le famiglie che tengono il proprio congiunto presso diloro, computando insieme i redditi dei familiari e quelli del disabile.

Nell’ambito della più completa integrazione dei servizi, restava comun-que il problema basilare di distinguere quali prestazioni sanitarie siano dasottoporre a compartecipazione e quali prestazioni sociali siano a carico del-l’assistito, dei suoi familiari o del Comune, come ultima istanza per l’assi-stenza agli indigenti privi di mezzi propri.

Il Decreto legislativo n. 229 del 1999 indica la categoria dei servizi socio-sanitari ad elevata integrazione sanitaria, che secondo il Ministro On. RosyBindi dovrebbero restare a carico del fondo sanitario nazionale; si concordapienamente col Ministro nel ritenere che l’Atto di indirizzo attuativo del decre-to, teso alla definizione dei confini del sociosanitario, rivesta un’importanzafondamentale, particolarmente per le categorie deboli dei disabili gravi e deimalati cronici non autosufficienti, che più stanno a cuore del volontariato.

Sul provvedimento stanno da tempo lavorando i tecnici del Ministero ele associazioni dei disabili hanno fatto alcune proposte innovative. L’atto diIndirizzo è molto importante perché può influenzare l’effettiva esigibilitàdel diritto alle prestazioni sociosanitarie e i relativi canali di finanziamento,che sono così distinti:• Prestazioni sanitarie a rilevanza sociale• Prestazioni sociosanitarie ad elevata integrazione sanitaria

• Prestazioni sociali a rilevanza sanitaria.

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Le prime due tipologie di prestazioni sono competenza delle UnitàSanitarie Locali, mentre la terza è competenza dei Comuni, i quali spesso sirivalgono sui redditi del disabile e qualche volta addirittura su quelli deifamiliari. È da precisare che le prestazioni sociosanitarie ad elevata integra-zione sanitaria sono “...assicurate e gestite dalle Aziende Sanitarie e com-prese nei livelli essenziali di assistenza, il che significa una base comune assi-curata, sia per qualità che per quantità, per tutta l’Italia, mentre ora il dirit-to ai servizi e alla creazione delle condizioni di pari opportunità è precarioe non omogeneamente diffuso nelle varie aree del nostro Paese. È questal’occasione per ottenere garanzie e certezze affinché l’erogazione delle pre-stazioni sanitarie, sociali e sociosanitarie rivolte in favore dei cittadini disa-bili di ogni età sia un DIRITTO PIENAMENTE ESIGIBILE PER RISPONDEREAL DETTATO COSTITUZIONALE DELLE PARI OPPORTUNITÀ.

L’attuale situazione legislativa stabilisce tale diritto prevalentementenella sfera sanitaria mentre è meno garantito in quella sociale, dove si parladi “diritto condizionato” (soltanto a condizione che la persona sia indigen-te) o interesse legittimo.

La Legge n. 328/2000, “Riforma della legge sull’Assistenza” (peraltronon priva di incertezze e contraddizioni su tanti diritti soggettivi che ven-gono condizionati alle disponibilità di bilancio degli Enti locali) e dell’at-tuazione del Programma triennale del Governo sull’Handicap (impegnoassunto alla Conferenza Nazionale sull’Handicap di metà dicembre 1999 erispettato dal Ministro On. Livia Turco) l’Atto di Indirizzo sul sociosanita-rio è il primo importante passo su questa strada.

La definizione dei confini del sociale e del sanitario è stata fin qui ogget-to di contrasti, come dimostra il forte attaccamento delle Amministrazionial DPCM dell’8.8.1985, nonostante sia stato immediatamente superato dallasuccessiva legge di programmazione sanitaria, n. 595 del 1985. Sulla basedel DPCM si è scaricato sul malato cronico gravemente non autosufficien-te il dovere di provvedere a sé stesso, delegando a lui di contrattare la suasistemazione con gestori privati e pubblici di servizi residenziali e semiresi-denziali; il fondo sanitario interveniva a sostegno della sua domanda, accol-landosi una parte della spesa attribuibile al sanitario ed agli oneri a rilevan-za sanitaria. La distinzione fra sanitario e non sanitario era prevalentemen-te giocata sulla qualifica degli operatori necessari per svolgere quelle mansio-

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ni (mansionario degli infermieri e degli altri tecnici sanitari). Troppo facilela critica secondo la quale l’evento causa della necessità del ricovero eracomunque una malattia, un trauma o una malformazione congenita, per cuila responsabilità del bilancio sanitario era direttamente chiamata in causa,non come ausilio ma come principale attore dell’assistenza. Diverse senten-ze, alcune delle quali della Cassazione, hanno stabilito inequivocabilmentela responsabilità primaria della sanità nell’assistenza complessiva a questimalati ricoverati in residenze.

