Laomenica - la Repubblica
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DOMENICA 2GENNAIO 2011/Numero 307
DomenicaLa
di Repubblica
le tendenze
Asia style, l’Oriente mai tanto vicinoLAURA ASNAGHI
l’incontro
Edgar Morin: “E io dico viva la crisi”ANAIS GINORI
cultura
Il sacro e il bello dentro una cometaBARBARA FRALE e AMBRA SOMASCHINI
l’immagine
Sorpresa, un’altra Palermo è possibileGIORGIO VASTA
PIERGIORGIO ODIFREDDI
Ogni nuovo anno porta con sé innumerevoli anni-versari. Uno dei più significativi del 2011 è sicu-ramente il centenario del modello atomico, cheha cambiato la nostra percezione del mondo edè entrato a far parte del nostro immaginario. Lodimostra il fatto che ancor oggi, dai libri di testo
per le scuole ai logo delle organizzazioni nazionali o interna-zionali, l’atomo si rappresenta come lo pensò per la prima vol-ta Ernest Rutherford nel 1911: cioè, come un sistema solare inminiatura, con un nucleo di protoni e neutroni al posto del So-le, e un sistema di elettroni in orbita attorno ad esso al posto deipianeti.
Naturalmente, non è stato Rutherford a inventare l’atomi-smo. Anzi, non sono stati neppure gli scienziati moderni. L’idearisale agli antichi greci in generale, e Leucippo e Democrito inparticolare. E già un secolo prima della nostra era il poeta latinoLucrezio l’aveva divulgata nel De rerum natura: un meraviglio-so poema materialista e razionalista, che farebbe tanto beneagli studenti, se fosse insegnato al posto delle troppe opere idea-liste e irrazionaliste.
(segue nelle pagine successive)
MICHELANGELO MANGANO
Ovunque, e praticamente da sempre. Non c’è an-golo dell’universo in cui la materia non sia fattadegli atomi che conosciamo. Un secondo dopo ilBig Bang si sono formati neutroni e protoni; dopotre minuti questi si sono aggregati in nuclei legge-ri (per esempio idrogeno ed elio), che sono diven-
tati atomi circa trecentomila anni dopo. Gli atomi più pesanti, co-me carbonio, ossigeno, ferro, hanno iniziato a formarsi dopo cir-ca un miliardo di anni, all’interno delle prime stelle.
Alla fine degli anni Sessanta, con esperimenti simili a quelli diRutherford, abbiamo “osservato” che protoni e neutroni sono aloro volta composti da altre particelle, i quark. Ai laboratori del-l’acceleratore lineare di Stanford, elettroni di alta energia venne-ro scagliati contro un bersaglio di protoni. Studiando come glielettroni rimbalzavano sul protone, si svelò l’esistenza di qual-cosa di ancora più piccolo al suo interno, che si comportava co-me una particella puntiforme. Era stata dimostrata sperimental-mente l’esistenza dei quark. La scoperta non arrivò di sorpresa.Prima ancora di essere osservati, i quark erano stati introdotti co-me ausili matematici.
(segue nelle pagine successive)
i sapori
In cucina è ora di andare a tutto vaporeLICIA GRANELLO e MASSIMO MONTANARI
spettacoli
Boombox, perché la musica è da stradaANGELO AQUARO e SPIKE LEE
Siamo elettronisospesi intornoa un nucleoCompieun secoloil modelloteoricoche ha cambiatoil nostro mondo
L’Annodell’Atomo
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Repubblica Nazionale
32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 2GENNAIO 2011
BOMBA ATOMICALa sua energia è prodottadalla fissione nucleare: ovverodalla divisione, spontaneao indotta, del nucleo dell’atomo
ENERGIA NUCLEARECon la fissione nuclearecontrollata (rottura dell’atomo)si sviluppa calore che vienetrasformato in energia
IL “PANETTONE” DI THOMSONNel 1897 J.J. Thomson scoprel’elettrone: l’atomo è come un panettone, gli elettronisono al suo interno come l’uvetta
DEMOCRITO E L’INDIVISIBILEA cavallo del 400 a.C. Democritoteorizza l’esistenza dell’atomo,elemento «indivisibile»e sempre uguale a se stesso
Nel 1911 Ernest Rutherford confermava ciò che i filosofiantichi avevano sempre sospettato: l’esistenza di particelleinfinitamente piccole alla base della materia. Il suo modelloplanetario di neutroni, protoni ed elettroni e le sue applicazionicambiarono la storia. Ecco, a un secolo da quella scoperta,quanta strada abbiamo fatto e quanta ancora ce ne resta
(segue dalla copertina)
ra le molte cose utili e belle che Lucrezio dissemina nei suoi versi, ci sono an-che gli argomenti a favore dell’esistenza degli atomi. In particolare, quelloche sarà poi ripreso da Kant nella seconda antinomia della Critica della ra-gion pura: «Se non ci fossero gli atomi, ogni corpo consisterebbe di parti in-finite, e allora quale sarebbe la differenza fra l’universo e la più piccola dellecose?» Soprattutto, Lucrezio suggerisce che le cose possono essere costitui-te da atomi invisibili alla vista, attraverso una serie di convincenti analogie.Il pulviscolo atmosferico, reso visibile da un raggio di Sole che penetra in unastanza, e la cui danza offre un modello dell’eterno tumulto degli atomi nelgrande vuoto. Oppure, le pecore che si aggirano saltellando sui prati, e i sol-dati delle legioni che avanzano nei campi, i cui movimenti individuali ap-paiono indistinti a un osservatore lontano. E infine le parole, che pur essen-do tutte costituite delle stesse poche lettere dell’alfabeto, «denotano il cielo,il mare, la terra, i fiumi, il sole, le messi, gli alberi e gli esseri viventi».
