Laomenica Repubblica Rimini, i cent’anni del Grand Hotel...

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DOMENICA 8 GIUGNO 2008 D omenica La di Repubblica cultura L’Italia del neo-neorealismo NATALIA ASPESI e GIANCARLO DE CATALDO la lettura Lo zen e l’arte di tornare bambini ROSSANA CAMPO l’incontro Claudio Abbado, leggero come Mozart LEONETTA BENTIVOGLIO i luoghi Rimini, i cent’anni del Grand Hotel MICHELE SMARGIASSI l’attualità Il popolo del testamento biologico JENNER MELETTI e UMBERTO VERONESI emigrante N el montaggio di certe cartoline la statua della Li- bertà incombe sulle famiglie di immigrati, muc- chi di stracci, come un idolo assirobabilonese. Il fotografo del Molo di Genova, o quello di Little Italy, doveva certo dire alle donne italiane con in braccio l’ultimo nato: «Sorridi!», ma non sorride- vano. Lo stampato bilingue di Ellis Island per provare che il nuo- vo arrivato sa leggere riporta un minaccioso brano del Levitico. La mostra sull’emigrazione italiana tra Genova ed Ellis Island sollecita tre grossi problemi. Il primo: come si torni sul luogo di una tragedia quando la tragedia sia ormai consegnata alla me- moria. Il secondo: se il ricordo di ciò che abbiamo sofferto in passato modelli il nostro atteggiamento verso chi sperimenta oggi la stessa sofferenza. Il terzo: che cosa sia diventata la xe- nofobia. Cominciamo da qui, e proviamo a dire così: xenofilia è l’amore per i ricchi, specialmente quando siano stranieri; xe- nofobia è l’odio per i poveri, specialmente quando siano stra- nieri. Essere, o sembrare stranieri — spesso è la stessa cosa, pen- ADRIANO SOFRI sate ai cittadini veneziani cui un’occupazione di suolo privato vuole negare un tetto — è un abbellimento della ricchezza, op- pure un’aggravante del disprezzo per la povertà. Esiste una xe- nofobia che è il risvolto di un fanatismo nazionalista, come nel fascismo, ed esiste un razzismo invidioso come quello antise- mita, che è al tempo stesso un modello e un’eccezione agli altri razzismi: ma quella del nostro mondo privilegiato, invecchiato e persuaso d’esser democratico, è la paura e la rabbia per una povertà giovane e selvaggia. Esattamente quella che gli italiani migranti, “oliva”, incarnavano agli occhi degli americani “bian- chi”. E siamo così al secondo punto. Si insiste sulla rimozione del nostro passato di emigranti, che ci fa scandalizzare degli immi- grati in casa nostra. E si moltiplicano i benemeriti sforzi per re- staurare la memoria di una vicenda che ha segnato più di ogni altra la storia italiana: quasi ventisette milioni di emigrati nel- l’arco di centotrent’anni, quasi altrettanti discendenti di italia- ni nel mondo quanti i residenti nella madrepatria! (segue nelle pagine successive) FOTO COURTESY OF STATUE OF LITBERTY / ELLIS ISLAND NATIONAL MONUMENT Una mostra a Genova ci fa rivivere un passato di miseria e mortificazione molto simile al presente degli altri Mio nonno Repubblica Nazionale

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DOMENICA 8GIUGNO 2008

DomenicaLa

di Repubblica

cultura

L’Italia del neo-neorealismoNATALIA ASPESI e GIANCARLO DE CATALDO

la lettura

Lo zen e l’arte di tornare bambiniROSSANA CAMPO

l’incontro

Claudio Abbado, leggero come MozartLEONETTA BENTIVOGLIO

i luoghi

Rimini, i cent’anni del Grand HotelMICHELE SMARGIASSI

l’attualità

Il popolo del testamento biologicoJENNER MELETTI e UMBERTO VERONESI

emigrante

Nel montaggio di certe cartoline la statua della Li-bertà incombe sulle famiglie di immigrati, muc-chi di stracci, come un idolo assirobabilonese. Ilfotografo del Molo di Genova, o quello di LittleItaly, doveva certo dire alle donne italiane con inbraccio l’ultimo nato: «Sorridi!», ma non sorride-

vano. Lo stampato bilingue di Ellis Island per provare che il nuo-vo arrivato sa leggere riporta un minaccioso brano del Levitico.

La mostra sull’emigrazione italiana tra Genova ed Ellis Islandsollecita tre grossi problemi. Il primo: come si torni sul luogo diuna tragedia quando la tragedia sia ormai consegnata alla me-moria. Il secondo: se il ricordo di ciò che abbiamo sofferto inpassato modelli il nostro atteggiamento verso chi sperimentaoggi la stessa sofferenza. Il terzo: che cosa sia diventata la xe-nofobia. Cominciamo da qui, e proviamo a dire così: xenofilia èl’amore per i ricchi, specialmente quando siano stranieri; xe-nofobia è l’odio per i poveri, specialmente quando siano stra-nieri. Essere, o sembrare stranieri — spesso è la stessa cosa, pen-

ADRIANO SOFRIsate ai cittadini veneziani cui un’occupazione di suolo privatovuole negare un tetto — è un abbellimento della ricchezza, op-pure un’aggravante del disprezzo per la povertà. Esiste una xe-nofobia che è il risvolto di un fanatismo nazionalista, come nelfascismo, ed esiste un razzismo invidioso come quello antise-mita, che è al tempo stesso un modello e un’eccezione agli altrirazzismi: ma quella del nostro mondo privilegiato, invecchiatoe persuaso d’esser democratico, è la paura e la rabbia per unapovertà giovane e selvaggia. Esattamente quella che gli italianimigranti, “oliva”, incarnavano agli occhi degli americani “bian-chi”.

E siamo così al secondo punto. Si insiste sulla rimozione delnostro passato di emigranti, che ci fa scandalizzare degli immi-grati in casa nostra. E si moltiplicano i benemeriti sforzi per re-staurare la memoria di una vicenda che ha segnato più di ognialtra la storia italiana: quasi ventisette milioni di emigrati nel-l’arco di centotrent’anni, quasi altrettanti discendenti di italia-ni nel mondo quanti i residenti nella madrepatria!

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Una mostraa Genova ci fa rivivereun passato di miseriae mortificazionemolto simileal presente degli altri

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30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 8GIUGNO 2008

la copertinaStoria capovolta

avuto cura di non farlo sapere ai nostrifigli, che siamo stati fino a ieri zingari ealbanesi e bastardi; ma possono esa-sperarci anche proprio perché ci ricor-diamo benissimo di esserlo stati, per-ché guardare loro è come guardarci nel-lo specchio di ieri o dell’altroieri, per-ché la loro puzza è di quelle che non sivogliono più sentire, una volta che ce lasiamo tolta di dosso a furia di strigliate.

Ed eccoci al terzo punto.Come si torna suiluoghi del

dolore. La mostra genovese ricostrui-sce la scena dell’imbarco, la stazionemarittima, il molo, la fiancata del piro-scafo Taormina. Il visitatore salirà abordo, si cercherà la cuccia nel dormi-torio, i bagni il refettorio e la cella per iriottosi, vedrà attraverso l’oblò passar-gli davanti il mare di tutte le ore del gior-no e della notte, sbarcherà a EllisIsland, e rifarà la via crucis di controllimedici e interrogatori. Potrà risponde-re al questionario (Come ti chiami? Seimai stato ricoverato per infermitàmentali? Sei mai stato in galera? Sei unanarchico? Possiedi almeno cinquanta

dollari? Hai un lavoro che ti aspetta?) eai ventinove test, e il cielo lo scampi daun fallimento, che lo rimanderebbe a

casa mortificato. Si pro-curerà un nome scorso,uno fra i milioni di italia-ni che passarono di lì, eproverà speranza e di-sperazione di quel suoantenato.

E tuttavia la simula-zione più accuratanon potrà restituirgli

LE IMMAGINIQueste pagine

sono illustrate con foto,

lettere e documenti

della mostra

Da Genova a Ellis Island

In copertina,

una famiglia

di emigranti italiani

guarda da Ellis Island

la Statua della Libertà

Le immagini

sono pubblicate

per gentile concessione

dello Statue of Liberty /

Ellis Island National

Monument

Apre a Genova, al Galata Museo del Mare, una bella mostrasugli emigranti italiani in America: non solo foto e lettere,ma un percorso che fa rivivere al visitatore le umiliazionie i rischi di allora. Nella certezza che la visione dell’infernoappena traversato induca compassione per chiin quell’inferno è di turno adesso. Ma è davvero così?

Sì, gli zingari eravamo noirajevo e a Srebrenica, un’infamia per laquale non potevamo invocare, comeper Auschwitz (e già allora mentendolargamente) di non aver visto, di nonaver saputo.

La mostra genovese invita il visitato-re a mettersi nei panni dei migranti chesi imbarcavano alla volta dell’altromondo. E tuttavia, di fronte allo statoattuale degli animi del nostro paese —l’Italia della brava gente, e dei milioni dimigranti — si è costretti a dubitare chel’inferno appena attraversato induca auna speciale comprensione e compas-sione per chi adesso è di turno in quel-l’inferno. E anzi, a chiedersi se, uscitifuori dal pelago alla riva, non si sia in-dotti a guardare con un particolare ri-sentimento a quelli che ci stanno affo-gando (non è una citazione poetica, è lacronaca di venerdì scorso, quando unagabbia da tonni ha tirato su nel canale diSicilia vivi, tramortiti e morti, compresigli annegati di chissà quale naufragioprecedente, così pescoso è oggi quelmare). Zingari e rumeni e musulmanipossono infastidirci perché ci siamo di-menticati dei nostri padri, e abbiamo

(segue dalla copertina)

Libri, film, diari, lettere, regi-strazioni di racconti, musei— uno per tutti: quello luc-chese della FondazioneCresci, sorto dal ricchissi-mo archivio di Paolo Cre-

sci, fiorentino di Scandicci, fotografo egran persona, morto prematuramentenel 1997 (Il museo lucchese ha dato unimportante contributo alla mostra ge-novese). E tuttavia la domanda sul ruo-lo del ricordo ha cambiato sostanza, edè diventata molto più amara. La do-manda ora è: davvero la conoscenza e ilricordo sono una salvaguardia, un mo-do per sventare la replica dell’infamia,o bisognerà ammettere che nemmenoconoscenza e ricordo — e commemo-razione, e monumenti — mettono al ri-paro dall’indifferenza o addiritturadalla ripetizione del male, a parti scam-biate? Abbiamo dovuto correggerlatante volte, la domanda, come quandosi è consumata alle nostre porte, a Sa-

ADRIANO SOFRI

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31DOMENICA 8GIUGNO 2008

GENOVA

Essere Euticchio Tabacchi, per esempio. Ventiquattro an-ni, originario della Valtellina, (quasi) alfabeta. È il 25 marzo1912: «Carissimo padrino, qui a New yorc questo gennaio a fat-to un freddo terribile, che sembrava fosse la fine del mondo, eramolto difficile potersi scaldare, in specie la notte. Io e la cuginaMaria, in origine a questo freddo, abbiam pensato di passare alMatrimonio, che così esendo in due nel letto si potrà riscaldar-ci più bene».

Oppure essere Carlo Fagetti, ventitré anni, che il 25 maggiodel 1907 scrive: «Cara mia mamma, ho fatto un magro viaggio,mi anno tratenuto 27 giorni di mare, sempre patire la fame,quando siamo disbarcati dopo tre giorni di ferovia siamo rivatiin losan gelo». Oppure essere Desolina Manciocchi. O GiacomoAndreis o Pasquale D’Angelo o Nicola Emilio Parravicino.

Si dice: mettersi nei panni di un emigrato. Non per finta: es-sere per un giorno Euticchio Tabacchi, come conferma il vo-stro passaporto (Regno d’Italia, Passaporto per l’estero, contanto di «Avvertenze agli emigranti» stampate sul retro), comecertifica il vostro biglietto di viaggio (terza classe, rilasciato dal-la Navigazione generale italiana al «passeggiere numero052675»). Tra il 1892 e il 1956 tre milioni di italiani — quasi tut-ti partiti da Genova — sbarcarono a due miglia da New York: il20 giugno al Galata Museo del Mare si inaugura Da Genova aEllis Island. Il viaggio per mare negli anni dell’emigrazione ita-liana, gigantesco allestimento che racconta — in milledue-cento metri quadri — le condizioni di viaggio dei nostri emi-granti, il loro arrivo, le loro speranze, spesso deluse.

Rispetto alle mostre tradizionali (per lo più fotografiche e do-cumentarie) o ai film (come il recentissimo Nuovomondo diEmanuele Crialese), quella in allestimento a Genova, nata incoproduzione con l’Ellis Island Immigration Museum di NewYork, permette una identificazione reale: ad ogni visitatore vie-ne assegnata (a seconda dell’età, del sesso, della provenienza)una diversa storia. Diventerete così Euticchio o Desolina, Gia-como o Pasquale e aspetterete all’addiaccio il vostro battello alPonte Federico Guglielmo (interamente ricostruito), poi sali-rete sul piroscafo Taormina, dove cercherete la vostra cuccet-ta nei cameroni comuni (divisi in uomini e donne), potreteesplorare i bagni, il refettorio, la sala medica, l’ufficio del com-missario di bordo, la prigione dove finivano violenti e clande-stini. E dopo il viaggio, la ‘Merica: lo sbarco a Ellis Island e l’av-vio alla Inspection line, percorso fatto di visite mediche, inter-rogatori, test.

Tra tutte le malattie che gli italiani portavano insieme ai loroquattro stracci, gli americani erano terrorizzati dal tracoma,l’infezione agli occhi che degenerava in cecità: così gli emi-granti prima venivano sottoposti alla prova della scala (chi in-dugiava a salire era già sospetto) poi, grazie a speciali ganci chesollevavano le palpebre, iniziava la visita oculistica. Se gli ispet-tori non erano del tutto convinti, bastava una x sul braccio perpassare alla visita psicoattitudinale: poteva durare tre ore o tregiorni (in cella). Il visitatore — stessa atmosfera, ma un filod’angoscia in meno — dalla cella temporanea potrà risponde-re (con un programma multimediale) alle ventinove domandecon cui si saggiava se un emigrante avrebbe potuto essere ac-colto negli Usa: Ellis Island è il collo di bottiglia dell’emigrazio-ne italiana, da lì si parte per tutte le destinazioni, di lì inizia lafortuna o la disgrazia. Euticchio Tabacci ce la fa, Nicola EmilioParravicino diventa banchiere milionario (sulla pelle dei suoiconnazionali), Isidoro Tagliavacche invece verrà rispedito in-dietro, vestito nuovo e un mucchio di banconote fruscianti nel-le tasche, a girare per cascinali della Liguria e del Basso Pie-monte per raccontare «quanto è facile far fortuna nella ‘Meri-ca». Non è vero, ma diventa il piazzista ideale per gli “scafisti”di fine Ottocento. Come in un’infinita catena di Sant’Antonio,l’importante è che qualcuno ci creda.

“Com’è freddala ‘Merica”

un millesimo di quell’angoscia, e nonsolo perché le cuccette della mostranon saranno luride di vomito e feci e pi-docchi: per quanto si immagini il pian-to, l’amaro non arriverà a serrargli lagola. Siano benvenuti i luoghi della sof-ferenza umana trasformati in sacrari ein monumenti. Ma correranno sempreil rischio di anestetizzare il proprio pas-sato, di diventare il paio d’ore di un’a-genda che prevede le sue tappe tuttocompreso. Non ho mai visto EllisIsland, fotografie e film me ne hannofatto tremare, come il Nuovomondo diCrialese, bello e senza demagogia. Nonho visto l’isola di Gorée, di fronte aDakar, trecento metri per neanche unchilometro, dove tanti milioni di schia-vi neri vennero ammucchiati per tre se-coli alla volta del Nuovo mondo: fino al1848. Oggi è patrimonio dell’Unesco,vengono i grandi della Terra, papi e pre-sidenti, e giurano che mai più, e vengo-no torme di turisti guidati: «Colazione epartenza per l’isola di Gorée. Visita.Rientro. Ultime ore dedicate allo shop-ping per il centro e trasferimento in ae-roporto. Partenza per l’Italia». Anche

ad Auschwitz si va così, e del resto deipolacchi di spirito ci avevano apertouna discoteca, a ridosso del campo. Laprima volta che andai a Ushuaia, fin delmundo, nel più famigerato penitenzia-rio della Terra, ci camminai dentro sen-tendo ancora l’odore dei muri e lo stri-dore dei ferri: poi lo ridipinsero, e il tre-no a scartamento ridotto che portavanel gelo gli ergastolani a tagliare le fore-ste è diventato un trenino disneyanosul quale si accomodano chiassosa-mente i turisti.

La mostra di Genova servirà ai suoivisitatori, tanto meglio se saranno ra-gazze e ragazzi, e sapranno fermarsi apensare — benché sia difficile quandosi va in gruppo: in questi luoghi bisognaandare soli, se si può. Fra le cose cuipensare c’è la difficoltà di immaginareil presente come se fosse già passato, divedere dentro le baracche alla periferiadi Milano o lungo l’Aniene appena eva-cuate dai vigili e frugate oscenamentedalle telecamere — una caffettiera, unquaderno a righe, una bambola — ilcontenuto di un’esposizione che, diqui a cinquant’anni, richiamerà il pub-

blico, vantando la cura con cui è statorecuperato l’arredo di una baracca,caffettiera e quaderno e poster di unaFerrari, e una didascalia che commen-ti il tutto chiedendosi: com’è stato pos-sibile, appena mezzo secolo fa, ancoranel 2008...? L’isola di Gorée chiuse laMaison des Esclaves nel 1848. EllisIsland chiuse nel 1954. Lampedusa èaperta: ma è già ora di pensare al museoche ci fiorirà (Di fatto già il prossimo 28giugno si inaugura un monumento almigrante dell’artista Mimmo Palladi-no).

