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DOMENICA 14 AGOSTO 2011/Numero 339 D omenica La di Repubblica ALAIN DELON spettacoli I predatori del cinema perduto MAURIZIO FERRARIS e CLAUDIA MORGOGLIONE cultura Brodskij, poesie, disegni e gatti VIKTOR EROFEEV e NICOLA LOMBARDOZZI i sapori Ferragosto, abbuffata sotto il sole LICIA GRANELLO e MICHELE SERRA l’incontro Di Gregorio, “L’età non è un limite” MARIA PIA FUSCO l’immagine Quando la fotografia divenne a colori MICHELE SMARGIASSI MARIO SERENELLINI PARIGI S ono tante, anzi, tutte. Tutte perfette, quasi astratte: da concorso di bellezza, un seriale One Miss Show, bellez- ze in gara con lui. Ma, stringi stringi, passandolo al se- taccio psicoanalitico, il granserraglio d’una vita d’a- mori si riduce a due. Due donne chiave: la madre e la figlia. A loro volta risucchiate in uno, uomo: il “figliopadre” Alain De- lon. Il figlio assurto a star per «dar soddisfazione» alla madre, dalle sopite aspirazioni d’attrice, ansiosa di vederlo trionfare sul grande schermo, e il padre che ha trovato in Anouchka, da lui avuta a cin- quantacinque anni, la staffetta ideale, il Delon 2 di domani. (segue nelle pagine successive) BRIGITTE BARDOT I l mioamico Alain Delon è una belva, uno di quegli animali su- perbi e non addomesticabili in via d’estinzione. Il suo sorriso carnivoro e tellurico è uno scacco matto ulteriore, come il blu del suo sguardo che perfora, scandaglia, strega e seduce. “Lui è”. In tutta semplicità e senza interrogatori alla Shakespeare...! Co- nosce il mondo intero e il mondo intero lo conosce. Ha girato con gli attori più prestigiosi e i più celebri registi, rimane il più grande e l’ul- timo rappresentante di un’era di talenti, di cui conserva in fondo al cuore una nostalgia malinconica. Difficile, anche per lui, ammette- re e accettare l’attuale mediocrità, la nostra società disumanizzata. (segue nelle pagine successive) FOTO JEAN-PIERRE BONNOTTE /GAMMA-RAPHO VIA GETTY IMAGES Bello delle Donne Il Amori e dolori, rimorsi e rimpianti Tutti al femminile Le confessioni di un divo Repubblica Nazionale

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DOMENICA 14 AGOSTO 2011/Numero 339

DomenicaLa

di Repubblica

ALAIN DELON

spettacoli

I predatori del cinema perdutoMAURIZIO FERRARIS e CLAUDIA MORGOGLIONE

cultura

Brodskij, poesie, disegni e gattiVIKTOR EROFEEV e NICOLA LOMBARDOZZI

i sapori

Ferragosto, abbuffata sotto il soleLICIA GRANELLO e MICHELE SERRA

l’incontro

Di Gregorio, “L’età non è un limite”MARIA PIA FUSCO

l’immagine

Quando la fotografia divenne a coloriMICHELE SMARGIASSI

MARIO SERENELLINI

PARIGI

Sono tante, anzi, tutte. Tutte perfette, quasi astratte: daconcorso di bellezza, un seriale One Miss Show, bellez-ze in gara con lui. Ma, stringi stringi, passandolo al se-taccio psicoanalitico, il granserraglio d’una vita d’a-

mori si riduce a due. Due donne chiave: la madre e la figlia.A loro volta risucchiate in uno, uomo: il “figliopadre” Alain De-

lon. Il figlio assurto a star per «dar soddisfazione» alla madre, dallesopite aspirazioni d’attrice, ansiosa di vederlo trionfare sul grandeschermo, e il padre che ha trovato in Anouchka, da lui avuta a cin-quantacinque anni, la staffetta ideale, il Delon 2 di domani.

(segue nelle pagine successive)

BRIGITTE BARDOT

Il mioamico Alain Delon è una belva, uno di quegli animali su-perbi e non addomesticabili in via d’estinzione. Il suo sorrisocarnivoro e tellurico è uno scacco matto ulteriore, come il bludel suo sguardo che perfora, scandaglia, strega e seduce. “Lui

è”. In tutta semplicità e senza interrogatori alla Shakespeare...! Co-nosce il mondo intero e il mondo intero lo conosce. Ha girato con gliattori più prestigiosi e i più celebri registi, rimane il più grande e l’ul-timo rappresentante di un’era di talenti, di cui conserva in fondo alcuore una nostalgia malinconica. Difficile, anche per lui, ammette-re e accettare l’attuale mediocrità, la nostra società disumanizzata.

(segue nelle pagine successive)

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(segue dalla copertina)

Les femmes de ma vie(Le donne della mia vita), pri-ma autobiografia ufficiale, uscita in Francia daDidier Carpentier non rivela nulla di nuovo, senon a sua insaputa, sull’ultimo divo del pianeta,lesto nel bloccare biografie non autorizzate comequella di Bernard Violet di dodici anni fa. In 162

pagine e 200 immagini, accompagnate da esclamativi appun-ti di suo pugno («Duomo di Milano: Rocco e i suoi fratelli, conla mia Annie [Girardot]», «Mia Bri...[Brigitte Bardot], 50 annid’amore puro e d’amicizia fedele e sincera»), il lussuoso volu-me appare, insieme, un funereo album di nozze (multiple) euna solare sinossi d’epilogo, come la sequenza finale de L’uo-mo che amava le donnedi Truffaut: anche se Delon si riconfer-ma l’uomo che amava se stesso e il libro potrebbe intitolarsi,non Le donne della mia vita, ma I Delon delle mie donne. Per-ché, a scandire il foto-défilé di coppie, cronologico e dipedante classificazione — donne del cuore,partner (da Monica Vitti ne L’eclisse a ClaudiaCardinale nel Gattopardo), amiche (Edith Piaf,Juliette Gréco...) e, persino, le adorate cagnette,che, a differenza delle donne, gli sono «rimaste fe-deli» — c’è sempre lui, in testa a ogni capitolo, conprimi piani dal fascino malandrino, specchi d’ac-qua di clic narcisi.

Ma nello snodo figlio-padre Delon si scrolla didosso ogni icona, svelando quella sua umanità disar-mata, senza carismatiche finzioni, che i più intimi, co-me la sua “Bri”, gli riconoscono: tenerissimo, terso,senza più maschere, quando, finalmente, si fa vivo al te-lefono da una località misteriosa, dopo settimane d’as-siduo assedio, iperprotetto da coorti d’assistenti e ufficistampa. «Quando Nathalie e io abbiamo divorziato, do-po le riprese di Frank Costello faccia d’angelo— risuona lasua bella voce, appena grattata dall’età — nostro figlioAnthony aveva quattro anni. La mia stessa età il giorno deldivorzio dei miei genitori, quando “Mounette”, mia madre,mi ha messo in un collegio cattolico. Ero angosciato: maiavrei voluto far rivivere a mio figlio quel che avevo provato ioda bambino». Ora Anthony ha quarantotto anni, la nuovaemergenza si chiama Alain-Fabien, diciassette anni (difficil-mente controllabile, come al recente “revolver party” nella vil-la svizzera del padre), di cui ha ottenuto lo scorso settembrel’affidamento dopo una lunga battaglia legale contro l’ultimaex, Rosalie Van Breemen, che nel 1990 gli aveva dato Anou-chka, oggi unica scintilla in un universo di bellezze al passato.

«Uno dei più grandi momenti della mia vita» è stato per lui iltapis rouge percorso insieme a Cannes, una simbiosi che l’at-tore ha voluto replicare in teatro, nei mesi scorsi, in Une journéeordinaire, sullo struggente distacco tra figlia e padre. Altra au-tobiografia, che stavolta pesca nel profondo, nel suicidio sim-bolico e spavaldo dell’arruolamento tra i paracadutisti, a di-ciassette anni, per la guerra in Indocina, riscatto da un’infan-zia dolorosa lontano dalla madre, e nel suicidio annunciato, seianni fa, dopo l’abbandono di Rosalie e l’allontanamento deidue figli. Ma “Mounette” e Anouchka, la madre e la figlia di De-lon, si sono date, a distanza, una complicità d’amore, risolle-vando l’attore da solitudini stremate. «È stata mia figlia a ri-mettermi in piedi, quando, ancora ragazzina, mi ha detto:“Papà, non voglio che te ne vada, desidero essere al tuo brac-cio il giorno del mio matrimonio”. Sono parole che valgonotonnellate di antidepressivi». Sua figlia. Sua madre. Gli uniciamori perduti e ritrovati. Gli altri sono tutti perduti, specie iprimissimi. Lui ancora anonimo, dinoccolato nella facilebohème di Pigalle anni Cinquanta, loro già dive e più adulte,come Brigitte Auber di Hitchcock o Michèle Cordoue, sposa emusa di Yves Allégret, che spingerà il marito a farlo esordire nelpremonitore Quando s’immischia la donna.

Sfioriti e lontani anche gli amori più mediatizzati. Anni Ses-santa, Nathalie («l’unica che ho sposato: ha anche conservatoil mio cognome, ultima prova d’amore. Merci, Madame De-lon!»). Anni Settanta, “Mimì”, cioè Mireille Darc («quindici an-ni di vita di coppia, felicemente ricomposta in teatro nel 2007in Sur la route de Madison»), suo sostegno incondizionato du-rante l’affaire Stefan Markovic, amante di Nathalie, trovato uc-ciso nell’ottobre 1968, «un complotto politico d’oltre cortina,in cui hanno cercato inutilmente di trascinarmi come pedinasporca». E, ancora, Anne Parillaud — poi sposata e lanciata daLuc Besson in Nikita— due stagioni di torrida passione, che in-ducono Delon «pazzo d’amore», come lui stesso confida, a far-sene pigmalione negli unici film da lui diretti, Per la pelle di unpoliziotto e Braccato.