Nonostante la divulgazione di Lucrezio, i brillanti argomenti degli atomi-sti non convinsero gli antichi, così come non li avevano convinti gli altret-tanto brillanti argomenti degli eliocentristi. Il risultato fu che entrambe que-ste verità rimasero ibernate per due millenni, fino a quando vennero scon-gelate dagli scienziati moderni: Galileo, in particolare, che pagò cara la suaaudacia in entrambi in campi. Per sdoganare scientificamente la teoria ato-mica della materia si dovettero aspettare le ricerche chimiche intraprese agliinizi dell’Ottocento da John Dalton. Ma ancora agli inizi del Novecento, no-nostante la sistematizzazione effettuata nel 1869 da Dmitrij Mendeleev conla sua tavola degli elementi, rimanevano degli scettici. Primo fra tuttiWilhelm Ostwald, premio Nobel per la chimica nel 1909, che riteneva l’ato-mismo solo un’utile finzione. La prova definitiva dell’esistenza degli atomivenne da un lavoro del 1905 di Albert Einstein. Non quello più famoso sullarelatività speciale, ma uno precedente «sul moto di piccole particelle in so-spensione nei liquidi a riposo», scoperto nel 1823 da Robert Brown e osser-vabile al microscopio.
La prima impressione è che si tratti di una qualche forma di vita, ma Ein-stein dimostrò che il movimento è in realtà prodotto dalla vibrazione dellemolecole atomiche che compongono il liquido. Secondo un’immagine diRichard Feynman, che possedeva un po’ del talento lieve di Lucrezio, è co-me se noi osservassimo da molto lontano delle enormi palle in uno stadio (le
particelle in sospensione), urtate da una folladi persone che va e viene (le molecole del liqui-do), ma che non riusciamo a distinguere per ladistanza. Vedremmo allora soltanto le pallemuoversi, con un incessante movimento irrego-lare (il moto browniano).
Ovviamente, il problema fondamentale dell’ato-mismo riguarda la struttura stessa degli atomi. Lucre-zio li immaginava provvisti di uncini. Nel 1696 NiklaasHartsoecker sostituì agli uncini degli aculei. Nel 1808 Dal-ton passò alle palle da biliardo. Ma le cose si complicarononel 1897, quando Joseph Thomson scoprì che gli atomi nonerano affatto indivisibili e risultavano invece composti di par-ticelle positive pesanti (protoni) e particelle negative leggere(elettroni). La scoperta gli fruttò il premio Nobel per la fisicanel 1906, e gli ispirò un modello in cui gli elettroni erano con-ficcati nella pallina del nucleo come le uvette nel panettone.Alla fine di questa lunga storia arrivò finalmente Rutherford,che nel 1908 scoprì che se si sparavano delle particelle alfaleggere contro una sottilissima lamina di un materiale pesan-te come l’oro, la maggior parte di esse l’attraversava senza de-viare la propria traiettoria: dunque, la materia doveva essere inmassima parte vuota. Ma a volte alcune di quelle particelle rimbal-zavano indietro, come se avessero incontrato un ostacolo: dunque, la mate-ria doveva essere in massima parte concentrata in un nucleo pesante.
La scoperta valse a Rutherford il premio Nobel per la chimica quello stes-so anno. Poi, nel 1911, propose finalmente il modello planetario che, a onordel vero, oggi è doppiamente sorpassato. Anzitutto perché, come scoprì ilsuo studente Niels Bohr nel 1913, non è stabile: per renderlo tale, bisognasupporre che gli elettroni non possano stare a qualunque distanza dal nu-cleo, come i pianeti col Sole, ma solo a particolari distanze fisse. E poi, per-ché gli elettroni non sono in realtà palline, ma nubi: dunque, risultano più si-mili a fasce di asteroidi che a pianeti. Ma tant’è, il modello è troppo bello peressere abbandonato, e noi continuiamo a mostrarlo e amarlo. Così come fac-ciamo con le foto che ci ricordano i bei tempi andati, quando ci sentivamotanto più giovani e belli, benché fossimo solo molto più semplici e ingenui.
