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la domenica DI REPUBBLICA DOMENICA 19 APRILE 2015 NUMERO 528 Cult Centocinquant’anni fa fu scritta per la prima volta su un documento ufficiale E purtroppo divenne storia LA PAROLA ITALIANA più famosa al mondo. Più di pizza, più di spa- ghetti. Presente in tutti i diziona- ri e nelle enciclopedie di ogni Pae- se, di etimologia incerta — deriva da maha^ fat^, espressione araba che vuol dire immunità? Da un antico termine tosca- no che indicava ostentazione e boria? — fino al secondo dopoguerra si scriveva e si pro- nunciava con due «effe». All’anagrafe, e non è certo un caso, è vecchia quasi quanto lo Sta- to unitario. Ma di sicuro c’era già prima, an- che se nessuno le aveva ancora dato un no- me. Un fascicolo prefettizio non ha mai fatto la storia, però quello che il marchese Filippo Antonio Gualterio ha inviato al ministro del- l’Interno del Regno Giovanni Lanza si è rive- lato un segnatempo decisamente impor- tante: indica la data esatta di quando la Ma- fia ha cominciato a chiamarsi Mafia. Cento- cinquanta anni fa. Documento con tanto di bollo e stemma con croce sabauda, viva il Re e viva l’Italia. Era il 25 aprile del 1865. Nata nell’agro palermitano e negli assola- ti feudi della Sicilia centrale, questa parola che ha attraversato tante vicende politiche e criminali della nostra nazione non ha avu- to sempre lo stesso significato. Ogni epoca ha avuto la sua mafia. Un secolo fa rappre- sentava qualcosa, dopo l’uccisione di Gio- vanni Falcone e Paolo Borsellino un’altra, un’altra ancora oggi. Ma è stato quel giorno, il 25 aprile, che la Maffia — che poi si tra- sformerà in Mafia — è entrata formalmente e sinistramente nel nostro vocabolario. Le prime notizie sull’esistenza di certe ca- naglie, «oltre cento, di diverso rango, le qua- li erano riunite in fermo giuramento di non rivelare mai la circostanza delle loro opera- zioni a costo della vita», risalgono al 1828 e ne ha riferito uno sconosciuto magistrato di Agrigento descrivendo un’organizzazione criminale che aveva radici fra Cattolica, Cianciana e Santo Stefano di Quisquina. Die- ci anni dopo, nel 1838, il procuratore della Gran Corte Criminale di Trapani Pietro Calà Ulloa denunciava che «vi ha in molti paesi delle unioni o fratellanze, specie di sette che si dicono partiti, senz’altro legame che quel- lo della dipendenza di un capo che qui è un possidente, là un arciprete... sono tante spe- cie di piccoli governi nel governo». Ma fu so- lo il prefetto di Palermo, il marchese Gualte- rio, in quella primavera del 1865 — Garibal- di era sbarcato a Marsala appena cinque an- ni prima — ad avvisare «di un grave e pro- lungato malinteso fra il Paese e l’Autorità», annunciando il pericolo che «la cosiddetta Maffia od associazione malandrinesca po- tesse crescere in audacia, e che, d’altra par- te, il Governo si trovasse senza la debita au- torità morale per chiedere il necessario ap- poggio alla numerosa classe di cittadini più influenti per senso di autorità». Trattenia- mo il respiro per un momento e riflettiamo- ci: centocinquanta anni dopo è cambiato ve- ramente qualcosa? Comunque sia e la si voglia vedere, da quel giorno in poi, in Italia, di mafia non si è più smesso di parlarne e straparlarne. Prima e dopo Caporetto, nell’era del Duce, nella Pri- ma e nella Seconda Repubblica, a Caltanis- setta e ad Aosta, a Portella della Ginestra e nella Milano «da bere», nella Corleone di Totò Riina e con Renato Schifani sullo scran- no più alto del Senato. Passando natural- mente per l’immarcescibile Giulio Andreot- ti e il più “corsaro” Silvio Berlusconi. >SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE CON UN BRANO DI GAY TALESE Il diario. Ben Jelloun e l’Islam spiegato ai cinesi I racconti. Nothomb e Nair scrittrici a tavola Spettacoli. Depardieu, io e Putin siamo hooligan La copertina. Se i musei vendono i loro capolavori Straparlando. Francesco Remotti: “La mia Africa” Mondovisioni. Le mille piscine di Los Angeles È ATTILIO BOLZONI La parola Mafia PICCIOTTI IN UN’ILLUSTRAZIONE DI FINE OTTOCENTO/LEEMAGE

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  • la domenicaDI REPUBBLICADOMENICA 19 APRILE 2015 NUMERO 528

    Cult

    Centocinquant’anni fafu scritta per la prima voltasu un documento ufficialeE purtroppo divenne storia

    LA PAROLA ITALIANA più famosa almondo. Più di pizza, più di spa-ghetti. Presente in tutti i diziona-ri e nelle enciclopedie di ogni Pae-se, di etimologia incerta — deriva

    da maha^ fat^, espressione araba che vuoldire immunità? Da un antico termine tosca-no che indicava ostentazione e boria? — finoal secondo dopoguerra si scriveva e si pro-nunciava con due «effe». All’anagrafe, e nonè certo un caso, è vecchia quasi quanto lo Sta-to unitario. Ma di sicuro c’era già prima, an-che se nessuno le aveva ancora dato un no-me. Un fascicolo prefettizio non ha mai fattola storia, però quello che il marchese FilippoAntonio Gualterio ha inviato al ministro del-l’Interno del Regno Giovanni Lanza si è rive-lato un segnatempo decisamente impor-tante: indica la data esatta di quando la Ma-fia ha cominciato a chiamarsi Mafia. Cento-

    cinquanta anni fa. Documento con tanto dibollo e stemma con croce sabauda, viva il Ree viva l’Italia. Era il 25 aprile del 1865.

    Nata nell’agro palermitano e negli assola-ti feudi della Sicilia centrale, questa parolache ha attraversato tante vicende politichee criminali della nostra nazione non ha avu-to sempre lo stesso significato. Ogni epocaha avuto la sua mafia. Un secolo fa rappre-sentava qualcosa, dopo l’uccisione di Gio-vanni Falcone e Paolo Borsellino un’altra,un’altra ancora oggi. Ma è stato quel giorno,il 25 aprile, che la Maffia — che poi si tra-sformerà in Mafia — è entrata formalmentee sinistramente nel nostro vocabolario.

    Le prime notizie sull’esistenza di certe ca-naglie, «oltre cento, di diverso rango, le qua-li erano riunite in fermo giuramento di nonrivelare mai la circostanza delle loro opera-zioni a costo della vita», risalgono al 1828 e

    ne ha riferito uno sconosciuto magistrato diAgrigento descrivendo un’organizzazionecriminale che aveva radici fra Cattolica,Cianciana e Santo Stefano di Quisquina. Die-ci anni dopo, nel 1838, il procuratore dellaGran Corte Criminale di Trapani Pietro CalàUlloa denunciava che «vi ha in molti paesidelle unioni o fratellanze, specie di sette chesi dicono partiti, senz’altro legame che quel-lo della dipendenza di un capo che qui è unpossidente, là un arciprete... sono tante spe-cie di piccoli governi nel governo». Ma fu so-lo il prefetto di Palermo, il marchese Gualte-rio, in quella primavera del 1865 — Garibal-di era sbarcato a Marsala appena cinque an-ni prima — ad avvisare «di un grave e pro-lungato malinteso fra il Paese e l’Autorità»,annunciando il pericolo che «la cosiddettaMaffia od associazione malandrinesca po-tesse crescere in audacia, e che, d’altra par-

    te, il Governo si trovasse senza la debita au-torità morale per chiedere il necessario ap-poggio alla numerosa classe di cittadini piùinfluenti per senso di autorità». Trattenia-mo il respiro per un momento e riflettiamo-ci: centocinquanta anni dopo è cambiato ve-ramente qualcosa?

    Comunque sia e la si voglia vedere, da quelgiorno in poi, in Italia, di mafia non si è piùsmesso di parlarne e straparlarne. Prima edopo Caporetto, nell’era del Duce, nella Pri-ma e nella Seconda Repubblica, a Caltanis-setta e ad Aosta, a Portella della Ginestra enella Milano «da bere», nella Corleone diTotò Riina e con Renato Schifani sullo scran-no più alto del Senato. Passando natural-mente per l’immarcescibile Giulio Andreot-ti e il più “corsaro” Silvio Berlusconi.

    >SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE

    CON UN BRANO DI GAY TALESE

    Il diario.Ben Jelloun

    e l’Islamspiegatoai cinesi

    I racconti.Nothomb

    e Nairscrittricia tavola

    Spettacoli.Depardieu,io e Putin

    siamohooligan

    La copertina. Se i musei vendono i loro capolavoriStraparlando. Francesco Remotti: “La mia Africa”Mondovisioni. Le mille piscine di Los Angeles

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    ATTILIO BOLZONI

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  • la RepubblicaDOMENICA 19 APRILE 2015 28LA DOMENICA

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    GAY TALESE

    ER SECOLI LA MISERIA e le epidemie

    della loro regione erano state

    ignorate dal governo siciliano,

    dal parlamento di Roma, dai

    dominatori stranieri di epoche

    precedenti, sicché essi avevano finito per

    prendere la legge tra le loro mani e

    adattarla ai loro interessi, come avevano

    visto che facevano gli aristocratici. Non

    credevano affatto che la legge fosse uguale

    per tutti: la legge era dettata dai

    conquistatori. In più di duemila anni di

    tumultuosa storia, l’isola era stata

    governata dalla legge dei greci, dalla legge

    dei romani, dalla legge degli arabi, dalla

    legge dei goti, da quella dei normanni, degli

    angioini, degli aragonesi: ogni nuova flotta

    di conquistatori portava nel paese una

    legge nuova; e ogni legge, da chiunque

    fosse portata, sembrava favorire il ricco

    contro il povero, il potente contro il debole.

    Nella storia della Sicilia esisteva un unico

    drammatico caso in cui l’immiserita ed

    esasperata popolazione dell’isola aveva

    saputo organizzare con successo una rivolta

    nazionale contro gli oppressori, che nel caso

    in questione erano i francesi. La causa

    dell’insurrezione si era prodotta il lunedì di

    Pasqua del 1282, quando un soldato

    francese aveva recato oltraggio a una

    giovane palermitana nel giorno delle sue

    nozze. Immediatamente una banda di

    siciliani era passata alla rappresaglia,

    massacrando la truppa straniera;

    e la notizia del fatto, propagandosi

    rapidamente per l’isola, aveva spinto alla

    sollevazione una città dopo l’altra, in una

    frenetica orgia di xenofobia, con bande di

    uomini che aggredivano e ammazzavano

    ogni francese in cui s’imbattevano. Migliaia

    di francesi erano stati uccisi in pochi giorni;

    e secondo alcuni storici locali da questo

    episodio traeva origine la mafia, prendendo

    nome dal grido angosciato della madre

    della ragazza, che aveva corso per le strade

    urlando ma fìa, ma fìa! (mia figlia ndr).

    (Traduzione di Clemente Fusero)

    Da Onora il padre ©1971 by Gay Talese

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    the rights of reproduction in whole

    or in part in any form

    ©2011-2015 Rcs Libri S.p.A., Milano

    Quel gridodi una madredisperata“Ma fìa! Ma fìa!”

