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DOMENICA 29 MARZO 2009 D omenica La di Repubblica i sapori Cozze e vongole, mangiare il mare LICIA GRANELLO e MARINO NIOLA l’incontro Pierre Boulez e la musica difficile LEONETTA BENTIVOGLIO spettacoli Noël Coward, un dandy a teatro SANDRO VIOLA il racconto Il primo viaggio dell’homo sapiens PAOLO RUMIZ cultura Einaudi, l’uomo che pensava i libri NELLO AJELLO e GIULIO EINAUDI l’immagine La Storia alla prova del Nove VITTORIO ZUCCONI I sole nella corrente, per lo più. E sempre sotto il sole dei Tro- pici. Come Tortuga, Curaçao, Grenada, Bermuda, Anti- gua. Cariche di coralli sottomarini e forzieri terrestri. Con bionde smaltate dal latte solare, buona musica, e daiquiri ghiacciato a bordo piscina. E poi piccoli resort su spiagge bianche, dove il relax respira in silenzio e all’ombra di tut- to: occhi altrui e false identità, controlli, intercettazioni, doman- de indiscrete sulla provenienza dei soldi degli ospiti e la destina- zione dei loro sogni. Per tutto il Ventesimo secolo queste coordinate d’inchiostro e cieli azzurri hanno disegnato — su carta da romanzo, cinema e avventure seriali — le mappe dei paradisi fiscali, molto più di cer- te casseforti continentali tetre come Vaduz. Raccontati dai nar- ratori più popolari del thriller, da Elmore Leonard a David Bal- dacci, passando per Graham Greene e naturalmente John Gri- sham, con le loro scie di morti inspiegabili, tradimenti, guerra di spie, e immense somme di denaro che pulsano da un conto al- l’altro in un clic. (segue nelle pagine successive) FEDERICO RAMPINI PINO CORRIAS FOTO © IMAGES COM/CORBIS «O ggi se sei un banchiere svizzero all’arrivo in un aeroporto americano hai paura di essere interrogato. Se vai in Germania i doganieri tedeschi possono arrestarti al- la frontiera. Tra noi c’è chi ha smesso di andare anche in Francia». Sono confes- sioni raccolte nei giorni scorsi a Ginevra. In quello che fu l’am- biente felpato ed esclusivo delle banques privées. Sul Financial Times è trapelata una notizia clamorosa: molte banche svizze- re hanno dovuto proibire ai loro top manager di viaggiare all’e- stero. Sono i gestori di grandi patrimoni che per generazioni hanno custodito al riparo da sguardi indiscreti le fortune delle famiglie capitaliste del pianeta. Oggi si sentono braccati come fossero corrieri della droga. Per molti di loro il Lago Lemano è diventato una prigione dorata da cui non osano più allontanar- si. È un effetto dell’offensiva senza quartiere scatenata contro i paradisi fiscali. Un attacco che per la sua ampiezza non ha pre- cedenti nella storia. (segue nelle pagine successive) La Cacciata Paradiso dal Le loro banche erano un porto sicuro per il denaro dei ricchi Non più: Obama e l’Europa sono in guerra contro i Paesi “tax free” Repubblica Nazionale

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DOMENICA 29MARZO 2009

DomenicaLa

di Repubblica

i sapori

Cozze e vongole, mangiare il mareLICIA GRANELLO e MARINO NIOLA

l’incontro

Pierre Boulez e la musica difficileLEONETTA BENTIVOGLIO

spettacoli

Noël Coward, un dandy a teatroSANDRO VIOLA

il racconto

Il primo viaggio dell’homo sapiensPAOLO RUMIZ

cultura

Einaudi, l’uomo che pensava i libriNELLO AJELLO e GIULIO EINAUDI

l’immagine

La Storia alla prova del NoveVITTORIO ZUCCONI

Isolenella corrente, per lo più. E sempre sotto il sole dei Tro-pici. Come Tortuga, Curaçao, Grenada, Bermuda, Anti-gua. Cariche di coralli sottomarini e forzieri terrestri. Conbionde smaltate dal latte solare, buona musica, e daiquirighiacciato a bordo piscina. E poi piccoli resort su spiaggebianche, dove il relax respira in silenzio e all’ombra di tut-

to: occhi altrui e false identità, controlli, intercettazioni, doman-de indiscrete sulla provenienza dei soldi degli ospiti e la destina-zione dei loro sogni.

Per tutto il Ventesimo secolo queste coordinate d’inchiostro ecieli azzurri hanno disegnato — su carta da romanzo, cinema eavventure seriali — le mappe dei paradisi fiscali, molto più di cer-te casseforti continentali tetre come Vaduz. Raccontati dai nar-ratori più popolari del thriller, da Elmore Leonard a David Bal-dacci, passando per Graham Greene e naturalmente John Gri-sham, con le loro scie di morti inspiegabili, tradimenti, guerra dispie, e immense somme di denaro che pulsano da un conto al-l’altro in un clic.

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FEDERICO RAMPINI PINO CORRIAS

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«Oggise sei un banchiere svizzero all’arrivoin un aeroporto americano hai paura diessere interrogato. Se vai in Germania idoganieri tedeschi possono arrestarti al-la frontiera. Tra noi c’è chi ha smesso diandare anche in Francia». Sono confes-

sioni raccolte nei giorni scorsi a Ginevra. In quello che fu l’am-biente felpato ed esclusivo delle banques privées. Sul FinancialTimes è trapelata una notizia clamorosa: molte banche svizze-re hanno dovuto proibire ai loro top manager di viaggiare all’e-stero. Sono i gestori di grandi patrimoni che per generazionihanno custodito al riparo da sguardi indiscreti le fortune dellefamiglie capitaliste del pianeta. Oggi si sentono braccati comefossero corrieri della droga. Per molti di loro il Lago Lemano èdiventato una prigione dorata da cui non osano più allontanar-si. È un effetto dell’offensiva senza quartiere scatenata contro iparadisi fiscali. Un attacco che per la sua ampiezza non ha pre-cedenti nella storia.

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LaCacciataParadiso

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Le loro banche eranoun porto sicuroper il denaro dei ricchiNon più: Obamae l’Europa sono in guerracontro i Paesi “tax free”

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la copertinaEffetto crisi

Tempi duri per i manager degli istituti di credito svizzeriA molti di loro è stato sconsigliato di viaggiare all’esteroSi sentono braccati come fossero corrieri della droga:effetto della lotta senza quartiere scatenata dal presidenteamericano contro il segreto bancario. La Ue è d’accordoMa la storia recente insegna che la vittoria non è scontata

30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 29MARZO 2009

FEDERICO RAMPINI

La guerra di Obamaai paradisi fiscali

In apparenza è la finedi tutto un mondoe dei suoi fasti:addio oasi di lusso,casinò, grandi hotel,gioielli e superauto

(segue dalla copertina)

Sotto lo shock della recessione globale èaccaduto il miracolo: un patto di ferrotra l’America di Obama e l’Unione eu-ropea per debellare il segreto bancario,espugnare i centri che prosperano sul-l’evasione fiscale. La svolta in questa

guerra è stata la resa della Svizzera. Sottoposto auna pressione politica inaudita da parte di Wa-shington, con minacce di pesanti ritorsioni chepotevano strangolare l’economia elvetica, il go-verno di Berna ha ceduto. È sceso a patti su unprincipio che difendeva da duecentocinquantaanni: la sacralità del suo segreto bancario. I conticorrenti intestati a cittadini americani non saran-no più inaccessibili per gli agenti dell’Internal Re-venue Service, i segugi del fisco Usa.

La Svizzera era la posta in gioco più ambita inquesto conflitto, la madre di tutti i paradisi banca-ri, la roccaforte che per anni era stata assediatasenza arrendersi. Da sola si stima che la Confede-razione custodisca un terzo di tutta la ricchezzaclandestina delle famiglie più facoltose del piane-ta: undicimila miliardi di dollari, quasi quattro vol-te il Pil della Germania. Dopo che il governo di Ber-na ha alzato bandiera bianca, ogni argine è statotravolto. È seguita una lunga catena di capitola-zioni. Da Monaco al Liechtenstein, da Singapore aHong Kong, gli ex-paradisi hanno accettato di aiu-tare gli stati da cui provengono i clienti delle lorobanche.

A giudicare dai bollettini di resa si sta chiuden-do un’epoca. Sembra di assistere al crepuscolo diun intero mondo con i suoi fasti, il suo glamour, lesue leggende. Attorno al business degli istitutibancari superconfidenziali erano cresciute oasi dilusso, grandi hotel, casinò, chef a tre stelle Miche-lin, quartieri di gioiellieri intasati da Ferrari e Lam-borghini. Un universo dorato degno dei film di Ja-mes Bond. E infatti ha spesso catturato la fantasia

dei giallisti e degli sceneggiatori di Hollywood. Larealtà non era lontana dalla fantasia. BradleyBirkenfeld era un top manager dell’Ubs, la piùgrande banca svizzera, un tempo circondata da unalone di rispettabilità. Pentito, divenuto una talpadell’Fbi, ha rivelato che per aiutare i clienti ameri-cani a esportare ricchezze ingannando le dogane,era arrivato a infilare diamanti in un tubetto didentifricio.

La sconfitta dei paradisi è stata fulminante, qua-si a sorpresa. Ancora un anno fa gli “gnomi” si con-sideravano inattaccabili nelle loro fortezze. Eranodeterminati a respingere ogni richiesta di traspa-renza. Angela Merkel nel 2008 aveva messo incampo i servizi segreti per procurarsi la lista deimiliardari tedeschi con i conti cifrati nel Liechten-stein. La reazione del principato di fronte allo spio-naggio era stata rabbiosa. Un dirigente di Vaduzparlò di «metodi della Gestapo nazista». Gli sviz-zeri gli diedero manforte. Il parlamentare di BernaThomas Mueller evocò «quei tedeschi che marcia-vano al passo dell’oca, con stivali di cuoio e fascianera sull’avambraccio».

Poi è arrivato lo shock della recessione. A Wa-shington ha accelerato la resa dei conti. Con un de-ficit pubblico che sale al tredici per cento del Pil —un livello raggiunto solo nella Seconda guerramondiale — l’Amministrazione Obama deve re-cuperare ogni gettito imponibile, a costo di dare lacaccia agli evasori anche all’inferno. E in un annoin cui il Tesoro Usa dovrà emettere altri duemilamiliardi di Bot per finanziarsi, rischiando una cri-si di sfiducia nel dollaro, è urgente chiudere i portid’arrivo per le fughe di capitali, come sono appun-to le piazze bancarie offshore.

Da Washington è partita la crociata contro lasvizzera Ubs, la preda più grossa e appetibile:52mila conti bancari intestati ad altrettanti citta-dini americani, tutti presunti evasori nel mirinodell’Internal Revenue Service. L’Ubs ha un’im-portante filiale a Wall Street, non poteva permet-tersi di finire nella lista nera delle autorità ameri-cane. Inoltre la sua casa madre in Svizzera barcol-

la sotto le perdite per i titoli tossici sui mutui sub-prime: deve avere accesso ai piani di salvataggiolanciati da Washington. Ha tentato comunque diopporre una resistenza, perché cedere al fiscoamericano significava tradire la fiducia dei clienti,calpestare un preciso impegno contrattuale. Ma ilsuo stesso governo le ha imposto il diktat finale:impossibile dire di no all’America. «La pressione»,ha rivelato un diplomatico francese, «era diventa-ta insostenibile».

L’Unione europea si è accodata volentieri.Avendo una pressione fiscale ancora più alta degliStati Uniti, e dei paradisi bancari incrostati nelproprio cuore (Svizzera, Lussemburgo, Liechten-stein, Andorra, Monaco, le isole della Manica) ilVecchio continente aveva i suoi conti da regolare.La liquidazione del segreto bancario è stata messaall’ordine del giorno del G 20 di Londra il 2 aprile:per allora secondo gli americani le ultime sacchedi resistenza dovrebbero essere debellate.