TPIERGIORGIO ODIFREDDI
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ATOMOLA PREVALENZADEL VUOTOIl diametro
di un atomo è diecimila
volte quello del nucleo:
se il nucleo fosse
un millimetro l’atomo
sarebbe dieci metri
IL NUCLEO“PESANTE”Nel nucleo
si concentra
il 99,95 per cento
della massa
di un atomo
L’ENERGIADEL BIG BANGPer 10 milionesimi
di secondo calore
e densità sono troppo
alti: i quark sono liberi,
non racchiusi
in protoni
e neutroni
la copertinaLE APPLICAZIONI
LE TAPPE
Repubblica Nazionale
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 2GENNAIO 2011
L’ESPERIMENTORutherford sparaparticelle alfa controun foglio d’oroSolo una su ottomilarimbalza: la maggiorparte dello spaziofra i nuclei è vuoto
Fonte
particelle alfa
metri
10-14
metri
10-10
metri
10 12
metri
10 21
Raggio
particella alfa
Schermo
fluorescente
Lamina
d’oro
Nuclei
Particelle
alfa
Atomi
di lamina d’oro
NANOTECNOLOGIESono tecniche che manipolanola materia a livello atomicoallo scopo di ottenere nuovesostanze utili anche in medicina
RISONANZA MAGNETICAÈ la tecnica di indagine sullamateria usata in campo mediconella diagnosi delle malattie(cervello, addome, ossa, cuore)
GRAFENEFormato da uno strato di atomidi carbone può essere utilizzatoal posto del silicio per schermiultrasottili (pc e pannelli solari)
IL MODELLO DI RUTHERFORDL’esperimento di Rutherforddimostra che quasi tutta la massa dell’atomoè concentrata nel suo nucleo
LE INTUIZIONI DI EINSTEINEinstein inizia a elaborare la teoria della relatività nel 1905,prima ancora che fosse scopertala struttura dell’atomo
BOHR E LA FISICA QUANTISTICANel 1913 Bohr scopre che gli elettroni possono seguire solodeterminate orbite: è la nascitadella meccanica quantistica
L’ultimomistero
MICHELANGELO MANGANO
(segue dalla copertina)
Servivano per descrivere leproprietà della moltitudi-ne di particelle che, a par-
tire dagli anni Cinquanta, ven-nero scoperte studiando i raggicosmici e facendo esperimenticon gli acceleratori. Le misure aStanford indicarono che tuttequeste particelle sono compo-ste da quark, aprendo la portaalla comprensione e semplifi-cazione dei fenomeni subnu-cleari.
Né la scoperta sconvolse leleggi della fisica note fino ad al-lora. Si scoprì che le leggi che go-vernano le interazioni fra quarksono concettualmente semplicie simili alle interazioni fra cari-che elettriche. Le forze fra quarksono mediate da altre particelleelementari, i gluoni, successiva-mente scoperti, così come leforze fra particelle cariche sonomediate dai fotoni. Se pensiamoalla chimica, anche le reazionipiù complesse sono riducibilialle semplici interazioni fra lecariche elettriche di protoni edelettroni che compongono ato-mi e molecole. Analogamente,le forze che legano protoni eneutroni all’interno del nucleosono il risultato delle interazio-ni fra i quark e i gluoni che licompongono.
Oggi abbiamo ragione di pen-sare che il fondo sia stato rag-giunto. Esistono modelli teoriciin cui anche i quark sono com-posti, ma al momento non han-no riscontro sperimentale: la ri-petizione dell’esperimento diRutherford, bersagliando iquark usando gli acceleratoripiù moderni come l’Lhc delCern di Ginevra, continua a in-dicare che sono puntiformi, eappaiono dunque come i costi-tuenti elementari del nucleoatomico.
Se con i quark abbiamo forsedefinitivamente risolto il miste-ro di come sia fatto l’atomo, unmistero che rimane aperto èquello della composizione dellamateria ed energia presenti nel-l’universo. La materia a noi no-ta, fatta di nuclei, elettroni e ato-mi, rappresenta infatti solo ilcinque per cento dell’energiacontenuta nel cosmo. L’inten-sità della forza gravitazionaleche lega ammassi di galassie ri-chiede l’esistenza di un addizio-nale venticinque per cento dicosiddetta materia oscura, lacui origine è tuttora ignota.L’accelerazione nell’espansio-ne dell’universo stesso, infine,richiede l’esistenza di un set-tanta per cento di pura energia,nota come energia oscura. Lascoperta della natura della ma-teria oscura potrebbe arrivareentro breve, grazie a esperimen-ti di ricerca diretta, osservazionidi raggi cosmici, e alle ricercheall’Lhc. Chiarire la natura dell’e-nergia oscura, invece, sarà pro-babilmente una delle grandi ecomplesse sfide scientifiche delVentunesimo secolo.
(L’autore è un fisico teoricodel Cern di Ginevra)
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LE SFEREAZZURREAl suo interno
protoni e neutroni
hanno tre quark
(nell’illustrazione
rappresentati
da tre sfere azzurre)
LA MATERIAE L’ENERGIAIl 5 per cento
del cosmo è fatto
di materia conosciuta
Il 25 è materia
oscura e il 70
energia oscura
IL PLASMAPRIMORDIALEAlcuni esperimenti
riproducono i primi
istanti del cosmo:
a duemila miliardi
di gradi gli atomi
non possono esistere
L’ESISTENZADEI QUARKFacendo correre
le particelle
negli acceleratori e poi
facendole scontrare,
negli anni ’60 si prova
l’esistenza dei quark
L’UNIONE FORTEFRA LE PARTICELLEI tre quark sono
tenuti insieme
dalla cosiddetta “forza
forte”: la stessa
che unisce protoni
e neutroni nel nucleo
OSSERVAREL’INVISIBILENon si possono
osservare i quark
direttamente
La forza è come
una molla: cresce se
i quark si allontanano
LE MISURELa scala
in metri:
da 10 alla -14
dell’atomo
fino a 10
alla 21
di una
galassia
I MATTONIDELLA MATERIAI quark sono di sei
tipi, ma i più diffusi
sono up e down
Con gli elettroni sono
i mattoni principali
della materia
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34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 2GENNAIO 2011
Dal cielo siamo abituati a vederla solo attraverso i filmatidella polizia in onda sui tg. A sorvolarla stavolta, in derogaalle normative antimafia, è invece l’occhio di un architetto
Che, come racconta uno scrittore qui nato e da qui fuggito,con le sue foto ci regala a sorpresa una metropoli sconosciuta
l’immagine
Un libro come Palermo dal cielo— un catalogo visivo co-struito attraverso dieci itinerari aerei che coprono l’interoterritorio cittadino — è un modo per arrestare il girovagarea vuoto nel labirinto, intravedere una direzione e far esiste-re un movimento vivo e fertile, qualcosa di simile all’anda-re, al venir fuori dal rancore.
