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LADOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 26 MAGGIO 2013 NUMERO 429 CULT La copertina EMILIANO MORREALE e MARIO PERNIOLA Bassa Fedeltà Nell’era hi-tech le immagini sono più povere Il libro IRENE BIGNARDI Quei delitti in Germania tra humour e senso di colpa All’interno Straparlando ANTONIO GNOLI Gianrico Tedeschi “Io, sopravvissuto a Carosello, teatro e cinema” Opera ANGELO FOLETTO Gli dei di Wagner alla Scala tutta scena e poco pathos L’arte MELANIA MAZZUCCO Il Museo del Mondo Il San Giorgio di Pisanello Costa-Gavras “Come il mio Z cambiò la storia” L’incontro MARIO SERENELLINI Assalto all’Everest dall’epica ai tour sessant’anni in salita L’attualità EMANUELA AUDISIO TORINO uando sento l’odore dell’erba mi torna in mente l’in- fanzia, racconta in un libro di qualche anno fa, Il so- gno di Futbolandia, Jorge Valdano, ex calciatore ri- velatosi scrittore di genio non soltanto sulle vicende del calcio, campione del mondo con l’Argentina nel 1986 e dirigente del Real Madrid fino al momento in cui ha scoperto di essere incompatibile con il carattere di Josè Mourinho. Quando domando ad Antonio Conte che cosa significhi per lui quell’odore, l’allenatore della Juventus ci pensa su qualche secondo, poi mi spie- ga che l’erba è la sua casa: «È l’odore a cui sono più abituato, è un odo- re che mi piace». L’erba non è un ricordo bambino, ma il suo pasto quotidiano. Diciamolo subito, Conte non ha ambizioni da poeta e nemmeno è capace di atteggiarsi a istrione per conquistare la sim- patia altrui. Voglio soltanto ragionare di calcio, esordisce. Le sue ri- sposte sono brevi, i contenuti non abbandonano quasi mai il peri- metro della tecnica. Il calcio è il mestiere che lo divora. Sportiva- mente parlando questo è il ritratto di un cannibale della panchina che in cinque anni si è messo in pancia quattro titoli, due di A e due di B. Il campionato si è appena concluso e lui è già tornato ad avere fame dell’erba degli stadi e dei cuori avversari, cosa che gli impone la sua natura. Cinque giorni fa ha congedato i suoi giocatori. Erano stremati. Loro hanno tirato un sospiro di sollievo, lui si è seduto sul- l’orlo del vuoto, ha soppesato le fatiche di una lunga stagione e, sic- come non sai mai quando è l’ultima volta di qualcosa, figuriamoci della vittoria, ha pensato che quello era il primo giorno triste negli ul- timi sei mesi e dopo la squalifica per il calcioscommesse. «Subito mi sono detto: non mi sento completamente prosciugato, ma le ener- gie sono arrivate al limite di guardia, ho bisogno di riposare. Qualche ora dopo è subentrata la nostalgia, la prospettiva di dovermi allon- tanare per un mese e mezzo dalle persone con le quali lavoro fianco a fianco sette giorni su sette mi è precipitata addosso. Vuole la verità? Mi mancano i giocatori». Le cose peggiori che possono capitare a una squadra sono due: perdere il carattere e confondere i ruoli che il ca- rattere aiutano a formarlo. Ma, attenti, la nostalgia di Conte è quella per il lavoro e per l’amicizia che il lavoro cementa. (segue nelle pagine successive) Al calcio il tecnico della Juve campione d’Italia dedica ogni giorno sedici ore “Ma non sono pazzo” DARIO CRESTO-DINA DISEGNO DI MASSIMO JATOSTI FOTO AGF Q ANTONIO CONTE Cannibale Pallone Il del Repubblica Nazionale

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LA DOMENICADIREPUBBLICA DOMENICA 26MAGGIO 2013

NUMERO 429

CULT

La copertina

EMILIANO MORREALE

e MARIO PERNIOLA

Bassa FedeltàNell’era hi-techle immagini sono più povere

Il libro

IRENE BIGNARDI

Quei delittiin Germaniatra humoure senso di colpa

All’interno

Straparlando

ANTONIO GNOLI

Gianrico Tedeschi“Io, sopravvissutoa Carosello,teatro e cinema”

Opera

ANGELO FOLETTO

Gli dei di Wagneralla Scalatutta scenae poco pathos

L’arte

MELANIA MAZZUCCO

Il Museodel MondoIl San Giorgiodi Pisanello

Costa-Gavras“Come il mio Zcambiò la storia”

L’incontro

MARIO SERENELLINI

Assalto all’Everestdall’epica ai toursessant’anni in salita

L’attualità

EMANUELA AUDISIO

TORINO

uando sento l’odore dell’erba mi torna in mente l’in-fanzia, racconta in un libro di qualche anno fa, Il so-gno di Futbolandia, Jorge Valdano, ex calciatore ri-velatosi scrittore di genio non soltanto sulle vicendedel calcio, campione del mondo con l’Argentina nel

1986 e dirigente del Real Madrid fino al momento in cui ha scopertodi essere incompatibile con il carattere di Josè Mourinho. Quandodomando ad Antonio Conte che cosa significhi per lui quell’odore,l’allenatore della Juventus ci pensa su qualche secondo, poi mi spie-ga che l’erba è la sua casa: «È l’odore a cui sono più abituato, è un odo-re che mi piace». L’erba non è un ricordo bambino, ma il suo pastoquotidiano. Diciamolo subito, Conte non ha ambizioni da poeta enemmeno è capace di atteggiarsi a istrione per conquistare la sim-patia altrui. Voglio soltanto ragionare di calcio, esordisce. Le sue ri-sposte sono brevi, i contenuti non abbandonano quasi mai il peri-metro della tecnica. Il calcio è il mestiere che lo divora. Sportiva-mente parlando questo è il ritratto di un cannibale della panchina

che in cinque anni si è messo in pancia quattro titoli, due di A e duedi B. Il campionato si è appena concluso e lui è già tornato ad averefame dell’erba degli stadi e dei cuori avversari, cosa che gli imponela sua natura. Cinque giorni fa ha congedato i suoi giocatori. Eranostremati. Loro hanno tirato un sospiro di sollievo, lui si è seduto sul-l’orlo del vuoto, ha soppesato le fatiche di una lunga stagione e, sic-come non sai mai quando è l’ultima volta di qualcosa, figuriamocidella vittoria, ha pensato che quello era il primo giorno triste negli ul-timi sei mesi e dopo la squalifica per il calcioscommesse. «Subito misono detto: non mi sento completamente prosciugato, ma le ener-gie sono arrivate al limite di guardia, ho bisogno di riposare. Qualcheora dopo è subentrata la nostalgia, la prospettiva di dovermi allon-tanare per un mese e mezzo dalle persone con le quali lavoro fiancoa fianco sette giorni su sette mi è precipitata addosso. Vuole la verità?Mi mancano i giocatori». Le cose peggiori che possono capitare a unasquadra sono due: perdere il carattere e confondere i ruoli che il ca-rattere aiutano a formarlo. Ma, attenti, la nostalgia di Conte è quellaper il lavoro e per l’amicizia che il lavoro cementa.

(segue nelle pagine successive)

Al calcioil tecnicodella Juvecampioned’Italiadedicaogni

giornosedici ore“Manonsono

pazzo”

DARIO CRESTO-DINA

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ANTONIO CONTE

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Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA■ 30

DOMENICA 26 MAGGIO 2013

A vent’anni gli fu già tutto chiaro: “In panchina avevo quel talentoche mi mancava sul campo”. L’allenatore per il secondo anno consecutivocampione d’Italia è un uomo ossessionato dal calcio:“Mi porto sempre addosso il terrore di perdere,la rabbia è la colonna sonora delle idee”

La copertinaAntonio Conte

(segue dalla copertina)

Non deve ingannare unoscambio di sms notturnicon Gianluigi Buffondopo il disgraziato erro-re del portiere nella par-tita con il Lecce a Torino

che lo scorso anno rischiò di compro-mettere la corsa scudetto. Buffon chie-se scusa: «Avrei preferito rompermi i le-gamenti». Conte lo rincuorò: «Stai dan-do il massimo e darai ancora di più».Questa è la regola dettata alla truppa:andare oltre il massimo. I sentimenti sicreano e si distruggono dentro quel ret-tangolo d’erba: «Fuori dal campo nonho alcun rapporto con i giocatori, credosia una condizione indispensabile perun buon allenatore. Ognuno deve rima-nere al suo posto. Sono stato dall’altraparte. Percepisco in anticipo lo statod’animo dello spogliatoio, so quandoserve ascoltare e quando bisogna alzarela voce».

Quando si diventa allenatori?«Io avevo vent’anni, stavo nel Lecce e

allenavo la squadra della scuola ele-mentare di mio fratello Daniele che dianni ne aveva dieci».

E si disse: sono un predestinato.«Sì. Lei adesso penserà: questo qui è

un arrogante. Eppure capii subito di

possedere in panchina il talento che mimancava in campo. Da calciatore avevocorsa, contrasto, inserimento sotto por-ta, sacrificio e niente di più».

I maestri non le sono mancati. Gio-vanni Trapattoni veniva da un calciolontano. Da Nereo Rocco e Pelè. Checosa le ha insegnato?

«L’umiltà. Si metteva al servizio deigiocatori, aveva sempre qualcuno a cuimigliorare il piede sinistro, lo stop a se-guire, il cross dal fondo, il tiro da lonta-no… Lo prendeva da parte, spendevaore del suo tempo. Senza di lui non sareirimasto tredici anni alla Juventus. Si sa-rebbero accorti presto che non ero al-l’altezza e mi avrebbero dato un calcionel culo».

La paragonano a Marcello Lippi.«Trionfi e dolori. Mi cambiò di ruolo,

litigammo. Vincevamo tutto e non midivertivo. Glielo dissi davanti a tutti icompagni, mi fece tacere ricordandomiche comandava lui. Lo ricordo soprat-tutto per l’ambizione e la cattiveria ago-nistica».

Con Carlo Ancelotti vi incrociaste giàin Nazionale ai tempi di Sacchi.

«Fu un fratello maggiore, aveva unavisione modernissima del calcio. Arrivòalla Juve molto giovane e non venne ac-colto benissimo per via del suo passatoalla Roma e al Milan. Sacchi è stato un ri-voluzionario, ciò che fu per l’Olandal’Ajax di Cruijff e Michels, il suo Milan e

la sua Nazionale lo furono per l’Italia.Quando mi convocò in azzurro arrivaiin ritiro con l’ansia addosso, la zona nonera il mio gioco. Soffrivo di mal di testacontinui».

Dino Zoff, ancora in Nazionale.«Un gentiluomo d’altri tempi, l’erede

di Bearzot e Trapattoni. Costruì e guidòuna bellissima squadra agli Europei del2000. Fummo sfortunati, una finale ma-ledetta decisa da Trezeguet, uno dei piùgrandi attaccanti con cui ho avuto la for-tuna di giocare. Sapeva far gol in tutti imodi, con ogni parte del corpo».

