mio Pavese Cesare - la Repubblicadownload.repubblica.it/pdf/domenica/2010/08082010.pdf ·...

14
DOMENICA 8 AGOSTO 2010 / NUMERO 287 D omenica La di Repubblica spettacoli Tutti i figli di Mister Psyco IRENE BIGNARDI e CLAUDIA MORGOGLIONE le tendenze Ma non chiamatemi maglietta GIOVANNI CIULLO, MICHELA GATTERMAYER e ILARIA ZAFFINO l’incontro Odile Decq, contro l’archistar system IRENE MARIA SCALISE cultura Vita torera, il romanzo della corrida MARCO CICALA e MATTEO NUCCI i sapori Cocktail, il gusto bitter dell’estate FIORENZO DETTI e LICIA GRANELLO il reportage La metropoli cinese senza abitanti GIAMPAOLO VISETTI MASSIMO NOVELLI TORINO E ra una sera di primavera del 1949. Da poco nominato direttore didattico a Santo Stefano Belbo, Nicola En- richens entrò all’Albergo della Posta, sulla piazza grande del paese delle Langhe, e vide un ragazzino che stava buttando nella stufa alcune pagine di un libro. Ne prese una e si accorse che apparteneva a Paesi tuoi, il primo romanzo pub- blicato da Cesare Pavese. Lo guardò. Poi gli disse: «Lo sai che quel libro lo ha scritto un tuo compaesano?». Aveva da poco letto Prima che il gallo canti, ammirava Pavese e sapeva che era nato proprio lì, dove però veniva di rado. Quanto era accaduto alla Posta lo indus- se allora a cercare sue notizie presso i parenti e gli amici come Pi- nolo Scaglione, e soprattutto a riconciliare lo scrittore con la sua terra. Invitato attraverso la cugina Federica, a giugno Pavese ri- tornò a Santo Stefano. Al maestro regalò una copia di Prima che il gallo canti, con questa dedica: «A Nicola Enrichens con l’augurio che trovi nella mia terra qualcosa». (segue nelle pagine successive) NICOLA ENRICHENS S anta Libera è una collina situata a mezzogiorno di S. Ste- fano e vi si accede attraverso una strada asfaltata, che pas- sa vicino alla vecchia torre, che è a mezza costa, sopra di un rittano profondo. Quando vi andammo con Pavese, salimmo lungo la scorciatoia, a sinistra della torre, e scendemmo dalla parte opposta, lungo la strada, ora asfaltata, allora polverosa. Era il 6 giugno del 1950, una mattinata dal cielo pulito, dall’aria “sclinta”. Prendo la descrizione da una nota di cronaca della giova- ne maestra, che dirigeva la scuoletta di S. Libera, dal registro di clas- se: «L’inverno muore lentamente nella primavera. Una gioia viva c’è in tutti a salutare la terra che si rinnovella. Anche noi usciamo nei pra- ti a cercare la primavera, raccogliere tra i fiori il suo profumo. I peschi e i mandorli sono tutti in trillo, punteggiati di fiorellini bianchi e ro- sa, e un odore inebriante di terra fresca c’è nell’aria trasparente. I ru- scelli cantano fra le sponde fiorite, le viole e le pratelline stellano i de- clivi dei prati in sfumature azzurre e violette». (segue nelle pagine successive) Cesare Pavese amico mio Il FOTO LEEMAGE A sessant’anni dalla morte dello scrittore, le lettere e i diari inediti di Nicola Enrichens, maestro elementare di Santo Stefano Belbo Repubblica Nazionale

Transcript of mio Pavese Cesare - la Repubblicadownload.repubblica.it/pdf/domenica/2010/08082010.pdf ·...

Page 1: mio Pavese Cesare - la Repubblicadownload.repubblica.it/pdf/domenica/2010/08082010.pdf · 2010-08-08 · dove però veniva di rado. Quanto era accaduto alla Posta lo indus-se allora

DOMENICA 8 AGOSTO 2010 / NUMERO 287

DomenicaLa

di Repubblica

spettacoli

Tutti i figli di Mister PsycoIRENE BIGNARDI e CLAUDIA MORGOGLIONE

le tendenze

Ma non chiamatemi magliettaGIOVANNI CIULLO, MICHELA GATTERMAYER e ILARIA ZAFFINO

l’incontro

Odile Decq, contro l’archistar systemIRENE MARIA SCALISE

cultura

Vita torera, il romanzo della corridaMARCO CICALA e MATTEO NUCCI

i sapori

Cocktail, il gusto bitter dell’estateFIORENZO DETTI e LICIA GRANELLO

il reportage

La metropoli cinese senza abitantiGIAMPAOLO VISETTI

MASSIMO NOVELLI

TORINO

Era una sera di primavera del 1949. Da poco nominatodirettore didattico a Santo Stefano Belbo, Nicola En-richens entrò all’Albergo della Posta, sulla piazzagrande del paese delle Langhe, e vide un ragazzino che

stava buttando nella stufa alcune pagine di un libro. Ne prese unae si accorse che apparteneva a Paesi tuoi, il primo romanzo pub-blicato da Cesare Pavese. Lo guardò. Poi gli disse: «Lo sai che quellibro lo ha scritto un tuo compaesano?». Aveva da poco letto Primache il gallo canti, ammirava Pavese e sapeva che era nato proprio lì,dove però veniva di rado. Quanto era accaduto alla Posta lo indus-se allora a cercare sue notizie presso i parenti e gli amici come Pi-nolo Scaglione, e soprattutto a riconciliare lo scrittore con la suaterra. Invitato attraverso la cugina Federica, a giugno Pavese ri-tornò a Santo Stefano. Al maestro regalò una copia di Prima che ilgallo canti, con questa dedica: «A Nicola Enrichens con l’augurioche trovi nella mia terra qualcosa».

(segue nelle pagine successive)

NICOLA ENRICHENS

Santa Libera è una collina situata a mezzogiorno di S. Ste-fano e vi si accede attraverso una strada asfaltata, che pas-sa vicino alla vecchia torre, che è a mezza costa, sopra diun rittano profondo. Quando vi andammo con Pavese,

salimmo lungo la scorciatoia, a sinistra della torre, e scendemmodalla parte opposta, lungo la strada, ora asfaltata, allora polverosa.Era il 6 giugno del 1950, una mattinata dal cielo pulito, dall’aria“sclinta”. Prendo la descrizione da una nota di cronaca della giova-ne maestra, che dirigeva la scuoletta di S. Libera, dal registro di clas-se: «L’inverno muore lentamente nella primavera. Una gioia viva c’èin tutti a salutare la terra che si rinnovella. Anche noi usciamo nei pra-ti a cercare la primavera, raccogliere tra i fiori il suo profumo. I peschie i mandorli sono tutti in trillo, punteggiati di fiorellini bianchi e ro-sa, e un odore inebriante di terra fresca c’è nell’aria trasparente. I ru-scelli cantano fra le sponde fiorite, le viole e le pratelline stellano i de-clivi dei prati in sfumature azzurre e violette».

(segue nelle pagine successive)

CesarePavese

amicomioIl

FO

TO

LE

EM

AG

E

A sessant’anni dalla mortedello scrittore, le lettere e i diari

inediti di Nicola Enrichens,maestro elementare

di Santo Stefano Belbo

Repubblica Nazionale

Page 2: mio Pavese Cesare - la Repubblicadownload.repubblica.it/pdf/domenica/2010/08082010.pdf · 2010-08-08 · dove però veniva di rado. Quanto era accaduto alla Posta lo indus-se allora

32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 8 AGOSTO 2010

(segue dalla copertina)

Cominciò così l’amicizia, arricchita da un notevolescambio epistolare. A sessant’anni dal suicidio di Pa-vese, Francesco e Vincenzo Enrichens, i figli, e la ve-dova Paola Rubba, hanno deciso di rendere pubbli-che quelle carte (sei lettere inedite, cartoline e altriscritti brevi), insieme a una lunga testimonianza (che

pubblichiamo senza interventi editoriali in queste pagine) del mae-stro sullo scrittore piemontese e sul rapporto che intrattenne con lui.Il testo e la corrispondenza fra i due verranno presto raccolti in unvolume curato da Mariarosa Masoero, che dirige il Centro studi“Gozzano-Pavese” dell’Università di Torino, in collaborazione conla famiglia Enrichens e con Paolo Borgna.

Originario di Contursi Terme, in provincia di Salerno, Nicola En-richens arrivò in Piemonte da militare. Dopo l’8 settembre ’43 si unìalle bande partigiane e , al termine della guerra, si sposò e vinse ilconcorso per le scuole di Santo Stefano. Ricorda Franco Vaccaneo,presidente del comitato scientifico della Fondazione Pavese: «L’exdirettore didattico, un uomo che aveva dedicato la sua vita all’edu-cazione e a un’idea di progresso sociale, mi parlava privatamentedelle lettere di Pavese che conservava. Soltanto due, d’altronde, fu-rono pubblicate nell’epistolario Einaudi». Era stato Italo Calvino,in una lettera del 16 giugno 1965, a dire allo stesso Enrichens che «lelettere a Lei sono molto importanti, perché con Lei Pavese s’eramesso a discutere delle cose che gli stavano più a cuore, fatto chenon gli succedeva quasi con nessuno». Il ritorno a Santo Stefano,del resto, culminò nella stesura de La luna e i falò, l’ultimo suo libro.

Iniziarono a scriversi nel giugno del ’49. Ancora il 6 luglio del 1950,poco prima di uccidersi, Pavese gli inviò un biglietto in cui ironizza-va sulla sua vittoria al Premio Strega: «Caro Enrichens, la ringraziodel suo telegramma. Troppa degnazione per una faccenda pettego-la e mondana come lo Strega. Come ho già scritto agli amici di S. Ste-fano, verrò presto a trovarvi, entro il mese». Furono principalmen-te la letteratura e i problemi della cultura di quegli anni, tra tradizio-ne e arte moderna, provincialismo italiano e apertura al mondo, er-metismo e realismo, gli argomenti trattati dai due. Come quando, il6 ottobre del ’49, Pavese affermò che «soltanto attraverso la respon-sabilità, l’impegno rischioso, l’azione insomma, ci si fa un punto divista. Per es., non si risolve il dubbio sull’arte — razionale o irrazio-nale, ottocentesca o novecentesca ecc. — se non ci si impegna a far-ne, cercando di essere sinceri. A poco a poco scopre se stessi, e il pun-to di congiunzione col proprio tempo. Quanto a Longanesi è unbuffone, e un letterato — lo lasci ai suoi trasformismi».

Non parlavano soltanto di letteratura. Lo scrittore affrontava incerti passi il suo legame con il comunismo, così come analizzava ilsuo sentirsi un comunista. Il 24 novembre del ’49 lo aveva definitoin questa maniera: «... io stesso lo sono molto sui generis». Il 15 gen-naio del 1950 scriveva a Enrichens: «Il polso della vita batte ora nonpiù in una corte o in una piccola classe ma nei grandi organismi col-lettivi (le fabbriche, i campi sportivi, gli organismi democratici ecc.— fra parentesi, anche per questo sono comunista) e si tratta di tro-vare il linguaggio tendenzialmente acconcio a toccare questi moltilettori — questo tipico lettore “uomo e basta”». Ma «ciò dev’esserefatto senza rinunziare a nessuno dei valori acquisiti in passato, sen-za abbassarsi al popolo: ma sollevando il popolo».