Palermo, vista dal cielo, è un colpo di scena mite, la rive-lazione di un’armonia che diversamente, percorrendo lacittà immersi nelle sue strade, risulta impensabile. Infatti inuna prospettiva planimetrica, o meglio stereometrica, Pa-lermo appare tersa, persino logica, effetto di un pensieroche ha saputo saldare nel tempo la razionalità di un pro-getto — il cardo e il decumano che si intersecano nella sin-tesi curvilinea dei Quattro Canti, l’intelligenza formale del-la Fontana di piazza Pretoria, l’impianto a raggi concentri-ci, al contempo limpidissimo e misterioso, di Villa Giulia —a un territorio che tende di continuo a fare eccezione a ognicriterio organizzativo — le vie piccole e circonvolute diquell’arcaico cervello palermitano che è il mercato dellaVucciria (uno spazio eternamente crivellato, le macerie co-me locale monumento all’inerzia amministrativa e a unasostanziale indifferenza a una gestione del patrimonio ur-banistico), i resti del Castellammare (distrutto nel 1922, unaspecie di rimosso che nelle foto di Anfuso ritorna visibile),la struttura concentrazionaria dello Zen, l’espansione in-controllata di quelle che in Zero maggio a Palermo FulvioAbbate chiama le «zone nuove».
In una nota Giuseppe Anfuso chiarisce di non aver volu-to proporre immagini strumentali a un’esaltazione dellascenografia urbana, nessuna intenzione di teatralizzare lospazio; semmai — sulla scorta dei grandi cartografi del pas-sato che si affidavano al disegno e a un’incredibile capacitàdi astrazione — ha voluto fondare la sua ricognizione sul bi-sogno etico di leggere Palermo attraverso fotografie «piattee acritiche», sulla necessità di fabbricare uno sguardo cheriesca a farsi struggimento per sottrazione, tenendo il giu-dizio sotto controllo. Un sentimento, potremmo dire, chenasce da una programmatica desentimentalizzazione.
A uno sguardo a volo d’uccello (se non addirittura satel-litare, extraterrestre) Palermo è dunque una città normale,serena e struggente. Attraverso lo spazio Palermo dal cielosovverte la percezione del tempo, distanzia le immaginidella città riconoscendo in esse una strana composta clas-sicità, scioglie il rancore in tenerezza, inventa una nostalgia(non tanto del passato quanto del futuro).
In fondo al gruppo di ciechi che circondano l’elefante cen’è uno che senza potersene accorgere è rimasto qualchepasso indietro. All’ordine del re si sporge anche lui in avan-ti, allunga un braccio, apre la mano, brancola per un poco einfine stringe tra le dita un pugno d’aria: il suo elefante — laPalermo di Giuseppe Anfuso, il mio elefante — è un sentirela mancanza.
La storia è nota. Un giorno il re ordina al mini-stro di riunire in una piazza tutti coloro i qua-li, nel regno, sono ciechi dalla nascita. Il mini-stro esegue, il re raggiunge la piazza, coman-da che venga introdotto un elefante e invita iciechi ad avvicinarsi e toccare l’animale. A
quel punto chiede che cos’è un elefante. Il cieco che ha toc-cato le orecchie dice che un elefante è un ventaglio ruvido espesso, quello che ha toccato una zampa dice che un ele-fante è una colonna, chi ha toccato le zanne dice che è unalancia, il cieco che ha toccato la coda dice che è una cordi-cella.
Ovvero, ogni punto di vista ci consente una lettura dellecose e contemporaneamente, se non ci preoccupiamo diimmaginarne altre, a quella lettura ci inchioda.
Palermo dal cielo, il volume fotografico di Giuseppe An-fuso — “architetto volante” catanese da anni residente aRoma — è una straordinaria occasione per schiodarsi dallapercezione consueta di Palermo e reinventarne un’altra,tanto fisicamente inedita (la città «sorvolata» in uno spazioaereo «in deroga al vigente divieto», come specificato all’i-nizio del libro) quanto psicologicamente — e, direi, episte-mologicamente — in grado di spalancare una lettura dellacittà che costringe a una riconsiderazione complessiva. Pa-lermo dal cielo è dunque, di fatto, la scoperta di un’ulterio-re percezione dell’elefante (che, tra parentesi, è l’animalesimbolo di Catania).
Perché il valore di questo libro, la sua delicatissima po-tenza, sta proprio nel dimostrare che una città che ad altez-za occhi è — per me — luogo dell’inerzia e della rassegna-zione, una città vinta e abbandonata a se stessa (senza, fral’altro, nessuna particolare sofferenza, anzi con una speciedi torpido compiacimento), può diventare, modificatodrasticamente l’angolo visuale, qualcosa che a uno statod’animo cupo, censorio e mai minimamente indulgenteriesce a collegare un sentimento di tutt’altro segno, un’im-provvisa tenerezza per gli spazi e le morfologie cittadine,per la percezione molecolare delle cose, per quella speciedi gloria contorta che sta dentro la miseria.
