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SIMONETTA FIORI VENEZIA L’ APPUNTAMENTO CON SARTRE era alla Closerie des Lilas, una mattina di sole. Mi raccomando non fate tardi, aveva detto Franco Basaglia ai suoi giovani collaboratori, ancora più emozionato di loro. Il padre dell’esistenzialismo era un mae- stro, forse l’unico che avesse mai considerato tale. Avevano molte cose di cui parlare, com’era già capitato in passato. Il ruolo dell’intellettuale dentro istituzioni oppressive. La di- gnità delle persone fragili e ingarbugliate. La non neutra- lità della scienza. E il valore della libertà, la libertà del ma- lato ma anche la libertà del medico. Il filosofo aveva scritto della rivoluzione basagliana nel suo Temps Modernes. Lo psichiatra lo ricambiava mostrando una lettura attenta dei sacri testi, L’essere e il nulla e anche L’idiota della famiglia, la ricerca sulla vita di Flaubert che da ragazzo l’aveva ri- scattato dal disagio di sentirsi “fuori posto”: anche a Franco era parso a lungo di essere l’idiot de la famille. Chissà se aves- se mai osato confessarglielo, anche solo un accenno quel giorno di primavera del 1978. L’anno della legge che porta- va il suo nome. La conversazione va avanti spedita fino all’arrivo di Si- mone de Beauvoir, algida nella sua eleganza perfetta, solo un lieve moto di irritazione che traspariva dall’impeccabile cappellino. «Sartre spinse bruscamente verso di me il suo aperitivo», ricorda oggi la ragazza che accompagnava Ba- saglia, Maria Grazia Giannichedda. «Con sguardo sorri- dente Franco mi invitò a prendere in mano il bicchiere. Sar- tre non poteva bere alcolici e dovevamo salvarlo dall’ira del- la compagna». Non si sarebbero più rivisti. >SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE DI REPUBBLICA DOMENICA 15 FEBBRAIO 2015 NUMERO 519 FABRIZIO GIFUNI L O SGUARDO E LA VOCE. L’essenza inconfondibile del suo essere Franco. Un’intelligenza sfolgorante, certo. Una curiosità instancabile e un amore as- soluto per il proprio lavoro, sicuro. Un visionario con i piedi ben piantati per terra, un ossimoro ra- ro. Coraggio, pazienza e luce negli occhi. Quando più o meno sei anni fa il regista di C’era una vol- ta la città dei matti mi propose di interpretare il protagoni- sta del suo film, il volto aperto, tranquillo, serio ma irrive- rente di Franco Basaglia iniziò lentamente a materializzar- si allo specchio. Notai subito che il suo viso era più largo del mio, la corporatura più massiccia. Aveva un modo tutto suo di muovere gli occhi. E poi la voce. Quel timbro, perfetta- mente aderente alla linea dei pensieri, mi risuonava dentro come una confidenza. Mi accade spesso, il suono di una vo- ce può mettermi più velocemente in contatto con un altro essere umano. Non possedevo ancora la gran mole di informazioni a cui sarei pervenuto dopo qualche mese di intenso lavoro. Non sapevo ancora quanto quello sguardo — indissolu- bilmente legato alla sua straordinaria capacità di ascolto — fosse centrale nella prassi del suo lavoro. Ma ricordo di aver pensato subito che se fossi riuscito a conquistare un po’ di “quello sguardo” qualcosa di importante sarebbe accaduto. Poi iniziarono le letture. Le mie diventarono le sue: l’esistenzialismo di Sartre e poi Foucault, Binswan- ger ma anche il Surrealismo a servizio della Rivoluzione. Non lo faccio sempre, spesso non serve. >SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE La copertina. Tutte le colpe del pubblico Straparlando. Baruchello: “Io e Duchamp” Mondovisioni. A spasso per Parigi con zio Hector Cult Il reportage. Haiti, una sola cascata per vudù e cristiani L’anniversario. Femminista e socialista, la vera storia di Mrs. Magie che inventò il Monopoli Spettacoli. A casa di Clint, l’american sniper Next. Non tutto l’hacker vien per nuocere, guida alla galassia FRANCO BASAGLIA, TRIESTE 1977. © GRAZIANO ARICI/ROSEBUD Basaglia la domenica L’archivio dello psichiatra che diede la parola ai matti dalmanicomio Lettere Repubblica Nazionale 2015-02-15

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SIMONETTA FIORI

VENEZIA

L’APPUNTAMENTO CON SARTRE era alla Closerie desLilas, una mattina di sole. Mi raccomando nonfate tardi, aveva detto Franco Basaglia ai suoigiovani collaboratori, ancora più emozionato diloro. Il padre dell’esistenzialismo era un mae-

stro, forse l’unico che avesse mai considerato tale. Avevanomolte cose di cui parlare, com’era già capitato in passato. Ilruolo dell’intellettuale dentro istituzioni oppressive. La di-gnità delle persone fragili e ingarbugliate. La non neutra-lità della scienza. E il valore della libertà, la libertà del ma-lato ma anche la libertà del medico. Il filosofo aveva scrittodella rivoluzione basagliana nel suo Temps Modernes. Lopsichiatra lo ricambiava mostrando una lettura attenta deisacri testi, L’essere e il nullae anche L’idiota della famiglia,la ricerca sulla vita di Flaubert che da ragazzo l’aveva ri-scattato dal disagio di sentirsi “fuori posto”: anche a Francoera parso a lungo di essere l’idiot de la famille. Chissà se aves-se mai osato confessarglielo, anche solo un accenno quelgiorno di primavera del 1978. L’anno della legge che porta-va il suo nome.

La conversazione va avanti spedita fino all’arrivo di Si-mone de Beauvoir, algida nella sua eleganza perfetta, soloun lieve moto di irritazione che traspariva dall’impeccabilecappellino. «Sartre spinse bruscamente verso di me il suoaperitivo», ricorda oggi la ragazza che accompagnava Ba-saglia, Maria Grazia Giannichedda. «Con sguardo sorri-dente Franco mi invitò a prendere in mano il bicchiere. Sar-tre non poteva bere alcolici e dovevamo salvarlo dall’ira del-la compagna». Non si sarebbero più rivisti.

>SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE

DI REPUBBLICADOMENICA 15 FEBBRAIO 2015 NUMERO 519

FABRIZIO GIFUNI

LO SGUARDO E LA VOCE. L’essenza inconfondibile delsuo essere Franco. Un’intelligenza sfolgorante,certo. Una curiosità instancabile e un amore as-soluto per il proprio lavoro, sicuro. Un visionariocon i piedi ben piantati per terra, un ossimoro ra-

ro. Coraggio, pazienza e luce negli occhi. Quando più o meno sei anni fa il regista di C’era una vol-

ta la città dei matti mi propose di interpretare il protagoni-sta del suo film, il volto aperto, tranquillo, serio ma irrive-rente di Franco Basaglia iniziò lentamente a materializzar-si allo specchio. Notai subito che il suo viso era più largo delmio, la corporatura più massiccia. Aveva un modo tutto suodi muovere gli occhi. E poi la voce. Quel timbro, perfetta-mente aderente alla linea dei pensieri, mi risuonava dentrocome una confidenza. Mi accade spesso, il suono di una vo-ce può mettermi più velocemente in contatto con un altroessere umano.

Non possedevo ancora la gran mole di informazioni acui sarei pervenuto dopo qualche mese di intenso lavoro.Non sapevo ancora quanto quello sguardo — indissolu-bilmente legato alla sua straordinaria capacità di ascolto— fosse centrale nella prassi del suo lavoro. Ma ricordo diaver pensato subito che se fossi riuscito a conquistare unpo’ di “quello sguardo” qualcosa di importante sarebbeaccaduto. Poi iniziarono le letture. Le mie diventarono lesue: l’esistenzialismo di Sartre e poi Foucault, Binswan-ger ma anche il Surrealismo a servizio della Rivoluzione.Non lo faccio sempre, spesso non serve.

>SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE

La copertina. Tutte le colpe del pubblicoStraparlando. Baruchello: “Io e Duchamp”Mondovisioni. A spasso per Parigi con zio HectorCult

Il reportage. Haiti, una sola cascata per vudù e cristiani L’anniversario. Femminista e socialista, la vera storia di Mrs. Magie cheinventò il Monopoli Spettacoli. A casa di Clint, l’american sniper Next. Non tutto l’hacker vien per nuocere, guida alla galassia

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L’archivio dello psichiatrache diede la parola ai matti

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Repubblica Nazionale 2015-02-15

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la RepubblicaDOMENICA 15 FEBBRAIO 2015 30LA DOMENICA

<SEGUE DALLA COPERTINA

SIMONETTA FIORI

ARTRE E BASAGLIA, FRAMMENTI D’UNA STAGIONE di disordinee furore che affiora dalle carte conservate in archivio, orainventariate da Leonardo Musci e Fiora Gaspari. Per rac-coglierne le tracce bisogna andare nell’isola dei matti,l’ex manicomio che guarda Venezia da San Servolo. Quiè la Fondazione dedicata a Franca e Franco Basaglia, di-retta da Giannichedda che ci fa da guida, e qui sono cu-stodite migliaia di documenti tra lettere, taccuini, agen-de, verbali, atti processuali, studi scientifici che raccon-tano una rivoluzione culturale, una delle poche che ci sia-no state in Italia. «L’impossibile che diventò possibile»,dice la figlia Alberta Basaglia, che alla sua storia fami-gliare ha dedicato il bel libro Le nuvole di Picasso. Unastoria che non è mai finita, e gli ottanta faldoni dell’ar-chivio servono a ricordarlo.

Si rovesciava il mondo, tra gli anni di Gorizia e quellidi Trieste. Al fianco di Basaglia era la moglie Franca On-garo, l’unica capace di insegnare agli altri basagliani co-me fronteggiare una personalità potente rimanendo sestessi. Tutti insieme cominciano a liberare i matti dallecatene, dai corpetti di costrizione, dall’elettroshock, dalmutismo in cui si erano rinchiusi anche per difesa. Nelmarzo del 1968 esce da Einaudi il libro che suggella la ri-voluzione psichiatrica. L’istituzione negatafu subito be-stseller. Sessantamila copie, otto edizioni, traduzioniperfino in finlandese, e il premio Viareggio nella saggi-stica. Per la prima volta viene data voce agli esclusi. Par-la Andrea che racconta della rete intorno al manicomio,di loro buttati a terra perché senza sedie, in ottanta inuna sala e poi a letto alle sei del pomeriggio, anche d’e-state con il sole ancora alto. E poi Margherita dice che fa-ceva male stare legati come Cristo in croce, dalla matti-na alla sera, coi piedi e con le spalle al letto, e se si uscivain giardino si stava legati all’albero. Lo stesso raccontaCarla, che si sentiva come la principessa Mafalda chiusanel lager e non sopportava di restare sporca. «Un enor-me letamaio impregnato di un lezzo infernale», avevadetto Basaglia appena varcato il portone del manicomiodi Gorizia. L’istituzione negatarappresenta un gigante-sco “no”: alla «disumanizzazione» del malato e anche deimedici, a quella dei «violentati» e dei «violentatori». Delsuo carattere sovversivo s’accorse subito Giulio Bollati,che il 26 gennaio del 1968, su carta intestata alla casaeditrice Einaudi, annota: “Caro Franco, avrei voluto scri-verti subito per dirti che il vostro libro è bellissimo e mol-to importante. Vive delle tensioni che si producono nelsuo interno, si sostiene delle sue stesse tendenze auto-distruttive”. Troppo sottile Bollati per lasciarsi sfuggirel’inquietudine di un movimento che si nutre di contrad-dizioni senza approdare a regole definite. “Non mi stu-pirei che voi dramatis personae ne foste scontenti, irri-tati, offesi anche più di quello che se non sbaglio già sie-te: è infatti come se un gruppo di persone si fosse raccol-to non per raccontare o fingere la morte di Agamenno-

ne, ma per ucciderlo con le proprie mani”.Moriva non la psichiatria ma un certo

modo di intenderla, come insieme di nor-me e codificazioni. «Tra la malattia e il ma-lato senza dubbio mi interessa più il malato»,diceva Basaglia ai suoi interlocutori ormai dif-fusi nel mondo. Le lettere dell’archivio mostra-no una rete vastissima di relazioni, da un mae-stro della fenomenologia come Eugène Minkow-ski, sulle cui pagine Basaglia s’era formato, agliesponenti dell’antipsichiatria quali David Cooper eRonald Laing, che spingevano per il superamentodella disciplina. Anche voci più ufficiali manifestava-no attenzione per le sue posizioni eterodosse. IgnacioMatte Blanco aveva in mano Che cos’è la psichiatria?,un libro di Basaglia che introduceva parole nuove sulmondo oscuro della follia, quando nell’ottobre del 1967gli scrive: “Non sono sicuro di essere d’accordo con lei intutti i punti — il che sarebbe impossibile tra esseri pen-santi — ma condivido fortemente l’impostazione gene-rale ed ammiro l’altezza e la larghezza delle sue visioni”.