Resta comunque da definire se e quale debba essere la compartecipazio-ne da applicare nei casi concreti. Da molti anni la Regione Emilia Romagnaapplica un criterio di compartecipazione sulla spesa per i disabili adulti cherovescia i termini tradizionali del problema: il disabile paga per ogni serviziouna quota che non eccede la spesa media di un componente normale di unafamiglia normale, calcolata dall’ISTAT nell’indagine sui bilanci delle famiglie.La differenza con la spesa reale, che può superare di molto quella media,dipende infatti dalla gravità dei bisogni che hanno origine nella malattia: adesempio il bilancio complessivo per l’italiano medio inserito in una famiglia diquattro componenti supera la cifra di 1.250.000 lire al mese; tutto ciò che vaoltre, e che non può essere ricondotto a improbabili lussi, dipende propriodalla malattia, e come tale viene sostenuto dalla AS.

Il progetto personalizzato per le pari opportunità

Una proposta della Federazione Italiana Superamento Handicap(FISH) supera i precedenti tentativi, basandosi sul Progetto personalizzatoper le pari opportunità, che evita di fare pagare alla persona disabile ciò cheper i normodotati non rappresenta costo alcuno. L’intervento rivolto allapersona che vive in situazione di handicap deve tendere all’obiettivo delrispetto del principio Costituzionale delle condizioni di pari opportunità(ribadito dall’Unione Europea).

Il Progetto deve pertanto possedere tre caratteristiche fondamentali:

– deve essere personalizzato;

– deve essere globale;

– deve essere continuativo, per tutto l’arco della vita.

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Diviene quindi fondamentale svolgere correttamente una attenta, com-pleta e dinamica VALUTAZIONE DEI BISOGNI PER CIASCUNA PERSONA,condotta da una Commissione di Valutazione Distrettuale multidisciplinareche riassuma in sé le competenze delle varie Commissioni oggi esistenti, chesegue la persona fin dall’insorgenza della disabilità per tutta la vita, varian-do via via alcuni componenti in relazione all’età. Una unica Commissione, icui componenti siano imparziali e non siano sottomessi alle esigenze dibilancio, che svolga:

– l’accertamento della condizione di disabilità;

– la valutazione (ed eventualmente la rivalutazione) dei bisogni;

– la stesura del Progetto personalizzato per le pari opportunità;

– il controllo sulla corretta esecuzione del Progetto personalizzato per lepari opportunità.

I criteri che la Commissione di Valutazione Distrettuale dovrebbe adot-tare sono innanzitutto quelli in via di approvazione a livello internazionale(ICIDH2, approvato successivamente con la denominazione di ICF), masoprattutto dovrebbe essere garantito il coinvolgimento e la partecipazione:

• del disabile (ogni volta che sia possibile e nella misura del possibile) edi un medico di sua fiducia,

• della famiglia,

• degli operatori del territorio che in quella fase di vita della persona hannocompetenza ai fini della progettazione e gestione degli interventi.

La definizione dell’area sociosanitaria e quindi la decisione se quel tipodi prestazione all’interno di quel piano personalizzato debba essere total-mente a carico del Sistema Sanitario Nazionale oppure parte in carico allaSanità e parte in carico ad altri Enti Pubblici (Comune, Scuola, Provinciaecc.) dovrebbe derivare dall’insieme delle valutazioni compiute su ogni sin-golo caso dalla Commissione Distrettuale e dagli accordi di programma chegli Enti dovranno stipulare per garantire l’integrazione, l’efficacia, l’effi-cienza e la continuità dell’assistenza.

È opportuno che siano adottate alcune macro categorie di utenti perdefinire la tipologia degli interventi e il loro finanziamento:

a) condizione di NON AUTOSUFFICIENZA: persone che hanno bisogno diinterventi di aiuto da parte di una o più persone (familiare, operatore, ecc.)