Quanto le sono servite le sconfitteper diventare il cannibale di oggi?

«Se ripenso a quante sono state speromoltissimo. Ho perso tre finali di Cham-pions contro Milan, Real Madrid e Bo-russia Dortmund; una coppa Uefa con-tro il Parma e una coppa Italia contro laLazio; la finale ai Mondiali negli Usa equella degli Europei a Rotterdam. Lapaura di perdere me la porto addosso.L’ho avuta anche dopo il successo sulCatania a Torino con la rete di Giacche-rini. Il Napoli era lontano e sembravatutto facile. Non per me. Da allora ab-biamo infilato otto vittorie consecuti-ve».

Dicono che lei è un martello. Quanteore dedica al calcio ogni giorno?

«Faccia il calcolo. Una giornata è di 24ore, ne dormo cinque, tre le dedico allafamiglia, ne restano sedici».

E sul campo quanto sta?«Guardi, noi ci alleniamo in media

due ore e mezzo al giorno, compreso illunedì quando abbiamo impegni ilmercoledì».

Preparazione atletica, corsa, tatticae partitella?

«Nessuna partitella con me, la parti-tella è quella che si fa tra amici. Parolaabolita. C’è la partita di allenamento».

È vero che a Bergamo allenava l’Ata-lanta a tempo di rock?

«Musica da discoteca. La usavo du-rante le sessioni di prove sotto sforzo. Lamusica è dopante. Io l’ascolto semprequando studio: rock, Biagio Antonacci,Ligabue, Jovanotti…».

Quali sono le sue letture?«Libri attinenti il mio lavoro, testi di

psicologia sportiva. Mi piacciono le bio-grafie dei campioni. Ho appena termi-nato quelle di Ibrahimovic e di Agassi».

Come sopporta la sua ossessione Eli-sabetta, la donna che sposerà tra pochigiorni?

«Sa che sono passionale, non un paz-zo. Lei non ha mai seguito il calcio, cre-do di poter dire che non capisce nulla dipallone. Conoscevo i suoi genitori, era-vamo vicini di casa. Il padre la domeni-ca portava i figli in bicicletta al parco delValentino. Mai allo stadio. Mi sono in-namorato di Elisabetta che avevo smes-so di giocare. Era il 2004. La incontrai albar, bevemmo un bicchiere d’acqua,

qualche parola, una battuta… comin-ciò così. A casa cerchiamo di parlared’altro. Mi sforzo. Ogni domenica seraVittoria, nostra figlia, le chiede: “Mam-ma, papà ha vinto, vero?”. E se Elisabet-ta le risponde: “No, abbiamo perso”, leisi rabbuia e dice: “Allora papà sarà mol-to arrabbiato quando torna”».

Lei considera la rabbia una compo-nente del talento?

«No, la rabbia è la colonna sonora. Iltalento sta nelle idee, soprattutto quelleoffensive. Nel calcio di oggi saper attac-care fa la differenza tra la normalità e lagenialità. Bisogna inventare, spostaregli avversari e creare gli spazi nei quali cisi può infilare».

Non si fa altro che parlare di moduli.Sono davvero così importanti?

«Il modulo ha sostituito la concezio-ne tattica che esisteva ai tempi dellostopper, del libero, del terzino, del tor-nante. Abbiamo studiato un po’ tuttiVan Gaal, Sacchi, Guardiola. Oggi piùche di moduli si dovrebbe parlare diprincipi di gioco. Possesso, pressing al-to, riconquista immediata della palla,difesa in avanzamento: sono queste lecaratteristiche di una squadra moder-na. Per capire pensi a Vidal, lo segua inpartita: lo trova ovunque, in difesa e inattacco, a velocità bassa, media e alta. Èil regolatore della nostra intensità di gio-co, un po’ come lo era Davids nella Juvedi Lippi».

DARIO CRESTO-DINA

BAMBINO

Il piccolo Antoniocon la magliadella Juventinadi Lecce

BIANCONERO

La Juve lo acquistònel ’91 per 8 miliardidi lire. Esordio nel derbycol Torino il 17 dicembre

AZZURRO

In Nazionale dal ’94 al 2000ha giocato 20 partite (2 gol): secondo posto ai Mondiali1994 e agli Europei 2000

1989-1990

LECCESalvo in serie A

1990-1991

LECCERetrocesso in B

1991-1992

JUVENTUSSeconda in A

1992-1993

JUVENTUSCoppa Uefa

1993-94

JUVENTUSSeconda in A

1997-98

JUVENTUSScudetto

1996-97

JUVENTUSScudetto, Supercoppa

e Intercontinentale

Sono feroce perché ho paura

FAMIGLIA

Sotto, Antonio Conte

con Elisabetta

e, a destra, i due futuri sposi

con la figlia Vittoria

CALCIATORE

Antonio Conte compare

per la prima volta nel 1989

nell’album dei Calciatori Panini

dalle cui collezioni sono tratte

le immagini di queste figurine

per gentile concessione dell’Editore

1995-96

JUVENTUSChampions League

1994-95

JUVENTUSScudetto e Coppa Italia

Le figurine

Repubblica Nazionale

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2000-01

JUVENTUSSeconda in A

2002-03

JUVENTUSScudetto

2003-04

JUVENTUSTerza in A

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DOMENICA 26 MAGGIO 2013

È difficile trasmettere questi inse-gnamenti ai giocatori?

«I calciatori sono molto più preparatie intelligenti di quanto generalmente sipensi. Il campo è la prova vera, lì le pa-role si riducono a suoni. O l’orchestrafunziona o stecca anche il primo violi-no. Trasferire in campo un’idea di giocoè impresa difficilissima».

Che cosa manca alla Juventus?«Un po’ di qualità».Tornando al talento, qual è il più

grande campione che ha conosciutonella sua carriera?

«Maradona, è stato il dio del calcio.Ero nel Lecce, maglia numero 4, e il 4marcava il 10. Lui era a fine carriera e giàun po’ sovrappeso. Mi massacrò. Per icompagni era il capo anche quando si li-mitava a respirare».

Zinedine Zidane?«Rendeva semplice l’incredibile. Lo

guardavi e dicevi: questo lo so fare an-ch’io. Ci provavi e t’inciampavi. La mo-bilità delle sue caviglie sfidava i limitidella fisica, era dotato della sterzata piùelegante della storia del calcio. Introver-so, taciturno e buono, sempre tra gli ul-timi a lasciare l’allenamento».

Roberto Baggio e Alessandro DelPiero?

«Due creativi, molto simili nel mododi calciare. Baggio correva quando gli al-tri stavano fermi e stava fermo quandogli altri correvano, inventava. Alex è un

perfezionista, un mix di orgoglio elealtà».

Andrea Pirlo?«L’abbiamo preso perché lo conside-

ravamo una garanzia, è riuscito a sor-prenderci superando se stesso. Haumiltà rara nei fuoriclasse e la freddez-za del leader. Ai compagni prima dellagara raccomanda sempre una cosa:“Datemi la palla anche se sono marca-to, non preoccupatevi”. Pogba ne è l’e-rede».

Gianluigi Buffon?«Il migliore al mondo, il Federer dei

portieri. Senso della posizione, letturadell’azione, esplosività, padronanzadell’area piccola. Potrebbe giocare finoa cinquant’anni».

Il calcio è progredito come il traffico,gli spazi si restringono, il rischio di in-gorghi si moltiplica. Quale sarà il calciodel futuro?

«Più velocità, più intensità, più tecni-ca. Sempre più chilometri da percorre-re in novanta minuti. Giocatori semprepiù atleti. Un po’ quello che ci sta facen-do vedere il Bayern».

Non più il Barcellona. La bellezza dasola è spesso noiosa?

«Il Barcellona di oggi è diverso daquello di due anni fa. Se n’è andatoGuardiola e, forse, è subentrato un po’ diappagamento».

Mentre il calcio corre, le curve regre-discono ai “buu” della preistoria. I cal-

ciatori sono migliori dei loro tifosi?«Siamo in una fase di grande pericolo

e, lo dico disarmato, non ho una solu-zione da suggerire. Ha ragione Thuramquando spiega che neri non si nasce, mati fanno diventare. Il razzismo negli sta-di è soltanto una delle declinazioni dellinguaggio d’odio che colpisce con lastessa viltà Balotelli, Pessotto, le vittimedi Superga, i morti dell’Heysel. La facciadella violenza è quella dei padri che hovisto stringere in un braccio un figliopiccolo e nell’altro un bastone. Forsedobbiamo ricominciare dai ragazzi,dalla scuola, dai settori giovanili. Dall’e-ducazione, insomma, più che fermare icampionati».

Lei ha rovesciato l’immagine dellaJuventus, in sintonia con il presidenteAndrea Agnelli. Meno aplomb sabau-do, tanta, forse troppa, aggressività.Era necessario?

«Sono accadute delle cose, siamo di-ventati più feroci. Fermiamoci qui».

Gli scudetti bianconeri sono 29 o 31?«Sono due con Conte in panchina». «È agghiacciante!». Dica la verità:

non si è pentito di aver usato quell’ag-gettivo che la perseguita con gli sberlef-fi della satira?

«Fu una parola non meditata. Volevodire tremendo, rendere l’idea di qualco-sa che mi terrorizzava. Agghiacciante èun sinonimo. O no?».

© RIPRODUZIONE RISERVATA

CLASSE 1969

Antonio Conte

è nato a Lecce

il 31 luglio 1969

Ha giocato

fino al 2004:

centrocampista

del Lecce

per sei anni

e della Juventus

per altri tredici

Poi dal 2006

ha allenato

Arezzo, Bari,

Atalanta, Siena

e Juventus,

vincendo

due scudetti

e due campionati

di serie B

ha giocato 20 partite (2 gol): secondo posto ai Mondiali

SCHEMI

Gli appunti di giocodi Antonio Conteprimadi una partita

i trofei vinti con la Juve

da giocatore, tra cui 5 scudetti,

una Champions League, una Coppa

Intercontinentale e una Coppa Uefa

14

i gol realizzati con il Lecce

(1 in A) e con la Juventus (30 in A,

10 nelle coppe internazionali

e 4 in Coppa Italia)

45

le partite giocate

con il Lecce (99) dal 1985

al 1991e con la Juventus (419)

dal 1991 al 2000

518

1998-99

JUVENTUSSettima in A

1999-2000

JUVENTUSSeconda in A

2000

ITALIASeconda agli Europei

2001-02

JUVENTUSScudetto

SCUDETTI

I festeggiamentiper lo scudetto 2013con la squadrae con la famiglia

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA■ 32

DOMENICA 26 MAGGIO 2013

Nobili palazzi e umili abitazioni, chiese e negozi. E portoni,finestre, corti, cornicioni, abbaini, comignoli, marcapianiPer la prima volta qualcuno ha disegnato tutto ciòche si affaccia su vie e piazze di uno dei centri storicitra i più grandi e ricchi del mondo

La storiaVoi siete qui

LATO DESTRO V I A G I U L I A

LATO SINISTRO V I A G I U L I A

Per diciassette anni Ermanno Polla habattuto a palmo a palmo il centro sto-rico di Roma. Portava matita, taccui-no, macchina fotografica, un’astametrica allungabile e uno strumentoche si era costruito da sé per calcolare

gli angoli. Quindici giorni fa ha completato la suaciclopica avventura: il rilievo integrale di tutti —tutti — gli edifici compresi entro le Mura Aurelia-ne, un’area grande oltre millecinquecento ettari(più o meno millecinquecento campi da calcio),uno dei più compatti e pregiati patrimoni archi-tettonici del mondo, da Borgo Pio e Trastevere fi-no a Testaccio, Castro Pretorio ed Esquilino,compreso il Tridente — da Piazza del Popolo aPiazza Venezia e poi Corso Vittorio Emanuele,Piazza Navona e Campo de’ Fiori. Il frutto di que-sta fatica intellettuale e fisica è in dieci faldoni ne-ri impilati uno sull’altro, l’unico oggetto in ordi-ne su una scrivania gonfia di fogli, pennarelli, pa-stelli, scatole di caramelle e barattoli nell’ingres-so del seminterrato dove Polla, settantasei anni,capelli e barba bianchissima, un viso che paretratto dal busto di un imperatore romano, ha ilsuo studio.