Gli animatori dell’antipsichiatria vorrebbero con-durlo dalla loro parte, ma Basaglia resiste. Vuole cam-biare la psichiatria, non cancellarla, allargando i suoiconfini ad altri campi, in una più vasta riflessione poli-tico-culturale sulle istituzioni. Lo spiega bene in unalettera a Giulio Einaudi, che lo incalza con la richiestadi altri libri. “Nell’ultimo viaggio a Londra ho parlatocon Laing, che suggeriva di organizzare un trattato diantipsichiatria di cui avrei dovuto curare la parte ita-liana. La cosa però a mio avviso è assurda: fare un trat-tato di antipsichiatria non ha senso in questo momen-to”. A Basaglia interessa di più trasformare la psichia-tria in “un’occasione di incontro-discorso politico anti-stituzionale” che offra una possibilità di azione. Unprogetto poi realizzato con Crimini di pace, volume col-lettaneo scritto insieme a Noam Chomsky e MichelFoucault, Vladimir Dedijer e il suo amico Sartre: al cen-tro è la figura dell’intellettuale-tecnico che vuole libe-rarsi dal ruolo di “funzionario del consenso” cui lo co-stringe l’istituzione. Per Basaglia una riflessione auto-biografica.

Anno di successi ma anche di tormento, il Sessantot-to. A Gorizia il lavoro si fa sempre più duro, tra moltissi-me resistenze. “Caro Max, ci sono un sacco di difficoltà,non ultima il fatto che voglio andarmene da Gorizia”,scrive a Maxwell Jones, l’inventore britannico delle “co-munità terapeutiche” dove il disagio psichico viene cu-rato con la collaborazione reciproca di medici e pazienti.“Sono in crisi anche per quel che riguarda il significatopiù profondo del mio lavoro: vivendo all’interno di unastruttura sociale sento sempre di più che il mio lavoro èfunzionale all’attuale sistema politico ed economico ri-spetto al quale sono in disaccordo, e devo trovare qual-cosa di diverso, altrimenti non vedrò alcun significato inquel che faccio”. Sarà un incidente ad allontanarlo da Go-rizia. Nel settembre del 1968, un paziente ricoverato da

tanti anni esce in permesso, litiga con la moglie e la uc-cide a colpi di scure. Per Basaglia, che pure sarebbe sta-to assolto, è un momento di «grandissima angoscia». Sidimette dalla direzione dell’Ospedale psichiatrico. L’an-no successivo va a insegnare a New York.

Per realizzare il suo progetto — chiudere il manicomioe dare vita a un nuovo sistema di servizi di salute men-tale — deve aspettare l’incarico a Trieste, sul finire del1971. È la stagione più intensamente vissuta, in unaesplosione di immaginazione e utopia. Sono gli anni diMarco Cavallo, il grande cavallo azzurro di cartapestache nella pancia custodisce i desideri di chi l’ha costrui-to, «pazzi» e «sani», teatranti e pittori. Può capitare che,nel teatro del manicomio, all’armonica di un’anziana pa-ziente risponda il sassofono di Ornette Coleman. E dal-l’aeroporto di Trieste decolla l’aereo dei matti, a bordo

del DC9 solo pazienti, medici e personale volontario del-l’Ati. Ma nel giugno del 1972 arriva l’altro fattaccio. Gior-dano Savarin, dimesso in esperimento dall’Ospedalepsichiatrico, uccide il padre e la madre. Anche in questocaso per Basaglia la sentenza sarebbe stata di assoluzio-ne, ma il processo si chiude tra molte ombre. Ancora unavolta l’amico Sartre interviene pubblicamente in suo so-stegno. Lui lo ringrazia con una lettera molto amara. “Lacosa si è conclusa molto ambiguamente”, gli scrive Ba-saglia il 25 novembre del 1975. Era stato infatti condan-nato il medico del centro di igiene mentale cui spettavail controllo. “La responsabilità viene trasferita ai centridi igiene mentale, come un prolungamento poliziescodel controllo che l’ospedale psichiatrico non può più at-tuare”. Una vittoria e una sconfitta, “perché la sentenzalascia immutato il problema della prevedibilità o impre-

LE IMMAGINI

AL CENTRO “MARCO CAVALLO”,IL GRANDE CAVALLO AZZURRO CHE NEL 1973,

A TRIESTE, RUPPE (MATERIALMENTE)LA RETE CHE SEPARAVA MANICOMIO E CITTÀ. IN ALTO UN’IMMAGINE DI BASAGLIA GIOVANE.

LE LETTERE E LE FOTOGRAFIE CHE PUBBLICHIAMO IN QUESTE PAGINE PROVENGONO DALL’ARCHIVIO

DELLA “FONDAZIONE FRANCA E FRANCO BASAGLIA”. A UN NUOVO PROGETTO DELL’ARCHIVIO

STA LAVORANDO L’ASSOCIAZIONELAVORO CULTURALE (WWW.LAVOROCULTURALE.IT)

CHE RACCOGLIE UN GRUPPODI GIOVANI STUDIOSI COORDINATO

DA SILVIA JOP E MASSIMILIANO COVIELLO

La copertina. Laboratorio Basaglia

ArchivioBasaglia

RTV - LA EFFE

LUNEDÌ SU REPTVNEWS (ORE 13.45 E 19.45, CANALE 50DEL DT E 139 DI SKY)FABRIZIO GIFUNIRACCONTAFRANCO BASAGLIA

A Sartre scriveva dei processi, al collega Maxwell Jones

confidava quanto si sentisse in crisi come psichiatra

I documenti inediti raccontanola più pazzesca

delle rivoluzioni: quella di un medico

“interessato più al malato che alla malattia”

S

Repubblica Nazionale 2015-02-15

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la RepubblicaDOMENICA 15 FEBBRAIO 2015 31

vedibilità della pericolosità del malato di mente”. Unaquestione che dopo quarant’anni è ancora irrisolta, conlo scandalo dei manicomi giudiziari tuttora in vita.

È anche per questo che la famiglia Basaglia ha decisodi rendere pubblico l’archivio dell’isola di San Servolo.«Il discorso sui matti e sui più deboli resta attuale», com-menta Alberta, che continua la tradizione famigliarecon la sua attività di psicologa. «È una storia che va avan-ti e non dobbiamo fermarci». Sartre diceva che ci sonomorti che vivono, e sono loro il nostro avvenire, il compi-to futuro. «Questo si può dire anche di Franco e FrancaBasaglia e dell’impresa da completare che ci hanno la-sciato», conclude l’antica collaboratrice Giannichedda.Morti che ci parlano da un tavolino assolato di Parigi, con-tenti di stare insieme, anche se per l’ultima volta.

A GIULIO EINAUDI

A LONDRA HO PARLATOCON LAING CHEMI HA SUGGERITODI ORGANIZZAREUN TRATTATODI ANTIPSICHIATRIA.LA COSA PERÒ A MIO AVVISOÈ ASSURDA: FARE UN TRATTATODI ANTIPSICHIATRIANON HA SENSOIN QUESTO MOMENTO

A MAXWELL JONES

CARO MAX,SONO IN CRISI ANCHEPER QUEL CHE RIGUARDAIL SIGNIFICATO PROFONDODEL MIO LAVORO.SENTO SEMPRE DI PIÙ CHE È FUNZIONALEALL’ATTUALE SISTEMA POLITICO E ECONOMICORISPETTO AL QUALE SONO IN DISACCORDO

DA GIULIO BOLLATI

CARO FRANCO,IL VOSTRO LIBROÈ BELLISSIMOMA NON MI STUPIREISE NE FOSTE SCONTENTI.È COME SE VI FOSTE RACCOLTINON PER RACCONTAREO FINGERE LA MORTEDI AGAMENNONEMA PER UCCIDERLOCON LE PROPRIE MANI

A JEAN-PAUL SARTRE

CARO SARTRE, IL PROCESSOSI È CONCLUSOAMBIGUAMENTE. È QUINDIUNA VITTORIA E, INSIEME,UNA SCONFITTAPERCHÉ LA SENTENZA LASCIAIMMUTATO IL PROBLEMADELLA PREVEDIBILITÀO IMPREVEDIBILITÀDELLA PERICOLOSITÀDEL MALATO DI MENTE

<SEGUE DALLA COPERTINA

FABRIZIO GIFUNI

MA QUESTA VOLTA sentivoche era importante, perme che lo dovevostudiare, capire come ecosa avesse studiato lui.

Chi fossero stati i suoi maestri e quanto loavessero influenzato.I padiglioni abbandonati del vecchioospedale psichiatrico di Imola servironoa raccontare la maledizionedell’ospedale di Gorizia e la suatrasformazione. Giornateindimenticabili: alla troupe del film siunirono le ragazze e i ragazzi di alcunecooperative che avevano attraversato —nella realtà — problemi di disagiomentale. Riempirono con incontenibile ea volte silenzioso entusiasmo, constrabiliante professionalità, tutte lescene delle prime assemblee goriziane. È lì, credo, che ha preso definitivamentecorpo il personaggio di Franco Basaglia.Per merito degli altri corpi e degli altrisguardi in cui mi impigliavo, tutto siconfuse. Tutti ci perdemmo. Unendo lenostre forze, scambiandoci consigli osemplicemente osservandoci da lontano.Quando ci trasferimmo a Trieste,all’ospedale San Giovanni — “la città deimatti” immersa nel parco — PeppeDell’Acqua, allievo e secondo successoredi Basaglia, fu il mio Virgilio. Dopo leriprese lo accompagnavo nei suoi giri neicentri di salute mentale, nelle microaree,in tutti quei luoghi resi possibili da unadelle leggi più avanzate al mondo. Avevoil privilegio di attraversare, per qualchesettimana, un territorio dove, ognigiorno, persone pazienti epreparatissime mettono in gioco tutte leproprie energie per aiutare “i nostrifratelli più sfortunati”. In strutturepubbliche straordinariamente civili dovenon esiste più, come diceva Basaglia, unapsichiatria per i poveri e una psichiatriaper i ricchi. Persone consapevoli che, unavolta restituita dignità e diritti civili aindividui per decenni privati di tutto, lamaggior parte del lavoro sia ancora dafare. Potevo vedere finalmente con i mieiocchi cosa significa cercare di applicarequotidianamente la Legge 180 perriempirla concretamente di senso. Ecome sia a tutt’oggi molto più faciledisattenderla in tante regioni italianedove ritardi, mancanze e cattivacoscienza consentono ancora abusi edegradi. Dove il peso viene scaricato condisinvoltura sulla famiglie, per poter dire“avete visto? È colpa di Basaglia”. E poi la paura. Quella sempre. Ilsentimento dall’innesco facile, virus dirapido e irrazionale contagio. Facilissimoalimentarla, lo sappiamo. Una cosa ècerta, disponiamo oggi di uno strumentolegislativo e culturale molto più avanzatorispetto alla sensibilità diffusa. Ci sono uomini che cominciano apensare dove gli altri finiscono. Restanosoli, spesso. Intorno non capiscono,denigrano, procurano il fallimento.Anche Basaglia ha fallito, in molti sensi.Non siamo stati all’altezza del suosguardo, non ancora.