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b) condizione di NON AUTONOMIA persone che hanno bisogno di inter-venti riabilitativi e socioeducativi finalizzati al raggiungimento dellamassima autonomia personale e sociale

c) condizione di NON AUTONOMIA E NON AUTOSUFFICIENZA: personepluriminorate (cioè che accomunano disabilità plurime) che richiedonoun alto grado di intensità assistenziale sia con interventi diretti sulla per-sona che di aiuto alla Famiglia (i programmi di sostegno riguardano siala sfera dell’autosufficienza sia la sfera dell’autonomia)

d) condizione di RISCHIO DI REGRESSIONE SOCIALE: persone con unbuon livello di autonomia personale che però, a causa di marginalitàsociale e relazionale, fanno presagire un’imminente regressione sulpiano dell’autonomia personale (il bisogno è un sostegno per l’inseri-mento sociale e lavorativo).

In ogni caso il progetto personalizzato deve basarsi su moduli di rileva-zione esaustivi ed “oggettivi” dei bisogni, ai quali si deve ascrivere un tempomedio di esecuzione necessario per il calcolo delle risorse da impiegarsi, deibilanci da sostenere e dei controlli di efficacia e di efficienza sull’operato.

Ad esempio le persone affette da disabilità mentale (intellettivi e delcomportamento) e/o pluriminorati appartengono alla prima e alla terzamacro categoria: necessitano sempre sia di interventi di tipo riabilitativo siadi interventi per raggiungere le condizioni di pari opportunità. Le presta-zioni ad essi rivolte sono caratterizzate da forti elementi sanitari e sociosa-nitari ad elevata integrazione sanitaria, e quindi, in quanto tali, da garantiretramite gli interventi del Servizio Sanitario Nazionale.

Ad eccezione di alcuni servizi, come gli ospedali e gli ex art. 26 dellaLegge n. 833/78, esenti da compartecipazione per scelta di legge, l’Atto diIndirizzo, definendo quali siano le prestazioni a carico della Sanità e qualidi competenza dei Comuni, creerà una situazione nella quale gli utentipotranno essere chiamati a concorrere al costo della prestazione, ogni voltache il Comune cercherà di rivalersi su di loro. Fermo restando il principio che il disabile, anche nel caso in cui sia ricove-rato a spese del SSN, debba potere conservare un minimo di disponibilitàmensile per le proprie spese personali, non pare si possano avanzare obie-zioni a che il suo reddito e patrimonio vengano utilizzati per migliorare le

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sue condizioni di vita piuttosto che per aumentare il suo asse ereditario. Main nessun caso si pensa che il suo nucleo familiare debba essere coinvoltonella partecipazione al costo. Infatti deve essere presente la condizione divita di quella famiglia che non soltanto ha sostenuto il costo economicodiretto per garantire l’assistenza, ma ne ha subito il costo indiretto costitui-to, per esempio, dalla rinuncia ai redditi da lavoro di uno dei due genitori(situazione praticamente universale tranne rare eccezioni).

Da una simile proposta potrebbe sembrare emergere una certa diffi-coltà a calcolare i preventivi di bilancio della AS e dei Comuni: in effettisarebbe molto più semplice attribuire a priori una percentuale sanitaria aivari tipi di servizi. Tuttavia si ritiene che la soluzione semplice sarebbe sem-plicistica e non soddisferebbe l’equità di trattamento dei cittadini da assi-stere. La percentuale di risorse sanitarie deve essere calcolata a posteriori,avendo riguardo alla composizione reale dei bisogni della utenza dei servi-zi, che può essere varia anche all’interno di una stessa definizione tipologi-ca dei servizi e che normalmente tende ad aggravarsi col passare del tempo.

L’esperienza del Québec, con la valutazione multidimensionale dei biso-gni definita CTMSP dall’équipe ROSES dell’Università di Montreal, cheprima di noi ha percorso la strada della determinazione dei bisogni dei sin-goli assistiti, dimostra la possibilità di fare bilanci di previsione realistici,una volta conosciuto il peso della utenza dell’anno precedente ed applican-do una stima delle variazioni prevedibili.