Se è tutto vero, stiamo assistendo all’epilogo diuna storia antichissima? I primi paradisi fiscali ri-salgono alla Grecia di Omero, dove i mercanti-na-vigatori dirottavano i loro scambi verso le isole cheli esentavano dalla tassa del due per cento prele-vata ad Atene. Lo Stato Pontificio fu un’oasi di pri-vilegio fiscale dall’anno 756 dopo Cristo. Nel tardoMedioevo i commercianti tedeschi della Lega an-seatica aprivano filiali a Londra per evadere le im-poste di casa. Il ruolo della Svizzera fu esaltato dal-la sua neutralità nelle due guerre mondiali: i para-disi fiscali prosperano nelle fasi di grandi turbo-lenze finanziarie e geopolitiche. In seguito altreevoluzioni dell’economia globale hanno portatoal proliferare dei centri bancari offshore: dagli an-ni Settanta l’informatica ha facilitato i trasferi-menti di capitali; l’ondata di deregulation ha spin-to le banche tradizionali a diversificarsi aprendobusiness sempre più spregiudicati in luoghi re-moti, lontani dalle autorità di vigilanza. C’era an-che una potente difesa ideologica. Il neoliberismolegittimava i paradisi bancari in nome della con-correnza fiscale tra Stati, li considerava una frustabenefica per castigare i governi più spendaccionie indebitati sottraendogli imponibile. Era l’ideache «i capitali votano con i piedi» abbandonandogiustamente le zone ad alta pressione fiscale.

Sono quel mondo e quel sistema di valori a fini-re travolti dalla Grande Recessione. Ironia dellasorte: Bradley Birkenfeld, la “talpa” all’origine delprocesso americano contro i conti segreti del-l’Ubs, decise di vendicarsi della banca svizzeraperché non gli era stato erogato un bonus abba-stanza generoso. Ora il vento soffia impetuosa-mente nella direzione opposta. Il Wall Street Jour-nal ha aperto una rubrica di consigli per gli ameri-cani che hanno conti all’estero: «Siate realisti. Pat-teggiate e chiedete perdono. Non avete altre vie difuga».

Eppure un’ombra di scetticismo rimane. Citan-do James Bond: mai dire mai. Se i singoli miliarda-ri sentono sul collo il fiato degli ispettori fiscali, legrandi imprese multinazionali hanno elaboratostrategie sofisticatissime per delocalizzare le sedisociali nei paesi a tassazione ridotta. Riagguanta-re quel tipo di elusione sarà una partita lunga ecomplessa. Fa riflettere un titolo in prima paginadel New York Times: «Il Congresso sancisce la finedei paradisi fiscali». È datato 4 febbraio 1962. AllaCasa Bianca c’era John Kennedy.

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31DOMENICA 29MARZO 2009

Isole per piratimalfattorie belle donne

(segue dalla copertina)

Paradisi che funzio-nano (in realtà) co-me inferni freddi:puliti, ordinati, maichiassosi, ma intan-to ramificati nei labi-

rinti del riciclaggio. Protetti daserrature segrete. Occultati, die-tro le targhe d’ottone delle ltdoffshore, in intrighi finanziariche corrono sottotraccia come iflussi del narcotraffico, le dop-pie contabilità delle multinazio-nali e dei trust bancari, l’oro ne-ro dei mercanti d’armi. Intreccimai stupefacenti quanto quellidella cronaca reale — i cartellicolombiani, il Banco Ambrosia-no di Calvi, lo Ior del cardinaleMarcinkus, la Parmalat di Cali-sto Tanzi, tutti narrativamenteinarrivabili — e quasi sempre vi-rati nella forma della vacanzaextralusso di contorno, della lo-ve story con Dom Pérignon mil-lesimato, come fissò una volta eper sempre Ian Fleming che ve-stì di lino il suo James Bond,agente al servizio di Sua Maestà,con suite al British Colonial Hil-ton di Nassau, Bahamas, e l’in-carico, dopo la cena e una parti-ta al Casinò Royal, di salvare il

mondo. Fleming scriveva a qualche

miglio marino da lì, a Golde-neye, Giamaica, dal 1953 al 1967,nel pieno della Guerra fredda, inuna casa sulla baia, solitariaquanto il suo umore, lasciato persempre dalla moglie, con la solacompagnia di una domesticache non sapeva cucinare e nep-pure preparare il Martini, o ac-cogliere i rari ospiti provenientidalla vecchia Inghilterra. Lui,dentro la pioggia delle estati tro-picali, a estrarne quel sole cheavrebbe illuminato le avventure

MARI E MONTINelle foto

della pagina

di sinistra,

due tra i più

noti paradisi

fiscali: le Isole

Cayman

(in alto) e il

Liechtenstein

del suo agente, spedito in quel-l’area del mondo dal Mi6 a con-trastare gli ingranaggi dellaSpectre, primissima versione diquelle società transnazionali delcrimine (e del danaro) cheavrebbero trionfato a fine seco-lo. Tutte transitando — nei filmfuturi, nei romanzi futuri e nellaneo realtà di narratori comeBruce Sterling con i suoi mondicyberpunk — lungo le spumedelle medesime barriere coralli-ne, dove corre il denaro invisibi-le di un potere altrettanto segre-to.

Che poi il fascino di quei luo-ghi ha radici lontane. Risale aisecoli d’altra letteratura. Appro-da alle stagioni leggendarie diHenry Morgan, il pirata, e deisuoi bucanieri, quando tutti isassi sparpagliati lungo il Mardei Caraibi offrivano nascondi-gli e buone prede, in coda allerotte dei galeoni spagnoli, redu-ci da ben altre spoliazioni. Pira-terie capaci di insanguinare persecoli quei mari. Ma anche fon-dare fortune e dinastie. Accen-dere la fantasia degli scrittori.Tramandare la propria storia. Ele tecniche dell’arrembaggio al-l’oro. Più sbrigative di quelleodierne, ma altrettanto redditi-zie visto che proprio Morgan —dopo il sangue degli assalti — in-dossò i galloni di governatorereale di Giamaica. E che Labuanla perla di latitudine malese,tanto cara al cuore di Sandokane alle pagine avventurose diEmilio Salgari, è diventata an-che lei isola offshore, carica di fi-nanziarie specializzate in contibancari criptati e multiple iden-tità antifisco.

Escludendo L’Isola del tesorodi Robert Louis Stevenson, cheforse era Tortola, oggi quindici-mila abitanti e 350mila società, ilparadiso fiscale letterariamentepiù celebre è Cayman, che è poiun’isola tripla, Gran Cayman,Little e Brac. Da quando cisbarcò John Grisham con il suoIl socio, il più potente e ben con-gegnato tra i thriller che scalano

l’aria sottile di quegli intrighi, eche Sidney Pollack ha trasfor-mato in un celebre film a orolo-geria, protagonisti Tom Cruise eGene Hackman. Il primo neipanni dell’avvocato Mitch, gio-vane assunto dal grande studiolegale di Memphis dalla facciatahigh society immacolata. Laquale lentamente si sgretola. Esgretolandosi inghiotte, insie-me con le apparenze, anche ilgiovane avvocato, come fannole sabbie mobili. Ma lasciando-gli il tempo di intravedere la veradestinazione del suo lavoro: unadoppia stanza dello Hyatt Re-gency Hotel, nella capitaleGeorge Town, a tre ore di volodagli agenti federali americani,dove è custodito l’archivio se-greto della famiglia mafiosa diChicago che lo studio accudiscee protegge con tutti i depistagginecessari, una barriera legaledopo l’altra. E il mare blu dei Ca-rabi a sigillare il segreto.

Che poi sono le stesse proce-dure che occultano tutte le guer-re non ortodosse di oggi e di do-mani. Nuova Era del dopo 11 set-tembre: Islam, Africa e dissolu-zione dell’impero sovietico. Co-struite intorno a trincee solo vir-tuali tra solidi eserciti di solidistati e guerriglie sempre più ra-refatte, disperse, ubique. Sem-pre protette da schermi digitali,come nell’ultimo romanzo diJohn Le Carré, Yssa il buono, do-ve sono le banche l’avampostoda conquistare, la HamburgerHill da mettere finalmente in si-curezza. Con i loro conti segretiche transitano da Bahamas alLiechtenstein e che un istantedopo scompaiono, per ricom-parire a Cipro, poi a Istanbul, poia Parigi, e cosi via. Nel giro per-petuo degli infiniti mondi im-materiali. E solo all’ultimo mo-mento utile, abilitati a diventaresoldi veri. Poi armi. Oppureesplosivo. E infine sangue.

È una guerra che abita (e sicombatte) sempre di più nel re-troscena del mondo. Con puntiluce solo temporanei, compresiquelli dei paradisi fiscali, ancheloro in costante evoluzione. Madotati di un fascino sinistro cheancora non si spegne. Grazie aifinali che almeno nella fictionquasi sempre riconducono al-l’ordine (presunto) e a un respi-ro di sollievo. Con l’elicottero involo radente. La raffica, la mortedei cattivi. Il buono che bacia labionda. E il daiquiri che a bordopiscina lentamente si scalda.

PINO CORRIAS

Repubblica Nazionale

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1989

1969

l’immagineScatti emozionanti

È certamente dovuta a un illusionismo della numerologial’idea che gli anni segnati dal numero Nove siano affollati di eventicruciali. Ma, in questo 2009 di crisi, basta aprire i due libridi Contrasto dedicati al 1969 e al 1989 per farsi suggestionaree per vivere una specie di cortocircuito tra memoria e attualità

32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 29MARZO 2009

Deve essere il primo vagito che sisprigiona da noi dopo nove mesi, ilsegnale che in quel numero magi-co, nel “9”, sta racchiuso il misterodella fine e dell’inizio, il segreto delbisogno umano irrefrenabile di

scalciare e di uscire a un nuovo giorno al rintoccodi quella cifra.

Sono soltanto coincidenze, risponderanno gliscettici e i positivisti, se allo scoccare degli anni cheterminano con il numero singolo più alto nella no-stra scala decimale, il 9, tanto spesso il mondo co-nosce il travaglio, il trauma e la nascita di un tem-po diverso, dal quale ricominceremo a contare lastoria e a riazzerare i calendari. Ma nella fissità im-placabile delle immagini che scolpiscono gli even-ti nella memoria, più di ogni filmato e video perchétutti tendiamo a ricordare per istantanee e non persequenze, l’album della famiglia umana che oggi

sfogliamo ha scandito proprio gli anni del 9, il 1969,il 1989, come i momenti cardine del passato pros-simo e dunque del presente.

Guardare le fotografie emozionanti raccolte ap-punto dagli obbiettivi della grandi agenzie come“Contrasto” nel 1969 e 1989 è come subire un elet-troshock della coscienza e rabbrividire al pensieroche anche questo, nel quale viviamo oggi, è un «an-no del nove». Come il 1939, per la generazione deinostri vecchi, l’anno della solita guerra combattu-ta per mettere fine a tutte le guerra, così il 1969 fu,dal Vietnam alle piazze di Milano con nomi dive-nuti sciaguratamente immortali, un tempo cardi-ne per gli adulti di oggi.

Mai prima di quei giorni un essere umano ave-va posto piede su un suolo che non fosse quelladella Terra e nel luglio del ’69 Neil Armstrong eBuzz Aldrin calpestarono la polvere vergine dellaLuna, un evento talmente incomprensibile daavere creato per sempre leggende impastate dello

scetticismo di chi non riesce a crederci. Esploseuna bomba nella innocente sede di una banca, inpiazza Fontana a Milano, colpendo più di centopersone, uccidendone diciassette, e risucchiandonel vortice di quell’esplosione l’età dell’innocen-za italiana, che da allora diventerà per sempre l’etàdel sospetto e del rancore nella quale ancora an-naspiamo.

Si frantumò in una villa di Bel Air, sopra Hol-lywood, il mito di “Tinseltown”, la immaginariacittà felice di stagnola, quando la stupenda SharonTate, incinta, fu massacrata da Charlie “Satana”Manson e dalle sue serpi velenose sfuggite al mitesogno di controcultura e di amore universale deglihippy, e questo proprio nello stesso anno in cui lostesso sogno aveva celebrato, nei quattro giorni di

Woodstock, il te deum e insieme il funerale di unculto carnale e fangoso come la terra inzuppatadalla pioggia d’agosto nella quale si rotolavano in-nocui rivoluzionari con le canne. Massacri di pu-rificazione e tiepidi abbracci a ritmo di rock, men-tre un nuovo presidente americano insediato inquei mesi, Richard “Dick lo Sporco” Nixon si pre-parava a demolire l’“età dell’innocenza america-na” e della fede dei cittadini nella integrità nobiledei propri governanti.