Fino al 2003 ha insegnato alla Facoltà di Archi-tettura della Sapienza. L’idea di riprodurre in sca-la 1 a 200 le piante e i prospetti di ogni cosa si af-

facci su vie, vicoli e piazze del centro storico di Ro-ma — palazzi, monumenti, umili abitazioni,chiese e poi portali, finestre, cornici, cornicioni,bugnati, corpi scala, cortili, chiostrine, comigno-li, abbaini... — è del 1988. «Facemmo diverse riu-nioni con alcuni colleghi all’università e un diri-gente del Comune», racconta seduto su uno sga-bello e mescolando il piemontese delle origini,l’umbro della giovinezza e il romanesco dellamaturità. «Poi, uno alla volta, si defilarono tutti eio rimasi come un salame». Nel ’96 è partito da so-lo, aiutato dai suoi studenti. Dal 2003, con la pen-sione, ha finalmente potuto immergersi, senz’al-tri impacci, nelle maglie fitte della Roma rinasci-mentale e barocca, la Roma tracciata dai papi, daBramante e Raffaello e poi ritoccata da Valadier equindi ampliata dai “piemontesi”.

Polla ha difficoltà nel camminare. «Mi scorta-va mia moglie, che restava in macchina a leggere,mentre io piantavo gli strumenti sul marciapiedee prendevo misure». Nessuno a Roma — ma for-se neanche a Parigi o a Madrid — ha mai fatto nul-la del genere. Non in queste dimensioni. Tutto ditasca propria (ora, chi volesse, può acquistare ifaldoni a 800 euro nella libreria romana Kappa, inpiazza Fontanella Borghese). Nessuna casa edi-trice, nessun destinatario già disponibile, né ilComune né il Catasto né la Soprintendenza nél’Ordine degli architetti. Quasi il rilievo non fosseuno strumento indispensabile, ad esempio, per

FRANCESCO ERBANI

LA PIANTA

Una delle tante tavole disegnate a mano da Polla. Evidenziato in giallo il particolare

dei prospetti riportati in queste pagine: è un breve tratto della celebre via Giulia,

da Largo dei Fiorentini a vicolo della Moretta: facciata per facciata, il lato sinistro

è quello in alto, il destro è quello in basso. Oltre alle facciate, per ogni isolato, palazzo

per palazzo, l’architetto ha disegnato anche la pianta dei piani terra. Il lavoro di rilievo

fatto in questi diciassette anni ha riguardato in totale millecinquecento isolati

[SCALA 1:200]

Repubblica Nazionale

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DOMENICA 26 MAGGIO 2013

In diciassette anni Ermanno Polla, docente di architetturaora in pensione, edificio per edificio ha suonato

ogni campanello chiedendo il permesso di entrareAdesso che ha finalmente terminato di riportare sulla carta ogni singolo dettaglioecco una piccolissima parte del frutto della sua passione

fronteggiare l’abusivismo edilizio o il degrado oper avviare una ristrutturazione. Le tavole origi-nali, grandi tubi di fogli lucidi accatastati dietro lascrivania, Polla le regalerà all’Università.

«Quante male parole mi son preso». Il profes-sore si passa la mano nei capelli. «Mi dicevano:“Lei che ci fa lì? Perché fotografa?”. Il preside del-la facoltà ha scritto una lettera assicurando chenon fossi un impostore, ne ho fatte migliaia di fo-tocopie, ma solo pochi si sono fidati e mi hannofatto entrare negli androni o nei cortili. Ho dise-gnato tutte le facciate, mi mancano quelle dei vil-lini sul Gianicolo, protetti da piante e muri di cin-ta. In Vaticano mi hanno cacciato e anche negliedifici di proprietà della Santa Sede. Lo stessonelle stazioni di polizia o dei carabinieri. Ancorasto aspettando che mi mandino la pianta del Tea-tro Sistina».

Polla ha diviso il centro di Roma in dieci com-parti. Di ogni comparto ha rilevato tutti gli isola-ti, fossero composti di uno o anche di quindici oventi edifici. La zona di Corso Vittorio conta 314isolati. Seguita da Trastevere, 269. In totale sono1.500. «Il rilievo è il miglior strumento conosciti-vo di un edificio. È come se fosse una riprogetta-zione, favorisce il contatto fisico con la tecnicacostruttiva e la riappropriazione di vicende tra-scorse, ognuna delle quali rimanda a possibilitàfuture». Tutti i disegni sono a mano. Matita e car-ta. Una volta completata la facciata, rifinita con le

finestre in asse, il marcapiano che negli edifici dipregio divide il piano terra dal piano nobile, le bu-gne una sopra l’altra («grosso modo, quattordiciper piano»), la gronda, i discendenti e il tetto, pas-sava i fogli ad alcuni collaboratori che trasferiva-no tutto su Autocad, il sistema informatico in vo-ga fra gli architetti.

Ora il centro storico di Roma sembra al profes-sore molto più sfaccettato di come lo aveva stu-diato sui libri. «Mi si manifesta repentinamente esempre sorprendendomi». Ha scoperto affreschisu facciate inaccessibili allo sguardo, perché invicoli stretti, e poi graffiti, iscrizioni, bassorilievi,brandelli di colonne affioranti sui prospetti. Edi-lizia potente, dal Quirinale a Palazzo Farnese, maanche minuta ed egualmente parte insostituibi-le di un tessuto edilizio che ha valore nel suo in-sieme. E quanta emozione dall’alto di un terraz-zo nello scorgere «le bocche di lupo che segnala-no una cantina, laddove in epoca romana o me-dievale c’era un pian terreno».

I tubi con i lucidi arrotolati raccontano una sto-ria secolare, facciata dopo facciata. E ora chesoffoca sotto le gomme dei torpedoni turistici eansima per i gas delle auto, svuotato di residenti,che ne sarà del centro storico di Roma? «Fosse perme, lo pedonalizzerei integralmente. Solo picco-li bus elettrici, tantissimi e frequentissimi». Cosìche in futuro, molto agevolmente, Polla potrà fa-re rilievi anche più dettagliati.

La bellezza impigrisce, ripetevano le nonne, mettendo in guardia nipoti graziose esfaticate: ma nel caso del professor Ermanno Polla è vero esattamente il contra-rio. Ha completato ora un viaggio pazzesco dentro la meraviglia di Roma. È come

aver chiuso il vento in una bottiglia, il disordine straordinario della città eterna in un ca-talogo ordinato che pare quasi una magia. Razionalità e visionarietà si fondono in unomaggio commovente al caos e alla bellezza. Roma ha sempre bisogno di uomini e don-ne capaci di pensare in grande, di confrontarsi con l’impossibile, se non vuole ridursi auna pigra collezione di capolavori da mostrare in fretta e furia ai turisti da due giorni euna notte, a una palude che lascia malinconicamente affiorare i suoi tesori. Stringe ilcuore vedere certe meraviglie assediate dalle bancarelle, da negozietti indecenti, im-monde pizzerie al taglio, gelaterie fosforescenti, souvenir da quattro soldi, magliette diTotti e Messi e Cristiano Ronaldo: attorno alla fontana di Trevi è già così, uno spettaco-luccio miserevole, un’offesa chiassosa ai cittadini e anche ai turisti.

Una città non è una serie di cartoline da esporre a fisarmonica, è fatta soprattutto dal-la vita che scorre tra i palazzi, dal centro alla periferia, dall’energia che comunica, dal ri-chiamo che esercita come un magnete. È incredibile leggere che Berlino ha quasi tre vol-te i turisti di Roma. Berlino evidentemente non è fiaccata dalla “Grande Bellezza”, nonpuò cavarsela offrendo terrazze dove sorseggiare stancamente long drink e rimirare altramonto il più bello spettacolo dopo il big bang. A Berlino hanno dovuto puntare sullavita, perché non hanno Caravaggio e Bernini e le vestigia incatramate di una civiltà an-tichissima. Eppure noi romani anche di recente abbiamo traversato momenti d’oro: acavallo del millennio ci sono stati anni scoppiettanti, sono state aperte le Case del Cine-ma, del Jazz, delle Letterature, inaugurati teatri e musei, l’Auditorium, biblioteche e giar-dini, sistemate vecchie e nuove piazze, sembrava l’inizio di un tempo mosso e felice. Einvece il fuoco si è spento e l’acqua nella pentola s’è raffreddata: ora la città sembra in-timidita, quasi intimorita, d’improvviso è come se avesse perso la sua vocazione inter-nazionale, da ombelico del mondo è diventata un neo periferico. «Roma è abbacchia-ta» dice il tassista, «il cielo è basso e piove tutti i giorni» dice il barista, la Grande Bellez-za somiglia a una nostalgia, e certe sere addirittura a un senso di colpa. Oggi il professorPolla ci ricorda la potenza creativa di questa città, ci invita ad amarla, ad abitarla con en-tusiasmo e rispetto, a costruire ancora la sua imperfetta perfezione.

L’imperfetta perfezionedella grande bellezza

MARCO LODOLI

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V I A G I U L I A LATO DESTRO

V I A G I U L I A LATO SINISTRO

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA■ 34

DOMENICA 26 MAGGIO 2013

L’attualitàCime tempestose

29 MAGGIO 1953

Il neozelandese

Sir Edmund Hillary

con lo sherpa

nepalese Tenzing

Norgay sulla cima

A destra Hillary

pianta la bandiera:

sono le 11,30

del 29 maggio 1953

I problemi che il Tetto del mondo po-neva erano tre: altitudine, condizioniatmosferiche, difficoltà di scalata. A ot-tomila metri basta una bava di ventoper far scivolare il termometro a -50°, l’i-possia mangia il cervello, l’organismosi disidrata, lo stomaco si paralizza: ci siritrova indifferenti, stanchi, con unagrande voglia di dormire e di non sve-gliarsi più. Per questo a Hunt era statoconsigliato di arruolare Emile Zatopek,grande fondista cecoslovacco. Lo rac-conta ne La conquista dell’Everest (Ca-stelvecchi). Serviva forza, energia, velo-cità. A quella quota per fare 200 metri civuole mezz’ora. Anche abbassare unacerniera costa una fatica pazzesca.Quei problemi sono rimasti: perchél’importante sull’Everest non è arriva-re, ma riuscire a tornare. Hillary sistremò a tagliare gradini nel ghiaccioper due ore e mezza sia all’andata che alritorno. Per questo in cima aveva pian-tato nella neve un piccolo crocefisso,sapeva che anche scendere dalla croceporta dolore.