9. La tabella di ripartizione del DPCM 29 novembre 2001 suiLEA: chi paga i servizi sociosanitari

Come precedentemente indicato, spesso in Italia i familiari sono chia-mati a pagare i costi dei trattamenti a lungo termine per i malati cronici nonautosufficienti: il DPCM 8 agosto 1985 fu il primo tentativo di mettere ordi-ne alla variegata situazione esistente nei diversi Comuni, dividendo le spesesanitarie (di competenza del Fondo sanitario) dalle spese “sociali” e quindiaddossando al “sociale” una parte delle spese per le cure a lungo terminefornite nelle Case di riposo protette ai non autosufficienti, case successiva-mente trasformatesi quasi ovunque in Residenze sanitarie assistenziali. Laparte “sociale” veniva fatta pagare direttamente all’utente oppure ai suoi

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familiari, considerandoli solidali con lui: i Comuni esigevano queste sommeda coloro che erano tenuti a prestare gli alimenti, a norma dell’art. 433 e ss.del Codice civile, dimenticando che il diritto di chiedere gli alimenti è undiritto personale e non può essere fatto valere da altri che non sia il tutore.Contro questo abuso si è pronunciato il Decreto legislativo n. 130 del 3maggio 2000, nella sua prima parte, di natura declaratoria.

Il DPCM del 29 novembre 2001, avente ad oggetto i LEA, contiene unatabella che abbandona la vecchia logica della divisone delle spese secondola natura sanitaria o sociale delle prestazioni e addossa agli utenti una partepercentuale dei costi dei servizi sociosanitari ad elevata integrazione sanita-ria, come ad esempio il 50% del totale delle spese per le Residenze sanita-rie assistenziali. Questo DPCM, sul quale l’ANCI Piemonte e le associazio-ni per la difesa dei diritti dei malati (cfr. www.tutori.it e le riviste ProspettiveAssistenziali e Appunti) avevano avanzato dubbi di costituzionalità (un attoamministrativo come il DPCM non può imporre tasse sui cittadini malati),è stato integralmente recepito nella legge finanziaria del 2003 e come tale èformalmente incontestabile, almeno dall’inizio del 2003.

Alcuni Comuni, come Milano, Torino ed altri minori, si sono adeguatialla normativa ed hanno sollevato dalla compartecipazione alla spesa i fami-liari, anche quelli che avevano firmato un impegno di pagamento solidale almomento d’ingresso nelle residenze (che comunque può essere disdettatodal familiare in ogni momento, in quanto trattasi di impegno unilaterale).

Altri Comuni, come ad esempio Bologna, continuano invece a richiede-re la situazione economica dei familiari, compreso quelli non conviventi,prima dell’ingresso nelle residenze e su quelle basi calcolano la comparteci-pazione per ognuno dei familiari, facendo firmare un impegno solidale asostenere la spesa. La violazione del diritto alla riservatezza e la cattiva appli-cazione dei decreti sull’ISE (Indicatore situazione economica) è del tutto evi-dente, ma si comprende bene come molti Comuni cerchino di difendere illoro magri bilanci con ogni mezzo, legittimo e non. Per il ripristino dellalegalità si sono espressi alcuni Difensori civici, fra i quali quello della RegioneCampania. Tuttavia questo incontestabile diritto viene ancora disatteso perla maggior parte dei casi, salvo che non intervenga una qualche associazioneper la difesa dei diritti del malato a tutelare il diritto calpestato: è questo uncampo di lavoro vastissimo per le associazioni che operano della categoriadell’avvocatura dei diritti dei più deboli.

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SITI UTILI SUI TEMI TRATTATI

Per i diritti dei malati cronici non autosufficienti si consulti i siti:www.tutori.itwww.grusol.it

Per i diritti dei disabili:www.handylex.orgwww.superando.itwww.anffas.netwww.aipd.it

Per i diritti dei malati e dei cittadini:http://digilander.iol.it/movcitt/

Per l’istituzione e l’attività del Comitato consultivo regionale dell’Emilia Romagnasi consulti il sito:http://www.saluter.it/wcm/saluter/sanitaer/comitato_consultivo_regionale.htm

e per l’esempio di un Comitato Consultivo Misto:http://www.ausl.bologna.it/comitati_misti/

Per la qualità in sanità:www.sivrq.com/qa/rivistaQA.htm

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Evoluzione del concetto di Advocacy

L’emersione dell’esplicitazione a livello normativo della tipologia del“Volontariato di Advocacy “ è stata piuttosto lenta ed è aspetto normativopiuttosto recente.