A Praga, sulla piazza di San Venceslao, si immo-lava in un rogo suicida, Jan Palach, per segnalare almondo, alle sinistre leniniste, ai pavidi che ogni il-lusione era morta e neppure i panzer dell’ArmataRossa sarebbero più riusciti a schiacciare lo spiritodei sudditi e a mantenere in piedi un impero mar-cio. Sarebbe dovuto passare ancora un ventennio,perché le conseguenze finali di quel gesto, identi-co all’autosacrificio di altri uomini inorriditi dallaeterna prepotenza della potenze, i monaci buddi-sti a Saigon, arrivassero a frutto, ma il ’69 di Praga fu

il seme di quanto sarebbe sbocciato più tardi. Nel 1989.Possiamo forse immaginare che di nuovo la ma-

gia nera del “nove”, l’urgenza di tagliare il cordoneombelicale con il passato, fu ciò che spinse il go-verno ungherese ad abbattere per primo le barrie-re di filo spinato che chiudevano le frontiere conl’Austria, dunque con l’Occidente, proprio nel1989? Fu il richiamo di quel numero che nella suaprima formulazione indiana aveva la forma di unpunto interrogativo con l’occhiello aperto e nonchiuso come lo scriviamo oggi, a portare GeorgeBush il Vecchio Saggio e Mikhail Gorbachev il Co-raggioso travolto dal proprio coraggio, a dichiara-re nelle acque di Malta, sballottati da una burrasca,che quel giorno la Guerra Fredda era ufficialmen-te finita e che l’Urss l’aveva perduta? Certamenteno, la numerologia, il “potere magico del nove”,nove come i nove giorni della passione ebraica cheprecedono gli eventi più tragici nella storia dei figli

VITTORIO ZUCCONI

Lo shock dell’orma del piedeumano sullapolvere

vergine del suolo lunare

La bomba di piazza Fontanae l’impeachment di Nixon,

così finì l’età dell’innocenza

La Storia alla prova del Nove

30 GENNAIO Ultimo concerto dei Beatles sul tetto della Apple a Londra 10 MAGGIO Vietnam, battaglia di Hamburger Hill

14 MARZO Libano, inizia la guerra contro le truppe siriane 4 GIUGNO Carri armati contro manifestanti in piazza Tienanmen a Pechino

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 29MARZO 2009

di David, la distruzione del tempio di Salomone,non possono avere spinto l’Urss di Brezhnev alladecisione che avrebbe consumato i resti dell’U-nione Sovietica: l’invasione dell’Afghanistan. Fupresa nell’anno 1979, a proposito. E che avrebbeportato all’ignominioso ritiro delle truppe sconfit-te dieci anni più tardi. Nel 1989.

Ogni scolaretto marginalmente attento e conbuoni insegnanti sa che la storia non matura percalendari o proclami, ma per lenti e oscuri proces-si ricordati per episodi e date misteriosamentecoagulate. Eppure, qualcosa, sempre in quel 1989così gonfio di segni e di immagini, si mosse in unapiazza lontanissima e ancora per molti «proibita»,nella Tienanmen che sarà per sempre bruciatanella memoria con foto dell’omino in camiciabianca solo davanti alla colonna ferma dei carri ar-mati e che scatenerà nella Cina cosiddetta comu-nista la rincorsa alla prosperità materiale nellaquale affogare il grido silenzioso di libertà lancia-to da quella sagomina.

Il patetico generale Jaruzelski decise in quel-l’anno di arrendersi e nominare un primo ministroprodotto da Solidarnosc, dal movimento politico,religioso e sindacale che avrebbe dato il colpo digrazia a lui e al Socialismo Reale in stato vegetati-vo irreversibile. E milioni di persone, in Europa, fu-rono scosse dall’emozione, e dalla certezza che ilfuturo sarebbe stato molto diverso, e non neces-sariamente radioso, davanti alle foto dei giovanidelle due Berlino divenute una sola, a cavalcionidel Muro ad abbracciare i militi della Vopo, la VolksPolizei comunista, che ancora pochi giorni primali avrebbero abbattuti senza esitazione, come cac-ciatori di fagiani in riserva.

Certamente una giovane donna furba, dotata diqualche talento e di immensa capacità di marke-ting, non scelse apposta il 1989 per mettere il pro-prio nome blasfemo, Madonna, sulla strada diSanta Madre Chiesa, spingendo un Papa, che inquelle ore celebrava anche la liberazione della

Trascuriamo pure il fatto, di nuovo sicuramen-te del tutto casuale, che il Terzo Millennio sia sta-to marcato indelebilmente da quel che accaddenel nono mese dell’anno, l’11 di settembre, e sal-tiamo al presente, al tempo che i “dottori dell’A-pocalisse”, gli economisti, analisti e finanzieri,magari gli stessi che fino al 2008 cantavano la bal-lata del mercato felix, descrivono come la prima enuova «Grande Depressione» del Ventunesimosecolo, capace di far impallidire il ricordo della«Great Depression» originale, ufficialmente inau-gurata in un altro anno che finiva con il “9”, il 1929.La tentazione di dire che anche questo nostro an-no stia assistendo a una fine, quella del capitali-smo come era stato interpretato dopo il 1989, nelmito del sistema unico globale e infallibile, è forte,perché soltanto le nazioni con i rammendi e le top-pe sul fondo dei calzoni non stanno rovesciandotutto il loro potere statale e statalista per spegneregli incendi.

Non è ancora stato completata la raccolta delle

fotografie che racconteranno, ai lettori del 2029(tanti auguri) che cosa sia questo 2009, se esso ri-prenderà il ritmo dei tramonti e delle aurore che il’69 e l’89 imposero, con la fine del lungo dopo-guerra il primo e la fine del socialismo il secondo.Già è difficile scrivere la storia del passato, tra chila nega, chi la vorrebbe dimenticare, chi la venera,figuriamoci scrivere la storia del futuro. Qualcosaè finito ed è stato buttato nella spazzatura, insiemecon le Lehman Brothers, i fantastici magliari diBorsa alla Bernie Madoff, la leggenda del capitali-smo autoregolatore, sempre destinato a divenire,come i cani abbandonati e randagi, selvatico e in-controllabile. Ma se non ci sono ancora il piedonedi Armstrong o il piedino del cinese, se non cono-sciamo ancora la storia, già conosciamo l’immagi-ne che trasmetteremo a chi avrà vent’anni nel2029. Le scatole di cartone nella quali è finita un’al-tra epoca, incapace di superare la implacabile pro-va del Nove.

propria amatissima Polonia, a chiedere che il suoconcerto fosse boicottato dai devoti fedeli. Guai achi ascoltò le empie liriche del successone di quel-l’anno stampato e venduto in sette milioni di co-pie, Like a Prayer, come una preghiera, dove la si-gnora Ciccone implorava un dio molto dionisiacodi «portarla in sogno, come una preghiera» in unluogo di estasi non mistiche. Ma anche quella

aspra reazione della maggiore confessione cristia-na del mondo, quella cattolica, a una banale can-zonetta pop lanciata con un “commercial” dellaPepsi Cola raccontava una storia sbalorditiva, rivi-sta vent’anni dopo, quella di una gerarchia vatica-na passata dall’incubo del «materialismo negato-re» bolscevico all’angoscia per il «materialismoedonistico» che turba l’attuale gestione.

L’omino in camicia biancaa bloccare i carri armati

E la Cina non fu più la stessa

Dal filo spinato tranciatosul confine austro-unghereseai ragazzi a cavallo del Muro

20 LUGLIO Edwin Aldrin, con Armstrong primo uomo sulla Luna 15-18 AGOSTO Jimi Hendrix al Festival di Woodstock 12 DICEMBRE Bomba a piazza Fontana a Milano

4 GIUGNO Solidarnosc vince le elezioni in Polonia 23 AGOSTO Catena umana tra Estonia, Lettonia e Lituania 9 NOVEMBRE Crolla il Muro di Berlino

I LIBRI

Per celebrare la folla di anniversari importanti che cadono

nel 2009, Contrasto pubblica due volumi gemelli:1969 e 1989– Un anno di fotografie (ciascuno di 200 pagine, con 150 foto

a colori e in bianco e nero, al prezzo di 14,90 euro, in libreria

dal 2 aprile). Libri che, attraverso immagini celeberrime

o dimenticate, narrano i fatti – da Woodstock a Tienanmen,

dalla conquista della Luna alla caduta del Muro – o allineano

i personaggi che hanno fatto la nostra Storia

Repubblica Nazionale

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LO SCIENZIATO

Claudio Tuniz, del Centro

Internazionale di Fisica

di Trieste, specialista

in datazioni

con gli acceleratori

di particelle,

è tra gli autori

del libro The Bone Readers

IL LIBRO

The Bone Readersdi Claudio Tuniz, Richard

Gillespie e Cheryl Jones

(Allen & Unwin, 288 pagine,

35 $ australiani). Adesso

in uscita in Australia

e Regno Unito, sarà tradotto

in italiano a settembre

da Springer Italia

il raccontoScoperte Settantasettemila anni fa iniziò la migrazione più lenta

della storia. Fu allora che l’uomo si mise in marciadal continente nero per arrivare in India e poi,cinquemila anni dopo, in Oceania. Gli scienziatihanno ricostruito quell’esodo in un libro che sembraun thriller.Dove gli indizi sono orme e ossa millenarie

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 29MARZO 2009

Succede che un giorno in Au-stralia, ai piedi di una bassacordigliera, nella sabbia diquarzo di un lago asciutto dadiciottomila anni gli archeo-logi trovano resti molto spe-

ciali. È il corpo di una donna di vent’an-ni, cremato, accuratamente sminuzza-to, ricoperto di polvere d’ocra e poi se-polto. Gli studiosi non credono ai loroocchi: le ossa hanno sessantaduemilaanni, ventimila in più degli uomini dellegrotte dipinte di Lascaux in Francia. Lapiù antica cremazione della storia.

Ma l’esame del dna offre altre sorpre-se. La giovane antenata appartiene allastessa razza — “homo sapiens” — deglianglosassoni colonizzatori. Niente ache fare con gli scimmieschi australo-pitechi o con il “neanderthal man” dal-la fronte rocciosa. Come gli abitanti diLascaux, la progenitrice è discendentedei cacciatori che popolarono l’Africasud-orientale, la “culla della civiltà” do-ve l’uomo cominciò a dipingere, socia-lizzare, seppellire i morti. E non solo: lasua gente sbarcò in Australia almenodiecimila anni prima che l’uomo nuo-vo arrivasse in Europa.

Ma se fu l’Africa la Grande Madre, co-me arrivarono fino in Oceania quegliantenati simili a noi? Come superaronoil mare, visto che l’Australia è semprestata un’isola, anche quando il granfreddo teneva basso il livello degli ocea-ni? Già quarant’anni fa il genetista LucaCavalli Sforza verificò che il mondovenne colonizzato da discendenti diuna singola tribù africana di “homo sa-piens”, al massimo settecento indivi-dui di pelle nera, partiti verso il Mar Ros-so settantasettemila anni fa.

Ma il primo grande viaggio dell’uma-nità non era mai stato rifatto. Ora degliscienziati hanno colmato la lacuna, ar-mati di strumenti di datazione, “carbo-nio 14”, isotopi, mappe genetiche, rive-latori di “termoluminescenza”, e delleultime conoscenze di paleo-antropo-logia. Per anni hanno seguito le traccedi quelli che andarono verso il sole na-scente lungo le coste dell’Oceano In-diano, attraversando il Mar Rosso comegli ebrei, e poi gli stretti di Bab el Man-deb fino al subcontinente indiano e al-l’arcipelago dell’Indonesia.