«Quando gli albanesi eravamo noi», èil sottotitolo del libro di Gian AntonioStella, L’orda, che più ha contribuito adivulgare la storia dell’emigrazione ita-liana, e ad additarne l’analogia, con unsemplice scarto di tempo, con l’immi-grazione altrui in Italia. Eravamo noi,gli specialisti della clandestinità. Già,ma «noi» chi? Perché quelli di «noi» chenel 1890 o nel 1925 o ancora nel 1950avevano vita facile, e magari se la facili-tavano speculando sull’emigrazione,non hanno ricordi che addolciscano ilmalanimo verso gli immigrati di oggi. E

gli altri, i veneti e i friulani che andava-no a procurarsi il pane dalle sette crostee la silicosi e a crepare nelle miniere delLimburgo, i piemontesi, le suore diSanta Maria Ausiliatrice e i contadiniche avevano la faccia un po’ così perchénon avevano mai visto Genova, se nonper imbarcarsi nella terza classe, non èdetto che questi di «noi» abbiano vogliadi riconoscersi nei siciliani e nei napo-letani (tanos, si chiamano per abbre-viazione gli italiani d’Argentina) chesalpavano da Palermo o da Napoli, e fi-guriamoci nei marocchini o negli alba-nesi o nei romeni che arrivano a Ragu-sa o a Brindisi o a Gorizia. Pensate acom’è recente l’ultima enorme ondatadi emigrazione nostra, dal sud al nord,o verso l’Europa del nord. L’ultimastruggente canzone del repertorio mi-grante — «Non piangere oi bella, se de-vo partire... Partono gli emigranti, par-tono per l’Europa, guardati a vista dal-la polizia... i deportati dalla borghesia»— di Alfredo Bandelli, è del 1974! Pen-sate com’è stato impercettibile il tra-passo geografico del disprezzo «pada-no» dall’Italia meridionale all’Africa

propriamente detta: nelle elezioni ap-pena consumate, un leghista che urlas-se «Forza Etna!» avrebbe potuto esserepreso sul serio, a incitare il suo alleatocatanese. “Vu’ cumprà” non si dice giàpiù: alla fine, suonava troppo affettuo-so... Gli stereotipi sono demenziali, maquesto non li rende meno duri a mori-re. I marocchini stupratori, per esem-pio: avete letto l’altro giorno «Italianostupra bambina marocchina...» e vi sa-rete stropicciati gli occhi, come davan-ti a un errore di stampa.

È dell’autunno scorso la sentenza delgiudice di Hannover che ha concesso alcondannato per stupro le «attenuantietniche e culturali», in quanto sardo.Che siano numerosi, i visitatori dellamostra genovese. I nostri immigrati,che scoprano da dove veniamo, e ab-biano un po’ più di indulgenza per noi.E noi, i «nativi», che rileggiamo le stati-stiche americane sulla nostra quotacriminale, e rivediamo i titoli dei gior-nali di tutto il mondo: «Gli zingari d’Ita-lia»; «Sono peggiori degli zingari». Glizingari, infatti, siamo noi. E adessoavanti con le bottiglie molotov.

RAFFAELE NIRI

Repubblica Nazionale

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l’attualitàBioetica

Nel nostro Paese esiste da tempo, migliaia di personehanno firmato il proprio, ma senza una legge il documentonon ha valore legale. È l’equivalente dell’americano “Livingwill”: “Lì te lo chiedono appena entri in ospedale”, diceMario Riccio, il medico che ha assistito Piergiorgio Welby“È il paziente a stabilire quali interventi accetta e quali rifiuta”

32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 8GIUGNO 2008

MILANO

Un bel vestito verde, il colo-re della speranza. «A mepiace davvero stare almondo. Ho un cancro al

seno ma spero di sconfiggerlo. Purtrop-po so che a volte vince lui, inutile illu-dersi di essere immortali. Io sono unadonna che nella vita ha accettato pochevolte, e malvolentieri, le decisioni presedagli altri: e allora voglio decidere anchecome morire». Giuliana Michelini, ses-sant’anni compiuti a gennaio, nella bor-sona da milanese impegnata in mille co-se ha anche la «Biocard, carta di autode-terminazione». Sorride e spiega. «In-somma, è il testamento biologico o te-stamento di vita. Io personalmente pre-ferisco chiamarle “direttive anticipate”.Ho scritto tutto quello che voglio sia fat-to sul mio corpo quando — spero il piùtardi possibile — non sarò più in gradodi fare intendere le mie ragioni. Vede,per noi italiani è difficile parlare di certecose. Siamo scaramantici. Ma io cerco diragionare: a una certa età, e anche senzaessere malata, capisci che la morte faparte della vita. La morte, non la fine, l’e-sodo, l’atto finale… La morte deve esse-re chiamata con il suo nome. E bisognaprendere le misure giuste perché questamorte non sia preceduta da un’agoniainfinita, straziante e inutile. I medicidebbono fare di tutto per salvarmi la vi-ta vera ma non possono decidere di te-nermi comunque attaccata a una vitache non ha più nessun senso».

Il primo incontro con la proposta di te-stamento biologico in un convegno didue anni fa, organizzato dalla Consultadi bioetica, fondata a Milano nel 1989,«per lo studio dei difficili problemi che sipongono nella medicina di oggi in parti-colare nelle situazioni di nascita e dimorte». A colpire Giuliana Michelini è

stata la storia di Eluana Englaro, una ra-gazza di Lecco in «coma vegetativo per-manente» da sedici anni. «C’era suo pa-dre, al convegno, e spiegava che anchesenza nessuna speranza la ragazza vienealimentata artificialmente in un’agoniasenza senso. Io allora non avevo il cancroal seno ma, come sempre nella mia vita,mi ero organizzata perché la morte nonmi trovasse impreparata. Avevo già deci-so di donare gli organi e di fare conse-gnare poi il mio corpo alla scienza, con lasperanza che fosse utile per qualche ri-cerca. Avevo pensato anche al testa-mento biologico ma non avevo deciso.Poi, al supermercato, mi è successo unfatto piccolo ma importante».

Il carrello della spesa, una macchiad’acqua sul pavimento. «Insomma, so-no scivolata all’indietro, stavo per batte-re la nuca. Potrà sembrare strano ma inquel nanosecondo ho fatto in tempo apensare: adesso sbatto la testa contro lebottiglie del vino a vado in coma. Oddio,non ho firmato il testamento. Finirò co-me la povera Eluana. All’ultimo istanteho messo il braccio indietro, me lo sonorovinato ma ho salvato la testa. Dopopochi giorni sono andata a firmare lemie “direttive anticipate”. Come “rap-presentante fiduciario”, vale a dire lapersona che dovrà garantire che sianorispettate le mie volontà, ho nominatoun amico, che fra l’altro è un bravo me-dico».

Sorride, la signora Giuliana. L’appun-tamento è in un bar di San Babila, dopouna riunione della Lega italiana nuovefamiglie (lei è la coordinatrice) e primadi una riunione della Consulta di bioeti-ca. «Dopo quella firma mi sono sentitameglio. Vede, io non ho parenti stretti esentivo dentro una certa paura. Nel mo-mento in cui non sarò in grado di parla-re o di capire — pensavo — sarò del tut-to sola. Mio padre se n’è andato a no-vantacinque anni ma almeno aveva mevicino. Io spero sempre che la morte ar-rivi tardi e con un colpo secco, ma ades-so so che se non va così avrò al mio fian-co il “rappresentante” che farà di tuttoper evitarmi le sofferenze che non sononecessarie. Ci ho pensato bene, prima difirmare le diverse clausole del testa-mento. Ho detto sì, ad esempio, alla ria-nimazione in caso di arresto cardiaco.Ho detto no a quei “provvedimenti disostegno vitale” come l’alimentazioneartificiale e altri interventi che abbianosoltanto l’obiettivo di “prolungare il miomorire”, “mantenermi in uno stato diincoscienza permanente o in uno statodi demenza avanzata non suscettibili direcupero”. In ospedale ci sarà comun-que il mio rappresentante. Lui mi cono-sce bene, saprà decidere al posto mio. Èper questo che, appena messa quella fir-ma, ho sentito dentro un senso di pace».

Sono ormai migliaia le persone chehanno firmato il testamento biologicoche però, in assenza della legge, non haancora valore legale. «In Italia», dice Ma-rio Riccio, il medico anestesista riani-matore che ha seguito PiergiorgioWelby, «tanti si dichiarano contrari aquesto “testamento” precisando peròdi essere anche contro l’accanimentoterapeutico. A me viene in mente la fa-vola di Bertoldo, che accetta la pena dimorte ma chiede di poter scegliere doveessere impiccato e non trova mai lapianta giusta. Insomma, si parla tanto di“accanimento terapeutico” — solo in

Italia, perché nel linguaggio medico in-ternazionale si parla di interventi utili oinutili — per non discutere il tema vero,quello dell’autodeterminazione. Acca-nimento è termine del tutto soggettivo.C’è chi non vuole l’alimentazione forza-ta e chi invece l’accetta. Welby ha volu-to essere staccato dal respiratore artifi-ciale e altri hanno deciso di restare at-taccati alle macchine. La signora che harifiutato di farsi amputare una gamba harifiutato un intervento salvavita o un ac-canimento terapeutico? Così si conti-nua a discutere per anni e non si arriva atrovare la soluzione più semplice: ognipersona ha il diritto di scegliere se, comee fino a quando essere curata».

Anche il dottor Riccio è nella Consul-ta di bioetica fondata da Renato Boeri eoggi guidata da Maurizio Mori. «Ci sonomedici, giuristi, filosofi e anche personecome Beppino Englaro, il padre di Elua-na, la ragazza in stato vegetativo. Il suocaso è stato discusso nei tribunali e an-che in Cassazione. Una prima sentenzadisse che l’alimentazione forzata “non èterapia ma cura della persona” e cometale non può essere sospesa. La Cassa-zione, nell’ottobre scorso, ha invecepreso atto che la ragazza in due occasio-ni aveva espresso la volontà di non esse-re mantenuta in uno stato vegetativo:un suo amico e il suo mito di ragazzasciatrice, Leonardo David, erano finiti incoma a causa di incidenti e lei aveva det-to che, se fosse successo a lei, non avreb-be mai voluto essere tenuta in vita con lemacchine. Ora si dovrà rifare il processoe non sarà una discussione facile. LaCassazione ha infatti stabilito che l’ali-mentazione artificiale potrà essere so-spesa solo se si avrà “la ragionevole cer-tezza che non ci sia un ritorno di co-scienza”».

Il documento da firmare presso laConsulta di bioetica si chiama «testa-mento di vita». «È una traduzione ap-prossimativa», dice Mario Riccio, «dal-

l’inglese Living will, la volontà del vi-vente. Negli ospedali americani, quan-do entri anche per un’otite o un meni-sco, ti chiedono il Living will. È scritto indue parti. Nella prima il paziente decidequali interventi accettare e quali rifiuta-re. Alimentazione forzata sì o no, venti-lazione artificiale sì o no, rianimazionecardiaca… Tutto scritto, punto per pun-to. Nella seconda parte c’è invece unadelega: si sceglie una persona che possadecidere al posto del malato se questinon sarà in grado di decidere da solo.Abbiamo studiato bene quel documen-to e la nostra Biocard, carta di autode-terminazione, ne ricalca i punti essen-ziali».

Difficile comprendere l’opposizionea una proposta come questa. «Certo, co-me è difficile capire perché la schiavitùsia stata abolita solo nel Diciannovesi-mo secolo, perché le donne in Italia vo-tino solo da sessant’anni, perché le stes-se donne fino al 1961 non potessero farei magistrati… Il cammino dell’autode-terminazione è lungo e difficile. Quan-do poi questo concetto entra in un ospe-dale, si scontra con il paternalismo delmedico, nuovo pater familias che “per iltuo bene” decide tutto ciò che riguardala tua salute, senza chiedere consenso ea volte senza informare. In fin dei contiil nostro è l’unico Paese dove alle ultimeelezioni è stata presentata una “lista eti-ca” a sostegno della nascita e soprattut-to della “morte naturale”. Ecco un altroconcetto che blocca la discussione suitemi etici. Cos’è oggi la morte naturale?Soprattutto, esiste ancora? Oggi salvocasi rarissimi si muore tutti dopo unadiagnosi, una prognosi, una terapia. Lamorte di Giovanni Paolo II è stata giudi-cata “naturale” perché il Papa ha rifiuta-to di essere attaccato alle macchine. PerPiergiorgio Welby la morte naturale sa-rebbe arrivata dieci anni prima, quandofu colpito da crisi respiratoria. Lui ha vis-suto altri dieci anni attaccato al respira-

tore poi ha detto basta. Eppure per tantilui avrebbe dovuto aspettare un’altra“morte naturale”. E io, che ho rispostoalla sua richiesta di aiuto, per Rosy Bin-di avrei commesso “un omicidio di con-senziente che nessun tribunale di Dio odegli uomini potrà assolvere”. Ma alme-no dal tribunale degli uomini sono statoassolto».

La Biocard, per la signora GiulianaMichelini, è una specie di carta di credi-to. «Anche se ancora non c’è la legge,spero che sia accettata dai medici. Difronte alle mie “direttive anticipate” al-meno non potranno dire di non cono-scere le mie volontà. Certo, per i mediciè sempre difficile accettare che qualcu-no possa decidere della propria vita. Ionon voglio nulla di speciale. È da una vi-ta che mi interesso di diritti e di libertà.Mi sono battuta per i consultori delledonne, ho fatto la volontaria per i dete-nuti di San Vittore. Adesso voglio difen-dere il mio ultimo diritto: non voglio sof-frire inutilmente. Non voglio prolunga-re la vita, se questa non esiste più. Altrepersone possono fare altre scelte. C’èchi crede che la sofferenza purifichi dalpeccato ma non è il mio caso. L’ostaco-lo più grosso è fare i conti con la propriamorte. Ecco, credo di avere superatoquesto ostacolo. Io non chiedo — è scrit-to nel documento — l’eutanasia. Chie-do solo che sia rispettato il mio diritto al-la dignità».

JENNER MELETTI

Testamento di vitaper scegliere come dire addio

La prima parteriguarda le terapieLa seconda nomina

un “rappresentante”del malato

“Spero che almenoi sanitari l’accettinoNon potranno diredi non conoscerele mie volontà”

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L’ILLUSTRAZIONEQuesta pagina

è illustrata

con un disegno

di Gustav Klimt

Intitolato Sangue

di pesce, venne

pubblicato

sulla rivista

Ver Sacrum

nel 1898

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 8GIUGNO 2008

Il caso di Modena e soprattutto i tanti altri casi chenon salgono alla ribalta della cronaca, dimostra-no che se il Parlamento non perverrà, neppure

con questa maggioranza, a una legge sul testamen-to biologico, gli italiani tralasceranno la formalizza-zione giuridica e utilizzeranno comunque questostrumento di espressione di volontà e autonomiadel malato. Succede, del resto, non solo in Italia chese la politica non ascolta i bisogni reali della popola-zione, allora la popolazione fa a meno della politica.

Questo è vero almeno per le questioni che tocca-no da vicino la nostra vita e la sua qualità. Il grandemovimento popolare olandese che ha condotto al-la legislazione più avanzata in Europa sulle decisio-ni di fine vita è nato, ormai vent’anni fa, quando lapopolazione ha potuto constatare che la medicinaoggi è in grado di prolungare artificialmente la vitabiologica, opponendosi a una fine naturale pergiorni, per mesi o per anni. In Germania, pur in as-senza di una legge, a seguito dell’iniziativa popola-re, in due anni sono stati depositati sette milioni ditestamenti biologici.

In Italia il testamento biologico era tabù e la suadefinizione pressoché sconosciuta fino al marzo didue anni fa, quando la Fondazione che porta il mionome pubblicò il primo opuscolo divulgativo e or-ganizzò la prima presentazione a Roma, alla CassaForense. Il motivo: una incomprensibile resistenzaideologica, molto preoccupante per la libertà diognuno di noi, da parte di molti opinionisti che ve-dono nel testamento biologico un’anticamera del-l’eutanasia — mentre così non è, anzi concettual-mente è l’opposto — e anche di molti medici che ri-vendicano il loro potere di decidere, oppure, al con-trario, hanno paura di decidere e preferiscono affi-darsi alle potenzialità di una medicina tecnologica.Dal 2006 sono molte migliaia le persone che si sonorivolte a noi, e continuano a farlo, per avere infor-mazioni e sapere che fare.

Innanzitutto va ripetuto che il testamento biolo-gico (che, ricordiamolo, è un’espressione scritta divolontà individuale revocabile e modificabile, circale cure che si vogliono o non si vogliono ricevere, dautilizzare nel caso in cui non ci si potesse esprimeredi persona) può già essere ritenuto valido nel nostroordinamento perché è un’estensione del consensoinformato alle cure, che è non solo legittimo ma ob-bligatorio nel nostro Paese. Inoltre l’Italia ha siglatola Convenzione di Oviedo sui «diritti umani e la bio-medicina» che afferma che «il medico, anche tenen-do conto della volontà del paziente laddove espres-sa, deve astenersi dall’ostinazione in trattamentidiagnostici e terapeutici da cui non si possa fonda-tamente attendere un beneficio per la salute del ma-lato e/o un miglioramento per la qualità di vita».