Per vederela città dei mattiho indossatoil suo sguardo

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la RepubblicaDOMENICA 15 FEBBRAIO 2015 32LA DOMENICA

MONIKA BULAJ

PORT AU PRINCE

ON NUOTARE TROPPO AL LARGO», mi ammonisceEdward. «No, non è per gli squali, è per nondisturbare gli dei». È qua sotto che per glihaitiani inizia l’Africa, la loro terra d’origi-ne. In creolo la chiamano Guinen. È attra-verso l’acqua che le anime dei morti torna-no in patria, sopra un’isola sottomarinachiamata Ambadlò le “ombre” assumonoforma di granchio, delfino, medusa.

Edward Craft è un hungan, un sacerdote,sciamano e pittore. Mi accompagna lungo lariva dell’Oceano caldo verso il tempio del dio

Ague, Signore dei Mari. È stato lui a consacrarlo sacerdote del vudù, la religione mistericadegli haitiani. In silenzio mi accompagna per il peristilio vuoto. Qui, come nel castello ad-dormentato della fiaba, il terremoto di cinque anni fa ha congelato l’Aldilà. Tutto è fermo al12 gennaio 2010. Tra le mura spaccate una barca di pietra sta come sospesa.

Haiti può essere inferno, urina, rifiuti, fogna. Se guardi troppo impazzisci. E allora mi ar-rendo agli spifferi della metafisica, alla bellezza dei ritmi e dei canti notturni che rendono ilgiorno più abitabile. A Ville Bonheur, per esempio, dove i piedi neri delle danzatrici rovina-no i disegni bianchi vudù tracciati sulla sabbia e la corifea del corteo subito aggiusta con iltalco ogni linea. Con una mano tiene il Vangelo, con l’altra governa Vévé, il simbolo graficodi uno spirito richiamato dall’Africa che abita i crocevia tra i meridiani degli spiriti e i paral-leli dei fedeli, luoghi di appuntamento tra i vivi e i morti. Al pellegrinaggio annuale alla ca-scata benedetta i cattolici e i fedeli del vudù ci sono sempre andati insieme. E non fa nientese per i primi vi abiti la Madonna del Carmelo e per quegli altri la Dea dell’amore. Cattolice-simo e magia si sono sempre mescolati con naturalezza. Quest’anno però è successo che ilcardinale di Haiti, il bel monsignor Langlois, abbia proclamato il vudù «il più grande pro-blema sociale» dell’isola. «Sempre la stessa pena», si preoccupa una giornalista di Port auPrince. «Prima il terremoto, il colera, poi la povertà: e la colpa di chi è? Del vudù». «Voglionocacciare gli hungan perché scompaia il sapere di generazioni, il nome delle foglie e delle er-

be, perché tacciano i canti e i suoni», mi spie-ga la cattolica Joseline Colas dalla Commis-sione interreligiosa haitiana che ha subitopreso le distanze dalla dichiarazione del car-dinale. «Quando vuoi ammazzare il cane loaccusi sempre di rabbia. Dopo il terremotosono stati uccisi diversi sacerdoti vudù. Han-no picchiato anche il capo degli hungan, MaxBeauvoir. Dovresti andare a conoscerlo».

Max Beauvoir, il massimo sacerdote, mi ri-ceve nel suo magnifico giardino di uccellibianchi e vecchi alberi che conosce per no-me. «Un tempo anche la Chiesa cattolica ave-va battelli negrieri. Nella loro ottica gli schia-vi africani non avevano anima. E forse non acaso più recentemente una pastora prote-stante americana ha detto che il nostro pae-se è stato raso al suolo a causa del vudù. Mol-ti hanno tratto vantaggio da affermazioni si-mili. Ad esempio, la distribuzione dei beni disoccorso durante il terremoto di cinque annifa è passata attraverso i canali delle chiese,spesso a beneficio dei soli cristiani. Peccato,

sgozzati, piume, riso. Una donna abbracciala terra. «È qui che vogliono costruire la chie-sa, vogliono buttare cemento sulle pietre sa-cre», mi spiega Edward. All’ingresso, qual-cuno ha infilzato su una croce il tronco di unCristo senza testa che minaccia i passanticon fili di ferro al posto degli arti. Sotto le ca-scate, abitate dallo spirito femminile, sen-suale e generoso, una ragazza si contorce.Sembra morsa da un serpente. I parenti laabbracciano con forza, via via, andiamo via,non è il luogo né il tempo, che lo spirito arri-vi di notte, meglio prima dell’alba, tra le tree le quattro del mattino.

A Haiti, quando telefoni, non sai mai se tirisponderà un uomo oppure uno spirito. Lapossessione è il momento di crisi nelle reli-gioni estatiche, l’attimo più atteso. La visitadegli dei è un dono per tutta la comunità. Ilmancato appuntamento porterebbe sfortu-na. Lo vedi da attese, sguardi, premure. Itamburi chiamano a raccolta i loa dall’Afri-ca. Sono dei, spiriti, presenze. Personaggi incerca d’autore. Si presentano di colpo e ca-valcano chi hanno scelto, durante le cerimo-nie o fuori orario, uno alla volta o in epifaniecollettive. Hanno sete e reclamano costumidi scena: un berretto dei legionari polacchi,una spada, una bottiglia di rum, un fazzolet-to, un trucco per i più vanitosi. Possono vive-re solo tramite i corpi dei propri servitori.Non fanno male a nessuno, al massimo dico-no cose sconvenienti e, come solo ricordo,possono lasciare il mal di schiena al proprio“cavallo”. Sono disperatamente umani: pa-tiscono fame e parlano per proverbi, bevonosenza ubriacarsi e litigano, si offendono, vol-teggiano nelle danze, piangono e talvoltamuoiono di gelosia. La loro goffaggine è ac-colta con risate, ma le loro raccomandazionivanno prese sul serio. Sono quattrocentou-no, i loa: «Perché l’uomo ha venti dita traquelle delle mani e quelle dei piedi» mi spie-ga Beauvoir, «e per esprimere la perfezionele ha moltiplicate per venti. Poi ha aggiuntouno, per dire che i quattrocento sono una co-sa sola». Non aritmetica, metafisica.

Possessione era la parola-ossessione gron-dante sesso e sangue nel lessico degli schia-visti. Ma anche un rompicapo per gli etno-psichiatri, i medici, i teologi, gli antropologi.Questi ultimi chiamano i loa “archetipi chevivono nel cuore umano”. Ma gli haitiani san-no che “quando arrivano gli antropologi i loase ne vanno”.

Haitidegli

spiriti

Sotto quelle cascate cristiani e vudùhanno semprepregato insiemeUn’antica armoniache oggi qualcunovorrebbe distruggereE così accusa gli deidi ogni male possibileCome il terremotoche cinque anni fadevastò l’isola

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Il reportage. Luoghi sacri

«N

il cuore di ogni religione dovrebbe essere lacompassione».

Ritorno a Ville Bonheur, dove lo spirito cheparla tramite il corpo di una grossa contadi-na non presta la sua divina attenzione allaprocessione armata di croci e stendardi chele sta passando accanto. Non fanno caso alcorteo cristiano neppure le schiere deglizaka, i contadini posseduti dal dio dei campi,che vanno alla cascata dell’amore per i lorogiocosi accoppiamenti. Nella vicina chiesadel Carmelo alcune donne portano sotto lastatua dell’Immacolata fiori azzurri di pla-stica e poi cadono sotto i banchi, esauste, inun sonno senza memoria. I ragazzi arrivanoalla cascata in moto, si strusciano contro ilgrembo roccioso della dea, per garantirsi fi-gli, muscoli, amplessi. Tutti si sfilano i vesti-ti vecchi. La notte, sulle sponde del fiume esulle rocce, restano mucchi di mutande ereggiseni. Impuri. Al centro del Giardino del-le Pietre, sul Monte Calvario, si bruciano can-dele per il Dio degli incroci. Sangue di polli

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L’AUTRICE

MONIKA BULAJÈ UNA FOTOGRAFAE REPORTER POLACCA.IL SUO ULTIMO LIBROSI INTITOLA“NUR. LA LUCE NASCOSTADELL’AFGHANISTAN”.ATTUALMENTESTA LAVORANDOAL PROGETTO“LE AFRICHE. SPECCHIDELL’INVISIBILE”,TRA BRASILE, CUBA,AFRICA E HAITIDI CUI QUESTOREPORTAGE FA PARTE.IN QUESTE PAGINEALCUNE IMMAGINIDI VILLE BONHEUR,A HAITI. PER I SEGUACIDEL VUDÙQUESTE SONOLE “CASCATEDELL’AMORE”.PER LA MINORANZACRISTIANA INVECEQUI SI SALE IN PELLEGRINAGGIO PER PREGARE LA MADONNA DEL CARMELO

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la RepubblicaDOMENICA 15 FEBBRAIO 2015 34LA DOMENICA

GIULIANO ALUFFI

IL 6 NOVEMBRE DEL 1935, ad Arlington, Virginia,il burbero settantenne George Parker, ma-gnate dei giochi da tavolo Parker Brothers, ar-riva dal Massachusetts per incontrare la don-na che teme di più al mondo. Una signora spi-ritosa, una sua coetanea: Elizabeth Magie Phil-lips, o “Lizzie”, come la chiamavano tutti. «Nonapprovo il messaggio politico del suo gioco»esordisce Parker. «Però sono interessato ad ac-quistarne i diritti». Lei è estasiata. Finalmenteil gioco che aveva brevettato trent’anni prima,il Landlord’s Game, potrà essere pubblicizza-

to e distribuito su vastissima scala. E soprattutto il suomessaggio politico diffondersi. «Lo scopo del gioco non èsolo divertire, ma mostrare come, con le leggi vigenti, iproprietari terrieri siano privilegiati rispetto agli altri im-prenditori, e come il sistema della tassa unica scoragge-rebbe gli speculatori» spiegava ai giornali dell’epoca.

Nel ‘35 già molti americani conoscevano il Landlord’sGame, non tanto nella versione ufficiale pubblicata dal1910 dalla Economic Game Company di New York, quan-to in versioni ricopiate su cartoncino e personalizzate convarianti di ogni tipo. L’idea della tassa unica era stata lan-ciata nel 1880 dal politico Henry George nel libro-manife-sto Progress and poverty. Ma solo dopo il crollo di WallStreet, nel 1929, si era creato terreno fertile per idee piùprogressiste. Così, quel giorno a Magie, l’offerta di Parker— cinquecento dollari e nessuna royalty — sembrò allet-tante più per l’auspicato successo pedagogico del giocoche per la somma. E accettò. Due giorni dopo, mandò aParker questo biglietto: “Addio all’amato frutto del mio in-gegno. Addio, mio caro gioco. Mi separo da te con rim-pianto, ma ti sto dando a qualcuno che potrà fare più diquanto possa fare io per darti successo. Ti raccomando dinon deviare dal tuo alto scopo, dalla tua vera missione! Ri-corda: il mondo si aspetta molto da te”.

Ma George Parker aveva altri piani per il Landlord’s Ga-me. Quel giorno era andato ad Arlington per ucciderlo, os-sia comprarlo e produrlo in modo che Lizzie Magie non des-se fastidi (soprattutto legali) alla vera punta di diamantedella Parker Brothers: il neonato Monopoly. Era stato ilLandlord’s Game a introdurre l’idea di una tavola da gio-co che riproduce una città con le vie, quattro stazioni fer-roviarie, un parcheggio e una prigione, sulla quale muo-versi tirando i dadi, pagando tasse, pescando carte conprobabilità e imprevisti e commerciando in proprietà. L’u-nica differenza tra il Landlord’s Game e il Monopoly era lospirito: progressista il primo, capitalista il secondo.