Uragani ed eruzioni

Ne è uscito un libro appassionante —The Bone Readers, i lettori di ossa, appe-na uscito a Sydney e nel Regno Unito —che ripercorre in termini divulgativiquell’emigrazione primordiale duratacinquemila anni e ne segue le tappe inuna Terra battuta da uragani, freddi po-lari e spaventose eruzioni. Uno degliautori è italiano, Claudio Tuniz, delCentro di fisica di Trieste, specialista indatazioni con gli acceleratori di parti-celle. Con lui, Richard Gillespie, ar-cheologo di Sydney, e Cheryl Jones,giornalista scientifica di antenati abori-geni.

Più che un romanzo è un thriller. Unviaggio dove le vie — per dirla comeChatwin — si svelano non attraverso i“canti” ma attraverso micro-segnalicaptati dallo stetoscopio di apprendististregoni. Un’esplorazione nel tempo,che parte dal capolinea-Australia, terradove basta grattare per toccare l’età del-la pietra. Orme umane, come quelletrovate pochi anni fa sul lago Wilandra,a ovest di Sydney. Vecchie di ventimilaanni e perfettamente conservate.

All’origine c’è l’Africa, predisse Char-les Darwin prendendo atto dell’enor-me quantità di scimmie sul “Rift”, lafrattura nord-sud che taglia l’AfricaOrientale. Oggi tutto conferma quel-l’intuizione; ed è dall’Africa, nella Pom-

pei dell’età della pietra, la grotta diSterkfontein, che parte la ricerca deiprimi viaggiatori. C’è tutto in quel pre-cipizio dove i corpi cadono restando in-trappolati in un antico fondale marino.I primi ominidi di tre milioni e mezzo dianni, preservati quasi intatti.

Lì si legge come in un film la storiadella scimmia nuda che si alza in piedi,afferra una pietra, la sgrezza, poi — cen-tomila anni fa — comincia a esprimerelinguaggi complessi come i riti di sepol-tura e infine, settantasettemila anni fa,spinta da un’irrefrenabile inquietudinemigratoria, decide di partire. La pattu-glia avanzata di un popolo mangiatoredi pesce, capace di navigare e organiz-zato in tribù.

Allora la Penisola Arabica è terra fer-tile e il Sahara popolato di elefanti. IlGolfo Persico è in gran parte libero dalmare a causa delle glaciazioni, e poichéle montagne sono coperte di ghiacci,non resta che la costa. È così che l’homosapiens raggiunge l’India e l’Andra Pra-desh, dove lascia strumenti in pietramolto simili a quelli sudafricani.

Bivio epocale

In quegli anni una gigantesca eruzionecambia il clima della Terra e porta i no-stri antenati viaggianti a un passo dal-l’estinzione. «Di questa tappa ci sono ri-masti solo i manufatti», spiega Tuniz.«Non abbiamo ancora resti umani, mala strada dell’homo sapiens in India èchiara». L’orologio del tempo segnasettantamila anni fa. E la strada si avvi-cina a un bivio epocale, nel Bangladesh.Qui il popolo in movimento si divide.Una parte sale verso i fiumi della Cina,per raggiungere lo stretto di Bering,trampolino verso le Americhe. Un’altraparte scende verso la Malacca e, di iso-la in isola, attraversa l’ultimo stretto dimare per l’Australia.

Anche qui mancano resti umani, mac’è un segnale del passaggio che sur-

classa tutti gli altri: lo sterminio deigrandi animali. Non si sa cosa sia stato:una caccia indiscriminata, l’incendiodelle foresta vergine, oppure una muta-zione climatica contemporanea. Fattosta che scompaiono all’improvviso, insimultanea. Giganteschi struzzi, mar-supiali grossi come orsi grizzly, ippopo-tami dalla faccia di cammello. Non nerimane traccia, dopo l’arrivo del grandecacciatore.

Lo stesso accade con le altre razzeumane. Homo sapiens elimina i possi-bili concorrenti. Via neanderthal; vial’homo erectus arroccato da due milio-ni di anni in Cina; via i piccoli “hobbit”rifugiatisi nell’isola di Flores, Indone-sia, dov’erano convissuti con micro-scopici elefanti (oggi estinti) e aggressi-vi lucertoloni di quattro metri, ancoraoggi padroni della giungla.

Ovviamente gli aborigeni esultano.Orgogliosi di sapersi più antichi degli eu-ropei, all’apertura delle olimpiadi di

Sydney hanno vantato i loro «sessanta-mila anni di cultura» per avanzare dirittisul territorio australiano, in antagoni-smo con i conquistatori bianchi. La rivo-luzione biologica generata da Darwin, silegge nel libro, aveva incoraggiato la ra-pina ai danni dei primitivi, degradati alruolo di sotto-uomini e costretti a subireinsulti come l’esposizione dei loro sche-letri nei musei occidentali.

Oggi l’Australia sta facendosi resti-tuire da mezzo mondo le ceneri deiprogenitori ma succede che, quando ilegittimi eredi ne vengono in possesso,questi provvedono a una nuova cre-mazione purificatrice secondo i riti de-gli antenati, il che genera inevitabilitensioni col mondo della ricerca. Stra-nezze del secolo Ventunesimo: guerrescientifiche e scontri politici attorno aossa del paleolitico. Forse gli appren-disti stregoni hanno messo in motouna macchina che nessuno riesce afermare.

PAOLO RUMIZ

Ecco il viaggio alfal’homo sapiensdall’Africa all’Australia

“LEGGERE” LE OSSA“Lettura” delle ossa

ed esami del dna

sono i principali

strumenti

di cui si sono

avvalsi gli scienziati

Claudio Tuniz,

Richard Gillespie

e Cheryl Jones

per ricostruire

la provenienza

degli aborigeni

d’Australia

IL DIPROTODONTE

Il grande mammifero

marsupiale, paragonabile

come forma al rinoceronte,

raggiungeva i quattro metri

di lunghezza. Viveva

in Australia durante

il Pleistocene

La sua estinzione

è avvenuta a causa

dell’impatto ambientale

degli aborigeni,

arrivati in Oceania

cinquantamila anni fa

Repubblica Nazionale

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Dieci anni fa moriva il grande editoreche divideva gli autori in due categorie:“astri sorgenti” e “vecchi tromboni”

Lo ricordiamo con un suo scritto inedito e profetico sul difficilemestiere di vendere cultura senza tramutare il mondo in un mercato

CULTURA*

36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 29MARZO 2009

Il ritratto più efficace di Giulio Ei-naudi lo scattò Natalia Ginzburg inuna lettera che gli inviò al culminedella sua carriera di editore. «Quel-lo che succede a te è questo», gliscrisse. «Una volta che hai stampa-

to un libro, la figura dell’autore passa nelregno delle ombre. Stampato il libro, timetti in testa che il libro sia tuo». Ne haicostruiti più di Balzac, sottintendeva l’a-mica scrittrice, assai più di Dumas padre.Puoi guardare dall’alto Gogol e Molière.

È verosimile che l’editore entrasse nel-lo scherzo con un cenno d’assenso. Luiera da sempre oggetto di una mitologia ri-dondante ma in fondo complice. A sor-reggere simili storielle non mancavanod’altronde i numeri: un catalogo Einaudiuscito nel 1991 parlava, già allora, di sei-mila volumi stampati. A maggior ragione,perciò, cercare nell’aneddotica che ri-guarda il «divo Giulio» le definizioni più omeno ammirative sarebbe come consul-tare d’un sol fiato un’enciclopedia. Ne fir-mavano le voci coloro che gli erano più vi-cini. «Gelido quasi fosse stato costruito dighiaccio», lo descriveva il vecchio colla-boratore Norberto Bobbio. Il critico Cesa-re Segre lo trovava «bizzoso e capriccio-so». Giudicandolo «elegante», con «gli oc-chi azzurri un po’ freddi», Rossana Ros-sanda notava che egli «non parlava molto,ascoltava e dirigeva».

Spesso Giulio — detto “il Cavaliere Esi-stente” per distinguerne l’imperiosa e si-lente corposità dal modello effigiato daItalo Calvino — usava sottrarsi con la mas-sima cura a chi gli chiedeva un incontro. Ilnumero della casa editrice, a Torino, fuper molti anni facile da mandare a memo-ria: 553761. E Carlo Levi gli costruì intornoun epigramma. Diceva così: «Cinque cin-que tre sette sei uno — Giulio Einaudi è fi-gliolo di re — Giulio Einaudi non c’è pernessuno — Giulio Einaudi, mi spiace, nonc’è».

Cesare Cases, prezioso consulente, so-steneva che Giulio divideva l’umanità indue categorie: «Astri sorgenti» e «vecchitromboni». Corollario implicito: i primi siscorgono da lontano, i secondi vanno la-sciati ai propri clamori.

Perfezionista e aggressivo, Giulio veni-va paragonato dal suo omonimo e dipen-dente Giulio Bollati a Luigi XIV per la fidu-cia che riponeva nei propri collaboratori.Perseguitato da una nomèa di scialacqua-tore, egli secondava con esultanza que-st’inclinazione quando c’era da corregge-re qualcosa che non gli andava a genio. Eracapace di mandare al macero montagnedi copertine già stampate. Il suo amicoVittorio Foa — che aveva fra l’altro condi-viso con lui il vagone cellulare nel tragittoTorino-Regina Coeli quando i fascisti li ar-

restarono come sovversivi nel 1935 in unaretata di “einaudiani” e simili — sostene-va che lui, l’editore, «i libri non li leggeva,li annusava».

Sto percorrendo la leggenda d’un uomoe di un’impresa negli anni d’oro. Va tutta-via colto un momento nel quale l’inno in-tonato a gloria di Einaudi e della Einaudiha rischiato di mutarsi in elegia. Fu quan-do, messa in mora l’esperienza comuni-sta, vennero addebitate alla casa editricesostanziali responsabilità nel far prevale-re in Italia l’egemonia culturale della sini-stra. Simili addebiti avrebbero accompa-gnato l’ultimo decennio di vita dell’edito-

re, già amareggiato dalle ricorrenti crisiaziendali che preludevano all’assimila-zione della Einaudi nell’impero berlusco-niano.

Non sono certo mancati, allora e in se-guito, i difensori appassionati del «divoGiulio». Bobbio fra i primi invitò i detrat-tori a scorrere il catalogo Einaudi: ci si ac-corgerebbe, allora, che «sono più nume-rose le opere di Wittgenstein che quelle diMarx». Ci fu chi parlò di «sciacallaggio».Chi di «bestemmia». A Luisa Mangoni, cheha dedicato dieci anni fa un volume allaEinaudi, Pensare i libri, bastò enumerare ifiloni culturali, presenti nella casa editri-

NELLO AJELLO

LA GIORNATA

L’editrice Einaudi, la Regione Piemonte e la Città di Torino organizzano il 4 aprile

Giulio Einaudi dieci anni dopo. Alle 10 all’Auditorium Rai di piazza Fratelli Rossaro:

Antologia di Spoon River con Roberto Vecchioni, Gabriele Vacis e Francesca

Porrini. Alle 16 al Maneggio della Cavallerizza di via Verdi 9: La mia pagina Einaudi,il catalogo Einaudi sfogliato con Bruno Gambarotta. Alle 21 all’Auditorium Rai:

Domani con Enzo Bianchi, Eugenio Scalfari, e Abraham Yehoshua

LO STRUZZOGiulio Einaudi

sotto il simbolo

dello “Struzzo”;

nell’altra foto, l’editore

con Elio Vittorini

e Italo Calvino

Il disegno

è di Tullio Pericoli

La lettera del padre«Mio carissimo figlio». Così incomincia la lettera

(inedita e che è riprodotta qui sotto e accanto) che

il 2 novembre 1945 Luigi Einaudi manda al figlio Giulio

pregandolo di passare a trovare i genitori. Dopo avergli

parlato di questioni quotidiane, ecco uno dei passaggi più

toccanti: «Quello che voglio dirti è che noi due siamo

disperati. Abbiamo settantuno e sessant’anni e oramai

il solo legame, solo ma grande, che ci tiene uniti alla vita,

sono i figli e i nipotini. Senza di loro val la pena di vivere?».

E più avanti: «A pranzo non abbiamo parlato e le lacrime

non ci lasciavano vedere il cibo. Perché, almeno una volta

durante la permanenza a Roma, non farti vedere?»