Venticinque anni dopo il futurotornò sull’Everest. Anche se la Scienzadiceva che non era possibile, quel con-fine era invalicabile, troppo per un uo-mo. I fisiologi giurarono: lassù c’è lamorte, aria sottile e parole senza senso.Reinhold Messner li smentì. Salì in fret-ta, con poche cose, e un compagno.Reinhold si disegnò gli scarponi da so-lo: in plastica, non in cuoio. Si fece fareuna pellicola speciale in Inghilterra,che non si spezzasse, in modo da poterfilmare la sua ascensione. La prima sen-za ossigeno. E in stile alpino. La quat-tordicesima della storia. Era l’8 maggio1978. L’impossibile non esisteva più.

Reinhold Messner e Peter Habeler loavevano calpestato. In appena quattrogiorni. In vetta Reinhold, 33 anni, si bru-ciò gli occhi: «Dimenticai di mettere gliocchiali». Habeler, che aveva sofferto dimal di testa, era così impaurito dalleconseguenze che quasi scappò e per seianni non scalò più un ottomila. «Al ri-torno ci separammo, andò per primo,vidi la sua lunga traccia, stava scenden-do di sedere, come su uno slittino». LaScienza non si volle rassegnare, l’uni-versità di Zurigo insistette che non erapossibile. Due settimane dopo l’ascen-sione Messner accettò di salire in quo-ta sul cielo di Baden-Baden. «Stavoltasu un aereo da turismo, con un teamscientifico che mi fece un prelievo: ri-sultò che avevo il sangue di un morto».Il segreto era nello slogan: salire di piùcon meno. Detto in inglese: more withless. Leggerezza e velocità. Una piccolaspedizione, due persone affiatate, au-tosufficienti, che si fidavano dell’altro.«Quindici-venti chili di bagaglio: ten-da, sacchi a pelo, fornello, provviste,corda da venti metri per emergenza. Unvalium per dormire e mezza aspirinaper il sangue. Il punto chiave fu la pre-parazione sul Colle Sud, dove restam-mo bloccati per due giorni nella bufera,senza ossigeno né cibo. Fu dura, però ciservì a capire che eravamo acclimatati.Il secondo tema è stato tattico, non ab-biamo messo il campo V a 8.500 metri,

perché una notte lì ci avrebbe stremato,ma scelto una posizione intermedia a7.100. Con una salita vertiginosa siamoarrivati in cima. All’epoca l’Hillary step,l’ultimo dente che porta sull’Everest,non era ancora assicurato. Eravamo le-gati, ma se uno fosse precipitato, l’altroavrebbe dovuto lanciarsi dall’altro ca-po della cresta. Era l’unico modo persalvarsi. Su quel versante il vento soffiaverso il basso, se cadi sei finito».

Quell’avventura chiuse un secolo ene aprì un altro. Il grande problema del-l’Himalaya era risolto. La vera impresaperò era tenere insieme le due epoche.Messner strappò, ricucì, rilanciò. Fu ilprimo a capire l’importanza dell’alle-namento specifico, ma anche il primo arifiutare l’ossigeno. Vecchia anima,spirito nuovo. Capacità d’inventare esperimentare. Un ultimo Ulisse, cheper quella montagna aveva lasciato stu-di e ragazza. L’Everest era la sua osses-sione. Ci ritornò nella maniera più durae pura nell’80: da solo, sempre senza os-sigeno, salendo dal versante nord (nes-suno l’ha più ripetuta). E lassù: «Mi ac-cuccio, sentendomi duro come unapietra. Voglio solo riposarmi, dimenti-care tutto, sono svuotato». Scriverà cheè caduto in un crepaccio e di una provache è «una continua agonia».

Sessant’anni dopo l’Everest ha piùvie di accesso, molto traffico e un turi-smo d’alta quota, anche più di 150 per-sone al giorno. Oltre seimila i visitatoriche ce l’hanno fatta, più di 200 le vitti-me. Da fine marzo alla prima settimanadi giugno, ci sono le stesse code che incittà. L’anno scorso il Nepal ha rilascia-to 325 permessi, da minimo 10mila dol-lari l’uno. Non è più una vetta solitaria,ma un’autostrada per spedizioni com-merciali. Con corde fisse. In elicotterocosta 70mila euro. Una Disneyland dal-l’aria rarefatta, una gita con cui farsigrandi, un falò ghiacciato di vanità. Untrofeo per chi cerca conferme e unicità:il primo disabile, il primo cieco, la pri-ma donna, il primo a scendere con glisci, il primo con il parapendio, il primo(scemo) a provare a salire in tenuta bal-neare, in sandali, calzoncini corti e atorso nudo. Perché l’Everest è un mitoche innalza, ma ormai anche una salitapiena di spazzatura e zombie. Aria Sot-tile di John Krakauer denunciava i cac-ciatori di vette: 15 vittime nel ’96. Chimuore viene lasciato lì, anche chi non

Una conquistalunga sessant’anni

EverestLE IMPRESE

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Da Edmund Hillary, il primo uomo ad aver toccato la vetta più alta del pianeta, a Simone Moro, l’alpinista

che un mese fa è stato aggredito da alcuni sherpagelosi del nuovo business. Ecco come

il Tetto del mondo si è trasformato nella Disneyland degli Ottomila

EMANUELA AUDISIO

Allo spilungone magro,neozelandese, di pro-fessione apicoltore,scappò solo una parola.«L’abbiamo battutoquel bastardo». L’altro,

il piccolo nepalese, gli strinse la mano:non sapeva né leggere né scrivere, macapiva le lingue. E credeva che lassù, sulTetto del mondo, ci abitassero gli dei,per questo si affrettò a lasciare una stec-ca di cioccolato, biscotti e dolciumi.Non voleva si arrabbiassero. L’Everestche i monaci tibetani chiamavano Cho-molangma, Madre dell’universo, nonera più casa loro. Si era fatto mettere ipiedi in testa. Sessanta anni fa le divi-nità furono sfrattate. A 8.848 metri ar-rivò per la prima volta l’uomo.

Erano le 11,30 del 29 maggio 1953.Non tirava vento, non giravano aerei,non c’era folla. Il giorno dopo a Londraci sarebbe stata l’incoronazione dellaregina Elisabetta. L’Everest a quei tem-pi era la Luna: lontana e irraggiungibi-le. Su c’erano le stelle, giù lo strapiom-bo. Edmund Hillary, 33 anni, e lo sher-pa Tenzing, 39, rimasero sulla cima hi-malayana per quindici minuti. Aveva-no le dita rigide, in pancia succo di li-mone zuccherato, gallette e sardine, esulle spalle uno zaino con venticinquechili, bombola d’ossigeno compresa.La spedizione era diretta da un colon-nello britannico, John Hunt: dieci alpi-nisti più un medico, 350 portatori perdieci tonnellate e mezzo di materiale.Come ogni prima volta c’era la pauradell’ignoto, si camminava ai bordi digeografie sconosciute. L’Everest avevaringhiato a undici spedizioni, e si erasbarazzato nel ’22 anche di Mallory e Ir-vine. Poveri sognatori d’infinito, magrandi raccontatori di quel miraggio:«Al crepuscolo l’Everest splende comela stella solitaria di Keats».

1973

Primi italianigli alpiniMirko Minuzzoe Rinaldo Carrel

1953

Primi in vetta:Edmund Hillary(Nzl) e TenzingNorgay (Nepal)

1975

Prima donnain vetta:Junko Tabei(Giappone)

1980

Primo uomoin solitaria:ReinholdMessner (in foto)

1988

Primo disabilein vetta:Tom Whittaker(Gran Bretagna)

1996

Primo in vettain bicicletta:lo svedeseGoran Kropp

2000

Prima discesasugli sci:Davo Karnicar(Slovenia)

2001

Primo non vedente:Erik Wehienmayer(Usa)

Repubblica Nazionale

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DOMENICA 26 MAGGIO 2013

Edmund HillaryIl mio primo sentimento fu di sollievo,il sollievo di non avere più gradinida intagliare, creste da attraversare,salti da aggirare, speranze troppo prestodeluse di toccare la vetta. GuardaiTenzing e, malgrado il passamontagna,gli occhiali, la maschera incrostatadi ghiaccio che gli nascondevano il viso,non ci si poteva ingannare: una gioiafolle s’era impadronita di lui. Ci demmouna stretta di mano, poi Tenzingmi gettò le braccia attorno alle spalle,e ci demmo grandi colpi sulla schienafino a perdere il fiato. Erano le 11,30La scalata della cresta ci aveva presodue ore e mezza, ma c’era sembratoche durasse tutta una vita...

(29 maggio 1953)

IL LIBRO

EverestIn vetta

a un sognodi Simone

Moro (Rizzoli

336 pagine

35 euro)

IL LIBRO

La conquistadell’Everestdi John Hunt

(Castelvecchi

282 pagine,

19,50 euro)

Simone MoroL’Everest è ormai diventato una metadi pellegrinaggio di numerosi alpinistiprovenienti da tutto il mondo C’era da rimanere allibiti dalla lunghezza ininterrotta della fila;erano tutti agganciati o appesi alla stessa corda e agli stessi chiodi di ancoraggio. C’erano circa duecentopersone e la velocità era di due, tre passi e poi un minuto di pausaDai loro sguardi si capiva la loroimpotenza in quella marcia tanto lentada sembrare uno strazioFu in quel preciso momento che capiiche dovevo fermarmi e rinunciareIn quell’istante, il mio Everest morivae decisi che non avrei continuato a salire

(24 maggio 2012)

2003

Prima donna

italiana:ManuelaDi Centa (foto)

2003

Donnapiù giovane:Ming Kipa(15 anni, Nepal)

2010

Uomopiù giovane:Jordan Romero(13 anni, Usa)

2011

Record di ascese:il nepalese Apa Sherpa salito21 volte ( in foto)

2004

Record velocitàdi Pemba DorjeSherpa (Nepal):8 ore e 10’

2013

Prima donnaaraba:Raha Moharrak(Arabia Saudita)

2013

Uomopiù anziano:Yuichiro Miura (80 anni, Giapp.)

2012

Donnapiù anziana:T. Watanabe (73 anni, Giapp.)