    LE IMMAGINI

    SOPRA, LA LOCANDINA DELLA COMMEDIA DIALETTALE

    “I MAFIUSI DE LA VICARIA” SCRITTA DA GIUSEPPE

    RIZZOTTO E GAETANO MOSCA E MESSA IN SCENA

    PER LE STRADE E I TEATRINI POPOLARI DI PALERMO

    DAL 1850. SOTTO, I MAFIOSI INTERROGANO

    UN PROPRIETARIO TERRIERO DA LORO SEQUESTRATO,

    (ILLUSTRAZIONE DEL 1873)

    © RIPRODUZIONE RISERVATA

    © RIPRODUZIONE RISERVATA

    ce ne sono. È sempre stata protetta dal pote-re. Anche dopo tanto tempo — ipocrisia tut-ta italiana — ogni volta che se ne parla ci sor-prendiamo sempre, come se l’avessimo ap-pena scoperta. Eppure già nel 1900, Napo-leone Colajanni, cospiratore mazziniano, exgaribaldino, “agitatore” politico e poi anco-ra deputato repubblicano diventato famosoper avere smascherato il primo grande scan-dalo nazionale (quello della Banca Romana)scriveva Nel regno della Mafia, il suo libropiù famoso: «Per combattere e distruggereil regno della Mafia è necessario, è indispen-sabile che il governo italiano cessi di essereil re della Mafia».

    Naturalmente non tutti hanno condivisoe condividono ancora oggi le idee di Colajan-ni. Ma, ammettiamolo, quella parola conti-nua a dare sempre fastidio. E a molti. Da pre-sidente del Consiglio, nel 2009, Silvio Berlu-sconi non riuscì a trattenersi: «Se trovo chiha scritto libri sulla mafia facendoci farebrutta figura nel mondo, giuro che li stroz-zo». E sentite cosa dichiarava pubblicamen-te Roderico Pantaleoni, procuratore gene-rale del Re presso la Corte di Appello di Pa-lermo, all’inaugurazione dell’anno giu-diziario 1902: «Se c’è tra voichi creda ch’entrando aparlare della delinquen-za io debba intratte-nermi sulla Maffia, sidisilluda o meglio siconforti. Se ne è par-lato tanto, si è fattotanto abuso di questovocabolo che, franca-mente lo dico, non se nepuò più sentire parlaresenza provare un senso dinausea e di disgusto».

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  • la RepubblicaDOMENICA 19 APRILE 2015 30LA DOMENICA

    TAHAR BEN JELLOUN

    PECHINO, VENERDÌ 13 MARZO 2015

    LACINANONÈUNPAESE, ÈUNCONTINENTE. Fa parte di quei miti che nonsi osa scalfire — se non altro perché è geograficamente immen-sa, e culturalmente incomprensibile. E dunque la si avvicina conmolta precauzione e umiltà. Ricordo un film cinese, visto in un fe-stival, dal quale ho appreso cose sorprendenti su questo Paese. Èla storia di un operaio che dopo la morte brutale di un amico de-cide di riportarlo al suo villaggio, alla sua famiglia. Ma quel vil-laggio è a migliaia di chilometri di distanza. Il film racconta unviaggio attraverso la Cina, con un cadavere come bagaglio. E fascoprire un Paese irto di contrasti, sorprendente, talvolta crude-le o anche assurdo — tanto più che il regista ha trattato il temacon toni a metà tra il tragico e il comico. E offre al tempo stesso un

    quadro molto interessante di questa realtà, per nulla omogenea, e dei cinesi, che in fon-do sono esseri umani abituati a subire le prove in silenzio, ma al limite anche a riderne,quando possono. Un Paese con un miliardo e trecento milioni di abitanti, di cui centocin-quantamila vivono al disotto della soglia di povertà. Ma come mi ha detto un diplomati-co in servizio qui, «tutto è relativo». La povertà, la vedrò a Pechino, tra due torri ultramo-derne in costruzione.

    Partito ieri da Parigi, sono arrivato a Pechino nel pomeriggio. Ma la persona che dove-va venire e ricevermi non c’è. Aspetto, mi agito, non vedo arrivare nessuno. Provo a chia-

    “Gli studenti non capiscono perché la Cina vinca così pochi

    Nobel per la letteratura, vogliono sapere come si diventa celebri,

    ma leggono poco e sono spaventati dal digitale”. Gli appunti di viaggio

    di Tahar Ben Jelloun, autore de “Il razzismo spiegato

    a mia figlia”, nel paese dove “tutto è relativo”

    mare i funzionari dell’ambasciata che mi hanno invitato, ma gli uffici sono già chiusi; nes-suno risponde al telefono. Dopo un’ora mi rassegno a prendere un taxi per l’albergo. Unagente mi aiuta a cambiare del denaro e parla con l’autista del taxi. Un percorso di un’o-ra e un quarto. I cinesi non hanno tardato a dotarsi di automobili. Lungo tutto il percorsoho visto solo due auto francesi. Mi rammento di un articolo sulla diplomazia tedesca: An-gela Merkel è venuta spesso, e ogni volta è rimasta qui a lavorare per diversi giorni. Ri-sultato: nel 2013 la Germania ha venduto in Cina tre milioni e trecentomila automobili,contro le ventisettemila della Francia! Il mio albergo è nella città vecchia, in una via pe-donale. A un certo punto il tassista mi fa scendere indicandomi la direzione dell’albergo.Ma la strada è lunga e affollata. Non ci sono alberghi in vista, o quanto meno, nessunascritta o segnale. Mi rivolgo a un giovane che sfodera il suo iPhone e accende il Gps. L’al-bergo è a cento metri, ma senza un’indicazione per riconoscerlo.

    Alla reception mi chiedono di pagare la stanza in anticipo. Porgo la mia carta di credi-to. No, qui solo contanti. Nel frattempo ecco arrivare l’addetto dell’ambasciata. Mi spie-ga che le strade erano chiuse per via di una riunione di tutti i deputati; perciò si era tro-vato nell’impossibilità di arrivare all’aeroporto. Succede così, senza preavviso. Nel frat-tempo avevo tentato di collegarmi col mio account su Google. Impossibile. In Cina è vie-tato, come del resto anche Facebook e Twitter. Mi preparo a passare una settimana sen-za connessione — che però non mi mancherà più di tanto. Un’esperienza positiva.

    SABATO 14 MARZO

    Fa freddo. Siamo a fine inverno. Il cielo èbianco. Il cielo è azzurro. I cinesi vanno a let-to presto e si alzano presto.

    Il mio albergo si trova nel Dongchen Di-strict, all’inizio della via Nan Luo Guxiang:una strada commerciale, soprattutto per tu-risti cinesi, i più numerosi. Molte giovanicoppie, felici di fare shopping. Vedo diverseinsegne bilingui, in cinese e in inglese: leusanze americane si insinuano, lentamentema visibilmente. Si mangia a qualunque ora.La pulizia delle strade si fa in continuazione,dando la caccia alle polveri inquinanti: ungrave problema nella capitale.

    Incontro un gruppo di liceali che si sonopreparati su uno dei miei libri. Sono curiosidi tutto. Nel pomeriggio rispondo alle do-mande di alcuni giornalisti, segnatamentedel quotidiano Huanqiu Shibao (tiratura:due milioni). Sono affascinati dalle onorifi-cenze più celebri, come il Premio Nobel o ilGoncourt, e non comprendono come mail’Accademia di Stoccolma abbia snobbato laloro letteratura. A parer loro Gao Xinjuan,premiato nel 2000, non è uno scrittore cine-se ma francese. Preferiscono parlare di MoYan, Premio Nobel nel 2012, che considera-no un cinese vero. Mi fanno varie domandesull’Islam. La minoranza musulmana Hui(stanziata nell’Ovest del Paese) è vista conrispetto, a differenza degli Uiguri, che vivo-no nella provincia di Xinjiang, rimproveratidi essere tentati dall’esodo. Sono incolpati diun attentato di ispirazione jihadista, che hafatto trentanove morti in un mercato diUrumqi, il 22 maggio 2014. Ma bisogna direche le autorità li reprimono brutalmente.

    A fine giornata, incontro in un caffè-libre-ria che ospita il festival letterario“Bookworm”. Sala gremita, pubblico appas-sionato, in prevalenza occidentale. Un am-biente molto simpatico, festoso, animato daPeter, creatore di questo centro e ideatoredel festival.

    La sera, cena con Qiu Huadon, uno degliscrittori oggi più celebri in Cina, col criticoletterario Huang Zhenwei, direttore di unarivista letteraria piuttosto influente, e con letraduttrici Meng Mei e Lin Yuan. Siamo nelnuovo quartiere elegante e costoso di Pechi-no, con grandi mallche espongono le più no-te marche internazionali. Qui si può trovaretutto ciò che è di moda.

    L’aspetto più interessante di questo quar-tiere, dove gli alberi sono illuminati perma-nentemente, come se fosse sempre Natale,è la bella e modernissima architettura. Il ri-storante Jin Yaa Tang si trova in uno degliedifici più belli della città, costruito da un ar-chitetto giapponese. Grandi spazi, struttureraffinate — in breve, una modernità che nonha nulla da invidiare a New York o a Dubai!

    A un certo punto del percorso siamo bloc-cati in un ingorgo di autovetture di lusso.Non una sola macchina modesta, tipo Fiat500 o Clio. Solo Mercedes, Audi, Bmw e al-cune limousine giapponesi. È la nuova svol-ta cinese: lusso ostentato e denaro facile.

    Discussione con gli intellettuali presenti atavola. I cinesi leggono poco: la tiratura me-dia di un libro tradotto varia da duemila a cin-quemila copie! Si parla del digitale, che aqualcuno fa paura; ma dato che i lettori sonocomunque rari, la questione è secondaria.

    DOMENICA 15 MARZO

    Visito il quartiere popolare Les Rotondes,accanto al Tempio di Confucio. Antiche resi-denze di famiglie abbienti sono state tra-sformate in piccoli alloggi abitati da gentemodesta. Un’anziana fa le sue abluzioni inmezzo alla strada. La maggior parte di que-ste casette è priva di servizi igienici. I wc e ibagni sono pubblici. A giudicare dai pannistesi ad asciugare, la gente qui è poverissi-ma. Ma appena fuori da questo quartiere sientra in un altro mondo: la Pechino dei soldi,dell’apparenza.

    Al Tempio di Confucio, mi fanno visitarela biblioteca. Che strano posto! Centinaia distele, alte più di due metri, sono allineate co-me in un cimitero. Mi spiegano: «Tempo fa,dopo un autodafé di libri, si decise di trascri-vere le opere più importanti su queste stele,divenute la memoria letteraria della Cina».Di fatto, sono veri e propri libri incisi nellapietra. Ne osservo una danneggiata. Mi di-cono che durante la rivoluzione culturale(1966-1976) alcuni cercarono di distrugge-re la biblioteca, ma furono subito bloccati.