Anche il mondo cattolico non si è mai opposto altestamento biologico. In Spagna, dove il Testamen-to Vidal è appena diventato legge, il modulo del te-stamento si trova sul sito web della Conferenza epi-scopale spagnola. È indirizzato: «Alla mia famiglia,al mio medico, al mio sacerdote, al mio notaio» e sibasa sul principio che «la vita è un dono e una bene-dizione di Dio, ma non è il valore supremo assolu-to». Il giorno dell’approvazione della legge spagno-la mi ha colpito il commento di Marcelo Palacios,consigliere del governo Zapatero e presidente dellaSocietà internazionale di bioetica: «Un malato ter-minale non muore perché si sospendono le cure,muore perché era terminale. Dobbiamo concen-trarci piuttosto sulla sua dignità di persona». In Ita-lia pare che la politica non la pensi così.

Anche in Italiasta cadendo il tabù

UMBERTO VERONESI

Repubblica Nazionale

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i luoghiVilleggiature

Ai primi di luglio Rimini festeggerà il suo albergo più celebre,un gioiello liberty nato quando la città romagnola si definival’“Ostenda d’Italia”, abitato dal fantasma gentile di FedericoFellini, frequentato dai ricchi e famosi di tutto il mondoe da poco nelle mani di un altro personaggio da leggenda:il cameriere che per amore ha comprato la reggia incantata

34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 8GIUGNO 2008

Negli ultimi cinque anni ha cambiatoquattro volte proprietario, ogni volta ri-schiando grosso, venduta e svenduta, ge-stita da amministratori giudiziari, ogget-to di Opa amichevoli e ostili, ridotta a ga-ranzia per titoli atipici; ha avuto duemilapadroni in un colpo solo (gli azionisti-creditori lasciati in un mare di guai dalcracdello speculatore Cultrera), è stata inbraccio all’ultimo dei “furbetti del quar-tierino”, l’immobiliarista Coppola; ep-pure, come la Teresa Batista di Amado, èrimasta sempre miracolosamente vergi-ne, pronta a darsi con tutto il cuore alnuovo principe azzurro. Che è sceso ap-pena in tempo da cavallo per baciarla, loscorso dicembre, alla vigilia del com-pleanno a due zeri che rischiava di fe-steggiare davanti a qualche ufficiale giu-diziario, e invece si celebrerà la sera del 3luglio con quattrocento invitati, quartet-ti d’archi, champagne e l’intera facciatatrasformata in un grande schermo su cuiscorreranno sequenze dei film, indovi-nate di chi? È arrivato appena in tempoquesto principe azzurro basso di statura,settantadue primavere sulle spalle, ma losguardo del romagnolo deciso, da Passa-tor Cortese. Si chiama Antonio Batani: èil cameriere che s’è comprato il GrandHotel. Eccolo, minuscolo tra le grandi co-lonne della hall, mano tesa e bel sorrisosoddisfatto: «Sono cinquant’anni chefaccio la corte a questa signora». Ora gli hadetto sì. «Non se ne pentirà. Non ho com-prato il Grand Hotel per rivenderlo, o pertenerlo come un titolo di Borsa. L’hocomprato perché è il Grand Hotel».

Cosa fosse il Grand Hotel negli anniCinquanta per un ragazzetto figlio dicontadini sceso da Bagno di Romagna acercare fortuna nella capitale delle va-canze, è facile immaginarlo. Tonino cipassava e ripassava davanti in bicicletta ebrontolava: «Òs-cia s’lé bèl, chissà quan-to costa». Ora lo sa: dicono 65 milioni. Èuna sfida: «Adesso deve tornare a rende-re, non è possibile che un albergo così fos-se in perdita». A Rimini sono contenti chela vecchia signora abbia trovato final-mente un buon partito, e soprattutto che

sia tornata a casa, in sposa a «uno di noi»,un romagnolo come si deve, con la bio-grafia giusta. Batani non è solo un im-prenditore del turismo: è il condensato,la metafora della storia del turismo in Ri-viera. A ventidue anni in Svizzera, stu-dente di scuola alberghiera di giorno, ca-meriere di sera per mantenersi. Al ritor-no, coi magri risparmi di papà Sante, af-fitta a Cervia una pensione dal nome cheè un distillato di pensionità: “Delia”, se-dici camere e quattro bagni. Poi, anno do-po anno, la scalata alle stelle. Il primo al-berghino in proprietà, l’Hotel Batani:«Errore, gli alberghi non devono averenomi da uomini, ma di donne, o di sogni».Da due stelle a tre, a quattro. Oggi Anto-nio Batani è proprietario di una catena didieci alberghi, la “Select Hotels”, due deiquali a cinque stelle. Ma continua a fir-marsi “famiglia Batani” come fosse an-cora il gestore della pensione Delia, al cuibureau incontrò Luciana, sua moglie,che gli ha dato due figli che lavorano conloro. Continua a fare il giro, tutte le sere,

dei suoi hotel, entrando dalla porta sul re-tro, cogliendo di sorpresa il maître, con-trollando la pulizia in cucina. Farà cosìanche qui? «Soggezione non ne ho. Pau-ra, un po’. Questo non è un albergo comegli altri».

Certo che no. È un monumento nazio-nale, vincolato dalle Belle Arti nel 1994.Difficile metterci mano. L’ascensore, adesempio, ha una porta di appena sessan-ta centimetri: ma i muri non si possonotoccare. Un affezionato cliente disabiles’è fatto fabbricare una carrozzina su mi-sura per poterci entrare. Scordarsi le sce-nografie di Amarcord: quel Grand Hotelfiabesco era quasi interamente ricostrui-to a Cinecittà. Quello reale, ad esempio,non ha il sontuoso scalone di marmo aforma di arpa, ma una scala quadrata, conun’elegante ringhiera liberty, ma non piùlarga di quelle di un normale condomi-nio. Ma è il Grand Hotel, non un albergo-ne da parvenu di Las Vegas. Il suo fascinosta nei dettagli, non nella metratura. Neimori settecenteschi di legno scrostato

che reggono le lampade, nei comò fran-cesi delle tre suite regali, nei pavimenti diveneziana sui toni del rosa, nelle cabinetelefoniche che sembrano bianchi con-fessionali art déco. Nella scelta un po’snob di girare al mare il fianco sinistro, lafacciata che sbircia solo di sbieco la costae cerca invece all’orizzonte la rocca diGradara, quella di Paolo e Francesca.

Né i danni della guerra, né i delitti ar-chitettonici perfino peggiori di molti suoiex padroni l’hanno sfigurato irreparabil-mente. Biacche marroncine sulle paretidella sala delle quattro colonne, sul civet-tuolo “marmorino” dei corridoi e perfinosulle colonne monolitiche della hall. Or-ripilante alluminio anodizzato nella ve-randa ristorante. Batani ha già comincia-to a togliere intrusioni e ripristinare i rive-stimenti e i colori originali (avorio, bian-co e oro). Sul muro del corridoio che por-ta alla Sala Verde c’è una macchia nero-fumo: diamo una pitturatina? «Percarità», insorge Cristina, «questo è un re-perto storico, è l’ultima traccia dell’in-

MICHELE SMARGIASSI

Cento anni da Grand Hotel

CARTOLINE E PUBBLICITÀNelle immagini grandi, il Grand Hotel di Rimini nel 1930 e un manifesto pubblicitario

balneare disegnato dal grande illustratore Marcello Dudovich. Nelle immagini

piccole qui sopra e a destra, una serie di cartoline d’epoca dedicate al Grand Hotel,

alla sua spiaggia e alle attrattive garantite alla sua clientela

Il nuovo proprietarioAntonio Batanidice che i clientivanno trattaticome dei sultani“Rimini ha cominciatoad avere problemiquando i padronidegli alberghi sonodiventati più ricchidei loro ospiti”

RIMINI

Non c’è: il pianoforte bianconon c’è. Non ci starebbeneppure: dalla porta al mi-nuscolo balconcino sa-

ranno cinque o sei passi. L’immensa stan-za del sultano con tutto il suo harem allo-ra dove sarà? Qui c’è solo, incorniciato, unpiccolo arazzo con danze di bajadera.Non c’è neppure il letto rosso a baldac-chino dal quale la Gradisca invitò timida-mente il Principe: «Maestà, gradisca...»;ma un sobrio due-piazze con testiera inpaglia di Vienna. Nel salottino attiguo, di-vanetto e seggiole con seduta di velluto, eclamorosamente incongrua una poltro-na di pelle verde. Se ha un fascino, la suite315 del Grand Hotel di Rimini, la preferitadi Federico Fellini, è la sua atmosfera bor-ghesemente dimessa e demodé. Contrad-detta da due giganteschi monitor al pla-sma: «I clienti li chiedono...», si scusa Cri-stina Bernagozzi, la giovane vice-direttri-ce. Una notte per dormire dove Fellini hasognato costa 960 euro, ma c’è la lista d’at-tesa. Tra tutte le 117 camere dell’edificioprincipale, una diversa dall’altra, gli ame-ricani chiedono solo quella, la 315. Con lastessa cifra potrebbero pagarsi lussi mag-giori, ma nessun altro nel prezzo includeil mito. Specchiarsi in questa specchieraliberty a petalo d’orchidea, dove il Mae-stro si guardava in faccia ogni mattina(l’ultimo a riuscirci, perché il fondo d’ar-gento è ormai corroso da macchioline).Bagnarsi nella stretta vasca tra i marmineri venati del bagno. L’intonaco un po’ sisolleva, ma i clienti, soprattutto gli ingle-si, vanno in visibilio per «i segni del tem-po», adorano gli infissi che non chiudonoe pagano il conto felici.

Cent’anni sono tanti anche per l’alber-go più famoso del mondo. Ma il GrandHotel, nonostante il suo aspetto pannosoda gran torta saint-honoré, ha la scorzadura. Non molla, la vecchia signora. Haresistito a mille ingiurie, guerre, incendi,all’infedeltà dei suoi molti pigmalioni.

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 8GIUGNO 2008

cendio del 17 luglio 1920, forse la mette-remo sottovetro».

Misterioso incendio. Nel 1915 a Riminiera bruciato l’Hungaria, l’hotel dell’ari-stocrazia asburgica, qualcuno sospettòun gesto irredentista. Anche il Grand Ho-tel aveva una clientela altolocata e mitte-leuropea, ed era da poco finita la Grandeguerra. Mah. I romagnoli son garibaldini.Fattostà che andarono in fumo le due cu-pole di legno catramato (Batani vuole ri-costruire anche quelle) che davano al pa-lazzo quel certo stile baltico. Cent’anni fa,oggi suona strano, i modelli dell’eccel-lenza balneare venivano dai gelidi maridel Nord. Per cercare il suo posto al solenella nascente industria delle villeggiatu-re, Rimini dovette spacciarsi per anni co-me «l’Ostenda d’Italia». La cineteca co-munale conserva ancora un cortome-traggio d’epoca, forse di Luca Comerio,cineasta pioniere, che porta quel titolo edè forse il primo film pubblicitario balnea-re del mondo.

Fu la lungimiranza e forse la testardag-

gine del sindaco Camillo Dupré a far ini-ziare la favola, quando nel 1906, dopoaver costruito a spese pubbliche il primostabilimento balneare, il Kursaal, offrìterreni a poco prezzo a chi volesse co-struire un grande albergo internazionale.Ma il mare, per i riminesi, era ancora solouna vasca piena di pesci. Si presentòun’impresa di fuori, la Società milanesealberghi ristoranti e affini, quella del Bif-fi; il progetto lo firmò un architetto metàticinese metà sudamericano, Paolito So-mazzi; e i primi abitatori, all’inaugurazio-ne del primo luglio 1908, furono presso-ché tutti illustri forestieri, duchi principie ministri e perfino un’ex regina, quella diSassonia. Lingue ufficiali francese e in-glese: al Grand Hotel ricco di ogni comfortsi pranzava a uno dei cinque restaurant, edopo qualche ora ai bains si sorbiva unapéritifal club des étrangerscon un servi-zio di premièr ordre. A colorare in qualchemodo il luogo di tinte italiche e un po’ ma-chiste furono le imprese adulterine diMussolini, che lasciata la povera Rachele

nella modesta villa familiare di Riccionecorreva qui a incontrare Claretta in gransegreto, si fa per dire: motoscafi e unifor-mi, saluti romani e baciamani.

La soglia della vetrata che porta dal baralla piscina (la prima di tutta la Riviera)mostra le venature del legno, consumatada decenni di scarpine di lusso. «Non vo-glio cambiare nulla, sarebbe un suicidio,voglio solo ritrovare l’originale», meditaBatani. «È più di un albergo, è lo scenariodi una città». Di un paese intero, forse. Delsuo immaginario. Senza la fantasia, ilGrand Hotel sarebbe un relitto di velieroarenato. Una metratura edilizia ad altarendita pronta alla conversione in resi-dence. Hotel più lussuosi, ce n’è ormai abizzeffe. Ma c’è di mezzo il Maestro. Biso-gnerebbe passare sul suo cadavere. Felli-ni ha trasferito di peso questi quattro pia-ni di un liberty ordinario nelle regioni del-la fantasia, unico e irripetibile scenario dilussurie, malizie e narrazioni fiabesche.Scrisse: «Le sere d’estate il Grand Hotel di-ventava Istanbul, Bagdad, Hollywood».

Chi lo frequenta non lo vedecom’è, ma come lo immaginò lui. Non fu-rono certo il suo moderato charme né lesue comodità un po’ invecchiate a porta-re qui l’imperatore Hirohito o lady Dianao il chirurgo gran viveur Christian Bar-nard, o Kissinger, Gorbaciov, Bush senior,il Dalai Lama. Nella lunga stagione, tren-tacinque anni, dell’amico patron Arpe-sella, forse l’unico proprietario che abbiarispettato lo spirito del luogo, Fellini era dicasa tra questi marmi. Letteralmente: loabitava tutto quanto, lo riempiva. Adagia-to sui sofà del salone, col taccuino dischizzi in mano. Irrequieto in cucina, do-ve convinceva i cuochi a fargli spentolareun brodetto. E perfino nel bureau, sedutodi fianco ai centralinisti, deliziandosi a fic-canasare tra gli affari sentimentali deiclienti, «Ah sì? Lui ha detto proprio così? Ela moglie?». È un albergo abitato da unfantasma gentile, guai a chi lo volesse cac-ciare: crollerebbe, come la casa Usher.

Batani, Fellini non l’ha mai conosciu-to. Ma è come se fosse nato in un suo film.«I clienti», dice, «vanno trattati come deisignori, come dei sultani. Alla pensioneDelia come al Grand Hotel. Rimini ha co-minciato ad avere problemi quando iproprietari degli alberghi sono diventatipiù ricchi dei loro ospiti». Il Grand Hotel,negli ultimi anni, s’è riempito di russi ar-ricchiti, un po’ cafoni, mance esageratecome la loro sicumera, Batani quasi cac-ciò via uno che fumava al ristorante mal-trattando il cameriere che garbatamentegli ricordava il divieto. «Vorrei recupera-re una clientela di classe». Vuole i sgnùr. Ilsuo slogan: Grand Hotel per grandi fami-glie. Vuole i grandi imprenditori, i mana-

gerindaffarati che cercano un ri-poso di prestigio senza allontanarsi trop-po dal consiglio d’amministrazione.Vuole «i tedeschi, i miei cari tedeschi, iclienti ideali, mai una lamentela, grandiabbracci». Vuole il ritorno degli anni d’o-ro della Riviera. La parola d’ordine dellaRimini del nuovo millennio, “de-stagio-nalizzare”, ossia riempire gli alberghi an-che d’inverno, con le fiere, i convegni, icongressi, Batani la capisce ma non la gra-disce poi tanto. «La vera “stagione” è sem-pre stata una sola, l’estate, la stagione deibagni. Se non curi l’estate, non avrai l’in-verno», dice come la formica della favola,«e il Grand Hotel da un secolo è il più gran-de simbolo dell’estate che sia mai esisti-to». Fino al 1968 apriva solo novanta gior-ni l’anno, da giugno a settembre. Dopo, ècaduto in tentazione. Quel “centro con-gressi” costruito nel ‘92 mutilando il par-co. Quel night clubnei seminterrati, LadyGodiva, che del mare si fa un baffo, po-trebbe stare anche a Courmayeur. Mal’immagine del Grand Hotel erano i ten-doni a strisce sulla spiaggia, gli abiti di linobianco, le sedie di vimini sulla grande ter-razza, i cappelli di paglia e le cannucce dapasseggio. Ha vissuto cento estati e nonha ancora conosciuto il suo autunno.

Fu sicuramente per non disturbare “lastagione” che il Maestro, a cui il Grandpiaceva anche d’inverno, chiuso e im-merso in una bambagia di nebbia, lasciòquesto mondo nel mese piovoso, un 31ottobre. Le tende di tulle della suite 135,quel giorno, furono viste agitarsi fuoridalle finestre aperte, come in un saluto.