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‘‘1953 21956 41960 31963 61965 91970 41973 101988 501993 1292007 6332012 550

(anno e scalatori in vetta)

ce la fa più: Croce Rossa e pompe fune-bri non esistono. Mario Curnis, berga-masco, è uno dei nonni dell’Everest. Ciè salito, al terzo tentativo, nel 2002 (conSimone Moro): a 65 anni e 157 giorni.«Per evitare di andare via di testa mi eroportato un cartoncino pieno di scrittesciocche: con età, nome e indirizzo sba-gliato. Sapevo che nel momento in cuil’avrei trovato giusto sarebbe stata lamia fine. Significava che non ero più ingrado di ragionare. Come quelli chestanno lì, abbandonati, in una posapensierosa. I morti. Di edema cerebra-le. Congelati. Tanti giovani. La stradaper l’Everest ne è lastricata. Fanno ef-fetto. Sembra stiano riposando». L’Eve-rest va rispettato, dice, non comprato.

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1953 - 2012: 6.206 SCALATORI ARRIVATI IN VETTA

IL TREND

Totale morti 243(1922-2013)

1/10 morti

per arrivati in vetta

15 i morti nell’anno

più nero (1996)

NUMERI

633 gli scalatori in vetta nell ‘anno record (2007)

63mila-140mila costo medio di una spedizione pro-capite

45 le nazionalità rappresentate in vetta

29% percentuale di successo dal 1922 al 2006

(3 mila in vetta su 11 mila tentativi). La percentuale

scende al 20% non contando gli sherpa

18 MAGGIO 2012

Una fila indiana verso la cima

dell’Everest in una foto scattata

il 18 maggio dell’anno scorso

in un solo giorno possono salire

sulla vetta anche 169 scalatori

(record raggiunto nel 2010)

Fonte www.adventurestats.com

C’è ressa e rissa, oggi. In quella cheera la valle del Silenzio, tutti spingono,gli sherpa vogliono gestire business eclienti. Simone Moro ci è salito quattrovolte sulla cima. Ne ha scritto in Evere-st. In vetta a un sogno (Rizzoli). Un me-se fa con i suoi compagni è stato aggre-dito, sassi, botte, perfino una pugnala-ta, da sherpa gelosi e vogliosi di gestirel’affare dell’anniversario. Messner eMoro sono d’accordo: «La più alta dellemontagne è ridotta a un grande circo».Sessant’anni fa l’Everest era lì: terribilee magnifico. Un gigante per altri gigan-ti. Oggi è qui, uno scalpo per gregari.

I TENTATIVI FINO AL 2006

*

*

Dal 1979 la Cina ha aperto

agli scalatori il versante tibetano

Repubblica Nazionale

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RADICONDOLI (Siena)

«Il suo destino di musicista glifu chiaro fin da quando era ra-gazzo, e l’ha seguito conser-vando fino all’ultimo la capa-

cità di sorprendere e sorprendersi, e di nondare niente per scontato, neanche i successiche crescevano ovunque con gli anni». Nonc’è alcun compiacimento nelle parole con cuiTalia Pecker, moglie del compositore LucianoBerio, descrive l’identità “vocazionale” delmarito, scomparso dieci anni fa, il 27 maggio2003. Il vuoto che ha lasciato non si colma,perché è difficile eguagliare la sua genialità ta-gliente e la sua spregiudicata curiosità intel-lettuale. Creatore sempre significativo, Berioaveva un’idea del proprio mestiere estranea atorri d’avorio, il che fece di lui anche un per-sonaggio molto attivo nella vita musicale ita-liana e incisivo nel dibattito sociale e cultura-le del nostro tempo. Ma prima di ogni altra co-sa era un musicista vero, mosso da una sorte“naturale” che non gli avrebbe mai dato scel-te differenti. Quest’investitura è all’originedel suo ruolo di compositore tra i massimi delventesimo secolo.

Il ricordo di Luciano è vivido nella sua casadi Radicondoli, immersa nei colori nella cam-pagna senese. Pare di vederlo aggirarsi col si-garo in bocca e la consueta irruenza negli spa-zi luminosi del suo studio, coi fogli di musicaaffollati sui grandi tavoli. A volte dava l’im-pressione di fare dell’aggressività uno stato li-beratorio: «Non era aggressivo, ma molto de-terminato», sostiene Talia. «Non sopportava la

stupidità, la falsità e le moine». Era sorretto daun’energia leggendaria, notò il suo amico Um-berto Eco: «Energia in senso stendhaliano,perché Luciano l’ha profusa non solo nelle suecreazioni musicali, ma in ogni aspetto della vi-ta». La villa di Radicondoli costituiva il luogoprediletto del ritorno di un cosmopolita recla-mato in tutto il mondo. Qui produceva un vinodi cui andava fierissimo: «Una critica al suo vi-no lo offendeva più di un mancato compli-mento alla sua musica», riferisce Talia sorri-dendo. Nata a Tel Aviv, quest’affermata musi-cologa è madre di Daniel e Jonathan, gli ultimidue figli di Berio, che complessivamente ne ha

avuti cinque. «Conobbi Luciano in Israele,quando avevo appena finito i miei studi e se-guivo un seminario sulla musica contempora-nea che riguardava la sua opera. Fu un grandeamore dal primo istante, però impiegai più didue anni a decidere di trasferirmi prima a Pa-rigi, poi in Italia».

Talia insegna Storia della musica e Musicolo-gia all’Università di Siena e presiede il CentroLuciano Berio, fondato nel 2009, punto di rife-rimento per l’attività scientifica rivolta all’ope-ra e al pensiero del musicista, i cui manoscrittioriginali sono conservati nella FondazionePaul Sacher di Basilea: «Il nostro Centro lavora

su diversi fronti e con l’apporto di giovani stu-diosi italiani e stranieri. Tra le nostre iniziativec’è l’edizione di tutti i suoi scritti in tre volumiper Einaudi, di cui il primo, Un ricordo al futu-ro, uscito nel 2006, riunisce il ciclo di “lezioniamericane” tenute da Berio per la Norton Chairdi Poetica di Harvard. Gli Scritti sulla musica, acura di Angela Ida De Benedictis, usciranno ilprossimo autunno, e la raccolta delle sue inter-viste verrà pubblicata tra due anni».

Uomo di mare («fu una delle sue passionipiù forti»), era nato nel 1925 a Oneglia, in Ligu-ria, e come musicista si affacciò presto su unaMilano che sospettava delle innovazioni. Ne-gli anni Cinquanta, il pubblico fischiava anco-ra per protesta quando sentiva la musica diSchoenberg. E quando, nella stessa città, Beriopresentò Passaggio su testo di Edoardo San-guineti (1963), alcuni spettatori della PiccolaScala fuggirono urlando «Centro sinistra!». Al-l’epoca Luciano figurava già in prima lineanella Nuova Musica, ma il suo rapporto liberoe avventuroso con la sperimentazione subor-dinava i dogmi imperanti in quel periodo a unaricerca sulle qualità concrete della materia so-nora (nel mitico Studio di Fonologia della Raidi Milano, che aveva fondato con Bruno Ma-derna), sulla gestualità vocale e strumentale esulle potenzialità della musica elettronica.Quest’atteggiamento sarebbe sfociato in lavo-ri attraversati da un culto dell’interdisciplina-rietà che lo aveva portato a interessarsi di let-teratura, etnomusicologia, antropologia e lin-guistica. E con la stessa ampiezza di sguardoaffrontò una grande varietà di materiali, daquelli provenienti da tradizioni orali di cantopopolare fino alla musica dei maestri occiden-tali. Tra l’altro Berio fu il primo dei musicisti

LA DOMENICA■ 36

DOMENICA 26 MAGGIO 2013

Spettacoli

BerioLuciano

Il musicistacontemporaneo

LEONETTA BENTIVOGLIOF

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Negli anni ’60 c’era chi fischiava ai suoi concerti. Lui, artista per destinoe sperimentatore per indole, ha guardato avanti. A dieci anni dalla mortela moglie apre a “Repubblica” le porte della casa-rifugionella campagna senese. Dove coltivava un altro amore, quello per il suo vino

Avanguardie

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Repubblica Nazionale

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contemporanei a occuparsi di rock (come di-mostrano i suoi arrangiamenti di canzoni deiBeatles e il saggio Commenti al rock) e a inte-ressarsi ad aspetti diversi della cultura di mas-sa, alla vita delle istituzioni e ai problemi del-l’educazione musicale. Fu intenso e generosoil suo rapporto col teatro, a fianco di Sangui-neti, Italo Calvino (La vera storia, 1977-80, Unre in ascolto, 1979-83), Dario Del Corno (Outis,1995-96) e la stessa Talia, autrice del testo diCronaca del Luogo, presentata a Salisburgo nel1999. È lei a dirci che «in Berio il teatro è il ter-ritorio per eccellenza in cui far confluire lamolteplicità delle esperienze della realtà», e adaffermare la complessità di un pensiero di-stante da logiche postmoderne nel rapportocon la tradizione del passato: «Credo che l’o-pera di Berio nel suo complesso, grazie e al dilà delle innovazioni linguistiche e della poeti-ca molto personale, resterà come una grandetestimonianza di vicende esistenziali, sociali emorali del secondo Novecento».

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DOMENICA 26 MAGGIO 2013

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LE INIZIATIVE

Tanti appuntamenti a dieci anni dalla morte

di Berio tra cui l’uscita, per Feltrinelli, del ciclo tv

C’è musica e musica. Tra gli omaggi dal vivo

domani a Milano, l’Orchestra Verdi esegue

Folk Songs, tre Sequenze e altri brani

Martedì è il “Berio Day” del Maggio Fiorentino

Il 19 giugno tocca al Ravenna Festival

e il 5 ottobre alla Biennale Musica di Venezia

Info su lucianoberio.org

ALLA CHITARRA

Berio a Oneglia

(1946) e, nell’altra

pagina, occhiali

scuri, a Darmstadt

insieme a Cathy

Berberian,

Karlheinz

Stockhausen

e Luigi Rognoni

(1956). Sopra,

la prima redazione

di Eugeneticamusicale e gastronomiadell’impegno(1964) e, a sinistra,

partitura

per Passaggio(1962). In alto,

nella pagina

di sinistra, schizzo

per Circles (1960)

I DOCUMENTI

Le partiture e gli schizzipubblicati in queste pagine per gentile concessionedella Fondazione Paul Sacher, Fondo Luciano Berio. Le foto tratte dal sito lucianoberio.org

SUL PODIO

Al centro, Berio

al Festival d’Automne

di Parigi (1977)

Qui accanto,

con Talia Pecker

al Festival di Salisburgo

(1999). Sopra, a sinistra,

schizzo per Formazioni(1987). Qui sotto,

caricatura di Beethoven

firmata da Berio (1974)

In basso, un testo

su Beethoven scritto

dal maestro nel 1998

LUCIANO BERIO

. .. perché il suo spirito è sempre in noi,anche quando non possiamo più

percepirlo (riconoscerlo, saperlo, vederlo)o quando è trasformato nel suo oppostoo in qualcosa di completamente nuovo

e diverso... perché è stato il primo a sperimentare (tentare, esplorare,

applicare, avventurarsi dentro) la dialettica dello sviluppo

il conflitto... perché la sua musica non ha bisogno di nulla, neppure

della memoria, è lì (sempre) eterna, celatain ogni piega della nostra esperienza(del nostro essere) musicale... perchéla vastità della sua visione, la novità

del suo pensiero, l’altezza delle sue ideehanno messo nelle nostre mani

un incomparabile strumentodi consapevolezza intellettuale...

perché il suo spirito ha generato forme,forme che sono il processo

compositivo, non il suo sempliceinvolucro, forme scaturite dalla struttura,

forme soggiogate (sopraffatte)dalla struttura, forme inesistenti

come tali... perché con luiil dialogo (amabile) tra polifonia e armonia

fu interrotto per sempre,facendo nascere altri modi di dire

dove tutto è trasformato e una nuova dignità è acquisita...

perché Beethoven era sordo a ciò che è superfluo... perché.