    A mezzogiorno, pranzo all’ambasciatadel Marocco. Eccellente cucina marocchina.Jafaar Ali, in servizio qui da oltre sei anni, miinforma che la Royal Air Marocco prevedeuna linea diretta tra Casablanca e Pechino.Il governo marocchino è impegnato a con-solidare i legami con questa potenza, chesostiene la causa dell’integrità del Maroc-co nel conflitto sul Sahara. Ma al primo po-sto negli scambi con la Cina figura l’Al-geria, dove lavorano ottantamila cinesi.

    Nel pomeriggio prendo un volo Pe-chino-Wuhan, un Airbus 300, proba-bilmente montato in Cina. Wuhan, si-tuata al centro della Cina, nasce nel1950 dall’accorpamento di tre città(Hankou, Hanyang e Wuchang),sulle rive del fiume più lungo delPaese, lo Yang Tse, detto «il fiumeazzurro» (che in realtà è grigio). Èla città dei cento laghi. Al pari diPechino, è permanentemente invia di costruzione. Dovunquesorgono torri. Si lavora giorno enotte. Wuhan conta oggi dieci mi-

    Il diario. Pechino-Wuhan-Shanghai

    L’Islam

    ai cinesispiegato

  • la RepubblicaDOMENICA 19 APRILE 2015 31

    lioni di abitanti. Lo stato si è posto l’obietti-vo di farne una delle più importanti metro-poli cinesi, raddoppiando la sua popolazionein tempi brevi. Tra tutte le città del mondo,è quella che conta il maggior numero di stu-denti (1,2 milioni).

    WUHAN, LUNEDÌ 16 MARZO

    Mi reco alla Scuola francese internazio-nale di Wuhan per un incontro con gli stu-denti di francese, mi fanno domande sugliattentati contro Charlie Hebdo, l’antise-mitismo e il terrorismo di origine islami-sta. Secondo loro non si dovevano provoca-re i musulmani pubblicando le caricaturedel profeta Maometto. Quella che mi reci-tano è la versione ufficiale.

    In Cina il razzismo non è un tema di pri-mo piano. Questi giovani vorrebbero so-prattutto sapere come si fa a diventarescrittori; anzi, come ha aggiunto uno di lo-ro, «scrittori celebri». Bisogna dire peròche leggono poco, e che il mondo della scuo-la è fortemente inquadrato. La filosofianon è materia di studio, mentre si insegnatuttora il pensiero di Mao Tse Tung.

    Un professore propone una spiegazionedi un passaggio del mio libro Notte fatale.Non sono in grado di rispondergli in ma-niera soddisfacente. Il fatto è che tendo ad

    allontanarmi da quanto ho scritto, lo di-mentico. Questo atteggiamento gli sem-bra strano. Gli rispondo che è l’unico modoper continuare.

    La sera, cena offerta dal console genera-le in compagnia di francofili, funzionari del-l’ambasciata francese e scrittori noti comeLiu Xinglong, insignito del premio lettera-rio più importante della Cina. Si scambianobiglietti da visita, si scattano foto, si brindaper celebrare quest’occasione. Apprendoche ogni anno più di un milione di cinesi vi-sitano la Francia. L’obiettivo è di arrivaretra cinque anni a venti milioni.

    Osserviamo che in Cina l’obesità è prati-camente assente. Nelle strade e nei parchisi vedono ovunque attrezzi sportivi. Tuttifanno ginnastica. Gli anziani non sono ab-bandonati; è stata persino varata una leggeche obbliga i figli a far visita ai genitori pen-sionati, e a farsene carico quando sono pri-vi di mezzi. Chi non lo fa rischia una puni-zione, ma solo su denuncia dei genitori, oanche… dei vicini di casa!

    Per i giovani che sognano l’amore e il ro-manticismo, la città romantica per eccel-lenza è Parigi; e alla domanda su cosa in-tendano esattamente rispondono parlan-do di letteratura, di profumi, di lusso. L’at-teggiamento delle ragazze è di riserbo e pu-dore. Uno studente mi chiede se sono na-zionalista. Per lui, l’amor patrio viene pri-ma di ogni altra cosa. Gli rispondo che unoscrittore, se ama il suo Paese, ha il dovere dicriticarlo perché cambi in meglio.

    SHANGHAI MARTEDÌ 17 MARZO

    Aeroporto di Wuhan. Il mio aereo perShanghai è in ritardo. «Delay». Sullo scher-mo non si legge altro. Sono ormai quattro oreche aspetto. Impossibile avere la benché mi-

    fine mese, si è suicidato il giorno prima. Per-ché? Pressioni della famiglia su quell’unicofiglio perché acquistasse un appartamentoe una bella auto per far colpo sulla nuova fa-miglia? O forse una depressione non dia-gnosticata? Capita spesso, ma non se ne par-la. Non c’è dolcezza né tenerezza negli sguar-di tra uomini e donne. La vita è dura. E su tut-to vigila un Big Brother.

    Pranzo al “Din Tai Fung”, il ristorantetaiwanese più noto a livello mondiale (esistein una quindicina di paesi). Ai clienti si ri-serva un’attenzione che non avevo mai os-servato altrove: le giacche vengono coperteperché non assorbano gli odori della cucina!

    Piove. Ma prima di tornare in albergo nonpotevo mancare di visitare il mercato dellacontraffazione. Qui si falsifica ogni cosa. Cisono tutte le grandi marche.

    Stamattina scorro i giornali inglesi e ci-nesi di Shanghai. Con l’aiuto di un’interpre-te, cerco qualche notizia sull’attacco terro-ristico al Museo Bardo di Tunisi, che ha fat-to venti morti e una decina di feriti. Niente.Forse sui giornali di domani. I cinesi ricor-dano però gli attentati del Xinjiang, attri-buiti a terroristi musulmani. Shanghai dinotte è una festa di luci e colori. Gli edificiche si ergono alti nel cielo scintillano e cam-biano colore, come in un parco di diverti-menti. Qualcuno che vive qui da anni mi di-ce: «I cinesi sono come i bambini, amano tut-to ciò che brilla e cambia colore. Così non ri-flettono, non contestano, rincorrono i soldie pensano solo ad arricchirsi e a diventareconsumatori compulsivi».

    VENERDÌ 20 MARZO

    Lasciando questo Paese provo sentimen-ti contrastanti. Sono abbastanza sorpresodalla sua crescita economica (sette per cen-to), dall’ordine e dalla sicurezza garantitinelle città in maniera per nulla appariscen-te; ma al tempo stesso mi chiedo quale sia ilprezzo per ottenere questo risultato. Mano-dopera illimitata a buon mercato, una popo-lazione sfruttata, una sottomissione chenon si riconosce come tale. I giovani che hoincontrato si preparano a partire per otte-nere ulteriori diplomi e fare nuove esperien-ze all’estero, specialmente in America. Sononel giro. La Cina di domani sarà una potenzadominante e senza scrupoli. Va avanti senzavoltarsi a guardare. E ci si chiede cosa stia fa-cendo del suo passato.

    Eppure, quale che sia la sua potenza, que-sto Paese si è rivelato incapace di combatte-re efficacemente livelli di inquinamentosempre più letali. Ma come mi ha detto unamico che vive a Pechino, «è questo il prezzoda pagare per divorare il resto del mondo».

    (Traduzione di Elisabetta Horvat)

    nima informazione. Nessuno protesta, nes-suno si agita. La gente gioca con l’iPhone omangia zuppe in scatola. Non vedo nessunoleggere un libro o un giornale. Sono sotto-messi, rassegnati? O forse questa capacitàdi accettare tutto senza innervosirsi fa par-te del loro temperamento?

    Finalmente la chiamata per l’imbarco,verso le 0.45. L’aereo Aestern China è pieno.Si avvia sulla pista, ma poi ritorna al punto dipartenza. Annuncio ufficiale: impossibile at-terrare a Shanghai causa pioggia, tempora-li ecc. Restiamo sull’aereo senza più muo-verci. Un uomo d’affari francese impreca ininglese, e mi fa vedere sul suo iPhone il me-teo di Shanghai: non c’è maltempo in vista.Nessuno dice la verità: l’esercito occupa ilventicinque per cento dello spazio aereo, e avolte decide di chiuderlo in una data regio-ne, per motivi che restano sconosciuti. Comein questo caso. Il mio vicino mi confida: «Ca-pita spesso, ma non bisogna dirlo». È stato ilviaggio più lungo di tutta la mia carriera diviaggiatore: partito dall’albergo di Wuhanmartedì alle 16.30, sono arrivato a quello diShanghai il giorno dopo, alle sei del mattino.Per fortuna all’aeroporto ho trovato PascaleDelpèche, direttrice dell’Alliance française.Fuori, una lunghissima coda al posteggio deitaxi. Si avvicina una ragazza: «Taxi?». Pa-scale tratta il prezzo — il triplo della tariffadi un’autovettura pubblica — e un uomo cifa salire sulla sua auto privata.

    Anche a Shanghai, come a Pechino e aWuhan, si costruisce ovunque. C’è l’ordinedi cancellare i vecchi quartieri, testimonidei tempi di miseria. Gli abitanti sono eva-cuati e ricollocati. Alcune famiglie resisto-no, ma finiscono sempre per cedere. Neglianni Venti Shanghai era la città del gioco,dei traffici, delle feste e dei lustrini. Erano itempi della presenza francese e dell’Art Dé-co. Oggi è la città del lavoro, della serietà edello sforzo, del lusso e delle torri ipermo-derne. La somma di Chicago e Manhattan,

    ma ancora più in grande.Sembra di stare a Time Square,

    nell’Avenue Montaigne o ai Cham-ps-Élysées. Qua e là, tra due edifici ul-tramoderni sorgono ancora alcunecasupole dei tempi andati, coi pan-ni stesi ad asciugare, come nelleviuzze di Napoli o di Tangeri.

    La mia raccolta di novelle L’ulti-mo amore è sempre il primo? haun certo successo, probabilmen-te per via del titolo, dato che i gio-vani sono ghiotti di storie d’amo-re. Uno degli impiegati cinesidell’Alliance française, appenaventicinquenne, buon lavora-tore, intelligente e ben pagato,che avrebbe dovuto sposarsi a

    © RIPRODUZIONE RISERVATA

    I RAGAZZI CHE INCONTROMI CHIEDONO DELLA JIHAD

    E DI “CHARLIE HEBDO”.QUI IL RAZZISMO

    NON È UN ARGOMENTODI PRIMO PIANO

    E SUI GIORNALI NON TROVO LA NOTIZIA DELLA STRAGE

    AL MUSEO DI TUNISI.A SCUOLA IMPARANO

    SOLO VERSIONI UFFICIALI E SONO CURIOSI DI TUTTO

    CARTOLINE

    DALL’ORIENTE

    ALCUNE FOTO

    SCATTATE

    DA TAHAR

    BEN JELLOUN

    DURANTE IL SUO

    VIAGGIO IN CINA:

    A PECHINO

    NELLA CITTÀ

    VECCHIA;

    LA BIBLIOTECA

    NEL TEMPIO

    DI CONFUCIO;

    CON GLI STUDENTI

    DELLA SCUOLA

    FRANCESE

    INTERNAZIONALE

    DI WUHAN;

    SHANGHAI

    TRA MODERNITÀ

    E POVERTÀ.