FEDERICOFELLINIIl vero creatore

del mito

del Grand Hotel,

che compare

in tre suoi film

(ma in Amarcord

è ricostruito

a Cinecittà)

GUGLIELMOMARCONINegli anni Trenta

un passaggio

a Rimini

era un segno

di distinzione

per le celebrità

come l’inventore

della radio

BENITOMUSSOLINIPer la moglie

Rachele aveva

comprato casa

a Riccione,

ma qui veniva

in segreto

per incontrarsi

con Claretta

CHRISTIANBARNARDIl chirurgo

sudafricano padre

del trapianto

cardiaco

era anche un gran

viveur, pane

per i rotocalchi

anni Settanta

RE FAROUKD’EGITTOFuggito dall’Egitto

nel ’52 con bauli

di gioielli,

nell’esilio italiano

pendolava

tra Capri e Rimini:

sue le mance

più favolose

MICHAILGORBACIOVCome molti

potenti in carica

o in pensione

(George Bush,

lady Diana

Spencer, Hirohito)

ha soggiornato

al Grand Hotel

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Repubblica Nazionale

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“Gomorra” e “Il Divo” che trionfano a Cannessono solo la punta dell’iceberg. In profondità si muovonoscrittori, registi e uomini di teatro che raccontano

un Paese che muta tra precariato, storia criminale e passato mai risolto,ma anche un Paese immobile e reazionario.Qualcuno la chiama“new italian epic”, qualcuno semplicemente impegno civilePer qualcun altro sono tornate le lucciole di Pasolini

CULTURA*

36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 8GIUGNO 2008

mo parlare, ma di necessità? E soprattutto: cheItalia è questa che raccontano Garrone e Sor-rentino (e non solo loro), che italiani ne emer-gono? Qui la sensazione è di una profonda,acuta frattura fra gli artisti (ho pudore a usareuna parola come “intellettuali”, tenuto contodell’elevato numero di Bouvard&Pécuchetche frequentano le case della gente per bene)e il resto del mondo. O, meglio, fra gli artisti equella parte di pubblico che, oltre a seguirli, necondivide le linee di fondo e il resto degli ita-liani. Non si tratta di vedere due realtà diversee antitetiche: l’Italia è sotto gli occhi di tutti, etutti assistiamo, quotidianamente, allo stessospettacolo. Molti, poi, nell’uno e nell’altrocampo, condividono lo stesso giudizio criticosul “malpaese”. Ma La Casta e i “vaffa” grillia-ni, ad esempio, non hanno niente in comunecon Gomorra(libro&film), I fantasmi di Porto-palo di Bellu, la saga di Montalbano e quelladell’Alligatore di Carlotto, Come Dio comandadi Ammaniti.

Il fatto è che una propaganda martellante sisforza di convincerci, giorno dopo giorno, cheviviamo in un Paese assolutamente lineare,privo di zone d’ombra, nettamente suddivisofra villani e giusti (rectius: giustizieri). I ragaz-zi, i nostri ragazzi: o bamboccioni o bulli, sen-za via di mezzo. Le strade: ostaggio di zingarirapitori di bambini e orde di romeni assassini.

Accattoni, tagger e lavavetri, poveri e misericome le nuove “classi pericolose” del dopo 11settembre. I carcerati? In vacanza in alberghia cinque stelle. I Cpt? Una dolorosa necessità.E mentre ci balocchiamo con citazioni sulla“paura liquida”, i network criminali accumu-lano “liquidi”. E giù con livore, leggi speciali, fi-lo spinato.

Ecco. La peculiarità di Garrone e Sorrenti-no, ma anche di tanti altri registi, scrittori, uo-mini di teatro, è, in questa fase, un’altra. Le lo-ro non sono scritture né di critica né di denun-cia. L’ambizione è diversa. Intanto, definireuna complessità oltre la superficie dei luoghicomuni. Poi, individuare, di questa comples-sità, gli snodi essenziali. E, infine, svelare queimeccanismi che ci fanno apparire sempliceciò che tale non è. In una parola, stiamo par-lando di scritture della complessità. Scrittureche non hanno timore di interrogarsi sullecause, “malvezzo” che la propaganda liquidacome sociologismo d’accatto. Scritture che,per usare un’espressione di Carlo Lucarelli, sifanno le domande cattive che gli altri taccio-no. Dobbiamo prenderne atto (con una certasoddisfazione): queste domande, oggi, se lepongono in molti. E non solo fra chi fa cultura,ma anche fra chi ne fruisce.

L’entusiasmo, in certi campi, è sempre unazzardo. Altre volte, in anni recenti, ci siamo

convinti che le cose stessero cambiando. Mapoi, passata una breve stagione, tutto è sem-brato spegnersi. Abbiamo visto nascere e ra-pidamente tramontare, nel cinema, astri lu-minosi. E, alla fine, ha ripreso a circolare fra gliaddetti ai lavori la diceria che certi temi, da noi,è meglio non affrontarli. Tenersi alla larga daimmigrazione, precariato, bande giovanili ecriminalità organizzata, malefatte politiche,aborto, omosessualità e dalla storia patria nonsolo allunga la vita, ma ti mette al riparo dal si-to in assoluto più temuto e aborrito: la nicchia.

Ma un cauto ottimismo si giustifica se nonci limitiamo al cinema, se allarghiamo l’oriz-zonte. Allora sì che Garrone e Sorrentino cipossono apparire non fenomeni episodici,ma punte di un iceberg che si è venuto co-struendo negli anni e che ora sembra incon-trare una definitiva consacrazione. In lettera-tura si parla da anni del “noir italiano”: defini-zione quanto mai approssimativa che è peròservita a connotare, e poi a imporre, una scrit-tura autonoma e originale. I vari Camilleri,Ammaniti, Lucarelli, Carlotto, Wu Ming (perlimitarsi solo a qualche nome eccellente),hanno, in realtà, poco a che spartire con il noir(genere morto e sepolto da quasi cin-quant’anni) e men che meno con il giallo tra-dizionale. E sono, fra loro, diversissimi, perlingua e struttura. Tuttavia, alcuni elementicomuni sono evidenti. La ricerca di un codicedi comunicazione con un numero semprecrescente di lettori. La preferenza per storie diampio respiro, con correlata insofferenza perl’angusto recinto dell’introspezione e del soli-psismo. La repulsione verso il gaio gioco lette-rario di impronta postmoderna che ogni con-traddizione scioglie in un’ironia leggiadra eleggera, sorta di monito al lettore perché diffi-di dell’autore, come di se stesso, in quanto, indefinitiva, tutto al mondo è burla e nulla meri-ta d’essere preso sul serio.

Infine, il fuoco costantemente puntato sul-l’Italia. L’Italia del mutamento, quella che èsotto gli occhi di tutti, e l’Italia immutabile chesi è costruita, attraverso i secoli, grazie alle in-numerevoli stratificazioni che si sono sedi-mentate dentro il carattere nazionale. Da quiromanzi sull’oggi e romanzi storici, raccontisulle periferie e sulle campagne ma anchegrandi epopee sulla guerra, sui momenti disnodo della vita nazionale, rievocazioni delFascismo e della Resistenza, della campagnad’Africa e via dicendo.

E, come Sorrentino e Garrone, anche questiscrittori non nascono dal nulla. E conservanonel bagaglio della tradizione Moravia, il Piran-dello de I vecchi e i giovani, il grande romanzoottocentesco, e, naturalmente, Sciascia, Gad-da e Pasolini. Proprio perché il “genere”, perquesti autori, non s’è mai esaurito in se stesso,ne è derivata una proficua disseminazione. Cisono altri autori che mi sfiderebbero a duello

Raccontare l’Italiasenza avere pauradi sporcarsi le mani

GIANCARLO DE CATALDO

L’altra sera, in campagna, erapieno di lucciole. Sono tor-nate, allora? Il famoso arti-colo di Pasolini sulla scom-parsa dell’amabile insettoche nella stagione degli

amori mette su famiglia lampeggiando perboschi e forre è dunque obsoleto? Dicono i na-turalisti che sì, grazie a quel poco di sensibilitàambientalista maturata negli ultimi anni, allariduzione dell’inquinamento luminoso e al-l’introduzione delle colture biologiche, uncerto ripopolamento è stato osservato. Chissàche ne penserebbe Pasolini. Chissà se rintrac-cerebbe un legame fra il ritorno delle lucciolee un fenomeno del quale si parla molto in que-sti giorni, e che viene definito, di volta in volta,rinascita, ritorno all’impegno civile, esplosio-ne del neo-neorealismo italiano, e via dicen-do.

Gomorrae Il Divoincassano un grande suc-cesso a Cannes. Deve esserne felice chiunqueami il cinema. E tutti quelli che non si sono mairassegnati a considerare l’arte — in senso la-tissimo — una mera branca dello show busi-ness, un affare di guitti all’esclusivo serviziodell’intrattenimento. Garrone e Sorrentinoaffrontano temi forti, e con un linguaggio che,da un lato, innova, dall’altro si ricollega a unatradizione robustissima, attingendo congrande maestria e spudorata freschezza allalezione dei Visconti, dei Fellini, dei Buñuel, diLars von Trier e di Tarantino. Gomorra si ispi-ra al best seller di Roberto Saviano, a sua voltaelemento di devastante innovazione nel pa-norama letterario, ma ne prende presto le di-stanze, dimostrando, una volta di più, che ci-nema e scrittura possono produrre effetti pi-rotecnici quando corrono il consapevole ri-schio del tradimento. Sorrentino osa metterein scena quel “processo” metaforico a GiulioAndreotti e alla “sua” Dc che il Poeta avevaevocato nei tumultuosi mesi che precedette-ro il suo assassinio. Se, poi, le sale sono piene,il gaudio è massimo, e ce n’è quanto basta pergridare al miracolo. E domandarsi se, un gior-no, non saremo capaci di realizzare una gran-de epopea sul capitalismo di casa nostra, unabiografia di Gianni Agnelli, o addirittura (maforse questo è chiedere troppo) un film sul Va-ticano. Come in qualunque altro Paese civile.Come in America, dove già dall’indomani del-le Twin Towers si scrivono e si filmano cosetremende sul Presidente Bush e i suoi collabo-ratori, dove la morte di JFK ha creato una mi-tologia, dove opera gente del calibro di Ellroy,Roth e DeLillo.

Ma da dove nasce il successo di due operecosì ardite come Gomorra e Il Divo? Si trattasolo di un caso, o davvero sta succedendoqualcosa, in Italia, e allora non di caso dobbia-

I FOTOGRAMMINella foto grande (e qui sotto),

Anna Magnani in Roma città aperta

di Roberto Rossellini (1945)

Nelle altre foto, dall’alto in basso

e da sinistra a destra: L’ora di punta

di Vincenzo Marra; Gomorra

di Matteo Garrone; Tutta la vita

davanti di Paolo Virzì; Nuovomondo

di Emanuele Crialese; Mio fratello

è figlio unico di Daniele Luchetti;

ancora Gomorra; Il Divo di Paolo

Sorrentino; altri fotogrammi

di Tutta la vita davanti; Mio fratello

è figlio unico e Il Divo

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 8GIUGNO 2008

LETTERATURA

Due bei film italiani sono premiati al Festivaldi Cannes e fanno accorrere i nostri assopitispettatori, ed è tale la sorpresa, tale l’orgo-

glio di bandiera, che subito gli si trova una etichet-ta comune sommaria e sbrigativa: trattasi di neo-neorealismo, un ritorno ai temi forti, alla realtà e al-l’impegno, alla denuncia politica e sociale, che ri-porteranno tutto il cinema italiano ai trionfi inter-nazionali del passato più che remoto, quello delneorealismo. Il quale, già ai suoi tempi, non eraquello che allora si credeva e che ora si accatasta inun’unica immagine smemorata.

I neorealismi infatti erano parecchi. C’era quel-lo del populista Giuseppe De Santis che non avevapace tra gli ulivi dove la bellissima Lucia Bosè va-gava in veste di contadinella tra campi ciociari egreggi rubate, ed era il 1950; due anni prima lo stes-so regista, in quel momento portato al neorealismofotoromanzato, aveva turbato il casto cinema se-misovietico del dopoguerra italiano con l’amara ri-saia da cui emergevano le cosce oniriche di un’al-tra bellissima come non se ne vedono più, SilvanaMangano. Primo fra tutti nel 1943, ancora in tem-po di guerra, era stato l’aristocratico comunista Lu-chino Visconti a usare una crudele e lattea sedut-trice, Clara Calamai, divoratrice di vagabondi, perfilmare una storia americana di ossessione sessua-le che trasformava con una estetica verista france-se il decadentismo in neorealismo.

Nel suo momento di fulgore quel cinema di mas-sima povertà e urgenza e talento, raccontò l’Italiauscita dalla guerra perduta e dall’epopea della Re-sistenza, per poi languire con i trionfi democristia-ni e la campagna intimidatoria contro i famosi pan-ni sporchi, esaltata dall’allora sottosegretario allospettacolo Andreotti. I grandi di quel periodo con-quistarono il mondo: Ladri di biciclette di De Sicanel ‘48 vinse due Oscar, su Roma città aperta e Pai-sà di Rossellini si formarono generazioni di registiamericani di talento. Il neorealismo non era marxi-sta (tranne forse La terra trema di Visconti e Il solesorge ancora di Vergano) ma populista e moralista,il bianco e nero lo esaltava, alternava divi a gentepresa dalla strada, le sue storie ricercavano la lacri-ma travalicando talvolta il melò, raccontando dimiseria proletaria e contadina, preferendo il dia-letto e il folklore popolare, occupandosi di vittime(disoccupati, pensionati al minimo, cameriere e,massime regine dello schermo, le prostitute buone

destinate alla morte) mai collegando però sfrutta-mento e disperazioni ai veri centri di potere.

«Il neorealismo non fu mai, e non poteva esser-lo», ha scritto anni fa Morando Morandini, «la vocedel dissenso». E adesso il neo-neorealismo fa lostesso: o al massimo dissente nella forma, non nelcontenuto. Se per esempio Il Divo di Paolo Sorren-tino, per raccontare i tragici anni andreottiani fos-se stato (neo-neo) realista come Martelli e CirinoPomicino nell’Annozero dedicato al film, chi mail’avrebbe premiato, ma anche solo invitato, a Can-nes? È stato il talento surreale, immaginifico, cru-dele, sarcastico, astratto dell’autore a trasformareeventi irrisolti eppure obsoleti, con personaggi or-mai fuori gioco, in un grande film. Neppure Go-morra di Matteo Garrone si può definire neoreali-sta, con uno o due “neo”: quasi quotidianamente itelegiornali ci ammorbano con storie quotidiane dicamorra che inducono allo sbadiglio in quanto laripetitività delle immagini e degli eventi ci assicu-rano che se perdiamo una puntata ricupereremo laprossima. Mentre il libro di Roberto Saviano e ilfilm di Garrone sprofondano nelle nostre emozio-ni non per ragioni di realismo, perché tutto ormaisappiamo, ma proprio al contrario, perché scrittu-ra e cinema stravolgono la realtà spaccandoci ilcuore.

Si sa che il film italiano più sconosciuto e famosoè quel Il vento fa il suo giro di un regista da me maisentito nominare, Giorgio Diritti, che da un annocontinua a riempire un cinema milanese, il Mexico,col passaparola. Si potrebbe pensare che da anninon si vedeva un film così (neo) neorealista: giratonelle meraviglie intoccate della val Maira, tra le po-vere case di pietra dei villaggi attorno a Dronero,parlato in occitano (con sottotitoli in italiano), sto-ria di un pastore che viene dalla Francia con mogliee figli e le sue capre da formaggio; accolto prima daipochi residenti con diffidente simpatia, poi a pocoa poco messo al bando, rifiutato, umiliato, costret-to ad andarsene. Pare una parabola che si serve del-la realtà, come tanti dei bei film europei visti a Can-nes, per metterci davanti alle nostre colpe attuali: ilrifiuto di chi non è come noi, che viene da altrove, ilforestiero, lo straniero che porta il disordine dellesue abitudini e dei suoi pensieri diversi, che lavorae si ingegna oltre l’inerzia degli altri, i padroni delterritorio, di un territorio abbandonato e inutile madi loro proprietà e quindi inviolabile.

Quel bianco e nero populista e un po’ melònon è mai stato la voce del dissenso

NATALIA ASPESI

se si ritrovassero inseriti in un sia pur somma-rio elenco, ma nella cui scrittura si sono insi-nuate contaminazioni che innegabilmentederivano dal “noir” italiano. Ciò è accaduto dilà dalle loro intenzioni, forse contro le loro in-tenzioni, ma è accaduto: difficile non cogliereelementi di analogia, ad esempio, in quell’im-pressionante impasto di cronaca, metafora,erotismo e alienazione borgatara che è Il con-tagio di Walter Siti.

Da anni, poi, il teatro è luogo d’elezione diavanzatissimi fermenti. Davvero l’elenco sa-rebbe lunghissimo. Il Teatro di guerra di Mar-tone. L’oratoria civile di Marco Paolini, daVajont a I-TIGI e Il Sergente, memorabiliesempi di felice connubio fra un signore delpalcoscenico e scrittori come Mario RigoniStern e Daniele Del Giudice. E ancora, la do-lente e tenera controstoria d’Italia del canta-storie Ascanio Celestini. I Mai mortidi RenatoSarti&Bebo Storti, acre rievocazione della XMas, per non dire dei Paravidino, Koreja, Cor-tellesi, Scena Verticale, Emma Dante. Espe-rienze certo diverse fra loro, ma tutte legate dauna non comune forza espressiva e dalla te-nace volontà di “sporcarsi le mani”.