Pavese aveva già dentro, nella tarda primavera del 1950, il «vizioassurdo» che lo avrebbe portato a togliersi la vita. Il Pavese che Ni-cola Enrichens ritrasse nel suo testo mai pubblicato, datando quel-la passeggiata sulla collina di Santa Libera agli inizi del giugno ’50,era tuttavia un uomo che, pur in quei «giorni terribili del suo burra-scoso amore con Costance Dowling», sapeva incantarsi davanti a un

albero: «Si fermò davanti a un pesco fiorito ad am-mirarlo: vidi, dietro i vetri tersi delle sue lenti, i

suoi occhi brillare, come incantati per un mira-colo». Il 27 agosto si sarebbe ucciso.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Il maestro, lo scrittoree il diavolo sulle colline

la copertinaAmicizie

A sessant’anni dal suicidio di Cesare Paveseecco il racconto, anche attraverso lettere inedite,di chi cercò fino all’ultimo di riavvicinare l’autorede “La luna e i falò” alla sua terra. Si chiamavaNicola Enrichens ed era il direttore della scuolaelementare di Santo Stefano Belbo

MASSIMO NOVELLI

IL RICORDO

Nicola Enrichens

e il pittore Ernesto Treccani,

autore di un ciclo

di pitture dedicato

a La luna e i falò,

verranno ricordati venerdì

27 agosto alla Fondazione

Cesare Pavese

di Santo Stefano Belbo (alle 18,30)

in un incontro presieduto

dal sindaco del paese

Giuseppe Artuffo. Saranno

esposti lettere autografe

e documenti inediti

DOCUMENTIIn questa pagina, lettere

e una cartolina di Pavese

a Enrichens e uno schizzo

dello scultore Ferreri

per un bozzetto di busto

per Santo Stefano Belbo

Repubblica Nazionale

Page 3: mio Pavese Cesare - la Repubblicadownload.repubblica.it/pdf/domenica/2010/08082010.pdf · 2010-08-08 · dove però veniva di rado. Quanto era accaduto alla Posta lo indus-se allora

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 8 AGOSTO 2010

Quell’ultima passeggiatanelle sue Langhe

NICOLA ENRICHENS

(segue dalla copertina)

«Il mondo piccino si ridesta con le sue api d’oro e le farfalline ingioiellateper la grande festa. È tutto un fruscio ed un volo. Anche la lucertolinaesce dal suo buco e corre svelta dove il sole batte più intenso. I bimbi

amano questi umili insetti: s’immedesimano della lo-ro vita e gioiscono d’ogni loro avventura».

La sera precedente, il 5 giugno, lo scrit-tore, invitato da me, era venuto e avevapreso alloggio all’Albergo della Posta, doveio ero in pensione. Cenammo con buonappetito e Pavese, ricordo bene, sembravaben disposto alla compagnia: mangiò persi-no due piatti di tagliatelle!

Poi fummo ospiti di un comune amico,che ci offrì dello spumante. Si parlò del più edel meno ed anche della Resistenza. L’ami-co ebbe delle parole un po’ accese sulla guer-ra, sulle distruzioni, sugli abusi di violenza.Vidi Pavese sbiancare in volto, alzarsi di scat-to e dire:

— Non esageriamo; le violenze ci sono stateda una parte e dall’altra, ma la Resistenza ha sal-vato l’Italia dalla dittatura! —

Io calmai le acque e la discussione assunse to-ni più distesi. Ma Pavese fu nervoso per tutta la se-ra. Erano i giorni terribili del suo burrascoso amo-re con la C. Dowling.

La mattina seguente andammo a S. Libera.Io dovevo visitare quella scuola — quindici

bambini, una sola insegnante, quattro classi — ed invitai anche lui a venire. Men-tre salivamo, per la strada di Seirole, che porta a S. Libera, Pavese mi fece tutto unpanorama della letteratura contemporanea, dicendomi che, da noi, ciò che erarimasto di valido, come contatto colla realtà, era il ritorno a Verga.

— Lei deve partire, mi disse, da Verga, salta la triade Carducci-Pascoli-D’An-nunzio, ed arrivare, ad esempio a Federico Tozzi e De Sica.

Mi parlò dell’“Ulisse”, di Joyce, di Proust, (del quale mi mandò “La strada diSwann”) di Lee Masters ecc. Si fermò davanti ad un pesco fiorito ad ammirarlo:vidi, dietro i vetri tersi delle sue lenti, i suoi occhi brillare, come incantati per unmiracolo. Mi parlò del mito, delle religioni antiche, quando ci fermammo davantia un pilone d’un santo, fu, per me, la sintesi meravigliosa dei miei studi, che Pa-vese ripulì, quel giorno, dei sedimenti della tradizione. Comprai, poi, “Tre croci”del Tozzi.

Ritornammo all’Albergo della Posta; mangiammo di buon appetito, poi l’ac-compagnai, a piedi, fino alla stazione, dove egli prese il treno per Torino.

Stava maturando il “Premio Strega”. Ebbi, però, la sensazione che non fossequell’orco, che tanti hanno, poi, descritto — fu molto cordiale, estroverso, queidue giorni; andava, forse, alla ricerca di una compagnia, di qualcuno che lo tiras-se fuori dalla rete della travolgente passione amorosa.

Dal trenta maggio al ventidue giugno non una sola annotazione sul suo diario.Aveva tutt’altro da fare. La C. gli aveva detto che sarebbe tornata, dopo l’incontrodi Cortina, dopo due mesi. E si attacca alla sorella, alla Doris, per avere notizie.

Il ventidue giugno parte per Roma, per il Premio Strega. Gli feci un telegram-ma, per il riconoscimento letterario.

— A Roma, anche l’estate è bella, con lo Strega — Mi rispose, il 6 luglio, con questa lettera:

6 luglio ’50«Caro Enrichens,La ringrazio del suo telegramma. Troppa degnazione per una faccenda pette-

gola e mondana come lo Strega. Come ho già scritto agli amici di S. Stefano, verròpresto a trovarvi, entro il mese.

Arrivederci e grazie ancoraPavese».

Avevamo combinato, con Nuto, di festeggiarlo, a S. Stefano, una sera con unabicchierata. Ci aveva promesso che sarebbe venuto. Anche la cugina Federicaaveva insistito.

Ma aveva preso alloggio all’Albergo Roma a Torino ed aveva deciso di suici-darsi. La C. non era più tornata. Gli aveva scritto un biglietto dal New-Mexico, il27 giugno, e Pavese sapeva che non l’avrebbe più rivista. E pensava alle notti diCortina.

Come un adolescente, non seppe resistere.Appresi la notizia della morte, a Garessio, leggendola sulla “Gazzetta Sera” del

28-29 agosto, che uscì con questo titolo, su quattro colonne, e la foto dello scrit-tore: “Con oltre venti cartine di sonnifero in un albergo di Torino, Cesare Pavesesi è ucciso ieri”.

Dopo la morte, dopo il Premio “Strega” tutti avevano conosciuto Pavese, a S.Stefano, tutti si ricordavano di lui. Ancora adesso la maggior parte dei suoi con-cittadini non sa chi sia stato. Un tale mi dice, ancora oggi, che è stato suo compa-gno di scuola alle elementari; e Pavese le elementari le ha frequentate a Torino!

I critici fecero il coro sullo scrittore, cercarono di spiegarne la morte.Luigi Barzini, sulla “Settimana Incom” scrisse che Pavese, a Roma, ave-va fatto la fine di un qualsiasi provinciale, abbagliato dalle luci dellacittà, lui che veniva dalla campagna, dalle Langhe!

PAESI TUOIIn questa pagina,altre lettere di Pavesee la lettera ineditadi Italo Calvinoa EnrichensNella foto grande,Cesare PaveseNelle altre foto,in alto, l’Albergodell’Angelo a SantoStefano Belbodi cui si parlane La luna e i falò

Qui sotto, la casanatale dove lo scrittorevisse fino al 1916

© RIPRODUZIONE RISERVATA

ILL

US

TR

AZ

ION

E D

I T

UL

LIO

PE

RIC

OL

I

Repubblica Nazionale

Page 4: mio Pavese Cesare - la Repubblicadownload.repubblica.it/pdf/domenica/2010/08082010.pdf · 2010-08-08 · dove però veniva di rado. Quanto era accaduto alla Posta lo indus-se allora

il reportageMetropoli-fantasma

Era un piccolo villaggio di contadini. Poi il governo decisedi trasformarlo nella città più ricca e sfavillante dell’imperoE così, nella Mongolia profonda, è nata Ordos-KangbashiPeccato che, pensata a tavolino per due milioni di cittadini,sia abitata da ventottomila persone. Che ora vagano spaesatetra grattacieli vuoti e piazze senza vita

L’unico cliente dell’unicoalbergo ammazza la nottefacendo karaoke online

Il capolavoro dell’apparenzain un Paese condannato

a una crescita senza fine

34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 8 AGOSTO 2010

una Ordos in miniatura. Dopo investimenti per seimiliardi di yuan la realizzazione dei suoi quartieri,già venduti, è stata sospesa per mancanza di aspi-ranti residenti. Decine di edifici in rovina, sui qua-li restano appesi cartelli con la scritta «arriviamopresto», sono ora occupati da alberi, cavalli e dauna serie di porcili clandestini. È il segreto della«bolla immobiliare» cinese, che continua a gon-fiarsi ma non scoppia mai. Se i prezzi scendonotroppo e le compravendite languono oltre il limitefissato da Pechino per raffreddare il mercato, daqualche parte aprono i cantieri di una città senzacittadini. A Kangbashi, l’amministrazione ha an-nunciato piani edilizi per altri trecentotrentacin-que chilometri quadrati, dieci volte l’attuale area.Oltre cinquemilasettecento ettari di terreno sonostati assegnati alle imprese senza che i progetti edi-lizi abbiano ottenuto l’autorizzazione. I governi lo-cali sono ormai totalmente dipendenti dalla ven-dita della terra e ogni cinese sopravvive nella cer-tezza che prima o poi diventerà un piccolo investi-tore di immobili da affittare. Non importa se sonoveri o falsi, occupati o vuoti. Conta che ci sia un con-

tratto e un prestito finanziato, essenziali per paga-re i mutui di appartamenti a cui è affidata la sicu-rezza della vecchiaia.

La metropoli-fantasma della Mongolia Internanon è l’ultima follia dell’epocale urbanizzazione ci-nese, sacrificio obbligato per trasformare la Cina da«fabbrica del mondo» a «mercato globale» del seco-lo. È piuttosto lo specchio dell’incubo del capitali-smo socialista, che scopre come l’autoritarismo re-sti infine un ostacolo insormontabile per la libertàdelle imprese. A fianco di una stazione ferroviariasenza binari c’è una biblioteca priva di libri e di scaf-fali. In un laboratorio informatico un guardiano edue ragazzi giocano tra oltre centro computer im-ballati. Nella “Cittadella della scienza e della tecni-ca” non arrivano i cavi per Internet. Per creare «l’ef-fetto-folla», i funzionari costringono trentasette-mila studenti di Dongsheng a raggiungere ognigiorno i nuovi istituti di Kangbashi. Il portavoce del-l’amministrazione, Han Junli, assicura che «la bas-sa densità della popolazione rende la città un mo-dello mondiale di vivibilità» e che entro dieci anniquesto ammasso di grattacieli vuoti, assediati daldeserto mongolo, sarà «una capitale della cultura,del turismo, della scienza e della finanza». Può es-sere che in Cina avvengano miracoli, ma la realtà èche in giro non si vede nessuno, sebbene lo scorsomaggio siano stati venduti novemilanovanta ap-partamenti a milleduecento euro al metro quadro,contro i settecento euro dei settemilaquattrocentoacquistati in febbraio. Ufficialmente il reddito procapite è di ventunomila dollari all’anno, rispetto aisedicimila di Shanghai, ma i ristoranti non apronoe dodici giganteschi shopping center, privi di mer-ce, hanno rinunciato all’energia elettrica.