È chiaro che quanto appena detto, come già evidenziato,corrisponde a una prospettiva del tutto personale. Alla miaspecifica percezione dell’elefante.
Palermo è la città nella quale ho vissuto per ventisei annie nella quale non vivo più da quattordici (anche se forse, inuna specie di filigrana, continuo a vivere a Palermo senzapiù abitarci). La mia esperienza della città — la città d’origi-nee dunque, a tutti gli effetti, l’origine— è contrastata e con-traddittoria. Nel corso degli anni il rancore primigenio si èradicalizzato diventando ideologia. Il problema è che il ran-core è uno spazio psicologico a forma di labirinto. È un va-gare ostile, un aggirarsi senza andare. E inoltre il rancore —che pure può essere un motore straordinario — è autotrofo,si nutre di sé, dunque è potenzialmente inesauribile.
GIORGIO VASTA
© RIPRODUZIONE RISERVATA
PORTA FELICEFu eretta nel 1582 in simmetria con Porta Nuova,
dalla parte opposta del rettifilo
TEATRO MASSIMOL’architettura tipicamente neoclassica del più grande
teatro d’Italia è ben visibile in questa immagine dall’alto
PALERMOLe ali
sulla città
Repubblica Nazionale
35 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 2GENNAIO 2011
CATTEDRALE Il grandioso complesso architettonico della Cattedrale
E a fianco, a sinistra, Villa Giulia: fu disegnata nel 1777
PIAZZA PRETORIAAl centro la Fontana e ai lati il Palazzo Pretorio, la Chiesa
di Santa Caterina, Palazzo Bonocore e Palazzo Bordonaro
PIAZZA VITTORIO VENETOAl termine di via Libertà, la grande piazza con il monumento
dedicato ai caduti della Prima guerra mondiale
SANTA MARIA DELLA PIETÀBarocca, si trova nel cuore del quartiere Kalsa, poco distante
dalla chiesa gemella di Santa Teresa
IL LIBRO
Le immagini di queste pagine
sono tratte dal volume
fotografico di Giuseppe
Anfuso, Palermo dal cielo
(Lussografica Editore,
100 euro) con prefazione
di Paolo Portoghesi
ALERMO
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36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 2GENNAIO 2011
Il linguaggio figurativo pagano ha sempre interpretato gli eventi astralicome un segno del soprannaturale. Per la dottrina cristiana questi divennero
poi il simbolo stesso con cui si raffigurava la natura divina di CristoOra un prezioso catalogo che si rifà a una Bibbia illustrata
del Cinquecento ci ricorda quanta bellezza possacontenere il grande disegno dell’Epifania
Il volto sacro delle stelleCOMETE
«Io lo vedo, ma non ora, io lo contemplo, ma non da vicino: una stella spunta daGiacobbe e uno scettro sorge da Israele». Così il profeta Balaam figlio di Beornel Libro dei Numeri (24, 17), risalente al secolo VI a. C., vedeva la rinascita delpopolo d’Israele annunciata da un evento astrale straordinario: l’emergere diuna stella speciale, vistosa, foriera insomma di buone novità. Secondo alcuneteorie astronomiche, verso l’anno 6 o 7 a. C. si sarebbe verificata una particola-
re congiuntura astrale che vide i due pianeti Giove e Saturno entrare nella costellazione dei Pe-sci: in tal modo, allineandosi, avrebbero causato un fenomeno particolarmente luminoso. Equesto fenomeno sarebbe in relazione con l’evento descritto nel vangelo di Matteo: alcuni mà-goi, che secondo lo storico greco Erodoto (VI secolo a. C.) erano sacerdoti del popolo dei Medidediti allo studio dei corpi celesti, notarono un astro particolarmente brillante che secondo laloro dottrina specifica poteva intendersi come legato alla nascita di un figlio di re.
La teoria sembra condivisa da Simo Parpola, docente di Assirologia all’università di Helsinki,il quale vede il viaggio dei Magi in accordo con certe fonti storiche e pone la prima manifesta-zione del fenomeno celeste agli inizi di ottobre, seguito, ai primi di dicembre, da un secondoevento astronomico. La stella osservata, secondo la sua ricostruzione, non era quindi una co-meta (e va detto che il testo greco del vangelo non parla di comete, cioè komètes, ma dice solo«un astro», ò astèr), bensì una sovrapposizione ottica dovuta all’allineamento dei due pianeti.
Che nella figura dei Re Magi cara alla tradizione si nascondessero personaggi storici reali sisospettava concretamente. Per esempio, si sa che nell’anno 614 i Persiani del re Cosroe II inva-sero la Palestina, ma non distrussero la basilica della Natività a Betlemme perché sulla facciatac’era un mosaico bizantino che raffigurava proprio l’adorazione dei Magi: in base agli orna-menti speciali dei loro abiti, i Persiani li riconobbero come nobili del loro popolo.
La cultura cristiana interpretò sin dall’inizio questi segni celesti come un annuncio messia-nico di enorme portata spirituale, e la più antica immagine di Maria di Nazareth che ci sia giun-ta, presente nelle catacombe di Priscilla a Roma e dipinta ad affresco poco dopo l’anno Due-cento, la raffigura proprio con il Bambino in braccio mentre davanti a lei il profeta Balaam alzail dito verso l’astro prodigioso. La stella vistosa e brillante, che secondo il testo apocrifo dettoProtovangelo di Giacomo era «tanto brillante da oscurare le altre stelle», divenne nell’icono-grafia cristiana il simbolo stesso con cui si raffigurava la natura divina di Cristo e il suo concepi-mento verginale, indicato da tre stelle rifulgenti sulla fronte e sulle spalle di Maria, a ricordare latriplice verginità prima, dopo e durante il parto.