Raccontare l’Italia e gli italiani, al cinema, ateatro, nei libri. Chiamiamolo neo-neoreali-smo. Chiamiamolo new italian epic. Le eti-chette lasciano il tempo che trovano. Qualco-sa sta davvero accadendo, è sotto gli occhi ditutti, prendiamone atto. Non stiamo definiti-vamente parlando di caso, ma di necessità. Lelucciole sono tornate, ma sono ancora pochi-ne. Per il momento convivono con le mille lu-ci che ne ostacolano l’accoppiamento, cerca-no strategie di sopravvivenza, e intanto ri-prendono il proprio posto nelle notti di fineprimavera. Ci sono, e questo ci conforta. Sia-mo abituati a pensare che in Italia, alla fine,tout se tiens: lucciole e inquinamento, abne-gazione e opportunismo, eroismo e menefre-ghismo, genialità e cialtroneria. Ma prima opoi dovremo scegliere da che parte stare.

Le grandi multisale del Nord continuano ariempirsi di moltitudini di ragazzini attratti dagarbate commediole a base di pruriti adole-scenziali e di sane famiglie avide di scollaccia-te pellicole vacanziere. Ma l’altro cinema si èguadagnato il suo spazio: non più “nicchia”,ma concorrente robusto e inquietante. Cosìcome negli scaffali delle librerie, fra lividipamphlet contro tutto e contro tutti, manua-listica sulla seduzione fai-da-te, agiografie diveline e velinari e barzellette sulla castronerianazionale, da anni ormai campeggia il nucleo“hard-core” di una letteratura “non identifi-cata” che si danna l’anima per afferrare i con-torni troppo spesso indecifrabili dell’Italia, ilmutamento antropologico del suo presente ele ossessioni del suo eterno e inattaccabilespessore reazionario. La partita è appena co-minciata. E l’esito, tutt’altro che scontato.

TEATRO

MARCO PAOLINIIl sergente, 2004

ASCANIO CELESTINI,Parole sante, 2007

RENATO SARTIE BEBO STORTIMai morti, 2002

PAOLA CORTELLESIGli ultimi

saranno ultimi, 2005

CINEMA

MATTEO GARRONEGomorra, 2008

PAOLO SORRENTINOIl Divo, 2008

PAOLO VIRZÌTutta la vita

davanti, 2008

MIMMO CALOPRESTIPreferisco il rumore

del mare, 2000

GIUSEPPE TORNATORELa sconosciuta, 2006

MARCO TULLIOGIORDANAQuando sei nato

non puoi più

nasconderti, 2005

DANIELE LUCHETTIMio fratello

è figlio unico, 2007

VINCENZO MARRAL’ora

di punta, 2007

CARMINE AMOROSOCover Boy, 2007

AGOSTINO FERRENTEL’orchestra

di Piazza Vittorio, 2006

ROBERTO SAVIANOGomorra,

Mondadori, 2006

GIANCARLODE CATALDORomanzo criminale,

Einaudi, 2002

MASSIMO CARLOTTO,L’Alligatore,

e/o, 2007

NICCOLÒ AMMANITI,Come Dio comanda,

Mondadori, 2006

CARLO LUCARELLIL’ottava vibrazione,

Einaudi, 2008

GIUSEPPE GENNADies Irae,

Rizzoli, 2006

ANDREA CAMILLERILa pazienza del ragno,

Sellerio, 2004

WU MING54,

Einaudi, 2002

VALERIOEVANGELISTIMetallo urlante,

Einaudi, 1998

LETIZIA MURATORILa vita in comune

Einaudi, 2007

ANTONIO SCURATIIl sopravvissuto

Bompiani, 2006

AA.VV.La storia siamo noi

Neri Pozza, 2008

DANIELE SCAGLIONECentro di Permanenza

Temporanea

con vista stadio

e/o, 2008

Repubblica Nazionale

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la letturaFilosofie di vita

38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 8GIUGNO 2008

Sentire con la mente, volare con la mentePercepire il miracolo “normale” dell’esistenza,con l’innocenza meravigliata delle prime domandeNella prefazione a un’antologia di millecinquecentoanni di poesia orientale, una scrittrice esponela sua personale versione del “buddismo del vuoto”

ROSSANA CAMPO

LE IMMAGINILe immagini

e le scritte

che illustrano queste

pagine sono tratte

da un rotolo

di pergamena

contenente i versi

di Tawaraya Sotatsu

e Honami Koetsu

e da un volume

con le poesie

di Matsuo Bashu

Unavolta, diversi annifa, ho letto qualcosa,parlava del come vi-vere e del come mo-rire. Del come man-giare e come cam-

minare. È qualcosa che molti cono-scono, almeno le persone che han-no letto cercato trovato, che si sonointeressate al pensiero del buddi-smo zen. Diceva, questa frase:Quando cammini cammina, quan-do mangi mangia, quando muorimuori.

Non sono certo un’esperta dizen. Non vi aspettate lunghe e com-plicate riflessioni sullo zen, o sullapoesia o sulla poesia zen. Vogliotentare di portarvi accanto, un po’vicino a quello che io ho percepitocome lo spirito zen. Un famosomaestro giapponese diceva: Se seiin riva al fiume, e se senti la bellezzadel fiume, se riesci a fare tutt’unocol fiume, allora stai agendo intuiti-vamente con il tuo spirito zen, coltuo spirito illuminato. E fare questonon è niente di straordinario, è nel-la nostra natura farlo. Il fatto è chespesso la nostra vera natura è rico-perta da idee ricevute, paure, pen-sieri economici, aspettative, picco-li film mentali. Dall’idea che dob-biamo essere efficaci, belli, perfetti.Quando noi siamo staccati dallanostra vera natura, diceva il mae-stro zen, allora abbiamo paura.Quando intuiamo che invece sia-mo una cosa sola col fiume, col cie-lo, con l’universo, lì siamo in pace.

Io ho provato un po’ di tempo an-che a praticare la meditazione zen.Ho provato diverse volte a stare se-duta per qualche ora a fare zazen. Ciho provato, non è stato un succes-so. Ma non importa. Importa inve-ce che ci ho provato. Questo impor-ta moltissimo. Che ci sono andata,un pomeriggio di febbraio di quasi

quindici anni fa, in un centro zen diParigi, la città dove vivevo. Era in rueKeller, se mi ricordo bene, undice-simo arrondissement, quartiereBastille. Una zona di Parigi che baz-zicavo soprattutto per i bar, per gi-rovagare, per andare al cinema. Main quel periodo avevo letto un in-credibile poetico libretto diShunryo Suzuki, maestro giappo-nese della scuola Zen Soto che vive-va negli Stati Uniti da molti anni. Illibro era una raccolta-trascrizionedi suoi discorsi e si intitolava Espritzen, esprit neuf, (in italiano è statotradotto con Mente zen, mente daprincipiante).

Una cosa secondo me importan-te è che quando diciamo mente,parlando del buddismo e dello zen,dobbiamo cercare di non pensarealla mente come al nostro cervelli-no ragionevole, la mente che fa i cal-coli, che guida l’auto o che control-la se abbiamo pagato le bollette. Lamente, per le filosofie orientali èsempre una questione di mente-cuore-vita.

È testa, sì, ma unita a intuizionepercezione emozione. Respiro,poesia. È sentire con la mente. Vo-lare con la mente. Vibrare con ilcuore stando radicati nella terra.Dentro la nostra piccola vita. Con lebollette da pagare, la spesa al su-permercato, la persona di cui mi stoinnamorando. Tutto questo e allostesso tempo qualcosa di più vastodi tutto questo, che comprende tut-to questo, che è ed esiste forse pro-prio a partire da tutto questo. Per-cepire il miracolo normaledel vive-re. La vita non intesa solo come ilmio nome e cognome. La vita pro-prio la vita grande che impregnatutte le cose, la vita che sta dentro dime, piccola donna, piccolo uomo, edentro il cielo, le stelle, il filo d’erba,dentro la mucca, il mio gatto, lo sco-glio, il panino, la mia vecchia vicinadi casa. Mio padre e mia madre e

mio fratello. Il presidente della Re-pubblica. Il duomo. Rino Gaetano.Michelangelo.

Degli insegnamenti zen la cosapiù esplosiva trovo che sia questofatto del richiamarsi sempre, concostanza, allo spirito del princi-piante. L’innocenza delle primedomande che facciamo da bambi-ni. L’innocenza del cuore aperto,della mente meravigliata. La men-te l’occhio il cuore del principiante.Questo è il punto a cui mirare. Que-sto è quello a cui tendono i maestrizen (che per motivi che adesso misono difficili da spiegare io sentosempre molto vicini ai grandi pugi-li. Sto parlando dei grandi mitici pu-gili del passato).

Prendiamo per esempio la calli-grafia zen. La calligrafia zen consi-ste nello scrivere nel modo più di-retto possibile, così, giù, senza abi-lità, proprio come farebbe un prin-cipiante assoluto, un absolute be-ginner. O un bambino. O un matto.Scrivere così, senza mirare nel mo-do più assoluto a dar prova di abi-lità, a mostrare la bellezza, la grazia,l’accortezza del tracciato. Senza ri-cercare la nostra piccola gloria. Masemplicemente standoci dentro,completamente dentro. Essendototalmente immersi nell’atto. Inquel gesto. Stando lì pieni d’atten-zione, come se quella fosse la primavolta che prendiamo in mano ilpennello (la penna) e scriviamo laparola. La prima parola. Uva. Oca.

Se noi riusciamo a metterci inquesto stato d’animo, allora la no-stra natura profonda si esprimeràcompletamente in quell’atto.

Pensate alla pittura di Jean Du-buffet.

Lo scopo della pratica zen è pro-prio questo, mi sembra, conserva-re, allenare, lucidare ogni giorno ilnostro spirito da debuttante. Spiri-to mente e cuore del principiante.Stare aperti, fragili, e vulnerabili.

Vento forte, freddaluna. Un lungotorrente attraversoil cielo. Nessunaombra oltreil cancelloQuattro lati,otto direzioni

Finalmente oltreil limiteNon più legaminé dipendenzaCom’è calmol’oceano,che sovrastail Nulla

Lo zen e l’arte di tornare bambini

© 2

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onelliE

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Absolute beginners. La cosa che mi tocca profonda-

mente è questa. Che il pensare: So-no arrivato da qualche parte; o peg-gio: Ecco ora sono arrivato, proprionon è interessante.

Quando non coltiviamo questaidea dell’arrivare da qualche parte,dell’ottenere un certo effetto, deldimostrare qualcosa a qualcuno,ecco allora sì che siamo dei veriprincipianti. Dei grandi dilettantinel senso bello del termine. E quan-do siamo aperti e debuttanti, alloraè il momento che stiamo imparan-do qualcosa sul serio. Lo spirito deldebuttante è anche lo spirito pienodi compassione e di poesia. E quan-do siamo nella compassione, cioènella poesia, lì siamo illimitati.

Il maestro Suzuki lo ripete spessonei suoi discorsi, tale spirito è ancheil grande segreto di tutte le arti: sia-te sempre dei debuttanti, siatesempre un poeta alla sua primapoesia. Un cantante che si tira fuo-ri per la prima volta. Uno scrittoresenza editore, un regista senza pro-duttore. Truffaut che consiglia a chivuole fare il regista e non trova sol-di: scrivi un romanzo.

Torniamo all’incredibile librettodi Suzuki, lo spiritozen, diceva, è unmodo per farvi prendere coscienzadi voi stessi, per superare le parole(mi piaceva la parola usata nellatraduzione francese, dépasser lesmots, in quel dépasser ci vedevoproprio il salto in alto che fa la no-stra vita, la nostra mente, il nostrocuore, non più incatenata al pen-siero quotidiano, al sentire comu-ne di tutti i giorni, all’opacità dellepercezioni che ci tiriamo dietro abi-tualmente). Per andare a caccia diquella che è la nostra mente origi-naria. La nostra natura autentica.Quello che gli psicanalisti junghia-ni mi pare chiamino il Sé profondo.Anche se non si tratta solo di questo.

È lo scopo di tutti gli insegna-

menti zen, quello di portarci lì. A in-terrogarci, a provare a fare questosalto e percepire la nostra vera na-tura. La natura profonda. La naturadi Budda, che tutti abbiamo, rin-chiusa come un gioiello nel risvoltodei nostri vecchi cappotti. Così di-cono i Sutra. Natura che per altrescuole buddiste si chiama ChiaraLuce (buddismo tibetano), oppureNam-myoho-renge-kyo (buddi-smo giapponese di Nichiren Dai-shonin). Eccetera. La naturaprofonda contiene la nostra storia,proprio la nostra piccola scalcinatastoria, figli di nostra madre e nostropadre, fratelli e sorelle dei nostri fra-telli e sorelle. Coi nostri difetti i no-stri slanci i dolori, e in più qualcosache è di tutti. Che ci appartiene ed èinfinita. Appartiene a noi, ma nonsolo a tutti noi umani, bensì a tuttigli esseri senzienti, come si dice. Lanostra natura profonda che è anchequella dell’universo, delle rocce,delle onde dell’oceano, degli uccel-li e dei pesci, dicono i maestri, è unanatura di luce e di compassione pu-ra. Ma come arrivarci? Come perce-pirla? Qui sta il percorso, credo.Tutta la fatica del percorso, ma an-che il senso delle nostre piccole viteche sono però immerse nella gran-de vita universale.

Ricordo mio delle elementari.Sono molto, ma proprio tanto, ca-tastroficamente uno zero in mate-matica. E ne soffro. In genere quelliche dicono: alle elementari andavomalissimo in matematica. Oppure:avevo tutti due in matematica, poiridono. Io non lo dico ridendo, iosoffrivo orribilmente di non capirenulla della matematica. Quando lamia maestra Rosa Bozzano cercavadi spiegarmi qualcosa che aveva ache fare coi numeri, io restavo pie-trificata, le mani mi diventavano dighiaccio e cominciavo a sudare.

C’era questo fatto della prova delnove. Ve lo ricordate come si faceva

Venendo,andando,l’uccelloacquaticonon lascia traccia,né ha bisognodi una guida

I pensieri sorgonosenza sosta,breve è la duratadi ogni vitaCento anni,trentaseimila giorni:la primaverapassa, la farfallasogna

la prova del nove? Io non la sapevofare allora e non la so certo adesso.Però ricordo che c’era questa provadel nove, questi numeri da metterein un certo modo per vedere se iconti tornavano. E ricordo i mieicompagni che la facevano. Tirava-no giù i loro cavolo di numeri e do-po un po’, chi prima chi dopo, unovia l’altro esclamavano, diretti allaclasse, a se stessi, alla maestra: GIU-STO!

Io non sapevo come farla la pro-va del nove. Così mi ero inventataun mio modo per farla, infilavo deinumeri a caso, o secondo un ragio-namento tutto mio e poi esclamavoanch’io, come gli altri, tentandocon tutta me stessa di essere comegli altri: GIUSTO!

Mi è andata bene diverse volte.Finché una volta la maestra RosaBozzano dà una controllata al mioquaderno e poi rimane lì a fissarmi,a guardarmi con la bocca aperta.Credo che abbia detto anche: MaRossana, ma questo, cosa significa?

Bene, per me questo spirito delprincipiante, questo spirito zenpassa un po’ anche da quelle parti,nell’accogliere la me stessa bambi-na che si inventava un suo modoper fare la prova del nove. Che sof-friva orribilmente nel non capire lamatematica, nel non essere lodatadalla maestra e per tutto il resto chesuccedeva allora nella mia vita. Inquella ragazzina incasinata io hoscoperto, col tempo, che c’è la par-te migliore di me. L’ho scopertocamminando, scrivendo, dipin-gendo, amando, soffrendo, goden-do, pensando. Questa è la parte chenon si sente arrivata, che sa di ave-re moltissimi limiti e che proprio apartire da questi limiti, incapacità,paure, invenzioni, racconti, sa diessere viva. E anche un po’ infinita.

(© 2008 Newton ComptonEditori Srl)

IL LIBRO

Si intitola Poesie Zen,

a cura di Lucien

Stryke e Takaschi

Ikemoto (Newton

Compton, 8 euro)

È un’antologia

che ospita

millecinquecento

anni di poesia

dell’Estremo Oriente

figlia della tradizione

del buddismo

del vuoto cinese

e giapponese

La prefazione,

che qui anticipiamo,

è di Rossana Campo

Il volume sarà

in libreria il 12 giugno

per la nuova collana

Newton Deluxe

che comprende,

tra gli altri, anche

Il Libretto Rosso

di Mao Zedong

presentato

da Federico Rampini

e Cuore di cane

di Bulgakov

presentato

da Eraldo Affinati

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 8GIUGNO 2008

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Repubblica Nazionale

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Prima di Internet, degli mp3 e degli iPod la rivoluzionesi chiamava semplicemente “cassette”. Si chiedevanoi vinili in prestito, si registravano le tracce preferite,

si duplicavano per gli amici, si personalizzavano le copertineOra, ai tempi delle playlist, il leader dei Sonic Youth ricordain un libro quel pezzo di storia collettiva

SPETTACOLI

40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 8GIUGNO 2008

Quando la musicasi scaricava su nastro

La prima volta che sentii par-lare di un mix su cassetta funel 1978. Robert Christgau, il«decano dei critici rock»,scrisse un pezzo su VillageVoice sul suo disco preferito

dei Clash, guarda caso una sua produzio-ne: una cassetta con le b-side della bandnon incluse negli album. I Clash scrive-vano singoli fantastici, e album fantasti-ci, e di solito inserivano i singoli nei di-schi, ma non le b-side. Comunque, dalpunto di vista della mia mentalità da cri-tico musicale, la sua era un’ottima pen-sata. Un aspetto in particolare mi colpì:Christgau sosteneva che si trattasse di unmix tape che aveva compilato per rega-larlo agli amici. Si era fatto il suo albumpersonale dei Clash e lo dava in giro comememento alla sua devozione per il rock’nroll. C’era una cosa che lui possedeva e iono: una piastra a cassette.