Ordos è la nuova Cina, che domina se stessa e ilpianeta riempiendo il vuoto con un buco che nes-suno sa se è circondato dall’illusione, o dal doveredella speranza. Nella sconfinata piazza principaleci sono solo tre minatori, emigrati dallo Jiangxi. Se-guono le partite dei Mondiali di calcio girandosiverso quattro maxi-schermi che riproducono lagrandezza di uno stadio. Un ingegnere tedesco checonsegna viadotti chiavi in mano, è l’unico clientedell’unico albergo aperto. Tiene un microfono inmano e ammazza la notte canticchiando davanti alcomputer collegato al karaoke online.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

KANGBASHI

La città più ricca della Cina non esiste.Centinaia di grattacieli, autostrade asei corsie, torri-astronave per uffici,piazze-scultura e quartieri di ville hol-

lywoodiane immerse in finti giardini tropicali, so-no vuoti. Nel centro, segnalato da otto enormi fon-tane prive di acqua, si aggirano alcune vacche chebrucano tra i fiori delle aiuole. Quattro manovalisono assopiti in un vapore rovente, stesi sul tetto diun museo che stanno finendo di costruire. Un car-tello spiega che presto sarà deciso quale tema darealla struttura e quale mostra sarà acquistata. Sullefinestre dei palazzi c’è scritto «affittasi» con lettereadesive. Nessuno sale sugli autobus e le strade so-no piene di ristoranti chiusi. All’asilo non è iscrittoalcun bambino, a scuola vanno solo gli insegnantie non esiste un ospedale. Si può vagare per ore sen-za incontrare anima viva, come in un deserto. Ca-pita però, tra i missili di cristallo e acciaio che ven-

gono definiti «zona business», di imbattersi in unafila di taxi fermi, con gli autisti che dormono sul se-dile. Poco distante alcuni poliziotti, immobili da-vanti a una palazzina, impediscono l’accesso aquella che sostengono essere la sede dell’ammini-strazione comunale. Non ci sono negozi. Per tro-vare qualcosa da mangiare bisogna battere con cu-ra decine di viali delimitati da spazi pubblicitari in-venduti, nel presagio di essere penetrati nella di-smessa scena di un film. Una vecchia, accovaccia-ta sul marciapiede, frigge ravioli sul carbone spar-so sull’asfalto.

La proiezione di Dubai dopo un ordine di eva-cuazione è la scintillante metropoli-fantasma co-struita nel nulla dalla Cina. In cinque anni ha sor-passato il Pil di Pechino e Shanghai ed entro il 2013avrà un reddito medio superiore a quello di HongKong. Pur essendo una finzione politica e finanzia-ria, sarà la città più ricca dell’Asia e riuscirà nell’im-presa senza precedenti di incarnare nello stessotempo il simbolo del boom cinese e il più impres-sionante esperimento di urbanizzazione priva diurbanizzati. Questo paradosso della speculazioneedilizia a spese del pubblico, spina dorsale dell’os-sessione cinese per la crescita del Pil, è stato bat-tezzato Kangbashi e dovrebbe trasformarsi nellanuova Ordos, toponimo che significa «serie di pa-lazzi». Sorge in un’area di trentaduemila chilome-tri quadrati, tra le colline sabbiose della MongoliaInterna, estremo nord della Cina.

Fino al 2004 qui si trovava il villaggio di Dong-sheng, millequattrocento contadini. Poi il governoha deciso che il luogo era adatto per una metropo-li da due milioni di abitanti. I leader locali del Parti-to comunista si sono messi a vendere terreni e leimprese di costruzione, con i soldi delle banche fi-nanziate dallo Stato, ad aprire cantieri. Per decretopresidenziale, Kangbashi è cresciuta a vista d’oc-chio, come una marea di cemento destinata a mu-tarsi nel capoluogo del Texas made in China. È alcentro della regione-serbatoio del continente e unpugno di ex funzionari controlla un sesto delle ri-serve di carbone e un terzo dei giacimenti di gas delPaese. Fino a quando le gru hanno tirato su centi-naia di grattacieli, tutto è filato liscio. Ma ora che l’i-nesistente città-modello è finita, ci si accorge cheinvece di essere popolata da due milioni di giovanicinesi felici, è ufficialmente occupata da ventotto-

mila residenti spaesati. I funzionari pubblici, tra-sferiti d’ufficio da altre regioni, sono sedicimila. Glialtri sono mogli, figli e anziani genitori, o manova-li migranti impegnati negli ultimi lavori.

La nuova megalopoli costruita a tavolino non èperò un fallimento. Ci abitano le persone di unastrada di Pechino, è vuota come un altopiano tibe-tano, per le vie si incontrano più spazzini che pas-santi, ma appartamenti e uffici risultano tutti ven-duti. È il capolavoro dell’apparenza su cui si appog-gia la crescita della Cina, condannata a essere sen-za fine. Per salvare l’economia nazionale dalla crisidell’Occidente il governo ha stanziato quasi seicen-to miliardi di dollari in opere pubbliche. Una venti-na sono finiti qui e con i fondi della capitale, indi-spensabili per evitare la bancarotta del partito, ifunzionari della Mongolia Interna hanno inventa-to Kangbashi. Gli immobili, prima di essere costrui-ti, sono stati comprati da anonimi investitori nazio-nali e stranieri. I signori delle miniere sono stati in-vitati ad acquisire dieci ville a testa, le grandi com-pagnie petrolifere almeno cinque piani di uffici, lebanche interi stabili. Per mesi, su consiglio dei fun-

zionari comunisti, centinaia di uomini d’affari han-no fatto la fila per aggiudicarsi un attico nella nuovaterra promessa e i finanzieri di Shanghai e HongKong non hanno potuto sottrarsi all’obbligo di di-ventare padroni di un palazzo nella città del partito.

Senza che un essere umano si affacci volontaria-mente all’orizzonte, la nuova Ordos è il motore del-l’esplosione immobiliare cinese. La capitale pro-metteva trecentomila abitanti entro il 2010 e i prez-zi degli stabili salivano del trenta per cento. Un mi-nistero assicura che i residenti saranno settecento-mila entro il 2015 e il valore degli immobili, nem-meno progettati, raddoppia un’altra volta. Lestatistiche nazionali, negli ultimi due anni, hannomacinato le cifre astronomiche del misteriosoboom del mattone. Non hanno spiegato che dietroKangbashi, nelle regioni interne, stanno sorgendodecine di città-fantasma e di distretti industrialisenza imprese e senza operai. Vengono inventateper consentire alle banche di restituire al governol’oro del Dragone e vendute per impedire che l’au-mento annuo del prodotto interno lordo precipitisotto l’8,5 per cento. Qingshuihe, nello Shaanxi, è

GIAMPAOLO VISETTI

Nei viali deserti della bolla cinese

FO

TO

SU

SE

TT

A B

OZ

ZI/

PA

RA

LLE

LO

ZE

RO

consorzio

creativ

i.com

SPECIALE UOMINI E DONNE Diversi ma non troppo. Al di là dei luoghi comuni,ecco come funziona il cervello dei due sessi PSICOLOGIA Effetto Facebook :i social network ci cambiano la testa? SALUTE I meccanismi cerebrali che regolano letossicodipendenze COMPORTAMENTI Perché la vita urbana scatena l'aggressività.

.

.

.

È IN EDICOLA IL NUMERO DI AGOSTO:

MENTE & CERVELLO LANCIA UN NUOVO ABITO MENTALE.

Repubblica Nazionale

Page 5: mio Pavese Cesare - la Repubblicadownload.repubblica.it/pdf/domenica/2010/08082010.pdf · 2010-08-08 · dove però veniva di rado. Quanto era accaduto alla Posta lo indus-se allora

DESERTO La nuova metropoli voluta dal governo cinese emerge a poco a poco dal deserto mongolo che la cinge d’assedio

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 8 AGOSTO 2010

SKYLINE Alla fine di una strada completamente deserta si comincia a vedere il profilo di Kangbashi, nella Mongolia Interna

ACQUA In primo piano il bacino idrico della nuova città, sullo sfondo gru e torri in costruzione. Nella pagina accanto, piazza Gengis Khan

NON LUOGHI Due immigrati, lavoratori nei cantieri edili, con le buste della spesa attraversano un tratto di campagna. Alle loro spalle, sulla destra, il nuovissimo museo

BANDIERA ROSSA La sede dell’amministrazione comunale e la sede del partito comunista di Ordos-Kangbashi su cui sventola la bandiera rossa

Repubblica Nazionale

Page 6: mio Pavese Cesare - la Repubblicadownload.repubblica.it/pdf/domenica/2010/08082010.pdf · 2010-08-08 · dove però veniva di rado. Quanto era accaduto alla Posta lo indus-se allora

Se il Parlamento catalano dice addio alla passionepiù antica, un’altra Spagna ricorda i suoigrandi matadores. Da Juan Belmonte,

di cui viene ripubblicata la biografia, a quel poliedricopersonaggio che fu Ignacio Sánchez Mejías. Del toreadorcantato dal poeta ora sono state trovate le ultime memorie: luci e ombre di un “mundillo” destinato a scomparire

CULTURA*

Fu anche aviatore,drammaturgo, attore,pilota, giocatore di polo, presidente del Betis Siviglia Calcio

36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 8 AGOSTO 2010

MADRID

Dopo aver rischiato la pel-le nell’arena era capacedi chiudersi in albergo ascrivere una pièce tea-

trale. Oltre che drammaturgo fu attoredi cinema, aviatore, pilota automobili-stico, giocatore di polo, presidente del-la Croce Rossa e del Betis Siviglia Cal-cio, nonché mecenate d’una genera-zione di poeti grande quanto disgrazia-

ta. Spiegò la tauromachia alla Colum-bia University. Perché, prima di tutto,fu matador de toros. Leggendario in vi-ta e ancor più in morte: quella trasfigu-rata dall’amico Federico García Lorcanel celebre Lamento per Ignacio Sán-chez Mejías, la più alta elegia funebredel Novecento spagnolo — e non solo.«A las cinco de la tarde / Eran las cinco enpunto de la tarde», versi così famosi daessersi trasformati loro malgrado inspot folkloristico della Spagna ance-

Sotto lo smalto del pittoresco serpeggiauna riflessione malinconica, corrosiva,addirittura inquietante, su psicologia econdizione sociale dei matador. E sulmundillo, il mondo taurino, con le sueincipienti derive da show-business.Quattrini, veleni, giornalisti prezzolati,attriti di classe, bohème, amori, evane-scenza del successo. E, in mezzo, uneroe quasi esistenzialista, il torero JoséAntonio, col suo devoto assistente, il“Sancho Panza” Espeleta. Per quanto

MARCO CICALA

strale, flamenca y torera. Eppure, a settantasei anni dalla cor-

nata killer nell’arena di Manzanares, lafigura di Ignacio Sánchez Mejías(1891—1934) resta irriducibile ai cli-ché. E da quel cilindro magico che fu lasua rapida esistenza spunta adessoun’altra sorpresa: il romanzo ineditoLa amargura del triunfo (L’amarezzadel trionfo). Nell’ambiente taurino eraconsiderato una specie di piccoloGraal. Tutti gli aficionados sapevanoche stava sepolto da qualche parte, mafinora nessuno era stato abbastanzabravo da scovarlo. C’è riuscito il profes-sor Andrés Amorós. Mica un IndianaJones dell’ultim’ora: critico e giornali-sta, insegna letteratura spagnola nel-l’antica università Complutense diMadrid, e al torero venerato da GarcíaLorca ha dedicato studi definitivi. Rac-conta: «Il romanzo era nascosto tra lamassa di manoscritti lasciati da Igna-cio. Un labirinto di appunti buttati giùd’impeto tra una corrida e l’altra. Uncaos scoraggiante. Anche i discenden-ti erano pessimisti sulle chances di suc-cesso». Ma alla fine il professor Amorósha ricomposto il mosaico del romanzo— ora pubblicato in Spagna (edizioniBerenice) e già in ristampa.