Perché Beethoven

Repubblica Nazionale

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DOMENICA 26 MAGGIO 2013

RICCARDO LUNA

SAN MATEO (Silicon Valley)

Nel mondo scosso dalla disoc-cupazione a San Mateo, cuo-re della Silicon Valley, all’im-provviso arriva un vecchio

rivoluzionario come Lee Felsenstein, unoche dalla rivolta di Berkeley nel 1964 a ogginon se n’è persa una, dice, e dal palco scan-disce: «Se il lavoro deve diventare un gioco,beh allora gli strumenti per lavorare devo-no diventare giocattoli!». Gioco? Giocattoli?E solo allora ti rendi conto davvero che laMaker Faire non è soltanto il carnevale de-gli hobbisti, la fiera dello steampunk, l’esi-bizione dello strano-ma-vero e il summitdegli smanettoni. No, la Maker Faire è l’in-cubatore di un altro mondo. Un posto doveuna delle star è Joey Hudy, un ragazzino disedici anni che ha costruito un cannonesparacaramelle e che al presidente degliStati Uniti Barack Obama un anno fa ha da-to il suo biglietto da visita dove c’era scritto:“Do not be bored, make something” (non an-noiarti, fai qualcosa). E quella frase adessoè stampata sui braccialetti e le t-shirt comese fosse l’I have a dream di Martin LutherKing.

Make è la parola magica, il nuovo sogno:fare invece di annoiarsi. Fare qualcosa,qualsiasi cosa. Persino pedalare in gruppoper produrre l’elettricità che serviva ad am-plificare la musica rock. A un certo puntopare che un bambino abbia detto: «Papà, ionon voglio vedere i robot. Io voglio fare i ro-

bot». E icirca 120mila ospiti del-la Faire — record dipresenze — se lo rac-contavano fieri dandosi di gomi-to: quel bimbo ha capito tutto, faràanche lui, come noi, la rivoluzione.Perché di questo stiamo parlando: laterza rivoluzione industriale, infatti, va-ticinata ormai da un po’, avrebbe qui il suocuore pulsante. Nella cultura del fare. Negliinventori, negli artigiani, negli innovatori. Epersino nei riparatori perché tutto si riparae niente si distrugge.

E per quelli che dicono che questo sbatti-mento entusiasta non servirà a farci usciredalla crisi, il conduttore televisivo Adam Sa-vage è arrivato a bordo di un gigantesco dra-go sottomarino, si è issato sulla gobba delmostro tra i lazzi dei presenti e ha quindi let-to un discorso serissimo il cui senso era:Work hard, work smart. Lavorate tanto, la-vorate meglio. E la folla non gli ha tirato unhotdog. Non gli ha detto: tornatene a casa,tu, che guadagni soldi facili in tv mentre noisgobbiamo. No: la folla ha applaudito. «Sì!Hai ragione! Dobbiamo lavorare di più emeglio!».

Poco prima del professor Felsenstein,quello del lavoro che è diventato un gioco, ilsabato era stato il turno dell’amministrato-re delegato del colosso del software Auto-desk, Carl Bass. Si è presentato col berrettoda baseball sbilenco per sembrare più figo,e ha arringato i bambini dicendo loro: «Sefate i bravi, a Natale papà e mamma vi com-

IN ITALIA

Il movimento

dei makers

arriva anche

in Italia: a Roma,

dal 3 al 6 ottobre,

ci saranno

i migliori esponenti

europei (www.maker

fairerome.eu/it/

La lampada che è in grado

di cambiare forma a seconda

della stanza e del contesto

in cui si trova: si chiama

Lumio e si può ripiegare

proprio come un libro

Stampare una bambola

con una stampante 3D:

lo fa makie.me, è sufficiente

mandare il disegno del personaggio

dei propri sogni e aspettare

che venga realizzato

Il micro pannello fotovoltaico

fai-da-te: per realizzarlo

è sufficiente comprare

una Solar Pocket Factory,

una macchina che ne stampa

uno ogni 15 secondi

Uno dei trend è il riuso di cose

vecchie: “Make” ti insegna a fare

un cannone sparacaramelle

con un tubo in Pvc

(oppure ne compri due per 15

dollari)

I droni da campagna

servono a sorvegliare i campi

con foto in alta definizione

Sul sito 3D Robotics

per 600 dollari

NextEureka 2013

Il cannone sparacaramelleo l’elicottero pensiero-guidato?Non è il gran circo dello strano-ma-vero La “Maker Faire” è il luogo in cui si creano mondi nuovi. Ci siamo stati. Per scoprirecosa si stanno inventando

Il futuro è tutto da fare

Repubblica Nazionale

Page 11: LA DOMENICA - la Repubblicadownload.repubblica.it/pdf/domenica/2013/26052013.pdf · musica è dopante. Io l’ascolto sempre quando studio: rock, Biagio Antonacci, Ligabue, Jovanotti…».

Maker Arduino Crafter Diy Open

■ 39

DOMENICA 26 MAGGIO 2013

Microcontrollore

da pochi euro,

inventato a Ivrea

otto anni fa,

oggi è diventato

la base

di quasi tutti

i progetti elettronici

dei maker

Sono gli artigiani,

l’altra faccia

dei maker, quella

non elettronica:

rinvigoriti

dalla rete

e dai social media

hanno trovato

nuovi mercati

Sta per

do-it-yourself,

ovvero fai-da-te

È un caposaldo

della cultura

americana:

tiene assieme

chi fa giardinaggio,

bricolage e cucito

Vuol dire “aperto”

È la parola magica

di questo mondo

Tutti i progetti

sono sempre aperti,

senza segreti

e condivisi

in Rete (per esempio

su Instructables)

È “uno che fa”:

negli Stati Uniti

questo nome

riunisce artigiani,

inventori,

appassionati

del fai-da-te

preran-no una

bella stam-pante 3D». E que-

sti bambini, figli dellaSilicon Valley ma non solo, han-

no esultato perché la stampante 3Dè il loro nuovo sogno, così ti puoi stam-

pare il giocattolo che vuoi, lo disegni sulcomputer, usando i programmi di Autode-

sk magari, che tanto sono gratis per chi fat-tura meno di 250mila dollari l’anno, e lostampi. I venditori di giocattoli sono avver-titi: meglio se iniziano a fare qualcos’altro.Del resto la rivoluzione non è un pranzo digala, si diceva un tempo.

Questa, annunciata con entusiasmo daserissimi osservatori come Chris Andersonche qualche mese fa ha lasciato la direzionedi Wired per dedicarsi a 3D Robotics, la suanuova azienda di droni per l’agricoltura,per adesso assomiglia a una festa di scuola:è un tripudio di razzi, trenini, bolle di sapo-ne giganti, costruzioni Lego senza fine edesperimenti scientifici bizzarri alquanto.Per dire: avete mai visto un Notturno diChopin suonato pigiando su delle banane?E un elicottero radiocontrollato con il pen-siero? Ecco. Ma accanto a questo a San Ma-teo c’è tanta voglia di apprendere. Lezioni

per fare il formaggio in casa. Di-mostrazioni di cucito. Persinoun premio Nobel per la Fisicacome Arno Penzias si è messoin gioco presentando la sua

soluzione per il nodo alla cra-vatta perfetto. Le cose fatte be-

ne, alla perfezione, sono una ossessionemolto diffusa. Ma è al corso per imparare asaldare i circuiti elettrici che la fila non fini-va mai. Mai. Perché poi, folklore a parte, èl’elettronica la forza trainante di questomondo, il motivo per cui molti dicono chela prossima Google, la prossima Facebook,non sarà legata al web ma sarà un’invenzio-ne “fisica”: una lampada che cambia colorein base alla nostra faccia, un braccialettoche misura lo stress, o anche una macchinavolante o un’astronave solare visto che imakers considerano lo Spazio cosa loro daquando il governo americano ha chiuso irubinetti dei soldi.

«Sicuri che ci serva un’altra applicazioneper condividere le foto con il telefonino enon invece uno strumento che salvi la vitadelle persone e cambi il mondo?» è stato illeit motiv della conferenza Hardware In-novation a San Francisco, subito primadella Maker Faire. Quel giorno il leader diquesto movimento, Dale Dougherty, chenel 2005 si è inventato il magazine Makeperraccontare progetti di cose da fare «e da lì èiniziato tutto», aveva invitato i migliori in-vestitori della Silicon Valley ad ascoltare imakers più promettenti. Sul tavolo hannotrovato anche un robusto report sul busi-ness dei makers. Quanti soldi hanno già fat-to, per esempio Bre Pettis, l’inventore del-la stampante 3D MakerBot; o Limor Fried,che grazie al successo della sua AdaFruit èdiventata una interlocutrice della CasaBianca sull’innovazione. Ma soprattuttoquanti se ne faranno da adesso in poi: laprossima compagnia da un miliardo di dol-

lari verrà dalla Maker Faire, è la scommes-sa della Silicon Valley.