Occorre innanzi tutto precisare il concetto di “advocacy”, che diretta-mente le norme non esplicitano; occorre quindi rifarsi alla prassi del volonta-riato che ha preceduto il riconoscimento normativo della apposita tipologia.

In Italia il termine “advocacy” è traducibile con quello di “tutela dei dirit-ti delle fasce deboli di popolazione”. In tal senso si parla esplicitamente di“volontariato dei diritti”(F. Santanera e Anna Maria Gallo “Volontariato” Ed.Utet 1998 p. 111).

Le ragioni di questo ritardo, rispetto ad es. ai Paesi di diritto anglosas-sone, sono dovute alla visione individualistica della tutela dei diritti, fonda-ta “sull’interesse personale ad agire in giudizio” (in gerco giuridico, detto“legittimazione”), di derivazione romanistica ed assai dura a cedere spazioad una visione più ampia e meno formalistica.

L’evoluzione verso la nuova visione è frutto di una lenta gestazione giu-risprudenziale che ha portato al concepimento del concetto secondo cuil’interessato può farsi sostenere in un giudizio concernente la tutela dei suoidiritti anche da un’associazione, cui abbia conferito la delega a tal fine.

L’associazione non si sostituisce all’interessato, ma lo affianca “ad adiu-vandum”. Un passaggio ulteriore si è avuto, quando sempre la Giuri-sprudenza ha riconosciuto la legittimazione ad agire ad associazioni che nonpromuovevano un giudizio per la tutela di interessi propri, ma di “interessi

Cenni sulla normativa relativa al Volontariato di Advocacy in ItaliaSALVATORE NOCERA

Vicepresidente della FISH - Fed. It. per il Superamento dell’Handicap

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diffusi”, cioè di tutta la collettività. La visione formalistica impediva di fattola tutela di tali diritti, dal momento che nessun cittadino ne era titolare“individuale”, né un’associazione poteva considerarsi titolare di tali interes-si diffusi, che erano imputabili a tutta la collettività. Si pensi alla tutela dibeni ambientali e paesaggistici, della salute pubblica, della libertà religiosa,e di tutte le situazioni giuridiche rintranti negli art. 2 e 3 della Costituzione.

La Giurisprudenza ha riconosciuto, non senza contrasti, che le associazio-ni, che per finalità statutarie perseguivano la tutela di tali beni, avevano legitti-mazione ad agire per ottenere l’interdizione di opere edilizie o di interventilesivi dei diritti, che danneggiavano tali beni, costituzionalmente garantiti.

Altra ragione ostativa all’emersione del concetto di “advocacy” in Italiaè stata la considerazione che la tutela di un interesse individuale o colletti-vo da parte di un soggetto diverso dal singolo interessato è compito delloStato, che, nei casi di lesioni più gravi interviene tramite le azioni penali pro-mosse dal Pubblico Ministero.

Anche su questo versante la vecchia concezione cominciò a mostraredelle crepe, grazie al crescente ruolo dei Sindacati, che forti delle deleghericevute dalle migliaia dei loro iscritti, cominciarono a premere con ricorsisempre più frequenti sia per affiancarsi ai lavoratori nelle controversie indi-viduali che li interessavano, sia per sostituirli in tutta una serie di praticheconcernenti atti amministrativi giuridici, quali riscossione di liquidazioni,pratiche per pensioni etc.

Anzi da questa prassi nacquero gli Istituti di Patronato che la L. n.328/00 colloca nell’art. 5, nel coacerbo dei soggetti del “Terzo Settore”,accanto alle associazioni, fondazioni, organizzazioni di volontariato etc.

La L. n. 152/01 di riforma dei Patronati recepisce questa visione e larazionalizza. Le prassi innovative introdotte dalla Giurisprudenza vengonopoi formalmente recepite in atti legislativi.