Spaccato di vita torera a metà deglianni Venti, L’amarezza del trionfo hasolo l’apparenza del racconto di colore.

La sfida tra arte e sanguenel secolo d’oro dell’arena

MATTEO NUCCI

«Il giorno in cui si sfidano tori cresce di più la bar-ba. È la paura. Semplicemente, la paura». Lochiamavano «genio», «terremoto», «uragano».Ma il suo nome d’arte, da matador de toros, ri-mase quello del ragazzino poco dotato fisica-mente e dalla battuta fulminante, nato a Siviglia

nel 1892: Juan Belmonte. Fu il torero più rivoluzionario del No-vecento: cambiò per sempre le regole della sfida ai tori, facendodelle sue debolezze fisiche una forza, avvicinandosi alle cornadell’animale come nessuno prima e sfruttando il gioco del pol-so sul panno che inganna il toro, anziché il lavoro di braccia egambe. Cento anni fa uccise il suo primo animale, ma in Spagnaoggi non si festeggia e semmai si continua a parlare della deci-sione presa dal Parlamento catalano di abolire per sempre lecorride. Eppure è un editore catalano (Libros del Asteroide) adaver ripubblicato, e con successo, Juan Belmonte, matador detoros, il libro che nel 1935 dedicò a Belmonte un grande repor-ter spagnolo, Manuel Chaves Nogales. Una storia picaresca incui il torero impara sfidando i tori di notte, introducendosi ne-gli allevamenti con una lampada rubata in un circo, fino a di-ventare il più grande matador di Spagna, dopo la morte nell’a-rena del suo inseparabile rivale, Joselito, nel 1920.

Ma non puro e semplice artigiano della corrida fu Belmon-te. Girava per le arene di Spagna e dell’America Latina con unaborsa zeppa di libri leggendo instancabilmente Maupassant eD’Annunzio. E cominciò a frequentare gli intellettuali, antici-pando la tendenza che sarebbe stata esaltata di lì a poco daGarcía Lorca. Del resto, che la corrida sia arte è quello che han-no cercato di dimostrare i contrari all’abolizione durante que-sti ultimi mesi di dibattito. Sono intervenuti un po’ tutti, i gran-di scrittori di lingua spagnola, da Mario Vargas Llosa a JavierMarías, da Javier Cercas a Fernando Savater, pur di mettereben in chiaro che la corrida appartiene a quel tipo di arti che,

per quanto effimere e indissolubilmente legate al momento —unico — in cui si svolgono, sono fonte d’ispirazione per altret-tante forme d’arte. Una delle prove più lampanti sta nell’infi-nita produzione artistica che alla tauromachia si è ispirata. Inomi più altisonanti li conosciamo: Goya e Picasso, GarcíaLorca e Neruda, Botero, Dalì, Bizet, Hemingway, Cocteau.

Molto meno conosciuti, almeno in Italia, gli innumerevoliscrittori di letteratura taurina, tra cui non può che finire an-che Manuel Chaves Nogales. Il suo piccolo capolavoro lo pub-blicò a puntate su una rivista e pochi anni dopo abbandonò laSpagna ormai perduta al franchismo per morire esule, a Lon-dra, nel 1944, a quarantasette anni. Non poté vedere il segui-to della vita di Belmonte, quando il matador fu costretto adabbandonare definitivamente le arene. Ricco, amatissimo,costantemente dedito alla battuta e alla riflessione fuori dal-le regole, seguì il proprio allevamento di tori selvaggi e conti-nuò a cercare di conoscere il mondo fino a quando non deci-se che si era fatta ora. Avrebbe compiuto settant’anni sei gior-ni dopo, uscì presto al mattino nella sua tenuta, scese da ca-vallo e affrontò un enorme toro sperando che potesse avereragione di lui, ma invano. Allora tornò a casa e si sparò nel pet-to, sulla cicatrice che un corno gli aveva procurato anni pri-ma. Forse credeva di aver vinto così la paura che gli faceva cre-scere la barba e che gli si manifestava come una vera e propriafigura umana nella solitudine che accompagna il torero pri-ma che si vesta di luci. Era come un intimo amico, la Paura —racconta nella biografia — e tentava di dissuaderlo. Uno deisuoi argomenti suonava così: «In pochi anni, non ci sarannopiù appassionati, né tori. Sei sicuro che le generazioni a veni-re avranno qualche stima per il valore dei toreri? Chi ti dice chefra qualche giorno non verranno abolite le corride e disde-gnata la memoria dei loro eroi?».

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Il segreto del torerodi García Lorca

Romanzocorrida

di

Repubblica Nazionale

Page 7: mio Pavese Cesare - la Repubblicadownload.repubblica.it/pdf/domenica/2010/08082010.pdf · 2010-08-08 · dove però veniva di rado. Quanto era accaduto alla Posta lo indus-se allora

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 8 AGOSTO 2010

imbottito di elementi autobiografici, ilromanzo ci parla meno del suo autoreche del suo idolo: «Dietro il protagoni-sta si intravede più che altro il mito-Jo-selito» mi spiega Andrés Amorós nelsuo ufficio universitario.

Joselito. Leggi: José Gómez Ortegadetto El Gallo. Leggi: il più grande mata-dordi tutti i tempi. Non si discute: anco-ra adesso se in Spagna chiedi in giro lomettono in cima alle classifiche. Sebbe-ne non l’abbiano mai visto in azione.Perché morì il 16 maggio del 1920. In-cornato a venticinque anni nella plazadi Talavera de la Reina. Fu più di un lut-to enorme (a tutt’oggi commemoratonelle arene): fu un trauma nazionale.Una lacerazione culturale. E il tramon-to di un’epoca: la Edad de Oro del toreo.«La tauromachia è finita» decretarono ifan e persino gli avversari. Ma per nes-suno lo shock fu più demolitore che per

Sánchez Mejías. Che quella tarde torea-va con Joselito. Ne aveva sposato la so-rella. E poi ne avrebbe preso in simpatiapure l’amante, la ballerina e coreografaEncarnación López, alias la Argentinita.

José, il prodigio mezzosangue gitano,e Ignacio, figlio ribelle di borghesi. Era-no cresciuti insieme per le picareschestrade di Siviglia, malgrado li dividesseun solco. Di status. E talento. Di quattroanni più anziano, Sánchez Mejías avevaimparato tutto da El Gallo che lo “bat-tezzò” torero insieme a un altro padrinoeccellente: quel genio di Juan Belmon-te. Più coraggio che fronzoli, «Ignaciotoreava nello stile essenziale, domina-tore di Joselito. Che nel romanzo spun-ta come una specie di proiezione, didoppio» dice Amorós. E ricorda quantoSánchez Mejías fosse affascinato dallapsicanalisi, dalle prime traduzioni diFreud, dai dedali della mente: «Certisuoi lavori teatrali hanno un sapore pi-randelliano». Era talmente incuriositodai manicomi da portarsi alle corride ipicchiatelli in comitiva. Tipo Jack Ni-cholson nel Cuculo.

In varie stagioni si ritirò provvisoria-mente dalle arene: si sentiva sempre piùattratto dalle arti. Pur nella fedeltà all’e-tica torera, visse il Novecento come unimmenso giacimento di possibilità co-noscitive, espressive. Seduttore, dandy(«In un hotel parigino lo scambiarono

per il Duca di Windsor»), munifico: nel1927, per il trecentesimo anniversariodella morte di Góngora, sponsorizzò aSiviglia il raduno di poeti che da quelmomento vennero chiamati la «Gene-ración del 27». Quella — poi perseguita-ta e dispersa dalla Guerra civile — degliAlberti, dei Bergamín, dei Cernuda... Edi Federico García Lorca. Che a SánchezMejías regalò l’eternità laica della poe-sia. Mica poco. «Però guardi che Las cin-co de la tarde non sono, come si crede,l’ora della cornata, né della morte, maquella in cui iniziò il corteo funebre»precisa il professor Amorós. Ignacionon morì nell’arena ma, due giorni do-po, in una clinica di Madrid. Tra ombredi amici, sussurri di suore, un gran caldogravido di disinfettante.

Non avrebbe voluto esibirsi nellaplaza in cui venne incornato da un torodi nome Granadino. A portarcelo fu laperfida orologeria del destino: sostitui-va un matador infortunato. Triste, soli-tario y final, era tornato a toreare per-ché, sì, la corrida gli andava stretta, manon poteva farne a meno. «Me muero detristeza», diceva quando ne era lontano.Delirando nell’agonia parlò di tori alpascolo fra distese di ulivi. Nella cosciaaveva una ferita grossa quanto un pu-gno. È sepolto a Siviglia. Cimitero dei to-reri. Nella stessa tomba di Joselito.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

IL MANOSCRITTOAlcune paginedel manoscrittoinedito di IgnacioSánchez Mejíaspubblicatoin Spagnacon il titoloL’amarezza

del trionfo

In alto a destra,la copertinadel libro

I RITRATTIAl centro e qui accanto,il torero Ignacio Sánchez Mejíasreso immortale dai versidi García LorcaSotto, Sánchez Mejíase l’altro celebre matador de toros

Juan Belmonte (più in basso)durante una corrida

‘‘Federico García LorcaA las cinco de la tarde

Eran las cincoen punto de la tarde

Un niño trajo la blancasábana

a las cinco de la tarde

Una espuerta de calya prevenida

a las cinco de la tarde

Lo demás era muertey sólo muerte

a las cinco de la tarde

* * *Alle cinque della seraEran le cinque in punto

della seraUn bambino portòil lenzuolo bianco

alle cinque della sera

Una sporta di calcegià pronta

alle cinque della sera

Il resto era mortee solo morte

alle cinque della sera

da “LLANTO POR IGNACIOSÁNCHEZ MEJÍAS” (1935)

Repubblica Nazionale

Page 8: mio Pavese Cesare - la Repubblicadownload.repubblica.it/pdf/domenica/2010/08082010.pdf · 2010-08-08 · dove però veniva di rado. Quanto era accaduto alla Posta lo indus-se allora

Il 10 agosto 1960 usciva nelle sale d’America il capolavoro

di Hitchcock. L’attrice protagonista moriva pugnalata

sotto una doccia. Una sequenza sorprendente e terrificante

che cambierà per sempre il genere thriller. Da quel momento tutti furono costrettia citare e copiare i meccanismi che il regista aveva messo in campoEd ecco perché ancora oggi non possiamo lasciarci alle spalle il Bates Motel

SPETTACOLI

38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 8 AGOSTO 2010

© RIPRODUZIONE RISERVATA

La paura, su grande schermo, si di-vide in un “prima” e in un “dopo”Psyco. Non solo perché il cult fir-mato Alfred Hitchcock resta unadelle opere più amate, clonate, ci-tate e saccheggiate di sempre. Ma

soprattutto perché ha stabilito, con una forzasenza precedenti, le regole auree del terrore ci-nematografico. Imponendo su chi lo guardaun dominio emotivo che va avanti, incontra-stato, da mezzo secolo: «Non ho mai tentato didirigere tanto i pensieri dello spettatore comein questo film — confessò l’autore a FrancoisTruffaut, nel corso delle loro celebri conversa-zioni — è l’esperienza più appassionante cheabbia fatto di gioco con il pubblico».