    SOPRA, A DESTRA,

    IL MENÙ

    DEL RISTORANTE

    DIN TAI FUNG

    DI SHANGHAI

    CON I DISEGNINI

    DELL’AUTORE

  • la RepubblicaDOMENICA 19 APRILE 2015 32LA DOMENICA

    I racconti. Aspettando l’Expo

    ANITA NAIR

    L TELEFONO SQUILLÒ poco prima del-l’ora di pranzo. La figlia di un vici-no era fuggita con un uomo, rac-contò la persona che aveva chia-mato, dando a mio padre, che al-lora aveva ottantatré anni, i det-tagli della fuga. Più tardi, mentreeravamo seduti a tavola, papà rac-contò a me e a mia madre tutta lastoria. Il punto cruciale non eratanto che fosse fuggita con un ra-gazzo non adatto a lei, quanto che

    avesse sbriciolato delle pastiglie di sonnife-ro nella zuppa rasam che i genitori avrebbe-ro mangiato per cena insieme al riso.

    «Allora tutto quel parlare di comprare pe-sce re a seicento rupie al chilo, quando io sta-vo comprando sardine a sessanta rupie alchilo, erano solo chiacchiere!» disse mia ma-dre ridendo. «Per cena mangiano solo rasame riso!»

    «Dimmi, cosa pensi che avrebbe mangia-to a cena?» chiese mio padre con un’espres-sione preoccupata.

    «Forse solo cagliata e riso» rispose mia ma-dre con prudenza, mentre sbocconcellavaun pezzo di pollo. Mia madre ha settant’an-ni, ma non ha perso l’entusiasmo per il ciboe celebra la sua capacità di suscitare gioiaogni giorno.

    Aveva preparato un pasto davvero deli-zioso: neichoru(riso cotto con ghee e un piz-zico di spezie, guarnito con cipolle fritte, ana-cardi e uvetta), pollo al curry, raitadi cetrio-li e peperoncino e sfoglie gonfie e dorate dipane poppadom. E ora avevamo anche deisucculenti pettegolezzi con cui arricchire il

    pranzo, pensai, senza riuscire a reprimereun sorriso. I miei genitori però non erano tan-to propensi a sparlare dei vicini, quanto piut-tosto a dissertare sul ruolo del rasamin quel-la fuga d’amore.

    A casa mia succede sempre così. Per qual-che strana ragione, anche se sono sposata daventotto anni e abito per conto mio, quandodico «casa mia» mi riferisco sempre alla casadei miei genitori. Le altre sono solo abitazio-ni. A rendermela speciale penso sia propriola presenza dei miei genitori. E il cibo.

    Nelle ultime due settimane sono rimastada loro e la conversazione di rado si è spintaaldilà del mangiare. Le nostre giornate sonoscandite dai pasti: colazione, pranzo, tè e ce-na.

    Per quanto apprezzi il buon cibo, nella miacasa di Bangalore i pasti non sono che que-sto: pasti. La maggior parte delle volte ap-poggio un libro sul piatto e leggo mentremangio, oppure guardo la televisione con unvassoio sulle ginocchia. A casa dei miei geni-tori, invece, i pasti acquistano l’eloquenza diuna rappresentazione teatrale. È il teatrodella tavola, dove il cibo è al centro dell’at-tenzione; un rituale di estrema importanzadove non si possono fare compromessi.

    Da sempre, ogni mattina, mia madre pia-nifica tutti i pasti della giornata con il cuoco,per poi spiegare a mio padre che cosa occor-re per realizzare i vari piatti, con lo stesso pia-cere con cui gli legge qualche ghiotta notiziadal giornale. In un certo senso, la loro unicareligione adesso è il cibo!

    In tutta l’India rurale meridionale ancoraoggi quando due persone si incontrano non

    si salutano dicendo «ciao» ma si chiedono avicenda: «Hai già fatto colazione/pranzo/ce-na?» (limitandosi a cambiare il nome del pa-sto in base al momento della giornata). Perme si tratta di un saluto che nasce da un au-tentico interesse per il benessere altrui. È an-che un modo codificato di chiedere «va tuttobene?». Al confronto, quanto misera e inuti-le sembra la parola «ciao».

    Per tutti, e dappertutto, ogni cosa ha a chefare con il cibo. Nascite, morti, fidanzamen-ti, matrimoni, compleanni, l’inaugurazionedi una nuova casa, avanzamenti di carriera,trionfi: queste occasioni non significano nul-la se non prevedono anche un ricco ban-chetto. Quando sentiamo di aver toccato ilfondo, o nei momenti di maggiore solitudi-ne, il cibo ci offre un conforto che non haeguali. Mangiare per consolarsi non signifi-ca abbuffarsi perché siamo ingordi. Signifi-ca usare il cibo come una sorta di collantequando sentiamo che la vita ci sta facendo apezzi. È per questo che resto sempre stupitadi fronte a quella terribile manifestazione diodio verso se stessi che è l’anoressia, dovepersino il cibo che ci tiene in vita va evitato.Che cosa ha di diverso dall’automutilazio-ne?

    Mia mamma sostiene che l’avidità umananon possa mai trovare un totale appaga-mento. Tuttavia, quando prepari un pasto elo servi a qualcuno, vedi che inizia a man-giarlo con piacere. Presto, però, arriva unmomento in cui pare sazio e non riesce più ainghiottire nemmeno un chicco di riso. La fa-me è l’unico appetito che si possa davverosoddisfare. Almeno per un po’.

    La saggezza delle parole di mia madre micolpisce sempre quando mi siedo a tavola.Un tempo i miei genitori mi raccontavanodelle storie per farmi mangiare. Adesso miriempiono di notizie curiose, perché pensa-no che io abbia la testa tra le nuvole e che deb-ba essere riportata con i piedi per terra peraffrontare il mondo.

    I momenti dei pasti con loro sono una ve-ra gioia. Il cibo sulla tavola spesso è semplicema squisito e ogni piatto è pensato con cura,in modo che la miscela di sapori, aromi, co-lori e consistenze sia armonica. Ci serviamoin silenzioso rispetto, e gustiamo il primoboccone con la stessa concentrazione di unarciere che prenda la mira. Presto la conver-sazione diventa fluida. Il buon cibo la facili-ta. Alla nostra tavola c’è amore, oltre a unsentimento di unione che rinnoviamo ognivolta. Dopo il pranzo ci sentiamo appagati,come se tutto andasse per il meglio, qualun-que cosa ci sia da affrontare.

    Ricordo una cena del Ringraziamento acui ho partecipato a New York: in tavola c’e-rano montagne di cibo e, mentre gli ospiti siaccomodavano, aleggiava un palpabile sen-so di attesa. La ricchezza di quella tavola im-bandita non faceva pensare ad altro che a ce-lebrare il presente. A casa dei miei genitoriogni pasto è un ringraziamento alla vita: iopenso che finché non si rinuncia al cibo, nonsi rinuncia alla vita.

    Sto leggendo un libro in soggiorno: i mieigenitori sono in camera, coricati uno accan-to all’altra. Stanno parlando. Ogni volta, im-mancabilmente, dopo essersi dati la buona-notte, sento mio padre chiedere a mia ma-dre: «Che cosa c’è per colazione?». E mia ma-dre risponde: «Che cosa vorresti, caro?».

    Sono pervasa da un grande senso di calo-re. È la promessa che due persone anziane sifanno ogni notte: svegliarsi e iniziare un nuo-vo giorno, riempiendolo dell’amore e dellagioia che traggono uno dall’altra. E allora miviene in mente che nulla significa «ti amo»più di quel «che cosa c’è per colazione?» e«che cosa vorresti caro?».

    (Traduzione di Monica Bottiniper Paramita srl)

    © Anita Nair, 2014

    Metti una sera

    I

    Anita Nair.“Hai fatto colazione?”vale più di un “ti amo”

    © RIPRODUZIONE RISERVATA

    Due scrittrici e un tema: nutrirsi (anima e corpo).Due visioni opposte a confronto

    INDIA

    NATA IN KERALA

    (1966), VIVE

    A BANGALORE.

    NEL 2002

    IL SUCCESSO

    DI “CUCCETTE

    PER SIGNORA”.

    IL 14 MAGGIO

    USCIRÀ

    “L’ALFABETO

    DELLE SPEZIE”

    (GUANDA)

  • la RepubblicaDOMENICA 19 APRILE 2015 33

    A FAME È UN’ARTEe deve rimane-re tale. Se vienedalla volontà, èm a g n i f i c o .Rientra alloranel campo del-l’ascesi e dun-que della ricer-ca voluttuosa diuna illumina-zione.

    La fame, sono io. È il motore che mifa fare tutto, scrivere, amare, leggere.È un modo per incontrare il reale. È laqualità umana più diffusa e io ne sonouna campionessa, perfino nei miei ri-cordi più remoti morivo sempre di fa-me. Non credo esista una fame esclusi-va, ogni appetito ne porta con sé un al-tro, se si ha fame di letteratura se neavrà di musica, di scrittura, di amore.Tutti gli appetiti sono collegati. Certonon credo di essere la sola ad aver pro-vato fame, intendo fame di tutto ciòche esiste. La parola fame era la chiavecon cui potevo accedere al massimo de-gli aspetti di ciò che sono.

    La mia fame è da intendersi nel sen-so più ampio, se fosse stata solo di ali-menti forse non sarebbe stata così gra-ve. Ma esiste una fame che è solo di ci-bo, che non sia indizio di qualcosa dipiù ampio? Per me fame significa quel-l’aspirazione a cui dove non c’è nienteimploro vi sia qualcosa. La fame è vo-lere, è un desiderio più grande del de-siderio, non è la volontà, che è forza,ma l’affamato è qualcuno che cerca,che non accetta il proprio stato. Svuo-ta l’anima della sua sostanza e chi è na-to sazio non proverà mai quest’ango-scia, questo stato febbrile.

    La fame è forse lo stato più vicino al-la grazia o alla disgrazia dei gianseni-sti, è la scuola del desiderio che arriva-to allo stato supremo mi ha fatto arri-vare alla fame dell’altro.

    Diffidate però delle imitazioni. Lafame obbligatoria sta all’arte come idiscorsi ufficiali stanno all’amore.Niente a che vedere.

    Ci sono due tipi di fame obbligatoria:l’anoressia e la miseria. Su quest’ulti-ma io taccio. L’ho vista abbastanza perconoscere la sua bruttezza. Parlarnemi esporrebbe al suo compiacimento.

    L’anoressia l’ho vissuta. In lei nonc’è alcuna libertà. Quando ero anores-sica, mi era vietato di toccare cibo. Chime lo impediva? Non lo so. All’iniziocredevo di essere io. Molto presto hocapito che non era una mia scelta.

    Era un tabù, una costrizione cieca.Una tirannia, in cui il tiranno avevatanto più potere quanto era inconosci-bile, me lo imponeva.

    Stavo per morire in nome di una di-fesa assurda: «tu non mangerai». Ionon vedevo nessun modo per sottrar-mi a questo comandamento.