Concetto estensivo di Volontariato

Occorre pure chiarire che si darà al termine “ volontariato” un significatopiù ampio di quello che una rigorosa interpretazione della normativa gli asse-gna, alla luce della L. n. 266/91, e cioè di attività di solidarietà sociale svolta

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spontaneamente e senza fini di lucro a favore di persone estranee all’organiz-zazione di volontariato (S. Nocera “La legge di riforma dei servizi sociali” ed.Centro servizi Il Melograno di Larino, FIVol, MoVI 2001 pp. 46-50).

Infatti la prassi di adovocacy mostra e le norme ne prendono atto, chetale attività viene svolta, senza fini di lucro , non solo dalle organizzazioni divolontariato di cui alla L. n. 266/91, ma anche da altri soggetti , quali asso-ciazioni di promozione sociale, di cui alla L. n. 383/2000, associazioni e fon-dazioni e comitati, di cui al Codice Civile.

Breve analisi di dati normativi

Il termine di “tutela dei diritti civili” si rinviene, per la prima volta, nel-l’art. 10 del decreto legislativo n. 460/97, concernente, tra l’altro, leONLUS, Organizzazioni non lucrative di utilità sociale,che concede agevo-lazioni contabili e fiscali ad organizzazioni private senza fini di lucro chesvolgono attività di solidarietà sociale a favore di persone che versano instato di svantaggio fisico, psichico, economico, sociale o familiare.

È ormai comunemente accettato che il termine ONLUS non rappresentiuna ulteriore figura soggettiva da aggiungere a quelle previste dal Codice civi-le o da altre leggi, che sono comunque esplicitazione delle figure civilistiche di“associazione e fondazione”. Il termine ONLUS è una categoria fiscale, entroil quale il legislatore ha raggruppato una serie di soggetti giuridici collettivi, afavore dei quali ha concesso agevolazioni varie in forza dei destinatari “svan-taggiati” cui si indirizzano le attività di solidarietà sociale.

Queste attività sono state e sono considerate prevalentemente quelle di“servizi” a favore delle persone. Per la prima volta in questo testo normati-vo invece compare anche la categoria della “tutela dei diritti”.

Ed infatti, se si guarda l’art. 1 comma 1 della L. n. 266/91 le finalità che essaprende in considerazione sono quelle di” carattere sociale, civile e culturale”.Il termine di “tutela dei diritti” in esso non compare; ma il concetto di advo-cacy si deve ritenere implicito nel termine “finalità di carattere civile”, che,però, nella prassi delle attività prevalenti, almeno a quell’epoca, erano princi-palmente un tutt’uno con quelle sociali e si traducevano quindi in servizi, attra-verso i quali si ha pure la tutela dei diritti civili delle persone svantaggiate; ma

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tali attività non erano in prevalenza indirizzate direttamente alla “tutela deidiritti civili”.

A partire dalla 266/91 si vengono esplicitando attività di volontariato diadvocacy a favore di singole categorie di fasce deboli di popolazione. Siveda ad es. la L. n. 104/92 sui diritti delle persone handicappate, che, all’art.36 comma 2, in caso di procedimenti penali per violenza sulle minori conhandicap, consente la costituzione di parte civile anche all’associazione cuiè iscritta la vittima del reato o un suo familiare. Così pure la L. n. 40/98,all’art. 42 comma 12 parla di associazioni di immigrati, per attribuire loroanche compiti di tutela dei diritti.

Ma un’affermazione generalizzata del ruolo di advocacy attribuita alleassociazioni si ha con la L. n. 281/98, sulle associazioni di tutela degli uten-ti e dei consumatori. È vero che i beneficiari delle disposizioni possono con-siderarsi due categorie di cittadini; ma la loro ampiezza non solo numericama di presenza sul mercato e nella società, dà alla legge un ruolo di ricono-scimento genralizzato di tali associazioni.

Infatti l’art. 2 della legge definisce le associazioni come quelle “che hannoper scopo statutario la tutela dei diritti e degli interessi dei consumatori e degliutenti”. Il successivo articolo 3 attribuisce espressamente la funzione di advo-cacy alle associazioni, essendo esse legittimate ad agire in giudizio per inibireazioni lesive dei diritti degli utenti, per rimuoverne gli effetti dannosi e perottenere la pena accessoria della pubblicazione su quotidiani delle sentenze dicondanna.A simiglianza di quanto da tempo è stabilito a favore dei Sindacati,le associazioni possono avviare il giudizio di conciliazione avanti le appositecommissioni presso le Camere di commercio.

