Quarantesimo Benettondi rischiare - la...

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DOMENICA 27 AGOSTO 2006 D omenica La di Repubblica la lettura L’insostenibile leggerezza del maiale DARIO FO e MICHELE SERRA la memoria Il compagno americano nei gulag di Mao FEDERICO RAMPINI il racconto Jesse James, la saga del bandito razzista ANTONIO MONDA l’incontro Alda Merini, le mie parole di latte DARIO CRESTO-DINA spettacoli Star Trek, quarant’anni nell’iperspazio ERNESTO ASSANTE e PINO CORRIAS cultura I quadri di Michelangelo Antonioni BEPPE SEBASTE CORTINA D’AMPEZZO L’ azienda che ha colorato il mondo compie qua- rant’anni e il suo fondatore, in attesa della gran festa del 10 ottobre al Centre Pompidou di Parigi, sta per raggiungere la Siberia, la Bielorussia, il Kazakistan, alla ricerca degli ultimi luoghi sulla terra non ancora invasi da quei rutilanti colori, da quei vestiti giovani, da quel celebre marchio. Agli inizi dell’avventura Luciano Benetton aveva trent’anni, era un giovanotto dall’aria severa e forse un po’ triste, capelli neri li- sci, occhiali da vista scuri come li portano i timidi, rigidi abiti ma- nageriali per affrontare la foresta sconosciuta dell’imprenditoria italiana di allora, sapendo già che quei confini gli sarebbero stati stretti; e che oltre c’era l’Europa, c’erano i continenti a lui ignoti, che aspettavano di essere conquistati. Oggi il presidente del Gruppo Benetton è uno di quei nuovi settantenni che cancellano le vecchie e ormai obsolete regole degli anni, vivono il presente con l’intensità di una sapiente gio- vinezza illimitata, mantengono fermamente il potere, pianifi- cano un futuro senza fine. E impegnano con disinvoltura e di- stacco la loro immagine fisica per confermare questa idea di energia, di potere, di successo sconfinato. Un’immagine, la sua, che col tempo ha perso la gravità degli inizi di carriera, è diven- tata leggera e leggiadra: i capelli candidi, ariosi e lunghi, la figu- ra snella e impaziente, gli occhiali quasi invisibili che non na- scondono più gli occhi azzurri, e un modo di vestire molto Be- NATALIA ASPESI FOTO GIUSEPPE PINO, 1991 così ho colorato il mondo Quarantesimo compleanno per un impero industriale made in Italy venuto dal nulla a forza di buone idee e voglia di rischiare Benetton netton, anche quando il gran cappello da cacciatore e la camicia a quadri sono casual americani. Nelle foto da bambino, figlio della lupa, marinaretto, in mutan- dine, canottiera e valigino della merenda, non sorride mai, im- bronciato, pensieroso, insicuro, come se la vita di allora, semplice, angusta, forse difficile, non gli andasse per niente bene, e già so- gnasse altro, senza sapere cosa. Poi l’ha saputo, e con sicurezza, e infatti da tempo sorride sempre, candidi denti ovviamente perfet- ti, e in modo addirittura smagliante nelle occasioni ufficiali, quan- do lo ritraggono assieme alla sorella Giuliana e ai fratelli Gilberto e Carlo, con addosso magliette e jeans della casa, oppure, per even- ti più formali, lo smoking classico portato con sommessa ironia. I sorrisi saranno trentotto nella copertina di Vanity Fair in oc- casione della mostra parigina: una foto davvero unica, perché i tanti Benetton non si ritrovano mai tutti insieme, se non forse una sola volta l’anno, quando però manca sempre qualcuno. In più il primogenito Luciano ha sempre sfuggito il ruolo di patriarca, che non sente come suo, e già essere padre di cinque figli, quattro dal- la moglie Teresa, uno da Marina Salamon, («ma l’amore tra indu- striali non è una grande soluzione»), e nonno di dieci nipotini, non lo commuove più di tanto. Ma per amore del marchio ha fatto an- che questo: una fotografia con tutti i Benetton, i quattro caposti- piti, i loro figli, quindici, i figli dei figli, diciassette, nessun coniu- ge. Di tutta questa folla familiare, solo Alessandro, secondogeni- to di Luciano, compagno di Deborah Compagnoni, padre dei pic- coli Tobias e Agnese e presto di un terzo figliolino, occupa un ruo- lo importante nel gruppo Benetton, come vicepresidente. (segue nelle pagine successive) Repubblica Nazionale 31 27/08/2006

Transcript of Quarantesimo Benettondi rischiare - la...

  • DOMENICA 27 AGOSTO 2006

    DomenicaLadi Repubblica

    la lettura

    L’insostenibile leggerezza del maialeDARIO FO e MICHELE SERRA

    la memoria

    Il compagno americano nei gulag di MaoFEDERICO RAMPINI

    il racconto

    Jesse James, la saga del bandito razzistaANTONIO MONDA

    l’incontro

    Alda Merini, le mie parole di latteDARIO CRESTO-DINA

    spettacoli

    Star Trek, quarant’anni nell’iperspazioERNESTO ASSANTE e PINO CORRIAS

    cultura

    I quadri di Michelangelo AntonioniBEPPE SEBASTE

    CORTINA D’AMPEZZO

    L’azienda che ha colorato il mondo compie qua-rant’anni e il suo fondatore, in attesa della gran festadel 10 ottobre al Centre Pompidou di Parigi, sta perraggiungere la Siberia, la Bielorussia, il Kazakistan,alla ricerca degli ultimi luoghi sulla terra non ancora invasi da queirutilanti colori, da quei vestiti giovani, da quel celebre marchio.Agli inizi dell’avventura Luciano Benetton aveva trent’anni, eraun giovanotto dall’aria severa e forse un po’ triste, capelli neri li-sci, occhiali da vista scuri come li portano i timidi, rigidi abiti ma-nageriali per affrontare la foresta sconosciuta dell’imprenditoriaitaliana di allora, sapendo già che quei confini gli sarebbero statistretti; e che oltre c’era l’Europa, c’erano i continenti a lui ignoti,che aspettavano di essere conquistati.

    Oggi il presidente del Gruppo Benetton è uno di quei nuovisettantenni che cancellano le vecchie e ormai obsolete regoledegli anni, vivono il presente con l’intensità di una sapiente gio-vinezza illimitata, mantengono fermamente il potere, pianifi-cano un futuro senza fine. E impegnano con disinvoltura e di-stacco la loro immagine fisica per confermare questa idea dienergia, di potere, di successo sconfinato. Un’immagine, la sua,che col tempo ha perso la gravità degli inizi di carriera, è diven-tata leggera e leggiadra: i capelli candidi, ariosi e lunghi, la figu-ra snella e impaziente, gli occhiali quasi invisibili che non na-scondono più gli occhi azzurri, e un modo di vestire molto Be-

    NATALIA ASPESI

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    , 1991

    così ho colorato il mondo

    Quarantesimocompleannoper un imperoindustrialemade in Italyvenuto dal nullaa forza di buoneidee e vogliadi rischiare

    Benetton

    netton, anche quando il gran cappello da cacciatore e la camiciaa quadri sono casual americani.

    Nelle foto da bambino, figlio della lupa, marinaretto, in mutan-dine, canottiera e valigino della merenda, non sorride mai, im-bronciato, pensieroso, insicuro, come se la vita di allora, semplice,angusta, forse difficile, non gli andasse per niente bene, e già so-gnasse altro, senza sapere cosa. Poi l’ha saputo, e con sicurezza, einfatti da tempo sorride sempre, candidi denti ovviamente perfet-ti, e in modo addirittura smagliante nelle occasioni ufficiali, quan-do lo ritraggono assieme alla sorella Giuliana e ai fratelli Gilberto eCarlo, con addosso magliette e jeans della casa, oppure, per even-ti più formali, lo smoking classico portato con sommessa ironia.

    I sorrisi saranno trentotto nella copertina di Vanity Fair in oc-casione della mostra parigina: una foto davvero unica, perché itanti Benetton non si ritrovano mai tutti insieme, se non forse unasola volta l’anno, quando però manca sempre qualcuno. In più ilprimogenito Luciano ha sempre sfuggito il ruolo di patriarca, chenon sente come suo, e già essere padre di cinque figli, quattro dal-la moglie Teresa, uno da Marina Salamon, («ma l’amore tra indu-striali non è una grande soluzione»), e nonno di dieci nipotini, nonlo commuove più di tanto. Ma per amore del marchio ha fatto an-che questo: una fotografia con tutti i Benetton, i quattro caposti-piti, i loro figli, quindici, i figli dei figli, diciassette, nessun coniu-ge. Di tutta questa folla familiare, solo Alessandro, secondogeni-to di Luciano, compagno di Deborah Compagnoni, padre dei pic-coli Tobias e Agnese e presto di un terzo figliolino, occupa un ruo-lo importante nel gruppo Benetton, come vicepresidente.

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  • (segue dalla copertina)

    Ma, come si sa, gli interessi di una fa-miglia valutata cinque miliardi dieuro dal mensile economicoamericano Forbessono molto va-sti, vanno ampiamente al di là dei120 milioni di capi di vestiario che

    ogni anno si irradiano in più di 5000 negozi in 120paesi. Usciti dalla Benetton per decisione comunenel 2003, i fratelli si sono divisi le competenze nel-l’impero di famiglia, e adesso un figlio per uno —Franca, 38 anni, figlia di Giuliana; Christian, 34 an-ni, figlio di Carlo; Sabrina, 31 anni, figlia di Gilberto;oltre naturalmente ad Alessandro, tutti carichi dilauree e master prestigiosi — sono diventati consi-glieri delle cassaforte di casa, la Edizione Holding,che come si usa adesso controlla di tutto e con di-verse fortune non sempre vincenti. Tra cui, ma nonsolo, le partecipazioni in Telecom, Autostrade, Au-togrill, Grandi Stazioni, più il cento per cento di dueimmense tenute, Maccarese in Italia e CompaniaTierras Sud in Patagonia: 900mila ettari, 16mila bo-vini, 260mila pecore, un milione e 300mila chili dilana esportata in Europa, risentimenti e contrasticon la popolazione locale, scambio di lettere con ilpremio Nobel argentino Adolfo Pérez Esquivel, e al-la fine una donazione di terreno ai contadini mapu-che, con una lettera firmata Luciano Benetton,«…La nostra donazione non ha e non potrà mai ave-re l’ambizione finale di accelerare i ritmi quotidianidel tempo e della storia. Ma può essere una piccolaluce per guidarci nel buio, passo dopo passo, lungoil sentiero tormentato del progresso socialmenteresponsabile».

    Sono le grandi ricchezze di oggi, saldamente di-sperse in mille rivoli, e Luciano Benetton è di quelliche ne godono appieno ma non le ostentano o peg-gio ancora le sprecano negli orrori dell’estate di gu-sto celebrity: ha trascorso le sue vacanze a Cortina,nel grande fienile del Seicento che apparteneva al-l’architetto Vietti e che della sua monumentale an-tichità conserva i pavimenti, i soffitti, le pareti di ru-stico legno. Con la più giovane e vivace compagnadegli ultimi dieci anni, Laura Pollini, amministrato-re delegato di Fabrica, il centro di ricerche sulla co-municazione nella bellissima sede di Ponzano Ve-neto costruita da Tadao Ando, fa colazione in pienosole su un tavolinetto nel retro della casa, servito daun omino in maglietta, guardando il grande prato sucui si affacciano altre case. A Cortina non ci sonosteccati, né cancelli, tutto è libero, tale è il mito ele-gante del luogo che nessuno, neppure Benetton, te-me intrusioni, sorprese, molestie.