Ma cominciamo dall’inizio. Nel 1906 Magie si era tra-sferita dalla sua piccola Canton, nell’Illinois, a Chicago. Esi era ritrovata subito in difficoltà: il salario da stenografa,dieci dollari la settimana, non bastava. Così mise un’in-serzione sui giornali: “Offresi giovane schiava americana.Bruna, grandi occhi grigio-verdi, labbra piene, dentisplendidi. Non bella, ma attraente. Rare capacità dram-matiche. Intrattenitrice nata. Religiosa, ma non pia. Abi-lissima dattilografa, ma la dattilografia è un inferno”. Lasua provocazione fece il giro del mondo. Lizzie Magie ri-velò al Washington Post che il suo intento era sottolinea-

Scrittrice e femminista, centodieci anni fa inventò

un gioco contro lo strapotere dei proprietari terrieri

Poi qualcuno le rubò l’idea, stravolgendogliela

E fu così che, trent’anni dopo, il capitale trionfò

re le scarse prospettive di emancipazione sociale offertealle donne. «Se potessimo essere ridotte allo stato di mac-chine, che hanno solo bisogno di essere oliate, forse diecidollari basterebbero. Ma non siamo macchine». «Mostròun’audacia straordinaria per una donna del suo tempo»racconta oggi alla Domenica di Repubblica Mary Pilon,giornalista del New York Timesche sta per pubblicare ne-gli Usa The monopolists: obsession, fury and the scandalbehind America’s favorite board game (Bloomsbury), li-bro-inchiesta in cui ripercorre, a partire dal Landlord’s Ga-me, la vera storia del Monopoli. Eccola dunque.

All’inizio il Landlord’s Game si era diffuso negli StatiUniti tramite passaparola. Chi ne veniva a conoscenza ten-deva a costruirsi da sé l’occorrente riproducendo con qual-che variazione la mappa. Fu così anche per Daniel Lay-man, pubblicitario, che nel 1931 produsse la sua versionedel “gioco del monopolio” (come ormai lo chiamavano tut-ti), cambiò il nome di qualche via e corredò il tutto di soldifinti introducendo un elemento nuovo: casette in minia-tura, di legno di artigianato russo, che gli erano state re-galate da un amico. Infine ribattezzò il gioco Finance per-ché non si confondesse con quello di Magie. Il gioco si dif-fuse ad Atlantic City, soprattutto nella comunità dei quac-cheri. Poi, a Filadelfia, un tale Charles Todd ricopiò unadelle tavole arrivategli da Atlantic City: copiando commi-se però un errore, e i “Marven Gardens” della città del NewJersey divennero i “Marvin Gardens”. Il caso volle cheTodd iniziasse a giocare con un commerciante caduto indisgrazia, Charles Darrow, il quale un giorno chiese all’a-mico di scrivergli tutte le regole su carta. Darrow do-mandò poi a un vicino, Franklin Alexander, vignettista, diridisegnare la tavola che prese l’aspetto del Monopoliodierno. Quindi lo commercializzò con i disegni diAlexander e i nomi delle vie riscritte da Todd, Marvin Gar-dens compresa. Nel marzo 1935, ottant’anni fa, la svolta:Robert Barton, presidente della Parker Brothers, comprala versione di Darrow per settemila dollari. Per cautelarsigli chiede di scrivere in che modo avesse ideato il Mono-poly. Darrow gli consegna un testo dove si presenta comeil solo inventore delle regole e dei nomi del gioco, nonchécome unico illustratore. Nessuna menzione né al Land-lord’s Game, né a Finance o al suo vicino Alexander.

Finisce così la storia di Lizzie Magie e inizia quella delsuccesso planetario del Monopoly. Un finale con un para-dosso e un ironico prequel. Il paradosso è fin troppo ovvio:il gioco nato per diffondere maggior equilibrio economicosi trasfigura nel simbolo del capitalismo americano e di-venta, esso stesso, un monopolio. Meno evidente il prece-dente. Nel 1897 una certa Lizzie Magie, aspirante scrit-trice, attrice dilettante e attivista politica, aveva pubbli-cato sulla rivista Godey’s un racconto intitolato Il furto diun cervello. Narrava di una giovane scrittrice che si affi-dava a uno psicoterapeuta per vincere la paura del-l’ipnosi. Dopo un po’ di sedute, al mo-mento di pubblicare il libro, la donnasi accorge che in libreria il suoromanzo esiste già. È un be-stseller. Solo che la firma incopertina non è la sua. È quel-la dello psicoterapeuta.

Mrs. Magiee lavera storiadel Monopoli

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PRIMO

LA VERSIONEORIGINALEDEL LANDLORD’SGAME: IL GIOCOFU BREVETTATODA LIZZIE MAGIE NEL 1904

SOCIALISTA

UNA VARIANTEDEL TABELLONEUSATO DALLACOMUNITÀ“SOCIALISTA”DI ARDEN,(DELAWARE)NEL 1904

CELEBRE

LEGGERMENTECAMBIATARISPETTOALL’ORIGINALEE PIÙ CURATANELLA GRAFICALA VERSIONEDEL 1906

IL PERSONAGGIO

ELIZABETH MAGIEPHILLIPS DETTA “LIZZIE” E, AL CENTRODELLE PAGINE, IL SUO LANDLORD’SGAME BREVETTATONEL 1904

ANNI VENTI

NEL 1924LIZZIE MAGIE SI SPOSA PRENDENDO IL COGNOME PHILLIPS E RIBREVETTAIL GIOCO

L’anniversario. Imprevisti

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STEFANO BARTEZZAGHI

L PIÙ GRANDE FILOSOFO DEL GIOCO, RogerCaillois, ha scritto nel suo I giochi e gliuomini: «Il Monopoli riproduce ilfunzionamento del capitalismo, nonviene dopo il capitalismo» (1967). Il

curatore dell’edizione italiana del libro,nonché ineguagliato esperto di giochi,Giampaolo Dossena ha commentato: «Intutto il libro, questa è l’unica affermazioneda respingere» (1981). Dossena conoscevagià la storia di Lizzie Magie Phillips e deirapporti tra il Monopoli e la digrignantevoracità del Capitale si parla da tempo. Atanta distanza da questo dibattito si puòpensare che in questione non ci sia unaprecedenza cronologica, quanto una sortadi omologia. Il Monopoli funziona meglio diprecursori ed emulatori per gli stessi motiviper cui “funziona” il capitalismo, ovveroperché gioca su quella pulsione che sulpiano sociale ancor oggi i neoliberistivorrebbero vedere in campo svincolata da“lacci e lacciuoli” (che poi sarebbero regoledi gioco): la pulsione all’accumulo, priva diremore. Che il Landlord’s Game fosse ungioco solidarista e la sua inventrice fossefemminista, che altre emulazioni di scarsosuccesso si siano chiamate Anti-Monopoly eLotta di Classe e cercavano di fondarsi su“valori” meno gretti di quelli capitalistici,tutto ciò offre certo suggestioni politiche,magari un po’ superficiali (del genere: iboxer sono di sinistra e gli slip di destra):solo uno spin off dell’ultimo film dellaArchibugi dedicato al tema potrebbemetterne in evidenza la vacuità. In realtà acontare non sono i nomi, le analogie fragioco e realtà, destra e sinistra, solidaristi ePaperoni. È il punto su cui Dossena finisceper concordare con Caillois: a contare è lapulsione al gioco, ciò che ce lo fa preferire aun altro gioco. La sopraffazione di ogniavversario per accumulo di potenzaeconomica è la molla del successo delMonopoli, ed è quella del successo delcapitalismo. Può non fare piacere. Nel caso,almeno il gioco si può cambiare. Alcapitalismo, invece, sembriamo destinati oaddicted, come giocatori compulsivi.

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Alla finevince sempreil più forte

ANNI TRENTA

NEL 1939CIRCOLAUN TABELLONEDEL LANDLORD’SGAME A FIRMAPHILIPPSDEL TUTTODIVERSO

MONOPOLY

NEL 1935LA PARKER BROSACQUISTADA TAL CHARLESDARROWIL GIOCO:NASCE COSÌMONOPOLY

IL LIBRO

“THE MONOPOLISTS”DI MARY PILON(BLOOMSBURY)È IL LIBRO-INCHIESTASULLA NASCITADEL MONOPOLYIN USCITANEGLI STATI UNITI

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Spettacoli. American sniper

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MARC BASSETS

CARMEL BY THE SEA (CALIFORNIA)

ISPETTORE CALLAGHAN HA BISOGNO DI RIPOSO. Solo una pausa, quanto ba-sta per rimettersi in sesto e tornare al suo lavoro: girare film. «Ho fat-to due progetti di fila quest’anno e ho detto ai miei figli che mi pren-derò sei mesi per riposare e migliorare in altri ambiti», mi dice. Qualiambiti? In realtà Clint Eastwood ha smesso da decenni di essere l’i-spettore Callaghan. Oggi è uno dei cronisti più accurati dell’Americacontemporanea, anche se conserva ancora qualcosa dell’uomo senzanome degli spaghetti western di Sergio Leone a cui è attribuita la ce-lebre definizione: “Eastwood ha solo due espressioni: col cappello esenza”. Quando gli chiedo cos’ha in mente di fare, mette le mani co-me se stringesse una mazza da golf e colpisce l’aria. «Non mi dica»,sorride l’addetta stampa.

Un viaggio alla ricerca dell’America di Eastwood non può non par-tire da Carmel. A cinquecento chilometri da Los Angeles, sulla costa del Pacifico, questo paesino di quat-tromila abitanti è il suo paradiso privato da quando, negli anni Cinquanta, ai tempi della Guerra di Co-rea, svolse qui il suo servizio di leva nella vicina base di Fort Ord e scoprì questa bolla di lusso e sofistica-tezza. Qui ha cresciuto i suoi figli, qui ha vissuto con le sue donne, qui si rifugia dallo strepito della vitamondana. E qui gioca a golf. Non è l’America dei suoi film: le strade malfamate, le città degradate, le brul-le praterie del Far West. A Carmel, che prende il nome dalla chiesa di San Carlo Borromeo del Carmelo,fondata nel 1771 dal frate maiorchino Junipero Serra, Eastwood possiede un pub, un villaggio turistico,un circolo di golf. Malpaso Road, la strada che dà il nome alla sua società di produzione, sta ad alcuni chi-lometri di distanza in direzione di Big Sur, la zona di boschi e scogliere santuario dei beatnik e degli hippynegli anni Cinquanta e Sessanta. “Clint”, lo chia-mano tutti. E gli aneddoti si sprecano. Raccontanoche una volta aiutò una divorziata che non riuscivaa pagare la rata del mutuo. O che cederà dei terre-ni al Comune per garantire il rifornimento idriconei periodi di siccità. Carmel diventò improvvisa-mente nota quando Clint fu eletto sindaco, alla fi-ne degli anni Ottanta. Amministrava il paesino edera come se girasse il film dei suoi abitanti: Clint cit-tadino, Clint cineasta. Lontano dai riflettori di Hol-lywood, questa è Clint City. «C’è come un alone dimagia con Eastwood qui», dice Nico Groslambert,un barcellonese che frequenta da anni la regione evive nella vicina Monterrey. «È un po’ come un giu-stiziere, un Robin Hood». Le strade di Carmel ri-splendono incontaminate: prima che Eastwood di-ventasse sindaco era addirittura proibito mangia-re gelati in giro. Oggi il centro della cittadina è pie-no di ristoranti, negozi di lusso, gallerie d’arte. Quila cosa peggiore che può succedere è che uno squa-lo azzanni un surfista giù alla spiaggia. «Difficilerimpiazzarlo», dice il sindaco attuale, Jason Bur-nett. Carmel è un paesino colto ed elegante. Sugliscaffali di uno dei caffè di Ocean Avenue ci sono li-bri in francese e in giapponese. Sul tavolo vicino gliavventori parlano dell’attentato contro CharlieHebdo. Il primo cittadino è in bermuda. «Come exsindaco è straordinario. È sempre pronto a darmiconsigli quando glieli chiedo. Se si intromette è so-lo per dare una mano. Lo apprezzo. E parlo spessocon lui». Gli telefona? «Sì. E mi risponde sempremolto in fretta, se si pensa a tutti gli impegni cheha».