L’art. 4 prevede un Consiglio nazionale di tali associazioni con compitidi consulenza e proposta nei confronti del Governo, anche in relazione allepolitiche comunitarie; esso può promuovere studi e ricerche sui diritti degliutenti e dei consumatori,sulla qualità dei servizi e dei prodotti; può pro-muovere programmi di informazione degli utenti, favorire iniziative perl’accesso degli utenti alla Giustizia, raccordi fra politiche nazionali e locali afavore dei consumatori e degli utenti,e può stabilire rapporti con organismia livello internazionale.

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L’art. 5 fissa, tra le condizioni di ammissione al registro nazionale, l’ob-bligo di prevedere nello statuto l’assenza di fini di lucro, nonché una seriedi incompatibilità per i irigenti.

La L. n. 383/00 rafforza il ruolo delle associazioni di promozione socia-le, anche nella loro funzione di advocacy.Infatti l’art 26 riconosce alle asso-ciazioni che hanno come scopo “di svolgere attività di utilità sociale a favoredegli associati e di terzi” (art 2) il potere di accesso agli atti amministrativi dicui all’art. 22 L. n. 241/90; l’interesse che le legittima all’accesso è costituitodalle “stesse finalità statutarie”.

Ancora più interessante l’art. 27, comma 1, secondo il quale tali asso-ciazioni hanno il potere di promuove azioni giurisdizionali o intervenire ingiudizi promossi da terzi “a tutela dell’interesse dell’associazione” (lett. a).Ormai l’interesse dell’associazione è quello dello scopo per cui si è costitui-ta, senza la limitazione che essa debba intervenire. Solo in aiuto di un pro-prio associato coinvolto in un procedimento giudiziario.

Anche le lett “b” e “c” dello stesso comma evidenziano un rafforza-mento del potere di advocacy. Infatti le associazioni possono promuoveregiudizi civili o penali o intervenire in quelli promossi da terzi,” per il risar-cimento di danni derivanti dalla lesione di interessi collettivi, concernenti lefinalità perseguite dall’associazione”.

Possono inoltre promuovere ricorsi al TAR contro atti amministrativiillegittimi, “lesivi degli interessi collettivi relativi alle finalità” dell’associa-zione. Come si vede è ormai coperto tutto l’arco dei possibili interventi giu-risdizionali, cui le associazioni di promozione sociale sono legittimate.

Il secondo comma dello stesso art. 27, rende esplicita una norma genera-le contenuta nell’art. 9 della L. n. 241/09, concernente la possibilità per qua-lunque soggetto di intervenire durante l’iter formativo di un procedimentoamministrativo. Questo potere, già ampiamente riconosciuto con la L. n.241/90, a seguito di un radicale cambiamento nella concezione giuridica degliatti amministrativi, il cui contenuto non è più considerato monopolio esclusi-vo dell’autorità amministrativa, collocato a conclusione di questa norma del-l’art. 27, assume un significato di prevenzione giuridica; esso consente infattiall’associazione di intervenire per ottenere che dall’atto siano eliminati gli ele-menti che potrebbero costituire causa di successiva azione giudiziale.

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Come si vede il quadro a livello nazionale può dirsi completo, potendole organizzazioni di volontariato di advocacy svolgere attività amministrati-via, consultiva, di proposta agli organi istituzionali, di azioni giurisdiziona-le e di informazione non solo agli associati, ma anche a tutta la popolazio-ne. Si pensi alla diffusione crescente dell’approntamento di siti web e di retidi discussione e collegamento che costituiscono la base amplificata di Unaeffettiva tutela dei diritti.

La L. n. 448/01, in occasione della riforma delle fondazioni bancarie,operata con l’art 11 ha perduto l’occasione di generalizzare anche a favoredi tali fondazioni gli orientamenti normativi in tema di advocacy. Infatti trai vari settori di intervento che potranno essere finanziati dalle fondazionibancarie non compare quello della tutela dei diritti, ma si preevedono solointerventi in beni e servizi. Anche la tutela dei consumatori, come è statofattoosservare da Tiziano Vecchiato in una recente intervista, collocata inquesto contesto, sembra tutela solo i consumatori abbienti e non anchequelli che non possono esserlo a causa della povertà.