    Al potere finanziario che la famiglia ha accumu-lato, Luciano guarda con apparente distacco, per-ché in questo momento è molto più impaziente diriprendere il suo girovagare di lavoro, per rinsalda-re il gruppo Benetton su nuovi indispensabili mer-cati. «Ci vado io stesso, non solo perché gli eventua-li soci e clienti sono più contenti, ma perché mi di-verto, mi affascina addentrarmi in queste nuoverealtà. In Siberia per esempio non sapevano nulla dimercato, adesso tutti vogliono commerciare, ab-bandonano le professioni di medico, di avvocato, eaprono negozi. Vogliono arricchirsi, come tutti, manon sempre si incontrano persone affidabili. È perquesto che in certi paesi non promuoviamo più ilfranchising, i negozi li compriamo noi nei puntistrategici e li affidiamo a gestori-soci. Per evitare, co-

    32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 27 AGOSTO 2006

    NATALIA ASPESI

    Fabrica, la mostraIl nome stesso lo suggerisce,Fabrica è un luogo del fare,un laboratorio. Ma non in sensostretto. Nata nel 1994 e fioreall’occhiello culturale di Benetton, è un’“officina”di comunicazione: grafica,cinematografica, musicale,editoriale e fotografica Vi lavorano pochi giovani creativiselezionati in base ai loro progettie ospitati in una grande strutturaa Treviso. “Les yeux ouverts”,una mostra organizzata al CentrePompidou di Parigi dal 6 ottobreal 6 novembre, intendefar conoscere i progetti natia Treviso. È divisa in sezioni:comunicazione visiva, reportagefotografici, sperimentazioniinterattive

    la copertinaColorareil mondo

    me è ca-p i t a t o ,c h equandoil nego-zio è av-viato, ar-riva un al-tro mar-chio, offrepiù soldi enoi ci ritro-viamo senzapunto vendita».

    Eppure è statoproprio Luciano Be-netton a inventare ilfranchising, il negozio diproprietà di altri cui affidare il marchio e vendere ilprodotto, ed è stato questo l’inizio del successo. Luiè forse uno degli ultimi imprenditori di grande for-tuna che hanno cominciato dal nulla: la sua leg-genda dice che, nato a Treviso nel 1935, primoge-nito di Leone che mantiene la famiglia noleggian-do automobili e biciclette, resta orfano di padre aquattordici anni e per questo lascia la scuola. Va alavorare, commesso in un negozio di tessuti, e quicomincia a innervosirsi perché nella povertà del-l’economia di quegli anni, sente che c’è bisogno diqualcosa di nuovo per accendere il mercato. «C’èstato un fatto determinante per me, e sono state leOlimpiadi del 1960 a Roma. Io amavo molto il ca-nottaggio, avrei dato qualunque cosa per parteci-pare alle gare, ma mi accontentai di andarci comespettatore. Fu una emozione inimmaginabile: ve-nivo dalla provincia di allora, chiusa e ancora arre-trata, e lì in mezzo a quella folla immensa venni acontatto col mondo, mi ritrovai tra gente di ognirazza e colore, tra le bandiere di decine e decine dinazioni. Avevo venticinque anni e mi prese unagrande voglia di far parte di quei colori, di quellebandiere, di quella moltitudine, del mondo. Eratutto da conquistare, bastava farsi venire un’idea,sperare nella fortuna, non temere nulla».

    L’idea venne da un maglione che la sorella Giu-liana gli aveva confezionato: non aveva nulla dispeciale, se non che era giallo, e i giovanotti nonportavano allora maglioni colorati. Quindi lui su-scitava curiosità, e tutti lo guardavano e gli chiede-vano come mai avesse osato e gli amici alla fine nechiesero uno simile: «Capii in quel momento cheattirare l’attenzione, imporre un’immagine so-prattutto se imprevista, fare eco, suscitare discus-sioni, poteva essere una strategia imprenditorialevincente». Non se l’è mai dimenticato, arrivandoper una delle tante campagne Benetton, seguite dareazioni scandalizzate, a farsi fotografare nudo.Era il 1993, Luciano aveva cinquantotto anni ed erasenatore della Repubblica eletto per il partito re-pubblicano; sfrontato, coraggioso e sorridente,non un pezzo di stoffa sul corpo, si protesse soltan-to con la scritta gigante trasversale, naturalmentein inglese, «I want my clothes back» e poi «Emptyyour closets». Era una delle tante campagne pub-blicitarie concordate con Oliviero Toscani, questavolta a scopo umanitario e in collaborazione con laCaritas svizzera, la Croce rossa e il Crescente rossodi Ginevra, un piano mondiale di ridistribuzione dicapi di abbigliamento usati da destinare alle popo-lazioni indigenti. «Ridammi i miei vestiti» e «Vuotai tuoi armadi» ebbe molto successo, forse perchénon si era mai visto un imprenditore nudo, e alla fi-

    ne icontenitori

    posti nei nego-zi Benetton rac-

    colsero 460milachili di indumen-

    ti. L ’ i m m e d i a t o

    successo commercia-le dei primi anni era arri-

    vato con idee nuove, nate da unaintuizione imprenditoriale ma an-che dalla natura parsimoniosa diLuciano. La prima idea fu aprire ne-gozi nei centri storici o comunquenei luoghi più eleganti delle città,però in franchising, cioè a spese deglialtri. E poi, illuminazione semplice,pratica e del tutto nuova, produrre ca-pi di maglia di lana color naturale e poitingerli al momento, secondo le richie-ste, in una gamma di colori vastissima, al-meno una sessantina. Quasi vent’anni do-po, negli anni Ottanta, con più di 1.000 pun-ti vendita in Italia, 250 in Germania, 280 inFrancia, 100 in Inghilterra, 25 in Olanda e in Bel-gio, il marchio consolidato come simbolo del ve-stir giovane, Luciano cominciava a divertirsi meno.Che soddisfazione c’è a vendere milioni di ma-gliette se però nessuno ne parla più, non fanno piùnotizia, sono tornate alla loro natura di sempliceanche se fortunata merce, senza contare che ci so-no ancora continenti, mondi, non ancora benetto-nati?

    Racconta Oliviero Toscani: «Una sera, mentreassistevo al parto di una delle mie cavalle Appaloo-sa, mi telefona Luciano. Il puledro nacque da lì apoco e in quella mezzanotte di buon auspicio nac-que anche una straordinaria collaborazione». Unsodalizio artistico-mercantile che univa due per-sonaggi appassionati del potere dell’immagine edel piacere di far notizia, di sorprendere e provoca-re. Ma ancor prima dell’arrivo in azienda di Tosca-ni, il marchio negli anni Settanta già tendeva al-l’anticonformismo (fotomontaggi di Jimi Hendrix,Andy Warhol con addosso la nuova linea Jean’sWest, una Laura Antonelli seminuda e un SalvadorDalì che attacca un manifesto in favore dell’abor-to).

    Dice Luciano: «I giovani avevano idoli trasgres-sivi, contestavano, occupavano le università, so-gnavano di cambiare il mondo. Ero giovane an-ch’io, e non sentivo la differenza di pensiero: e poiquei ragazzi mi piacevano perché li vedevo tutti co-me potenziali clienti». La rivoluzione vestita, colo-rata Benetton. «Anch’io contestavo, nel mio caso lacategoria imprenditoriale, che non aveva attenzio-ne per i lavoratori. Io ce l’avevo, e anche se abbia-mo avuto rapporti burrascosi coi sindacati rispet-tavamo le regole del gioco, erano la contropartecon cui trattare. E poi io mi sentivo davvero uno diloro, uno degli operai, e alle sei di mattina arrivavoin fabbrica con la Due cavalli per il primo dei tre tur-ni. Lavoravamo tutti come pazzi, ma non bastava:sino al 1978 non riuscimmo a soddisfare tutte le ri-

    Cardigan giallo “Godiva”

    1987Vestito stretch

    1989Maglione a rombi

    1999Maglia metalizzata

    1958Maglione “Très jolie”

    1970Abito sportivo in lana

    1968

    DINASTIALa famiglia Benettonin una fotodel 1937: Lucianocon la sorella Giulianae la mamma Rosa

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  • LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 27 AGOSTO 2006

    Alla vigilia della mostra al Beaubourg che celebrerài quarant’anni del marchio,Luciano Benetton raccontala storia di uno straordinario successo imprenditorialefatto di idee nuove, gusto del rischio e della provocazione

    chieste perché lo sviluppo era fino al settanta percento all’anno. Gli altri imprenditori ci guardavanomale, come alieni della categoria. Quando nel 1963costruimmo la prima fabbrica a Ponzano Veneto,installammo subito l’aria condizionata per tutti, edera una cosa rivoluzionaria. L’entusiasmo era tan-to, non potevamo spendere molto, ma pensavamoa una struttura non usuale, più intelligente, più ot-timista del solito capannone. Volevamo farci cono-scere, anche attraverso l’architettura, e infatti affi-dammo il progetto a Tobia Scarpa, che conoscevoperché era di Motebelluna, aveva vent’anni, era an-cora studente e, malgrado la fama del padre, pococostoso, in più condivideva con me il piacere del ri-schio. In questo caso un’unica trave vuota di ce-mento di ottanta metri che sosteneva tutta la co-struzione. Gli esperti dissero che non sarebbe ri-masta in piedi, e invece è ancora lì, tuttora mo-derna e affascinante».

    Con Oliviero Toscani, e per i diciotto anni del-la loro collaborazione, ogni campagna pubblici-taria divenne uno shock, uno scandalo, una ri-voluzione permanente nel modo di comunica-re. «Volevamo una pubblicità nuova, moderna,soprattutto internazionale: eravamo ormai co-sì solidi da poter osare. Certo, quando comin-ciarono ad arrivare le prime proteste, rima-nemmo male, pensammo persino di smette-re e chiedere scusa. Ma capimmo che si trat-tava di posizioni razziste, e noi il razzismonon potevamo accettarlo. E poi, dal punto divista degli affari, quelli che protestavano nonerano il nostro pubblico, non erano interes-sati al nostro prodotto, quindi dovevamoandare avanti».

    Infatti più la gente si indignava, i giorna-li polemizzavano sino a rifiutare l’inserzio-ne e il gran giurì della pubblicità stigmatiz-zava (ci furono persino picchetti fuori dainegozi inneggianti al boicottaggio) per lasuora che bacia il pretino, per il neonatobianco sul seno nudo di una donna nera,per quella specie di pietà caravaggescaattorno a un malato di aids morente, piùBenetton vendeva, prosperava, ingi-

    gantiva. Di anno in anno, scomparsoil prodotto dalla pubblicità, solo in

    un angolo un tassello verde con lascritta “United Colors of Benet-ton”, la dispettosa genialità diToscani e la partecipazione ideo-logica e mercantile di Luciano

    continuarono a provocare con labrutalità del reale: nascita, sesso,

    dolore, morte, razzismo, penadi morte, antimilitari-smo, pacifismo; ilneonato at-taccato alcordo-n e

    ombelicale, i preservativi, le carrette del mare gron-danti clandestini, il delitto di mafia, i bambini lavo-ratori, il cimitero di guerra, la serie di sessi femmini-li e maschili (opera invitata in gigantografia allaBiennale d’arte veneziana nel 1993, rifiutata da tut-ti i giornali tranne Liberation).

    Sempre più scomoda, beffarda e brutale, la pub-blicità dell’azienda affronta tabù impensabili per lacomunicazione commerciale: ecco la divisa insan-guinata, vera, di un soldato bosniaco morto in guer-ra, donata dal padre (1994); ecco i ragazzini disabilidi un istituto bavarese (1998); e l’ultima campagna,quella che suscita massimo scandalo e probabil-mente incrina il rapporto tra Benetton e Toscani: iritratti di 28 condannati nel raggio della morte di uncarcere americano (2000). I magazzini Sears chehanno 400 negozi negli Stati Uniti rompono il con-tratto di distribuzione; un intero stato, il Missouri, faaddirittura causa (poi rientrata) all’azienda. L’im-prenditore chiederà pubblicamente scusa ai paren-ti delle vittime di quei criminali, mentre Toscani re-spinge ogni accusa. Il genio della pubblicità e il ge-nio dell’imprenditoria si separano, e da gentiluo-mini, eviteranno polemiche.

    Anche adesso: «È stata una decisione comune.Era finita una stagione, e non solo tra noi: stavacambiando la società, cambiavano i giovani, il mo-do di consumare e i desideri. Noi dobbiamo inter-pretare il mondo che viene non come lo vorremmoma come è, per vendere bisogna essere contempo-ranei». Poi oggi i problemi sono altri, giganteschi:Benetton era il solo marchio internazionale che as-sicurava abbigliamento di qualità a buon prezzo,adesso la concorrenza è durissima. «Ma il nostro si-stema industriale è buono, investiamo ovunque,cresciamo in termini di fatturato, apriamo semprepiù negozi, in Cina per esempio, in India l’annoprossimo saranno un centinaio. Resta da conqui-stare l’Africa che, a parte i paesi affacciati sul Medi-terraneo e il Sudafrica, dove già sventolano gli Uni-ted Colors, è ancora soggiogata dalla povertà, dallafame, dalla sudditanza delle donne e da quelleguerre civili che Benetton illustra ancora nella suacomunicazione. «Però cominceremo presto dal-l’Angola che, tra diamanti e petrolio, sta avviando-si verso una forma di benessere». Le magliette con-tinuano a trionfare in luoghi sempre più esotici, lospirito libertario e mondialista del marchio si è ad-dolcito ma esiste ancora, come per la campagnapromossa assieme al World Food Program, con i beiritratti di persone che vivono in paesi disagiati e lesemplici scritte, in inglese, Cibo per studiare, Ciboper lavorare, Cibo per la pace, Cibo per la vita.