Lo scenario può apparire molto ameri-cano, anzi molto West Coast, ma è un erro-re. Lo scorso anno si sono fatte ben cin-quantasei Maker Faire in sedici paesi delmondo, la Cina pullula di makers e ad otto-bre il movimento arriva in Italia, a Roma,dove sono stati invitati i migliori esponen-ti europei. Non è un caso. Uno degli artefi-ci di tutto ciò è l’italiano Massimo Banzi,ingegnere elettronico mancato, che noveanni fa a Ivrea, con quattro soci, ha inven-tato Arduino, un microcontrollore da 20euro che è diventato la piattaforma per fa-re ogni tipo di progetto. Robot, occhiali aled, strumenti musicali, lampade, irrigato-ri e persino satelliti: sono decine di migliaiai progetti che si vantano di usare un Ardui-no. Il limite è la fantasia. Alla Maker Faire diSan Mateo «Massimo» (tutti lo chiamanosolo così) è stato accolto come una star. An-che perché è stato uno dei primi a sceglie-re di condividere in Rete il progetto apren-do quella che oggi è considerata la stradaper la cosiddetta Open Innovation. Oltreun milione di schede dopo, però, qualcosaè cambiato. Quando un hobby diventa bu-siness, la community non basta più per sta-re a galla perciò Banzi sta provando a co-struire una vera azienda. E così le primeschede di Arduino erano prodotte a Ivrea,e avevano stampato sopra la sagoma dell’I-talia: un motivo di orgoglio. L’ultima, pre-sentata a San Mateo, si chiama Yùn. Ed èfatta in Cina.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Una volta c’erano gli aeromodelli

radiocomandati: ora c’è l’elicottero

che può essere guidato col pensiero

Lo realizza, con un costo al pubblico

di 189 dollari, la Puzzlebox Productions

Anche le stampanti 3D

ormai hanno prezzi accessibili,

ma con Ultimaker si può comprare

un kit e costruirsene una da soli:

costa 1194 euro

Finalmente l'integrazione

di Arduino, Linux e Wifi: ecco Yùn,

un made in China per robot

e altri oggetti collegati alla Rete,

al prezzo di 69 euro

Dicono alla Nomiku che la migliore cucina

sia ad acqua, infilando cioè il cibo

in una busta speciale

e mettendola in acqua

dentro una speciale pentola

Metti la competenza di ingegneri

ex Nasa e Apple e avrai Blossom:

una macchina del caffè

che seleziona ogni chicco

(e costa undicimila dollari)

GLOSSARIO

Repubblica Nazionale

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All’inizio, fu un contenitore resistente alla cottura e rigorosamente chiuso,privo però degli impacci termici legati all’uso di bachelite, plastica, legno.Oven safe, direbbero gli inglesi, ovvero infornabile. Il passo successivo fuassottigliare il materiale del contenitore, fino a renderlo sottile come unfoglio e modellabile come una carta. L’idea, quella di concentrare caloresul contenuto, riducendo al minimo l’ingombro esterno e il suo assorbi-

mento di energia.Il cartoccio è un mirabile esempio di cucina fai-da-te, nel senso che gli ingredienti ven-

gono messi tutti insieme — almeno nelle ricette-base — e tutti nello stesso momento.Una volta stretto il nodo in cima al fagottino o ripiegate le alette, i giochi sono fatti e si puòsolo attendere, sperando che il forno restituisca il nostro assemblaggio a crudo trasfor-mato in un piatto profumato e appetitoso.

Difficile immaginare un sistema più semplice, efficace e sano per cuocere i cibi. Quel-lo straordinario computer gastronomico che è il nostro palato ben conosce — e ricono-sce — la magìa degli abbinamenti. Il guaio è che spesso le preparazioni non coincidononei tempi o nei condimenti. Da una parte le verdure, dall’altra le proteine. La pasta sepa-rata dai suoi sughi. La frutta ben rimpolpata di dettagli golosi, per evitare l’effetto conva-lescenza. Condensare umori e sapori in pochi centimetri quadrati sigillati fa il miracolo.

Perché nulla, nemmeno una molecola di oli essenziali viene dispersa: tutto il meglio re-sta lì, avviluppato all’interno di uno scrigno caldo e protettivo.

Dici cartoccio e pensi al pesce, troppo spesso mortificato da cotture violente o insi-pienti. E alle verdure, che hanno appena cominciato la loro stagione trionfale. In realtà,si può accartocciare tutto o quasi, modulando tempi e temperature, dagli spiedini po-modoro-provola-olive ai finti crumble di ciliegie e biscotti sbriciolati. I più bravi, calco-lando i minuti di cottura in maniera certosina, arrivano a impacchettare perfino la pasta,ricavandone delle forchettate di spaghetti perfettamente al dente. Quanto al contenito-re, l’irrompere sul mercato della carta-fata ha squadernato ogni certezza. Se un tempodominavano l’alluminio — che però non ama né i grassi né il sale — e la carta pergame-nata (spennellata d’extravergine), oggi il percorso dal forno alla tavola resta intatto e cri-stallino: trasparenza e mantenimento della forma voluta permettono di servire la ricettadirettamente nel cartoccio, senza dispersione di liquidi. Tutto questo riesce perfino faci-le dopo un po’ di pratica, a patto che le materie prime siano buonissime, obbligate comesono a dare il meglio di sé senza scorciatoie: frutta e verdura bio, pesci di lenza o da alle-vamenti estensivi, polli e mucche felici, formaggi a latte crudo. In caso di crisi creativa, unazucchina rotonda, scavata e farcita con ciuffi di calamaro spadellati, ricotta, timo, rin-chiusa nella carta, infornata e spalancata dopo un quarto d’ora nel piatto, si tradurrà inuna cocotte irresistibile, tutta da mangiare. Con un bicchiere di bianco, naturalmente.

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LA DOMENICA■ 40

DOMENICA 26 MAGGIO 2013

Impacchettare, infornare, cronometrare. Difficile immaginareun sistema più semplice, efficace, sano e gustoso per cuocerenon solo il pesce o le verdure, ma qualsiasi cibo

Ecco alcuni esempi, dagli spiedini di pomodoro-provola-oliveai finti crumble di ciliegie con biscotti sbriciolati

I saporiInfagottati

AlluminioIl più malleabile da usare,

ma con le precauzioni

(scritte in etichetta)

legate all’utilizzo

con ingredienti ricchi

di grassi e di sale

Il libroLe foto di Nathalie

Carnet che illustrano

queste pagine sono

tratte da Al cartoccio

di Sandra Mahut

(Guido Tommasi

editore, 190 pagine,

25 euro)

Carta fornoDisponibile in rotoli

di larghezza diversa

e con fogli pre-tagliati

La versione bio richiede

una spennellatura

preventiva con olio o burro

FoglieFico, vite e banano

regalano involucri perfetti

per “impacchettare”

in maniera naturale

Quelle di limone rilasciano

oli essenziali profumati

SiliconeSi possono usare

fogli di varia grandezza,

oppure piccoli

contenitori preformati,

tipo gli stampini per muffin,

però richiudibili

Carta fataHa consistenza croccante

ed è totalmente trasparente

Nelle ricette più eleganti,

i fagottini si legano

con filamenti

d’erba cipollina

Razzaagli agrumiAglio e scalogno,i filetti di pesce,spicchi di agrumi,zenzero e vino bianco

Triglieall’acciugaAcciughe sotto sale,

mescolate con burro,

basilico e pepe,

tra due triglie e pomodorini

Abbinamenti magici in un caldo scrignoLICIA GRANELLO

Cartoccioal

Melanzanea sorpresaSvuotate e riempite con salsiccia, carne trita,timo e con un cucchiaiodi crème fraîche

Repubblica Nazionale

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DOMENICA 26 MAGGIO 2013

Merluzzoal tandoori masalaMarinatura a base di yogurt,

olio extravergine

e spezie. Si inforna

con cimette di broccolo

PollofarcitoRicotta, pinoli e basilico,per imbottire i petti incisia mo’ di tasca. Qualchepomodoro semi-secco

Gli indirizzi

LOCANDA TRAMONTI

Via della Chiesa 56

La SpeziaTel. 0187-758514

Camera doppia da 100 euro

MARINA PICCOLA (con cucina)

Via Birolli 120

Fraz. Manarola (Riomaggiore)Tel. 0187-762065

Camera doppia da 120 euro

VILLA CATERINA

Località Pie’ di Gallona

LevantoTel. 0187-804013

Camera doppia da 60 euro

CAPPUN MAGRU

Via Volastra 19

RiomaggioreTel. 0187-920563

Menù da 38 euro

LOCANDA MIRANDA

Via Fiascherino 92

Fraz. Tellaro (Lerici)Tel. 0187-968130

Menù da 30 euro

PICCIARELLO

Viale Fieschi 300

La SpeziaTel. 0187-779237

Menù da 30 euro

GASTRONOMIA

LUIGINA

Via Dante 16

LevantoTel. 0187-807441

ROSTICCERIA

CERONE

Via Vittorio Veneto 24

La SpeziaTel. 0187-732933

ENOGASTRONOMIA

LE DUE LUNE

via Casteuccio 24

SarzanaTel. 0187-6217

Credetemi, in Liguria il pesce al cartoccio è storia da ristoranti conclientela straniera e non da cucine di casa, e comunque è una faccen-da di cuochi svogliati e clienti di salute malferma e impreciso olfatto.

Se uno mette le mani su del pesce davvero fresco, e pesce di quello vero, pe-scato e non raccolto in un orto di mare, non è così stupido da incartarlo magli toglie un po’ di buzzo e lo sbatte su una gratella che è ancora madido diacqua di mare. E se per caso il pesce è della pezzatura giusta, se è triglia o ac-ciuga o boga o occhiatella, o pignéi (novellame) allora gli appetenti in salu-te si danno alla frittura. Che modo migliore non c’è, perché la frittura nobi-lita una suola di scarpa se è il caso. Quelli del cartoccio dicono che fa male,lo dicono perché fa male al cuoco, essendo la cottura più difficile e delicata.Lo ripetono i dietologi che hanno in odio il bene e il buono a causa di madrisenza cuore che friggevano nell’olio di morchia. Detto ciò, se non al cartoc-cio, la frittura è certamente cottura alla cartaccia. La cartaccia gialla, la spes-sa, ruvida carta da macellaio, non l’orribile e insipido scottex. E come rice-ve, la carta dà, e il profumo di una frittura è anche vivido sentimento del suoinconfondibile afrore. Per questo va servita e consumata nella cartaccia.Una cartata di acciughe, o di trigliette e pignéi, questo è il tipico piatto ligu-re che dovrebbe essere dichiarato patrimonio dell’umanità.

P.S. Naturalmente, per chi volesse astenersi dal friggere per conto suo nonè che ci siano tante possibilità di godersi una cartaccia di fritto come si de-ve. Dirò solo che per l’asporto a Genova si incontra lungo Sottoripa e tra-verse, a Savona in via Pia stando seduti, a Spezia con vista del golfo a Sarbia.Non faccio nomi perché porta sfortuna.

Elogio della cartaccia (ligure)A tavola

MAURIZIO MAGGIANI

Cartoccio di aragosta in foglia di banano

LA RICETTA

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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Ingredienti per 4 persone

1 coda di aragosta (500/600 gr)

4 asparagi

8 ciliege

1 cuore di sedano

1 foglia di banano

pepe, sale, extravergine

Marinare l’aragosta quattro ore con olio

e acqua di mare (oppure lievemente salata) sottovuoto

Lavare e tagliare con il pelapatate un asparago

e il sedano, poi immergere in acqua e ghiaccio

Quindi togliere la coda di aragosta dal sottovuoto

e cospargere con il pepe. Avvolgere la coda nella foglia

di banano. Cuocere sulla piastra per cinque minuti

su entrambi i lati, finendo la cottura in forno

per altri cinque minuti. Infine, adagiare la coda

di aragosta in un piatto, appoggiare a fianco le verdure

condite con olio e sale, insieme alle ciliegie

Luca Collema

è lo chef patron

di “Baldin”, ristorante

dei gourmet

genovesi,

dove pesce

e verdure

vengono declinati

con creatività, come

nella ricetta ideata

per i lettori

di Repubblica

DOVE DORMIRE DOVE MANGIARE DOVE COMPRARE

Repubblica Nazionale

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PARIGI

Èlui a fare domande, losguardo curioso e impa-ziente in un continuo an-dirivieni tra ieri e oggi, tra

la sua Grecia e la nostra Italia. Incre-dulo, sarcastico davanti alle coazioni aripetere: «I colonnelli, sette anni di in-cubo, dal ’67 al ’74, avevano trovatoconsenso con una promessa-fanta-sma: salvare la Grecia dai comuni-sti...». La sospensione ironica ammic-ca agli slogan di casa nostra: «Ma comepuò la gente continuare a essere cosìingenua? Da voi, per di più, il comuni-smo era diventato, con Berlinguer, unpartito aperto e moderno, con perso-nalità straordinarie come Giorgio Na-politano, che avevo conosciuto e fre-quentato alle Botteghe Oscure».