(Conservata alla Fondazione Giulio Einaudi di Torino)

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Quando gli si addebitavadi circondarsi, in azienda,di gente di sinistra,rispondeva:“Io non gli chiedo la tessera,però se lavorano quisono quanto menodei democratici”

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 29MARZO 2009

ce, che non andavano in direzione dellafalce e martello: dalla famosa “collana vio-la” a cura di De Martino e Pavese, alle ope-re di Jung, di James G. Frazer (Il ramo d’o-ro) o di quel Mircea Eliade che a sinistra èvisto come un controrivoluzionario.

Lui, il creatore dello Struzzo, risponde-va più annoiato che sdegnato. Citava fra i«suoi» autori Hemingway e Sartre, Salve-mini, Franco Venturi e De Felice. Quandogli si addebitava di circondarsi, in azien-da, di gente di sinistra, rispondeva: «Ionon gli chiedo la tessera, però se lavoranoalla Einaudi sono quanto meno dei demo-cratici». Uno di questi collaboratori “sto-

rici”, Guido Davico Bonino, ha racconta-to i primi approdi in casa editrice di Ren-zo De Felice, intorno al ’61. Già timido disuo, lo storico vedeva peggiorare durantequeste visite la propria latente balbuzie.Padron Giulio, pur cosciente che il Mus-solini defeliciano si vendeva come il pane,lo salutava di malavoglia. Lo molestava ilfatto che in quella interminabile biografiaMussolini non venisse descritto come ilmale assoluto. «Era una cosa di pelle, nonideologica», commenta il divulgatore del-l’aneddoto.

Come dire che, ai propri capricci, unCapo così non si cura di reagire.

Sfuggendo alle trappoledel romanzo di massa

GIULIO EINAUDI

Non vi ripeterò le argomentazioni di certi filosofi,come Horkheimer o come Adorno, sulla «cultu-ra di massa» e sui terribili effetti alienanti che es-

sa è in grado di produrre attraverso i poderosi strumen-ti di cui dispone: cinema, televisione, una certa editoria.Per capire la genesi del fenomeno e per rendermi contoin quale misura e in quale senso possa definirsi come ti-picamente americano, preferisco rifarmi a un innocen-te libretto uscito a New York nel 1893. Si intitola The No-vel: What It Is e ne è autore Francis Marion Crawford,uno scrittore americano vissuto per oltre vent’anni inItalia sulla fine del secolo scorso.

Con una franchezza ammirevole, Crawford definisceil romanzo «una mercanzia da vendere, appartenentealla classe degli oggetti di lusso». Compito principale diun romanzo è di divertire e interessare il lettore e il ro-manziere è, per così dire, obbligato da una specie di ta-cito contratto col compratore a procurargli il diverti-mento che questi si aspetta dalla lettura del libro. Quin-di niente sotterfugi, niente tentativi di contrabbandarelezioni o prediche, cioè cultura o pensiero, ma limitarsia fornire al cliente nient’altro che un «piccolo teatro ta-scabile». [...] A questi consigli Crawford ne aggiunge unodi fondamentale importanza: non dipingere la vita

com’è, con tutte le sue angosce e brutture, ma dipin-gerla «come dovrebbe essere». Il moralismo e il lieto fi-ne sono gli accessori indispensabili di una letteraturacosì concepita.

Vi confesso che la prima cosa che mi ha colpito leg-gendo questa ingenua e onesta teoria del romanzo è sta-ta una sua vaga somiglianza con le teorie in voga ai tem-pi di Zdanov, quando gli scrittori del «realismo sociali-sta» dovevano attenersi al precetto di far trionfare co-munque il bene sul male, di mettere in luce soltanto glielementi positivi della vita, di anteporre alla realtàcom’è la realtà come dovrebbe essere. Le grandi societàmoderne — riflettevo — sembra non possano reggersise non sulla superficialità e sul conformismo delle mas-se; la letteratura è obbligata, o da un censore, o dalle leg-gi del mercato, ad alimentare questo conformismo.

Ma torniamo al nostro amico Crawford. Come nonaccorgersi che egli ha dato una perfetta definizione del-la cosiddetta letteratura di consumo? [...] Vorrei fareun’osservazione su quanto vi ho appena riferito: è sol-tanto un caso che Crawford sia americano. La sua defi-nizione del romanzo è quella della «letteratura amena»comune nell’Ottocento a tutti i paesi. Le sue idee in pro-posito non differiscono dalle idee di infiniti altri scritto-ri italiani o francesi o inglesi della stessa epoca. Maquand’è che il fenomeno diventa tipicamente america-no e si trasforma in un fenomeno di «cultura di massa»,degno di essere considerato con la più viva preoccupa-zione da filosofi, sociologi e pedagoghi? Quando la «let-teratura amena» diventa una grande industria e le sueleggi — che erano ingenui e bizzarri precetti in Crawford— fanno tutt’uno con le leggi della produzione e del con-sumo su vastissima scala, le leggi cioè su cui si basa tut-ta la vita sociale di un paese. Tutto ciò è tipicamenteamericano perché questo passaggio si è verificato inAmerica prima che altrove e vi si è verificato allo statopuro, senza temperamenti, secondo il ritmo e la forza diuna colossale economia qual è quella americana. [...]

L’America oggi rischia forse di essere questo: un pae-se in cui certi fatti culturali, in se stessi positivi, come imezzi di comunicazione di massa, sono sottoposti auna tale incontrollata spinta di sviluppo che ne risulta-no modificati la loro natura e il loro scopo originari.Creati per diffondere il pensiero, l’informazione, la cul-tura, i mezzi di comunicazione di massa possono tra-sformarsi in certi casi in strumenti diabolici che annul-lano il pensiero, distorcono l’informazione, contrasta-no la cultura. [...]

Questa editoria «quantitativa» confina con la pura esemplice industria tipografica, col puro e semplicecommercio di carta comunque stampata. I danni cheessa produce sono di due tipi: innanzitutto essa disedu-ca i lettori, li disorienta, ne fa dei consumatori di carta enon di cultura. In secondo luogo, per il meccanismostesso del mercato e per la forte pressione economicache essa esercita, questa editoria finisce fatalmente perinfluenzare anche l’editoria «qualitativa», l’editoriacioè che si ispira a criteri di valore culturale. Questa in-fluenza negativa può esercitarsi sia nel senso che l’edi-toria culturale, l’editoria seria, si separa dal resto e si bar-rica in un sempre più accentuato isolamento speciali-stico; sia nel senso che anche l’editoria culturale adottametodi e forme della cultura di massa, e si lancia nel vor-tice del mercato sottoponendo i suoi scrittori, i suoi ca-valli di razza, alle pericolose acrobazie e ai tour de forcedistruttori imposti dalla pubblicità e dalla legge infer-nale del successo.

Tutto questo rappresenta un pericolo, un pericolo ve-ramente grave. [...] L’editore deve avere chiara coscien-za di tutto ciò, e pensare al proprio lavoro come a un ve-ro e proprio servizio pubblico. In altre parole, l’editorenon deve concepire l’insieme dei lettori semplicemen-te come un mercato, ma sempre come una società civi-le. Questo lo obbliga a non essere mai indifferente al con-tenuto dei libri che offre e a ricordare sempre che un li-bro prima di essere una merce è e deve restare un libro,e rivolgersi non a un cliente, ma a un uomo.

(Intervento alla Nuova galleria d’arte modernaper l’Associazione culturale italiana, New York,

9 aprile 1964. Dall’archivio Giulio Einaudi Editore perconcessione della Fondazione Giulio Einaudi di Torino)

Repubblica Nazionale

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Centodieci anni fa nasceva l’attore, commediografo,musicista, sceneggiatore che fu amico di dividi Hollywood, scrittori e teste coronate e autore

di memorabili commedie sofisticate, tuttora in scena. Il suo epistolario, appenapubblicato negli Stati Uniti, mette insieme i capitoli di un’avventura straordinariaTra party esclusivi, vacanze esotiche, Martini a colazione. Nella ruggente età del jazz

SPETTACOLI

“Vite private”,la sua pièce piùriuscita, fu scrittaa Chicagoin quattro notti“Hay fever”,invece, in solitre giorni

38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 29MARZO 2009

Forse nessuna vita èstata tanto diverten-te, nel secolo scorso,quanto quella d’uninglese di modestaestrazione sociale e

bell’aspetto — attore, comme-diografo, musicista e sceneggia-tore di film —, che si chiamavaNoël Coward. E di certo nessunavita è stata pervasa come la suada così tanta “gaiety”: buonu-more, “sense of humour”, pas-sione del vivere. Il tutto accom-pagnato da una salute eccellen-te, da ingenti guadagni e dallacapacità di tenere a distanza iseccatori e la noia. Nel pondero-so volume delle Letters of NoëlCoward curato da uno dei suoibiografi, Barry Day (Knopf, 780pagine, 32 dollari), il lettore d’etàavanzata, che abbia quindi vis-suto molto a lungo nel Novecen-to, non fa che sognare. «Il partyche hanno dato ieri in mio ono-re», scrive Coward nel 1931 daNew York, «è stato molto carino.George Gershwin s’era messo alpiano, e così abbiamo fatto l’unadi notte».

Nel settembre del 1938, subi-to dopo il Patto di Monaco concui Francia e Inghilterra, nellepersone dei loro primi ministriDaladier e Chamberlain, aveva-no consegnato la Cecoslovac-chia e il destino dell’Europa nel-le mani di Hitler e Mussolini, ilsottosegretario agli Esteri ingle-se, Anthony Eden (l’uomo piùelegante di tutto il Novecento),venne spedito in America perspiegare in un paio di conferen-ze le ragioni per le quali Parigi eLondra avevano optato perl’“appeasement”. Coward eramolto amico di Eden, e la sera deldiscorso che questi fece a NewYork scrisse alla madre Violet:«L’accoglienza ad Anthony e alsuo discorso è risultata estrema-mente calorosa, e penso quindiche la sua visita qui sia stata mol-to utile. Ma adesso, carissima,devo lasciarti perché porto apranzo gli Eden con Gary Coo-per e sua moglie…».

Gershwin, Eden, Gary Coo-per: eppure non si tratta che

re avevano sempre gli stessi ap-partamenti riservati.

Ma Maugham, amareggiatodalla sufficienza con cui vennetrattato per tutta la vita dalla cri-tica letteraria, non era un uomoallegro, e la sua vecchiaia — co-me si vede in Conversazioni conzio Willie, i ricordi del nipote Ro-bin Maugham — fu molto ma-linconica se non addirittura cu-pa. E quanto a Cole Porter, unacaduta da cavallo avvenutaquando era ancora giovane locostrinse a una vita da invalido,a numerose operazioni chirur-giche, e infine alla sedia a rotelle.Non c’è sua fotografia in cui Co-le (magnificamente vestito co-me Coward, e anche lui quasisempre con un garofano all’oc-chiello) non appaia sorridente.Ma il suo sorriso è tirato, in alcu-ne foto è quasi una smorfia, acausa degli implacabili dolori al-le gambe e della troppa cocaina.

Coward ebbe invece in sorte,come s’è detto, una salute di fer-ro. All’indomani dell’andata inscena d’una sua commedia aChicago o New York, per esem-pio, dopo giorni e giorni di scon-tri con i produttori, di prove este-nuanti e di tensioni in attesa del-la prima, poteva salire su un pi-roscafo, un treno o un aereo, eraggiungere Londra o Parigi, leBermuda o Singapore, dove l’at-tendevano gli amici: MarleneDietrich, i duchi di Kent, JohnGielgud, Alexander Korda, Lau-ren Bacall, i Mountbatten, Vi-vien Leigh, Diana Cooper, Clif-ton Webb. E quando già avantinegli anni (era nato nel 1899)andò a cantare le sue canzoni sulpalcoscenico del Desert Inn aLas Vegas, la notte dopo la primafece l’alba — sempre col bicchie-re in una mano e la sigaretta nel-le dita dell’altra — ad un party or-ganizzato da Frank Sinatra.