“Ma che americano è stato, Clint Eastwood! For-se non è mai esistito un altro americano come lui”,scrisse nel 1983 Norman Mailer, uno dei primi ascorgere in Eastwood qualcosa di più del tipo da we-stern e film d’azione che tutti conoscevano. In un’e-poca in cui critici e intellettuali lo disprezzavano,Mailer lo paragonava a Hemingway. “Quello chedistingueva Eastwood da altre star”, ha scritto,“era che i suoi film (specie da quando ha comincia-to a dirigerli) finivano per parlare, via via sempredi più, della sua visione della vita in America”. A ot-tantaquattro anni, un’età in cui la maggior partedelle persone si gode la pensione, Eastwood lavorasenza posa. Alcuni dei suoi film migliori — Gli spie-tati, Million Dollar Baby, Mystic River, Flags of OurFathers, Gran Torino— li ha girati dopo i sessanta.American Sniper, basato sulla storia vera di ChrisKyle, il cecchino più efficiente nella storia delle for-ze armate americane, è il suo trentottesimo film,quasi il doppio quelli a cui ha preso parte come at-tore. Non sa indicarne uno in particolare per il qua-le vorrebbe essere ricordato. «No», dice. «Uno no.Solo l’insieme della mia opera. Quello che la gentericava dai miei film. Quando finisci un film, non èpiù tuo: spetta al pubblico interpretarlo o scartar-lo».

Sei anni fa, durante un’intervista a New York, midisse che era troppo presto per affrontare il tema

guardi da un punto di vista diverso», dice. «Li guar-di dall’alto di ottantaquattro anni di conoscenza,non quarantaquattro o qualsiasi altra età. Proba-bilmente tutto è diverso. Probabilmente avrei fat-to cose diverse in passato se potessi tornare indie-tro». Quali? «Vali soltanto quello che sai in quel da-to momento. Sono sicuro che con le conoscenze cheho adesso, certi temi che ho affrontato in passato litratterei in modo diverso. Ma forse non sarebbe ungran bene, perché con l’età magari perdi qualcosa,o trascuri certe cose. Chi può saperlo?».

In Clint Eastwood il passato è presente. Ogni suastoria è impregnata della sua biografia. Tutte leguerre sono la stessa guerra. Ricorda le strade diOakland, una delle città della California in cui è cre-sciuto, alla fine della Seconda guerra mondiale.«Non ci sarà mai più nessun’altra guerra, questo èil finale, dicevano. Quattro o cinque anni dopo fuireclutato per la guerra di Corea, e alcuni anni dopoci fu quella del Vietnam; e poi abbiamo continuato,siamo andati in Iraq per cercare di proteggere i vi-cini dell’Iraq, e ci siamo tornati dopo per acciuffareSaddam Hussein, e ci siamo tornati senza un piano.Mi accorgo che non c’è nessun piano nella vita e chemolte cose dipendono dalle circostanze. Uno dei di-lemmi dell’umanità è che è destinata a lottare».

Eastwood è figlio della Grande Depressione. Isuoi genitori giravano la California facendo piccolilavoretti per tirare avanti. «In quel momento nonlo capivo, ma ora sì: li vedevo faticare per arrivarealla fine del mese. C’è stata un’epoca, negli anniTrenta, in cui la guerra consisteva nel sopravvive-re in una situazione economica terribile, in un pe-riodo in cui non esisteva lo Stato sociale, nessuno tidava niente. Se andavi in rovina eri in rovina e ba-sta. Invecchiando sei sempre più restio a tornarepessimista, ma bisogna capire quel vecchio detto:chi non fa caso alla storia è destinato a ripeterla. Edè vero, perché la maggioranza delle persone nonpresta attenzione alla storia. Sicuramente noiamericani non lo abbiamo fatto».

C’è qualcosa che non si incastra fra il mondo incui è cresciuto Eastwood e quello di adesso. «Vivia-mo in una società molto paurosa, dove nessunovuole essere offeso. Quando ero bambino, la gentescherzava sulle questioni razziali, ridevamo gli unidegli altri. Ora, negli Stati Uniti, sembra che biso-gna dare un trofeo a tutti i bambini a scuola per evi-tare di offendere qualcuno».

Dagli anni Cinquanta in poi Clint vive dentro labolla di Hollywood. Ma anche dentro la bolla di Car-mel, dove secondo l’Ufficio del censimento non ri-siede nemmeno un afroamericano. Non si vedononemmeno poveri per le strade immacolate di unadelle capitali dell’un per cento più ricco, nel Paesedelle disuguaglianze. Gli Stati Uniti di Clint non è aCarmel che bisogna cercarli. Il viaggio termina do-po venti chilometri lungo la strada che conduceverso l’interno, verso la valle agricola di Salinas, so-prannominata l’insalatiera del mondo. “È una de-pressione lunga e stretta tra due catene montuose,e il fiume Salinas scorre e si insinua in mezzo allavalle fino a sfociare nella baia di Monterrey”: così ladescrive il suo figlio più celebre, John Steinbeck, neLa valle dell’Eden. La città di Salinas, con 155.000abitanti, è il capoluogo della contea di Monterrey.Ed era l’Eden di Steinbeck e del film omonimo, conJames Dean come protagonista. Non lo è più. Sali-nas è una delle città con il più alto tasso di omicidipro capite della California. Per anni è stata territo-rio delle gang, le bande criminali ispaniche comeLos Norteños. I veterani di guerra addestravano ipoliziotti di Salinas: i primi insegnavano ai secondicome applicare nella lotta alle gang i metodi anti-guerriglia. «Fare il poliziotto è un lavoro duro. Nonmi piacerebbe farlo, anche se ne ho imitato uno.Spesso hai la società contro, ma nonostante questohai il dovere di proteggere le masse. Immagina co-me sarebbe il Paese senza gli agenti. Sarebbe comeil Far West o qualcosa di simile», dice Eastwood e sista riferendo a Ferguson. «La società ha bisogno deipoliziotti. Loro però devono prendere le decisionigiuste».

(Traduzione di Fabio Galimberti) © El Paìs Semanal

...CON L’ETÀAFFRONTI TEMINUOVI DA UN PUNTO

DI VISTA DIVERSO.LI GUARDI DALL’ALTODI OTTANTAQUATTROANNI DI CONOSCENZA.INTENDO DIREOTTANTAQUATTRO.NON QUARANTAQUATTRO

Acasa diClint© RIPRODUZIONE RISERVATA

LE FOTO

A SINISTRA UN RITRATTODI CLINT EASTWOOD, 84 ANNI.QUI SOTTO DUE IMMAGINIDELLA CITTÀ IN CUI VIVE, CARMEL

delle guerre degli Stati Uniti in Iraq e in Afghani-stan. Con American Sniper finalmente lo ha fatto.Il film, che ha avuto un grande successo nelle salee ha scatenato polemiche fra chi lo giudica dema-gogico e razzista e chi ritiene invece che rispecchiefficacemente le conseguenze della guerra, ha ri-cevuto sei nomination agli Oscar: se vincerà qual-che statuina, andranno ad aggiungersi alle cinquegià esposte in bacheca. «Quello che ho cercato di farvedere è che Kyle amava quello che faceva. All’ini-zio deve aver sentito l’eccitazione di uccidere cen-tosessanta persone, però arriva un momento incui… Cerchiamo di far vedere che non erano solocentosessanta soldati, c’erano anche donne e bam-bini». Così tanto dolore e così tante morti lascianostrascichi. «Puoi dire a uno psichiatra che alla fineandrai di fronte al tuo Creatore sapendo di aver fat-to la cosa giusta. Ma lo pensi veramente? E quandolui dice questo allo psichiatra, si vede nello sguar-do che la sua energia viene un po’ meno, come suc-cede quando una persona cerca di mettersi in buo-na luce. A volte, quando cerchi di giustificarti conte stesso, finisci per tradirti».

Eastwood si muove sul filo dell’ambiguità. Nonsi lascia intrappolare in una definizione unica. Nel2012 ha fatto campagna per Mitt Romney, il can-didato repubblicano alla Casa Bianca, ma in politi-ca estera le sue posizioni sono più vicine alla sini-stra. Si è costruito una fama di uomo di destra conCallaghan, ma è più vicino a quello che negli StatiUniti viene definito un libertarian, una personache desidera che lo Stato si immischi il meno possi-bile nella sua vita. Potrebbe sembrare che Ameri-can Sniper sia un’esaltazione spudorata dei guer-rieri, e molte delle critiche sono incentrate propriosu questo punto. Ma lui mi dice che il film può esse-re interpretato come una dissertazione contro dueguerre — Afghanistan e Iraq — anomale per gli Sta-ti Uniti.

La promozione di un film è un’operazione com-plessa. Bisogna mobilitare addetti stampa e con-vocare a Los Angeles giornalisti da tutto il mondo.Include regole come astenersi dal chiedere auto-grafi e fotografie all’intervistato, o consegnargliregali. Costringe ad aspettare quattro ore per po-ter parlare faccia a faccia con la star. L’incontro conEastwood prosegue nell’atrio di un teatro all’in-terno degli studi della Warner Bros, tra strade fin-te usate per le riprese e capannoni immensi cheospitano i set. Durante una delle interviste si sentenella sala qualcuno che sta parlando al telefono. Ea-stwood fa un urlaccio: «Piantala di dare fastidio!».Le sue addette stampa ridono. Come a dire: è fattocosì. Clint si avvicina al tavolo. Indossa un paio diNike malconce e una giacca scura. Cammina drittoe sorridente. Mentre parliamo, sgranocchia ara-chidi e beve acqua. Si dilunga nelle risposte. Solodopo, ascoltando quella voce logora nella registra-zione, mi sono reso conto davvero della sua età.L’età altera lo sguardo. «Affronti temi nuovi e li

Mentre il suo cecchino

è candidato all’Oscar

Eastwood si riposa

nella linda cittadina

di cui è stato sindaco

“Prossimo impegno

una partita a golf”

... È COME UN ROBINHOOD. SI DICECHE UNA VOLTA

AIUTÒ UNA DIVORZIATAA PAGARE LA RATA DEL MUTUO. E PAREVOGLIA CEDERE DEI TERRENI AL COMUNEPER RIFORNIRLO D’ACQUANEI PERIODI DI SICCITÀ...

Viaggio a Carmel: “Non cercate qui l’America che racconto nei miei film”

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la RepubblicaDOMENICA 15 FEBBRAIO 2015 38LA DOMENICA

ARTURO DI CORINTO

PRIMA ERANO SOLTANTO CATTIVI: gli at-tacchi alle playstation Sony e le mi-nacce ai distributori del film The In-terview come rappresaglia alla fic-tion sull’attentato al presidentenordcoreano Kim Jong-un, i colpi as-sestati dalla cyberjihad ai governi fi-loccidentali, le dichiarazioni di Oba-ma sul terrorismo digitale. Poi però,da quando la scorsa settimanaAnonymous ha attaccato l’Isis(“Tempo scaduto, stiamo arrivan-

do, sarete trattati come un virus”) l’opinione pubblica mondia-le ha improvvisamente “scoperto” una cosa solo apparente-mente ovvia: e cioè che gli hacker non sono tutti uguali. E che adividere gli hackerda una parte e i cracker, lamer, black hatdal-l’altra è una a volte sottile linea etica: tecniche e competenze so-no simili, diversi gli obiettivi e la portata delle azioni. E in futuroquesta demarcazione sarà sempre più evidente.