Nella casina da fiaba dall’intonacorosa, dentro un cortiletto-giocattolonel cuore del Quartier Latin, le rifles-sioni di Constantinos Gavras, univer-salmente noto come Costa-Gavras,ottant’anni compiuti lo scorso feb-braio, sono uno strappo al sottofondoleggero di voci infantili provenientidalla vicina scuola materna. Nell’am-pio soggiorno, tra l’ordinatissima li-breria e i quadri infiammati di colorimediterranei, fa sfoggio di sé unospecchio d’epoca, con la foto in bian-co e nero della moglie Michèle, anchesua produttrice, incollata tra le scheg-ge di un’antica frattura. Incidente do-mestico o opera d’arte moderna? «È lamia riparazione artigianale dopo unbattibecco casalingo con lancio d’og-getti contundenti. L’importante erasalvare lo specchio».

Da quando, cinquantanove anni fa,ha abbandonato la Grecia, dov’era na-to ventun anni prima a Loutra-Iraias,

il regista non ha mai smesso d’interro-garsi, e interrogare, nel suo cinema didenuncia, sulle menzogne del nostrotempo: dove il mondo sembra far dacassa di risonanza a contraddizioni ecolpe del suo Paese, da La confessione,sui processi staliniani, a L’Amerikano,sulle manovre della Cia in America La-tina, a Missing, sul Cile di Pinochet. LaGrecia come test di lebbre planetarie:l’ipocrita silenzio del Vaticano davan-ti all’Olocausto (Amen), il riciclaggiocivile dei criminali di guerra (MusicBox), le bieche trappole speculativedelle banche in Le Capital, che hachiuso con successo il secondo “Festi-val du film engagé” ad Algeri. Tutti ti-toli su cui traspare, luminoso sfregio disfida, una lettera, Z, terzo film di Co-sta-Gavras: «Poteva essere anche l’ul-timo — riflette — e invece è diventatola bandiera di ogni rivolta contro i cri-mini di Stato». Thriller politico pre-miato a Cannes ’69 e Oscar per il mi-glior film straniero. «Z-L’orgia del po-tere, come me l’avete, ahimè, ribattez-zato in Italia, ripercorre la breve para-bola politica di Grigoris Lambrakis,medico, atleta e deputato di sinistra,vittima a Salonicco d’un incidentestradale orchestrato da polizia edesercito su mandato del governo emorto il 27 maggio 1963, alle 2.30: unlunedì notte di cinquant’anni fa».Quella data, minuscolo grumo di ca-lendario nella Grecia di ieri, si allargò,a macchia, sul Paese: «Già il giorno do-po, dalla processione dei quattrocen-tomila ai funerali di Lambrakis ad Ate-ne, si alzava il grido: Athanatos, “im-mortale”. E nei graffiti sui muri co-minciarono a gocciolare le Z, inizialedel greco Zei, “È vivo”». Fu un primo al-larme per la destra, da cui scaturirà ilgolpe del 21 aprile 1967? «Era nell’ariaun po’ ovunque la paura del nuovo,l’ostilità a conquiste civili. Sempre nel’63, qualche mese dopo Lambrakis,viene assassinato John FitzgeraldKennedy a Dallas. JFK non era certo uncomunista. E nemmeno Lambrakis:esponente dell’Eda (Sinistra demo-cratica unita), si batteva per princìpiumanitari, per il riavvicinamento aiPaesi dell’Est e il no alle basi atomicheUsa in Grecia». Il processo, iniziato al-l’indomani dei funerali, filo rosso delfilm, è stato un bel contropiede aicomplotti del potere, alle verità di Sta-to: «Era cominciato male, con un ge-nerale poi condannato per aver eser-citato pressioni sui testimoni. Il giudi-

ce istruttore cui poi venne affidato,Christos Sartzetakis, che stabilì lacomplicità di esercito e polizia, erauno di destra: ma convinto, come giu-dice, che in ogni democrazia primaviene la giustizia, poi il potere politi-co...». Altra sospensione e sguardo in-terrogativo su casi d’attualità di Paesicari e vicini. Nel film, il giudice è Jean-Louis Trintignant, premio per l’inter-pretazione a Cannes: «Fino a quel mo-mento era il belloccio del grandeschermo: è stata la sua prima volta inun ruolo acido, fastidioso. È entrato al-la perfezione nel personaggio. Anchegrazie allo speciale paio d’occhiali chegli abbiamo confezionato: lenti spes-se, ma attraverso cui si può vederel’occhio, indovinare il pensiero». Eperché dunque il film, il terzo da lei di-retto, poteva essere anche il suo ulti-mo? «Perché dopo, come mi avvicina-vo a un produttore quello scappava.

Realizzare Z è stato per me un atto diresistenza. Alla vigilia dell’uscita i co-lonnelli mi tolsero la cittadinanza. Ilromanzo di Vassilis Vassilikos, da cuil’ho tratto, era uscito nel novembre del’66, cinque mesi prima del golpe. Mel’aveva passato mio fratello, amicodell’autore, durante un mio breve sog-giorno a Atene, cinque giorni primadel putch. Ho cominciato a leggerlo inaereo, proprio nelle ore del golpe. At-terrato a Parigi, avevo già il film in te-sta. Senza immaginare la lunga seried’ostacoli al varco». Superati grazie acomplicità e amicizie che poi attraver-seranno gli anni e i film successivi. Pri-ma di tutto Mikis Theodorakis, il mu-sicista di Zorba il Greco e Serpico: «Erain isolamento nel Peloponneso, per-ché nel ’63 s’era messo alla testa delmovimento “Lambrakidès”, organiz-zazione politica con oltre duecentocentri culturali. Per chiedergli le musi-che lo feci avvicinare, con l’aria dellagiovane turista, dalla mia fidanzata:“Prendete quel che volete da quelle giàcomposte”. E così cominciai a tagliuz-zarle e riadattarle, registrandone unaa rovescio, che lui poi, sorpreso, nonha riconosciuto». L’altro complice fuJacques Perrin, fotoreporter in Z: «De-cise di finanziare il film, debuttandonella carriera di produttore, il maggio-re oggi in Francia, uno capace di por-tare al successo soggetti mai toccatiprima. Suggerì, come “finta Grecia”,prima la Sicilia (subito poco disponi-bile), poi l’Algeria, convincendo il mi-nistro dell’Informazione a concedereautorizzazioni e troupe». Infine, YvesMontand, l’amico di sempre, che in-terpreta Lambrakis: «È il protagonistama, su una durata di due ore e otto mi-nuti, appare due minuti. Quando loconobbi, Montand voleva smetterecon il cinema. Grande cantante, an-che se non leggeva la musica e non sa-peva suonare (ma aveva un orecchiofinissimo) era stato agli inizi attoremediocre. Quando portai a Simone Si-gnoret la sceneggiatura del mio primofilm, Compartiment tueurs del ’65,proponendo a Montand d’interpreta-re l’ispettore Graziani con l’accentodel Midi, lui s’era subito opposto:“Non faccio Fernandel!”. Poi, una vol-ta convinto, finalmente cominciò a ti-rar fuori la sua personalità, liberando-si delle pose alla Bogart o alla FredAstaire cui s’era abituato in America.Era una persona splendida, con la ver-ve immutata degli esordi, quando fa-

ceva il buffoncello nei cabaret, ragaz-zotto allampanato alle prese con lecanzoni di cowboys o le imitazioni,appunto, di Fernandel. Ha sempremantenuto la sua natura sempliced’immigrato, figlio di povera gente, ri-fugiatasi a Marsiglia dalla Toscana,quando lui aveva due anni, per scam-pare all’Italia di Mussolini».

Anche Costa-Gavras, con i suoi film,ha scavato tracce coerenti sulla storiacontemporanea: «Non c’è film tra quel-li realizzati, anche i meno riusciti, di cuimi sia pentito. Tutti girati sulla spintadell’urgenza, da un senso del dovere:forse qualcuno, come La confessione,uscito nel momento meno opportu-no». Ma il momento non è sempre giu-sto quando l’opera è necessaria? «Èquel che abbiamo tutti sentito con Z:bisognava realizzarlo, subito. La sce-neggiatura la buttai giù di corsa, scri-vendo con Jorge Semprun notte e gior-no, rinchiusi nella casa di campagna diMontand in Normandia». Ha seguito inanticipo il consiglio che i Taviani dan-no oggi ai giovani vogliosi di cinema:“Girate un film quando sentite che vi èindispensabile”. «È stato il cinema ita-liano che mi ha reso indispensabile fa-re cinema: ne ero un fan assoluto. Neimiei primi anni in Francia, poi, ero unassiduo frequentatore della Ciné-mathèque di Henri Langlois, che parla-va greco e che incontravo spesso. Oggi,da sei anni, ne sono presidente e ho ilgrande piacere di ritrovare nelle retro-spettive, di persona, i maestri di gio-ventù, come Francesco Rosi, o, alme-no, i loro film. In autunno dedicheremouna mostra a Pasolini». Che, è stato, conla sua morte densa d’ombre, il nostro Z?«Yánnis Rítsos, poeta amico di Theo-dorakis, lui pure affiliato al movimento“Lambrakidès”, diceva che “La poesianon ha mai l’ultima parola / ma ha sem-pre la prima”».

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LA DOMENICA■ 42

DOMENICA 26 MAGGIO 2013

Il 27 maggio di cinquant’anni fal’omicidio di Grigoris Lambrakis Il deputato greco diventò un simbolodella lotta per la democrazia grazieanche a un film, “Z-L’orgia del potere”

Il regista che lo girò,fuggito poi in Francia,oggi ottantenne raccontai suoi dietro le quinte:“Ho sempre lavoratospinto dall’urgenza,

per questonon mi sono maipentito: quello che ho fattolo dovevo fare”

L’incontroMaestri

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Trintignant erail classico belloccioSi mise quegli occhialida giudice dietro cuine indovinaviil pensieroE divenneacido e fastidioso

Costa-Gavras

MARIO SERENELLINI

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Repubblica Nazionale