Un meccanismo a cui è quasi impossibilesottrarsi. E che dura esattamente da cin-quant’anni, da quando, il 10 agosto 1960, lapellicola debuttò nelle sale americane. Da al-lora, quello che potremmo definire il “codicePsyco” — dispositivi interni, personaggi chia-ve, intere sequenze — ha agito profondamen-te sulla cultura popolare. Provocando, adesempio, una proliferazione infinita di prota-gonisti serial killer. Dimostrando che un pu-gnale agitato nella penombra spaventa millevolte di più di una scarica di proiettili. Conqui-stando un posto fisso nei nostri incubi, col pri-mo piano finale del suo antieroe psicopaticoNorman Bates (Anthony Perkins). Impedendoa chiunque di farsi una doccia in un motel sen-za provare un brivido. Trasformandosi in ico-na pop, oggetto di consumo, marchio presen-

te su gadget a lui ispirati. Comprese tende e va-sche da bagno con finto sangue, in vendita sulWeb.

Segnali di una popolarità senza tempo, cherende inutile soffermarsi troppo sulla tramadel film: l’impiegata Marion Crane (la diva Ja-net Leigh) in fuga, la sosta al Bates Motel, lamorte terribile, le indagini e la rivelazione sullegame tra l’assassino e sua madre. Meglio al-lora ricordare come Psyco(Psychonel titolo ori-ginale, dal romanzo di Robert Bloch scritto sul-l’onda di un episodio reale) sia stato il più gran-de successo commerciale di Hitchcock: costa-to solo ottocentomila dollari, ne ha guadagna-ti quaranta milioni. Eppure, sul piano dei con-tenuti, l’opera rappresenta un clamoroso casodi (auto) infedeltà: un’infrazione alla famosaregola della suspence creata proprio dal re delbrivido. Secondo questa teoria, suspence si-gnifica «far giocare lo spettatore a essere dio»,sempre informato in anticipo su cosa accadràal protagonista ignaro. Qui, invece, il meccani-smo è inverso. Il povero pubblico viene depi-stato fin dall’inizio, poi sorpreso e scioccatocon i quarantacinque secondi agghiaccianti

CLAUDIA MORGOGLIONE dell’omicidio di Janet Leigh nella doccia: «Laprima parte della storia serve a distogliere l’at-tenzione per rendere più forte la scena dell’as-sassinio — spiegò il regista — ho fatto uccide-re la star del film per creare qualcosa di ancorapiù inatteso». Mai si era vista una protagonistamorire al minuto trentanove del primo tempo.E non finisce qui: dopo il delitto arrivano nuo-vi colpi di scena, nuovi momenti di pura ten-sione.

Il risultato di questo susseguirsi di sequenzeda antologia è un film tra i più citati da altri film.Imitatori, ladri, fratelli e figli più o meno legitti-mi dell’originale. Oltre a due sequel cinemato-grafici diretti da altri registi, un prequel televisi-vo, una serie tv intitolata Bates Motel, una pelli-cola-clone diretta da Gus Van Sant nel 1998,non c’è horror o thriller che non gli abbia resoomaggio. In Carrie. Lo sguardo di Satana di

Brian De Palma, che ha una scena con la prota-gonista coperta di sangue sotto la doccia, la suascuola è la Bates High School. In Halloween diJohn Carpenter lo psichiatra risponde al nomedi Sam Loomis, come il fidanzato di MarionCrane. Nell’albo a fumetti numero venti di Dy-lan Dog, intitolato Dal profondo, i personaggisono chiamati George Bates e Janet Crane. Poici sono i numerosi esempi di killer armati di col-tello (Misery non deve morire, American Psy-cho), di bagni o docce come luoghi del delitto(Le verità nascoste), di edifici maledetti (La ca-sa). Anche l’Italia ha dato il suo contributo: dal-la parodia Totò Diabolicus a L’imbalsamatoredi Matteo Garrone (dove ritornano l’uso mor-boso della tassidermia e l’auto fatta sparire nellago), passando per il primo Dario Argento.

In questo oceano di citazioni, spiccano tregrandi. Il primo è Brian De Palma: «Per me Hit-chcock è come una grammatica — ha dichia-rato — quando prendo le tecniche di cui è sta-to maestro e le uso, non faccio altro che servir-mi di un dizionario». Oltre che in Carrie, ci so-no forti tracce di Psyco in Le due sorelle, BlowOut, Complesso di colpa; Vestito per uccidereneè quasi una rivisitazione critica. Il secondo èRoman Polanski: il suo capolavoro del 1965 Re-pulsion fu definito da JG Ballard «un Kafka ri-fatto in stile Psyco». Il terzo è lo Staney Kubrickdi Shining, col suo Overlook Hotel isolato dalmondo, e il ghigno psicotico del protagonistaJack Nicholson.

Allontanarsi dal mondo di Norman Bates,insomma, non si può. Siamo ancora tutti lì, in-chiodati alla poltrona. E Hitchcock, in fondo, losapeva: «Sono sopravvissuto — disse quaran-tacinque anni fa, sottolineando l’eterna attua-lità del suo stile — al cinema muto, al sonoro,allo schermo piccolo, al grande, al cinema intre dimensioni, al drive-in, ai film proiettati su-gli aerei, alla televisione e ai popcorn senzaburro…». Proprio come la sua pellicola più ter-rorizzante: perennemente giovane.

Il codice della paurae l’esercito dei cloni

CARRIE. LO SGUARDO DI SATANASissy Spaceck sotto la doccia terrorizzatae coperta di sangue. Di Brian De Palma(1976), dal romanzo Carrie di Stephen King

VESTITO PER UCCIDERENella scena della doccia De Palma (1980)rivisita ancora una volta, in chiave quasicritica, la lezione hitchcockiana

LE VERITÀ NASCOSTEAncora bagni e docce come luoghidel delitto per Robert Zemeckis (2000)Con Harrison Ford e Michelle Pfeiffer

THE EYEJessica Alba nel bagno si guardaallo specchio come fa Janet LeighDi David Moreau e Xavier Palud (2008)

Repubblica Nazionale

Page 9: mio Pavese Cesare - la Repubblicadownload.repubblica.it/pdf/domenica/2010/08082010.pdf · 2010-08-08 · dove però veniva di rado. Quanto era accaduto alla Posta lo indus-se allora

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 8 AGOSTO 2010

Dovevate esserci (e qualcuno c’era) quel 25 novembre di cin-quant’anni fa quando nei corridoi, negli uffici, nelle aule dei li-cei cominciò serpeggiare la voce che bisognava correre a vede-

re il nuovo film di Hitchcock, uscito in Italia il giorno prima e già ogget-to di dibattiti e divieti. Questa volta non era uno di quei bei gialli per tut-ti che riconciliano le generazioni e i pomeriggi domenicali, come il suodiretto predecessore, Intrigo internazionale. Anzi, le mamme avreb-bero fatto bene a pensarci due volte prima di dare l’autorizzazione, per-ché Psyco era un film pieno di quelle cose di cui di solito si parla a vocebassa: sesso, soldi, nudità, brutalità, travestitismo, e peggio…

Ai traumi, come ben si sa, ci si abitua. Anche ai temi introdotti da Psy-co, anche al suo scabro bianco e nero in un’epoca in cui solo Bergman,Welles, qualche giapponese, iragazzi della Nouvelle Vague e igrandi italiani rinunciavano,per ragioni diverse, alla seduzio-ne del colore. Hitchcock ci ri-nunciò perché stava facendo un

film a basso costo. E anche per-ché va bene far morire in unbagno di sangue una delle at-trici più amate e meglio pa-gate da Hollywood. Ma un conto è farlo vedere con l’effetto, bruta-le, del colore. Un conto è sublimarlo nell’astrazione del bianco enero.

Da allora Psyco è entrato a far parte di quella cosa che chiamia-mo pigramente l’immaginario collettivo. Non ne ho le prove. Ma so-

no sicura che anche i certamente molti che non hanno mai visto Psy-co conoscono a menadito la scena della doccia. Quella di cui Hitch,

molto fiero, raccontava di averla girata in sette giorni e settanta posi-zioni di macchina per quarantacinque secondi di film. Una sequenza«tutta fatta col montaggio», come raccontava a Truffaut. Una sequen-za così realistica e terrificante che ogni volta che vediamo sullo scher-

mo una tenda per la doccia, sappiamo che gatta ci cova.Ma non è solo la scena madre a essere rimasta con noi. È anche l’idea

di film povero, o almeno a basso costo, e di come la “povertà” possa di-ventare stile. Psyco come capostipite del cinema sperimentale? Be’, inun certo senso. Non è un caso se il set del film è stato a lungo un luogodi culto degli Studi Universal. Perché lo spettatore dell’epoca e quellodi poi, di epoche più cinefile e avvertite, ha capito subito che quell’am-bientazione fisica — il motel, la casa alta sulla collina — era una copro-tagonista, un elemento portante del film. E peggio per Gus Van Sant chenel suo infelice rifacimento del 1998 ha scelto di ricostruire il set.

È rimasto con noi anche il diktat hithcockiano (inusuale per i na-scenti anni Sessanta): proibito entrare a spettacolo iniziato. Ve lo im-

maginate un poveretto che en-tra a un terzo dall’inizio, subitodopo la morte di Janet Leigh, enon capisce cosa combiniAnthony Perkins/Norman Ba-tes mentre cerca di far sparire lamacchina nella palude? Non so-lo: Hitchcock, con quelle coltel-late, ha aperto al gusto dell’orro-re e del sangue i film di serie A, da

Gangster Storya Shining. E ha, consapevolmente, offerto materiali pre-ziosi ai cinepsicoanalisti. Chi sarebbe andato a studiare con la stessaacribia di Theodore Price (Hitchcock e l’omosessualità) il romanzo del-lo sconosciuto Robert Bloch a cui si è ispirato il film, scomodando i rap-porti edipici (corretti) tra Hitchcock e sua figlia Pat, che compare mar-ginalmente nel film, alla luce della grande tragedia edipica di Psyco?