    Quando vivevo in Bangladesh a tre-dici anni mi sono ammalata. Il Bangla-desh è il paese più povero del mondo,dove tutti hanno fame. In quella realtàho scoperto una violenza del corpo: ènata in me una voce che mi imponevadi odiarmi, entravo nell’adolescenza eho iniziato a proiettarmi verso l’esseredonna e verso l’anoressia. Ho scopertola gioia di uccidere il mio corpo, con-templavo quel mucchietto di chili co-me un’opera d’arte. Il cibo era il Male,che separava il corpo dalla mia testa. Il5 gennaio 1981 ho smesso di mangia-re ma mi sono ripromessa che nonavrei dimenticato alcuna emozionedella mia vita. L’anoressia fu una gra-zia, non provavo più niente, i senti-

    a cenail mondo

    AMÉLIE NOTHOMB

    menti non premevano più. Era una tre-gua. Non mi odiavo più. La mia educa-zione è stata vagamente giudaico cri-stiana e avevo imparato che l’anima èla nostra parte più nobile. Volevo esse-re solo un’anima, e sbarazzarmi delcorpo e della sessualità che stavaemergendo, data la mia età. Le ano-ressiche non hanno più sessualità,scompare qualunque pulsione. Vistoche avevo eliminato il cibo decisi dimangiare tutte le parole: lessi tutto ildizionario, non volevo saltare nessunlemma, nessuna portata. Niente è piùfisico delle parole, per me la parola èl’intersezione tra corpo e spirito.

    L’ascesi non arricchisce la mente,anzi, più dimagrivo più sentivo svani-re quella che avrebbe dovuto essere lamia mente.

    Un giorno, come la morte si avvici-nava, il mio corpo ha lasciato la miaanima, ed è andato a nutrirsi. Questoprova, se è necessario, che il corpo èmolto più libero e liberatore dell’ani-ma.

    Certo, uscirne fu molto dura. Ci vo-gliono molti anni perché mangiarenon sia più sofferenza.

    Ma sono sopravvissuta. Io sono laprova che è possibile guarire. E sperodi restare definitivamente un’artistadella fame.

    (Traduzione di Daniela Di Sora)© Amélie Nothomb, 2015

    LBELGIO

    NASCE A KOBE

    IN GIAPPONE (1967)

    DA GENITORI BELGI.

    RAGGIUNGE

    IL SUCCESSO

    NEL 1992

    CON “IGIENE

    DELL’ASSASSINO”.

    IL SUO ULTIMO

    ROMANZO

    È “PÉTRONILLE”

    (VOLAND)

    WOMEN FOR EXPO

    I DUE TESTI INEDITI PUBBLICATI

    IN QUESTE PAGINE SONO TRATTI

    DA “NOVEL OF THE WORLD”,

    UNA RACCOLTA DI CENTOQUATTRO

    RACCONTI DA CENTO PAESI,

    IN DISTRIBUZIONE DAL PRIMO MAGGIO,

    REALIZZATA DA “WE-WOMEN

    FOR EXPO”, PROGETTO

    DI EXPO MILANO 2015

    CON LA COLLABORAZIONE

    DEL MINISTERO DEGLI AFFARI ESTERI

    E DELLA FONDAZIONE MONDADORI.

    “WE” È UN NETWORK MONDIALE

    DI DONNE PER UNA NUOVA ALLEANZA

    FRA CIBO E CULTURA,

    NUTRIMENTO DEL CORPO,

    DELL’INTELLIGENZA

    E DELLA LIBERTÀ.

    IL LIBRO SARÀ SCARICABILE

    GRATUITAMENTE

    IN FORMATO EBOOK

    SU WWW.WE.EXPO2015.ORG

    © RIPRODUZIONE RISERVATA

    Ma un tratto in comune:non parliamo mai soltanto di cibo, quando parliamo di cibo

    Amélie Nothomb.La fame è arteLa fame sono io

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  • la RepubblicaDOMENICA 19 APRILE 2015 34LA DOMENICA

    Io &Putindelinquenti

    IL LIBRO

    IL TESTO

    PUBBLICATO

    NELLA PAGINA

    ACCANTO È TRATTO

    DA “È ANDATA

    COSÌ” DI GÉRARD

    DEPARDIEU,

    IN LIBRERIA

    DA DOMANI

    (BOMPIANI

    OVERLOOK,

    140 PAGINE,

    18 EURO)

    DOMANI

    IN REPTV NEWS

    (ORE 19.45, CANALE

    50 DEL DIGITALE

    E 139 DI SKY)

    GUIDO

    ANDRUETTO

    RACCONTA

    GÉRARD

    DEPARDIEU

    Spettacoli. Gérard Depardieu

    mancati

  • la RepubblicaDOMENICA 19 APRILE 2015 35

    La miseria, i furti, la prostituzione, il contrabbando e la galera:“Dove ho capito che sarei

    diventato un artista”.Il grande attore francese si racconta senza pudore in un’autobiografia,

    che qui anticipiamo. Dall’infanzia fino alla controversa amicizia col leader russo

    non ho letto né Marx né Jaurès né Mao. Quando ve-do studenti che scandiscono “CRS-SS”, costruisco-no barricate e bruciano automobili, penso che sia-no figli di ricchi, ragazzi borghesi, e rido dello spet-tacolo ridicolo che offrono. Ma non mi limito a ri-dere, mi mescolo in mezzo a loro e la notte, mentredormo all’Odéon o nelle aule della facoltà di medi-cina, li derubo meticolosamente: orologi, collane,spille... «Continuate a fare la rivoluzione, ragazzimiei, che intanto tiro su un po’ di grano».

    Nel 1974 I santissimi è il film che mi fa conosce-re a Bernardo Bertolucci. Quest’ultimo sta per gi-rare un affresco che racconta l’Italia della primametà del ventesimo secolo attraverso i destini in-crociati di due ragazzi nati lo stesso giorno, nel1900, in una grande tenuta agricola dell’Emilia.Uno, Alfredo, è il figlio viziato del proprietario, e di-venterà fascista; l’altro, Olmo, è il bastardo di unafamiglia di mezzadri legati alla tenuta, e diventeràcomunista. Robert De Niro ha accettato il ruolo diAlfredo, e Bertolucci mi vuole per Olmo.

    È in occasione di Novecento che commetto lamia prima rapina sul lavoro. Vengo a sapere quan-to sarà pagato De Niro, ma Bertolucci mi proponela metà. A Serge Rosseau, il mio agente dell’epoca,sembra normale: «De Niro ha già fatto una dozzi-na di film, è molto più conosciuto di te».

    «Me ne frego, voglio quanto l’americano, cen-toventimila dollari o niente».

    «Ma Gérard, sei pazzo! Come puoi?». «Lo stesso che prende l’americano, o niente».

    BORGHESI PARIGINI IPOCRITIQuello che la gente non capisce è che non ho mai

    avuto il sogno di fare l’attore. Il mio sogno è statoquello di sopravvivere. Ho fatto l’attore per usciredall’analfabetismo. Avrei potuto fare altro, ci sonocapitato per caso, non ho scelto niente. E siccomenon ho niente, mi devo sbattere. Non per avere tut-to, che non mi interessa. Ma la vita mi interessa,cazzo! La vita con le sue sorprese, quella non smet-te mai di interessarmi. Mai. Se non vogliono pa-garmi, me ne frego, vado a fare qualcos’altro.

    «Bertolucci vuole uno di talento? Bene, il talen-to si paga. Serge bello, vaglielo a dire, e torna colgrano». E Bertolucci cede, mi paga lo stesso dell’a-mericano.

    Ma al ritorno le cose si guastano. Mio figlio Guil-laume va a scuola in questo quartiere residenzialepretenzioso e ipocrita. In una scuola borghese nonè raccomandabile essere ebrei, arabi e negri. E pre-sto anche essere figlio di Depardieu diventa un far-dello. Quando interpreti dei piccoli delinquenti,dei puttanieri, quando ti tagli l’uccello con un col-tello elettrico; quando interpreti Handke a teatroe ogni sera fai quello che fai; quando uno appare in

    A DIECI ANNI ANDAVO COI CAMIONISTIEntro nei negozi, con una mano in tasca me lo

    solletico e con l’altra afferro dai banchetti quelloche mi piace. Bisogna pur mangiare. Imparo a ri-conoscere gli sguardi equivoci, gli sguardi curiosie viziosi. Imparo a sorridere. Se non sorridi vuol di-re che hai paura, che sei perduto, diventi una pre-da. Imparo a sorridere sempre meglio, per mo-strare agli altri di essere sicuro, di non avere pau-ra. Quando gente con facce alla Lino Ventura, ca-mionisti, giostrai, mi chiedono se mi va di farmisucchiare l’uccello, parlo di soldi, faccio il mio prez-zo. Ho dieci anni, ma ne dimostro quindici. Non mistupisce niente, della gente. Se sono riuscito a so-pravvivere ai ferri da maglia di mia madre, di chipotrei avere paura? Di nessuno, e soprattutto nondi me. Ho una fiducia assoluta in me stesso e nelmio destino. Questa sicurezza è il filo sospeso del-la mia vita, su cui procedo senza tremare.

    A tredici anni, sono già alto un metro e settan-tacinque e peso settanta chili e, come ho imparatoa fare nei cinema, entro nella base Nato senza in-vito. Basta sorridere sempre. Non ho neanche diche pagarmi la birra e le sigarette, e scopro l’Eldo-rado americano: negozi pieni zeppi di sigarette, li-quori, jeans, T-shirt, carne in scatola, burro di ara-chidi... Nel giro di appena qualche settimana inquel posto in cui non possono entrare gli stranieri,sono di casa quanto un militare dell’Ohio. E il fattodi entrare e uscire sulle Buick o sulle Chevrolet deimiei amici mi permette di nascondere nel baga-gliaio ogni tipo di merci. Comincio a vendere siga-rette, whisky, camicie, jeans, T-shirt. In una setti-mana guadagno quello che Dédé fatica a mettereinsieme in un mese, sono pieno di soldi.

    Alla fine mi beccano per il furto di una macchi-na, che era poi un “prestito” per una sera. Mentresono in galera, ho la rivelazione che ribalterà la miavita. La dice lo psicologo della prigione. Mi accogliecon simpatia e, prima di farmi qualunque doman-da, afferra le mie mani e le esamina a lungo, in si-lenzio. «Hai mani da scultore», conclude. È un rag-gio di luce che piomba improvviso dal cielo mentreammuffivo in fondo a una cella. Quel giorno impa-ro quello che sono: un artista.