    «Nel 1969 aprimmo il primo negozio all’estero, efummo tanto temerari da scegliere Parigi, rue Bo-

    naparte, nel cuore della massima eleganzamondiale. Era come sottomettersi a

    un duro esame con professori mol-to esigenti. Eravamo coscienti

    del rischio, ma se non rischi,che divertimento c’è? È

    per quella prima sfida dinoi provinciali neoim-

    prenditori, che oggiabbiamo scelto Pa-

    rigi e il suo celebreCentre Pompi-dou per festeg-giarci».

    1971Completo a strisce

    1974Cardigan patchwork

    2000“Metallic pull”

    Maglia a righe1972

    1999Abito spray printed

    2000Felpa floreale

    2000Girocollo “Tye & Dye”

    Maglia colorata1974

  • PECHINO

    «L’ultima volta che parlai a tuper tu con Mao fu la festa delPrimo maggio 1967, mentreimperversava la Rivoluzio-ne culturale che lui aveva scatenato. Quelgiorno ero nel gruppo di dignitari insieme alui, mentre passava in rassegna le giovaniGuardie rosse su piazza Tienanmen. Mi avevaregalato una copia del suo Libretto rosso conautografo, scambiammo due chiacchiere.Mao scherzò: “Io non ho fatto nulla, sono que-sti ragazzi che fanno tutto, io ho solo scrittoqualche poema”. Sembrava sicuro di sé, alle-gro, ironico, rilassato, al culmine della sua po-tenza. Pochi minuti dopo lo rividi, si era allon-tanato dal palco ed era seduto a riposare in di-sparte, da solo. Improvvisamente la sua facciaera cambiata: gonfia, livida, con uno sguardotra l’odio e la disperazione. In seguito per anni,rinchiuso in prigione, ripensai a quel contra-sto. Era come se capisse di aver suscitato deidemoni che non avrebbe saputo controllare».

    Sidney Rittenberg mi racconta questi ricor-di nel lussuoso salotto della sua casa cinese,un moderno appartamento in un grattacie-lo di Pechino vicino all’hotel Peninsula. Èun quartiere da ricchi e Rittenberg po-trebbe confondersi con tanti uominid’affari americani che prosperano nelboom della Cina. A 85 anni è in gran for-ma, è un sinologo autorevole, alternaincarichi universitari e attività di con-sulenza per le multinazionali che in-vestono in Estremo Oriente.

    Ma Rittenberg è un personaggiounico, con una biografia ecceziona-le. È il solo occidentale ad essere sta-to al tempo stesso uno stretto colla-boratore di Mao Zedong e ad esse-re precipitato per due volte in di-sgrazia, sperimentando di perso-na sia l’ebbrezza del potere che laferoce violenza del maoismo. InCina ha scontato due condanneal carcere di massimo isolamen-to, due purghe politiche per untotale di sedici anni. A differenzadi tanti suoi compagni di sciagu-ra, è sopravvissuto alle torturedegli interrogatori ed è ancoraqui per testimoniare.

    Molti dettagli sono agghiac-cianti. Pochi mesi dopo l’ulti-mo incontro con Mao l’imma-gine di Rittenberg sparì di col-po dalla foto di gruppo pubbli-cata sulla stampa di regime: ful’indizio che il grande capo loaveva abbandonato, il segnalepremonitore dell’orrore chestava per abbattersi su di lui,una delle ricorrenti persecu-

    zioni che Mao scatenava nei ranghi del parti-to colpendo alla cieca anche i suoi fedelissimi.«Il 21 febbraio 1968, nella notte più fredda ditutti i miei inverni di Pechino, alle undici di se-ra bussarono alla porta di casa. Erano dueguardie del ministero della Propaganda, dovelavoravo. Dissero: “Il capo vuole parlarti di unnuovo incarico”. Mia moglie capì subito. Sa-rebbero passati nove anni, otto mesi e un gior-no prima che io rivedessi lei, i miei figli, e la lu-ce del sole».

    Quella sera d’inverno del ‘68 la storia per luisi ripeteva. Rittenberg piombava in un incubogià vissuto il 21 gennaio 1949, quando un com-pagno gli aveva mentito annunciandogli chesarebbe stato nella prima colonna dell’Eserci-to di liberazione popolare in marcia su Pechi-no, poi una volta salito sulla jeep gli aveva det-

    to: «La Commissione militare ti dichiara instato di arresto. Hai avuto istruzioni dall’im-perialismo americano, sei una spia mandata asabotare la rivoluzione cinese». Eppure l’esse-re stato sepolto vivo per due volte nei gulagmaoisti non ha intaccato l’affetto di Ritten-berg per la sua seconda patria. Trent’anni do-po la morte di Mao, l’ex «compagno america-no» oggi ha uno sguardo imparziale sul tiran-no che fu all’origine delle sue disgrazie.

    La storia d’amore con la Cina inizia un po’per caso, anche se le premesse ideali ci sonodall’infanzia. Rittenberg nasce da una fami-glia ebrea e atea nell’America razzista e bigot-ta del profondo Sud (Charleston, South Caro-lina), ha un nonno materno russo che si è di-stinto nella rivoluzione bolscevica. Da ragaz-zo “Sid” si appassiona per le lotte operaie e siiscrive al piccolo Partito comunista america-no. Arruolato per la Seconda guerra mondia-le, lo addestrano a una missione in EstremoOriente insegnandogli il mandarino aStanford. La vera passione per la Cina la ac-cende una bambina di dodici anni, Li Muxianovvero “Li la fata del bosco”, che lui non ha maiconosciuto. Nel 1945 i comandi militari lo pa-racadutano in Cina dove gli americani assi-stono Chiang Kai-Shek nella sua duplice guer-ra contro il Giappone e contro i partigiani co-munisti. Il primo incarico di Rittenberg 24en-ne è una triste incombenza amministrativa:smaltisce pratiche per il risarcimento alle vit-time di incidenti provocati da soldati ameri-cani. A Kunming, nello Yunnan, un giorno Rit-tenberg consegna la miserabile somma di 26dollari a un tiratore di risciò, il padre di LiMuxian, per “rimborsargli” la sua bambina in-vestita e uccisa da un G.I. ubriaco. Con grandesorpresa del giovane americano, il povero ti-ratore di risciò non protesta di fronte all’esi-guità della somma. Anzi, il padre della vittimaoffre la metà dei soldi al militare straniero chelo sta pagando: un riflesso condizionato, l’a-bitudine alla dilagante corruzione cinese.Quel ricordo della “fata del bosco” e della ras-segnata disperazione di suo padre di fronte al-l’ingiustizia accompagnerà Rittenberg pertutta la vita. Nei suoi giudizi sul maoismo, nondimenticherà mai in quali condizioni versavala Cina prima della rivoluzione.

    Disgustato dal sostegno americano ai na-zionalfascisti di Chiang Kai-Shek, alla fine del-la guerra Rittenberg resta in Cina per aiutare icomunisti. Incontra Mao Zedong in personaper la prima volta nel 1946, sulle montagne diYanan, dove il leader è rifugiato nelle grotte altermine della Lunga marcia. L’americano sirivela utile come interprete e redattore dei te-sti diffusi via radio nelle prime trasmissioni in-ternazionali della propaganda maoista. Hainizio la sua lunga carriera nella nomenklatu-ra del partito, interrotta dal primo arresto nel‘49. I primi sei anni di carcere, tra interrogato-ri brutali e lunghi isolamenti, sono un viaggionella follia autodistruttiva: lungi dal criticareil regime, Rittenberg dà ragione ai suoi aguz-

    la memoriaAmicizie pericolose

    A 85 anni Sidney Rittenberg è in ottima forma. Nella sua casadi Pechino racconta una vita eccezionale: fu uno strettocollaboratore del padre della rivoluzione cinese, ma due voltecadde in disgrazia e venne incarcerato per un totale di sedicianni. Nel trentennale della morte del “Grande Timoniere”,il suo giudizio è equanime: “Fece grandi cose e gravi danni”

    FEDERICO RAMPINI

    34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 27 AGOSTO 2006

    Il “compagno americano”finito nelle prigioni di Mao

    Paracadutato in Cinanel 1945, decide

    di restare per aiutarei comunisti. Il primo

    arresto è del ’49 e finiscecon le scuse del governo

    LE TAPPE

    LA GIOVENTÙ

    Mao Zedong nasceil 26 dicembre del 1893nel villaggio di Shaoshan,provincia di Hunan. È figliodi contadini agiati. Nel 1918ottiene il diploma magistraleDal 1921 milita nel Partitocomunista cinese

    LA LOTTA PARTIGIANA

    Guida le rivolte contadinedel 1927 e poi la lottapartigiana contro il governonazionalista di Chiang Kai-shek. Durante la LungaMarcia (1934-35) emergecome capo del Partitocomunista cinese

  • zini, colpevolizza sestesso. «Scrutando nelmio passato trovavotante ragioni che ave-vano di sospettare dime. A Yanan avevo avu-to una relazione senti-mentale non approvatadal partito. Avevo messoin dubbio la dottrina le-ninista sulla dittatura delproletariato. Avevo au-spicato l’indipendenza del Tibet.Ora trovavo la tranquillità identifi-candomi con la verità di partito, l’u-nica verità. Sopravvivevo alla soffe-renza persuadendomi che me l’eromeritata».

    Quando il 4 aprile 1955 il direttoredel carcere lo dichiara innocente e glipresenta «le scuse del governo popo-lare», Rittenberg si è talmente con-vinto di essere nel torto che non rie-sce a capire quelle scuse. Rieducarsialla vita normale è difficile. «Dopo seianni in cui avevo chiesto il permessoanche per usare la latrina, dovevoriabituarmi a stare in mezzo ad altrepersone, mi venivano attacchi di pa-nico, avevo paura di prendere la pa-rola, l’apparizione di una uniformemi terrorizzava. Ero stato rilasciato da una cel-la ma ne avevo costruito un’altra dentro dime». Lo aiuta il matrimonio con Wang Yulin,coraggiosa compagna di una vita, che nelle av-versità metterà sempre l’amore coniugale aldi sopra della fedeltà di partito. La riabilita-zione di Rittenberg è totale: viene promosso aivertici dell’apparato di propaganda, con inca-richi di fiducia come la traduzione in inglesedelle opere di Mao. Diventa uno dei più auto-revoli comunisti stranieri residenti in Cina, illeader di una singolare diaspora di “rossi”americani — alcuni fuggiti dagli Stati Unitidurante la caccia alle streghe del maccartismo— tra cui figura Jane Sachs, figlia del fondato-re della banca Goldman Sachs.

    Nel 1966 Mao lancia la Rivoluzione cultura-le e Rittenberg ne è affascinato per la stessa ra-gione che accende gli animi dei giovani cine-si: la parola d’ordine «Bombardate il quartiergenerale» autorizza la base a criticare i vertici.Il popolo può scagliarsi contro la burocraziadel partito. «Prima che degenerasse nell’anar-chia e nella dittatura delle piazze, fu l’unicoesperimento di democrazia di massa mai ten-tato in Cina. C’era una spontaneità vera, nelleassemblee la gente eleggeva i propri leader,nascevano organizzazioni politiche dal bas-so, si pubblicavano giornali senza chiederepermessi». Rittenberg si lancia nel movimen-to con ardore, diventa un trascinatore, i suoicomizi lo rendono famoso, è nella cerchia deifavoriti di Mao. Nella sua ingenuità non si ac-corge che il vento gira in fretta. Dopo avereusato la Rivoluzione culturale per sgominare

    la corrente moderata che stava prendendo ilcontrollo del partito, Mao abbandona leGuardie rosse quando il caos rischia di sfug-girgli di mano. Rittenberg continua a esaltarela rivolta antiautoritaria mentre già dall’alto èpartito il contrordine. Quando nel ‘68 lo sbat-tono in una gelida e lurida cella larga due me-tri e mezzo, «l’impossibile, l’inconcepibile ri-cominciò di nuovo: eccomi ancora una voltain un carcere di massimo isolamento per qual-che reato che non avevo commesso, sottopo-sto a pratiche disumane che credevo fosserostate abbandonate; tutto si ripeteva daccapo,come se i 13 anni di libertà dopo la prima gale-ra fossero stati solo un sogno».