Grazie, intramontabile Hitch. E visto che nella scena iniziale del suofilm compare una data — Venerdì, 11 dicembre — il club non tanto se-greto dei suoi ammiratori potrebbe farlo diventare d’ora innanzi il gior-no di Psyco. Che cada di venerdì o no.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Sette giorni per 45 secondila scena del terrore perfetto

IRENE BIGNARDI

IL GHIGNO DELLO PSICOPATICO

L’espressione del viso di Jack Nicholson in Shining di Stanley Kubrick (qui sopra)ricorda molto quella di Anthony Perkinsin Psyco (al centro). Il film è del 1980, dal romanzo omonimo di Stephen King

AMYTIVILLE HORRORUno dei classici dei film sulle case“possedute” diretto da Stuart Rosenbergnel ’79. La casa ricorda molto il Bates Motel

MISERY NON DEVE MORIREKathy Bates col coltello in mano: citazionedi Psyco nel film di Rob Reiner (1990)dall’omonimo romanzo di Stephen King

AMERICAN PSYCHOChristian Bale armato di coltello ricordachiaramente la scena sotto la docciadi Psyco. La regia è di Mary Harron (2000)

SCREAML’assassino con la maschera cita AnthonyPerkins travestito da donna pronto a colpirenell’ombra. Di Wes Craven (1996)

‘‘Alfred HitchcockNon ho mai tentato

di dirigere tantoi pensieri

dello spettatorecome in questo film

È l’esperienzapiù appassionante

che abbia fattodi gioco

con il pubblico

da FRANÇOIS TRUFFAUT, IL CINEMA

SECONDO HITCHCOCK

Repubblica Nazionale

Page 10: mio Pavese Cesare - la Repubblicadownload.repubblica.it/pdf/domenica/2010/08082010.pdf · 2010-08-08 · dove però veniva di rado. Quanto era accaduto alla Posta lo indus-se allora

40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 8 AGOSTO 2010

CocktailBitter

Happy birthday, mister Campari. Martedì 10, San Loren-zo, notte di stelle cadenti e di brindisi al cielo, è tempo dicelebrare il compleanno del rosso alcolico più famosodel mondo. Un cognome che oggi, a centocinquant’an-ni dalla nascita del “bitter all’uso d’Hollanda”, vale unfatturato di oltre un miliardo di euro.

In principio, fu l’intuizione di un pavese innamorato di erbe e liquo-ri, il giovane Gaspare Campari, arrivato a Torino per lavorare alla Pa-sticceria Bass, e da lì al Ristorante Cambio, per imparare l’arte delle in-fusioni aromatiche. Dalla condizione di garzone a quella di inventore ilpasso è breve. Il tempo di acquistare un bar a Novara e i segreti delle er-be mandati a memoria negli anni dell’apprendistato si trasformano inuna serie di ricette di elisir e infusi. Il migliore ha ricetta segretissima: ac-qua e alcol unici ingredienti disvelati, insieme al colore rosso, dovuto alpigmento di un parassita del fico d’India, la cocciniglia, tanto preziosoda essere dietro solo a oro e argento nelle esportazioni dal Messico deltempo. Il resto — una messe di estratti di erbe e piante aromatiche — èun mistero senza fine.

Novara diventa subito stretta per l’aperitivo rosso brillante, media-mente alcolico (25 gradi), da gustare con ghiaccio o allungato. A Milano,il Caffè Campari apre i battenti insieme alla nuovissima Galleria del Duo-mo. «Andiamo a farci un Campari», chiosano gli avventori, da Puccini aBoito, intendendo il nuovo bitter, ancora senza nome. Un’identificazio-ne che vale un battesimo. È il 1867. Da quel momento, la storia del Cam-

pari si identifica con la storia stessa dei drink: un mondo nuovo, scoper-to guardando i grandi film hollywoodiani, dove attori e attrici, protago-nisti e comparse, buoni e cattivi, recitano spesso e volentieri reggendobicchieri e coppette. È l’arte di mescolare liquori diversi mutuando il con-cetto di cock tail, la coda del gallo, intesa come armonia di colori (ingre-dienti) diversi, dagli effetti cromatici (gustativi) originali e affascinanti.

Il primo barman della storia Campari si chiama Fosco Scarselli, e lavo-ra al bar Casoni di via Tornabuoni, Firenze, dove il conte Camillo Negro-ni, frequentatore dei pub di Londra, va a bere il suo Americano. Così, perstuzzicarlo nella sua passione per i liquori inglesi, un giorno Scarselli ag-giunge il gin a Campari e vermouth, e gli dedica la sua nuova creazione: ilNegroni. Qualche anno più tardi (1928), Campari lancia il primo aperiti-vo monodose a basso tenore d’alcol (10 gradi) nella bottiglietta conica di-segnata da Fortunato Depero, uno dei simboli del design italiano.

A distanza di anni e di chilometri, Mirko Stocchetto, papà dell’attua-le gestore dello storico Bar Basso di Milano, preparando l’ennesimo Ne-groni della serata, scambia la bottiglia del gin con quella di un vino bian-co frizzante. Si accorge subito dell’errore, ma la curiosità è più forte del-l’impulso a gettare tutto nel lavello. E all’assaggio, l’errore si rivela feli-ce. Nasce così il Negroni sbagliato, altro must del bere miscelato inter-nazionale. E se gli aperitivi non vi attraggono, utilizzate il bitter come in-grediente per profumare un risotto, bilanciare il dolce dei crostacei,amaricare un gelato.

Un secolo e mezzo di aperitiviLICIA GRANELLO

Nato centocinquant’anni fa dall’intuizionedi un garzone di pasticceria che si dilettavacon l’arte delle infusioni aromatiche, il Campari si identifica con la storiastessa dei drink. Frutto di una ricettasegreta, va gustato con ghiaccio o allungato con gin o vino biancoMa può anche essere usato per profumareun risotto o dare un gusto amaro al gelato

i saporiRossi

© RIPRODUZIONE RISERVATA

AmericanoÈ conosciuto anchecome Torino-Milano(e viceversa) in onoredei due ingredienti da miscelareinsieme a sodae ghiaccio: il milaneseCampari e il torinesePunt&Mes CarpanoGuarnizione con fettad’arancia

SodaLa storica bottiglietta a tronco di cono per la variante più facile e menoalcolica del bitteraperitivo, grazie al mix di Campari e acquagassata. Gradazionepari al dieciper cento, fettina di limone a piacere

NegroniVermouth rosso, bitter e gin in diabolicacombinazione per uno dei cocktail più famosi e malandriniLa versione light, Negroni sbagliato,prevede che il ginvenga sostituito con vino biancofrizzante

OrangeRosso come la camiciadei garibaldini,arancio come le arancedi Sicilia. Da qui l’altronome, Garibaldi,per il mix di Campari(un terzo) e succod’arancia (due terzi)In versione long drink,bicchiere pienodi ghiaccio

ShakeratoIl cocktail dei puristi,ovvero bitteraddizionato di sologhiaccio. Lo shakerviene “cullato” con un movimento del braccio a uncino,che, facendoincorporare aria,provoca la schiuma rosa

Repubblica Nazionale

Page 11: mio Pavese Cesare - la Repubblicadownload.repubblica.it/pdf/domenica/2010/08082010.pdf · 2010-08-08 · dove però veniva di rado. Quanto era accaduto alla Posta lo indus-se allora

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 8 AGOSTO 2010

Gaspare Campari apreil bar Campari a Milano

1867

Il tasso alcolicodel Campari

25°

A Firenze nasceil cocktail Negroni

1920

Dal Piemonte alla Sicilia i migliori bar

Freezer, calice a cono, seltz. Le tre regole auree

‘‘

FIORENZO DETTI

Lo ammetto: ho un debole per il Campari. Non è difficile. Per uno comeme, che ha fatto per quarant’anni il mestiere del bar, esistono alcunicapisaldi, cioè tecniche, ricette e ingredienti da cui non si può pre-

scindere. Il Campari è uno di questi.Ho cominciato ragazzino, entrando nel mondo del mangiare&bere dalla

porta del ristorante. Esperienza intensa ma breve, perché nel giro di pochianni sono stato rapito dalla magia dei cocktail. Fin dalle prime esperienzedietro il bancone, una cosa mi è parsa chiarissima: era impossibile propor-re un bitter al cliente che non fosse il Campari.

Scelto il liquore, entra in campo la tecnica. Regola numero uno: il Cam-pari va servito rigorosamente freddo. Io lo tengo in freezer: avendo venti-cinque gradi di alcol, regge benissimo le temperature sotto lo zero. Il freddolo fa diventare quasi cremoso, con una nota un poco densa, quasi oleosa. Re-gola numero due: usare il calice a cono, anch’esso tenuto in freezer o raf-freddato con il ghiaccio al momento di servirlo. Il bicchiere conico permet-te di sfruttare lo spruzzo dirompente di un seltz ghiacciato, che ne rompe lemolecole, creando un’emulsione. Questo è il bitter Campari che hannosempre voluto i grandi camparisti. Poi esistono le piccole varianti, come lascorza di limone o la fettina di arancia. Niente in contrario, vanno bene en-trambe. Ma io credo che il Campari abbia tutti i sentori aromatici necessari,senza bisogno di aggiunte.

Il Campari shakerato arrivò dopo, insieme alle prime dotazioni da bar-man made in Usa: il boston, lo shaker, lo strainer. È importante che la cop-petta da cocktail sia freddissima, ma il vero segreto è mettere tanto ghiaccio,

per raffreddarlo senza annacquarlo. E poi una shakerata secca, decisa, ener-gica, che agita il bitter, creando il caratteristico colore salmonato. Sulla su-perficie, attraverso lo strainer, filtrano anche piccolissimi cristalli di ghiac-cio. Il colore è un indicatore infallibile: se il Campari esce dallo shaker dellostesso colore con cui è entrato, vuol dire che non è stato agitato bene. C’è poichi lo battezza con il Gin, chi con la Vodka. Diciamo che mentre la secondaè praticamente neutra, il primo oltre a rinforzare, modifica il gusto.

Il poker di ricette-culto si completa con Negroni e Americano, dove il bit-ter Campari si sposa con i migliori liquori in circolazione. Parliamo di cock-tail che hanno fatto la storia del bere miscelato, ricette codificate negli anniCinquanta e ancora più che valide. Purtroppo, ultimamente è difficile tro-varli preparati a dovere. Per esempio, una volta in tutti i bar c’era la pistoladel seltz con la sua bombola, mentre ora impera l’acqua minerale. Che er-rore! Acqua minerale gassata e seltz sono teoricamente uguali — acqua piùanidride carbonica — ma solo il seltz ha la forza “fisica” di interagire con il li-quore, rompendone le molecole. Del resto oggi molti locali sono guidati dabarman improvvisati, che fanno le ricette a spanne, creando cocktail che so-no delle vere bombe alcoliche, mentre l’alchimia dei grandi cocktail è nel lo-ro meraviglioso e perfetto equilibrio.