Successi, platee plaudenti,grandi titoli sui giornali. Innan-zitutto con le commedie (unacinquantina), da Vortice a Ca-valcata, da Stasera alle 8,30 a Vi-te private, da Hay fever a Spiritoallegro e Relative values, per ci-tare solo le più note. Testi tessu-ti di conversazioni leggere e spi-ritose — qua e là una battuta che

d’un assaggio, l’“amuse bou-che” di queste lettere deliziose.Perché andando avanti il lettoretroverà altri magnifici parties,altri pranzi con commensali im-pareggiabili, e poi premières ap-plauditissime, weekend con So-merset Maugham o LordMountbatten o Cary Grant, eviaggi per tutto il mondo conquattro-cinque bauli al seguito:i viaggi da cui Coward avrebbepoi ricavato i versi esilaranti diTravel & travellers. Insommaquarant’anni d’indefessa, scin-tillante mondanità. E grandefortuna, negli anni dopo la guer-ra, nell’avere vicini di casa affa-scinanti. In Svizzera David Ni-ven, George Sanders e CharlieChaplin, alla Giamaica GrahamGreen e Ian Fleming con la mo-glie Anne (ex lady Rothermere).«Ian e Anne sono passati ancheieri sera a bere un Martini primadi pranzo».

In quegli anni tra le due guer-re che Robert Graves ha descrit-to in un libro celebre, The longweek-end, anche altri ebberoegregie vite mondane. SomersetMaugham, per esempio, o ColePorter. Ambedue godevano di

rendite cospicue — grazie ai ro-manzi dell’uno e ai musical del-l’altro —, e ambedue erano per-sonaggi di spicco in quella cheallora si chiamava “high life” epiù tardi si chiamò “cafè so-ciety”. Ma Maugham e Porternon avevano la “gaiety” diCoward. Si muovevano tra le ce-lebrità — duchesse, attori famo-si, milionari eleganti —, la seravenivano loro serviti Martiniperfettamente ghiacciati da do-mestici impeccabili o barmandeferenti, al Claridge di Londra,al Ritz di Parigi, al Waldorf diNew York e al Raffles di Singapo-

SANDRO VIOLA

gli spettatori avrebbero ridettal’indomani al bar o in ufficio —,vicende da cui affioravano la no-stalgia per i doni di seduzionedell’upper class, i nuovi umoridella jazz age, gli strappi che l’e-poca stava infliggendo all’istitu-zione matrimoniale. E mai unmoralismo, una profondità po-sticcia, una frase pretenziosa.

Oltre alle commedie, poi, le ri-viste, i film (Breve incontro, peresempio) e le canzoni. Canzonipari soltanto a quelle di Porter edi Rogers & Hammerstein,dunque indimenticabili: Wewere so young, I travel alone,I’ll see you again, I went to a mar-vellous party. Dei parties, la pas-sione di Coward, s’è già parlato,ma vale la pena ricordare quelloche dette Norma Shearer nellasua casa di Santa Monica nel feb-braio ‘37, con Claudette Colbert,Tyrone Power, Lesile Howard,Merle Oberon, Gary Cooper, laDietrich e tanti altri, dopo chenel pomeriggio Coward avevapartecipato ad una trasmissionedella radio con Cary Grant, Ro-nald Colman, Carole Lombard ei Marx brothers.

La mondanità di Coward nonera tuttavia circoscritta all’am-biente dello spettacolo, teatro,cinema, cabaret. La sua “engli-shness” — l’amore per l’Inghil-terra, l’orgoglio d’essere inglese— lo spingeva più in alto, sino aibordi della Royal family. Eccoquindi lo stretto rapporto conGeorge e Marina di Kent (e parti-colarmente stretto, si sussurra-va a Londra nei Trenta, con il du-ca), l’amicizia con i Mountbat-ten, e nella vecchiaia i tanti invi-

LOCANDINEIn alto, locandine

delle commedie

di Noël Coward

e una sua caricatura;

nella fotografia

grande, il commediografo

ritratto nel 1932

Metti una sera a cenacon Noël Coward

ESISTE L’ITALIA?DIPENDE DA NOI

www.limesonline.com

il nuovo volume di Limes (2/09)la rivista italiana di geopolitica

è in edicola e in libreria

Repubblica Nazionale

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Bruce Chatwinlo incontròa pranzo a Londrae lo descrisse poinelle ultime righedel suo libro“Che ci faccioqui?”: “Dominala conversazioneed è così spiritosoche risi sinoalle lacrime,e la pernice miandò di traverso”

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 29MARZO 2009

ti a pranzo dalla Regina madre. Un patriottismo appassiona-

to (la sola retorica rinvenibile nelmare delle sue pagine) e inossi-dabile. Nel ‘37 scrive disperato aMountbatten, implorandolo difare il possibile per impedire ilmatrimonio di Edoardo VIII conWally Simpson, «una tragediaper la nostra Inghilterra». Alla vi-gilia della guerra, furioso controChamberlain e la politica di “ap-peasement”, s’avvicina al “cir-colo di Churchill” e accetta unaproposta del Foreign office perandare a sentire (e poi riferire, èovvio) «quel che si dice» in Ger-mania, in Polonia, in Russia. Nonproprio le missioni segrete diMaugham nella Prima guerramondiale, ma qualcosa di simi-le. E più tardi, durante il conflit-to, ecco i musical e i film per so-stenere il morale delle truppe edel fronte interno.

Per lavorare tanto, era neces-sario lavorare senza troppa fati-ca. E infatti Vite private, la suacommedia più riuscita (ancoroggi, quasi ottant’anni dopo, inscena all’Hampstead Theater diLondra), fu scritta a Chicago in

quattro notti, Hay fever in tregiorni, e una delle sue più bellecanzoni, I’ll see you again, in untaxi imbottigliato nel traffico diManhattan. E quand’era in va-canza, per esempio sui piroscafiin rotta per Pago-Pago o Tahiti,pagine e pagine di diario, decinedi lettere agli amici o ai produtto-ri, progetti di nuovi cast per la ri-presa delle commedie, una o duecanzoni da cantare al Savoy conla piccola ma agile orchestra diCarrol Gibbons.

Già negli ultimi Trenta era or-mai “the Master”, il Maestro conla m maiuscola. Così lo chiama-vano i giornali, gli attori, gli ami-ci, i barman del Claridge o delRaffles. Ma un po’ dopo, finita laguerra, anche il Maestro conob-be un suo periodo di malinconie.I gusti stavano cambiando (ilmondo era cambiato), e s’eranoaffacciati nuovi commediografi:John Osborne con Look back inanger, Arnold Wesker con le suedeprimenti commedie sui “su-burbs” londinesi e i dolori dellaclasse operaia. Le commedie diCoward si davano sempre meno,e con accoglienze sempre più

tiepide. Ma “the Master” reagì:venne Breve incontro, vennero iruoli nei film (lo stolido e stupen-do personaggio nel Nostro uomoall’Avana), mentre la classe ope-raia di Wesker aveva cominciatogiustamente ad annoiare le pla-tee.

Nei suoi ultimi anni, Cowardera un monumento. E fu BruceChatwin a ritrarlo come tale nel-le ultime righe di Che ci faccioqui?, sul fondale «del suo ultimopranzo a Londra prima che si tra-scinasse a morire in Giamaica».Il piccolo pranzo è da Anne Fle-ming, la vedova di Ian, con LadyDiana Cooper e Merle Oberon.“The Master” domina la conver-sazione, ed è così spiritoso che —scrive Chatwin — «risi sino allelacrime, e la pernice mi andò ditraverso». Poi, mentre stannoandando via, Coward prende indisparte Chatwin, e dice: «Mi hafatto molto piacere conoscerla,ma purtroppo non ci vedremopiù perché tra non molto io saròmorto. Ma se accetta un piccoloconsiglio a mo’ di commiato, ec-colo: non si lasci mai intralciareda preoccupazioni artistiche».

IN SCENAA sinistra

e sopra,

due locandine;

a destra,

Coward

in una foto

del 1936

e, in alto,

con Gertrude

Lawrence

nel 1931

FO

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Repubblica Nazionale

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i saporiMolluschi

Al gratin, come sauté o impepata, a corredo di linguine o spaghetti,questi mitili sono un superclassico della nostra cucina Certo, ci vuole attenzione perché la loro fama di “spazzini”dell’acqua comporta precauzioni e controlli molto rigorosi. Comei laboratori e le degustazioni del vicino Slow Fish insegneranno

40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 29MARZO 2009

LICIA GRANELLO

Il mio regno per un sauté. Difficile im-maginare un piatto più itticamentegoloso, coinvolgente, da condividerein allegria o consumare in beata soli-tudine, fumante o appena tiepido,delicato o piccante. Una celebrazio-

ne polisensoriale, che parte dal profumo dimare intenso, galvanizza le papille, richiedela partecipazione attiva delle dita, pronte atuffare bocconi di pane nel guazzetto.

Non che vongole e cozze, prese singolar-mente, difettino di dignità propria. Del re-sto, esistono piatti dove cozze e vongole,prese singolarmente, battezzano l’animastessa di una ricetta. Che siano linguine oscialatielli, spaghetti grandi o piccoli, la pa-sta lunga con le vongole, per esempio, nonammette commistioni di sorta. Allo stessomodo, impepata e gratin hanno un senso so-lo con le cozze protagoniste senza compri-mari.

Accomunate dalla condizione morfologi-ca di bivalve e dalla straordinaria versatilitàin cucina, cozze e vongole sono meraviglio-samente diverse. I mitili mediterranei, purvantando nomi diversi a seconda delle re-gioni — peoci, cozze, muscoli — sono facil-mente identificabili: guscio marrone o ne-rissimo, interno a tinte più o meno forti, a se-conda del sesso: giallo chiaro per i maschi,arancio vivo per le femmine.

Hanno una pessima fama, le cozze, per-ché si nutrono di microrganismi in decom-posizione, attività che le rende sensibili allatipologia dell’acqua in cui vivono. Così, lestesse cozze sono pessime se inquinate dagliscarichi di Marghera e stupende se prospe-rano libere e selvagge nella baia di Portono-vo, Marche, produzione inserita tra i presìdiSlow Food.

Per i moscioli come per le vongole, anchein mari sanissimi, i rischi si identificano conle microalghe di cui si nutrono: complice la

tropicalizzazione del Mediterraneo, infatti,ne sono state individuate alcune variamen-te tossiche, capaci di scatenare disturbi al-lergici e gastroenterici. Unica difesa, il con-trollo costante delle acque, con sospensionetemporanea della raccolta quando si supe-rano i limiti di tollerabilità.

In compenso, il professor Karl Kruszel-nicki, uno tra i più popolari scienziati-divul-gatori inglesi, ha recentemente sfatato lacredenza che vuole malati, e quindi tossici, imolluschi cocciutamente chiusi dopo lascaltritura. Secondo Kruszelnicki, a causarela non apertura delle valve è la mancata de-naturazione delle proteine del tessuto mu-scolare dei molluschi, dovuta a una reazioneatipica — ma innocua — al calore. Una sco-perta che vale 370 tonnellate di molluschi,ovvero la massa di cozze e affini, gettate ognianno nella spazzatura perché consideratenocive.

Tutto quello che avreste voluto sapere sucozze e vongole, lo troverete tra laboratorididattici e degustazioni guidate nei giorni diSlow Fish. Altrimenti, organizzate un weekend sul lago d’Orta e mangiate da ToninoCannavacciolo. La sua riedizione di coz-ze&fagioli — crema di cozze con maltagliatidi farina di fagioli — vi farà definitivamenteinnamorare degli ex spazzini del mare.