    Gli interrogatori da Grande Inquisizione, leumilianti preghiere in ginocchio davanti al ri-tratto di Mao, le urla strazianti dei torturati

    nella notte: è uncalvario micidialema stavolta la suapsiche non cede.Sa di essere inno-cente e la sua cer-tezza non vacillamai, fino a quel 19

    novembre 1977 incui la porta del carcere si apre una se-conda volta e un colonnello gli an-nuncia: «Sei stato vittima di un erro-re. Sei un bravo compagno». Torna li-bero in una società irriconoscibile,già in evoluzione sotto l’effetto delleriforme di Deng Xiaoping. Il capitali-smo diventa il nuovo Verbo, le nuovegenerazioni sono materialiste e fi-loamericane, rinnegano gli idealiche avevano legato Rittenberg allaCina. E così nel 1980 per la prima vol-ta dopo 35 anni lui si riconcilia con ilsuo Paese, torna in America, portacon sé la moglie e i quattro figli cine-si, inaugura una seconda vita da stu-dioso e businessman, pendolare trale sponde del Pacifico. Sa di averesbagliato molto, ma ha pagato tuttofino all’ultimo, e di persona. È unuomo sereno, senza rancori nérimpianti. Ha conservato amici-

    zie importanti nella nomenklatura di Pe-chino (ci volle l’intercessione di Ritten-berg per convincere Deng Xiaoping adare la prima ed unica intervista a unatv straniera, l’americana Cbs).

    Ha fatto pace anche con il ricordo delsuo carnefice. «Ho conosciuto Maotroppo bene per liquidarlo solo comeun mostro. È stato due persone diver-se, ha avuto due vite. Quando lo co-nobbi nel 1946 emanava già quel cari-sma da cui io fui affascinato, eppureera anche un attento ascoltatore, unex contadino autodidatta dalla men-te aperta e brillante, capace di assor-bire molto dagli altri. Vent’anni do-po non ascoltava più nessuno, si eratrasformato in una figura imperia-le, un sovrano assoluto e distante.Nessuno più di lui è stato corrottodal potere. Ha creduto di poter go-vernare la Cina con gli stessi meto-di usati nella guerriglia partigia-na. Ha rovinato la vita di un nu-mero immenso di persone. Deci-ne di milioni di cinesi sono mor-ti, non per una volontà delibera-ta di sterminio, ma per gli erroricatastrofici della sua politica.Inseguiva un gigantesco esperi-mento di ingegneria sociale, so-gnava di plasmare il mondo conla mente di un uomo solo. Nes-sun altro ha fatto così grandi co-se e così gravi danni come lui».

    Sidney Rittenberg nasce in una famiglia ebrea

    e atea della South Carolina. Il nonno materno

    era un bolscevico, lui sceglierà la rivoluzione

    cinese. Nella foto qui sotto è con Mao,

    che ha in mano una copia del suo celebre

    “Libretto rosso”. In basso, un ritratto del 1979;

    a sinistra, oggi, a 85 anni, nella sua casa

    di Pechino con la moglie Wang Yulin

    LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 27 AGOSTO 2006

    “Una notte del febbraio1968 bussarono

    alla porta. Sarebberopassati nove anni, ottomesi e un giorno primadi rivedere moglie e figli”

    IL DECLINO

    Nel 1966 Mao lanciala Rivoluzione culturaleIl suo potere è ormaiassoluto. Dal ’69 peril Grande Timoniere inizieràperò il declino. Ormai stancoe malato di Parkinson, Maomuore il 9 settembre del ‘76

    LA PRESIDENZA

    Vinta la guerra civilecontro il Kuomintange proclamata la Repubblicapopolare cinese, nel 1949Mao è eletto presidenteDopo aver dato avvioal “Grande balzo in avanti”(‘58)nel ’60 rompe con Mosca

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  • il raccontoLeggende del West

    ANTONIO MONDA

    NEW YORK

    Èstato un criminale capace diagghiaccianti efferatezze, enon se ne è mai pentito. È sta-to un uomo introverso e sel-vaggio, animato da confusi ideali politi-ci e motivato in primo luogo da rancore,frustrazione, voglia di vendetta. È statoun bandito da strada che non conosce-va la fatica e la paura, eppure era in gra-do di manipolare la stampa illudendosidi non esserne a sua volta manipolato.Insieme al fratello Frank, ha terrorizza-to il Missouri, il Kansas e poi l’intero We-st, in un crescendo di azioni audaci, ina-spettate e violentissime. Ha amato duedonne che portavano lo stesso nome,Zerelda, la madre e una cugina che poidivenne sua moglie, ma neanche conloro si è mai aperto completamente,neanche a loro ha confidato cosa lo tor-mentava al punto di scegliere senza re-more la strada del crimine e cercare os-sessivamente la fama attraverso gliomicidi e le rapine.

    Chi lo ha conosciuto da vicino lo hadescritto come un ribelle feroce e vellei-tario, solitario e disperatamente biso-gnoso della ribalta, che nel momentodella massima gloria riuscì ad essere ce-lebrato come il “Robin Hood america-no”. La sua parabola ha molte affinitàcon quelle dei nostri briganti, e per al-cuni versi è stato il precursore dei mo-derni terroristi, ma nello stesso tempol’icona di un mondo indifendibile cherifiuta di arrendersi all’ineluttabilità delproprio tramonto. Come molti dei pro-tagonisti dell’epopea del West, JesseWoodson James si è trovato a recitare ilpersonaggio che era riuscito a creare,intuendo che i contemporanei, e so-prattutto i posteri, avrebbero semprepreferito la leggenda alla realtà. Ma piùdi ogni altra cosa è stato e continua adessere un mito, come testimoniano lamagnifica biografia di T. J. Stiles recen-temente pubblicata dal Saggiatore (Jes-se James, storia del bandito ribelle), la ri-proposizione della ballata tradizionaleche ne celebra le gesta da parte di BruceSpringsteen, e l’ennesimo film agiogra-fico che questa volta vede come prota-gonista Brad Pitt e sin dal titolo mette inchiaro chi sia l’eroe della vicenda: L’as-sassinio di Jesse James per mano del co-dardo Robert Ford.

    Jesse era nato in un piccolo villaggiodel Missouri chiamato Centerville, ri-battezzato in seguito Kearney senzacambiare la propria natura di desolataentità nel centro del nulla. Il padre era unreverendo battista di nome Robert, notoper le sue prediche infervorate a difesadel diritto di possedere schiavi, che unbel giorno abbandonò la moglie Zereldae se ne andò in cerca di fortuna in Ca-lifornia, dove visse di espedienti e morì inmiseria durante la corsa all’oro. Ridottaai limiti della povertà, Zerelda cercò di ri-scattare la propria condizione economi-ca sposando Benjamin Simms, un uomod’affari che la lasciò nuovamente vedo-

    va nel giro di poco tempo, e quindi unmedico di nome Reuben Samuel. Il ter-zo marito era un uomo dal carattere fra-gile e sin dai primi giorni fu soggiogatodall’energia della donna, che riuscì a im-piantare una coltivazione di tabacco eacquistare alcuni schiavi.

    Dopo un lungo periodo di stenti edumiliazioni sembrava che le cose simettessero finalmente bene per Zerel-da e i suoi figli, ma in quegli anni l’A-merica si ritrovò immersa nella trage-dia della guerra civile e il Missouri, di-viso tra unionisti e simpatizzanti per ilSud, fu uno degli stati che visse il con-flitto in maniera più lancinante. Zerel-da fu molto orgogliosa quando il figlioFrank decise di arruolarsi per combat-tere gli «orribili invasori abolizionisti»del Nord. La contea di Clay, dove sorge-va la fattoria dei James, era continua-mente teatro di violentissime razzie, euna sera Zerelda e il giovanissimo Jessevidero arrivare un gruppo di unionistiche trascinarono l’imbelle Reuben nel-l’aia, lo massacrarono di botte e lo ap-pesero a un albero minacciando di im-piccarlo se non avesse rivelato dove sinascondeva Frank, che si era unito ai

    bushwackers, i temutissimiguerriglieri confederati.Terrorizzato, Reuben ri-velò le poche cose di cuiera a conoscenza e ebbe

    salva la vita, ma da alloracampò circondato dal di-

    sprezzo della famiglia. Jesse, che era stato a sua volta umilia-

    to e malmenato dal gruppo di unionisti,decise di darsi alla macchia e dopo averraggiunto il fratello si unì con lui ad unabanda di bushwackerschiamata “Quan-trill Raiders”. Si trattava di uomini chevivevano con vergogna e furore l’inva-sione del proprio stato e propugnavanoattraverso la guerriglia la difesa dei prin-cipi nei quali erano cresciuti, a comin-ciare dalla schiavitù. Jesse, che aveva so-lo sedici anni, si trovò immediatamentea proprio agio con questi uomini cheammantavano di ideali politici le razziee i linciaggi: i “Quantrill Raiders” eranocapaci di ogni efferatezza, come testi-monia l’attacco condotto alla cittadinaabolizionista di Lawrence, che portò almassacro di duecento persone.

    Nulla al confronto con quello che suc-cesse in seguito, quando Jesse e Frank siarruolarono nella banda di Bill “Bloody”Anderson, un bushwacker noto per l’a-

    bitudine di fare a pezzi le proprie vitti-me. L’episodio più barbaro del loro so-dalizio è quello avvenuto nel settembredel 1864 a Centralia, quando la bandabloccò il passaggio di un treno sul qualetornavano a casa dei soldati unionisti,che vennero massacrati dopo esserestati costretti a denudarsi. L’orrore su-scitato dall’episodio mise in moto unagigantesca caccia all’uomo, ma i cento-venti soldati del reggimento inviato percatturare i bushwackers vennero attira-ti in una imboscata e a loro volta truci-dati. Per lungo tempo Anderson e com-pagni mostrarono con orgoglio gli scal-pi delle vittime, e continuarono a orga-nizzare spietate azioni di guerriglia pertenere in piedi un fronte che si stava av-viando alla disfatta.

    Può risultare sconcertante che un uo-mo coinvolto in simili atrocità sia diven-tato un personaggio positivo del folklo-re americano. Ma dopo l’uccisione di“Bloody” Bill per mano dei soldati, piùesperti e numerosi, di un secondo reggi-mento, e dopo la resa di Appomattoxche decretò la vittoria degli stati delNord, ci furono una serie di episodi chesegnarono l’inizio del mito di Jesse Ja-

    mes, a cominciare dal suo gradua-le passaggio da sanguinario par-tigiano al servizio di una causasconfitta a vero e proprio ban-dito.

    La resa dei confederati nonattenuò minimamente i conflitti

    nati negli anni della guerra, e la deva-stazione dei territori di frontiera finì perinasprire ulteriormente le tensioni, l’o-dio e la voglia di riscatto. All’interno diun mondo che aveva visto crollare i pro-pri principi fondanti, a cominciare dal“diritto” a possedere schiavi, Jesse intuìche sarebbe potuto diventare un puntodi riferimento e persino un modello: eragiovane, bello, coraggioso e ribelle, enon riusciva ad accettare che quelli checonsiderava dei valori irrinunciabilifossero stati spazzati via dai repubbli-cani abolizionisti, dai «rapaci predato-ri» del Nord. È importante ricordareche, a cominciare da Lincoln, in quelperiodo erano i repubblicani a combat-tere per la causa abolizionista, mentre idemocratici difendevano con ognimezzo lo status quo.