(L’autore è capo barman dell’Associazione italiana barmen & sostenitori

e neopresidente lombardo dell’Associazione italiana sommelier)

© RIPRODUZIONE RISERVATA

TORINOFLORIS HOUSEVia Cavour 16Tel. 011-8126909

MILANOBAR BASSOVia Plinio 39 Tel. 02-29400580

VENEZIASKYLINE ROOFTOPGiudecca 810 Tel. 041-27233

VERONAPIPERVia Torricelli 7Tel. 045-8309353

BOLOGNABOAVISTAVia Cesare Battisti 59Tel. 051-2918584

FIRENZECOLLE BERETOPiazza Strozzi 5Tel. 055-283156

ROMAMOMARTViale XXI Aprile 19Tel. 06-8639165

NAPOLI66 FUSION BARVia Bisignano 58Tel. 081-415024

BARIMAMMAMIAC.so Vittorio Emanuele 99Tel. 080-9904466

PALERMOADDAURA REEFL.re C. Colombo 3021Tel. 091-455167

Ernest HemingwayA Milano, osservò il maggiore, c’è il Palazzo di Cristallo; e il Cova, il Campari, il Biffi in Galleria. Fortunato lei! Al Grande Italia andrò, dissi, posso farmi prestare i soldi da Giorgio. Alla Scala, disse Rinaldi, andrai alla ScalaTutte le sere, risposi

da “ADDIO ALLE ARMI”

SorbettoVittorio Fusari(La Dispensa, Torbiato,Brescia) apre le danzedel menù col sorbettodi Campari e gelatinad’arancia, accompagnatoda un cartocciodi gamberi frittie mandorle laccatedi miele al saledi Maldon

RisottoTra i piatti di Stefano Baiocco (Villa Feltrinelli, Gargnano, Brescia), il risotto mantecato con buccia di arancia, tè di alga Kombu e gamberi. Per finireuna spruzzata di Campari e petali di tagete

GamberiFestival di gusti e consistenze nel cocktaildi gamberi rossi di Paolo Lopriore (Il Canto della Certosa di Maggiano, Siena): per ogni boccone, gocce di cioccolato,pistacchi, anguria e cerchi di cocktailCampari gelato

CyberDavide Scabin(Combal.0, Rivoli, Torino)ha ideato una divertentechiusura di menù:merito del palloncinogonfiato d’elio,zavorrato da una bustina di pastiglie coloratedi cioccolato,con sfera trasparentedi Campari

FragoleNuovo dessert per Matias Perdomo (Pont de ferr, Milano): la nuvola di panna soffiatacon l’ossigenatore per acquariaccompagna le fragole,fresche e in purée, e un finto caviale di semi di basilico infusi di Campari

L’anniversarioPer festeggiare

i 150 anni di Campariuna galleria d’arte nella storica sede

di Sesto San Giovanni,restaurata

da Mario Botta,l’apertura

di temporary bar e il lancio del nuovoCampari Passion,

rilettura estiva del tradizionaleOrange: spicchid’arancia pestati

con zucchero di canna,ghiaccio tritato,

Campari e succo di arance

bionde

Repubblica Nazionale

Page 12: mio Pavese Cesare - la Repubblicadownload.repubblica.it/pdf/domenica/2010/08082010.pdf · 2010-08-08 · dove però veniva di rado. Quanto era accaduto alla Posta lo indus-se allora

le tendenzeCotone 100%

Pensata per i militari, diventata divisa della working

class, consacrata oggetto di culto da James Dean

e Marlon Brando. Colorata, in tinta unita, corta fino

a scoprire l’ombelico o stretch, resta ancora oggil’indumento più originale per esprimerela propria personalità. Soprattutto d’estate

42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 8 AGOSTO 2010

T-shirtLa mia

Compagna inseparabile di serateestive e balli scatenati in discoteca.Perfetta anche sotto giacche e cami-cie. Abbinata a foulard, gilet, short ogioielli per ottenere quell’effetto ca-sual chic che ricorda tanto Jackie

Kennedy. C’è l’intramontabile bianca, la raffina-ta nera, oppure quella allegra e coloratissima, cono senza stampe. La T-shirt è il capo più versatiledel guardaroba: universale, senza età, ce ne è unaper ogni occasione, dal lavoro al tempo libero, pertrasgredire o per conformarsi, per essere sexy oper stare comodi. Ma c’è di più. Dopo essersi ri-dotta di dimensioni, diventando cortissima fino ascoprire l’ombelico oppure stretch per assecon-dare le forme del corpo con tessuti che aderisco-no perfettamente alle morbide rotondità dellasilhouette, oggi si è trasformata in una “secondapelle”, una sorta di “tatuaggio di stoffa” — così vie-ne provocatoriamente chiamata in un libro chene ripercorre storia e curiosità (Il tatuaggio di stof-fa, Tunué, 2006) — uno spazio bianco (o coloratoche sia) che contiene pensieri e stati d’animo dichi la indossa.

Certo, forse non erano queste le intenzioniquando venne scoperta, quasi per caso, dai solda-ti della marina americana: i primi in assoluto a in-dossarla, che ne apprezzano subito il fascino e an-cor di più il comfort. È cominciato da poco il No-vecento quando la maglietta senza maniche, inuna fibra poco costosa ma robusta e dal taglio sem-plice fa la sua comparsa nel mondo: la fibra sceltaè il cotone e il taglio rigorosamente a forma di T è

quello che darà poi il nome alla maglietta, T-shirtappunto. Anche se sul significato della parola esi-stono in realtà diverse teorie. Per qualcuno la T sta-rebbe, infatti, per training, perché i soldati la in-dossavano durante gli allenamenti militari. Altri lacollegano, invece, al suffisso teen perché è un ab-bigliamento, si sa, pensato prima di tutto per gliadolescenti.

Dall’America all’Europa: durante la Secondaguerra mondiale sono gli Alleati che sbarcano nelvecchio mondo a regalare alle popolazioni ridotteallo stremo beni di ogni genere, tra i quali non man-ca l’apprezzatissima maglietta. In Italia, il boom siha però negli anni Sessanta, quando la T-shirt è giàstata consacrata da due icone come Marlon Bran-do e James Dean, che indossandola in molti dei lo-ro film (da Un tram che si chiama desiderio a Gio-ventù bruciata), magari sotto un giubbotto di pellenera da duro, ne hanno fatto un capo cult. E fan del-la versione casual chic, rilassata ma non priva di fa-scino, è stata anche Jackie Kennedy, una delle don-ne più eleganti del secolo scorso.

Ma gli anni Sessanta sono soprattutto gli anni incui la maglietta diventa un veicolo di propaganda,politica da una parte, pubblicitaria dall’altra, unatela perfetta sulla quale scrivere, disegnare, inci-dere qualunque messaggio: slogan pacifisti, frasidi denuncia, ma anche il logo di aziende di moda(Calvin Klein, Emporio Armani, Dolce & Gabbana,e poi ancora Ralph Lauren, Guess) o di band musi-cali che la usano per pubblicizzare (in genere sulretro) le date del loro ultimo tour. La T-shirt, in fon-do, è rimasta fino a oggi la stessa: il manifesto diuno stato d’animo.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

ILARIA ZAFFINO

Tatuaggi di stoffa per dire chi siamo

Natasha Stefanenkoshowgirl

Nel mio guardarobaè un cult

La preferiscobianca,

con un’ampiascollatura a V

Adoro abbinarlacon i jeans

o una gonnaelegante

Carla SignorisATTRICE

Mi piaccionoquelle bianche,

taglia XXL,che rubo a mio

maritoCome le uso?

Sotto una giacca blu,tipo collegialeO con niente,

per andarci a letto

La PinaDEEJAY

Ne ho miliardi,le metto con tuttoLe migliori sonoquelle vecchie,che con gli anni

si ammorbidisconoQuella del cuore

ha la stampadi Milù, il cagnetto

di Tintin

1

2

3

4

Repubblica Nazionale

Page 13: mio Pavese Cesare - la Repubblicadownload.repubblica.it/pdf/domenica/2010/08082010.pdf · 2010-08-08 · dove però veniva di rado. Quanto era accaduto alla Posta lo indus-se allora

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 8 AGOSTO 2010

Non stiamo qui a raccontarcela: se la T-shirt non sichiamasse T-shirt nessuno se la metterebbe. Chi hainventato questo termine è un genio: ha dato dignità

alla maglia della salute. Permettendo a generazioni di gio-vani di fare i ribelli pur seguendo, in cuor loro, il caro vecchioconsiglio della nonna. Sdoganato l’oggetto che da privato sifa pubblico, bisogna dare atto alla T-shirt di aver annullatola lotta di classe. Anzi, di averla ribaltata. Quando ancora sichiamava maglia e non c’erano i manager ma gli impiegatipiccolo borghesi che se la mettevano sotto la camicia, gliunici che la esibivano erano gli operai, i camionisti e i mura-tori, attanagliati dal caldo e dalla fatica. Ma possedevano,senza conoscerne il valore, quello che poi sarebbe diventa-to l’oggetto del desiderio di ogni maschio e di alcune fem-mine: un corpo muscoloso. Perché è innegabile che la ma-glietta è bene riempirla. Oggi, tempi di esagerazioni, addi-rittura farla scoppiare. E allora vai con seste di reggiseno e

anabolizzanti da overdose. Anche se si sta facendo stradala nuova scuola di pensiero skinny che vorrebbe tuttianoressici con magliette taglia otto anni.Niente di nuovo: negli anni Novanta esplose la mania

di fare acquisti nei negozi da zero a sei anni come facevanole top model di allora che lanciarono la moda delle magliet-te minuscole a scoprire l’ombelico senza pensare agli effet-ti collaterali dell’applicazione del sogno patinato alla realtà:certe pance viste in giro sono difficili da dimenticare e an-cora ci tormentano. Ma ormai è impossibile tornare indie-tro: stringi stringi, accorcia accorcia si è arrivati al top. Nelsenso di un oggetto minuscolo che sta sopra e dovrebbe co-prire. Lui, il top, fa quel che può essendo molto elastico (og-gi si dice stretch). E loro, le T-shirt, sono diventate le demo-cratiche portatrici di messaggi ecologici, sessuali, musicali,artistici, pubblicitari, poetici, culturali, stupidi, intellettua-li. Tutti le portano. Tutti ci possono scrivere quello che vo-gliono per ribadire la loro appartenenza a un gruppo, a un’i-deologia o a un fan club. Sono perfette in questo momentostorico di ribaltoni e riprese di coscienza: se le loro parolenon ti stanno più bene puoi sempre, politically correctly, ri-ciclarle e usarle come stracci per la polvere. E trovarne subi-to un’altra che la pensi come te.

Ps. Ultimissime dagli States. Il massimo in fatto di T-shirta Los Angeles si chiama Adam Saaks. Vanno da lui Keira Kni-ghtley e Cameron Diaz, Lenny Kravitz e Alicia Keys, JessicaAlba e Paris Hilton, Britney Spears e Mariah Carey, JustinTimberlake e Angela Bassett... Per fare che? Farsi tagliuzza-re la loro maglietta preferita. Adam si mette lì con un terro-rizzante paio di forbici dalle lunghe lame e, zac, in quattro equattr’otto ti disegna addosso tagli e oblò, feritoie e fessure,annoda, intreccia, et voilà, ecco una personal T-shirt unicaal mondo. Chi volesse sperimentare le proprie capacità ditagliatore può seguire i consigli di un libretto uscito qualchetempo fa 99 ways to cut your T-shirt (su Amazon).

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Davide OldaniCHEF

La mia preferitaè una maglietta presa

a New York,diciotto anni fa

Grigia, con la scrittaSoHo. Ora le usosoprattutto nere

Le metto con jeanse scarpe da tennis

1. FUMETTI Si ispira alle illustrazioni dell’artistacaliforniana Tara McPherson la linea Pinko dai colori vividi e decisiIn cotone e cachemire

2. STRASS T-shirt in cotone con stampa a teschio e strass per Ra-Re

3. MEDITERRANEA Allegra, coloratissima, decisamentemediterranea, la T-shirt Desigual Hombre si richiama alla grafica popPerfetta per le calienti notti estive

4. DA SFILATA Le classiche Jersey Prada, da uomo e da donna,con applicazioni di diversi tessuti. Per un look da passerella

5. COLORATA In cotone arancione con stampa frontaleDi Mcs Marlboro Classics

6. ETNICA Maglia in jersey di viscosa con stampa etnicaCamomilla Italia

7. CLASSICA T-shirt da uomo bianca con stampa,in cotone. Un classico di Gant

8. ESTIVA Fiorucci sceglie il fucsia per quest’estate. In cotone

9. SPORTIVA In grigio o in blu, per fare sport e non solo. Di Virtus

10. ANDY WARHOL La storia, la vita e le opere di Andy Warhol rivivononella collezione di Pepe Jeans London dedicata all’artista

11. CASUAL Jersey lavato per Fred Perry

12. ASIMMETRICA Cotone stampato con taglio asimmetricoper la T-shirt giallo estate di Replay

5

6

7

8

9

11

10

12

IL TESTIMONIAL

Chi se non lui? Esperti di modae non, tutti sannoche Giorgio Armaniè da tempi non sospetti “il” testimonialin fatto di T-shirtLe ama moltoLe indossa quasi sempreNe possiede tantissime“Comodità ed essenzialità”potrebbe esseresintetizzato così il suo credoColore preferito il blu

La generazione ribellecon la maglia della salute

MICHELA GATTERMAYER

a cura di GIOVANNI CIULLO

Repubblica Nazionale

Page 14: mio Pavese Cesare - la Repubblicadownload.repubblica.it/pdf/domenica/2010/08082010.pdf · 2010-08-08 · dove però veniva di rado. Quanto era accaduto alla Posta lo indus-se allora

l’incontro

‘‘

Dark lady

Quando progettoun edificio, comeil Macro, alla fineciò che mi restadavveroè la reazionedel pubblicoE a Roma è statamolto passionale

Ha voluto cambiare le regolediventando architetto senza saperebene la matematica e quandoera ancora un mestiere riservato

ai maschi. Oggi, all’apicedel successo, rifiutal’etichetta di archistar E ai suoi colleghidice: “Basta con divismie fanatismi,in fondo siamo solo

degli artigiani. Più che alle formefaremmo meglio a tornare a pensareai bisogni della gente”

ROMA

Ha voluto diventare ar-chitetto quando pro-gettare era un mestiereriservato agli uomini. E

adesso che è adorata come una star siribella ai divismi e rivendica il diritto dicostruire come impegno sociale. E, so-prattutto, di sognare. Perché, comespiega sempre ai suoi studenti, «quan-do si crea bisogna credere ai sogni».