    IL MIO ’68 A DERUBARE GLI STUDENTINella primavera del 1968 le prime manifesta-

    zioni degli studenti passano sopra la mia testa.Non penso che possano esprimere l’esasperazioneper gli anni passati sotto de Gaulle. Non ho nessu-na coscienza politica e ho una conoscenza della sto-ria molto approssimativa: il mio unico punto di ri-ferimento è avere visto Dédé che vendeva L’Hu-manité. Di conseguenza sono portato a simpatiz-zare con i comunisti e la sinistra in generale, ma

    televisione con Gainsbourg o Coluche, bene, que-sto finisce per dare fastidio in un quartiere resi-denziale borghese. Laggiù conta solo l’apparenza,hanno quarant’anni e sono già morti. Non an-dranno mai in fondo a se stessi. Hanno il loro lavo-ro, due marmocchi, le mogli fanno le casalinghe esi fanno trombare dal primo che passa mentre ilmarito ha l’amante e quando torna a casa si ad-dormenta a fianco di una donna che non tocca più.Il sabato sera fanno la grigliata sul prato e la do-menica sera litigano. Nei quartieri residenzialidella periferia ovest le cose vanno così. Guillaumescappava sempre a Parigi . A dodici anni, faceva co-me me alla stessa età: prendeva il treno, passavala notte fuori e tornava il mattino . Dopodiché ci so-no stati i malintesi, le menzogne, la droga... Io nonc’ero mai, è la loro madre che ha dovuto sobbar-carsi tutto. Ho voluto lasciarli liberi, come lo erostato io, ma penso che per loro sia stato difficile al-l’ombra di un figlio di buona donna come me chepassava il tempo a strapazzare i benpensanti, amostrargli cose che non avevano voglia di vedere,a dirgli cose che non volevano sentire. Se hai sei o

    otto anni, che cosa vuoi ribattere a un mocciosoche dice che tuo padre è un delinquente, un per-verso, un assassino che se ne sbatte della morale –tutto ciò che ha sentito dire dai suoi genitori? E poiche sono amico dei dittatori perché ceno con FidelCastro, in attesa delle abbuffate con Putin. Sonomiei amici, e allora? La gente non ha capito nulla.La verità è che io non sono cambiato di una virgo-la da quello che ero a dodici anni. Continuo a vive-re nello stesso modo, a essere l’amico di chi dico io.Oggi do fastidio per cose che non capisco, ma mifanno capire quanto sono diverso da tutti quelliche mi giudicano per quello che leggono sui gior-nali. Amo la Russia, sono amico di Putin, mi sentotanto francese quanto cittadino del mondo, e nonpenso di fare male a nessuno concedendomi la li-bertà di andare a vivere dove voglio e di amare chivoglio. Esattamente come quando mi spacco il mu-so con la moto, da solo, quando sono ubriaco: sonofatti miei, non faccio male a nessuno. Quindi chemi si lasci vivere a modo mio.

    Se Putin e io ci siamo incontrati, se ci siamo ri-conosciuti subito, è perché entrambi avremmo po-tuto diventare delinquenti. Penso che in me gli siasubito piaciuto il mio lato hooligan, sia che pisci inun aereo, che prenda a testate un paparazzo o chemi tirino su da un marciapiede ubriaco fradicio. Eio, facendolo parlare, ho capito che anche lui neaveva fatta di strada, che come nel mio caso nes-suno avrebbe scommesso un soldo su di lui quan-do aveva quindici anni. L’ho incontrato la primavolta a San Pietroburgo, nella primavera 2008, al-l’inaugurazione della collezione Rostropovic al pa-lazzo di Costantino. Putin inaugurava la mostra, eio ero stato invitato. Ho capito subito che non co-nosceva nulla di pittura e di arte in generale, e lacosa mi ha colpito. Ho intuito che era uno che si erafatto da solo, e abbiamo cominciato a chiacchiera-re. La sua passione è la storia. Mi ha fatto parlaredella Rivoluzione francese, di Danton, di Napoleo-ne, e abbiamo promesso di rivederci.

    MACCHÉ DITTATORE...Ho cominciato a scrivergli. È molto facile: io par-

    lo in francese, un tipo trascrive quello che dico e poilo traduce in russo, e il risultato arriva sulla scriva-nia di Putin. Gli parlo un po’ di tutto, come a un vec-chio amico; la cosa lo diverte, e mi risponde. È ri-masto toccato che nel 2010, a Salisburgo, abbiafatto la voce recitante in Ivan il terribile diProkof’ev; e quando sono tornato a Mosca, mi haraccontato la storia dei suoi genitori, il miracoloche sua madre fosse sopravvissuta durante l’asse-dio di Leningrado e che lui, Vladimir, fosse riusci-to a venire al mondo nel 1952. Ciascuno a suo mo-do, entrambi siamo dei miracolati. Putin cresce aLeningrado in un ambiente povero e operaio. Chilo allontana dalla strada è Anatolij Sobcak, cheverrà eletto sindaco nel 1991. Allora Sobcak è pro-fessore di diritto e Putin mi racconta come, dopoaverlo conosciuto, scelga l’ordine e la disciplina,nello stesso modo in cui molti teppisti finiscono perentrare in polizia, e spesso diventano ottimi poli-ziotti. E anche lui fa lo stesso, dal momento in cuientra nel Kgb. Hanno scritto che sono amico di undittatore. Putin un dittatore? Non so niente di po-litica, di coglionate ne dico la mia parte, ma per meKim Jong-un è un dittatore, non Putin.

    Non sono io che tradisco la Francia, sono i fran-cesi che tradiscono se stessi. A poco a poco hannoperso il senso della libertà, il gusto dell’avventura,hanno perduto l’udito, l’olfatto, non sentono più lamusica trasportata dal vento, come laggiù in Ka-zakistan, dove senti le ragazze cantare da un vil-laggio all’altro; hanno perduto il senso della vita edella felicità, pian piano si sono lasciati divoraredal cancro della paura, e ora vivono nel terrore diciò che potrebbe succedergli. Hanno paura deglistranieri, hanno paura del loro vicino, hanno pau-ra del domani, hanno paura di tutto.

    E c’è chi mi dà del miserabile perché levo le ten-de... Sì, a sessantacinque anni non ho voglia di pa-gare l’87 per cento di tasse. Ma non è che non ab-bia fatto la mia parte: ho dato allo Stato francesecentocinquanta milioni di euro, mentre è dai tem-pi della scuola che non chiedo un soldo a nessunaistituzione. Ho sempre pagato medici, medicine,chirurghi e operazioni, non so neanche cosa sia lamutua. Non mi sento affatto in debito con la Fran-cia, amo questo paese, gli ho dato molto, non mene lamento, ma ora non rompetemi le palle!

    (Traduzione di Alberto Pezzotta)Depardieu Gérard, Ça s’est fait comme ça

    © XO Éditions 2014 © 2015 Bompiani / Rcs Libri S.p.A.

    GÉRARD DEPARDIEU

    IA NONNA IN PRATICA ABITAVA ALL’AEROPORTO, era la signora dei gabinet-ti di Orly, dove passavo le vacanze quando ero piccolo. Quanto mi pia-ceva stare lì dentro. «Il volo in partenza per Rio de Janeiro...». Cavo-lo, se ne va in Brasile quella gente! E correvo a vedere. «Il volo in ar-rivo da...». Mi passavano davanti tutte le città del mondo: Saigon, Ad-dis Abeba, Buenos Aires... E io me ne stavo nei gabinetti. Che nonnapuliva: lavorava per una ditta che si chiamava L’Alsacienne. Nonnasi faceva la barba, e ne ero affascinato. Aveva un Gilette bilama concui si rasava. «Nonna, pungi ancora!», le dicevo quando la baciavo.«Me la rifarò domani, tranquillo». Era la madre di mio padre. Ne hofatti di viaggi da quando, nei gabinetti di Orly, sentivo destinazioniche mi facevano sognare. Allora pensavo: «Ci andrò anch’io, laggiù!

    Un giorno ci andrò anch’io e poi ritornerò, un giorno...!». Sognavo, e nella mia testa partivo tutto solo.Sempre e comunque. Fino al giorno in cui me ne sono andato davvero, ma senza violenza. Non sono par-tito perché mio padre, Dédé, era insopportabile, o perché mia madre, Lilette, lo era altrettanto; no, mene sono andato perché ero libero. Ero stato amato per essere libero e per andare dove volevo. I miei ge-nitori non mi hanno mai giudicato né trattenuto, niente di niente. Sono sempre stato libero.

    Sono sopravvissuto a tutte le violenze che la mia povera mamma si è inflitta con i suoi ferri da maglia,con i suoi decotti, con i suoi pasticci. Il terzo bambino che proprio non voleva ero io, Gérard. Casa nostraera davanti alla scuola, a Châteauroux, nel quartiere dell’Omelon. Una catapecchia che puzzava di po-vertà. Perché da noi non ci si lavava spesso, lo facevamo una volta la settimana. E cavolo se puzzavamo!Dédé, che spesso tornava a casa ubriaco, a volte cadeva dritto disteso davanti alla scuola. Gli altri, i mieifratelli e sorelle, Alain, Hélène, Catherine, Éric, Franck, hanno vissuto le stesse cose e tuttavia, diven-tati adulti, hanno avuto una vita diversa dalla mia. Perché? Ho un bel chiedermelo. Hanno vissuto le stes-se cose, certo, ma non hanno assaggiato i ferri da maglia. Il che non fa di me una persona infelice, perniente, ma fa di me qualcuno che fa la posta alla vita.

    A scuola non ci sono andato per un bel pezzo, perché mi hanno cacciato... I miei non ce la facevano apagare. Non potevano pagare niente. La prima comunione, per esempio, non la potevano pagare, e al-lora mi hanno cacciato anche i preti. Neanche il battesimo avevano potuto pagarmelo. Professori e pre-ti si sono uniti per mettermi al bando, per cancellarmi. Io non sapevo di essere stato cancellato, l’ho ca-pito dopo. Mi hanno sempre buttato fuori, professori e preti. Persone che comunque non erano delle mer-de, persone del tutto normali che sono venute a salutarmi tutte gentili quando Châteauroux mi ha con-cesso la cittadinanza onoraria dopo L’ultimo metrò di Truffaut, o Sotto il sole di Satana, o non so più co-sa... C’erano anche i gendarmi che mi avevano sbattuto dentro per il furto di una macchina. D’altra par-te, quelli che per me sono stati un po’ dei padri, quando ero piccolo, non sono stati né i professori né ipreti, ma i gendarmi. Ho sempre avuto una certa intesa con i gendarmi e gli sbirri. Erano autoritari mabenevoli. Molto meno coglioni di quello che sembra.

    PER “NOVECENTO”COMMISI LA PRIMA RAPINASUL LAVORO:

    LI COSTRINSI A PAGARMIQUANTO DE NIRO, CHE ERAGIÀ FAMOSO. ME NE FREGAVO,NON HO MAI SOGNATO DI FAREIL CINEMA, CI SONO CAPITATOL’HO FATTO PER USCIREDALL’ANALFABETISMO.IO SOGNAVO SOLODI SOPRAVVIVERE

    A VLADIMIR PIACEIL MIO LATO HOOLIGAN.ANCHE LUI

    ERA UN TEPPISTA E COME MOLTITEPPISTI È DIVENTATOUN OTTIMO POLIZIOTTO: SIAMODUE MIRACOLATI. NON SONO IOCHE HO TRADITO LA FRANCIA,SONO I FRANCESI CHE HANNOTRADITO SE STESSI, HANNOPERSO IL SENSO DELLA VITAE HANNO PAURA DI TUTTO

    © RIPRODUZIONE RISERVATA

    M

  • la RepubblicaDOMENICA 19 APRILE 2015 36LA DOMENICA

    L’appuntamento

    Oggi nel quartiere dei ferrovieri di Vicenza, mostra mercato

    della piccola agricolturacontadina e dell’artigianato

    naturale a cura dell’associazioneGenuino Clandestino,

    che promuove produzioninaturali locali e cibi

    del commercio equo e solidale

    Il libro

    Si intitola “Nuvole di drago e granelli di cous cous”, il libro scritto da Vittorio

    Castellani, alias Chef Kumalè, per Antonio Vallardi Editore:

    duecentocinquanta ricette raccolte in tutto

    il mondo, compresi gli snack indonesiani al sapore di crostacei

    La app

    Dalla collaborazione tra Slow Food e Lavazza

    è nata una nuova app, Slow Food Planet,

    “l’amica che ti consiglia dove andare a cena,

    a comprare, a passare il tempolibero in tutto il mondo”, itinerari e suggerimenti

    buoni, puliti & giusti

    L’IMMANCABILESPUNTINO

    PER SPEZZARELA FAME

    VIVE UNA NUOVASTAGIONE

    OGNI PRIMAVERAECCO COSA

    C’È QUEST’ANNOPER MERENDA

    (DI SANOE LEGGERO)

    LICIA GRANELLO

    NACK!”. È UN TRIONFO ONOMATOPEICO, la parola ingle-se che battezza lo spuntino. Sembra di sentire ilsuono dei denti che mordono il boccone in modosecco e veloce, da appetito urgente e senza troppeaspettative. Perché in certi momenti, tacitare i ca-pricci della glicemia (che determina la sensazionedi fame) riesce più importante della qualità dellospuntino.