    L’incontro più fortunato di Jesse Ja-mes in vista della costruzione del suomito fu quello con John Edwards, unospregiudicato giornalista di fede demo-cratica e di sicure convinzioni razziste.Nello stesso momento in cui Jesse, in-sieme a Frank e ai fratelli Younger, co-minciò a rapinare le banche e i treni,Edwards divenne l’agiografo della ban-da, celebrando le formidabili gesta del-la «cavalleria del crimine», del gruppo dibanditi che offriva una risposta «perso-nale e coraggiosa» allo sfascio di un pae-se minato nelle fondamenta dai «so-prusi dei nordisti». Nella stragrandemaggioranza dei casi, la banda James-Younger non derubò i passeggeri deitreni né i clienti delle banche, ma puntòdirettamente alle casseforti di istituzio-ni finanziarie solidamente nelle manidegli odiati nordisti, e questo diede gio-co facile a Edwards per costruire il mitodel nuovo Robin Hood. In uno dei pez-zi più osannanti, paragonò la banda ai

    36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 27 AGOSTO 2006

    L’incontro-chiavedella sua vita

    fu con John Edwards,giornalista

    e razzista militante,che ne divenne

    l’agiografo e costruìil suo personaggio

    Jesse, il bandito schiavistache ha stregato l’America

    Torna sugli schermi col volto di BradPitt il mito di Jesse Woodson James,guerrigliero sudista, alleato del Ku KluxKlan e poi rapinatore. Un criminaleferoce ma anche un abile costruttoredella propria immagine di Robin Hood

  • cavalieri della tavola rotonda e esaltò ilfatto che i suoi componenti rubassero«alla luce del sole e di fronte alla folla».

    Inebriato dall’improvvisa celebrità edalla simpatia crescente di una popola-zione che vedeva in lui l’eroico vendica-tore, Jesse cominciò ad arricchire le suescorrerie con gesti ad effetto e battutestudiate per essere immortalate dallastampa. Cominciò a scrivere lettere aigiornali, revisionate dallo stessoEdwards, nelle quali celebrava le pro-prie azioni, negando gli addebiti piùgravi. La strategia si rivelò perfetta, eJesse divenne per molti un eroe popola-re. Poco importava che non esitasse amassacrare chi tentava di resistere allarapine, e agisse spesso in simbiosi congli esponenti del Ku Klux Klan,celebrati a loro volta daEdwards, che individuavanelle loro azioni, come inquelle del bandito, la residuasperanza di restaurare il vec-chio regime sudista.

    Ma l’apoteosi fu al termine della lun-ga battaglia con l’agenzia Pinkerton, as-soldata dai proprietari delle ferrovie perdargli la caccia. Jesse riuscì a individua-re e uccidere due agenti che avevanotentato di infiltrarsi nella sua banda. Inrisposta, il capo dell’agenzia guidò per-sonalmente un assalto notturno allafattoria della madre Zerelda, pensandoche lì fosse nascosto Jesse. La spedizio-ne punitiva si concluse con un sangui-nosissimo fiasco: fu ucciso il fratellinodi dieci anni dei due banditi e venne fe-rita la madre, che fu poi costretta a farsiamputare un braccio. Agli occhi dellapopolazione e dei lettori di Edwards,Jesse divenne immediatamente la vitti-ma di cacciatori di taglie sanguinari einetti. Un effetto del fiasco fu l’imme-diato abbassamento delle taglie sul suocapo, e quindi la proposta di immunitàper i suoi delitti attraverso un’amnistia,proposta avanzata dall’amministrazio-ne democratica, che aveva preso il po-tere nello stato del Missouri anche gra-zie alle sue azioni, e che aveva restaura-to la segregazione razziale.

    Dopo aver ottenuto questa doppiavittoria, personale e politica, Jesse eFrank assaltarono insieme ai fedelissi-mi Younger una banca a Northfield, nelMinnesota. Il colpo fallì per la resisten-za di un impiegato che rifiutò di aprire lacassaforte, e con sgomento la banda sirese conto in quell’occasione di non

    avere alcun supporto da parte della po-polazione. All’uscita dalla banca si tro-varono sotto il tiro di una moltitudine difucili e pistole. Due dei tre fratelli Youn-ger rimasero uccisi, Jesse e Frank riusci-rono miracolosamente a defilarsi dallacaccia che per molti giorni gli diederopiù di mille uomini armati. Quando sep-pe che erano stati traditi da un informa-tore infiltrato nella banda, Frank decisedi abbandonare per sempre la vita dibandito. Jesse, che non riusciva a capirecome i tempi fossero ormai cambiati, siconvinse invece di non avere altro desti-no. Scrisse all’amico Edwards in cerca diaiuto, ma il giornalista non rispose. Jes-se ne fu profondamente ferito e da quelmomento cominciò a cercare la morte.

    Cambiò identità e si ritirò a St. Joseph,nel natio Missouri, con la moglie Zerel-da che gli aveva dato quattro figli.Formò una nuova banda con uomini dicui non si fidava e, in un crescendo pa-ranoico, cominciò a giustiziarli ognivolta che cominciava a sospettare dellaloro lealtà. Morì per mano di colui checonsiderava il suo nuovo braccio de-stro, un uomo capace di sparargli allespalle mentre stava appendendo unquadro. Il suo nome era Robert Ford. In-sieme al fratello Charlie era al soldo delnuovo governatore del Missouri Tho-mas Crittenden, che aveva promessoalla popolazione di liberare il paese dalpericoloso criminale. La notizia si spar-se rapidamente per tutto lo stato e unafolla enorme accorse per vedere il cada-vere e partecipare al funerale. Le dueZerelde della sua vita maledissero pub-blicamente l’assassino, che venne gra-ziato dal governatore ma fu accusatoferocemente da tutta la stampa.

    Per l’occasione scrisse un necrologioanche John Edwards, che si chiese «cosaaltro poteva fare un uomo come JesseJames se non quello che ha fatto?», de-scrisse come «vigliacca e inutile» l’ucci-sione e concluse: «Volesse Iddio che fos-se vivo oggi per massacrare giustamen-te qualcun altro». La sorpresa per lamorte inaspettata generò un’emozionedagli esiti imprevisti: Frank James siconsegnò personalmente a Crittendene venne assolto dopo uno spettacolareprocesso che vide opposta la stampa re-pubblicana, propugnatrice di una con-danna esemplare, a quella democraticache giustificava ogni azione criminalecon il disordine morale dei tempi.

    Quando tornò in libertà, Frank or-ganizzò insieme all’unico fratelloYounger rimasto in vita uno spettaco-lo nel quale metteva in scena le loro ge-sta più celebri. Fecero lo stesso i duefratelli Ford, fin quando Charlie deci-se di togliersi la vita e Robert venne mi-steriosamente assassinato. JohnEdwards rientrò nell’oscurità, videfallire i suoi ideali politici e morì al-coolizzato. Ma Jesse, la sua più grandecreazione, si trasformò in un mito, ce-lebrato da canzoni, libri e film bellissi-mi come I cavalieri delle lunghe om-bre, prendendo negli anni le sembian-ze di Tyrone Power, James Keach, Ro-bert Duvall e, tra breve, Brad Pitt.

    LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 27 AGOSTO 2006

    Anche la sua mortefece sensazione

    Gli sparò alle spalleRobert Ford,

    il suo braccio destroche era al soldodel governatore

    del Missouri

    Ispirato all’omonimo romanzo di Ron Hansen e diretto da Andrew

    Dominik, “The assassination of Jesse James” (nei cinema italiani,

    “L’assassinio di Jesse James”) racconta l’ultimo giorno di vita

    del bandito più amato del West. La storia è nota: Jesse James

    (Brad Pitt) si trova nella propria fattoria e riceve la visita di un “collega”

    di banda, Robert Ford. Il bandito è salito su una sedia per spolverare

    un quadro e dà le spalle a Ford. All’improvviso l’ospite spara a James

    con la sua Colt 45 e lo colpisce alla nuca. Ford si meriterà così i dollari

    della taglia messa su James. Ma non potrà goderseli...

    Il film sarà nelle sale americane dal prossimo 15 settembre

    EROE POPOLAREJesse Jamessulle copertine di alcuneriviste dell’epocaNella pagina di sinistra,I fratelli-banditi Jessee Frank Jamescon la madre, ZereldaSamuel

    IL MITO

    I FILM/1I film girati sulla figuradi Jesse James sonoalmeno una ventinaIl primo della serie,“The James boysof Missouri”, è del 1908

    I FILM/2Tra i tanti, spiccano“The true story of JesseJames” di Nicolas Ray(1957) e “I cavalieri dalleombre lunghe”, del 1980,con regia di Walter Hill

    I LIBRI“The assassinationof Jesse James”è ispirato all’omonimoromanzo di Ron HansenDa leggere ancheil ritratto biograficodi T.J. Stiles “Jesse James”

    LE CANZONILa più popolare è la folksong intitolata JesseJames e interpretataanche da BruceSpringsteen. Il banditoè stato cantato ancheda Bob Dylan e Elton John

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  • AUROVILLE

    «Ci dev’essere un po-sto sulla Terra chenessuna nazionerivendica come suaproprietà, un posto dove tutti gli uomi-ni di buona volontà, dall’aspirazionesincera, possono vivere liberamentecome cittadini del mondo, obbedendoa una sola autorità, la Verità Suprema».

    Il sogno della città utopica di Auro-ville nasce da questa preghiera-auspi-cio recitata all’inizio del secolo scorsoda Mirra Alfassa, compagna spiritualedi Sri Aurobindo, uno dei guru dell’in-dipendenza indiana. Negli ultimi tren-

    tacinque anni la“creatura” di que-sta coppia unitada grandiose vi-sioni mistiche hacontinuato lenta-mente ma senzasosta a prendereforma. Si chiamaAurovil le, unacittà con meno diduemila abitantidi ogni razza eclasse sociale:1.200 ettari di ter-ra rossa, un tempoarida e ora ripopo-lata di alberi, lun-

    go la costa equatoriale tra il Tamil Na-du e la piccola, incantevole ex coloniafrancese di Pondicherry, a tre ore d’au-to a nord di Madras.

    Aurobindo non ha mai spiegato co-me sarebbe dovuta essere in concretola città, destinata a ospitare al massimocinquantamila abitanti, ma ha fissato iprincipi dell’esperimento: nel perime-tro urbano vanno progressivamenteabolite tutte le forme di competizioneper soldi, fama, potere. Per riuscirci bi-sogna cominciare a cancellare alcunitra i fattori che causano le competizio-ni: politica, sistema monetario, religio-ni istituzionalizzate, sesso, droga, in-quinamento, eserciti, polizie e, soprat-tutto, il concetto del possesso.

    Tra viali sterrati e abitazioni dalle ar-chitetture bizzarre disseminate in di-

    sordine lungo i tracciati di un piano re-golatore a forma di galassia ellittica (ingran parte ancora sulla carta), gli auro-villiani si nutrono di filosofia e scienzanel ventre-laboratorio che costruiscela «Nuova razza umana», una «Super-razza» che sarà — a detta dei suoi pro-feti — l’ultima evoluzione dell’homosapiens. «L’utopia dell’uguaglianza tragli uomini ha condizionato tanti movi-menti dell’Asia e dell’Occidente, maAuroville vuole dimostrare che la verauguaglianza non si raggiunge per votounanime di un comitato centrale»,spiega Paulette Hadnagi, una ex mili-tante di Potere Operaio negli anni dipiombo italiani, che sperimenta qui lasua seconda vita di rivoluzionaria, sta-volta della coscienza.

    Mirra Alfassa rappresenta per Pau-lette e per gli altri aurovilliani una per-sonalità eccentrica rispetto ai canonifemminili del primo Novecento: origi-ni turco-egiziane, due matrimoni bur-rascosi, l’abbandono del secondo ma-rito per correre da Parigi a Pondicherryai piedi del guru visto in un sogno d’in-fanzia. Posseduta fin dalla tenera età daquesta e da altre visioni oniriche, Mirraadeguò nei trent’anni passati con Au-robindo i suoi poteri psichici all’imma-ne compito che le era stato assegnatodal guru: dare forma ai disegni ultra-mondani della “Supermente”, o “Su-percoscienza generatrice”, da lei de-scritta come una forma d’energia e disaggezza inesauribili posta esattamen-te al centro di ogni essere umano e dun-que al centro dell’universo. Per questasua capacità di attingere alla fonte del-la creatività universale, Mirra fu chia-mata “Madre” e ispirò uno stuolo di ar-chitetti, esecutori del primo nucleostorico di Auroville. «Un giorno Madredisse che la Città già esiste a un livellosottile», ha raccontato in un’intervistail primo architetto, Roger Anger. «È giàcostruita e basta portarla giù, farla di-scendere sulla Terra».