Cenni sul volontariato internazionale di advocacy

Da anni si muovono a livello europeo ed internazionale molte organiz-zazioni mon governative che svolgono attività non lucrativa di impegnopolitico apartitico per la tutela dei diritti di larghi strati di popolazione e diinteri popoli.Questi organismi e movimenti sono stati molto sotto i rifletto-ri dei mezzi di comunicazione di massa, a causa della lotta, talora anche conmetodi violenti, contro la globalizzazione.

Questi movimenti hanno anche sedi operative in Italia, come Amnestyinternational, Medici senza frontiere, Nessuno tocchi Caino, Non c’è pacesenza giustizia. I risultati di questo impegno sono cospicui.

Le norme internazionali di cui tali movimenti si avvalgono sono quellerelative alle ONG in generaleed i mezszi finanziari di sostentamento sono,oltre a quelli delle libere offerte, i proventi dei Progetti europei o interna-zionali cui essi partecipano. In Italia tali organismi, se posseggono i requisi-ti previsti per le diverse tipologie del privato sociale, godono della libertà diazione e di finanziamento alla pari di tutti gli organismI italiani che si occu-pano di advocacy.

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Prospettive

Le nuove politiche sociali dell’attuale Governo stanno riducendo latutela dei diritti in molti ambiti, da quello dell’emigrazione, a quello dellemalattie mentali, da quello delle tossicodipendenze, a quello della disabilità,da quello dei tribunali minorili a quello dei livelli essenziali delle prestazio-ni sanitarie e sociosanitarie.

In tale situazione il ruolo del volontariato di advocacy sembra avereampi spazi di azione a cominciare dall’informazione capillare fra le stessefasce deboli di popolazione e dalle stesse associazioni di volontariato e daisoggetti del terzo settore che erogano servizi alla persona, per evitare che siriducano a svolgere, come diceva Luciano tavazza, il ruolo di “barellieridella storia”.

Ma il ruolo di advocacy, specie alla luce della “Carta dei valori delvolontariato, predisposta dalla FIVol e dal Gruppo Abele nel 2001, sembrapoter mirare più oltre. Infatti occorre arginare la crisi di sfiducia nella lega-lità che sta pervadendo larghi strati della popolazione e la crescente disaffe-zione al principio di tutela dei diritti che rischia di essere soppiantato daquello del filantropismo compassionevole e dal ritorno alle logiche assisten-zialistiche, che sono antagoniste a quelle della tutela dei diritti.

In questo clima culturale e politico, le associazioni di tutela dei diritti,specie quelle che stanno svolgendo un forte ruolo critico e propositivo alivello internazionale, potrebbero costituire il volano di rilancio del vòlon-tariato di advocacy, che è il volontariato delle nuove frontiere del sociale.

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1997, pp.10-27.

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Presentazione di Studi SocialiCSV Società Solidale . . . . . . . . . . . . . . Pag. 3

PARTE I “VOLONTARIATO & GRATUITÀ”

IntroduzioneCSV Società Solidale . . . . . . . . . . . . . » 7

Il valore economico della gratuitàGiorgio Groppo . . . . . . . . . . . . . . » 9

Volontariato e Gratuità come donoRenato Frisanco . . . . . . . . . . . . . . » 13

Ma… il Volontariato è proprio gratuito?Suor Giuliana Galli . . . . . . . . . . . . . » 17

Amano gli altri coloro che guardandoli negli occhi riconoscono lapresenza di DioMario Mauro . . . . . . . . . . . . . . . » 23

PARTE II “VOLONTARIATO & ADVOCACY”

IntroduzioneCSV Società Solidale . . . . . . . . . . . . . » 31

La Carta dei Servizi: garanzia del rispetto dei diritti dell’utenteCarlo Hanau . . . . . . . . . . . . . . . » 33

Cenni sulla normativa relativa al Volontariato di Advocacy in ItaliaSalvatore Nocera . . . . . . . . . . . . . . » 69

BIBLIOGRAFIA . . . . . . . . . . . . . . » 77

Indice

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FINITO DI STAMPARE

NEL MESE DI FEBBRAIO 2009

PER I TIPI DE

L’ARTISTICA SAVIGLIANO