A quei tempi, i mangianastri erano tan-to fondamentali quanto i giradischi. Ederano ugualmente ingombranti. Ma inquel periodo la Sony lanciò il Walkman: unmangiacassette portatile grande la metàdegli apparecchi standard — più o menocome i registratori che in genere si vede-vano tra le mani dei giornalisti. Questinuovi Walkman si portavano a tracolla,erano l’ideale per andarsene a zonzo per lacittà ascoltando musica con gli auricolari.Immagino che l’industria discografica siaspettasse che gli utenti acquistassero lecassette originali degli album, e di certo fucosì, ma ehi! perché non comprare casset-te vergini e registrare singoli brani dai di-schi? Ecco cosa fecero tutti quelli che sierano muniti di Walkman. Non passòmolto che su album e cassette originali ap-parvero adesivi come: LE REGISTRAZIO-NI DOMESTICHE UCCIDONO LA MUSI-CA! Se non altro, anticipava l’attuale para-noia dei discografici sui cd masterizzati ele canzoni scaricate da Internet.

Tra la fine degli anni Settanta e l’iniziodegli Ottanta non potevo permettermi unWalkman, ma il mio vicino al piano di so-pra, l’artista Dan Graham, ne aveva unonuovo — e tonnellate di vinili. Compravatutti i dischi di punk rock e new wave in cir-colazione, li metteva su cassetta, quindime li passava per ascoltarli sul mio vetustomangianastri. Più o meno tra il 1980-1981,si assistette a una spontanea proliferazio-ne di giovani band, che pubblicavano sin-goli hardcore-punk super veloci, la mag-gior parte dei quali si atteneva ai canonidel thrash. Gruppi come Minor Threat,Negative Approach, Necros, Battalion ofSaints, Adolescents, Sin 34, The Meatmen,Urban Waste, Void, Crucifucks, Youth Bri-gade, The Mob, Gang Green ecc. Eranograndi! Dal vivo facevano scintille e regi-stravano album pazzeschi. Molto ruvide e

dirette, le canzoni difficilmente superava-no il minuto di lunghezza. Ero un fanatico,li compravo tutti appena uscivano. Ognigiorno pagavo pegno da Rat Cage in Ave-nue A per impossessarmi di tutti i settepollici di hardcore esposti sulla parete.Certo, era una spesa, ma non un salasso.Ogni singolo costava due o tre dollari. Maal tempo facevo ancora il lavapiatti in unristorante di Soho — non navigavo pro-priamente nell’oro — eppure dovevo as-solutamente avere quei dischi!

La mia amata Kim tornava a casa dal la-voro ogni giorno, commessa da Todd’sCopy Shop e cameriera da Elephant & Ca-stle in Prince Street, e mi beccava ad ascol-tare singoli hardcore dalla mattina alla se-ra. Credo che abbia scritto anche un testosul suo ragazzo (io) che passava così le suegiornate. Mi sentivo un po’ in colpa, avevobisogno di ascoltare quei dischi con calmae attenzione, e mi venne in mente che po-tevo preparare un mix con i pezzi miglioridi quegli album — e visto che erano tutticosì brevi e con la stessa potenza ed ener-

THURSTON MOORE

man con altoparlante incorporato. Inquesto modo potevo tenere il Walkmanvicino al cuscino e suonare il mix H. C. a unlivello ancora più intimo. [...]

A metà degli anni Ottanta, prima di untour con i Sonic Youth, decidemmo di mu-nire il furgone con un mangianastri. L’i-dea era di prendere un’autoradio fissa, maera una soluzione troppo dispendiosa. Al-l’epoca a New York impazzavano per lestrade giganteschi stereo che sparavanomix di rap da casse spropositate, i cosid-detti “ghettoblaster”. Lo stile hip-hop“della strada” esigeva misure sproporzio-nate. Scarpe da basket titaniche con strin-ghe super ampie, occhiali grandi comemetà della faccia, catene d’oro che chia-mavamo “funi” tanto erano spesse e mas-sicce, e gli stereo portatili avevano le stes-se dimensioni di un carrello del super-market.

[...] Ai tempi Delancey Street, e la traver-sa Orchard Street, erano la zona del centrodove si concentravano i negozi di abbi-gliamento e accessori hip-hop. [...] Le do-meniche pomeriggio qui erano folli, congente che se ne andava in giro con i propristereo oversize sparando a palla SpoonieG e DST (un grande rapper vecchia ma-niera, il cui nome stava per DelanceyStreet). Poi c’erano i rockettari indiepunkoidi come me — affamati e spiritati,che si nutrivano di tutto. Le cassette mix dihip-hop, disposte per la vendita su tavolidi cartone, cominciarono a riferirsi a un si-stema di valori dettato da chi compilava lascelta dei brani. [...] Run DMC e LL Cool Jcominciavano a spopolare, la Def Jam lan-ciava sul mercato un nuovo ibrido di punkrock/hip-hop, e i dischi uscivano alla ve-locità della luce. Tutto questo, per segugidella musica come me, rendeva la vita ditutti i giorni piuttosto eccitante.

[...] Quindi entrai nel negozio in Delan-cey Street e, con i fondi limitati della band,comprai il più imponente “ghettoblaster”in esposizione. Era davvero massiccio (èmassiccio, ce l’ho ancora)[...]. Quando mipresentai, gli altri videro il mangianastri,

LE IMMAGINITutte le immagini

di queste pagine

sono tratte

dal libro

Mix Tape: l’artedella culturadelle audiocassette

gia, la cassetta sarebbe stata un monolitohardcore.

Avevamo libero accesso all’apparta-mento di Dan, così una volta ci andai e re-gistrai il mio mix, che per me era la casset-ta definitiva di hardcore mai realizzata. Suun lato scrissi H, sull’altro C. Quella notte,mentre eravamo a letto, dopo che Kim siera addormentata, infilai la cassetta nelnostro mangianastri, trascinai uno deipiccoli altoparlanti sul letto, e ascoltai ilmix a un volume ultrabasso. Ero in unostato di beato mormorio. Quella musicafaceva sfrigolare ogni cellula, ogni fibra delmio corpo. Era bello. Quell’estate, per ilmio compleanno, Kim mi regalò un Walk-

Nei concerti portavo“Conan” sul palco,gli microfonavogli altoparlantiper giocare

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 8GIUGNO 2008

tuttiaffezionati al

Conion (la marca delmangianastri, che ribattez-

zammo Conan). Nei concerti lo portava-mo sul palco, microfonavo gli altoparlan-ti per giocare con i nastri tra un pezzo e l’al-tro. I fan in tutta America ci lasciavano leloro cassette — alcuni, speranzosi, i lorodemo — compresi mix che poi ascoltava-

mo.[...] Alla fine

del tour, nel furgoneerano disseminate centinaia di

cassette, con le custodie di plastica cal-pestate e rotte. Anni dopo, avrei raccoltotutti i mix in uno scatolone per darli a Kimquando venne ricoverata in ospedale perpartorire. A volte, quando spulcio neimeandri della nostra casa mi ci imbattoancora e, come in una foto, mi vengono inmente flash di quegli anni incredibili.

Traduzione Massimo Gardella(© 2008 il Saggiatore Spa Milano)

Si chiamano mix tape. Si dovrebbe dire “si chia-mavano”, perché oggi le compilation di brani re-gistrati su cassetta sono state ampiamente supe-

rate dalle playlist che tutti hanno sul proprio iPod e chesi scambiano su Internet. Ma i mix tape erano qualco-sa di diverso dalle playlist. Ed è di questo che parla MixTape, il libro dedicato all’arte e alla cultura delle cas-sette scritto da Thurston Moore, musicista dei SonicYouth, scrittore e poeta.

Play, Fast Forward, Pause, Rewind. Se siete veri ap-passionati di musica sapete di cosa stiamo parlando.No, non solo del fatto di ascoltare la musica, di amareun disco, un brano, un gruppo, ma di far ascoltare quel-la musica, quei dischi, quelle canzoni, quei gruppi aqualcun altro. O di mettere insieme la musica preferi-ta in una sequenza in grado di commuovere, di esalta-re, di far pensare, di sorprendere, di dare un senso allavita. Tutto questo si faceva con le cassette. Le antenatedelle playlist, quelle che oggi si realizzano con pochiclic, un software e un pugno di file mp3, erano piccole,portatili, maneggevoli, poco costose, ed erano il primostrumento vero e proprio per il quale il “dominio dellacopia” che dalla nascita dei dischi in poi era sempre ri-masto nelle mani dei discografici, diventava “nostro”.Ognuno poteva copiare un disco, una canzone, met-terla su una cassetta e portarsela in tasca. Ognuno po-teva prendere una canzone da un disco, una da un al-tro, metterle in fila, registrarle e alla fine avere in manoun prodotto assolutamente originale, un mix tape, cheera qualcosa di più di una compilation, di una raccol-ta. Era un oggetto che racchiudeva una vita intera, unmodo di vedere il mondo, una fotografia della realtà vi-sta da un punto di vista particolare.

Ricordate le liste di Rob, il protagonista di Alta fe-deltàdi Nick Hornby? Quelle erano liste per dei perfet-ti mix tape, qualcosa di più di una semplice lista di can-zoni. E Thurston Moore oltre che raccontare con quelpizzico di necessaria nostalgia l’era della cassetta, delwalkman, della copia casalinga, ha voluto raccoglierele memorie di oltre ottanta persone, artisti, musicisti,attori, scrittori, registi, presentatori televisivi e, comein Alta fedeltà, impiegati di negozi di dischi, chieden-do a ognuno di loro di raccontare il proprio mix tape,

quello fatto quando un amore è finito, quel-lo con la musica più bella, o quello

per una sera d’estate. «In futu-ro», scrive Dean Wareham,

uno dei testimoni chiamati daMoore, «quando i mix tape sa-

ranno oggetto di studio dei so-ciologi, arriveranno alla conclu-

sione, in termini tecnici, che ilmix era una forma di “discorso” ti-

pica della fine del Ventesimo seco-lo, presto sostituita dalla playlist».

Fino al 2000 il declino della cas-setta era stato in qualche modo li-

mitato dalla mancanza di alternati-ve per la registrazione casalinga, poi

l’avvento dei registratori di cd e quel-lo di formati digitali come l’mp3, e la

definitiva affermazione degli iPod harapidamente convinto i consumatori a

mandare in pensione i vecchi nastri e adabbracciare, anche per le registrazioni, la

rivoluzione digitale. La cassetta aveva re-sistito dignitosamente all’avanzata del

compact disc che aveva travolto i vecchi di-schi. Poco meno di venti anni fa il numero

delle cassette vendute superava ancora digran lunga quello dei cd, ma dopo il sorpas-

so, avvenuto nel 1992, i piccoli contenitori diplastica avevano mantenuto delle forti quote

di mercato, nonostante i tentativi di sostitu-zione avvenuti con formati come il Dcc, la cas-

setta digitale, e il MiniDisc, piccoli portatili e re-gistrabili, ma con qualità digitale. La registrabilità abasso costo era la principale arma di difesa della vec-chia cassetta, ma con l’avvento dei masterizzatori dacomputer prima, e dei registratori di cd poi, è iniziatol’inevitabile declino.

La cassetta, virtualmente scomparsa in Europa e inAmerica, è ancora, comunque, il formato dominantein vaste aree del pianeta. In Africa copre il sessanta percento del mercato discografico, in Asia il cinquanta, inAmerica Latina il venti, e ci sono paesi in cui senza lecassette la musica non verrebbe distribuita, come laTurchia, l’Egitto, ma anche veri colossi come l’India, laRussia o la Cina, dove copre tuttora la stragrande mag-gioranza del mercato. Il libro di Moore non prevedeche la cassetta torni tra noi, è un “dead media” e nem-meno il futurologo Bruce Sterling, che ha scritto unapregevole introduzione, immagina un domani per ipiccoli nastri. Ma se il vinile ritorna...

La prima compilationdella nostra vita

ERNESTO ASSANTE

stupiti che avessi buttato i soldi del grup-po per quel gigantesco obbrobrio di pla-stica. [...]

Mentre percorrevamo l’Holland Tun-nel, distanziandoci sempre più dalla città,pensai che fosse giunta l’ora di mettereuno dei miei mix. Infilai la prima delle cas-sette di rap e lo stereo si dimostrò un gran-de acquisto. Economico, ma superbo. Efunky. La musica che usciva da quell’ap-parecchio non poteva che essere perfetta.Nel giro di venti secondi arrivarono le pri-me voci di dissenso: «Puoi abbassare, perfavore?», «Hai altre cassette dietro?», «Ioho portato Johnny Cash...». Quando arri-vammo sulla West Coast, ormai eravamo

IL LIBRO

Si intitola Mix Tape: l’arte della culturadelle audiocassette. Sono racconti,

saggi, ricordi di artisti e musicisti raccolti

da Thurston Moore, cantante e chitarra

dei Sonic Youth. Prefazione

di Bruce Sterling. Edito da Isbn Edizioni

(100 pagine, 22 euro)

sarà in libreria l’11 giugno

REPUBBLICA.ITDa oggi sul sito

di Repubblica.itl'audiogalleria

di Ernesto

Assante, curata

da Chiara Ugolini,

sulle cassette

evergreen

• NUCLEARE, SI RIPARTENonostante l’incidente in Slovenia, Enel e governo decisi ad andare avanti. Fulvio Conti: “È nell’interesse dell'Italia”.

Le aziende si preparano alla grande sfida

• INGHILTERRA, LA CRESCITA NON C’È PIÙDopo un decennio di crescita il pil rallenta, risalgono inflazione e disoccupazione: la crisi dei mutui fa riscoprire agli inglesi la paura della recessione

• DE AGOSTINI VUOL FARE UN’ALTRA ENDEMOLIn diciotto mesi il gruppo ha chiuso tre acquisizioni nel settore dei format tv e adesso vuole competere con l’inventore del Grande Fratello,

oggi controllato da Mediaset

• SE IL CNR DIVENTA IL MOTORE DELLO SVILUPPOIl nuovo presidente punta su una ricerca che possa aiutare la crescita delle imprese: “Dobbiamo lavorare insieme”

Nel numero in edicola domani con

Repubblica Nazionale

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42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 8GIUGNO 2008

LICIA GRANELLO

i saporiMorsi di stagione

Glabra o vellutata, croccante o morbida, schiacciata o tondeggiantecome una mammella. La “mela persica”, il frutto più amato dagli italiani,torna con il primo caldo in tutto il suo fulgore. Nata in Cina, dove cinquemilaanni fa si credeva crescesse sull’albero dell’immortalità, è da sempreprotagonista dei dessert (gelati, marmellate, crostate) ma oggisi affaccia anche come comprimaria negli antipasti di pesce o verdura

«Quella che abbiamo figurata è una delle piùpreziose che si conoscano. La sua gros-sezza e il suo colorito la distinguono fra lealtre in bellezza; poche poi possono ga-reggiare con essa per la bontà. È gentile,butirrosa, liquescente, e piena di sugo: ha

un poco di acidulo, ma se è ben matura, esso non serve che arilevarne il sapore. Il suo nocciolo è sempre rosso, e la polpache lo circonda, sebbene bianca, prende presso di questoun’atmosfera di rosso paonazzo da cui resta raggiata in un mo-do grazioso. Tale è la Pesca che conoscia-mo ora in Italia sotto il nome di Poppa diVenere, come esso è derivato dalla mam-melletta che si vede sulla cima di questaPesca».

Così il botanico Giorgio Gallesio a ini-zio Ottocento racconta la più bella tre lepesche ne La Pomona Italiana. Difficileimmaginare una descrizione che vadaoltre tanta ammiccante sensualità, per ilfrutto estivo più amato dagli italiani.

Ne mangiamo più di dieci chili l’anno,senza troppo curarci delle varietà che tro-viamo in commercio: ci piacciono tutte,glabre e vellutate, croccanti e sugose,morbidamente acidule e spudorata-mente dolci. Non si può immaginare uncesto di frutta, una macedonia, un bic-chiere di “vino estivo” (asprigno, fragoli-no, clinto) orfani di nettarine e percoche,tabacchiere e seni di Venere (così ancorale chiamano i francesi, che le considerano afrodisiache).

Le gustiamo da sempre, se è vero che Virgilio le colloca benprima di Cristo. Pur se originarie della Cina — dove già cin-quemila anni fa erano considerati frutti benedetti dell’alberodell’immortalità — e diffuse per la prima volta in Europa daigreci, gli antichi romani le battezzarono mala persica, melepersiane (dove erano comunque coltivate). Nel continenteamericano, invece, approdarono solo a metà Cinquecento,insieme ai colonizzatori spagnoli. Dal Messico agli Stati Uniti,

il viaggio fu lungo ma vittorioso, se è vero che la Georgia è sta-ta ribattezzata The Peach Stateper la sua vaste coltivazioni mo-nodedicate. La Cina, comunque, non ha mai perso il primatoproduttivo, seguita da Italia (il cinquanta per cento tra Emilia-Romagna e Campania), Grecia, Spagna e Turchia.