In tanta costellazione rimangono ancor oggi in un angolo dipudore due amori, il più famoso e il più segreto, Romy Schnei-der e Dalida, entrambe morte drammaticamente, le prime ariapparire e tappezzare le pareti del camerino, invidiabile al-tarino del cuore, quando Delon torna al teatro. Nel libro, Romye Dalida hanno lo stesso spazio delle altre. Ma non è così nei ri-cordi e nei sentimenti dell’attore. «Romy è il grande amore del-la mia vita, l’amore dei miei vent’anni. Io m’affacciavo al cine-ma, lei era la star internazionale, la Sissi di tutti. Ci siamo co-nosciuti e innamorati sul set di Christine, nel ’58. Ci siamo sco-perti una stessa infanzia solitaria: è come se avessimo ripresoa crescere insieme. Le platee ci sono state immediatamente so-lidali, ci hanno battezzato gli eterni fidanzati». Fidanzamentoininterrotto, se Romy ha lasciato scritto «Parigi è stata per me,prima di tutto, Alain Delon» e se Delon le dedica il programmadi Variations énigmatiques, suo ritorno alle scene nel 1996, conle parole: «Angelo mio bello, ovunque tu sia, stasera come nelpassato sono accanto a te». «E alla prima — rivela l’attore —avevo appeso in camerino l’abito, da me recuperato, che in-

la copertinaAlain Delon

Ha finalmente autorizzato una biografia, dopo averne mandate tante all’indiceHa deciso di parlare di sé attraverso ciò che conosce meglio: le sue compagne,mogli, amanti.Ma alla fine il più bello degli attori confessa a “Repubblica”che forse solo due di loro sono davvero importanti: la madre e la figlia

L’uomoche amavale donne

MARIO SERENELLINI

LE IMMAGININella foto grande,

Alain Delon

nel 1965 in Francia

Nella foto piccola

a sinistra, l’attore

da bambino

con la madre

“Mounette”

mentre fa il bagnetto

in una tinozza di rame

© Alain Delon

collection privée

In copertina,

Delon a Parigi

nel maggio del 1969

36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 14 AGOSTO 2011

Repubblica Nazionale

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dossava Romy al nostro debutto parigino in Peccato che sia unaputtanacon la regia di Luchino Visconti... come se il tempo fos-se cancellato e lei, da un momento all’altro, potesse uscire dal-le quinte». Questo non c’è nel suo libro. «Non c’è nemmenoche, al funerale, nel 1982, non mi sono fatto vedere (per non da-re in pasto ai paparazzi il mio dolore), ma pochi istanti prima,davanti alla sua bara, ho voluto fissare per l’eternità la sua ulti-

ma immagine: in tre polaroid, che da allora con-servo nel portafogli, qui, sul mio cuore.Foto che mai nessuno ha visto né vedràmai». Rimpiange di non averla sposata?«Sì. Ma sarebbe per questo cambiato ilsuo destino? Non penso nemmeno cheavrebbe accettato il passare degli anni. Èbrutto confessarlo, ma non avrei volutovederla a settant’anni. Preferisco che siapartita così, che ci abbia lasciato nel pienodella bellezza, restando un mito».

Anche Dalida, idillio furtivo nel 1963 sot-to il cielo di Roma, è oggi una leggenda tra-gica: «Mi è rimasto il rimorso: se mi avessetelefonato, quel 2 maggio 1987, avrei forsetrovato le parole per dissuaderla dal suici-dio». Vi eravate conosciuti per caso quandonon eravate nessuno, lei facchino alle Hallese Dalida, ancora Yolanda Gigliotti, Miss Egit-to 1954: all’alba, a due passi dall’Arc deTriomphe, sul pianerottolo delle vostre minu-scole mansarde i primi incontri, le confidenzesottovoce, la voglia di futuro. «Parole parole pa-role. Con la storia tutta nostra alle spalle, ci sia-mo ritrovati nel 1973 per registrare insieme lacanzone: chi ha mai sospettato che, dietro l’iro-nia del testo, ripetevamo le nostre vere paroled’amore?».

Parole parole... «Les femmes de ma vie sono quelle che hoamato, che mi hanno amato e alle quali devo tutto quel che so-no». Una centralità tolemaica, con rotazione di ruoli-satelli-te? Ad esempio, gli incitamenti di Romy alla lettura di roman-zi, teatro, filosofia, di cui poi lei, da brava tedesca, pretendevail resoconto, primo contatto di Delon con i libri (dai tempi del-le funeste, ripetute espulsioni da scuola) davanti al caminet-to, la sera, dopo giornate trascorse in campagna, lei a cavallo,lui a esercitarsi alla pistola. «Le donne sono sempre state il cen-tro e la guida della mia vita — ribalta prontamente Delon — Ènei loro occhi che ho cercato ogni volta l’approvazione di mestesso». Di qui, storiche guasconerie, come l’approdo in eli-cottero bianco, da lui pilotato, al Festival du policier di Cognacnel 1995 o le acrobazie senza controfigura in Ventiduesimavittima, nessun testimone per impressionare il flirt di turno,Kiki (Catherine Bleynie). Les femmes de ma vie continua a in-dorare il guscio di star, anche se lo charme vero del Delon del-le donne sta forse altrove: nelle brecce scoperte della sua pa-rabola fotogenicamente intatta, nel difficile coraggio dellafragilità, nello strazio fuori copione di tre polaroid.

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 14 AGOSTO 2011

“Quando Romy Schneider è morta,davanti alla sua bara, ho volutofissare per l’eternità la sua ultimaimmagine: in tre polaroid,che da allora conservonel portafogli, qui, sul mio cuore”

IL LIBRO

Les femmes de ma vie (Le donne della mia vita), con la prefazione di Brigitte Bardot

che pubblichiamo in queste pagine, è uscito in Francia da Didier Carpentier

(162 pagine e 200 immagini, 29,90 euro). Tutte le fotografie — per la maggior parte

inedite e provenienti dalla sua collezione privata — sono accompagnate da appunti

scritti a mano dallo stesso Alain Delon. Dalla mamma “Mounette” alla figlia Anouchka,

da Romy Schneider ad Anne Parillaud, da Jane Fonda a Claudia Cardinale e Annie

Girardot: in ogni immagine il divo è ritratto insieme a una delle donne che lo hanno

accompagnato nella vita. In Italia il volume si può trovare alla libreria Hoepli di Milano

LE IMMAGINIAlain Delon

con le donne

della sua vita

1. Dalida

© Philippe Barbier

2. Monica Vitti

durante le riprese

de L’eclisse (1962)

di Michelangelo

Antonioni,

© Philippe Barbier

3. Simone Signoret,

© Gamma-Rapho

4. Annie Girardot

durante le riprese

di Rocco

e i suoi fratelli (1960),

© Philippe Barbier

5. Romy Schneider

© Gamma-Rapho

6. Jane Fonda,

© Philippe Barbier

7. Marianne Faithfull

© Gamma-Rapho

8.Claudia Cardinale,

© Philippe Barbier

9. Edith Piaf,

© Gamma-Rapho

Infine, con Brigitte

Bardot in una foto

con i loro autografi

© Philippe Barbier

(segue dalla copertina)

Lui, che si è dato per obiettivo il superamento di sé,l’intransigenza, la grandeur, il talento, la voglia in-finita di perfezione e bellezza. Quando si mostra

in pubblico — di rado: e questa è la sua forza — spazzavia tutto quel che gli si trova attorno. È uno tsunami!

Ma dietro la facciata si nasconde un uomo estrema-mente fragile, una tenerezza segreta traboccante d’amo-re, un dono di sé a quelli che ama, ai figli, il suo sangue,l’avvenire del suo passato. Con loro gioca le sue ultimecarte, lui, che è stato perpetuamente alla ricerca dell’as-soluto, dell’insondabile, della rarità, di ciò che non si tro-va: lui, che con tanto sdegno disprezza la facilità, la men-zogna, il tradimento, la decadenza.

Alain è vero, autentico e insopportabile: vuole tutto, e

subito, è impaziente, ha fretta. Ma se dà l’idea di un uo-mo che morde la vita con gran gusto, sa anche accarez-zare la morte... Forse sarà lei l’ultima “donna della suavita”?

Per cicatrizzare le sue numerose ferite, profonde e se-grete, si rifugia, in solitudine, in seno a una natura a suaimmagine, con i suoi cani, i suoi gatti, lontano dalle paz-ze folle... Quest’uomo unico, magnifico, coraggioso,forte e fragile, è un’aquila a due teste. Come per tutti gliesseri d’eccezione, la sua vita e il suo favoloso destino so-no comunque la prova di questa frase superba di Mada-me de Staël: «La gloria è il lutto accecante della felicità».

Traduzione di Mario Serenellini© Editions Didier Carpentier

Il mio amico belva fragileBRIGITTE BARDOT

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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l’immagineAnniversari

Un secolo e mezzo fa i membridella Royal Societydi Londra guardavanosbalorditi la prima fotografianon in bianco e nerodella storia:un nastrino di tartanCosì incominciava,tra sfide, gelosiee fenomeni di massa,la lunga corsaper catturarela tavolozza della natura

“Mamma,non portarmi viala mia Kodachrome”,cantavano Simone GarfunkelMa anche il rullino più famoso del mondoè stato ucciso dalla svolta digitale

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La prima fotografia a coloridella storia non esiste. Nonè mai materialmente esi-stita, neanche quando ap-parve, centocinquant’an-ni fa, davanti agli occhi sa-

pienti e stupiti dei membri della RoyalSociety di Londra. Quel nastrino di tar-tan scozzese leziosamente annodato afarfalla fluttuava sullo schermo, pro-dotto impalpabile dell’incrocio dei fa-sci luminosi di tre lanterne magiche,ciascuna delle quali proiettava una dia-positiva monocroma: una verde, unaazzurra, una rossa. James ClerkMaxwell, fisico e matematico, in quel1861 aveva risolto col metodo della sin-tesi additiva il problema che assillavada vent’anni i chimici e gli ottici: cattu-rare la tavolozza della Natura.