L’arte mediterraneadi mangiare il mare

L’appuntamentoAl via la quarta edizione

di Slow Fish alla Fiera

di Genova dal 17 al 20 aprile

In programma, aste, dibattiti,

degustazioni, mercati,

cucine di strada

Tra i laboratori,

uno per imparare tipologie

dei molluschi, segreti

sulla freschezza e trucchi

da chef. L’altro, condotto

da allevatori di Italia,

Francia e Slovenia,

sulle differenti ricette

dei tre paesi

SpaghettiSi spadellano in olio, aglio,

liquido di scaltritura, vongole

(metà sgusciate), prezzemolo

e pepe. Stupendi scolati

a metà cottura e “tirati”

in padella come un risotto

nel liquido allungato

o in fumetto di pesce

SautéScaltritura in aglio,

extravergine e peperoncino

a piacere. Dopo aver sfumato

un bicchiere di vino bianco,

si filtra e si versa il liquido

di cottura sulle vongole

scolate. Rifinitura

con prezzemolo

RisottoSoffritto di cipolla, e vino

bianco dopo la tostatura

del riso. Cottura in brodo

di pesce o verdura con liquido

di scaltritura. Vongole

sgusciate a tre quarti

di cottura. Buccia di limone

grattugiata e vongole intere

Clam chowderLe vongole chaudrée, cotte

nel rame (la ricetta arriva

dal Canada atlantico francese)

si cuociono in un soffritto

di cipolle, sedano e pancetta

con aggiunta di patate, acqua

e liquido di scaltritura

Rifinitura con panna o latte

Cozzevongolee

VongoleA differenza delle cozze, vivono su fondi sabbiosiDue sistemi per pulirle: immerse in poca acqua salataperché spurghino la sabbia, o scaltrendole direttamente in pentola e filtrando il liquido con una garza

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 29MARZO 2009

itinerariIl lucano Vito Mollicaè l’executive chefdel maestoso“Four Season Hotel”di FirenzeTanto girare

per il mondoha lasciato intattoil suo amore per la cucinaregionale italiana:squisiti gli scialatiellipartenopei guarniticon vongole veraci

L’antico borgo

affaccia su una sacca

d’acqua salmastra,

dove seicento ettari

sono dedicati

all’allevamento

di vongole veraci

DOVE DORMIRETENUTA GORO VENETO

Via Basilicata

Tel. 0426-81097

Doppia da 55 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIARESTELLA DEL MARE

Via Po 36, Gorino Veneto

Tel. 0426-388323

Chiuso lunedì e martedì, menù da 40 euro

DOVE COMPRARECONSORZIO PESCATORI

Via Brugnoli 298

Tel. 0533-793111

Goro (Fe)Tra Mar Grande

e Mar Piccolo, vanta

una millenaria

tradizione ittica

A giugno, il Festival

delle cozze celebra

le saporite “tarantine”

DOVE DORMIREB&B ISOLA BLU

Via Duca di Genova 24

Tel. 329-1044533

Doppia da 80 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREGATTO ROSSO

Via Cavour 2

Tel. 099-4529875

Chiuso lunedì, menù da 30 euro

DOVE COMPRAREPESCHERIA GESÙ CRISTO (con cucina)

Via Cesare Battisti 8

Tel. 099-477725

TarantoNata negli anni Trenta

sulle sponde del lago

di Paola, nel parco

del Circeo, ospita

allevamenti ittici

ideati dai tecnici

arrivati da Comacchio

DOVE DORMIRESAN FRANCESCO CHARMING HOTEL

Via Caterattino

Tel. 0773-515951

Doppia da 105 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREL’AZIENDA

Via Casali di Paola 6

Tel. 0773-596800

Aperto solo la sera, menù da 40 euro

DOVE COMPRARELE MAR

Corso Vittorio Emanuele III 178

Tel. 0773-511274

Sabaudia (Lt)

Miseria e nobiltàdella strana coppia

MARINO NIOLA

Una è il Calimero del mare, l’altra è lapopolana più sexy degli abissi. Cozzee vongole sono la coppia simbolo del

nostro mangiare alla marinara. Povere mabelle, fatte apposta per un palato colto e po-polare come quello italiano. Pochi ingre-dienti tanto sapore. Sul gusto semplice diquesti molluschi — quasi una combinazionepresocratica di acqua, fuoco e aria profuma-ta — il genio cucinario del Bel Paese ha com-piuto esaltanti esercizi di gastronomia tra-scendentale.

Impepata di cozze, sauté di vongole, lin-guine allo scoglio, risotto alle arselle, cozzegratinate. E su tutto i sontuosi spaghetti allevongole, quintessenza del modo di mangia-re, ma anche del modo di essere degli italia-ni. Morbido, sgusciante, gustoso, viscoso, dipoca sostanza, di grande tolleranza. Il carat-tere nazionale sintetizzato in un piatto chepiù simbolico non si può. Un compromessogastronomico in cui finiscono per ritrovarsiun po’ tutti, eccezioni a parte. Non a caso Eu-genio Scalfari scrisse all’indomani della mor-te di Enrico Berlinguer che il segretario del Pciera uno dei pochi politici italiani «non allevongole». E infatti il rigore giacobino mal siconcilia con la propensione alla mediazionedi questo piatto capace di mettere d’accordotutti i gusti e di far coesistere tutte le differen-ze. In fondo il gran misto di mare, dove cozzee vongole, arselle e lupini si mescolano allarinfusa, trovando un miracoloso equilibrionel nome del piacere e del sapore, è una per-fetta immagine di questo paese. Un cibo dacommedia all’italiana. Da miseria e nobiltà.Schiettezza popolare e ammiccamento pic-colo borghese.

Tradizionale sinonimo di scarsa avvenen-za, le cozze sono a tutti gli effetti un sottopro-letariato acquatico, una folla indistinta, nera,aggrovigliata. Brutta, sporca, ma non cattiva.Nulla a che spartire con le blasonate ostricheche irrompono sulla scena della tavola ada-giate su sontuosi plateau di ghiaccio e prece-dute dai loro nomi, altisonanti come titoligentilizi. Belon, Rocher de Cancale, Fine deClaire, Oléron. Massimo dodici, mai meno ditre. I loro calibri si misurano con inesorabilescrupolo, come i quarti di nobiltà. Mentre lecozze, oscure e generose, si comprano a chi-li, a retine e in Francia addirittura a litri. A Ve-nezia le chiamano con l’appellativo poco lu-singhiero di peoci, che a Trieste diventanopedoci. Ma il risultato non cambia, si trattasempre e comunque di pidocchi. Una molti-tudine anonima fatta di mitili ignoti. Prontiperò a buttarsi nel fuoco per la gioia delle no-stre papille. Il loro sacrificio ha arricchito lacucina povera italiana di capolavori assoluticome pasta e fagioli con le cozze, come le tiel-le di Gaeta, gli sformati pugliesi con riso e pa-tate. E, last but not least, la maionese di coz-ze della Conca di Alimuri immersa nellosplendore della penisola sorrentina.

Oggi questi molluschi low cost celebrano illoro trionfo e gli chef ne nobilitano le pro-prietà ipocaloriche innalzandoli alle gloriedell’alta gastronomia. Un contrappassoquasi dantesco, dall’indigenza del sugo allevongole fujute fino al gran concerto di sapo-ri dello spaghetto che piroetta nel piatto. Eballa coi lupini.

ImpepataNecessita di extravergine,

aglio, pepe nero (alla fine)

e braccia robuste. Infatti, dopo

aver fatto scaltrire le cozze

a fuoco vivace, occorre

scuotere più volte la pentola

dal basso all’alto per far uscire

l’acqua di cottura

MarinaraAglio schiacciato, olio, sedano

e prezzemolo tritati

grossolanamente, un bicchiere

di vino bianco per il classico

sauté. Nel piatto di portata,

metà cozze sgusciate, le altre

lasciate intere, servite

con il brodo filtrato e caldo

RipieneLe cozze scaltrite si farciscono

con prezzemolo, uovo, capperi

e pecorino. Chiuse col filo

grosso, si appoggiano in teglia

su salsa di pomodoro e liquido

di cottura filtrato. In forno

per un quarto

d’ora

GratinateScaltritura con olio, aglio e vino

bianco a fuoco allegro. Tolte

le valve superiori, vanno velate

con un impasto di sale, pepe,

parmigiano, pangrattato, olio,

prezzemolo e poco liquido

di cottura

Doratura in forno

CozzeI mitili mediterranei d’allevamento si lavano sotto l’acquacorrente. Quelli di scoglio vanno raschiati con una pagliettaper togliere i denti di cane (piccole escrescenze calcaree)La “barbetta” si strappa tirandola verso l’alto

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 29MARZO 2009

le tendenzeAmbiguità

La giacca maschile diventa un miniabito da indossare senzagonna, le tracolle femminili sostituiscono i borselli, spariscela scollatura a vantaggio del girocollo, torna il calzoncinoRagazze androgine, ragazzi “garçonne”: così la modasupera il concetto di unisex e arriva ad annullare i generi

Quando negli anni Sessanta lolanciò Ted Lapidus, stilistafrancese noto per aver demo-cratizzato la moda, fu definito“unisex”. Era uno stile fatto disilhouette androgine e snelle,

divise militari, tagli squadrati e spalline sot-to le giacche. Molto tempo dopo è arrivato il“metrosexual”. Uomo del nuovo millennioche, nell’incerta ma costante ricerca di un’i-dentità, coltiva il proprio lato femminile de-dicandosi ossessivamente all’abbiglia-mento. In fondo si tratta di risposte, al ma-schile, al fascino indiscutibile della garçon-ne del romanzo di Victor Margueritte. An-che per lei, nulla èlasciato al caso: ca-pelli molto corti,cravatte, camicie egiacche dal tagliosartoriale.

È il perenne “gio-co delle coppie”che ciclicamenteritorna. E anche inquest’inizio di pri-mavera in passerella, e nelle vetrine dei ne-gozi, brillano donne e uomini dagli abiti in-tercambiabili. Cambiano di conseguenza leregole della seduzione. Per le ragazze di ognietà la parola d’ordine è femminile ma nontroppo. Vince l’ispirazione al guardarobamaschile rivisitato in chiave sexy. Si altera-no le proporzioni ma l’ambiguità resta. Ar-chiviate le scollature abissali trionfa il piùneutro girocollo. La giacca maschile diven-ta un miniabito da indossare senza gonna.Le scarpe perdono i tacchi e conquistano ilacci o la variante in stile inglese. La camiciaè maxi. I pantaloni sono morbidi e di tagliomaschile. Non solo. Le donne si appropria-no della cravatta e l’abbinano con spirito a

un altro grande capo rubato a lui: il gilet. Perl’uomo invece l’avvicinarsi al mondo fem-minile rappresenta un salto di qualità. Sisvuotano le tasche e si utilizzano, forse perla prima volta, le borse. Si abbandonano letinte unite a favore di fantasie anche fiorateper abiti e accessori.

Si annullano le differenze. L’importanteè essere individui, indipendentemente dal-l’appartenenza all’una o all’altra metà delcielo. E, per il 2009, la sapienza dei miglioricouturier ha giocato proprio su questo: riu-scire a creare abiti, accessori e mise assolu-tamente simili per gli uni e per le altre. Nelladonna il pantalone è più sottile o nell’uomo

la spalla è più defi-nita, ma la sostanzanon cambia. Lui ri-scopre il borsellodel tutto simile allatracolla di lei, o laborsa fantasia conampi manici. Il cal-zoncino corto,trionfo dell’estate,scopre le gambe di

entrambi. Il fascino del completo bianconon risparmia nessuno. Anche gli accesso-ri e i gioielli entrano allegramente in gioco.Scarpe modello pantofola per entrambi.Cappelli panama e Borsalino che ombreg-giano il volto e donano fascino.

Per il gioco delle coppie, però, ci vuole uncerto fisico. Difficile infatti risultare andro-gine se la taglia è mediterranea. Analogo di-scorso al maschile. Un uomo tarchiato, oover cinquanta, con borsello e calzoncinicorti può lasciare inorriditi. Il consiglio, sesi vuole giocare con la giusta ironia, è dichiudere le riviste e munirsi di uno spec-chio che, se guardato con onestà, si può ri-velare il miglior consigliere.