Già, il futuro. Soprattutto dopo il successo di The Imitation Ga-me, il film sulla vita di Alan Turing, il teorico dei computer mo-derni, molti si domandano come saranno gli hacker di domani equali i loro obiettivi. Secondo Giovanni Ziccardi, professore diinformatica giuridica alla Statale di Milano e autore del libroHacker. Il richiamo della libertà (Marsilio 2013), il futuro del-l’hacking si svilupperà lungo tre filoni complessi: «Innanzituttole microinvasioni della privacy, per esempio sfruttando i droniche oltrepassano i tradizionali confini delle mura domestiche ecatturano perfino gli odori. Poi la manomissione dei computerindossabili e in particolare degli strumenti che monitorizzano

la salute e l’internet delle cose. Ma l’obiettivo più attaccato saràil potere, per denunciare la corruzione politica e ottenere mag-giore trasparenza da parte delle polizie». Quest’ultima è propriola direzione in cui si muove già oggi Anonymous, vasto ed ete-rogeno gruppo di hacker e attivisti che due mesi fa aveva de-nunciato le collusioni tra il Ku Klux Klan e la polizia di Fergusone che ha avviato ora una vasta campagna di attacco nei confrontidel cybercaliffato in risposta alla strage di Parigi avvenuta a gen-naio nella redazione del settimanale satirico Charlie Hebdo.

Sugli altri due filoni entra maggiormente nel dettaglio Ales-sandro Berni del Centro Ricerche Nato Cmre di La Spezia: «Laprogressiva dipendenza tra sistemi fisici e digitali, la vulnera-bilità nella fornitura dei servizi essenziali come acqua, luce,energia, avranno pesanti ripercussioni sullasfera privata delle persone. Mi riferisco soprat-tutto al cosiddetto internet delle cose, alla do-motica, alle smart cities, alla telemedicina e aisistemi di trasporto intelligenti. Se le potenzia-lità di tutte queste nuove tecnologie sonostraordinarie, è chiaro come la protezione delle

Next. All’arrembaggio

Galassia

Ethical hackerTIPOLOGIA: RICERCATORI,PROGRAMMATORI E SVILUPPATORI INFORMATICI

BERSAGLI: SOFTWARE,HARDWARE, TLC, PROTOCOLLI

INTERNET, DATABASE, NETWORK FINALITÀ: FAVORIRE L’ACCESSO AI

DATI, ALLE RETI DI COMUNICAZIONE,MIGLIORARE RETI E COMPUTER PER DIFFONDERECONOSCENZA, AUMENTARE LA LIBERTÀ DI SCELTA E TUTELARE I DIRITTI CIVILIAZIONI ECLATANTI: CREAZIONE DI LINUX, SOFTWARE DI CRITTOGRAFIA A CHIAVE PUBBLICAPGP, OPEN OFFICE, LICENZE COPYLEFT (GPL)

TIPOLOGIA: INFORMATICI,PROGRAMMATORI, SCIENZIATICOGNITIVI, BIOLOGI

BERSAGLI: DATABASE SCIENTIFICI, NANOTECNOLOGIE,

HARDWARE NEURONALE FINALITÀ:RENDERE ACCESSIBILI

I DATI SCIENTIFICI, SUPERARE LA LOGICABREVETTUALE, MIGLIORARE HARDWARE E SOFTWARE PER LE CURE SANITARIEAZIONI ECLATANTI:CRACKING DELLE CARTELLE CLINICHE DI SOGGETTI AFFETTI DA TUMORI PER INDIVIDUARE CURE ALTERNATIVE

TIPOLOGIA: INFORMATICIESPERTI, ANALIZZANO I DATI COMPLESSI

BERSAGLI: DATI AGGREGATI SU QUALSIASI SUPPORTO,

IN PARTICOLARE NEI SISTEMI CLOUDFINALITÀ: TROVARE CONFIGURAZIONI

SIGNIFICATIVE ALL’INTERNO DI MASSE DIDATI CON FINI DI PREVENZIONE DI CATASTROFI,PIANIFICAZIONE DI AZIONI SANITARIE E REPRESSIONE DI COMPORTAMENTI ILLECITIAZIONI ECLATANTI: NON NOTE

HacktivistTIPOLOGIA: ATTIVISTI DIGITALICON FORTI MOTIVAZIONIETICHE

E SOCIALI BERSAGLI: GOVERNI,

CONGLOMERATE MEDIA, LOBBIES,BANCHE, MULTINAZIONALI, SETTE

RELIGIOSE, GRUPPI CRIMINALI,XENOFOBI E RAZZISTI, SUPREMATISTI, CARTELLI DELLA DROGA FINALITÀ: DENUNCIARE, CRITICARE, SABOTARE,OTTENERE IL CONTROLLO DI INFORMAZIONI E RISORSE PER LA COMUNITÀ DI RIFERIMENTOAZIONI ECLATANTI: NAZILEAKS, PAYBACK,#OPKKK

TIPOLOGIA: INFORMATICIESPERTI, ANALIZZANOSOFTWARE E SISTEMI

COMPLESSI, METTENDONE ALLA PROVA LA RESISTENZA

BERSAGLI: NETWORK, SOFTWARE,HARDWARE, DATABASE, HOST

E SERVICE PROVIDER, WEARABLECOMPUTER, SISTEMI DI SORVEGLIANZAFINALITÀ: TROVARE VULNERABILITÀ PER CORREGGERLEAZIONI ECLATANTI: NESSUNA

Bio hacker

Data hacker Sneaker

Sembravano solo cattivi

ma dopo gli attacchi

di Anonymous all’Isis

il mondo ha scoperto

anche il volto buono

dei pirati informatici

Ecco la flotta più eterogenea

del grande mare del web

Repubblica Nazionale 2015-02-15

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la RepubblicaDOMENICA 15 FEBBRAIO 2015 39

diverse entità connesse in Rete sia una sfida aperta». In effetti,con l’aumentare dei dispositivi connessi (saranno, secondo lestime, cinquanta miliardi nel 2020), la centralizzazione dei da-tabase, la moltiplicazione delle transazioni digitali, lo sposta-mento di molte funzioni verso il cloud, gli attacchi sono destinatia moltiplicarsi esponenzialmente. Pensiamo solo a cosa potreb-be accadere se i database della sicurezza aeroportuale venisse-ro penetrati e i dati delle impronte usati per costruire polpa-strelli artificiali con una stampante 3D. Scenario terrificante aitempi dell’Isis, ma non implausibile. Prendere il controllo di te-lecamere di sorveglianza e memorie flash Usb, è già realtà.

Stessa sorte riguarderà i dispositivi di memoria che indos-siamo. I wearable computercuciti nei vestiti, indossati come ac-

cessori (occhiali, cappello, orologio), sono co-stantemente connessi con server always on epotenziale target di manipolazioni. Per questoci sono i white e blue hat hackers: testano la si-curezza di ogni smart device d’uso comune e illoro numero è destinato ad aumentare. Un’al-tra tendenza che si sta affermando è quella re-

lativa alle richieste di riscatto monetario da parte di hacker cri-minali che bloccano account personali: se non paghi scordati l’e-mail e l’accesso ai documenti di lavoro. Il ransomware CBT-Locker, un virus che cifra e rende illegibili i documenti della vit-tima chiedendo un riscatto in bitcoin, ha infettato migliaia di pcin Italia proprio in questi ultimi giorni.

Non è d’accordo su questa visione del futuro Salvatore Iaco-nesi, hacker italo-americano: «Gli hacker del futuro saranno glistessi del presente. L’avanzamento delle scienze e delle tecno-logie non ne muta l’approccio. Diversa sarà solo la materia. Ilmondo dei dati prodotti in maniera ubiqua da corpi, spazi e og-getti connessi, una volta elaborati algoritmicamente, sarà co-me sempre oggetto di sperimentazioni e manipolazioni, nel be-ne e nel male». Anche Alessandro Delfanti, autore di Biohacker,sostiene che la nuova “materia” sarà appunto il biohacking: «Neiprossimi anni lavoreremo sempre di più per rendere dati e co-noscenze mediche e scientifiche accessibili e interoperabili».Secondo il giovane ricercatore, l’approccio del biohacking è per-fetto per illuminare il ruolo ambiguo degli hacker nella societàfutura: da un lato porteranno una forte critica al sistema dei me-dia digitali, ai monopoli, alla proprietà intellettuale, alle nuoveconcentrazioni di potere; dall’altro sviluppando il capitalismodigitale delle grandi imprese della Silicon Valley, saranno pron-ti a trasformare in strumenti di profitto tecnologie nate comeforme di opposizione alla cultura dominante.

Il più ottimista di tutti è l’hacker Denis Jaromil Rojo, ideatoredi un sistema operativo per la produzione multimediale basatosu Linux: «Il futuro dell’hacking? Per quanto mi riguarda sta nel-lo sviluppo di software libero e di reti di comunicazione indi-pendenti per creare comunità e superare il digital divide che af-fligge due terzi del pianeta».

© RIPRODUZIONE RISERVATA

TIPOLOGIA: MERCENARI,DIPENDENTI DI AGENZIE DI SICUREZZA, MILITARI, ANALISTI

GOVERNATIVI, SPIE AZIENDALIBERSAGLI: INFRASTRUTTURE

CRITICHE, AEROPORTI, DIGHE, RETIENERGETICHE, OSPEDALI, CENTRALI

NUCLEARI, SISTEMI DI COMANDO E CONTROLLOFINALITÀ: ACQUISIRE LA SUPERIORITÀINFORMATIVA RISPETTO A TARGET AVVERSARI O CONCORRENTI, SOTTRARRE DATIAZIONI ECLATANTI: CREAZIONE DI STUXNET;DDOS ESTONIA

TIPOLOGIA: ESPERTI DI MALWARE, SPAMMERSBERSAGLI: SOFTWARE,

DATABASE, HOST E SERVICEPROVIDER, ROUTER, CLOUD,

PERSONAL E CORPORATE DATAFINALITÀ: RUBARE

E COMMERCIARE DATI AZIENDALI,SEGRETI INDUSTRIALI, MANIPOLARE PROFILIATTRAVERSO IL PHISHINGAZIONI ECLATANTI: FALSE EMAILDOPO LO TSUMANI IN GIAPPONE CON RICHIESTEDI DONAZIONI PER “ASSISTENZA UMANITARIA”

TIPOLOGIA: ESPERTO DI MARKETING, DATA ENGINEER

BERSAGLI: SOCIAL MEDIA, SOCIAL NETWORK,

SITI WEB AZIENDALIFINALITÀ: L’OBIETTIVO

DEL GROWTH HACKER È AUMENTARE IL TRAFFICO E LE CONVERSIONI, PER TRASFORMARE QUANTI PIÙ VISITATORIPOSSIBILI IN UTENTIAZIONI ECLATANTI: NON RILEVANTI

TIPOLOGIA: GIOVANIVANITOSI CHE UTILIZZANOSCRIPT FATTI DA ALTRI,

RAPPRESENTANO LA FORMALARVALE DEL CRACKER CHE VIOLA

SOFTWARE E RETI PER OTTENEREUN VANTAGGIO PERSONALE

BERSAGLI: SOFTWARE, DATABASE,INTERNET SERVICE PROVIDER, SOCIAL NETWORKFINALITÀ: DIMOSTRARE E VANTARSI DI COMPETENZE INFORMATICHE, ARRECARE DANNIAZIONI ECLATANTI: HACKER DICIOTTENNEINFETTA I PROFILI TWITTER DI BARACK OBAMA E BRITNEY SPEARS