E così la prima fotografia a colori del-la storia fu anche la prima delle imma-gini virtuali. Il cerchio si chiude, tutte lefoto che vediamo oggi sui monitor sonofatte così: mosaici di pixel di colori se-parati che, mescolati dal nostro occhioimperfetto, producono l’illusione disfumature infinitamente diverse. Que-sto anniversario dunque non è solo no-stalgia, è il riconoscimento di una pro-fezia. Maxwell offrì alla società vittoria-na, così sospettosa verso le figure, un as-saggio della nostra civiltà delle immagi-ni sintetiche.

Del resto, l’Ottocento bramava, re-clamava il suo arcobaleno da tasca. Ilmondo si era accorto di possedere i co-lori solo quando Daguerre bruscamen-te glieli tolse. Quanto giubilo nelle stra-de di Parigi nel gennaio del 1839 per la«meravigliosa esattezza» della fotogra-

fia appena inventata, peccato che i bou-levard, sulle lastrine di rame argentato,risultassero grigi come visti da un dalto-nico. Il colore era una promessa che lafotografia solo molto faticosamentemantenne. Ci vollero decenni di tenta-tivi, genialità, vicoli ciechi, imposture ecolpi di fortuna.

Furono gli scienziati, non i fotografi,a incaponirsi. Ci provarono in tutti i mo-di. Insistendo su una strada senza usci-ta: cercavano sostanze chimiche in gra-do di catturare direttamente le tinte de-gli oggetti, in un colpo solo. Prima diMaxwell, un pastore battista di We-stkill, a nord di New York, di nome LeviHill, giurò di esserci riuscito: a partiredal 1851 pubblicò opuscoli, cercò diraccogliere fondi, si guadagnò una cele-

brità mondiale, ma non riuscì mai a for-nire le prove di quanto affermava, emorì in odore di ciarlataneria. Solo nel1933 il ritrovamento dei suoi hillotypedimostrò che qualche risultato, forseper un caso che non riuscì a padroneg-giare, il reverendo Hill l’aveva ottenuto.Andò ben diversamente al fisico Ga-briel Lippman, che prese il Nobel per unpappagallino che era riuscito a fotogra-fare in tutto lo splendore del suo piu-maggio, nel 1892, con il metodo interfe-renziale, una specie di ologramma:splendido, ma impraticabile. La stradagiusta era quella intuita da Maxwell:non si possono strappare alla natura lesue infinite sfumature, si può solo si-mularle artificialmente, partendo dalletre tinte base. Bisognava «mettere in

mano al sole una tavolozza con tre co-lori già pronti, e chiedergli di usare soloquelli», scrisse Ducos du Hauron, po-liedrico inventore francese che bre-vettò il suo metodo a tre negativi sepa-rati nello stesso giorno del 1869 in cuiun altro bello spirito, Charles Cros, fa-ceva la stessa cosa col suo, del tuttoidentico. Quando si dice che un’inven-zione è matura.

Ma al secolo delle masse non interes-sava che un paio di scienziati riuscisse-ro a catturare i colori: pretendeva chetutti potessero farlo. Facilmente, co-modamente. E qui entrarono in scena igrandi fratelli dell’immagine di massa,i Lumière, padri del cinema che nel1903 fabbricarono uno strano “sandwi-ch” di fecola di patate, sali d’argento e

carbone dal quale si otteneva, magica-mente, una diapositiva dai delicatissi-mi colori pastello. Quel che più conta-va, la loro lastra Autochrome poteva fi-nalmente essere usata con qualsiasimacchina fotografica comune. Fu untrionfo: nel 1909, a Parigi, prima esposi-zione mondiale di fotografie a colori.

Restava un ultimo ostacolo sullastrada della diffusione di massa: la ri-producibilità. Gli Autochrome, come idagherrotipi, erano copie uniche. Maera già l’era della concorrenza indu-striale: tra le due guerre, la corsa allastampa a colori diventò una sfida quasipolitica fra Usa e Germania, ossia fraKodak e Agfa. Vinse la prima, sul filo dilana: la pellicola Kodachrome, destina-ta a regnare per oltre settant’anni, vie-

Quando il mondo riprese colore

MICHELE SMARGIASSI

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 14 AGOSTO 2011

ne messa sul mercato nel 1935. Ma,benché riproducibile, era ancora unadiapositiva: e l’Agfa si prese la rivincital’anno dopo con l’Agfacolor, primo ve-ro negativo a colori.

E qui, il paradosso. Ingrato, il mondosi pentì, e preferì continuare a vedersidaltonico. I rotocalchi come Life eranogià tecnicamente in grado di stamparefoto a colori, ma è proprio negli anniTrenta che fiorisce, rigorosamente inbianco e nero, il grande fotogiornali-smo. Liquidata la tecnica, fu un proble-ma di estetica, o forse di ideologia. I cri-tici d’arte, da Warburg al nostro Ventu-ri, rifiutarono le «infedeli» riproduzionia colori dei dipinti. Diffidenti verso il co-lore anche tutti i grandi della Leica, chepure di soppiatto qualche scappatellatricromatica se la concessero. PaulStrand: «Colore e fotografia non hannonulla in comune», Walker Evans: «Il co-lore tende a corrompere la fotografia»,Edward Weston, il più cauto: «Sonomezzi differenti per scopi differenti»,Henri Cartier-Bresson: «Gamma trop-po limitata di toni».

Temevano tutti l’ingovernabilità diquella presenza troppo invadente,troppo esuberante e chiassosa, e ple-bea. «La fotografia a colori può esseresolo bella, o insopportabile», senten-ziava il critico Claude Lemagny. So-spettavano forse anche un’ideologiaautoritaria dietro l’apparente maggiorrealismo delle emulsioni cromatiche.Non avevano tutti i torti. Fu il nazismo autilizzare intensivamente le nuove pel-licole per la propaganda: anche i Lager,fotografati a colori, furono fatti passareper puliti e quasi confortevoli campeg-gi. «Colorare il mondo è sempre unmezzo per negarlo», sostenne RolandBarthes nei suoi Miti d’oggi. Tre anni fail Comune di Parigi fu travolto da pole-miche feroci per aver messo in mostra ifotocolor scattati tra il 1940 e il 1944 dalcollaborazionista André Zucca: baciatadai toni caldi del sole, sovrastata da cie-li azzurri, squillante di verdi ippocasta-ni e di rossi accesi (bandiere con svasti-ca comprese) la capitale sotto il tallonedi Hitler appariva troppo gradevole erassicurante.

Solo una generazione diversamenteinquieta, negli anni del pop, riuscì a tra-scinare la fotografia cromatica nel terri-torio dell’arte; anche il fotogiornalismoincalzato dalla televisione cedette. Manel frattempo, ingoiate da milioni di In-stamatic, la Kodachrome e le sue sorel-le erano già diventate l’accessorio indi-spensabile della vita familiare. Non rea-lismo, ma nostalgia consolatoria: ognigenerazione ha il suo colore. Ancora og-gi i ricordi dei figli del boom italianohanno le tinte surreali delle pellicoleFerrania. «Ti fa pensare che tutto ilmondo sia una giornata di sole», canta-vano Simon e Garfunkel implorando:«mamma non portarmi via la mia Ko-dachrome». Be’, anche il rullino Koda-chrome alla fine se n’è andato, nel 2009,ucciso dalla svolta digitale. Ma i colorirestano. Sempre più necessari, semprepiù irreali: pompati da un clic di Photo-shop, infiammano i nostri album elet-tronici su Facebook. Mamma prenditipure la Kodachrome, ma non portarcimai via i nostri occhiali rosa.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

LE TAPPE / 2Sopra, Pappagallo (procedimento

interferenziale di Gabriel Lippman,

1891); a destra, Ragazzo nero

di Cincinnati (Kodachrome

di John Vachon, 1935)

Nell’altra pagina, Autoritratto

(Polacolor di Andy Warhol, 1963)

LE TAPPE / 1Da sinistra in senso

orario, la prima

foto a colori: Nastro

scozzese (sintesi

additiva di James

Clerk Maxwell, 1861);

Veduta di Angoulème

(eliocromia di Charles

Cros e Luis Ducos

du Hauron, 1872);

Natura morta

(Autochrome

dei Fratelli Lumière,

1903)

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SAN PIETROBURGO

Qualche schizzo, due tratti di penna, un paio di figuri-ne leggere che sdrammatizzano la profondità deiversi. Al secondo piano di Litejnj Prospekt 24/27, inun palazzo che risuonò a lungo di rime vietate e di

critiche coraggiose al regime sovietico, i foglietti con i disegni im-provvisati di Iosif Brodskij sono il tesoro più atteso. Dopo una mo-stra itinerante durata quasi un anno, i bozzetti del poeta divente-ranno l’attrazione principale della casa museo in tormentato al-lestimento da oltre dieci anni. Poeta e dunque «parassita» per lelogiche di regime, condannato ai lavori forzati e poi a una vita daesiliato, Brodskij è adesso uno degli autori più amati dai russi. An-che per questo il comune di San Pietroburgo si aspetta un grandesuccesso dalla prossima apertura del museo a lui dedicato, alle-stito proprio nelle due camere dell’appartamento all’interno 28,in cui il poeta viveva con la famiglia, all’interno di una kommu-nalka, le abitazioni collettive del sistema sovietico. Anni difficilima fecondi nei «dieci metri quadri più felici della mia vita» comeegli stesso li definì successivamente quando si divideva, famosoe celebrato premio Nobel, tra l’Europa e gli Stati Uniti.

L’anteprima, del resto, ha dato già l’idea dell’amore e della cu-riosità del pubblico: in migliaia sono arrivati da tutta la Russia perla mostra “Orologio a polvere” allestita qualche mese fa in una sa-la della Biblioteca nazionale con una raccolta inedita o quasi, didisegni, schizzi, bozzetti di Brodskij raccolti con un lungo lavoro

in giro per il mondo, tra gli amici del poeta e varie collezioni pri-vate. In molti hanno scoperto quello che si sapeva da tempo. Ol-tre che uno dei più straordinari poeti del Novecento, Brodskij eraun ottimo disegnatore. Amava adornare i suoi manoscritti conschizzi improvvisati così come faceva del resto il suo punto di ri-ferimento culturale più forte, Aleksandr Pushkin, padre immor-tale della letteratura russa. La capacità tecnica la si vede a comin-ciare dalla pagelle dei primi anni di scuola dove Brodskij disegna-va accanto al voto 3 (sufficiente) degli elaborati e decoratissiminumeri 5 (ottimo).