    Il cosiddetto intermezzo alimentare, glorificatodai nutrizionisti e dai teorici dei cinque pasti quo-

    tidiani, torna d’attualità quando la stagione comincia a tendere al bello stabile. Quest’anno,poi, l’irruzione di una primavera particolarmente sfacciata in termini di sole e temperatureha indotto grandi e piccini a sbarazzarsi dei paludamenti invernali, perfetti per nascondererotolini e rilassamenti. Condizione ideale per rallegrare i produttori di snack.

    È un work in progress composito e agitato, il mondo degli spuntini. Un’evoluzione-involu-zione che come nella teoria vichiana ripropone la storia in modo circolare, a partire dal pane emarmellata degli anni Sessanta, passando per merende e merendine sempre più sofisticate(in tutti i sensi), per poi tornare, almeno nei desiderata delle nuove generazioni di famiglieeco-friendly, agli spezza-fame tradizionali. Se non proprio con la marmellata, almeno con spal-mabili artigianali a base di nocciola a cioccolato.

    Ma parallelamente alla guerra gastronomica tra pane e merendine, negli anni l’industriaalimentare ha messo a punto gli spuntini ispi-rati ai comandamenti del fitness, prometten-do di azzerare la fame pagando dazio poco onullo in termini di calorie, ricerca supportatadalla tecnologia in continuo divenire. Così, leiniziali gallette estruse di mais sono state de-clinate utilizzando tutti i cereali possibili —veri come l’avena o apparenti come la quinoa— andando a scovare quelli con le percentua-li di proteine più alte e l’indice glicemico piùbasso, mentre le barrette hanno cominciato ainglobare bacche sconosciute, la frutta si ètramutata in chips e i semi — zucca, lino, se-samo, girasole...— in croccantini dalle poten-ti virtù antiossidanti.

    Ma non tutte le promesse sono state man-tenute. Le cialde, per esempio, pesano sì co-me un battito d’ali, ma a quota cento grammisono nettamente più caloriche di un buon pa-ne integrale vero. Discorso analogo per le bar-rette, il cui lunghissimo elenco degli ingre-dienti ad alto quoziente chimico fa concor-

    renza a quello dei chewingum. A distinguer-si, un pugno di piccole industrie virtuose, daibioricercatori della Vegetal Progress, con i lo-ro snack certificati, sani&buoni, a Noberascoe Tartuflanghe, capaci di domare la fruttagrazie alle tecnologie incrociate di freddo edessiccazione, ottenendo golosi spuntini a pro-va di bilancia.

    Il tutto, privilegiando ingredienti naturali,lontanissimo dagli imperversanti sacchettinidi junk food.

    In caso abbiate un minimo di pratica dei for-nelli, il mondo degli snack casalinghi vi con-quisterà, tra appetitose imitazioni del vecchioCiocorì (delizioso impasto di riso soffiato e cioc-colato datato 1957) e nuove contaminazioniasiatiche a base di farina di tapioca. Se poi, mal-grado gli sforzi dietologici la prova estiva fun-ziona solo per quanto riguarda le infradito, pre-notate un bel soggiorno in montagna.

    È tempo di uno snack.Goji, tapioca e pitayatutti i nipoti del Ciocorì

    © RIPRODUZIONE RISERVATA

    LO CHEF

    LO STELLATO

    MATTEO

    BARONETTO

    (“IL CAMBIO”,

    TORINO) AMA

    RIVISITARE

    LA TRADIZIONE

    PIEMONTESE

    CON SAPIENZA

    E CREATIVITÀ,

    COME IN QUESTA

    RICETTA IDEATA

    PER I LETTORI

    DI REPUBBLICA

    “S

    Sapori. Veloci

    INGREDIENTI PER 4 PERSONE: 20 G. DI FARINA DI RISO SOFFIATO (OTTENUTO FRULLANDO IL RISO SOFFIATO)20 G. DI FARINA DI POP CORN (OTTENUTO FRULLANDO IL POP CORN) 1,5 G. DI SALE FINO15 G. DI LATTE IN POLVERE70 G. DI ZUCCHERO A VELO20 G. DI NERO DI SEPPIA2 G. DI ORIGANO TRITATO FINEMENTE

    nire tutti gli ingredienti e mescolare bene.Dividere il composto in tre parti e in due diqueste unire rispettivamente il nero di

    seppia e l’origano. La terza parte rimarrà neu-tra. Riporre il composto in stampi di siliconeper muffin di quattro centimetri di diametro.Cuocere in un forno statico a 200 gradi per set-te minuti; terminata la cottura, prima di to-gliere il composto dagli stampi, pressare be-ne. Lasciare raffreddare e servire con una sal-sa verde leggera (prezzemolo, acciughe,capperi, uova sode, aceto, pane e olio).

    Con pop corn e riso soffiatoi miei biscotti colorati e leggeri

    La ricetta

    U

  • la RepubblicaDOMENICA 19 APRILE 2015 37

    EMILIO MARRESE

    A PAROLA SNACK a qualcuno

    mette anche un po’ di

    malinconia. Quella tipica delle

    parole che hanno vissuto

    giorni migliori. Andava forte

    negli anni Settanta, ma poi è andata in

    declino come tante altre, non

    sopravvissute alla convivenza con la

    parola bar (che evidentemente soffre di

    solitudine). American bar, wine bar,

    lounge bar, qualsiasicosa bar. Snack bar

    oggi sa di periferia e dietro la stazione.

    Nel tragitto tra casa e redazione, otto

    chilometri romani, ne ho contati ben

    cinque, ma nessuna di quelle poco

    attraenti insegne andava oltre la

    promessa di un tramezzino

    confezionato. D’altronde, in tutta

    sincerità, avete mai detto (o sentito dire)

    “vediamoci per uno snack”? No, non è

    cool.

    Lo snack risale la scala sociale solo sul

    treno, invece. Là sopra non è mica per

    tutti: è offerto nelle classi superiori, è uno

    status symbol. Più o meno, ecco. “Per lei

    dolce o salato?”. Avrete visto anche voi

    gente macerarsi nel dubbio come fosse

    davanti a un menù di Heinz Beck.

    Tarallino pugliese o krumiro?

    Baciodidama? Frollino?

    Ma la grande rivincita del feroce salatino

    si consuma soprattutto nell’oscurità dei

    corridoi e degli atrii aziendali,

    inesorabile e spietato come il tetragono

    killer incaricato della vendetta: il

    distributore automatico di merendine,

    vero sinonimo di snack. Lui lo sa, che non

    vale la pena sprecare energie per

    catturare la tua attenzione. Ti aspetta.

    Monsterchef. Sexy come un’obliteratrice

    e consapevole che tanto, prima o poi, da lì

    dovrai passare, lasciarti ipnotizzare vinto

    dal suo sguardo glaciale al neon e dovrai

    arrenderti alle lusinghe di una

    schiacciatina industriale. Magari in una

    domenica di luglio quando il bar aperto

    più vicino è a tre chilometri (e andrebbe

    benissimo anche uno snack bar in tal

    caso). O alle undici di una piovosa sera di

    novembre. Non ha fretta, lui. Totem

    fantozziano indifferente alle tendenze

    del momento, impermeabile al biologico,

    allo slow food, all’ecosostenibile, a tutto.

    Sì, aldilà della vetrinetta, squallido peep

    show gastronomico, fa mostra di sé

    anche qualche barretta ipocalorica,

    tanto per fare. Ma perlopiù ritroverai,

    conservate come reliquie, merendine

    che pensavi estinte dai tempi della

    scuola, mai più riviste da allora. Pare che

    da qualche parte siano ancora esposti dei

    Tortini Porretta, perfino. E allora, a quel

    punto, dovrai addirittura pregare il Dio

    dei Kit-Kat che la slot machine della fame

    disperata non si inceppi e rilasci il

    pagato, non truffandoti dell’unica

    moneta. E che non ti costringa a una di

    quelle patetiche colluttazioni, corpo a

    corpo, in cui hai visto impegnati tanti

    colleghi in passato, a rischio di strappo

    reumatico scuotendo l’albero di metallo

    perché il frutto cadesse. Con quel suono

    inconfondibile: snack.

    Ma nessunopuò sfuggireal distributoreautomatico

    © RIPRODUZIONE RISERVATA

    4salati

    4dolci

    Gallette di maisSi preparano per combinazione di calore e pressione: i chicchi vengonoprima spezzati per diminuirne la durezza, poi messi in stampi, infornati a 250-300 gradi e pressati

    RIALTO BIOCENTERCALLE DELLA REGINA 2264, SANTA CROCEVENEZIATEL. 041-5239515

    Chips di verduraDall’Inghilterra agli Stati Uniti, le verdure — barbabietole, carote, rape, cavolo nero — essiccate e fritte, o essiccate e aromatizzate, fanno concorrenza alle chips di patata

    MONDOBIOVIA MATARRESE 2/HBARITEL. 080-5616661

    BreakGallettecon la marmellata, le salse o un pezzetto di formaggio per una merenda sana e golosa

    Nuvole di dragoPurè di gamberi, farina di tapioca e acqua impastati, cotti al vapore, modellati a bastoncino, congelati e tagliati sottili. In frittura, le fettine si gonfiano e diventano friabili

    ASIA MARKETVIA RICASOLI 20ROMATEL. 06-66000187

    Sfoglie di quinoaBollitura con il doppio dell’acqua per il non-cereale chenopodium quinoa,frullato con extravergine, tirato molto sottile, spolverato di gomasio (sale e alghe) e infornato a 220 gradi

    COOPERATIVA CIELOVIA DE AMICIS 18/BRHO (MI)TEL. 02-93505632

    Barrette di gojiMix di frutta secca tritata, semi (girasole, zucca, sesamo), fiocchi d’avena, farina di cocco, miele o stevia, bacche di goji rilevatein acqua e asciugate. Poi in forno

    IL MELOGRANOCORSO VITTORIO EMANUELE 64TORINOTEL. 011-0772928

    Pitaya disidratataLa più dolce tra le cactaceae, detta anche dragon fruit, ha polpa bianca o gialla, cosparsa di semini neri. Poco calorica e ricca di antiossidanti,viene essiccata in corrente d’aria

    LA BOUTIQUE D’ALTRI TEMPIVIA DEI MILLEALBENGA (SV)TEL. 0182-50370

    Pesche liofilizzateLa crioessiccazione prevede l’abbattimento rapido degli spicchi(temperatura fino a meno 80) e la loroessiccazione sotto pressione. Croccantie impalpabili, temono solo l’umidità