Facili da amare. Come gran parte della frutta estiva, sonodissetanti, toniche, diuretiche, digestive, lievemente lassati-ve. In più, vantano un bel ventaglio vitaminico (C, A, B1, B2,PP) e sali minerali (potassio, ferro, calcio, fosforo) in quantità.

Se la tradizione culinaria le consegna all’elenco dei dessert— crostate e bavaresi, marmellate e gela-ti — la gastronomia moderna ribalta lasequenza dei menù, piazzando perco-che e nettarine nel cuore degli antipasti,felicemente abbinate ai delicatissimiscampi crudi o alternate a dadini di ver-dure croccanti.

Ma tra piatti virtuosamente contami-nati — dove le pesche si sposano con risoselvaggio, quinoa, pollo — e cocktail sua-denti (Bellini, Sex on the beach, Caipiro-ska), guai a dimenticare le preparazioniche hanno glorificato le pesche nell’altapasticceria. Su tutte, la Pesca Melba,creata nel 1893 da Auguste Escoffier, ce-leberrimo chef francese, allora alla guidadella cucina dell’hotel Savoy di Londra. Alui, un gruppo di fan della soprano au-straliana Nelly Melba, di scena al CoventGarden Theatre, chiese di allestire unacena di gala. Escoffier, ispirato dalle insa-

latiere di argento e cristallo disposte sui tavoli, le colmò a stra-ti con gelato alla vaniglia, mezze pesche sciroppate e sorbettodi lampone. La cantante, estasiata da tanta bontà, fu felice dibattezzarle col suo nome.

Tra Romagna e Marche, invece, con un impasto di uova, zuc-chero, farina, burro, latte e lievito, si realizzano delle mezze fin-te pesche, unite — dopo il passaggio in forno — da una cuc-chiaiata di crema pasticciera e colorate con l’alchermes. Be-vanda d’obbligo, per accompagnarle, un buon tè alla pesca.

Succosa e dolcissimacon pelle da brividi

Pasta giallaDolce, succosa, rustica,

la più adatta per crostate,

marmellate e conserve

È ricchissima di carotenoidi

e flavonoidi, antiossidanti

doc e tandem benedetto

per l’abbronzatura,

ma la sua buccia

multicolore e vellutata

può risultare fastidiosa

Pasta biancaAcidula e rinfrescante

ha buccia bianco-crema

con screziature rosso chiaro

e intenso. Bianca anche

la polpa, soda e profumata,

perfetta per macedonie,

gelati e bavaresi. Meglio

consumarla in tempi brevi,

perché mal si adatta

alla conservazione

Di vignaPiccola e farinosa, è nata

nelle campagne piemontesi

come coltivazione

sostitutiva delle vigne

danneggiate dal maltempo

a inizio Novecento

Viene aperta, asciugata

in forno e farcita

con amaretti, cacao

e la sua stessa polpa

SpaccarellaIndifferentemente bianca

o gialla, si caratterizza

per la facilità con cui

il nocciolo si separa

dalla polpa, virtù essenziale

per realizzare le ricette

ripiene. Al contrario,

esistono varietà con polpa

strettamente aderente

all’osso chiamate duracine

Le tonnellate di produzione mondiale annua Le tonnellate di produzione italiana annua

Pesche

Gli appuntamentiPesche senza pesticidi,

da mercoledì a domenica,

a “Sapor Bio” a Viareggio

Poi a Modena il congresso

dell’Ifoam, organismo

internazionale di agricoltura

biologica, affiancato

da mercato e degustazioni bio

E il 16 convengo

sulla frutta senza chimica

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 8GIUGNO 2008

Quando mi capita di addentare una pesca — attrattiva irresistibile, in questa stagione — non posso fa-re a meno di pensare a Zuco Padella. Zuco Padella chi? Il contadino di cui narra Sabadino degli Arien-ti, notaio e letterato bolognese, autore, nel 1495, di una raccolta di novelle dedicate al duca Ercole d’E-

ste. Sabadino immagina, sul modello del Decamerone, che una brigata di gentiluomini e gentildonne bo-lognesi si trasferisca durante l’estate ai bagni della Porretta, sollazzandosi in amene attività come raccon-tare novelle. In queste Porretane compaiono anche personaggi umili, ma l’occhio che li guarda è semprequello della nobile compagnia: il loro ruolo è essere sottomessi, umiliati, sbeffeggiati. La distanza fra le clas-si è un postulato fondamentale nella cultura dei ceti dominanti dell’epoca, e si esprime anche nei codici dicomportamento alimentare, nel modo di pensare i cibi e la loro “appropriata” destinazione sociale.

Le pesche, come altri frutti delicati, non sono cibi da contadini. Vanno riservati alle élite. Anche se, a vol-te, i contadini non stanno al gioco. Sabadino ce lo spiega con un apologo che mette in scena un contadinoe un signore: Zuco Padella (appunto) e messer Lippo Ghisilieri.

Lippo aveva un giardino bellissimo, ricco di frutti «e specialmente de bellissime persiche», gelosamen-te protetto da siepi e fossati. Ma «quasi ogni nocte» Zuco Padella si faceva un varco nella siepe, raggiunge-va i peschi e si portava via un po’ di frutti. Non era un furto occasionale, dettato dal bisogno o dalla fame,ma una vera e propria sfida, sistematica e ripetuta, al privilegio di classe.

Messer Lippo, per smascherare l’impudente malfattore, fece conficcare nel terreno delle trappole condei chiodi rivolti all’insù. La notte, quando Zuco entrò nel giardino, «li venne posto il dito grosso del piedesopra uno de questi chiodi». Pur ferito, non abbandonò il campo: la notte seguente si mise ai piedi due tram-poli, rinforzati da «ferri di asino», in modo da non forarsi «e che paresse fusse uno asino che mangiasse lepersiche»: se ne fece un nuovo carico e tornò a casa incolume.

La posta si è alzata e il signore mette in atto nuove strategie di accerchiamento: fa raccogliere tutte le pe-sche tranne quelle di un solo albero, e sotto questo fa scavare una gran buca «a modo di lupara, dove si pi-gliano li lupi». Per tre notti fa personalmente la guardia e infine arriva Zuco Padella, munito dei suoi tram-poli. Si dirige prontamente all’albero carico di pesche e precipita nella fossa, e «quasi non fu per romperseel collo». Lippo ordina ai servi di prendere una caldaia d’acqua bollente e di rovesciarla dentro la buca. Ilcontadino comincia a gridare: «Misericordia! Misericordia!» e viene smascherato. «Credevo di aver presoun lupo a quattro zampe, non a due», commenta sarcastico messer Lippo, e rincara la dose: «Volendo pi-gliare il lupo, ho preso l’asino che mangiava le mie persiche». La lezione è accompagnata da parole di ar-rogante disprezzo: «Villano latrone che tu sei! Che te vegna mille cacasangui!»

La ferocia di questo combattimento — una guerra in piena regola — è pari alla durezza di un’ideologiaalimentare che pretendeva di segnalare con la diversità dei cibi le differenze fra gli uomini e il manteni-mento dell’ordine sociale. «Un’altra volta», sentenzia in conclusione messer Lippo, «lascia stare le fructede li miei pari e mangia de le tue, che sono le rape, gli agli, porri, cipolle e le scalogne col pan di sorgo». Lepesche sono solo per li miei pari.

Zuco Padella, che in modo ingenuo e maldestro cercò di spezzare le regole del privilegio sociale, lo pen-so come un eroe del progresso, a cui volgerò un grato pensiero prima di assaporare la prossima macedo-nia di pesche.

Un boccone di classevietato ai “villani”

MASSIMO MONTANARI

itinerariGaetanodi Costanzoè il giovanee bravissimochef del TermeManzi Hotel

& Spa, nel cuore di IschiaTra i piatti del menùestivo, spicca la deliziosatartara di gamberocon riso selvaggioprofumato alla vaniglia,pesche gialle e brunoisedi verdure crude

Inserito nella mappa

dei borghi più belli

d’Italia, il comune

delle colline

alessandrine

che ha dato i natali

al pittore Giuseppe

Pelizza vanta

una frutticultura

di primissima qualità. Fragole e pesche

sono tra le migliori d’Italia

DOVE DORMIREDIMORA LA CAPPELLETTA (con cucina)

Via della Clementina 16

Tel. 0131-80222

Camera doppia da 120 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREIL FIORILE (con camere)

Via XXV Aprile 6, frazione Castel Ratti

Tel. 0143-697303

Chiuso lunedì, menù da 30 euro

DOVE COMPRARECASCINA GALEAZZO

Strada Prov. Tortona-Volpedo, località Volpeglino

Tel. 0131-806257

Volpedo (Al)Appoggiato

sulle colline di Enna,

il comune fondato

nel Seicento da Nicolò

Branciforte vanta

una campagna fertile

dove prosperano

grano, agrumi, ulivi

e le antiche pesche

impergamenate, con festa dedicata la prima

domenica di ottobre

DOVE DORMIREVILLA GUSSIO NICOLETTI (con cucina)

Contrada Rossi, S.S. 121 km. 94,750

Tel. 0935-903268

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Tel. 0935-640529

Senza chiusura settimanale, menù da 20 euro

DOVE COMPRAREAZIENDA AGRICOLA SAMPERI

S.S. 121 km 91, contrada Samperi

Tel. 338-9110383

Leonforte (En)Via dal mare,

si apre una campagna

fertilissima,

dove trionfano

le coltivazioni di frutta

Pesche e nettarine

di Romagna, protette

dall’Igp, sono

protagoniste

di “Un mare di frutta” e di “Nettarine in festa”

nei primi due week end di luglio

DOVE DORMIREMARAFFA B&B

Via Moretti 11

Tel. 338-4112215

Camera doppia da 80 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIARELA MAGNOLIA

Viale Trento 31

Tel. 0547-81598

Chiuso lunedì, menù da 60 euro

DOVE COMPRAREAZIENDA BIOLOGICA LA QUERCIA

Via Stradone Sala 257

Tel. 0547-311633

Cesenatico (Fc)

TardivaPer ripararla dai parassiti,

i contadini della zona

di Enna la “impacchettano”

con carta pergamenata

Così la maturazione arriva

in autunno regalando

frutti sani, gialli, sodi,

con un profumo particolare

che ricorda moltissimo

quello della canditura

PercocaGialla, grande, compatta,

è la vera protagonista

della conservazione:

sia in versione sciroppata

che per la produzione

di succhi. Le migliori sono

coltivate in area vesuviana

e in Puglia, dove vengono

consumate anche tagliate

a fettine e immerse nel vino

NettarinaPiù che per il colore

della polpa – sia bianca

che gialla – si differenzia

per la buccia, liscia, glabra,

lucida. Risultato di un ibrido

americano, la pesca noce

è ben provvista di vitamina C

e potassio (anti-crampi)

La varietà romagnola

è protetta dall’Igp

Le calorie ogni 100 grammi

SchiacciataDetta anche tabacchiera

o saturnina, è riconoscibile

per la sua forma, simile

a quella di una focaccina

Gialla o bianca, è una varietà

delicata, dalle dimensioni

ridotte, di consistenza

setosa e profumo intenso

Terra d’elezione

per gustarla: l’Etna

I chilogrammi consumati pro capite

Repubblica Nazionale

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44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 8GIUGNO 2008

le tendenzeEstate under 18

SARÀ un’estate-avventura, adrenalini-ca e no-limits: si potrà discendere lungoun fiume con la canoa, camminare suglialberi con un’imbragatura, costruirezattere e mongolfiere, fare bird watchinge orienteering, tirare con l’arco, passeg-giare su traballanti ponti tibetani o af-frontare con un kajak le onde. Sarà unavacanza didattica ma frenetica dove ra-gazzi dai sei ai diciassette anni potrannodiventare tanti piccoli Indiana Jones: acontatto con la natura studieranno le fa-si solari e il movimento degli aquiloni,

«Negli ultimi cinque anni il mercato ècresciuto moltissimo, prima si facevapiù fatica a vendere questo prodotto allefamiglie, prevaleva la mamma iperpro-tettiva», spiega Giovanna Mattiolo, am-ministratore della “Tourist trend”, touroperator che ha partecipato all’organiz-zazione di Children’s tour, fiera del turi-smo per ragazzi che si è tenuta recente-mente a Modena. Il dato di partenza èche sono più di sei milioni i ragazzi dai seiai diciassette anni, oltre il sessanta percento ha fatto una vacanza nel 2007 e traquesti sono sempre di più quelli che par-tono anche da soli.

MARINA CAVALLIERI

PiccoliIndiana

Jones

VELA

Corsi per principianti

e di perfezionamento

per ragazzi dagli 8 ai 18 anni,

dalla Sardegna al lago

di Como, dalle Eolie all’Elba,

per imparare ad andare

in barca da “lupi di mare”

www.Orzaminore.itwww.Katabasis.itwww.sailcompany.itwww.Marvelia.it

EQUITAZIONE

Lezioni di maneggio e turismo

equestre, aspetti tecnici

e divertimento per ragazzi

che scelgono una vacanza

con i cavalli in Italia

e all’estero. Per bambini

dai 6 ai 18 anni

www.vacanzequestri.comwww.terresienabambini.itwww.mulinomattie.itwww.quartospazio.com

SCIENZA

Per i ragazzi più impegnati

ci sono le vacanze

scientifiche e didattiche

a tema, laboratori artigianali

e attività naturalistiche

Iscrizioni ai corsi

dagli 8 ai 16 anni

www.asso.objectif-sciences.comwww.bimbibo.itwww.zainettoviaggi.it

FOOD

Vacanze in fattoria

per i bambini: s’impara

a conoscere l’origine

dei prodotti alimentari

e la vita degli animali

Si può imparare a fare

il pane, si fa scuola di cucina

www.fattoriedidattiche.itwww.rodariparcofantasia.itwww.aquilone.it

La scuola non c’è piùcomincia l’avventurascopriranno i rifugi degli scoiattoli o del-la foca monaca, poi, nei momenti di re-lax, potranno scegliere se abbandonarsial ritmo di High school musicoppure fer-marsi ad ascoltare il silenzio, sempreaiutati da guide professionali ed espertianimatori.

Nei migliaia di centri estivi sparsi perl’Italia si preparano le vacanze under di-ciotto: un esercito di organizzatori, touroperator, parrocchie, associazioni am-bientaliste e sportive perfezionano i lorodepliant per offrire a bambini e adole-scenti stanchi e annoiati dalla vita incittà, qualcosa di indimenticabile, senon un’estate intera almeno una setti-mana da leoni. Perché, se un tempo c’e-rano le colonie e i soggiorni al mare, oggici sono i campus a tema; se una volta c’e-rano le vacanze-studio, ora ci sono le set-timane estreme.

«Negli ultimi anni sono cresciute mol-te realtà distanti dal vecchio modellodelle colonie, che erano organizzate daenti statali e dopolavori; oggi tutto è le-gato all’iniziativa privata e prevale il sog-giorno tematico dove il bambino speri-menta un’avventura e si cala nella parte.Piace molto la vacanza a contatto con lanatura con situazioni che imitano le im-prese del supereroe degli schermi India-na Jones, vanno bene anche i soggiornicentrati su uno sport, le vacanze-studiopiacciono più ai genitori e meno ai ra-gazzi. Poi c’è il versante delle fattorie di-dattiche e degli agriturismi, dove i bam-bini stanno a contatto con gli animali eapprendono attività legate all’agricoltu-ra e alla gastronomia, non è difficile ve-dere in questi casi bambini con il matta-rello che imparano a fare il pane e la pia-dina. I bambini si fanno molto influen-

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45DOMENICA 8GIUGNO 2008

Tirare con l’arco, correre lungo un ponte tibetano, discenderele rapide in canoa: le vacanze dei ragazzi, tra stage nei boschie corsi “da giovani marmotte”, si trasformano quest’annoin prove di coraggio. Ma le alternative sono tante e per tuttele età: dal corso di vela a quello di cucina, dallo studiodelle lingue al campus di tennis. Ecco la mappa del divertimento

zare dai film, dopo Ratatouille, cucinareè diventata una moda».

Nell’estate 2008, insomma, stravinco-no le vacanze-contrappasso: bambinisedentari, teledipendenti, iperaccesso-riati, sorvegliati ovunque, poco autono-mi, vengono catapultati in esperienze acontatto con la natura, a volte in simula-zioni di avventure estreme. Perché ac-canto ai campus estivi creati già negli an-ni Settanta da Wwf e Legambiente, im-prontati al modello educativo ed ecolo-gico, sono nate altre realtà dove si privi-legia si il contatto con la natura ma in ver-sione più cinematografica e surviving.«Parco Cerwood è un nuovo modello dicampo estivo, è stato il primo in Italia, ènato in Emilia Romagna nel 2003, ora cene sono dodici solo in questa regione enon ce n’è uno uguale all’altro», raccon-ta Loredana Notari. «Qui si può venireper un solo giorno oppure per una o piùsettimane, sistemandosi in alberghi ocampeggi. I ragazzi da noi praticano lacamminata tra gli alberi con una imbra-gatura, fanno tarzaning oppure si ci-mentano nell’arrampicata sportiva supietra di Bismantova o nel tiro con l’arco.Abbiamo ponti oscillanti e tibetani pergiochi di equilibrio e di forza. Sono cam-pi un po’ sul modello francese, ce ne so-no molti in Corsica e in Costa Azzurra mada noi c’è più sorveglianza».