    La nascita di Auroville, ritardata dailunghi periodi di malattia di Mirra do-vuti forse ai frequenti stati di trance, av-venne il 29 febbraio 1968, diciotto annidopo la morte di Aurobindo. Come unasacerdotessa, Mirra Alfassa impartì labenedizione all’urna riempita con leterre provenienti da 124 nazioni e 23stati indiani che fu collocata al centro

    dell’anfiteatro dove sarebbe sorto, treanni dopo, il cuore della futura città, ilMatrimandir. Della forma di una gi-gantesca palla da golf a piccoli ottagoniverniciati di oro vero, il tempio senzastatue né icone è un monumento sur-reale dedicato all’evoluzione dell’u-manità. Un’evoluzione della quale Au-roville, col suo 55 per cento di verde ob-bligatorio, si considera la capitale pre-sente e futura.

    L’Unesco e il governo dell’India si so-no ritrovati fin dall’inizio artefici delprogetto-esperimento anche se l’uto-pia è stata affidata a una fondazionesenza fini di lucro, commissariata finoal 1988 a causa di cospicui ammanchidi “vile” denaro. Ma da allora la fonda-zione è tornata a essere quasi del tuttoindipendente e almeno formalmente«Auroville», come scrisse Madre, «nonappartiene a nessuno in particolare maall’umanità intera».

    Lontano dalla visione di Dio delle re-

    ligioni monoteistiche e dal politeismodi quella hindu, Sri Aurobindo crebbein Inghilterra, lesse Nietzsche e Freud,si ispirò a Mazzini e alla rivoluzioneamericana. Dopo il suo rientro in India,mentre Gandhi predicava la non vio-lenza, organizzò gruppi di indipenden-tisti in Bengala e li spedì in Europa a im-parare come costruire bombe, finchél’impatto con la cultura vedica e i pote-ri dello yoga risvegliarono il suo geniomistico. Paradossalmente, fu in unaprigione degli inglesi che fece la sua pri-ma scoperta spirituale, il “silenzio inte-riore”, uno stato privo di quel dialogoconflittuale della psiche che impedisceall’uomo di comprendere i messaggipiù sottili del cosmo e disturba la per-cezione dell’entità unica e inscindibile

    RAIMONDO BULTRINI

    Sorge nel sud-est dell’India, ha meno di 2000 abitanti che vivonosecondo le regole dettate da Sri Aurobindo, uno dei padridell’indipendenza convertitosi al misticismo. Da 35 anni la comunitàdegli aurovilliani, venuti un po’ da tutto il mondo, si nutre di filosofiae scienza per prepararsi al salto spirituale che renderà l’animadegli uomini, diceva il guru, “spaziosa come l’universo”

    Chi sceglie di viverequi lascia i suoi averi

    alla Fondazionee rinunciaa ogni forma di competizioneSono banditi politica, droga

    e sesso. Ma non ci sonoguardiani a imporlo

    i luoghiSogni e realtà

    Auroville, la città perfetta

    38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 27 AGOSTO 2006

    VITA DA AUROVILLIANI/1 Un guardiano al cancello della spiaggia di Auroville, due architetti aurovilliani al lavoro e una vecchia casa della città

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  • alla quale tutti saremmo collegati, la“Supermente”.

    Per questo all’interno del Matriman-dir, considerato l’anima di Auroville,l’isolamento acustico è quasi totale e amigliaia ogni giorno vengono qui mu-niti dei “passi per la meditazione” ne-cessari soprattutto per accedere alla“camera interna”, dove una sfera di cri-stallo di settanta centimetri di diame-tro costruita in Germania dalla Zeiss ri-flette nel buio totale un sottile raggio diluce solare captato dall’alba al tramon-to grazie a un complesso sistema com-puterizzato di specchi ed eliostati. Ilraggio simboleggia il processo di rice-zione della chiarezza (la conoscenza)nella mente umana, mentre tutt’attor-no, tra marmi di Candoglia come quel-

    li del Duomo di Milano, sono in costru-zione dodici stanze chiamate petali,dai diversi nomi e colori, dedicate a ri-flessioni come “Pace ed eguaglianza”(l’unica già pronta e accessibile su pre-notazione), “Sincerità” (di colore cele-ste), “Generosità” (violetto), “Corag-gio” (rossa) e via elencando.

    Tutto attorno, carezzate dall’Oceanoe dal vento caldo equatoriale, tra il ver-de intenso di palme, banyan e frangi-pane, spuntano come oggetti marzianile palazzine e gli uffici della città utopi-ca con le loro forme avveniristiche.Spesso le costruzioni sono lasciate allafantasia di architetti giunti da mezzomondo per sbizzarrirsi — come nel-l’eccentrico complesso a tratti gotico diAuromodel — a tradurre in forma i con-cetti universali di perfezione e armoniapredicati da Aurobindo e Madre.

    Ad Auroville non ci sono leggi codifi-cate, né agenti in divisa per far rispetta-re le regole contro il fumo, le droghe, il

    manità dei cinque continenti». «Nonsiamo borghesi dell’avventura mistica,siamo molto pratici e lavoriamo sodo»,spiega. «Continuamente vengono quiscienziati e consulenti per studiareogni soluzione ecologica esportabilealtrove. Stiamo anche lavorando aun’enciclopedia di parole chiave chedefiniscano concetti comuni a diverseculture e tradizioni».

    Luigi ammette però che l’utopia diAuroville è certamente ancora molto aldi sopra delle capacità ricettive dell’at-tuale stato di coscienza del pianeta. Maper la ex rivoluzionaria Paulette Had-nagi, che ha scritto diversi libri sulle li-nee guida dettate da Madre, gli stessiaurovilliani sono ancora ben lontanidalla meta. Paulette alloggia nell’arearesidenziale, in un complesso di caset-te un po’ buie e daldisegno sempli-ce, dove vivonoscrittori e artisti,distribuiti anchein molte delle al-tre aree chiamate“ C r e a t i v i t à ” ,“ P e r f e z i o n e ” ,“Nuova creazio-ne”. Molti resi-denti con capitalepersonale nonhanno lesinatospazio e costosesoluzioni archi-tettoniche ed èdifficile stabilirequanti tra loro abbiano abbandonatodavvero tutti i beni per vivere di quelloche la comunità produce e vende permantenersi nel mondo assai poco uto-pico di oggi. «Il motivo è semplice»,commenta con passione Giorgio Moli-nari, un fotografo e architetto ancora“aurovilliano in prova”. «Molti di noinon sanno se dopo qualche anno riu-sciranno ancora a vivere qui, abban-donando tutto per mettersi al serviziodella comunità e della divina coscien-za. Ci vuole un grande e difficile saltointeriore».

    Lo stesso Aurobindo disse una voltadi trovarsi solo al primo dei tre stadiche danno accesso a quella dimensio-ne dove i veri superuomini evocati nellaboratorio di Auroville «hanno lamente spaziosa come l’universo».

    Il cuore del progettoè la grande cupola doratadel “Matrimandir”All’interno il silenzioè quasi perfetto e un unicoraggio di luce riflessasimboleggia l’illuminazione

    creata dalla “Supermente”sesso che vigono spontaneamente tra imistici, i residenti-monaci vestiti sem-pre di bianco. Sebbene siano tutti con-sapevoli che ogni attaccamento mon-dano rallenta il distacco dalle “imper-fette” forme fisiche attuali, in questa fa-se cosiddetta di transizione agli auro-villiani è ancora concesso di sbagliare edi correggersi con i propri tempi.

    Per diminuire la dipendenza dal de-naro il negozio Pour Tous (per tutti) of-fre mercanzie in baratto. Un falegnamepuò offrire il suo lavoro in cambio dibuoni merce, lo stesso un elettricista,un maestro di yoga, un ingegnere dicomputer, un architetto. «Ognuno do-vrebbe dedicare un terzo del suo tem-po a lavori per la collettività», dicevaMadre. Ma anche gli scansafatiche, sesono benvoluti per il loro buon caratte-re, trovano ospitalità in qualche stanzadella città in perenne costruzione.

    L’aurovilliano diventa tale a tutti glieffetti dopo due anni di prova come“nuovo arrivato” e dovrà lasciare daquel momento ogni suo avere prece-dente. In cambio potrà sperimentare leproprie potenzialità creative liberatedall’assillo dei problemi quotidiani. Èla comunità che mantiene i singoli di-sposti a condividere gli ideali e le aspi-razioni dei fondatori, chi costruendocase (la casta degli architetti ha un ruo-lo speciale ad Auroville), chi insegnan-do nelle speciali scuole della futuraumanità, oppure scrivendo libri e arti-coli per il bollettino comunitario o igiornali, coltivando e distribuendo iprodotti organici delle terre di pro-prietà della Fondazione, inventando einstallando pannelli e pompe solari oimpianti eolici, producendo incensi,essenze e tessuti naturali nelle fabbri-che relativamente ecologiche dell’areaindustriale. È questo lo yoga integraleinsegnato da Aurobindo: per praticarlonon pochi ricchi indiani, europei, su-dafricani, statunitensi hanno affidatotutti i loro averi alla Fondazione.

    Un terzo degli attuali 1.800 abitantiviene dall’India. Seguono i francesi(300), i tedeschi, gli olandesi e gli italia-ni (un’ottantina), ben inseriti nella di-rezione collettiva della città. Uno diquesti è Luigi Zanzi, ex viaggiatorehippy che da circa trent’anni si è stabi-lito qui e ora è responsabile del padi-glione internazionale dedicato «all’u-

    ALTRE UTOPIE

    LE REDUCCIONES

    Piccoli nuclei fondatidai gesuiti a partiredal 1606 in Cile, BrasileUruguay e ArgentinaIl modello sociale eracollettivistico e teocraticoIspirarono il film “Mission”

    NEW LANARK

    Nata in Scozia comevillaggio industriale nel 1800fu acquistata da RobertOwen che mise in praticagli ideali del socialismoutopistico facendone unasorta di industria-modello

    LA NUOVA SION

    Si trovava sul monteAmiata (Gr) e fu fondatanel 1868. Fu la patriadei giurisdavidici, i seguacidi Davide LazzarettiLa comunità si ispiròa un socialismo mistico

    SAN GIOVANNI IN FIORE

    Fu fondata nel 1189dall’eretico Gioacchinoda Fiore sui monti della SilaLa vita dei suoi abitantiera ispirata a idealidi povertà, ascetismoe di spiritualismo mistico

    LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 27 AGOSTO 2006

    VITA DA AUROVILLIANI/2 Una scultura che adorna il tempio indù della città, due aurovilliani in moto e una casa moderna. Nella foto in basso, il Matrimandir

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  • fici, caratteri cinesi stilizzati, kangji, ma anche a una sua fir-ma reiterata. Alla domanda se abbia influito su di lui il viaggioin Cina e il documentario che ne fece negli anni Settanta, la ri-sposta è che l’Oriente (Cina e Giappone) lo hanno sempre af-fascinato e coinvolto, e di viaggi ne fece parecchi (RolandBarthes, l’autore de L’impero dei segni, non aveva torto). È inCina che Antonioni inventariò una serie infinita di tonalità diblu. Guardiamo ora un quadro caotico e imponente, grandirighe nere verticali, e forme dai colori delicati. Poi Tanti pun-ti, un quadro dal fondo nero da cui emergono diramazioni co-me cactus dense di colori rossi, gialli e verdi primaverili, unaprimavera frizzante come una canzone di Brian Wilson. Cosìcome Fuoco d’artificio, esplosione di colori gioiosi, blu e ver-de soprattutto, su un fondo rosso-rosa. Totem, una superficieverde chiaro, una spazialità quasi desertica, e poi Festival delcinema, frutto di mesi di lavoro, dove prevale il particolareg-giamento, una varietà di forme minuziose, caleidoscopio dicolori e linee che si intersecano o si costeggiano in una miria-de di scene di colori e forme astratte, dove ancora prevale ilverde, un verde creato dal pittore. Il verde, dice Monica, è ilcolore preferito dal maestro, insieme al viola. Vedo nei qua-

    Quattro anni fa il grande regista,non domato dall’età né dalla malattia,ha dato inizio a una nuova avventura:

    instancabilmente dipinge, scegliendo i toni freddie opachi che predilige. A settembre, in occasionedei suoi 94 anni, esporrà a Roma al Tempio di Adriano

    Plastici silenzi, ellissi narrative,storie costruite intorno al vuoto:tra le sue pellicole e la sua pitturacorre un filo di grande coerenzaGià Gilles Deleuze lo avevadescritto come “uno trai più grandi coloristi del cinema”

    ROMA

    Si chiama Silenzio a colori, e sembra la didascalia diun suo film, ma è una mostra di dipinti su carte etele di Michelangelo Antonioni. Anche il lessicoper descriverli richiama le parole con cui genera-zioni di spettatori hanno cercato di evocare lo stile di quelloche il grande regista ha narrato sullo schermo: plastici silen-zi, appunto, ellissi narrative, storie costruite intorno al vuoto;l’eloquenza del vuoto, l’espressività straordinaria di inqua-drature tanto più parlanti quanto più indirette, fino alla po-tenza del colore degli ultimi film (ma forse già l’intensità, l’e-videnza del bianco e nero de L’avventura, La Notte, L’Eclisse,era una sorta di colore); la sua sottigliezza infine, «sincope delsenso», come la definì RolandBarthes celebrando Antonio-ni ventisei anni fa, paragona-to già allora ai pittori (Braquee Matisse) e all’estetica del-l’Oriente. Ovvero il suspensedi immagini e storie che co-glievano le realtà interstiziali,i cosiddetti tempi morti delleavventure. Esiste qualcosa dipiù vero?