E poi gatti, fiori, autoritratti in tunica romana con tanto di co-rona d’alloro, proprio come alcuni ritrovati a margine dei mano-scritti di Pushkin, adornano i foglietti con le poesie più tristi e do-lorose. Un sorriso e un po’ di autoironia per allontanare la malin-conia. Perfino sul foglio dove scrisse «La vecchia sta da sola alla fi-nestra...», una delle poesie più cupe su una donna “dekulakizza-ta” finita in un gulag con tre figlie, disegnò se stesso come un gio-vane dal sorriso presuntuoso che guarda compiaciuto i suoi versicon un fiore nella cintura dei pantaloni.

E mentre già alla vigilia dell’esilio il successo delle sue poesiediffuse in samizdat (le pubblicazioni clandestine) gli conferi-va un ruolo fondamentale nella poesia russa di tutti i tempi, di-segnava una vignetta che ridimensionasse la sua autostima cre-scente: Pushkin vi è ritratto solenne a bordo di una elegante car-rozza trascinata da un cavallo con la faccia di Brodskij con tantodi sigaretta tra le labbra. Il cielo è stellato e un vigile urbano rivol-ge allo strano convoglio un saluto militare.

Lo sfogo del disegno servì soprattutto per rendere più soppor-tabili i diciotto mesi di lavori forzati impostigli dal regime in unacittadina del nord siberiano nei pressi di Arkangel. In una letterada inviare ai genitori per tranquillizzarli disegna se stesso in for-ma di centauro mentre trascina un aratro. Ai margini, perfino il fi-lo spinato e le torrette d’avvistamento dei guardiani hanno un’a-ria rassicurante da cartone animato.

Poi l’esilio, la fama, e disegni meno complessi e piùleggeri: tanti gatti ancora, fiori, caravelle con vele ebandiere al vento. Secondo la sua decisa volontà diminimizzare le sue sofferenze, di non sentirsi l’u-nica vittima di un sistema ottuso e prevaricatore:«Qualunque boat-people o tutti quei venditoridi accendini che vengono da chissà quale pae-se, hanno un’esperienza dell’esilio ben piùdrammatica della mia». Tutti i disegni, quel-li simbolici e quelli di puro divertimento ar-riveranno presto ad arredare le due stanzedell’ex kommunalka. Insieme al celebredialogo tra il poeta e il suo giudice nel pro-cesso che portò alla sua condanna.

Giudice: «Qual è la tua professio-ne?»

Brodskij: «Traduttore e poeta».Giudice: «Chi ti ha riconosciuto

come poeta? Chi ti ha arruolato neiranghi dei poeti?»

Brodskij: «Nessuno. Chi mi ha ar-ruolato nei ranghi del genere umano?»

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NICOLA LOMBARDOZZI

A San Pietroburgo, nella “kommunalka” dove viveva,sta per nascere un museo per celebrare la dote meno conosciutadel Nobel finito al confino perché inviso al regime sovieticoSchizzi, bozzetti, caricature per rendere più leggera la malinconiadei versi e dei pensieri. Fogli sparsi accanto alla rispostache diede al suo giudice: “Chi sono? Un essere umano”

I disegni segretidel poetache amava i gatti

CULTURA*

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Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 14 AGOSTO 2011

C

IosifBrodskij

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he lo si voglia o meno, Brodskij resta senz’altro il più grande poe-ta russo della seconda metà del Ventesimo secolo. Se Stalin ave-va acclamato Majakovskij come il più grande poeta sovietico, fuproprio grazie alla sua avversione per il potere sovietico, che gliprocurò l’esilio in un villaggio dell’estremo nord della Russia,che Brodskij ebbe l’opportunità di diventare un genio. L’intelli-ghenzia liberale degli anni Sessanta lo vide dapprima come unmartire, ma approfondendo la conoscenza della sua poesia, nescoprì poi la forza del talento. «Anche se a malincuore, non si puònon riconoscere il suo genio», confessò una volta in una conver-sazione privata Bella Akhmadulina, uno degli astri poetici del-l’epoca del disgelo kruscioviano. A differenza di un’intera pleia-de di poeti suoi contemporanei, Iosif Brodskij mostrò un’auten-tica incondizionata libertà nei confronti del potere, ma anchedella cultura internazionale, cantando, come fece Cechov, ildramma esistenziale della vita umana, senza temerne le intrin-seche contraddizioni.

Genio prematuramente scomparso — oggi avrebbe avuto set-tant’anni — ci sollecita a indagare tutti gli aspetti della sua vita edella sua opera. Così scopriamo che affollava i manoscritti deisuoi versi e i suoi taccuini con una moltitudine di brillanti e deli-ziosi disegni. Una mostra di disegni a penna, allestita a San Pie-troburgo nella sede della Biblioteca nazionale, avvicina inevita-bilmente Brodskij al più grande maestro della poesia russa, Alek-sandr Pushkin. Esaminando i lavori, si ha l’impressione che in

entrambi i poeti le rime scaturiscano insieme coi disegni e chedisegni e immagini poetiche si combinino e si completino a vi-

cenda. Tuttavia, mentre Pushkin ritrae di preferenza testo-line e spalle di incantevoli dame, Brodskij sembra pre-

diligere i gatti, suoi animali diletti, e nei suoi di-segni le dame sono assenti. Entrambi si dedica-

no a tratteggiare il proprio autoritratto: Pushkin diprofilo, Brodskij en face. E il volto di Brodskij, simi-

le a quello di un patrizio romano, si distingue per lasua nobiltà. Quanto ai temi politici, nelle pagine dei

manoscritti di Pushkin scorgiamo i ritratti di alcuniamici impiccati, eroi del moto decabrista del 1825, men-

tre in quelle di Brodskij ritroviamo un’autentica caricatu-ra del busto di Lenin. Tali busti ai tempi dell’Unione Sovie-

tica erano disseminati ovunque nei palazzi pubblici.Brodskij, i cui versi sono indubitabilmente filosofici, ritrae

nei suoi disegni minuti dettagli di vita quotidiana: tavoli, stovi-glie, suppellettili. Quest’amore per i semplici oggetti della sferapiù intima lo distingue radicalmente da un altro poeta, VladimirMajakovskij, valente caricaturista e appassionato propagandi-sta politico, che ritraeva immagini di capitalisti in cilindro, vit-time di trionfanti combattenti rossi pronti a conficcare la puntadelle loro baionette nel grasso ventre dei nemici di classe. Persi-no durante la deportazione, confinato dal potere per un anno emezzo nella provincia di Archangelsk, Brodskij si appassionò al-la scoperta della vita rustica: era giovane, tutto lo incuriosiva eaveva tutta la vita dinanzi a sé.

Lo rammento a Mosca, appena tornato dal confino, giovane,bello, la chioma fulva, l’aria un po’ altera, mentre attraversava-mo in taxi la città notturna, che borbottava sottovoce. Mi voltaia guardarlo. «Non è nulla… — disse — Sto componendo», qua-si a giustificarsi, stranamente timido. Ecco che nella fisiologiacompositiva, quel suo borbottio notturno, quei disegni sui foglie nelle raccolte samizdat da lui stesso prodotte, decorati dall’e-stro della sua fantasia, appaiono come un trampolino nel mon-do della sua poesia, che di anno in anno diveniva sempre piùmatura e raffinata.

Della poesia di Brodskij quello che amo di più è il periodo le-ningradese, al quale si riferiscono anche i disegni dei mano-scritti. Sarà Brodskij stesso a rievocare una volta in America, conuna nostalgia insolita per un poeta caduto in disgrazia, quel pe-riodo della sua vita, quando viveva in una stanzetta di dieci me-tri quadri in una kommunalka e frequentava la grande AnnaAchmatova, immergendosi nella scoperta della poesia di linguainglese e prediligendo fra tutti Auden. Non saprei dire che cosadisegnasse quando viveva a New York e viaggiava per la sua ama-ta Italia. Forse, ormai non disegnava quasi più. Era diventato im-portante; il volto da quello di un patrizio si era trasformato inquello di un imperatore della poesia russa. Era stato insignito delNobel. Per i disegni gli restava sempre meno tempo. Si dedica-va alla stesura di ampi saggi e all’insegnamento e quelle occu-pazioni fagocitavano il suo tempo. Ma ricordando Brodskij,mentre osservo i suoi disegni, non faccio che ripensare al teme-rario ragazzo dalla testa fulva, che scoprendo dentro di sé il gio-vane vino della poesia, ne adornava le etichette con le sue ridentiimmagini.

Traduzione di Nadia Cigognini

VIKTOR EROFEEV

TACCUINII disegnidi queste paginesono i taccuinioriginalidi Iosif Brodskijespostinella mostraOrologio a polverea San PietroburgoIl ritrattoè di Tullio Pericoli

Genio ragazzinoimmune al potere

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I venti minuti di “2001: Odissea nello spazio” tagliati per rabbia da Kubrick. Lo spezzone censurato di “Metropolis”

di Fritz Lang. Il quarto d’ora della “Dolce vita” eliminato da Fellini. Fino all’ultimocaso, pochi giorni fa: “The White Shadow”, il primo film scritto da HitchcockEcco come per tenacia, passione o fortuna, si ritrovano i capolavori scomparsi

SPETTACOLI

42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 14 AGOSTO 2011

Dalle viscere della terra.Da magazzini sommersidalla polvere, ai quattroangoli del globo. Da unarchivio che nessunoaveva mai spulciato. Da

un’eredità, una battaglia legale, un re-stauro. I capolavori perduti del cinema,interi o a spezzoni, vengono alla lucecosì. Per caso, per fortuna, per la tena-cia di appassionati e studiosi. Gioiellipoi destinati ai festival, agli extra deidvd, qualche volta alle sale. E spesso lastoria di questi ritrovamenti di grandiautori — da Alfred Hitchcock a StanleyKubrick, da John Ford a Orson Welles,da Federico Fellini a Pier Paolo Pasolini— è avventurosa quanto il materiale re-cuperato: un vero e proprio film sulfilm.