Odile Decq, classe 1955, architettopremiato con il Leone d’oro, Com-mandeur de l’Ordre des Arts et des Let-tres, direttore della École spécialed’architecture di Parigi e Chevalier dela Légion d’Honneur, è una donnaspeciale. In Francia la chiamano “Ladame noir”. Ma lei è dark solo a modosuo. Basta incontrarla una volta pernon dimenticarla più. Controcorren-te, e non per vezzo, stupisce per la lun-ga chioma arruffata, nero corvino. Ne-ro è anche il pesante trucco perenne-mente dipinto intorno agli occhi, il ve-stito ampio, e lo smalto che decora lemani affusolate. La voce morbida, in-vece, è talmente femminile che con-quista. Avvolta nella trasparente cor-nice del Macro, il museo che ha inau-gurato a Roma, Odile Decq si raccontacon ironia: «Ho sempre saputo cheavrei lavorato nell’arte e nella creati-vità, ma escludevo l’architettura per-ché pensavo fosse un qualcosa riser-vato agli uomini. Poi, mentre studiavoarte controvoglia, mi sono ribellata.Per fortuna ho capito in tempo che sipoteva diventare architetto pur essen-do donna. E, soprattutto, senza esserebrava in matematica».

La sua determinazione, nel voler ro-vesciare le regole, stupisce. Nata e cre-sciuta nel piccolo comune francese diLaval, negli anni Settanta si trasferisce

a Parigi all’Ecole d’Architecture de LaVillette. Porta con sé una valigia conpoche cose e tanta energia. I genitori laguardano con sospetto: «La mia fami-glia non voleva che andassi nella me-tropoli, temevano che sarei diventatauna ragazza perduta, ma io non hosentito ragioni e ho fatto i miei scatolo-ni». La laurea, per la ragazza bretoneche vuole sognare, arriva con un annod’anticipo rispetto ai compagni di cor-so. È bravissima, talento allo stato pu-ro, lascia senza fiato i professori con lasua immaginazione. Con il diplomaancora fresco in tasca, si catapulta nelmondo del lavoro. «Andavo fiera alleriunioni e ci rimanevo malissimo per-ché i clienti mi scambiavano per unasegretaria e mi chiedevano come mainon cercavo lavoro presso un architet-to uomo. Era piuttosto deprimente e,in certi momenti, mi veniva una grantentazione di mollare. Ma il desideriodi aprire il mio studio da sola è stato piùforte di tutto». E così, sorridendo, pro-segue per la sua strada. «È stato un con-tinuo esame per i primi dieci anni di vi-ta professionale e persino gli operai neicantieri non mi davano credito. Oggi,parlando con le altre architette donnedella mia generazione, ho capito che èstato un problema comune per tuttema allora non potevo saperlo».

Nel 1985 Odile Decq decide di apri-re lo studio Odbc con Bernoit Cornet-te, architetto e medico, diventato suocompagno nel lavoro e nella vita. Nel1990 per la coppia arriva la svolta pro-fessionale con la realizzazione dellaBanque Populaire de l’Ouest di Ren-nes. Per questo edificio rivoluzionariovincono l’International Prize for Ar-chitecture. I loro plastici «inverosimi-li» conquistano il gusto più trasversa-le. Da quel momento progettare di-venta come una febbre: il porto diOsaka, vari edifici per l’Università diNantes, master plan industriali, centridi ricerche, social housing a Parigi. Epoi concorsi e poi ancora concorsi.L’urbanistica come primo amore, maanche progetti per interni e luoghipubblici. Quindi il padiglione franceseper la Biennale di Venezia. E proprioVenezia, nel ’96, premia lei e Cornettecon il Leone d’Oro per l’architettura.

Tutto sembra andare a meravigliama il destino decide di farle male. Nel’98 Bernoit muore in un incidented’auto dove anche lei rimane coinvol-ta. È la fine di un pezzo di vita, ma Odi-le prosegue a testa alta. Costruisce an-cora. Di nuovo urbanistica ma ancheristoranti e musei. La sala conferenzedell’Unesco a Parigi. È ancora moltolegata alla Francia ma comincia a co-

noscere l’Italia costruendo una casa aFirenze, una barca Wally ancorata alporto di Fano, mobili per PoltronaFrau. L’occasione per diventare piùitaliana è però l’ampliamento del Ma-cro, il museo di arte contemporaneadel Comune di Roma, con un progettoardito: saldare al vecchio corpo di fab-brica un parallelepipedo trasparentedi tre piani di altezza. Un lavoro lungoanni che, con qualche ritardo, si è con-cluso nel maggio di quest’anno. I gior-nali hanno scritto che, grazie a questoedificio, oggi Roma è più vicina a Pari-gi e a New York. «Il giorno dell’inaugu-razione ciò che mi ha fatto più piacereè stato incontrare persone che mi rin-graziavano e mi dicevano che avevofatto una cosa bella per loro». Era il suoobiettivo: inventando quello spaziocosì originale avendo in testa i cittadi-ni della capitale, le persone comuni al-la ricerca di uno svago fuori dal caos deicentri commerciali e degli outlet a po-co prezzo: «Ho voluto regalare loro unmodo di stare bene e d’incontrarsi.Una nuova forma di piazza, che ricor-da le terrazze romane e che emoziona.Uno spazio che, grazie all’incontro

con la cultura, spinge a farsi delle do-mande. Non un luogo morto». Per Odi-le l’importante è che le sue operesmuovano il cuore e i sensi di chi puòvisitarle.

S’interrompe brevemente per chie-dere un bicchiere d’acqua. Lo sfondorosso fuoco del “suo” museo fa spicca-re ancora di più la carnagione avorio ei capelli corvini. Indefinita e indefini-bile si aggira nei saloni con l’entusia-smo gioioso di una ragazza al suo esor-dio. «Il Macro ha una terrazza dalla su-perficie in continuo movimento e que-sto crea sensualità perché, per cercareun equilibrio all’interno di te stesso,devi muoverti continuamente. Speroche i visitatori sentano fisicamente ilpiacere quasi voluttuoso di poggiare ipiedi su un pavimento che non è maiuguale a se stesso».

Per Odile non ci sono mezze misure:arte e sensualità sono la vita di chi crea.«Quando progetto un edificio, alla fineciò che mi resta è la reazione del pub-blico, questo mi emoziona. Proprionel Macro, i visitatori mi hanno river-sato nel cuore una tale passionalitàche mi ha toccato come non avrei maipensato». Certo, per chi come lei correda un paese e all’altro, parlare con ilproprio pubblico non è semplice:«Vorrei avere più tempo ma non sem-pre ci riesco e allora cerco di leggere ilpiù possibile, mi sembra possa essereun modo per capire quali possano es-sere i bisogni delle persone. Purtroppooggi essere architetti vuol dire viverecome alieni, isolati dal tempo e dai luo-ghi. Consumiamo a gran velocità tuttii tipi di relazioni». Per un attimo losguardo s’incupisce, poi il broncio sitrasforma in una risata: «Forse è perquesto che gli architetti donne restanoa lungo sole, mentre i colleghi uominicambiano spesso moglie». Ma il divi-smo che ultimamente circonda il suomondo non le strappa alcun sorriso.Anzi. Detesta la sola definizione di “ar-chistar” e, per difendersi, punta drittaalla sostanza. «In un mondo semprepiù bizzarro c’è un forte bisogno di va-lori e di profondità, che è esattamentel’opposto del fanatismo. Temo chel’architettura stia facendo con gli ar-chitetti lo stesso danno che il mercatodei collezionisti ha fatto con gli artisti.In questo momento, per l’immagina-rio collettivo, siamo arrivati al puntoche l’architettura è diventata più trai-nante dell’arte. Un’ipotesi che, per an-ni, è stata inimmaginabile. E non è det-to che sia un bene». Per una donna co-me Odile Decq il successo si deve fon-dare su altro. Su fatti concreti: «La “for-ma” era un valore dell’altro secolo, in

questo quello che conta è l’impegnosociale. Solo progettare in questa dire-zione vuol dire qualcosa».

Odile, inevitabilmente, ha semprela valigia pronta. In questo periodo,per esempio, viaggia molto in Palesti-na. Un’emozione speciale. «Lì riesco alavorare come piace a me. Arrivi e ca-pisci subito che più che un edificio èimportante costruire per aiutare e da-re fierezza e dignità a un popolo. Ho in-contrato persone di grande umanità,forse come potevano essere gli italianisubito dopo la guerra». Ma ci sono tan-ti altri paesi che permetteranno a chicostruisce di contribuire a migliorare ilmondo: «La Cina è già molto avanti mac’è ancora tanto da fare, il Brasile è unpatrimonio immenso e l’Africa, anchese è complicata, ha grandi potenzia-lità». Un’altra cosa che non sopportadel nuovo modo di fare progetti è lavo-rare in scala industriale. Detesta le im-mense fabbriche di architettura. Non-luoghi di disumanità. «Non mi piacerealizzare edifici che non avrò modo diseguire personalmente ed entrare inuno studio dove, anche chi lavora perme, non mi conosce e mi da del lei. Iomi sento molto più un artigiano che unindustriale e amo seguire con atten-zione tutti i miei progetti, lavorarli conle mani e curarne ogni aspetto, perchésolo le cose fatte così sono quelle chedanno soddisfazione». Sempre con lesue mani, vorrebbe realizzare un so-gno che le è rimasto nel cuore: «Un tea-tro, o comunque un luogo per la musi-ca, uno spazio dove gioire e trovare al-legria suonando». La gioia è anchequella che cerca di trasmettere ai suoistudenti. «Ai ragazzi dico sempre che,nonostante le avversità del mercato edi questo terribile momento econo-mico, hanno il diritto di sognare. Se ri-nunciano sarà la loro fine».

‘‘

IRENE MARIA SCALISE

FO

TO

AF

P

Odile Decq

© RIPRODUZIONE RISERVATA

44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 8 AGOSTO 2010

Repubblica Nazionale