È più slow invece la vacanza in fattoria,ma non per questo meno intensa. La ten-denza è sempre imparare, socializzare,fare movimento e soprattutto praticareattività a volte persino drasticamentevietate dai genitori durante l’anno. «Nel-le fattorie didattiche si fa turismo attivo,i nostri operatori sono agricoltori chehanno fatto interventi formativi, corsi dicentoventi ore dove si affrontano daiproblemi della sicurezza alle dinamichedi gruppo», spiega Marco Boschetti, di-rettore del Consorzio agrituristico man-tovano. «Da noi vengono ragazzini dagliundici ai sedici anni, si privilegiano le at-tività manuali, la raccolta della frutta masi impara anche a fare il pane». Dopo losmog dell’inverno ecco la vita in campa-

gna, finiti i pomeriggi passati con patati-ne e snack è il momento dell’educazionealimentare. Un modello a cui a volte siassocia anche la pratica della lingua in-glese in un crescendo ansioso e accatti-vante di offerte tra il ludico e il formativo.È quello che avviene in un rustico casaleumbro, sede de “L’Aquilone”. «Siamo at-tivi da più di trent’anni, da noi è come sei bambini fossero a casa dei nonni o de-gli zii. Facciamo molte attività tra cui tea-tro e archeologia, ospitiamo anche ra-gazzi dall’estero, figli di italiani». Sog-giorni ecologici, multidisciplinari, sem-pre molto politicamente corretti per ge-nitori e figli forse un po’ snob. Ma nel su-permarket delle nuove vacanze ci sonoanche le attività sportive, dove è il calcioa fare da padrone indiscusso. «Gli Intercampus sono nati nel 1994, la nostrascelta è di organizzarli direttamente maci sono, per esempio, i campus del Milanche sono una rete in franchising», spiegaLillo Dragone. «Quasi tutte le società diserie A, B, C1 e C2 organizzano campiestivi, per le società è una forma di auto-finanziamento, si può calcolare che so-no circa centomila i ragazzi che passanoalmeno una settimana in questo tipo dicampus. E ci sono squadre riservate an-che alle ragazzine».

Non c’è che da scegliere e per chi nonpuò o non vuole muoversi dalla città cisono i city-camp, in un susseguirsi senzatregua di impegni, sport, attività, sono levacanze riparatorie che colmano vuotifamiliari e stress scolastici, pomeriggiestivi distanti anni luce da quelli cantatida Celentano, troppo azzurri e troppolunghi. «Io credo che queste possibilitàche si offrono ai ragazzi possono essereuna buona opportunità per acquisireautonomia, soprattutto perché ce ne so-no poche di tali iniziative negli spazi for-mativi», riflette Clara Tornar, docente dipedagogia sperimentale. «Però que-st’ansia di riempire i tempi vuoti rischiadi diventare un’ulteriore occasione distress, se si concentra in una settimanaquello che si dovrebbe sperimentare nelcorso di un anno».

LINGUE

Vacanze di studio all’estero

con corsi di lingue

dall’inglese al francese,

dallo spagnolo e tedesco

al cinese, in college o magari

in famiglia. Dedicato

ai ragazzi dai 6 ai 19 anni

www.cts.itwww.ef-italia.itwww.englishinitaly.itwww.primaveraviaggi.it

TREKKING

Vacanze a metà tra sport

e ambientalismo

con tecniche di orientamento,

cartografia, insegnamento

della bussola ed escursioni

in montagna

in sentieri segnati

www.lamontagna.itwww.zainettoviaggi.itwww.ermesambiente.itwww.esperienzatrentino.it

CALCIO

Milan, Juventus, Inter:

le società organizzano

campi vacanza per ragazzi

che amano il calcio, sotto

la guida di allenatori esperti

Anche all’estero

Dagli 8 ai 16 anni

www.juniorcamp.itwww.juventussoccerschool.comwww.intercampus.inter.it

CANOA

Corsi di canoa, discese

in rafting, giochi sull’acqua,

escursioni, lezioni

nei campi-vacanze

organizzati dalla Sicilia

all’Umbria al Parco

del Ticino

www.rafting-canoa.itwww.raftingcenter.itwww.atleticom.it

TENNIS

Si può imparare a giocare

a tennis o migliorare

il proprio stile

nei diversi centri estivi

della Federazione tennis

Iscrizioni per ragazzi

dai 6 ai 16 anni

www.Federtennis.itwww.vacanzetennis.itwww.momentidisport.org

NATURA

Educazione ambientale,

turismo responsabile,

giochi ed escursioni sono

le proposte dei campi

organizzati dalle associazioni

ambientaliste

Dai 6 ai 17 anni. In tutta Italia

www.wwf.itwww.legambiente.itwww.campiavventura.itwww.aquilone.it

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Repubblica Nazionale

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46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 8GIUGNO 2008

‘‘

‘‘l’incontroSul podio

chiatta di un naufrago e immersa in ungiardino rigoglioso, curato personal-mente e con passione dal Maestro (manon chiamatelo così, non lo sopporta: datutti si fa chiamare semplicemente«Claudio»). Racconta che le piante glifanno bene, come il mare: «Quando so-no in Sardegna vivo nell’acqua e nel ver-de».

Ora invece siamo nel cuore di unacittà, Bologna. Qui la sua casa è anch’es-sa leggerissima, affacciata sui tetti rossidel centro storico, con un’altana chesvetta torreggiante e suscita vertiginosefantasie sul volo. «Quand’ero ragazzosognavo spesso di volare. Voli alti, stu-pendi. Era il mio sogno ricorrente. L’horealizzato da adulto grazie alla musica.Con i musicisti delle orchestre che dirigo— e con molti di loro lavoro da tanti anni— mi succede spesso di volare. Ancheper questo ho lavorato tanto di frequen-te con i giovani, che sanno fidarsi, lan-ciarsi, volare con me». Abbado è un for-giatore di orchestre, con esiti smaglian-ti: a fine anni Settanta fondò la EuropeanCommmunity Youth Orchestra, a metàanni Ottanta creò la Gustav Mahler Ju-gendorchester, da cui costituì la MahlerChamber Orchestra. Nel 2003 plasmò laLucerne Festival Orchestra, «che dirigoin agosto a Lucerna e con cui in ottobreandrò a Vienna. E sempre con l’orche-stra di Lucerna l’anno venturo sarò a Pe-chino, dove mi ospiteranno in una casadentro un parco a qualche chilometro asud della città, con l’aria ottima, e cono-scerò attori cinesi come Gong Li, la ma-gnifica protagonista di Lanterne rosse».

Quello di Lucerna è un complesso “allstar”, con musicisti della Mahler Cham-ber Orchestra uniti a prime parti dei Ber-liner e dei Wiener Philharmoniker e adaltri splendidi solisti. Sembra che attor-no al carismatico «Claudio» si muova e sicondensi a più riprese un’unica, can-giante orchestra, fatta di prodigiosi e do-tatissimi amici che gli viaggiano accantoriplasmandosi di continuo in varie for-mazioni. In più il glorioso direttore hauno spettacolare fiuto da talent-scout. Èstato il primo, tanto per dirne una, a se-gnalare come futuri astri del podio,quand’erano poco più che ragazzini,l’inglese Daniel Harding e il venezuela-no Gustavo Dudamel: «Eppure non liavevo mai sentiti dirigere. Ho capito laloro intelligenza parlando con loro. Hosentito due forti personalità, ho compre-so che avevano davvero qualcosa da di-re».

Nel 2004, a Bologna, è nata una sua en-nesima creatura, l’Orchestra Mozart:quarantacinque elementi, con giovaniprofessionisti a fianco di solisti afferma-ti. Strumentisti di fama come GiulianoCarmignola, Danusha Waskiewicz, En-rico Bronzi, Mario Brunello, Alessio Alle-grini, Daniel Gaede, Rapahel Christ,Guilhaume Santana, Lucas Macias Na-varro, Alois Posch, Alessandro Carbona-re e Lorenza Borrani, per citarne solo al-cuni. Vive con loro «il piacere di suonareinsieme» nello spirito del gruppo da ca-

un forte influsso su Bach e Mozart. Mor-to a ventisei anni, in un quinquennio ap-pena è riuscito a scrivere capolavori stu-pefacenti per preveggenza, proiettati unsecolo avanti dal punto di vista armoni-co e musicale. Era un geniale visionarioche colse tracce da Gesualdo da Venosa,col quale condivide la capacità di crearemusiche eccezionalmente innovativeper modulazioni, accordi e cromatismi,legate a testi strazianti, che parlano didolore, passione e morte».

Il 25 ottobre, ancora sul podio dellasua Mozart, unita alla Cherubini “pre-stata” da Riccardo Muti e all’OrchestraGiovanile Italiana fondata da Piero Fa-rulli, Abbado dirigerà un mega-concer-to che farà scalpore: «Su un enorme pal-coscenico allestito al PalaDozza di Bolo-gna, per cinquemila spettatori, esegui-remo il Te Deum di Berlioz con le tre or-chestre, due cori e un coro di voci bian-che formato da seicento bambini. Fuproprio Berlioz a richiedere quest’orga-nico sterminato». In scena ci sarà pure ilsuo amico Roberto Benigni, esilaranteattore per Pierino e il Lupo di Prokofiev,presentato nella prima parte della sera-ta: «Con lui stiamo immaginando futuriconcerti-spettacolo dedicati a Dante eVerdi».

Abbado ha già diretto il Te Deuma finemaggio a Berlino per ventimila spettato-ri, su un impressionante palcoscenicoall’aperto: «C’era anche Maurizio Polliniper il Quarto concerto di Beethoven. Inrealtà si doveva suonare alla Philharmo-nie, ma un incendio ha bruciato il tetto.Abbiamo deciso di spostarci allaWaldbühne, che ha tredicimila posti inpiù della Philharmonie, e i tredicimila bi-glietti messi inaspettatamente in vendi-ta sono andati esauriti in un paio di gior-ni. In passato avevo già diretto in quelparco, l’atmosfera è bellissima: la gentearriva presto, prende il sole, poi mangia,beve e ascolta il concerto. E per me lavo-rare coi Berliner è come ritrovare tantivecchi e cari amici».

Sono stati i Berliner, probabilmente,la sua orchestra «d’elezione». Per dodicianni, fino al 2002, con entusiasmo edenergia, Abbado, giunto in Germania giàcarico di allori, avendo alle spalle espe-rienze di direttore musicale alla Scala ealla Staatsoper di Vienna, si tuffò animae corpo nello spirito della cultura berli-nese e nel rimodellamento della fisiono-mia dell’orchestra guidata a lungo da Ka-rajan: «Berlino è una città civile, ricca diverde e acqua: laghi, fiumi, canali. Ognivolta che vi torno, atterrando con l’ae-reo, ho la sensazione di scendere in unbosco immenso. La gente vive nel verde,e il verde si riflette nella loro vita. Piena dicultura e musei, è una città che conta suun pubblico musicalmente preparato.Vi ho potuto realizzare stagioni a tema eprogrammi interdisciplinari, basati sul-l’intreccio tra musica, teatro, cinema,letteratura e arti visive. E l’orchestra deiBerliner ha ampliato il suo repertorio e siè rinnovata, diventando una delle for-mazioni più giovani del mondo».

mera, dove gli elementi si alternano indiverse combinazioni, dal trio all’ottettoe all’ensemble mozartiano. E questomese l’Orchestra Mozart compie il suosfolgorante debutto discografico condue cofanetti di cd siglati DeutscheGrammophon: il primo raccoglie cin-que sinfonie mozartiane — 29, 33, 35Haffner, 38 Praga e 41 Jupiter— registra-te live in concerti a Bologna, Modena,Ferrara e Bolzano; il secondo offre l’inte-grale dei Concerti per violino di Mozartcon Carmignola e la Sinfonia concertan-te per violino e viola K 364.

Nel frattempo Abbado qui a Bologna,al Teatro Manzoni, dirige l’orchestra inuna serie di concerti: domani sarà sul po-dio di un programma tutto votato all’a-matissimo Wolfgang Amadeus («non sifinisce mai di conoscerlo, è sempre at-tuale, infinito come Shakespeare»), e re-plicherà il concerto l’11 giugno a Bolza-no, nell’Auditorum Haydn; e sempre aBologna ha appena diretto una serata sulSettecento “sacro” di Giovanni BattistaPergolesi, musicista al centro di un suoprogetto pluriennale (2007-2010):«Compositore fondamentale, ha avuto

Quando, nel febbraio del ’98, Abbadoannuncia ai berlinesi di voler lasciare ilprestigioso incarico nel 2002, sembraaver messo a fuoco una sorta di una pre-monizione inconscia: da lì a qualche me-se scoprirà di avere un cancro allo sto-maco. «Pensavo che fosse arrivato il mo-mento. Considero tutto ciò che è venutodopo un regalo». Dice che è la musica adaverlo guarito. E dopo l’operazione s’èavventurato in questo luminoso nuovocorso, come nel segno di una riconqui-stata giovinezza. È immerso nella musi-ca e nell’ambiente con radicale amore econvinzione. Musica e natura possonosalvare il mondo: come due facce di unamedesima bellezza. «Forse la mia storiaè cambiata anche con le piante. Nove et-tari di costa, di fronte a casa mia in Sar-degna, adesso sono un parco naturale. Viho piantato novemila piante, che oggisono diventate molte, ma molte di più».

Abbado non è un pessimista. Preferi-sce concentrarsi sugli aspetti positivi,sugli animi costruttivi, sulle «iniziativeesemplari di certe piccole città comeArezzo, dove s’è cominciato a utilizzare isistemi energetici alternativi al petrolio,dal solare all’idrogeno». E nell’odiernoclima italico tanto penalizzante per gliimmigrati, il cosmopolita Abbado, natoe cresciuto a Milano e lanciatissimo nelmondo, si definisce un immigrato an-ch’egli, con fierezza: «Mia madre era pa-lermitana, mio padre era un piemontesedi origine araba. Il mio cognome provie-ne da Mohamed Abbad, principe di Sivi-glia nel 1040. Nel giardino dell’Alcazarc’è una colonna bianca dov’è impresso ilnome. Quando ci sono andato per la pri-ma volta mi sembrava d’esserci già stato,riconoscevo i luoghi, mi ci ritrovavo co-me se ci fossi nato». Crede nell’incono-scibile? «Credo che siano tante le coseche non si possono spiegare. Non credonella reincarnazione ma in questa vita,adesso. Credo che la morte faccia partedella vita. Le abbiamo dato quel nome:morte, ma lei è vita, solo un aspetto dellanostra esistenza».

La musica insegnaad ascoltareSe si ascolta, s’imparae così dovrebbe esserein ogni campoSe i politiciconoscesserola musica, tuttofunzionerebbe meglio

Claudio Magris lo ha definitoun uomo di “leggerezza mozartiana” E in lui c’è infatti quiete filosofica,vocazione all’ironia, una levitànon priva di zone d’ombra

Alla vigiliadel settantacinquesimocompleanno e di un’estatetraboccante d’impegniil grande direttoree creatore di orchestreparla dei suoi progettie del male che ha

combattuto e vinto:“Pensavofosse arrivato il momento. Considerotutto ciò che è venuto dopo un regalo”

LEONETTA BENTIVOGLIO

Claudio Abbado

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BOLOGNA

Qualche anno fa Claudio Ma-gris, a proposito dell’amicoClaudio Abbado, scrisse cheera un uomo di «leggerezza

mozartiana». In effetti Abbado appareleggerissimo: nel fisico sottile, nella vocediscreta, nel movimento delle mani. Ma-ni sensibili, abituate a condurre, vibrare,disegnare il tempo, riempire di immagi-ni la trasparenza dello spazio. Ma in que-sto musicista straordinario c’è dell’altro:negli anni ha conquistato una qualitàimpalpabile di leggerezza interna, fattadi quiete filosofica, vocazione all’ironia,rapporto distaccato e sorridente col suc-cesso. Riflessi di una levità, come s’è det-to, «mozartiana». Che dunque ha zoned’ombra, chiaroscuri. E che è volatile,mai afferrabile del tutto.

Questo signore calmo e lieve, molto ri-servato, che parla poco e ascolta molto(«è la musica che insegna ad ascoltare, sesi ascolta s’impara, e così dovrebbe esse-re in ogni campo: se i politici conosces-sero la musica tutto funzionerebbe me-glio»), non è solo un eccelso direttored’orchestra. È un mito musicale del no-stro tempo. Però non reca segni di ne-vrosi da star-system. Magicamente ri-lassato, ha una freschezza fluida, giova-nile. Eppure il 26 di questo mese compiesettantacinque anni. Dice serafico: «Lecifre non contano, i numeri non mi han-no mai fatto impressione». E spiega chenon è prevista alcuna festa per il com-pleanno: niente smancerie, in puro stileabbadiano. Quel giorno progetta di pas-sarlo in barca, come gli piace tanto, cir-condato da figli e nipoti, per scivolarecon la consueta leggerezza nel vento esul mare della Sardegna, dove negli ulti-mi anni trascorre il tempo che dedica alriposo, allo studio e alla lettura («in que-sto periodo sono preso dai romanzi diHrabal»). Vicino ad Alghero ha una casaspartana e bellissima, isolata come la

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