Ninja TIPOLOGIA: MERCENARI AL SOLDO DI QUALCUNOBERSAGLI: SOFTWARE,

HARDWARE, DATABASE, HOST E SERVICE PROVIDER, NETWORK,

CLOUD, PERSONAL DATAFINALITÀ: COMMERCIO ILLEGALE

DI DATI, RICATTO VERSO LE AZIENDE,INTRUSIONI DISTRUTTIVEAZIONI ECLATANTI: NON CONFERMATE

TIPOLOGIA: INFORMATICIESPERTI, PSICOLOGI,INVESTIGATORI PRIVATI

BERSAGLI: DATABASE, MAILBOX, SERVIZI

DI HOMEBANKING, PRENOTAZIONE E ACQUISTO

FINALITÀ: OTTENERE IL FOOTPRINTING DEGLI ADDETTI DEL SISTEMA DA ATTACCARE PER LA SUCCESSIVA INTRUSIONEAZIONI ECLATANTI: NON NOTE

Cyber soldier

eMuggerSocial engineer

Script kiddies

hacker

Growth

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Repubblica Nazionale 2015-02-15

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la RepubblicaDOMENICA 15 FEBBRAIO 2015 40LA DOMENICA

TokyoLa capitalemondiale dei tre stelle(dodici) splende per l’offertaincentrata sulla vera cucina nipponica

La guidaUn manifesto

della guidaMichelin del 1920

Sapori. Altissimi

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14 cittàristorantipiatti e chef

ParigiSono nove i super ristoranti nella capitale del paese col maggiornumero di tristellati al mondo, ben ventisei

KyotoAlta cucinagiapponese(kaiseki) neisette ristorantitristellati, a partire dal Chihana, nel quartiereHigashiyama,fondato nel 1946

Hong Kong&MacaoDei sette localipremiati, dueprosperanonell’ex coloniaportoghese.All’Eight (GrandLisboa Hotel), cucina cantoneseraffinatissima

New YorkSei locali in passerella per la GrandeMela: il più vecchio,datato 1986, ha nome francese e straordinariacucina di pesce

OsakaNella secondacittà del Giappone,quattro chef tristellati, di cui uno che si èformato tra Italia e Spagna

San FranciscoSono quattro i tre stellesegnalatidalla guida Il ristorante Benuè nato quattro anni fa dall’ex cuoco dello storico French Laundry

LICIA GRANELLO

L MIGLIOR SUSHI DELLA MIA VITA!”, ha escla-mato Barack Obama dopo aver cenatoqualche mese fa da Sukiyabashi Jiro, ilminuscolo ristorante di Tokyo guidatodal leggendario sushi-master Jiro Ono.Dieci posti a sedere e una location chescoraggerebbe il più volenteroso dei cuo-chi, a pochi metri dalla fermata Ginza del-la metropolitana. Dietro il banco, un cuo-co a un passo dai novant’anni (li compiràa ottobre) insieme al figlio maggiore, Yo-shikazu. Interni a dir poco minimal, nien-

te carte di credito e neanche menù, sostituito dalla successione guida-ta di una ventina di bocconi a base di riso, pesce e pochissimo altro. A diecimila chilometri di distanza, Alain Ducasse firma il menù del Meu-rice, all’interno dell’omonimo hotel 5 stelle parigino, affacciato sui giar-dini delle Tuileries: arredi ispirati al Salon de la Paix del Castello di Ver-sailles, tra lampadari di cristallo e specchi antichi (il tutto rivisto e cor-retto da Philippe Starck), servizio di livello altissimo, pranzi e cene in-farcite di ostriche e caviale. Con tre stelle ciascuno, i ristoranti di JiroOno e Alain Ducasse rappresentano l’alfa e l’omega delle guide Miche-lin, di cui una settimana fa è uscita l’edizione francese: minimalista egeniale il primo, manageriale e raffinato il secondo, i due chef-patronsono i simboli del marchio editoriale che firma viaggi e cucina di qualitàin ventitré paesi con altrettante edizioni. Una storia lunghissima, natainsieme alla diffusione dell’automobile. Erano meno di tremila, le mac-chine in circolazione in Francia nel 1900. Ai loro proprietari, i fratelli Mi-chelin decisero di omaggiare un piccolo libro foderato di rosso: quat-trocento pagine di indicazioni e consigli su come cambiare i pneumati-ci e dove gonfiarli, mappando stazioni di servizio e luoghi di ristoro, conun occhio di riguardo al rapporto qualità-prezzo (ancora oggi, i localistellati rappresentano solo il dieci per cento del totale). Un successo fol-gorante, che indusse i fratelli a pubblicare rapidamente nuove edizio-ni, espandendosi per contiguità geografica: Belgio, Spagna, Germania,Inghilterra (in Italia, la Rossa arriverà solo nel ‘56). Il primo ristorantestellato è datato 1926. Cinque anni dopo, venne introdotto il sistema diattribuzione delle tre stelle e codificato il mestiere di ispettore gastro-nomico, che ancora oggi ha nella Michelin la massima espressione pro-fessionale, con tanto di scuola di formazione, contratto da dipendente(settore pneumatici) e una media di 250 ristoranti visitati ogni anno informa strettamente anonima. Nel 2005, la Michelin è sbarcata a NewYork, e subito dopo a Tokyo e Hong Kong, assumendo il ruolo di guidamondiale dell’alta cucina, pur senza scordare le buone tavole a piccoliprezzi, quei Bib Gourmand che spiccano tra i tanti pittogrammi dellaguida grazie al faccione rubicondo — seppur un poco smagrito per ade-guarsi ai trend salutistici — dell’omino Michelin. Asia e Nuovo Mondotrainano il successo internazionale della guida, grazie alla presenzasempre più diffusa di investitori importanti nell’alta ristorazione. In at-tesa di Michelin Cina, a brevissimo arriverà sugli scaffali la guida diRio&San Paolo. La speranza è bissare l’exploit di Tokyo: centoventimi-la copie in quarantott’ore. E poi dicono che il Giappone è solo sushi.

“I

Da Tokyo a Romanuove tendenzegastronomichefirmate Michelin

RAVIOLI DI GAMBERI

A FORMA DI PESCE

Chef: Cheung Chi ShingRistorante: The Eight Avenida de Lisboa, Macao

SPAGHETTI CON CALAMARI,VERDURE E FIORI EDULI

Chef: Tetsuya FujiwaraRistorante: Fujiya 19352-4-14 Yariyamachi, Chuo-ku

OSTRICHE, PANCETTA

E VERDURE FERMENTATE

Chef: Corey LeeRistorante: Benu22 Hawthorne Street, SoMa

BRODO DI ALGHE,DENTICE E RISO

Chef: Akio MakimuraRistorante: Makimura 6-19-10 Minamioi, Shinagawa

CODA D’ARAGOSTA IN SALSA

DI POMODORO

Chef: Pascal BarbotRistorante: L’Astrance4 Rue Beethoven

TONNO, FOIS GRAS,PAN TOSTATO E PORRI

Chef: Eric RipertRistorante: Le Bernardin155 West 51st Street

SOGLIOLA E VENTRESCA DI TONNO

CON CAVOLO NERO

Chef:Katsuyoshi NagataRistorante: Chihana584 Minamigawa

Città a tre stelle

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Repubblica Nazionale 2015-02-15

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la RepubblicaDOMENICA 15 FEBBRAIO 2015 41

GIAMPAOLO VISETTI

PECHINO

A CUCINA DI HONG KONG NON ESISTE. E però l’excolonia britannica è una delle nuove capitalimondiali della cucina. È una tendenza senzaprecedenti: un luogo privo di piatti tradizionali,ma capace di esprimere il meglio dell’alta

gastronomia contemporanea. Nell’arcipelago del Sudl’identità, nel piatto, è così proprio l’assenza di identità:cibi, ricette e locali d’importazione, la vetrina scintillantedella raffinatezza occidentale accesa in faccia all’orgogliopatriottico, e conservatore, dei ristoranti cinesi. HongKong non è ancora Tokyo, che vanta il primato mondialedi dodici locali con tre stelle Michelin, e non lo diventeràpresto, non potendo contare sulla tradizione giapponese(altri quattordici ristoranti tre stelle). I cinque locali al topdell’ex colonia, che diventano sette con i due della vicinaMacao, sono però il “caso” gastronomico del pianeta.Nessuna città offre una simile scelta all’interno di unanazione, la Cina, dove comunque la Michelin non haancora una guida.Andare al ristorante, a Hong Kong, diventa dunque unatto di dissenso politico contro Pechino, così come fareacquisti a Berlino Ovest voleva dire opporsi al pugnosovietico di Mosca. Sulle isole colonizzate da inglesi eportoghesi, anche dopo le guerre dell’oppio, si moriva difame e di malaria. Il boom dell’alta gastronomia segue così

le due tendenze degli ultimi vent’anni: l’esplosione dellaricchezza nella capitale asiatica della finanza off-shore el’irresistibile crescita economica della Cina. Mangiarebene a Hong Kong significa rivendicare il proprio sentirsioccidentali, anche se di cittadinanza cinese. Oggi puòvoler dire però anche sentirsi più semplicemente“arrivati”: centinaia i nuovi milionari cinesi che atterrano aKowloon per deporre i bastoncini e impugnare forchetta ecoltello lontani dall’occhio del partito comunista,impegnato a combattere «lussi, stravaganze e influenzestraniere». Hong Kong è l’eldorado della buona tavolaglobale a pochi passi dalla frontiera, che ancora per pocodivide la “regione autonoma” dal Guangdong, e amezz’ora di battello dalla nuova capitale mondialedell’azzardo, che attira a Macao i giocatori di tutta l’Asia.La popolazione mangia, e parla, cantonese: il mare nelpiatto, fuso con le spezie piccanti del Sud cinese. Chi puòpermettersi di spendere due stipendi medi cinesi per ogniportata, spazia invece nel resto del pianeta. Fra i tre stelle,uno è italiano (l’Otto e Mezzo di Umberto Bombana), unofrancese, uno giapponese, uno coloniale e uno solo dellamadrepatria Cina. Grande cucina internazionale,nascosta tra i grattacieli più eleganti e supportata dalleaste enogastronomiche più glamour: vini, tartufi e cavialeora arrivano anche qui, oltre che a New York e Tokyo,perché venga deciso, come perl’arte e l’antiquariato, il loroprezzo. Il massimo del buono: anche per denunciare ilminimo del cattivo, ossia la povertà di Stato nella secondaeconomia del mondo.