Del resto l’immagine della stella come espressione del divino era comune anche nel lin-guaggio figurativo pagano, e diversi tipi di monete ellenistiche e romane di età imperiale mo-strano divinità in trono che sorreggono lo scettro, emblema del potere, mentre di lato la pre-senza di una stella assicura che la loro regalità non è terrena. Lo stesso imperatore Costantino,
CULTURA*
BARBARA FRALE
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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 2GENNAIO 2011
uomo romano per cultura, gusti e mentalità, secondo la tradizione lesse la sua futura vittoriaproprio in un fenomeno apparso in cielo: la scelta di aderire al cristianesimo, cui già apparte-neva la madre Elena, dipese dall’aver visto le iniziali del nome di Cristo (X e P, nella sua formagreca Christòs) disegnate fra le nubi in modo rifulgente. E consultati gli astrologi proprio comeavrebbe fatto qualunque imperatore pagano, si sentì dare dai sacerdoti cristiani quel responsopassato poi alla civiltà latina con la frase in hoc signo vinces, «in questo segno tu vincerai».
Benché con estrema cautela, anche la dottrina cristiana moderna accoglie l’ipotesi che un fe-nomeno osservato in cielo, quando scientificamente inspiegabile, possa rientrare nella cate-goria del miracolo. Si ammette che tutto ciò possa appartenere alla sfera del mistero, che la ra-zionalità umana deve accettare senza pretendere di scandirlo con la propria misura. Le mag-giori apparizioni della Madonna, ad esempio, sono collegate a fatti anomali osservati in cielo,come a Fatima, dove i testimoni videro il sole spostarsi e mutare vistosamente di colore. In se-guito, il 30 ottobre 1950, papa Pio XII, persona molto sensibile ai segni del soprannaturale, do-po aver visto un fenomeno simile di cui resta testimonianza nei suoi appunti privati credettefosse giusto proclamare il dogma dell’Assunta, sul quale stava ancora riflettendo. Sempre lostesso pontefice ordinò a suor Lucia di mettere per iscritto il Terzo segreto di Fatima, poi lo con-servò nel suo appartamento fino al giorno della morte.
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Miracolida collezione
AMBRA SOMASCHINI
Le cometescintillanti nel cielo nero e lapislazzuli, le lune cerchiate da quat-tro colori, le albe e i tramonti di un sole rosso fuoco, le scene del VecchioTestamento e quelle didascalie scritte a mano con l’inchiostro lucido dal-
la grafia ordinata, perfetta. Sono stati messi insieme in un libro tra il 1547 e il 1552,inseriti in una collezione privata all’inizio dell’Ottocento, recuperati in un pre-zioso catalogo e infine esposti in una galleria londinese. Wunderzeicheunbuch,The Book of Miracles, Il libro dei miracoli, nato ad Augusta, Baviera, su commis-sione privata, è stato riprodotto in un fac-simile daJames Faber e Richard Day, collezionisti d’arte nel-l’Old Bond Street londinese. Un editore inglese ri-pubblicherà il testo nel 2011 in versione patinata eextra large, ma per ora il titolo resta ancora segreto.Come pure è un mistero l’identità del collezionistaprivato di Manhattan che se lo è accaparrato.
Il libro contiene centotrentuno rappresentazio-ni di miracoli ed è diviso in tre parti: la prima con lescene della Bibbia; la seconda con i miracoli raffigurati tra il 63 a. C. e il 1552 e consessanta dipinti di eventi cosmici; la terza illustra il Libro della Rivelazione. Lastesura originale si è ispirata a un libro di Hans Holbein disegnato e scritto nel1520 e l’autenticità del testo è stata provata da due studiosi. «Sono sicuro che nonesistono altri esempi del genere», ha detto il professor Jean Michael Massing do-po aver esaminato The Book of Miracles. Stessa certezza ha avuto Peter Bowerdella British Association of Paper Historians che lo ha collocato a metà del Cin-quecento nell’area delle dell’arte fiamminga. Come era nato in quel periodo sto-rico l’interesse per i miracoli lo spiega Robin Barnes in Prophecy and Gnosis: Apo-calypticism in the Wake of the Lutheran Reformation (Stanford): «I luterani te-deschi si sentivano circondati da racconti di miracoli. E dal 1560 in poi l’atten-zione nei confronti di tutto quello che era inusuale, come i miracoli appunto, eradiventata una specie di ossessione».
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L’OPERAThe Book
of Miracles,
da cui sono tratte
le immagini
che illustrano
queste pagine,
è stato riprodotto
da James Faber
& Richard Day
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38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 2GENNAIO 2011
NEW YORK
Boom bàmba boom boom. Da dovecominciare se non da qui? Quel rit-mo incalzante ti entrava nelle orec-chie per non uscirne più. Pump up
the volume: alza il volume. I ragazzi con i radiolonierano ovunque. Da Brooklyn a San Babila. A Milanosulle scalinate dietro al McDonald’s — proprio lì incentro: altro che ghetto. I radioloni a palla che razzi-sticamente si chiamavano «da neri». Mica solo danoi. Anche qui a New York. Lo dice pure Spike Leeche non gli è mai piaciuta la definizione razzista dighetto blaster: le radio del ghetto che la sparavano atutto volume. Però Spike è politicamente corretto.Anche troppo. Per dire: lo storico della musica neraNelson George ricorda che la prima volta cheascoltò quella diavoleria chiamata rap si trovavasotto la sede dell’Amsterdam Newslassù ad Harlem:«Un ragazzino avanzò con il suo ghetto blaster colvolume alzato a dieci». Nel 1978 era «una tipicaesperienza urbana per quei tempi: le radiolone por-tacassette avevano portato devastazione nella sa-cralità degli spazi pubblici ormai da qualche anno».