Il dibattito sul valore di queste sco-perte è aperto. Specie quando a saltarefuori non sono opere sconosciute, masequenze inedite di cult stranoti comeLa dolce vita: su blog e siti specializzati icinefili si dividono tra gli entusiasti,convinti come Martin Scorsese che«ogni fotogramma sparito fa sparire unpezzetto della nostra cultura»; e gli scet-tici, secondo i quali una scena elimina-ta deve restare tale. Forse perché, comesosteneva il leone della vecchia Hol-lywood Howard Hawks, «se si fannodue riprese buone, poi se ne fanno duemediocri e una brutta»: alla faccia della

sacralità dell’arte. Alcuni reperti, però,hanno un’importanza tale da mettered’accordo entrambe le fazioni: pochigiorni fa, ad esempio, sono ricomparsi iprimi tre rulli di The White Shadow(1923), diretto da Graham Cutts ma at-tribuibile a Hitchcock, che ne fu aiutoregista, sceneggiatore e scenografo.L’opera, storia di due gemelle dall’op-posto temperamento, apparteneva auno stock di 75 pellicole (tra cuiUpstream di John Ford, dramma senti-mentale del 1927) abbandonate da an-ni nell’Archivio cinematografico dellaNuova Zelanda. Erano state donate nel1993 dalla famiglia del defunto JackMurtagh, un proiezionista che invece didistruggere le pellicole, come d’abitu-dine nei primi decenni del Novecento,le collezionava. Ma il riconoscimento èavvenuto solo adesso: «Uno dei ritrova-menti più significativi di sempre», se-condo David Sterritt, presidente dellastatunitense National Society of FilmCritics. Qui in Italia sarà proiettato, ilprossimo ottobre, alle “Giornate delmuto” di Pordenone.

Spesso poi, i recuperi avvengono inmodo rocambolesco. Come la scoper-ta, lo scorso dicembre, di quasi ventiminuti inediti di 2001: Odissea nellospazio in una miniera di sale del Kansas

(il sottosuolo è ideale per la conserva-zione dei vecchi film). Sequenze cheStanley Kubrick tagliò per rabbia, dopouna prima proiezione col pubblico an-data malissimo. I fan del regista, adora-tori feticisti di ogni suo ciak, ne discuto-no da anni. Peccato che la Warner Ho-me Video, titolare dei diritti, abbia perora deciso di non pubblicarle: «Il filmcosì com’è rispecchia la volontà del suoautore — è scritto in un comunicatodella società — e noi non lo vogliamocambiare».

Il caso più fortunato riguarda invecela comica A Thief Catcher (1914), titoloperduto della filmografia del CharlieChaplin attore e interprete di Charlot,scovata per puro caso dal collezionistaPaul Gierucki a una fiera dell’antiqua-riato. Mentre la caccia più tenace èquella che ha portato al ritrovamentodella copia integrale di Metropolis, coi28 minuti eliminati all’epoca, per moti-vi politici, contro la volontà di FritzLang: è rispuntata tre anni fa al Museodel cinema di Buenos Aires grazie allatestardaggine di un cinefilo, FernandoPena. Da due decenni chiedeva ai cura-tori di controllare se nei loro magazzinici fosse questo tesoro nascosto: e alla fi-ne, forse per levarselo di torno, i re-sponsabili hanno deciso di acconten-

tarlo. Per la gioia di chiunque ami il ci-nema.

E quello delle pellicole sepolte in luo-ghi lontani è un elemento ricorrente.Racconta Gian Luca Farinelli, direttoredella Cineteca nazionale di Bologna:«Uno dei posti più incredibili che ho vi-sitato è la Cineteca di Montevideo: unmagazzino quasi abbandonato; i cu-stodi mi consegnarono le chiavi per en-trare e trovai di tutto. Ad esempio unaversione mai vista, non censurata, diDiario di una donna perduta con Loui-se Brooks». Non solo scenari esotici,però. A volte il bottino, banalmente, ar-riva da un lavoro di restauro: «L’annoscorso, mentre ripulivamo La dolce vi-ta, abbiamo ritrovato la penultima ver-sione del film, montata da Fellini, conquindici minuti in più. Compare un’in-tera scena con Mastroianni, che antici-pa sorprendentemente i toni intimistidi 8½». Ci sono poi casi di recupero benpiù estremi, come quello che ha riguar-dato La rabbia (1963). Una bella fettadella straordinaria prima parte (docu-

mentaristica) del film, diretta da PierPaolo Pasolini, fu eliminata dai produt-tori; ma tre anni fa Giuseppe Bertoluccil’ha ricostruita in base alle indicazionidella sceneggiatura originale, serven-dosi di immagini di repertorio dell’Isti-tuto Luce. Un’operazione coraggiosa,per salvare una grande opera dall’oblio.

E chissà se dal buio emergerà TheOther Side of the Wind, l’ultima faticaincompiuta di Orson Welles, con prota-gonista John Huston nel ruolo di unvecchio regista. Il film è al centro di unintrigo internazionale, una disputa suidiritti che ha coinvolto negli anni la mo-glie di un produttore iraniano (Wellesottenne fondi dal fratello dello Scià diPersia), l’attrice croata sua ultima com-pagna, la figlia Beatrice, il cineasta Pe-ter Bogdanovich. In gennaio fu annun-ciato che la querelle si sarebbe risolta inpoche settimane, sbloccando final-mente il film. Invece nulla: il capolavo-ro, maledetto come colui che lo girò, re-sta nel limbo dei “quasi” ritrovati.

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CLAUDIA MORGOGLIONE

del cinemaperduto

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Chissà se dal buioemergerà “The OtherSide of the Wind”,l’ultima faticadi Orson Wellescon John HustonLa pellicola è al centrodi un intrigointernazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 14 AGOSTO 2011

Uno può ovviamente chiedersi cosa cifacessero 17 minuti di 2001: Odisseanello spazio in una miniera di sale nel

Kansas, ma tant’è: c’è stato questo ritrova-mento, che ricorda un poco quello dei mano-scritti del Mar Morto, se non altro per l’am-biente salino in cui ha avuto luogo. Scopertedi questo genere non sono affatto infrequen-ti, e spesso producono, per dir così, un’azionea scoppio ritardato. Per esempio, l’opera ri-trovata può far scomparire opere preceden-temente note. È stato il caso delle cosiddetteopere “esoteriche” di Aristotele, quelle che luiadoperava a lezione, diversamente da quelle“essoteriche”, destinate alla circolazionepubblica. Scomparse per alcuni secoli, le ope-re esoteriche, quando vennero ritrovate, fe-cero sì che non si leggessero (e non si copias-sero più) le opere essoteriche, oggi in granparte perdute.

Talora invece dobbiamo rivedere la nostraimmagine dell’autore. Per molti anni, il letto-re italiano ha visto in Simenon soltanto l’au-tore di Maigret, ignorando il romanziere nondi genere. Non necessariamente, però, la re-visione è una crescita di immagine, potrebbe-ro riemergere dall’oblio testi che demolisco-no la reputazione di un autore, o quantome-no la diminuiscono (come saggiamente te-meva padre Leo Van Breda, a lungo responsa-bile dello sconfinato lascito manoscritto diHusserl: come escludere che in quella monta-gna di pagine non si nascondesse qualchestupidaggine?).

In altri casi viene da chiedersi chi davverosia l’autore, non tanto perché la scopertacomporti una sorta di autorialità (di qui le ter-re, le stelle e le specie animali o vegetali chehanno preso il nome dal loro scopritore), maperché ci può essere l’intervento di un secon-do autore. Come in Grizzly Man(2005) di Wer-ner Herzog, che ha selezionato e montato lepiù di cento ore di riprese del naturalista Ti-mothy Treadwell, che per tredici anni avevaosservato i grizzly in Alaska, ma che alla fineera stato divorato da un esemplare particolar-mente vorace.

Venendo poi ai ritrovamenti di portata epo-cale, si pensi al Laocoonte scoperto a Roma nel1506, dove si vedono l’eroe e i suoi figli avvintidai serpenti. Apprezzato e ammirato da rina-scimentali e barocchi, quel gruppo statuariofinì per mettere in discussione l’idea stessa del-la “compostezza” come carattere del classico,visto che Laocoonte e figli si agitano come for-sennati. Questo effetto, il più potente, ebbeperò luogo duecento anni dopo il ritrovamen-to, quasi come una nuova rivelazione.

Il che ci suggerisce quanto fragile e com-plessa sia la nozione di “capolavoro”. Perchénon solo il Laocoonte, ma ogni opera ha un la-to nascosto, cioè qualcosa del “capolavorosconosciuto” (per riprendere il titolo di unabellissima novella di Balzac, a sua volta relati-vamente sconosciuta). Soprattutto, ritrova-menti e inediti dimostrano oltre ogni ragio-nevole dubbio quanto sia vero che non c’ènulla di tanto inedito quanto gli editi. Perchémoltissimi autori e opere noi li conosciamosemplicemente per sentito dire e affiorano al-la nostra mente solo quando si trovano delleopere disperse o dimenticate. E solo allora ciaccorgiamo del fatto che tante opere note noile ignoriamo peggio che se fossero sepolte inuna miniera di sale nel Kansas.