OLD BRIT/1La scarpa stile inglese di Ermanno

Daelli: fascino a punta e lavorazione

traforata in versione estiva

Perfetta con i jeans e col classico

OLD BRIT/2Sembra nata per camminare

sui campi da golf la scarpa Church’s

con i lacci. Da usare con spirito

e moderazione di giorno e di sera

MAN IN BAGLavorata con pelli preziose

e dai colori a contrasto la borsa

di Etro. Un debutto impegnativo

ma attuale per l’uomo in bag

TARTAN WOMANMorbida e lievemente bombata

la borsa griffata Etro per lei

Abbina la fantasia tartan al classico

motivo della maison

CASA COMUNEComodità unisex con la morbida

pantofola in velluto griffata Cesare

Paciotti. Entrambe in un allegro blu

elettrico con stemma sul davanti

LEGGERAImpalpabile

eleganza

per la mise

Vera Wang

sfumata

in tre colori

dal beige

al nero

Tessuti

preziosi

e sandali

vertigine

Un armadio per dueè il gioco di coppia

IRENE MARIA SCALISE

SEDUZIONEGiacchino

smilzo,

che lascia

intravedere

il reggiseno,

e gonna

stretta

al ginocchio

per la donna

Prada

Un completo

tutto

seduzione

TECNOGiacca

sportiva

in tessuto

tecnico

per l’uomo

Prada

Da abbinare

di rigore

a pantaloni

scuri

impreziositi

dalla scarpa

classica

MINIMALStile

androgino

e color

bianco

candido

per la

maschietta

Ferragamo

Pantalone

morbido,

camicia

smilza

e cravatta

FATTORE BFascino

immacolato

per l’uomo

Louis Vuitton

La scarpa

sportiva

alleggerisce

il look

e lo rende

perfetto

per la città

estiva

e per il mare

SUPERSEXYAbito

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di John

Richmond

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in bianco

e nero

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SENZA TABÙDisinibito

l’uomo

Custo

Barcellona

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a fiori

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black&white

Cravatta

e scarpa

si trasformano

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estremo

PASTELLOSfumature

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Jil Sander

Azzurro polvere

e rosa confetto

abbinati

al classico

nero

ma su

una giacca

che si nota

LUNAREAnello

di sofisticata

lavorazione

di Roberto

Cavalli

per l’uomo

eccentrico

SOLAREAnello

di Louis

Vuitton

pensato

per la donna

che non ama

i classici

Repubblica Nazionale

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l’incontro

‘‘

Monumenti

Nelle istituzioniculturali mancail professionismoSpesso i ministeriscelgono personeinette, che hannooccupato la poltronaper meraappartenenza politica

È un ottantenne dai capelli candidie con una gentilezza di maniereda signore antico, ma non lasciateviingannare. Questo profeta

della musica scomodadi Schönberg, Berge Webern, baluardoanti-commercialee apripista dei compositoridel secondo dopoguerraè un maestro tenace,

disilluso e furente: “Bisogna essereestremi fino alla provocazione”,dice, “al nuovo va attribuitauna visibilità sfacciata”

PARIGI

In una sala della Cité de la Musi-que Pierre Boulez sta provandomusica di Webern. Brani aguzzi,fulminei, concentrati fino alla

crudeltà («un pensiero così forte e scar-nificato può esprimersi solo in tempicompressi», spiegherà in seguito Bou-lez durante il nostro incontro nel suostudio). Il gesto direttoriale è netto: hail dono dell’evidenza. Mai un filo di re-torica nelle analisi verbali calme e con-crete. Niente di mistico o estatico. Nes-sun bearsi di se stesso. Eppure, a ottan-taquattro anni, Boulez è un monumen-to vivente, l’ultimo dei giganti dellamusica del Ventesimo secolo, profetadel disancoraggio dalle convenzioni innome di una curiosità sperimentalesempre combattiva. Il 6 aprile il mae-stro francese dirigerà l’Ensemble Inter-contemporain alla Scala di Milano. In-cluso in una serie di programmi sceltida Pollini, sarà un concerto dedicato al-la seconda Scuola di Vienna: musichedi Schönberg, Berg e Webern, poderosiapripista per i compositori del secondodopoguerra. «Senza di loro», commen-ta Boulez, «il paesaggio musicale odier-no sarebbe diverso. Ci sono autori an-che notevoli, come Prokofiev e Hinde-mith, senza i quali il Novecento non sa-rebbe cambiato affatto. Altri invecehanno segnato in profondità la storia:come Schönberg».

Quello del 6 alla Scala sarà un eventoarduo, non accattivante. Eppure vantail tutto esaurito. Così avviene sempre inoccasione dei concerti di Boulez, atte-so pure a Ravenna a fine giugno conl’Orchestre de Paris, e ancora a Milano,sul podio dell’orchestra scaligera, a fi-

ne ottobre con un programma suBartók. Boulez affascina e coinvolge inquanto incarnazione di un sapiente il-luminismo, estraneo al chiasso e all’in-sipienza. In tempi di pensiero fragile,questo musicista tenace e avventurosoha la confortevole autorevolezza di unbaluardo di solidità anti-commerciale,emblema della musica vissuta con rigo-re e culto dell’artigianato sui due ver-santi dell’interpretazione e della com-posizione: è direttore d’orchestraesemplare nelle letture nitide, nella tra-sparenza strutturale, nella facoltà diconnettere in modo organico passato epresente; ed è un autore intrepido e ra-dicale, formatosi al credo dodecafoni-co, esploso come talento tra gli anniQuaranta e Cinquanta (Stravinskij lodefinì «il miglior compositore della suagenerazione»), studioso di informaticae nuovi orizzonti sonori. Mai artefice diopere teatrali («avrei voluto lavorarecon Genet, eravamo amici, ma morìtroppo presto», racconta), è sospettatoda qualcuno di frigidità razionalista.Ma è inattaccabile per coerenza e in-cessantemente proiettato nel futuro.

In più è un “motivatore” straordina-rio, stratega della cultura instancabilenel sollecitare, sospingere, edificare.Ispiratore dell’Ircam, centro pariginoper la ricerca sulla nuova musica e le piùavanzate tecnologie sonore; fondatoredell’Ensemble Intercontemporain,gruppo votato all’esecuzione della mu-sica del nostro tempo; consulente dellaCité de la Musique («fu mia l’idea di par-tenza e ho aiutato a plasmarne il mo-dello»); interpellato come consigliereper la costruzione della sala filarmoni-ca di Parigi, pronta nel 2013 («alla cittàmanca un grande spazio per concerti, siva avanti da troppi anni con strutturenon capienti e fatiscenti, confondendola vita musicale del terzo millennio conquella ottocentesca»).

Rispettato e temuto dai diversi go-verni in Francia, è deciso nell’afferma-re l’indipendenza del creatore. La poli-tica non lo ha mai contaminato: «Biso-gna avere fermezza di orientamento esguardo acuto. Assumersi il rischio del-la protesta o anche dell’invettiva. Cer-care interlocutori responsabili: non so-no molti. Nelle istituzioni culturalimanca il professionismo. Spesso i mi-nisteri scelgono persone inette, cheignorano le caratteristiche e le esigenzedell’ambito in cui vengono fatte opera-re, e che hanno guadagnato la poltronaper mera appartenenza politica».

Metodo assai diffuso, maestro. In Ita-lia se ne sa qualcosa, sia a destra che a si-

nistra. «Però bisogna ammettere che icomunisti italiani, almeno un tempo,non erano idioti come quelli francesi.Sono stato comunista solo fino al ’48,quando in una riunione di musicisti oc-cidentali emersero le conseguenze de-vastanti delle direttive in campo cultu-rale di Zdanov, il grande ideologo stali-niano. Mi sono reso conto che non c’e-rano differenze tra il binomio Hitler-Goebbels e quello formato da Stalin eZdanov, e ho capito che un genuinopensiero di sinistra è inconciliabile colcomunismo. Inoltre ero inorridito dacerti comunisti di stupidità intollerabi-le, che in Francia parlavano di bruciarei libri di Kafka, e in Ungheria non per-mettevano che si eseguisse Bartók».

Ancora oggi, nei confronti dei pro-blemi culturali, quest’energico ottan-tenne con capelli candidi e gentilezzadi maniere da signore antico, ma senzaun’ombra d’affettazione, non accennaa farsi da parte. Si ostina a battersi per leproprie convinzioni musicali e a criti-care l’assenza di coraggio «di coloro

che diffondono la musica, spesso prividi cultura o afflitti da lacune enormi. Inmolti temono il contemporaneo, e sescelgono un pezzo nuovo puntano sucose basate su modelli vecchi, come lecomposizioni dette neoromantiche,oppure che non disturbano, come il mi-nimalismo, musica primitiva e unidi-mensionale che annichilisce tutto. Noncapiscono che le idee autentiche arri-vano sempre a imporsi».

Un altro guaio culturale contro cuicombatte è la mania di proporre reper-tori ristretti: «Pensi al fenomeno del ba-rocco, riscoperto da poco: una minierad’oro e una tappezzeria graziosa per ar-redare sale da concerto. Altrettanto as-surdo è interessarsi esclusivamente dimusica romantica e post-romantica,che riguarda solo cent’anni di storia».Insomma, dichiara Boulez, «oggi la spe-cializzazione ha sostituito la cultura,mentre gli specialisti andrebbero usatisolo in chirurgia». Sostiene che più si ètimidi nelle proposte e meno il pubbli-co viene motivato: «Bisogna essereestremi fino alla provocazione. Na-scondendo le proprie scelte, presen-tando un pezzo contemporaneoschiacciato tra brani noti e popolari, sifinisce per essere deboli e non trasci-nanti. Al nuovo va attribuita una visibi-lità sfacciata».

Gli si fa notare che nel pubblico c’èpiù apertura e curiosità per la pittura delNovecento che non per la musica con-temporanea. «È vero. Se si organizzauna grande mostra su Picasso — è acca-duto di recente qui a Parigi — le perso-ne affrontano code di ore per vederlaperché la ricezione è più facile e diretta.Se non ti piace un quadro passi a un al-tro. Sei tu a determinare il tempo di frui-zione. Inoltre il territorio delle arti visi-ve è condizionato dal marketing, il chelo rende più misurabile e dunque piùaccessibile. Colpisce il fatto che un qua-dro sia stato venduto per diciotto milio-ni di dollari, ma è aberrante credere chesia il costo a definire il valore».

Odia la confusione dei contesti lin-guistici, questo maestro furente e disil-luso. Quando gli si riferisce che in Italiac’è chi paragona Giovanni Allevi a Mo-zart, ed è anzi lo stesso Allevi a osare ilfolle confronto, dice che «oggi piace ciòche è comodo, superficiale e non impe-gnativo: perciò si tende a proclamarel’equivalenza delle culture musicali. Li-vellamento insensato. A nessuno ver-rebbe in mente di porre sullo stesso pia-no Shakespeare o Beckett e una soapopera guardata in tivù, anche se i primisono più faticosi da assimilare della se-

conda». Insiste che «a ogni nuova sensibilità

dev’essere dato il tempo per imporsi.Ancora negli anni Cinquanta, negli Sta-ti Uniti, le sinfonie di Mahler erano con-siderate incomprensibili. C’è volutoBernstein per farle capire e renderle unpatrimonio comune. A lungo si è rim-proverata a Debussy la mancanza d’e-mozione, come anche a Bartók e a Stra-vinskij. È l’assenza di elementi prefab-bricati a far credere che certi lavori im-portanti siano noiosi o troppo com-plessi. Interpreti e programmatori nondevono cullarsi — e spesso lo fanno so-lo per interessi economici — nell’iner-zia di massa che domina quest’epocapassatista e ossessionata dalla memo-ria».

Eccelso esecutore di Wagner, Boulezcrede ancora nel teatro d’opera, ma loconsidera agonizzante nelle condizio-ni attuali:«La lirica non potrà sopravvi-vere se continuerà a basarsi sul corpo-rativismo rivendicativo. I budget ri-schiano di divenire insostenibili. Se peruna rappresentazione si spendono tremilioni di euro sarà presto impossibileprogrammare una stagione. Le catego-rie dei professionisti non riflettono sul-la precarietà che stanno determinan-do. Guardi le industrie discografiche: leprestazioni sempre più onerose nehanno portate molte al fallimento. So-lo nel tempo si può recuperare il dena-ro e anche ottenere incrementi. Il gua-dagno non può essere immediato, co-me pretenderebbero i professionistidel settore. Il sistema delle banche ègiunto al collasso un po’ per lo stessoperverso meccanismo. I lavoratori del-lo spettacolo dovrebbero imparare lalezione. Nella cultura è indispensabileun certo grado d’investimento: biso-gna crederci e avere lo sguardo lungo».

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LEONETTA BENTIVOGLIO

Pierre Boulez

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44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 29MARZO 2009

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