Boom bàmba boom boom. Una giornalista dellaNpr l’altro giorno è andata in giro per WashingtonSquare trascinandosi dietro uno di questi vecchiboombox. Lì, proprio nel cuore del Village. Tra l’u-niversità e la Quarta Strada West dove Bob Dylan ab-bracciava Suze Rotolo sulla copertina di Freewhel-lin’: 1963. E che cosa hanno risposto quei signori chepure convivono da sempre con ogni tipo di bohè-me? Che cosa ricordano di quei mostri? «Il rumore!».
Sì, è passato quasi un quarto di secolo e solo LyleOwerko poteva provare a riscattare quest’obbro-brio dall’oblio. «Sono sempre stato affascinato dalsignificato delle cose piuttosto che dal sempliceaspetto». Ci mancherebbe. Come fai a chiamarlibelli questi colossi di transistor e di watt? The Boom-box Project è il libro in cui Lyle prova a ripercorre lastoria delle«macchine, lamusica e l’un-derground ur-bano». Ma oc-chio: Owerkonon è il fotografoglamour che t’a-spetti. Da NewYork ha giratomezzo mondoprima di rientra-re dal Sudafricaproprio la matti-na dell’11 set-tembre 2001. Percorrere sotto ca-sa e scattare lefoto delle Due Torri in fiamme finite sulla copertinadi Time. E quella dell’Uomo che cade che è diventa-to il titolo di un romanzo di Don DeLillo.
Ecco: DeLillo saprebbe cos’è il rumore. Il Rumo-re Biancodi un altro suo successo. Il rumore della so-litudine che la rockstar Bucky Wunderlick rinchiu-de nel suo amplificatore nel primo romanzo sullacrisi del rock: Great Jones Street. Il nome di una viaproprio dietro a Ground Zero. Del resto la storia deiboombox sarà mica solo storia della musica nera.«La prima volta che ho sentito Kashmirdei Led Zep-pelin» dice sempre Owerko «veniva dai radioloni».Kashmir??? Oddio: il gioco senza frontiere non si fer-ma più. Per esempio: solo uno scherzo poteva farnascere lo strumento che sarebbe stato il simbolodella rabbia nera nel diligentissimo Giappone. Èlaggiù che Sharp, Jvc, Aiwa, Sony si lanciano in quel-la corsa alla miniaturizzazione del suono che por-terà alla produzione di due apparecchi diametral-menti opposti. I radioloni appunto. E il walkman.
Se non li metti insieme non cogli le due facce del-la stessa medaglia. I radioloni e le cuffiette sono la di-sintegrazione del moloch della radio e dell’alta fe-deltà. Certo: per i giapponesi vale più l’esigenza difare spazio nelle loro case sempre più piccole. Maper il resto del mondo è una rivoluzione sociale. Lafine dell’ascolto di famiglia. Ricordate Walter Benja-min? Come cambia l’opera d’arte nell’epoca della
sua riproducibilità tecnica. Beh: lui pensava a fono-grafo e radio. E che rivoluzione fu la sala da concer-to che si godeva in salotto. Ma poi dal salotto la mu-sica finì sulle strade. Con i radioloni e il walkman.
Boom bàmba boom boom. Dalla libertà allo sfre-gio (dello spazio pubblico) il passo è breve: soprat-tutto se sei una montagna nera di muscoli e rabbiache non vuole abbassarsi al gusto degli altri. L’ave-va capito David Foster Wallace nel Rap spiegato aibianchi: «In molti sensi — parecchi piuttosto per-versi — il rap, a livello di forma e contenuto, rispedi-sce al mittente la busta “libertà” con una forza chenon si era più vista dai tempi di James Dean ed ElvisPresley». Dice in parole più povere Owerko: il boom-box è grosso, è ostentazione. Rappa in parole anco-ra più povere LL Cool J: «Mi dispiace se non capite /ma io ho bisogno di sentire / questa radio tra le ma-ni / Non voglio mica disturbare nessuno / ma il miovolume / resta fisso al massimo».
Ma allora perché alla fine ha vinto il walkman? «Ilmio boombox oggi si chiama iPod» dice Fab 5Freddy: che oltre a essere un profeta dell’hip hop fucompagno d’arte di Basquiat. La fine di un mondo?Ma no: in fondo dai radioloni alle cuffiette è la con-tinuazione del volume con altri mezzi. Boom bàm-ba boom boom: e tanto peggio per chi non sta maiad ascoltare.