La sindrome dell’ineditodal Laocoonte a Maigret

MAURIZIO FERRARIS

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OMBRE E RABBIAA sinistra, cinque fotogrammi

di The White Shadow (1923)

scritto da Alfred Hitchcock;

in basso, tre immagini

de La rabbia (1963)

di Pier Paolo Pasolini

LOUISE E MARCELLOA sinistra, due scene inedite

del Diario di una donna perduta (1929)

di Georg Wilhelm Pabst

con Louise Brooks;

sotto, una scena

de La dolce vita (1960)

eliminata da Federico Fellini

Repubblica Nazionale

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44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 14 AGOSTO 2011

le tendenzeCasual chic

Lunghi vestiti a fiori, caftani, sandali ultrapiattie mini pochette che contengono solo cellularee rossetto. Da Ibiza a Mykonos, ma anchealle Eolie, le feste vista mare impongonoun rigoroso galateo. A partire dal look:finto stropicciato e rivisitato con eleganza

Arriva direttamente da Ibiza ed è la nuova maniadell’estate. Unisce un lieve tasso alcolico, abitileggeri e la voglia di divertirsi sino all’alba. Eccoil “beach party”: termine tecnico che sta a indi-care una festa ambientata rigorosamente sullaspiaggia di qualche località di mare all’ultima

moda. Per sopravvivere allegramente, però, ci vuole un fisicobestiale. Spesso, infatti, il beach party comincia al tramonto etermina all’alba. In totale, tra un chiringuito, uno spritz e unacolonna sonora di musica lounge, un percorso netto di quasidodici ore senza passare dal via.

Ma tant’è. Gli aspiranti ospiti, ben lungi dal dare segnali dicedimento di fronte al tour de force, aumentano di giorno ingiorno. E chi sino a oggi non ha partecipato almeno a un bea-ch party, assicurano i massimi esperti di tendenze, farebbemeglio a recuperare il tempo perduto. Per fortuna non è maitroppo tardi per correre ai ripari: c’è persino un sito internet de-dicato all’argomento: www.beachparty.it. Si tratta di una sor-ta di social network della movida in grado di fornire in temporeale informazioni agli utenti interessati a partecipare a qual-siasi genere di festa. Chiunque decida d’iscriversi riceverà tut-te le notizie riguardanti orario, indirizzo e date dei vari incon-tri sulle spiagge italiane. Di più. Se desidera pubblicizzare unafesta, potrà inserire la notizia sul database del portale.

Anche su Facebook impazzano i “gruppi” dedicati alle feste

marine. L’ultima novità sono i beach party online, la derivaestrema per chi in vacanza proprio non riesce ad andare mavuole comunque sognare. Nella società degli eventi, in prati-ca, il beach party si trasforma nel corrispondente marino divernissage, inaugurazioni e aperitivi. L’elemento che entusia-sma, assicurano i partecipanti con una certa esperienza allespalle, è che in queste serate è tutto perfettamente organizza-to. Una macchina oliata che non lascia nulla al caso: mai unabibita troppo calda o (tanto per dire una cosa teoricamentepossibile) della sabbia fastidiosa che possa rovinare il diverti-mento. Gli organizzatori di beach party sono dei professioni-sti del mestiere. Autentici guru del divertimento a cinque stel-le. Una spiaggia, è bene precisarlo, non è uguale all’altra. All’e-stero sono Ibiza, Mykonos e Formentera a dettare le regole. Maanche l’Italia si difende con la riviera romagnola, Napoli, la Sar-degna e le isole più piccole come Panarea e Stromboli.

Le feste in spiaggia impongono un rigoroso galateo da se-guire. Anche nel look. Presentarsi con i tacchi dodici, per esem-pio, è rigorosamente vietato salvo rare quanto temibili ecce-zioni. Idem per gioielli tradizionali, abiti luccicanti e look trop-po seriosi. Quello che può funzionare meglio è un certo stileshabby chic, definizione mutuata dall’arredamento che sta aindicare qualcosa di stropicciato e malconcio ma elegante-mente rivisitato. Via libera, dunque, a vestiti lunghi e fiorati,caftani e stoffe trasparenti. Non possono mancare gli occhialida sole dalle forme più stravaganti, anche se le suddette festesi svolgono nelle tenebre, sandali ultrapiatti e coloratissimi emini pochette decisamente graziose ma utili solo per conte-nere cellulari e rossetto.

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IRENE MARIA SCALISE

FIORATAÈ un abito lungo

stile impero

di chiffon di seta

tutto a fiori

il look D&G

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VELATAEmilio Pucci abbina

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Tutti in spiaggiadal tramonto all’alba

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45DOMENICA 14 AGOSTO 2011

“Trasparenze e tinte brillantila parola d’ordine è leggerezza”

Anna Molinari /Blumarine

LAURA ASNAGHI

Anna Molinari, lei che con la sua lineaBlumarine è cultrice degli abiti gla-mour, che abbigliamento suggerisce

per un beach party?«È importante un abbigliamento casual-

chic, con colori brillanti che esaltino l’abbron-zatura. Spesso si pensa che in queste occasio-ni una donna debba scoprirsi a tutti i costi esfoggiare abiti con spacchi e décolleté abissa-li. Io no. Una donna è molto più elegante e fa-scinosa se lascia intravedere o immaginare leforme. Dunque via libera a trasparenze, taglianatomici e lunghezze strategiche dell’orlo».

Ma esiste un abito passepartout per i bea-ch party?

«No. Bisogna sempre tenere conto del con-testo. A Miami valgono codici estetici diversida quelli di un party su una spiaggia esotica odi una festa a bordo piscina».

Tracciamo un identikit dell’abito giustoper questi tre tipi di feste.

«Miami è una meta sempre più gettonata dachi ama le spiagge ma anche le gallerie d’arte etutta la zona con l’architettura déco. Quindi èperfetto un abito in pizzo macramè corto, concolori vivaci, come giallo, arancio e viola. Pen-sando all’accessorio, sicuramente la mia ulti-ma creazione, Elettra Bag, preziosa clutch ri-vestita di pizzo della stessa tonalità dell’abito.Completerei con un paio di décolleté con cin-turino e tacco altissimo».

La spiaggia esotica?«Qui un tocco più romantico non guasta.

Sceglierei un abito in chiffon con stampe mul-ticolor, di estrema leggerezza e adattabilità.Gli accessori giusti possono essere una cintu-

ra gioiello oppure tanti bracciali gold. Fonda-mentali però sono gli occhiali, grandi e avvol-genti da diva».

E per la festa a bordo piscina?«Un abito lungo, in seta, con spalle scoper-

te. Per le più audaci consiglio una stampa ma-culata. L’importante è che l’abito sia essenzia-le, rigoroso e senza fronzoli. Ai piedi, un san-dalo dal tacco vertiginoso che a metà sera puòessere tolto per camminare a piedi nudi».

Quando disegna abiti per l’estate a chedonne si ispira?

«Penso sempre a tante donne. E di ognunacerco di cogliere il lato più interessante: il co-raggio dirompente di Coco Chanel, l’indipen-denza di Katherine Hepburn, l’anticonformi-smo di Lady D, la seduzione di Marilyn, la ma-liziosa ingenuità di Brigitte Bardot, la bellezzadolce di Audrey Hepburn e quella sofisticata diGrace Kelly, l’eleganza di Jackie Kennedy e lafrizzante energia di Twiggy».

E una icona di oggi chi è?«Un modello interessante è Kate Middle-

ton: ha uno stile fresco ed elegante. Un’altradonna di fascino è Rania di Giordania, che co-niuga estrema semplicità e grande stile in ognioccasione».

Per un beach party quale tipo di make upbisogna scegliere?

«La parola d’ordine è leggerezza. Il truccodeve essere il più naturale possibile. Un po’ dimascara per valorizzare gli occhi e un tocco digloss trasparente per le labbra. I capelli devo-no essere morbidi e sciolti per non appesanti-re troppo il look».

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CAPRIIn suede blu

con cinturini

il sandalo

infradito

a tema “Capri”

proposto

da Chanel

PICCOLAÈ in gros grain

la pochette

con fibbia

firmata

e smaltata

pensata

da Fendi

MACULATACaftano lungo

in seta lamé

stampa maculata

con scollo

a barchetta

e plissettatura

Di Blumarine

AMERICANALungo abito

in seta e lurex

con scollatura

all’americana

e spacco

Louis Vuitton

COLORATAWho’s Who propone

una mini tuta a fiori

Perfetta da indossare

in spiaggia

RÉTROMolto femminili

e sofisticati

gli occhiali

da sole

di Marc Jacobs

con divertenti

pois colorati

Repubblica Nazionale

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razia! Ma tutta la pasta al forno te sei magnata?!» Gianni Di Gregorio, alias Giovanni, prota-gonista del film Pranzo di Ferragosto, sigilla in una frase il concetto stesso di Feriae Augusti,festa varata in età imperiale da Augusto in persona: un giorno dedicato per legge a riposo,svago, vacanza da regole e restrizioni, alimentari in primis. Che c’è di più trasgressivo per undiabetico di una teglia di lasagne? Si scrive Ferragosto, si legge pranzo speciale, specialissi-mo. Poco importa il luogo, la compagnia e perfino la disponibilità economica. Perché nulla èpiù trasversale e democratico del menù delle ferie di Augusto. Se le altre feste imprescindibili —Natale, Capodanno — rappresentano vere esibizioni di gastronomia muscolare a colpi di cavia-le e champagne, tortellini da manuale della perfetta sfoglina e arrosti succulenti, super cotechini epanettoni costosi come foie gras, a Ferragosto trionfa la creatività della cucina a basso impatto econo-mico.

Dovrebbe essere la storia di un gastro-disastro annunciato: riesce quasi sempre come uno dei pran-zi più golosi dell’anno. Da una parte all’altra d’Italia, non c’è prato, spiaggia, terrazzo, riva di lago o par-co cittadino che sfugga all’occupazione rituale e affamata di famiglie e gruppi di amici, coppie consoli-date e conoscenze dell’ultimo momento, aggregati e coordinati secondo l’imperativo del chi porta co-sa. Il menù divide i partecipanti in due categorie distinte e complementari: prima e al momento, formi-che e cicale, la cura paziente e la performance in diretta. I praticanti della cucina dotta sacrificano il po-meriggio del 14 per preparare parmigiana e pasta al forno, pesche ripiene e panna cotta, verdure in car-pione e torte salate, pomodori farciti e tiramisù, ricette che si completano con il riposo in frigorifero.Mentre alla vigilia, i seguaci di fritture e barbecue, non vanno al di là del reperimento degli ingredienti.