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LNaraUn tre stelle dedicato alla cucinatradizionale, nella capitalemedievale del GiapponepatrimonioUnesco

MadridStretta tra i paradisigourmand di Catalogna e Paesi Baschi,vanta un solo tre stelle fresco di nomina

RomaPassaportotedesco e moglie siciliana per l’unico tre stelle della capitale, che uniscecreatività e tradizione

KobeNella città celebre perla produzionedi carnestraordinaria, due localispiccano per la loro cucina innovativa

BrugesSono due i ristoranti al top nel cuore delle Fiandre: uno si trova in centro città,l’altro in una fattoriacontemporanea

ChicagoNella città di Obama, Achatz e il suo allievoCurtis Duffy(Grace)assommano sei stelle di cucina creativa

LondraDue primedonneper l’altaristorazionelondinese: il franceseDucasse e il tv chef più amato e odiatoGordon Ramsay

JIRO ONO NELLA CAPITALEGIAPPONESE O DUCASSE A PARIGI?L’ALFA E L’OMEGA DELLA BUONISSIMATAVOLA. SEGUENDO I GIUDIZIDELLE GUIDE ROSSE 2015 ABBIAMOSTILATO LA CLASSIFICADELLE QUATTORDICI LOCALITÀNEL MONDO CON IL MAGGIOR NUMERODI RISTORANTI TRISTELLATI

Hong Kongl’ultima frontieradel global food FAGOTTELLI

ALLA CARBONARA

Chef: Heinz BeckRistorante: La PergolaVia Alberto Cadlolo 101

RAVIOLI DI ARAGOSTA, SCAMPI E SALMONE

Chef: Gordon RamsayRistorante: Gordon Ramsay68 Royal Hospital Road

BRANZINO

CON NOCI MACADAMIA TRITATE

Chef: Shinya FukumotoRistorante: Cá Sento4-16-14 Nakayamatedori

GERMOGLI

DI BAMBÙ

Chef: Nobuharu YamamuraRistorante: Wa Yamamura2-11-15 Shibatsujicho

IODATI, ACIDOLCE, CARPIONE

E GRASSO MARINO

Chef: David Muñoz Ristorante: DiverXOCalle de Padre Damián 23

ANGURIA, MOZZARELLA

E CAVIALE

Chef: Gert De MangeleerRistorante: Hertog JanLoppemsestraat 52

CALDO-FREDDO

DI PATATA

Chef: Grant AchatzRistorante: Alinea1723 N Halsted Street

Repubblica Nazionale 2015-02-15

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la RepubblicaDOMENICA 15 FEBBRAIO 2015 42LA DOMENICA

Ha vestito Greta Garbo (“tutto in lei era impeccabile”) e Liz Taylor

(“difficile cucirle addosso qualcosa che durasse, ingrassava e dima-

griva continuamente”), poi vennero Grace Jones, Tina Turner e

Madonna, fino a Lady Gaga e Michelle Obama. Nato a Tunisi, clan-

destino nella Parigi post guerra d’Algeria, mentre si appresta a spe-

gnere settantacinque candeline e dopo mezzo secolo di vita trascor-

so nell’alta moda, dal suo atelier

del Marais lo stilista delle dive

bacchetta il nuovo fashion sy-

stem: “Troppa fretta, troppo

marketing, poca qualità. Finire-

mo tutti dentro un outlet”

GIUSEPPE VIDETTI

PARIGI

CINQUANT’ANNI NEL MONDO DELLA MODA e ancora si nasconde. Cin-quant’anni tra teste coronate, dive e rock star, e ancora arrossiscequando gli dicono bravo. Forbici, ago e filo sempre in mano, a riba-dire che mai rinuncerebbe al knowhow artigianale che l’ha reso ilpiù geniale e il più schivo tra gli stilisti. Eccolo Azzedine Alaïa, set-

tantacinque anni il 26 febbraio, nel suo atelier del Marais parigino: piccolo, lemani che drappeggiano il macramè con la sapienza di Fidia sui fianchi generosidella soprano Sonya Yoncheva, fresca da una trionfale Traviataal Metropolitan.La diva bulgara è lì per l’ultima prova. Pare di rivedere Azzedine in quella stori-ca foto di Jean-Paul Goude, minuscolo accanto a una monumentale Jessye Nor-man sapientemente avvolta nel tricolore che le ha cucito addosso, pronta a can-tare La Marsigliese in occasione del bicentenario della Rivoluzione. Nel 1989Alaïa era già il nome più hot del fashion business, l’America ai suoi piedi. «Ave-vo sfilato a New York cinque anni prima. Lì incontrai Andy Warhol, Julian Sch-nabel, Basquiat...», mormora lo stilista franco-tunisino durante una pausa nellacucina del laboratorio di Rue de Moussy, dove ogni giorno pranza con i suoi piùstretti collaboratori. Grace Jones e Tina Turner, e più tardi anche Madonna,andavano pazze per le sue minigonne in pelle e per quel jersey assassino chele trasformava in sontuose vestali; sempre sexy, mai volgare, una raffinatasobrietà che è tuttora la sua prerogativa.

”Azzedine non disegna per una maison, disegna per un corpo”, ha dettola top model Stephanie Seymour, una delle tante, come Naomi Campbell eVeronica Webb, che oggi lo chiamano papà. Arrossisce, abbassa lo sguardo:«È esattamente così». Ridacchia come un bambino costretto ad ammet-tere una marachella. «Stephanie ha iniziato qui, aveva quattordici an-ni quando sfilò la prima volta per me. Vinse un concorso dell’agen-

zia Elite e io chiesi a John Casablancas di mandarmela imme-diatamente a Parigi». Difficile penetrare il suo mondo, timido eriservato com’è, ma quando esordisce coi racconti dell’infanziaa Tunisi e i primi exploit parigini non è difficile intuire perché intante abbiano bussato all’atelier di Rue de la Verrerie, e primaancora di Rue de Bellechasse, dove aprì un laboratorio dopo ilbreve periodo di apprendistato da Guy Laroche. «Arrivai a Pa-rigi in un periodo complicato per i nordafricani, la fine dellaguerra d’Algeria. Mi ero appoggiato in una chambre de bonneche la contessa di Blégiers mi aveva messo a disposizione; ero al set-

timo cielo quando mi presero da Dior, ma non avevo ancora i documenti in re-gola e dopo cinque giorni mi misero alla porta. Ebbi la fortuna d’incontrare lepersone che contano: Simone Zehrfuss, Louise de Vilmorin, che m’invitava dalei tutti i weekend, Cécile de Rothschild. Sono stato fortunato ad aver avuto qual-cuno che si sia occupato di me; c’era l’arresto immediato per un tunisino che nonaveva il permesso di soggiorno in regola».

Formidabile il passaparola nei salotti della capitale: «Quando aprii il primoatelier a Rue de Bellechasse avevo già diciotto operai per far fronte alle richie-ste» (non si vanterebbe mai di essere stato richiamato da Dior almeno due vol-te — e di aver cortesemente declinato le offerte — quando il marchio faceva giàparte di una potente multinazionale del lusso). «I ricordi sono molti, e tutti bel-li. Non avevo l’ambizione di entrare nel grande giro della moda, ma la clientelaa quel punto era diventata internazionale, venivano dagli Usa e dal Brasile, in-sieme a personaggi del mondo dello spettacolo, come Arletty». Non dimenti-cherà mai quella volta che a Rue de Bellechasse la sua amica Cécile de Rothschildarrivò senza appuntamento in compagnia di quella donna altera e misteriosa.«La sera prima ero andato a vedere La regina Cristina in un cineclub e il giornodopo Greta Garbo era nel mio atelier. Cécile faceva strane smorfie mentre met-tevo in prova il suo cappotto rosso. “Azzedine, quella è madame Garbo”, mi sus-surrò all’orecchio mentre imbastivo il collo. Io pensai fosse uno scherzo, la divaera irriconoscibile, in pantaloni e con un dolcevita che le copriva parte del volto,i capelli raccolti dietro la nuca con un elastico. Quando incrociai lo sguardo capiiche era veramente lei. Se ne restò seduta sul canapè senza proferire parola. So-lo alla fine mi chiese se potevo confezionarle un cappotto molto ampio; ne ordinòuno blu marine e uno nero, e successivamente pantaloni beige e camicioni in jer-sey. Recentemente ho riacquistato quel cappotto a Los Angeles a un’asta di og-getti appartenuti alla Garbo. Era in perfetto stato, impeccabile come tutto di lei».Elizabeth Taylor sarebbe arrivata solo nei primi anni Novanta. «Era difficile cu-cirle addosso qualcosa che durasse, perché ingrassava e dimagriva nel giro dipochi mesi. Si faceva realizzare lo stesso capo in due misure diverse per ovviareal problema». Gli si illuminano gli occhi quando parla di cinema, non solo dell’â-ge d’or hollywoodiana, ma anche del neorealismo italiano. Per Azzedine la Ma-gnani è un’icona di stile, oltre che una maschera formidabile. «Il primo film chevidi fu Riso amarocon Silvana Mangano. All’epoca c’era una nutrita colonia ita-liana a Tunisi, io seguivo con pari entusiasmo i vostri film e quelli egiziani — OumKalthoum è ancora oggi il mio idolo insieme alla Callas. Mio nonno mi accompa-gnava al mio posto, poi se ne andava al caffè a giocare con gli amici, io restavo aguardare lo stesso film fino alla chiusura, una, due, tre proiezioni di seguito. Seb-bene fossi incantato da quelle figure femminili, non avevo ancora maturato unavocazione per questo mestiere. Frequentai l’Accademia delle belle arti con l’i-dea di diventare uno scultore. Mollai tutto quando mi resi conto che non sareimai stato un nuovo Rodin e a quindici anni incominciai a giocare con la moda.Quel che volevo, a quel punto, era fuggire a Parigi e imparare, imparare, impa-rare». In rotta di collisione con l’industria che costringe gli stilisti a produrre an-che sedici collezioni all’anno, Alaïa ruppe il suo proverbiale riserbo già nel 1994dichiarando: «La moda è finita». Oggi spiega: «Per me la parte artigianale del la-voro resta prioritaria, la mia politica è affatto diversa da quella delle altre mai-

son. Lavorare in fretta e su scala industriale compromette la qualità». Ricom-prare il marchio dal gruppo Prada è stata più di recente una ulteriore rivendica-zione d’indipendenza creativa. L’ultima volta che ha tuonato contro il corpora-

te fashion business è stata quattro anni fa, dopo essere stato nominatodal governo francese Chevalier de la Légion d’honneur. Ha bacchetta-to sia Karl Lagerfeld («Uno che non ha mai preso in mano un paio di for-bici») che Anna Wintour, l’algida direttrice di Vogue America («Un’a-bile business woman, ma non condivido i suoi gusti. Nessuno si ricor-derà di lei nella storia della moda»). «Le confesso che per me quattrocollezioni all’anno sono anche troppe. Sono contrario alle iperprodu-

zioni, col rischio che tutto finisca negli outlet. Il mio lavoro di-venta ogni giorno più difficile. Quando ho incominciato non

c’era la corsa dei gruppi industriali a investire sugli stilisti.È tutta questione di marketing, produzione e collezioni so-

no parole che si usano sempre meno».Lavora con l’entusiasmo di sempre. Le nuove dive,

Lady Gaga e Rihanna, lo adorano. Michelle Obamaha fatto uno strappo all’etichetta per continuare aindossare Alaïa, che scoprì da ragazza in una bou-tique di Chicago («Non è mai venuta, ma ho qui unmanichino con le sue misure esatte»). Non ha an-

cora mai monetizzato il suo marchio in profumi. Ilprimo uscirà l’estate prossima («Ma considerato che

io odio i profumi sarà tutt’altro che invadente»), in con-temporanea con una mostra da allestire a Roma in luglio

che bisserà il successo di quella dell’anno scorso al PalaisGalliera di Parigi. «Alla mia età, per andare avanti devo con-tinuare a fare quello in cui credo», conclude. «Oggi è così,

domani non so. Potrebbe anche essere che arrivi il mo-mento in cui dico basta da un momento all’altro. Ne so-no capace, sa?».

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ALLA MIA ETÀ, PER ANDARE AVANTI, DEVOCONTINUARE A FARE CIÒ IN CUI CREDO.OGGI È COSÌ, DOMANI NON SO. POTREBBEANCHE ARRIVARE IL MOMENTO IN CUI DICOBASTA. NE SONO CAPACE, SA?

DA RAGAZZINOAVREI VOLUTO FARE

LO SCULTORE, HO SMESSO DI SOGNARE

QUANDO HO CAPITOCHE NON SAREI MAIDIVENTATO RODIN

PASSAVO ANCHEINTERI POMERIGGI

AL CINEMA:ERO INCANTATO

DA TUTTE QUELLEFIGURE FEMMINILI

L’incontro. Outsider

AzzedineAlaïa

ERO AL SETTIMO CIELO QUANDO MI ASSUNSE DIOR MA NON AVEVO ANCORA I DOCUMENTI IN REGOLA E DOPO CINQUE GIORNI MI MISE ALLA PORTAPER FORTUNA SIMONE ZEHRFUSS, LOUISE DE VILMORINE CÉCILE DE ROTHSCHILD SI PRESERO CURA DI ME

Repubblica Nazionale 2015-02-15