    Dal 2002, cioè dal suo no-vantesimo anno, nel silenziodella sua casa sul Tevere a Tordi Quinto, per nulla domatodalla malattia e dall’età, Mi-chelangelo Antonioni passaore e giorni a dipingere il vuo-to, a disegnare altri tipi di el-lissi e di curve, di pieni e divuoti, di linee frastagliate ericcioli che sembrano ideo-grammi cinesi, geometrienon euclidee e coloratissime.Ha cominciato a dipingere incampagna guardando i bam-bini, i nipoti. Un amico gli re-galò un quaderno bianco e co-minciò a fare disegni col pen-narello. La moglie Enrica loincoraggiò offrendosi di aiu-tarlo a mettere il colore. Tra-scorsero l’estate del 2002 aRoma a dipingere sul tavolo, ilrumore lieve del traffico fuori simile al brusio del mare, im-mersi nell’arancio, nel verde, nel rosa. A stendere i colori so-no subentrate come assistenti Alessandra Giacinti e MonicaDabbicco, diplomata in pittura all’Accademia di via Ripetta:«Sono solo un pennello per lui, uno strumento», dice Moni-ca, e mi parla della concentrazione, della determinazione dicolui che, pur dandogli del tu, chiama rigorosamente “Mae-stro”: «A differenza di me, Michelangelo non è mai stanco».Entrambe hanno raggiunto una rara empatia nel silenzio del-la pittura, come testimonia il film realizzato da Enrica Anto-nioni: Con Michelangelo.

    È lì che ho scoperto i suoi quadri, guardando la mano an-ziana che traccia linee sulla tela, le istruzioni assorte e appe-na percettibili che dà all’assistente per scegliere e disporre icolori in un sovrapporsi di forme che suggerisce una tridi-mensionalità della tela. A chi fosse stupito (il regista de L’av-ventura divenuto espressionista astratto?), dico che questiquadri illuminano magicamente tutto il lavoro di Antonioni.Se è vero, come scrisse Walter Benjamin, che ogni testo lette-rario contiene in sé tutte le future e possibili traduzioni in al-tre lingue, l’espressività pittorica di Antonioni rivela una coe-renza anteriore a ogni categoria e a ogni facile definizione.Non ha forse detto lui stesso che «sotto l’immagine rivelata cen’è un’altra più fedele alla realtà, e sotto quest’altra un’altraancora, e di nuovo un’altra sotto quest’ultima?». Il celebrepassaggio, del 1964, così concludeva: «Fino alla vera immagi-ne di quella realtà, assoluta e misteriosa, che nessuno vedràmai. O forse fino alla scomposizione di qualsiasi immagine,di qualsiasi realtà. Il cinema astratto avrebbe dunque una suaragione di essere».

    È per rendermi conto della visibilità di ciò che prima era in-visibile che sono andato da Michelangelo Antonioni. È quasiun genere letterario la “visita all’atelier” dell’artista, ma è conapprensione, oltre all’onore per l’invito, che mi sono trovatonella casa-studio dove vive da cinquant’anni. Faccio parte,confesso, di quella generazione il cui entusiasmo per il cine-ma di Wenders (almeno i primi film) era in fondo un succe-daneo a quello per i film di Antonioni (ero troppo piccolo perparlarne in presa diretta). Del resto anche Wim Wenders ha

    BEPPE SEBASTE

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    espresso la sua venerazione per il Maestro in un memorialeche racconta la realizzazione di Al di là delle nuvole (Il tempocon Antonioni. Cronaca di un film, edizioni Socrates). Ecco-mi dunque qui, di fronte alle vetrate che offrono una vista a360 gradi, compresa la curva del Tevere e le pinete, i campi datennis di un centro sportivo, e altre pareti coperte di libri equadri tra cui, oltre a una delle bellissime Montagne incanta-te che il regista cominciò a dipingere negli anni Settanta, ri-conosco le sue nuove geometrie colorate. Accanto al tavoloda lavoro noto le decine di boccette di colori acrilici (polyco-lor), varietà di verde, giallo, lilla, rosa, tutti i colori “freddi” eopachi che Antonioni predilige. Quindi ci sediamo fianco afianco, e guardiamo i suoi quadri già scelti per la mostra chesarà inaugurata a Roma in settembre. Prima i grandi formati,un metro per uno e mezzo, che Enrica e Monica ci mettonodavanti agli occhi. Michelangelo Antonioni è impazientequanto me di riguardarli.

    Il primo si chiama Cornucopia, e il fondo color oro è l’ulti-ma cosa che ha messo. Emergono forme azzurre, verde ac-qua, rosa e rosse, le sue “icone”, riccioli e altre forme a voltemorbide a volte appuntite che fanno pensare a segni calligra-

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  • dri il verde giallastro del cappotto di Monica Vitti in Desertorosso, il blu e il rosso delle baracche del porto di Ravenna, i co-lori delle camicie di Jack Nicholson in Professione: reporter, ecosì via. E penso a una frase altrettanto ellittica di Antonioniall’epoca del suo primo film a colori: «Se c’è ancora dell’auto-biografia, è nel colore che essa deve essere trovata».

    Guardo col Maestro una grande tela verticale dove dominal’ocra. Guardo le carte, le tempere, una bellissima dal titoloAfrican rug. Tutti i suoi quadri inducono un andirivieni con-tinuo dell’occhio dello spettatore, tutti evocano una tridi-mensionalità raggiunta dall’accostamento delle forme e deicolori, che lungi dall’apparire grafici acquistano rilievo. Aproposito di alcuni dipinti che all’inizio la sconcertano, Mo-

    Si riconosce il verde-giallastrodel cappotto di Monica Vittiin “Deserto rosso”, il blu e rossodelle baracche di Ravenna,le tinte delle camicie di Nicholsonin “Professione: reporter”

    I DIPINTI IN MOSTRA A SETTEMBRELa mostra dei dipinti su tela e su carta di Michelangelo Antonionisarà inaugurata a Roma il 29 settembre prossimo, nel giornodel novantaquattresimo compleanno del grande regista,al Tempio di Adriano, e si concluderà il 22 ottobre. L’allestimentoè stato curato da Renzo Piano, Massimo Alvisi, Junko Kirimotoe Enrica Antonioni, moglie di Michelangelo. La mostraè una delle iniziative legate alla “Festa del cinema di Roma”,in programma dal 13 al 21 ottobre

    che conferisce qualità di volto a ogni inquadratura, cioè in-tensità, capacità di rilanciare l’affettività e la potenza dell’im-magine con un effetto più ampio e duraturo di ogni causa e diogni logica rappresentativa. Questa qualità di volto, o primopiano, sarebbe data proprio dal colore. Deleuze notava quin-di «l’uso di colori freddi spinti a massimo della loro pienezzao della loro intensificazione, per oltrepassare la funzione as-sorbente», in cui «il colore porta lo spazio fino al vuoto, can-cella quanto ha assorbito», fino ad arrivare (scopo del cinemadi Antonioni secondo Deleuze) «al non-figurativo», «un’av-ventura il cui termine è l’eclisse del volto, la cancellazione deipersonaggi». È la vocazione al deserto di Antonioni (Desertorosso, Zabriskie Point, Professione: reporter, ma anche il par-co e il campo da tennis di Blow up). L’amore di Antonioni peri quadri di Mark Rothko, attestato da un loro carteggio, con-ferma questa estetica, dove il silenzio delle storie e delle rela-zioni umane, quella “incomunicabilità” fin troppo insistitadai critici, è viatico e tensione verso lo spazio puro, e da essoal vuoto.

    Penso tutto questo riguardando i quadri del Maestro nel si-lenzio dell’attico che si affaccia sul vuoto, e sulle pinete lun-go il Tevere, e sui campi da tennis rossi che macchiano quelverde. Che cosa è il colore? Ricordo un dialogo centrale di De-serto rosso. Lei: «Che cosa vogliono che faccia coi miei occhi?Cosa devo guardare?» Lui: «Lei dice: “cosa devo guardare”. Iodico: come devo vivere? È la stessa cosa».

    Ha detto Michelangelo Antonioni all’epoca di quel film:«Non esiste il colore in assoluto. È sempre un rapporto. Unrapporto tra l’oggetto e l’osservatore (addirittura lo stato fisi-co dell’osservatore), tra l’oggetto e la direzione dei raggi chel’illuminano, tra la materia di cui è formato l’oggetto e lo sta-to psicologico dell’osservatore, nel senso che entrambi si sug-gestionano a vicenda. L’oggetto cioè con il suo colore ha unadeterminata suggestione sull’osservatore, e questi contem-poraneamente vede il colore che in quel momento ha inte-resse o piacere a vedere in quell’oggetto». E ancora: «È con l’a-bitudine che si impara a guardare i colori. È dopo una certaesperienza che riusciamo a distinguere quanto c’è di grigio inun giallo o quanto c’è di blu in un grigio. E questi sono fattoridai quali non si può prescindere nel cinema a colori perché lapellicola riproduce molto più fedelmente di quanto l’occhioumano non sia in grado di vedere e riprodurre quel colore inun determinato oggetto. […] Ma nel cinema tutto ciò che nel-la vita comune è inconscio deve diventare consapevole. E lodiventa appunto con l’abitudine, l’abitudine a guardare i co-lori così come sono, a guardare la realtà così com’è. Colora-ta». Il cinema di Michelangelo Antonioni continua nel silen-zio a colori delle carte e delle tele.

    LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 27 AGOSTO 2006

    AntonioniMichelangelo

    Il silenzio a colori, dai film ai quadri

    DALLA MANO ALLA TELAI titoli delle tre tele di Michelangelo Antonioni,dall’alto: “Totem”, “Cornucopia”,“Festival del cinema”, foto di Luca PronLe foto del Maestro che dipingesono di Enrica Antonioni

    nica mi dice che «il Maestro arriva sempre a un equilibrio, ècapace alla fine di armonizzare tutto», anche i segni appa-rentemente più incongrui. E guardo il Maestro osservare ipropri quadri, seguirne con le dita le superfici, accarezzarlisenza toccarli, guardarli con le mani, infine controllarne la fir-ma (idea, ancora, che le sue “icone” ricorrenti siano altret-tante firme). È spettatore divertito e intrigato delle sue stessecreazioni, come se non ne fosse l’autore. Guarda se stesso co-me un altro. Finché li licenzia con un gesto, non senza averepronunciato un commento: «Bello», «molto bello», oppureun ironico «mamma mia!», come a dire: che follia avere fattoquesto quadro. Il distacco dai suoi quadri, mi dice Enrica, ri-pete l’atteggiamento che aveva nei confronti dei suoi film, eva connesso col detto pascaliano che amava ripetere citandoil pittore Giorgio Morandi (che Antonioni frequentò e amavamolto): «Il vero artista è colui che sa stare da solo in una stan-za». Ma nel suo atteggiamento, come nei suoi dipinti, c’è an-che una componente di gioco e di audacia che forse solo la se-nilità — infanzia riconquistata — può dispiegare con tantaanarchica leggerezza: le sue opere sono una festa della libertà.