    LA RINASCENTE FOOD MARKETPIAZZA DELLA REPUBBLICA 3-5FIRENZETEL. 055-219113

    Riso soffiato al cacaoCotto a vapore, essiccato e soffiato con aria calda (250-300 gradi) ad alta pressione. Per trasformarlo in snack, va mescolato con cioccolatosciolto a bagnomaria o nel microonde

    BUONOCORECORSO VITTORIO EMANUELE 258NAPOLITEL. 081-413421

    L

  • la RepubblicaDOMENICA 19 APRILE 2015 38LA DOMENICA

    Regista, autore, attore, architetto di teatro. A cominciare da quan-

    do, bambino di un paese vicino a Cosenza, “rubavo le lenzuola del

    letto dei miei e costruivo un palcoscenico con le cassette della frut-

    ta,facendoci recitare i compagni di scuola”. Era già ricerca: “All’uni-

    versità a Firenze approfondendo studi radicali sui comportamenti,

    sulla land art, sulla beat generation, mettevo in correlazione i colo-

    ri, la musica concreta, i luoghi e

    le persone e nel 1982 fondai la

    compagnia Krypton”. Così nasce

    Eneide, luci e rock dei Litfiba, ma

    anche Beckett in calabrese: “Mi

    piace l’opulenza, voglio divorare

    tutti i linguaggi”

    RODOLFO DI GIAMMARCO

    «NASCO NEL 1956 A MARANO MARCHESATO, un paesino a tre-dici chilometri da Cosenza, che oggi è periferia di Co-senza, e alle elementari ero il primo della classe, anchese irrequieto di carattere. Mia madre mi racconta che atre anni le ho rovinato tutta una parete di casa, dove con

    una matita presa di nascosto a mio padre, avevo disegnato un cimitero in pro-spettiva. A forza di idee e sregolatezze avevo concepito pure una sorta di teatri-no domestico: rubavo le lenzuola del letto dei miei e costruivo una scena basatasu un palco di cassette di frutta, facendoci recitare i compagni di scuola». Ha ori-gine da un’infanzia calabrese già affaccendata in avventurosi allestimenti do-mestici, il destino creativo di Giancarlo Cauteruccio, uno dei maggiori protago-nisti della nuova spettacolarità della scena italiana. Un regista-attore-autore-ar-chitetto del teatro di ricerca che da più di trent’anni indaga la tecnologia, lo spa-zio e tutti i linguaggi artistici concorrenti a dar vita a poetiche inedite e a bat-tezzare opere che assorbono e testano nuovi codici, nuove miscele di passato epresente, nuove energie di luce, nuove mappe anatomiche. Sì, perché la massaumana, anche nell’immaterialità ibrida di tutta una serie di lavori, è perCauteruccio un metro di confronto insostituibile. Lo è per costituzio-ne sua congenita, unica. «Sono arrivato a pesare centoquarantaseichili. A causa di un problema, diciamo così, chimico. Da piccolo so-no stato curato con terapie sperimentali al cortisone, e il cortiso-ne mi ha modificato il metabolismo. La fisionomia grassa mi hacreato un sacco di problemi nella prima giovinezza, con continueprese in giro di cui però per fortuna non ho mai sofferto, perchéprevaleva una mia energia interna. A periodi alterni il peso è oscil-lato, poi una decina d’anni fa un amico endocrinologo ha trovato un

    rimedio, e ora m’aggiro sempre sui cento chili». Allacosa più umanamente densa e portatrice concreta disegni, all’incidenza del corpo, Gianfranco Cauteruccioha contrapposto, nel suo cammino teatrale, da una parte lavirtualità del laser e del neon che sono entrati come scheggenelle sue strutture spettacolari dei primi tempi, e da un’al-tra parta la secchezza della scrittura di Samuel Beckett, dalui progressivamente frequentato, adottato. «A Cosenza,città priva di cultura teatrale stimolante mentre io crescevo— dove mio padre era funzionario del dazio e aveva comecollega il padre (casertano) dell’altro futuro sperimentato-

    re della scena Giancarlo Sepe — a sedici anni rimasi letteralmente folgorato daprogetti di contaminazione urbana curati da Giorgio Manacorda, Simone Ca-rella e dal critico Giuseppe Bartolucci, e fu lì che intravidi le connessioni tra cittàe teatro. Pronosticai, per forza di cose, un mio futuro da uomo del sud sradicato,migrante. Dopo aver abbandonato l’idea di fare l’università a Napoli, finii — gra-zie al libro L’anarchitetto di Gianni Pettena — alla facoltà di architettura di Fi-renze, dove approfondendo studi radicali sui comportamenti, sulla land art, sul-la beat generation, mettevo in correlazione i colori, la musica concreta, i luoghie le persone. Praticamente iniziai a dar forma a un teatro. E nel 1977 creai il grup-po Il Marchingegno per agire in gallerie, forti, castelli, rondò, superfici aperte.Finché nel 1982 fondai la compagnia Krypton (nome di un gas nobile, e parolaarcaica), dove accostai la scienza alla mia passione per i miti». Un critico di ten-denza lo definì “lacaniano”, riscontrando in lui opulenza e patologia. Uno spet-tacolo fondativo di allora, (era il 1983), Eneide, a base di luci e musica dei Litfi-ba, col corpo epico e nevralgico dello stesso Cauteruccio, ridiventa ora concer-to/teatro dal 21 al 23 aprile al teatro Argentina di Roma.

    «L’opulenza... A parte la solidità cronica della mia stazza, io non ho mai na-scosto una mia inclinazione per il cibo. Divoro tutti i linguaggi della scena, cer-to, e trovo nelle geometrie dello spazio molte somiglianze con gli organi, le ar-terie, i muscoli e le ossa del nostro fisico, ma in buona sostanza amo proprio il ci-bo, la cucina. Coltivo imperdibili simmetrie nella preparazione delle pietanze,nel numero speculare dei cubetti di verdure, nell’equilibrio dei sapori, delle zuc-chine, delle patate. La mia prima passione, lo devo ammettere, è la gastronomia.Poi viene l’arte, il teatro. NeL’ultimo nastro di Krappdi Beckett preparavo in sce-na un primo, una pasta che alla fine condividevo col pubblico. Anche in privato,a casa mia, a Firenze, la sera ho bisogno di metter su una cena per almeno unadozzina di ospiti, altrimenti i dosaggi, gli ingredienti rischiano di perdere vita-lità, virtù. Un mio piatto è stato premiato a un concorso ufficiale: si tratta dellepolpette di melanzana che ho elaborato da una ricetta di mia nonna. Tendo a no-bilitare le arti minori, come quando porto i laser da discoteca nei teatri di vellu-to». Non è affatto arte minore, comunque, la parabola storico-creativa dei ven-tiquattro anni di direzione del Teatro Studio di Scandicci (ex palestra degli al-lora Magazzini Criminali, che sarebbero diventati la compagnia Lombardi-Tiez-zi). Non è avanguardia per pochi l’instancabile officina di spettacoli che in Italiae all’estero, con progetti speciali o con messinscene di repertorio, hanno spa-ziato da Shakespeare a Mario Luzi a vari titoli di Beckett tra cui Finale di partitain lingua calabrese, da Corrado Alvaro a Bernard-Marie Koltès, da Harold Pintera Dino Campana (del quale ha appena realizzato Canti Orfici/visioni). Per nondire del suo lirismo scenico in dialetto che vanta un gioiello di compendio nell’e-dizione del suo personale, e teatrale, libro Panza Crianza Ricordanza.

    «Quando sento parlare di interdisciplinarietà, lì respiro, lì metto la faccia. Per-ché trattare, progettare, plasmare la materia, magari in simbiosi con la ritua-lità, calando i corpi nelle drammaturgie, facendo sì che la luce diventi uno stru-mento per svelare ed esaltare la spiritualità di ognuno di noi, tutto questo sì cherispecchia un processo di simbiosi tra reale e apparente, da far risalire a Du-champ, a Schlemmer, a una danza delle parole che originano e ritornano nel cor-po attraverso pittura e scultura. Insomma l’arte che detta le leggi allo spettaco-

    lo del mangiare, che è un’arte per me irrinunciabile, non è mai in conflitto conquello che faccio quando comunico agli altri per mezzo di una macchineria fat-ta di creature visibili e invisibili. L’Atto senza parole di Beckett lo insegna».

    Non è detto però che Giancarlo Cauteruccio pensi che il mondo contempora-neo sia il mondo migliore. «Sono preoccupato dallo straripare delle immagini in

    movimento nella scena, sia che si tratti di video che di digitale. Nel senso chespesso l’immagine non viene utilizzata come elemento strutturale e lingui-stico, ma come decoro, semplicemente sovrapponendo il cinema al teatro.Questo è solo un sistema passivo, pigro, illusorio. Ben altrimenti le tecnolo-gie possono apportare dinamica, fluidità: la luce può essere un nutrimentodell’attore, potremmo citare in modo fisiologico e logico le ombre della ca-

    verna di Platone. E invece qua e là si fa incetta semplicementedi effetti speciali. Il corpo è un’unità di misura dello spazio,e lo spazio si modifica col pensiero dell’uomo. Voglio dire: ilportale di una cattedrale diventa enorme perché ci inte-

    ressa il racconto dell’architettura, ma adesso dobbiamofare piuttosto i conti con la cronaca della speculazione

    edilizia...». Sentendolo riflettere così, esce fuori l’autore re-

    cente del trittico troiano modulare Crash Troadesmaanche il pioniere idealista delle anomalie che non vo-gliono mai essere rifinitura, trovata luminescente ebasta. Giancarlo Cauteruccio è un poeta elettronico,

    provvisto d’un cuore sempre in metamorfosi, e d’unfisico da gigante che sa il fatto suo in materia diesuberante alimentazione. Uno con un soloodio e molti amori. «Odio il computer. Amo glispaghetti al pomodoro, amo disegnare, amo isentimenti, le donne, i maschi, affacciarmi auna finestra e osservare il mondo, sapere quan-ti gradini hanno i sagrati di certe chiese».

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    MI PREOCCUPA LO STRARIPAREDELLE IMMAGINI IN MOVIMENTO IN SCENA,SIA VIDEO CHE DIGITALI. SPESSOSONO UTILIZZATE SOLO COME DECORO: È UN SISTEMA PASSIVO, PIGRO, ILLUSORIO

    LA MIA PRIMAPASSIONE

    È LA GASTRONOMIANELLE GEOMETRIE

    DELLO SPAZIOTROVO MOLTESOMIGLIANZE

    CON GLI ORGANI,LE OSSA E I MUSCOLIDEL NOSTRO FISICO.

    E IL MIO, A CAUSADI UNA MALATTIA

    INFANTILE,È MOLTO PESANTE

    L’incontro. Pionieri

    GiancarloCauteruccio

    TENDO A NOBILITARE LE ARTI MINORI,COME QUANDO PORTO I LASER DA DISCOTECANEI TEATRI DI VELLUTO. LA LUCE PUÒ ESSEREUN NUTRIMENTO DELL’ATTORE, POTREMMOCITARE LE OMBRE DELLA CAVERNA DI PLATONE

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