Tutto rimandato alla tarda mattinata del 15, quando si allestiscono braci, gratelle e condimenti. Se-condo i comandamenti dell’antropologia, il rito della griglia è di spettanza maschile, ricordo della mi-tologia guerriera, del rapporto diretto tra cibo e fuoco senza la mediazione delle pentole, strumenti suc-cessivi, che prevedevano un accudimento femminile. Un’eredità tradotta in bistecche e salsicce, sar-doni e melanzane, provole traditrici (si squagliano in un attimo) e peperoni bruciacchiati.

Il bello è che per una volta nessuno ci obbliga a scegliere: primo o secondo, carboidrati o proteine,pranzo o cena. Possiamo assaggiare di tutto e di più. E bere con l’allegra certezza di avere il tempo per ri-portare il tasso alcolico a quota zero, regalandoci un dopo pranzo sonnolento o un pomeriggio da spor-tivi. Se siete anguria-dipendenti, tagliatela a lingottini, da tuffare nel cioccolato fondente sciolto a ba-gnomaria (o nel microonde, con molta attenzione). Poi, tutto in frigo, fino al momento dei dolci. In unsol colpo, conquisterete i palati dell’intera tavolata, farete scorta di potassio anti-crampi e non daretealtri motivi alla bilancia per rovinarvi la mattina del 16.

46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 14 AGOSTO 2011

«G

Con chi vuoii sapori

Fritto di paranzaNell’irresistibile finger food

estivo convivono alicette

e moscardini, incipriati di farina

e cotti rapidamente

in olio extravergine leggero

(ligure o lombardo)

Insalata russaLa ricetta originale

— piselli, carote, patate —

diventa fresca e stuzzicante

con briciole di tonno,

capperi e cetrioli sott’aceto,

maionese acidulata al limone

SpiedoPer tutti gli appassionati

dell’arrosto rotante

immancabili sono maiale

(maialino da latte, porchetta),

agnello e pollo. Tutta sarda

la tradizione della pecora

ParmigianaIl trionfo del Mediterraneo

in teglia: melanzane fritte,

bi-fritte o alla piastra,

mozzarella di bufala o fiordilatte

Va preparata rigorosamente

il giorno prima

Grigliata mistaSolo l’imbarazzo della scelta

per i campioni della cottura

alla brace. Sulla griglia, salsicce

e costolette, peperoni

e melanzane da ungere

con oli aromatizzati

Insalata di risoTramontata finalmente

la moda del parboiled,

si parte dal super riso integrale,

rosso (selvaggio) o nero (Venere)

Dentro, dadini di formaggi

e salumi, sottaceti, uova sode

Passi per il prosciutto e melone. Va bene i pomodoricol riso. Al limite l’insalata russa. Ma chi pensache il menù estivo debba essere light è costrettoad arrendersi alla festa. Perché non c’è caldoche tenga: bisogna esagerare

© RIPRODUZIONE RISERVATA

FerragostoPranzo

L’importante è farlodi

LICIA GRANELLO

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47DOMENICA 14 AGOSTO 2011

Stoici come i nostri avidi fronte alla grande bouffe

MICHELE SERRA

Sconnesse una dopo l’altra dalle loro antiche ragioni agrico-le, tutte le nostre feste, o quasi, sono ridotte a ricorrenze ga-stronomiche (e cioè: sono ben connesse alle moderne ra-

gioni del consumo obbligatorio). Il pranzo di Ferragosto, per evi-denti ragioni climatiche, ha qualcosa di stoico. Nell’afa urbana osotto il solleone, il profluvio di teglie roventi, griglie sfrigolanti, for-ni accesi risulta spavaldamente contronatura.

Ho il ricordo indelebile di un’orgia a base di arancini su unaspiaggia siciliana, con una temperatura africana, come se clima ecibo si alleassero per brutalizzare insieme il genere umano. Ho vi-sto teglie di pizza da un ettaro che tenevano in ostaggio villeggiantiinermi (anche i non consenzienti) di fronte a un mare, quello li-gure, solitamente dai costumi sobri. E sul litorale ravennate, congli uomini saldamente inerti attorno al tavolaccio, ho visto grup-pi di donne sortire da borsoni e frigobar una quantità di cibo mo-struosa, con porzioni pro-capite di gramigna e salsiccia che avreb-bero stordito un gigante, fritture di pesce che olezzavano fino allacosta croata, eserciti di bottiglioni di vino rosso e, verso le quattrodel pomeriggio, sotto un sole bruciante, interi cocomeri che an-davano a gorgogliare dentro stomaci già dilatati a dismisura, e gliuomini abbattersi a dormire in pineta e risvegliarsi verso le setteper chiedere se era rimasto qualcosa per cena.

Il dosaggio dei pasti quotidiani, nella media dei ristoranti e del-le trattorie, si sta lentamente adeguando ai tempi, e a parte le por-zioni decisamente più piccole quasi nessuno mangia più, comeun tempo, antipasto primo secondo dolce caffè e ammazzacaffè.Non così al tavolo della festa, che si concede ancora quantità tara-te sul metabolismo dei nostri avi lavoratori, ciascuno dei quali ave-va un fabbisogno calorico più o meno doppio del nostro. Il pran-zo di Ferragosto, poi, si avvale del vizio specifico di cadere nel cuo-re di un periodo dell’anno dai ritmi allentati e dalle regole moltoindulgenti. Né le radici religiose della festa (l’Assunta) né quellecontadine (una sorta di saluto all’estate declinante) ci sono cosìfamiliari, anche perché l’artificiosità della vita urbana e industria-le nasconde a quasi tutti noi la solennità delle stagioni. Ed ecco chel’abbuffata resta il solo tratto rituale evidente, con vaghe tracce(nei barbecue, nella vampa dei fornelli) dei grandi fuochi ritualiche in mezza Europa illuminavano la notte di mezzo agosto, qua-si in simmetria terricola con le stelle cadenti.

Ovviamente ciascuno si regola, per l’occasione, come megliocrede. Quasi obbligatori, anche per ragioni familiari, la cena di Na-tale e il cenone di Capodanno, quasi inevitabile almeno una man-giata a Pasqua, il pranzo di Ferragosto è soggetto a vaste deroghe,e a diserzioni anche consistenti. L’estate 2011, mutevole e piutto-sto fresca, aiuta a concepire un Ferragosto leggero, divagante co-me le soffici nuvole bianche che non ci hanno quasi mai abban-donato per l’intera estate. Siamo pronti per un Ferragosto nontroppo oberato dai riti di massa. Per esempio: saltare il pranzo (sirimane al mare, o si cammina in montagna) per poi concedersi,con quattro amici scelti, una felice cena di Ferragosto in un risto-rantino di buona qualità e soprattutto con pochi coperti, rigoro-samente senza musica in diffusione. Festa vera, insomma, e unavacanza insperata anche per stomaco, fegato, pancreas e tutti glialtri lavoratori del metabolismo.

PeperonataPeperoni arrostiti e sbucciati

per gli stomaci più delicati,

qualche foglia di basilico

a fuoco spento. Per invogliare

i bambini, frullatura

a mo’ di salsa con crostini

Prosciutto & meloneSolo la frutta matura

permette di sbizzarrirsi

con l’affettato, grazie all’effetto

dolce-succoso che arrotonda

perfino le ruvidezze

degli insaccati umbri e toscani

Pomodori ripieniI più rossi e sodi perdono

semi e polpa ma guadagnano

farciture sfiziose e creative:

riso, pasta, verdure, ragù

Qualche ora di riposo

ne concentra il sapore

Cheese cakeDalle crostate agli sformati,

la ricotta regna sovrana

nelle torte estive

(anche in versione salata)

Compagni di ricetta: miele,

uvetta, pinoli, canditi, cacao

SorbettoGelatiera o frullatore

per il non-gelato di sola frutta,

ghiaccio e zucchero

(ma sarebbe meglio fruttosio),

che i più trasgressivi battezzano

con acquavite (vodka o grappa)

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Grattugiare il pan carrè in un

setaccio a trama larga. Sbattere

le uova con una forchetta. Tagliare

le costolette a dadi, mantenendo

l’osso. Impanare in uovo e pan

grattato. Scaldare e salare il burro

in padella. Rosolate la carne 2’

per lato. Ricomporre le costolette

nei piatti e servire caldissime

Ingredienti per 4 persone

4 costolette di vitello spesse 30 gr di burro chiarificato120 gr di mollica di pan carrè 2 uova, sale q.b. e pepe bianco

LA RICETTA

Costoletta milanese

Gualtiero Marchesi è il cuoco

che ha reinventato la cucina

tradizionale italiana in chiave

moderna. Tra i suoi piatti

simbolo, la squisita costoletta

alla milanese in versione puzzle

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Repubblica Nazionale

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48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 14 AGOSTO 2011

l’incontroRegisti operai

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Col passare del temponon ti guardano più,diventi trasparenteMa un uomo deve farei conti con i proprilimiti: l’anomaliasono i settantenniin cerca di giovanifanciulle

ficile. Ho avuto un’educazione formale,mio padre era uno di quegli uomini conla mentalità dell’Ottocento, mi compra-va tanti libri. Figlio unico, me ne stavo lìa leggere, solo. La mia tendenza a ridere,lo sviluppo del lato comico è nato lì, perdifendermi dalla solitudine, da ’sta casatenebrosa, con la carta da parati, i tappe-ti, le tende pesanti».

Roma negli anni Cinquanta era anco-ra una città sicura, un bambino di sei,sette anni poteva passeggiare tranquil-lamente con i compagni di scuola eGianni, che veniva dalla parte alta di Tra-stevere, considerata più borghese, sco-prì l’altra faccia del quartiere, quella po-polare. «Mi piaceva sentire la gente neibar e nelle botteghe, passavo molto tem-po con loro. Fu un altro modo per usciredalla solitudine, la scoperta di un’altravita. In quel periodo cominciò a svilup-parsi la mia voglia di comunicare». Saràanche per via di Trastevere e della suadoppia anima che Di Gregorio è arrivatoa una constatazione: «Io sono diviso indue. Sono in parte un intellettuale, travirgolette, uno che lavora con la testa,ma sono anche un operaio. Ho fatto unalunga gavetta sui set come ultimo degliassistenti, facevo l’autista, portavo icaffè, spostavo gli arredi».