    La loro tridimensionalità trova conferma in altri suoi lavo-ri, sculture e collages, fatti di cartoncino con dentro polistiro-lo oppure legno. Intagli di diversi colori, incastrati e incollaticreando scenografie complesse, spesso impossibili (come sidiceva delle ipotesi spaziali e volumetriche dell’architettoFrank Gehry), prolungano il piacere tattile della sua ricerca.Monica, l’assistente di Antonioni, sottolinea di nuovo la ca-pacità del Maestro di trovare sempre una ricomposizione aciò che si presenta all’inizio come una frammentazione irre-dimibile, di giungere ogni volta a una soluzione armoniosadell’informe, anche a dispetto della sua incredulità.

    La mostra di Michelangelo Antonioni sarà accompagnata,tra l’altro, dal testo di un patologo americano e studioso di ci-nema, David Kaminsky. Alludendo all’aspetto terapeutico diquesto “silenzio a colori”, parla di «una dimensione comuni-taria di colori che sembra violare l’austerità e la solitudine del-lo stile dei suoi film». Può darsi. Ma a me viene in mente che ilfilosofo Gilles Deleuze, nel suo primo libro sul cinema (L’im-magine-movimento), scriveva già di Antonioni come di «unotra i più grandi coloristi del cinema». Ne tratta nel capitolo de-dicato al “volto”, cioè al primo piano, “immagine-affezione”

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  • la letturaAnimali-simbolo

    Angelicato e demonizzato, leccornia e alimento-tabùOra questa bestia controversa sarà protagonistaal Festivaletteratura di Mantova grazie a un librodi Stefano Scansani, arricchito dall’opera teatralein gramelot di Dario Fo che qui anticipiamo

    Lo sguardo umano, le orecchieche paiono una pettinaturaestrosa, il grugno vibratile,il codino riccio: tutto in lui,per sua sventura, è simpaticoe affabile, irresistibile già da vivo

    42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 27 AGOSTO 2006

    Quando ol Segnòr Padreterno Iddio ul’ha creato ol porco, u l’ha dit: «Bon,sperémo de no’ avér combinàt ‘napurselàda».El porco l’era felìz, beato de la so’ con-disiùn. Lü, porsèl, maiàl, puórco,

    quàrche volta ciamà anca vèrro... l’era satisfà,alègro d’avérghe cossì tanti nomi. Ol stava tüto olziórno, inséma a la sóa fémena, a roversàrse, asgorgonciàr inta la buàgna, nello smerdàsso, nel-lo scòrco, nello scagàsso che ol faséva: ol se spri-

    gnàva, ol criàva, ol ciapàvadei srobodón, ol cantava e olrideva. Faséva dei sgrogognà,no’ soltanto ne’ lo sòo desmerdàsso, ma anca in quèlode tüti j artri anemàli, perchéol diséva: «Pü spüssa, pü qua-letà!».

    I fasévan l’amor a sbàti-sbàte che l’era un obsénoscàndelo! I criàva de plazérche pareva se scanàsse! Isbròffi e i schìsi deglismerdàssi ‘rivàva fin al ziél,co’ tüti i rumori e le spüsse,‘me stciòpo de sboàsso, cheun ziórno el Padreterno, faper vegnìr fora de ‘na nìvola...puhaa... ghe ‘riva ‘na sbruffà-da che par poco no’ el lava tü-to!

    «Ohi!, se l’è? Ehi, porsélo! Ma te sèit proprio unpuórco! Ma no’ te vergogni andàrte a srotolàrte in‘sta manéra a sgrofón, a sbati-sbate, a far l’amor!Fra ti e la tua fémena, sit proprio la zozza spor-selénta del creàt!».

    «Ma Segnòr Padreterno... — sgrógna mortefecàtol maiàl — te sèit stàito pròpi ti che me gh’ha creàtcon ‘sto sfìsio gaudurióso de sguasàr in la fanga descagàsso. Noàltri no’ ghe se pensava mìga!».

    «D’acòrdo, ma ti ol te sèit esageràt! Te ghe vadentro sànsa creànsa e co’ gran solàzzo in ‘staboàgna e a farghe l’amor. Ma dico, te set già inta lamerda... state bon! No! Ti te va a cantàr l’ExcèlsisGloria a Deo! Va ben... ad ogne manera, se te va bene sèit cuntènto de ‘sta condesión, staghe puretranquìlo!».

    «No, en veretà Segnor, no’ per sopèrbia... no’vorrìa che te se offende... ma mi no’ so’ tanto soti-sfàtto de la mia condesión».

    «Cossa te voi? Che te torga via la spüssa a la mer-da?».

    «No! Sarìa come cavàrghe l’ànema a un cri-stiàn!».

    «E allora, cosa te voi?».«Vorarìa le ali!».«Le ali?!».«Sì... pe’ volare!».«Ahahaaa!... Ma sèit proprio mato! Ma te pensi...

    ti che te vai volando?! Un porsèlo volante che vaspantegàndo tanfo e smerdasso par tüto ol creato!Co’ gli anemàli de sóto che i crìa: oh cos’è ‘sto de-sàstro!».

    «No, nol sarìa spantegàr boàgna, ma ol sarésseconzéme maravegiòso per ogne lògo... despàrge-re sanetà e ‘bondànzia per fiori, frutti e frumenti!».

    «Ohé, tu gh’ha un bel zervélo! Porsélo questo delo smerdàzzo che va a conçemàre nol gh’avéa mi-ga pensào! Bravo! Te me gh’hai convenzùo. Te fà-go le ali».

    «Grazie Deo!».«Ma soltanto a ti, al verro... la fémena niente! A

    pìe!».

    La fémena se mette a piàgnere desperàda: «Ec-co, ol savéo... sempre de contro a noàltre fémene!Me l’avéan dit che ti, Deo, ti era un po’ mesòge-no!».

    Tàse fémèna e sta in la tòa boàgna! Basta! Pitò-sto ti verro, se te voi proprio portàrte la tòa féme-na per el ziélo, te lo poi fare: te la embràsi tütta benbene e ten vai volando».

    «No, non pòdo Segnor. È emposìble, perché migh’ho le brassa cürte... sémo slarghi... sémo co’ dele panze che no’ finìsse. Come che se stregnémoambrassàdi, co’ tutto lo smerdàsso che gh’émoadòso, entànto che volémo, la méa scrofa scarlìgadei man e me slìsega de föra... puhaam... la presì-peta... se schìscia par le tere e me resto senza fé-mena!».

    «Ehee, ma mi so’ miga vegnü Deo per raco-mandasión! Ti te pensi che mi te pòdo farte le alise no’ gh’ho già avüt il pensiér, ante, de la solu-siùn?».

    «Che solusiùn?».«Faghe mente! Mi t’ho fàito apòsta un pin-

    dorlón tüto sbìrolo come un cavabusción... tit’ambràssi la tua fémena e te lo ghe sfrìssi profùn-do, te la strìsi de fròca de amòr e te poi andàr vo-lando anca senza man! Nol te la devi tegnìre!».

    «Grazie Deo! Nol gh’avéo pensàito!».«Bon, adeso pónete en genógio che fago ‘sto

    meracolo meravegiòso!». El Segnòr volse i ögi al ziél, fa un segn co’ la ma-

    no santa e... sfrum, sfram... su la stcéna del verroghe spónta le ali meravegiòse, d’argento! La fé-mena lo ambràssa e dìse: «Ohi, l’è nasùo l’ànzelodei porsèli!».

    Ol Deo dìse: «Férmete, no’ te andar de prèscia.Ol gh’è ‘na condesiòn: stàit aténto, le ali so’ legàtco’ la ciéra!».

    «Co’ la ciéra? — fa il porco — Come quèle de Ica-ro?».

    «Sì, te gh’hai endovenàt. Ma cosa te ne sai ti del-l’Icaro?».

    «No’ te se desméntegare che noàltri porséli sé-mo dentro tüte le fàvule de Fedro!».

    «Ohi!, a gh’émo un porsèlo classico! Chi l’avarìamai ditto?! Alóra, tel cognóse ben quèl che gh’è ca-petàt a l’Icaro, che volando verso el sole ghe se sonsparghegnà tüte le ale e l’è sprofondàt par tèra e ols’è tüto stcepàt! Quèlo el pò succéder anca a ti.

    MICHELE SERRA

    Il maiale, istruzioni per l’uso

    Per misteriosissime ragioni (il caso? remote epidemie?ossessioni private di individui influenti poi divenutetabù sociali?) il maiale è, tra tutte le bestie, quella piùcontroversa nel giudizio degli uomini. Oggetto delpiù radicato e diffuso veto religioso-alimentare pres-so alcuni, divorato con devozione e passione presso

    altre culture che lo hanno posto su un vero e proprio altare ga-stronomico. In ogni caso, l’animale sacro per eccellenza: demo-nizzato oppure angelicato, impuro o viceversa così puro da po-ter essere consumato dalle orecchie al codino, comprese le trip-pe e i grassi garretti, comunque levato dalla mediocrità per as-surgere a un ruolo di notevole eccellenza simbolica.

    In alcuni luoghi della Terra, per esempio la Pianura Padana,questa bestia cilindrica, in forma di boiler semovente, è in pra-tica deificata. Le si dedicano mostre piuttosto colte (memora-bile quella di una ventina d’anni fa a Reggio Emilia, che è un po’la città santa dei suini), scienza zootecnica e culinaria raffina-tissima, culto iconografico diffuso (molti i collezionisti di maia-lini di ceramica, panno, legno e altri materiali). In Spagna li sinutre di sole castagne per ricavarne prosciutti famosissimi,contadini di ovunque allevano il loro personal-maiale nutren-dolo da pascià prima della sinistra cerimonia della mattanza, el’allevamento intensivo è così intensivo da interessare il bacinodel Po, fino al delta e al mare, di un allarmante inquinamento dacacca e pipì di porco, oggi un po’ più sotto controllo ma fino apochi anni fa da allarme rosso.

    GIULLAREDario Fo dietro una tavola con le zampe di maiale

    Questo testo di Dario Fo, intitolato “La presunzione del maiale”,

    è tratto dal libro “Fenomenologia del maiale”, in uscita a settembre

    L’attore e premio Nobel lo recitò a Castell’Arquato nel 2004

    per il programma di Raidue “Teatro in Italia”. I disegni, sempre di Fo,

    sono tratti dalla “Bibbia dei villani”

    Porcellicon le ali

    in paradisoe ritorno

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    2006

  • LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 27 AGOSTO 2006

    Aténto, alóra!».«Sì, d’accordo!».E ol vola via ol Deo. Ol porsélo e la sòa fémena i

    resta lì un momento; ol porsélo prova a volare, faun ziro, zira de novo: «L’è un plazér!».

    «Ferma, aspècia, ambràssame, spìrcame!» vu-sa la scròfa. Proock... Svrip, svop, svuom... fra lenìvole i vola. La fémena crìa: «Che maravégia! Mepar de esser in del Paradiso!».

    «Paradiso? Ol tu gh’hàit rezòn! Andremo in Pa-radiso, mi e ti!».

    «Ma no, non se pol. No’ deméntegarte coss l’hadit ol Deo Patreterno... che gh’è el sole... «.

    «Ma no’ gh’è besogna d’andàrghe col sole! Spe-ciémo che ghe sia el tramonto, andarém con loscuro, quando che gh’è note!».

    «Ti ha un zervèlo davéra! Ma come fasémo aciapàr ‘na rencórsa tanto da rampegàrse, tüti em-brassàdi, lassù?».

    «Basta far ‘na zivolàda!».«Come, ‘na zivolàda?».«Prima se spargémo bélo ungi de grassa e de

    smerdàsso. Andémo, ecco, qua, végne, végne, vé-gne, andémo sulla salìda longa che gh’è in su ‘stamontagna, slassighémo giò per le valli, vai, vai,vai... Strìgneme! Vai, aténta che slargo le ali!...puhaa!... ieheee!».

    I monta, i monta, i monta, cala una maravegiò-sa ùffia de vento che va e che tira e arriva in fondo,i salta la luna e arriva in Paradiso. Come i sont inParadiso, oh Deo, Deo, maravegióso! A gh’è la fé-mena che quasi desvégne, a gh’è dei frùcti!, a gh’èdelle pérseghe!, delle ciréise!, grande, grande...Oheu che grande! I par che i se pol stàrghe dentroin dói, imbrassài a sgorgognàr in de la polpa: «Var-da quèlo, pare ‘na cupola de catedràle, che me-ravégia!, andémo dentro!». Puhaa! I va dentro, sesròtola, se sprégna, i fa l’amore, i crìa.

    Entanto, en quel momento, appresso, o gh’ètüti i santi del Paradiso e i ànzeli che canta le glo-rie