Più “intellettuale” forse la passionegiovanile per il teatro e la scelta di iscri-versi all’Accademia Alessandro Fersen,una scuola importante in quegli anni.Scelta accolta con orrore in famiglia.«Mio padre non si rassegnava. Poi hocominciato a lavorare come aiuto inteatro e nel cinema. Erano gli anni Set-tanta, si faceva tanto cinema d’autorema anche western, polizieschi, com-medie. Lavoravo tantissimo, guada-gnavo bene e portavo i soldi a casa, emio padre si è un po’ pacificato».

Il cinema ha prevalso sul teatro, so-prattutto quando, sul set de Il diario diun maestrodi Vittorio De Seta, ha capitoche un film poteva raccontare la realtà eavvicinarsi alla verità della vita. Atrent’anni Gianni decide di tentare unlavoro “con il cervello”. «Mi sono sedutoalla scrivania e ho cominciato a scriveresceneggiature. È il secondo capitolo del-la mia vita, durato anni. Ho collaboratocon tanti, ho scritto di tutto, anche pic-coli film. Fino al 2000, all’incontro conMatteo Garrone, importantissimo».Non è stato il regista a rivolgersi allo sce-neggiatore, ma il contrario, perché dopoaver visto il cortometraggio di GarroneTerra di mezzo Di Gregorio ricorda dinon aver resistito all’impulso di cercar-lo. «Ho capito che il ragazzo aveva un ta-lento particolare. Io ero già grandino,Matteo ha vent’anni meno di me, eppu-re gli ho chiesto di lavorare con lui e ho

collaborato a tutte le sue sceneggiaturema ho anche seguito le riprese, sono tor-nato a respirare la polvere del set, ho riu-nito le due anime. Matteo è stato deter-minante, solo un pazzo come lui potevaconvincermi a fare la regia».

Ma l’elemento che ha segnato la vita diDi Gregorio è un altro: la mamma. Sulloschermo, in Pranzo di Ferragosto e inGianni e le donne, è impersonata da Va-leria De Franciscis Bendoni, scelta senzaesitazioni. «Quando l’ho conosciuta, do-po dieci minuti era come mia madre.“Visto che sei lì, prendimi quello, fammiquesto favore…” Come con mia madre.Era una donna bellissima, rompicoglio-ni stratosferica». In Pranzo di Ferragostola mamma, e non solo quella di Gianni, èdecisamente protagonista. In Gianni e ledonnela mamma ritorna, anche se il film«viene da una riflessione che avevo den-tro da tempo sul fatto che, con gli anni, ledonne non ti guardano più, sull’autobusdiventi trasparente, devi darti fuoco perattirare l’attenzione di una bella ragazza.Non è stato facile, dopo il successo diPranzo di Ferragosto, fare il secondofilm. Mi sentivo responsabilizzato, la

paura “e adesso che faccio” è durata me-si. Alla fine la riflessione sul tempo chepassa mi è sembrata così naturale che hodeciso di raccontarla».

Gianni e le donneè uscito dopo che damesi sui media si parlava di settantenniben diversi da Gianni, uomini che nonavevano nessun problema a circondarsidi giovani fanciulle, tanto che il film èsembrato quasi una provocazione.«Giuro che quando l’ho scritto il casodelle escort non era esploso. So che oggi,con i mezzi e le pillole a disposizione, tut-to si può fare. Ma un uomo dovrebbe fa-re i conti con se stesso, con i propri limi-ti, pacificarsi. L’anomalia sono i settan-tenni in cerca di ragazze giovani, mi au-guro siano pochi. La normalità dovreb-be essere quella che raccontiamo nelfilm. E il fatto che sia piaciuto a tanti è unbuon segno, almeno c’è un’Italia che ve-de le donne in modo diverso, più sano».Gianni e le donne sarà anche «un attod’amore» per le donne in genere, ma lamamma c’è ed è piuttosto ingombrante.«Credevo di averla esorcizzata, di esser-mi liberato di certi complessi nei suoiconfronti con il primo film sulle mammemultiple. Invece, durante le riprese unmio amico, Gianni Tabet, è venuto sulset e ho visto che rideva. Gli ho chiestoperché. “Tua madre è morta quindicianni fa, ma la sua presenza riemerge dicontinuo. Per te non è morta”. Sono ri-masto malissimo, ma ha ragione lui».

E nel secondo film riemerge con la so-lita petulanza ma anche con sublimimomenti di perfidia, come quando co-munica di aver venduto la nuda pro-prietà della casa sottraendola al figlio.«Ho un po’ esagerato nella finzione, maè vero che mia madre mi ripeteva spes-so “lascio tutto ai preti!”. Mi terrorizza-va, conoscendola sapevo che sarebbestata capace di farlo». E dopo un silen-zio: «Se cerco nella memoria trovo l’im-magine di mio padre che mi prendevaper la manina ed era spesso affettuoso.Mia madre no, lei era sempre dominan-te. È vero, nel secondo film l’ho resa an-cora più cattiva. Se tornasse in un terzochissà che mostro ne farei!», concluderidendo e sorseggiando vino bianco,una costante, con la sigaretta, nella vitae sullo schermo. «Magari ero portato albere, è diventata un’abitudine nel pe-riodo in cui accudivo mia madre, mi oc-cupavo delle sue amiche e, avendo già lamia famiglia, non era facile, bevevosempre di più. Oggi è il mio sostenta-mento».

È naturale che una presenza mater-na così forte abbia influenzato il suorapporto con le donne. «Amo moltissi-mo le donne, ma ne sono succube. Pen-so che casi come il mio siano frequenti

nella cultura mediterranea, soprattut-to per i figli unici. Sono sposato, ho duefiglie, e anche nel matrimonio sonosuccube, mi piace provare una sorta didevozione. Mia moglie ride, sopportale mie crisi. È un’artista, dipinge, è sta-ta lei a fare la scenografia dei miei duefilm, ha seguito le disavventure senti-mentali del personaggio con diverti-mento, senza gelosia».

In Gianni e le donne c’è una specie dicoro di commento. Sono gli avventoridel bar di Trastevere, «quelli veri, più au-tentici di qualunque attore. Mi hannofatto impazzire, “domani non vengo”,“oggi non mi va”, mi facevano i dispetti,ma li trovo fantastici. Uno di loro, quelloche interpreta l’elegantone che ha la sto-ria con la tabaccaia, è rimasto fregato. Michiede sempre di lei, si è innamorato: ilcinema è entrato nella vita».

Preso dall’impegno di accompagnareil film nel mondo e godersi il successo,Gianni Di Gregorio rinvia il pensiero diun possibile terzo film. Ma c’è una rifles-sione che gli gira per la testa. «Gianni e ledonne è piaciuto di più al pubblico fem-minile che agli uomini, forse si sono sen-titi toccati sul problema dell’età. “Io nonsono così”, mi dicono. L’età avanza, mac’è un lato molto bello. Per come sonofatto io, che ho due figlie, mi viene da ri-dere a pensare alle ragazze: se mai ci so-no le signore di mezza età. Lo dico ai mieiamici che idealizzano le donne giovani,cerco di spiegare che c’è un mondo chesi apre proprio adesso, un’infinità didonne bellissime di cinquanta, ses-sant’anni, spesso sole, disponibili. Suquelle bisogna puntare, sono più vicinea noi, la comunicazione è molto più faci-le e piacevole. L’età non è una chiusura,è un’apertura a tanti possibili, nuovi in-contri importanti». E se fosse questa la ri-flessione per un altro film?

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MARIA PIA FUSCO

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ROMA

La sua fortuna è stata chenessun produttore e nes-sun regista volevano fareun film in cui la più giova-

ne delle protagoniste doveva avere 84anni e le altre dai novanta in su. «Ci pro-vavo a vendere la sceneggiatura, la cal-deggiavo con tutte le mie forze, chiede-vo duemila, tremila euro, datemi quel-lo che vi pare. Macché. Allora ho deciso.Nessuno vuole fare il film? Lo faccio io».Così nel 2008, a quasi sessant’anni,Gianni Di Gregorio esordisce felice-mente come regista e attore con Pranzodi Ferragosto. È subito un caso, un suc-cesso e non solo in Italia, qualcosa disconvolgente per uno che raramenteera uscito da Trastevere, il quartiere ro-mano dove è nato nel 1949.

Se dividesse la sua vita in capitoli, que-sto sarebbe l’inizio del terzo, il più im-previsto. «Già mi stupiva la popolaritàche avevo raggiunto a Roma, ma quan-do a Berlino, Parigi o Londra qualcunomi riconosceva per strada ho avuto atti-mi di vero panico, oddio che sta succe-dendo, mi sono messo quasi paura. Equando proiettarono il film a New York,al Moma, l’idea che il mio lavoro fosse apochi passi da Picasso e da altri grandidell’arte mi faceva sentire un extraterre-stre caduto in un mondo meraviglioso».Gianni Di Gregorio nella vita è esatta-mente come nei suoi film. Simpatico,gentile, disponibile, lo sguardo diretto,la timidezza sfumata nella tendenza a ri-dere soprattutto di se stesso, un’incredi-bile capacità di stupirsi, sottolinea il rac-conto della sua vita con costante ironia.Soprattutto quando ricorda il primo pe-riodo. «Una noia mortale. Il periodo del-l’infanzia e dell’adolescenza è stato dif-

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L’infanzia a Trastevere, la gavettacome assistente sul set, sceneggiatoreper Matteo Garrone. Poi tre anni fal’esordio con “Pranzo di Ferragosto”È subito un caso, replicato dal successo

del suo secondo filmdedicato alle donneche, dice, “amo moltissimoma ne sono succubeColpa di mia madrePer questo la rendosempre così cattiva

nelle storie che racconto,per esorcizzarla”

Gianni Di Gregorio

Repubblica Nazionale