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La musicain una scatola
Ghetto blaster, radioloniChiamateli come vi pareErano quelli che pompavanodecibel nella New York neraraccontata da Spike LeeZittiti da walkman e iPodora si fanno risentiregrazie a un librosparato a tutto volume
SPETTACOLI
ANGELO AQUARO
JVC modello RC-838
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DI LY
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««« L’EVOLUZIONE
Repubblica Nazionale
Hanno fattola cosa giusta
SPIKE LEE
Sono cresciuto a Cobble Hill, un quartiere di Brooklyne lì, verso la metà degli anni Sessanta, qualcuno mi fe-ce scoprire la potenza della musica portatile. C’era
uno che tutti chiamavano Joe Radio. Gli avevano messoquel soprannome perché stava sempre all’angolo tra laHenry e la Warren Street, con una piccola radio a transistorsulla spalla. Attaccata alla spalla, per essere esatti, perchéogni volta che vedevi Joe Radio, lo vedevi con quella radio-lina a transistor sulla spalla. Ascoltava WMCA Good Guys oWABC con Cousin Brucie notte e giorno, giorno e notte. JoeRadio era l’unico che lo facesse di quelli che conoscevo.
L’immagine di lui che ascolta la sua radioè rimasta impressa nella mia mente quan-do avevo solo otto anni. Molti, molti annidopo, quell’esperienza di quando erobambino riemerse nel personaggio di Ra-dio Raheem nel mio film Fa’ la cosa giusta,del 1989. Sono stato testimone di comequella piccola radio a transistor si è trasfor-mata nei boombox degli anni Ottanta. Nonne ho mai avuto uno; primo motivo, pesa-va una tonnellata; secondo motivo, costa-va una fortuna in batterie. Non avevo unmagazzino pieno di Eveready o di Duracell.Era una faticaccia portarsi dietro quella roba, dovevi esse-re veramente deciso a imporre i tuoi gusti musicali a tutti.Non aveva senso avere un boombox se non lo usavi a un vo-lume da far scoppiare i timpani. Dovevi anche essere pron-to a litigare se qualcuno osava chiederti di abbassare quelcoso. Radio Raheem morirà per il suo stereo, per la sua mu-sica, per il suo boombox che spara a tutto volume Fight thePower, l’inno dei Public Enemy durante tutto il film. Que-sto bel libro del fotografo Lyle Owerko documenta in mo-do superbo l’epoca ormai passata del walking boombox intutta la sua sonora gloria (non mi è mai piaciuto il terminerazzista “ghetto briefcase”, “la ventiquattrore del ghetto”).Ne ho nostalgia? Assolutamente no. Ringrazio Dio per ilwalkman della Sony, che si è poi evoluto nell’attuale iPoddella Apple. Anche se a volte, quando me ne vado in girosulla mia Mustang con i simboli dei New York Yankees perl’isola di Martha Vineyard (dove abitano molti tifosi degliodiati Boston Red Sox), metto a tutto volume Fight thePower dei Public Enemy e faccio rivivere Radio Raheem.
Traduzione di Luis E. Moriones© Lyle Owerko / Abrams images
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 2GENNAIO 2011
I FILM E IL LIBRODall’alto: Fa’ la cosa giusta,
Il principe di Bel Air
e Say Anything
A lato la copertina
di The Boombox Project,
di Lyle Owerko (Abrams
Image, New York)
CANDLE modello JTR-1251 SHARP modello GF-777 LASONIC modello TRC-920
MONTGOMERY WARD modello Airline General 3996A
MAGNAVOX modello D8443
RISING modello SRC-2005B
RADIO A TRANSISTOR
Inventata nel 1948
sarà commercializzata
negli anni Cinquanta
WALKMAN
Già all’inizio degli Ottanta
si cominciano
a vedere i primi modelli
IPOD
Nel 2001 la Apple
lo lancia sul mercato
ed è subito un successo
COMPACT DISC
Nasce nel 1985
e contribuisce
alla fine del boombox
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Repubblica Nazionale
pone il rientro nei ranghi alimentari. Che la punizione cominci. Nulladi più avvilente e necessario di un petto di pollo o una sogliolina al va-pore... Errore. Dismessa l’immagine tristanzuola del pentolino pienod’acqua a metà con piatto appoggiato e odore di carote nell’aria, il va-pore è ormai una risorsa ineludibile della gastronomia d’autore. Cer-to, bisogna mandare a memoria i tempi di cottura per evitare appassi-menti e stopposità, apprendere i segreti dei bouillons(le acque-brodo
da cui esalano le molecole di vapore checuociono i cibi) prendere dimestichezzacon le nuove tecnologie come il sottovuo-to, ibrido culinario di inizio millennio checoncentra i vapori all’interno del sacchet-to sigillato, calato in acqua a temperaturabassa.
I risultati possono essere esaltanti. Per-ché il vapore aromatizza senza invadere,cuoce senza stravolgere, lascia intatti isucchi interni più segreti e preserva le for-me. Una riscoperta figlia della globalizza-zione — le cucine asiatiche lo utilizzano damillenni per le preparazioni più sofistica-te — che ha sdoganato i piatti al vapore daicarrelli delle mense d’ospedale e dal ca-pezzale dei bambini. La strumentistica siè rapidamente adeguata, pur senza snob-bare i buoni vecchi vassoietti bucherella-
ti, o i mitici cestelli di bambù, capaci di cuocere verdure e panini, pe-sci e carni, alghe e sformati, nell’irresistibile formato monoporzionecome a strati sovrapponibili. Dalle pentole a pressione alle poderosecasseruole di ghisa, fino alle vaporiere elettriche e ai forni combinati,la cottura più salubre del pianeta ha costretto cuochi e industria a ri-pensare una fetta importante della tecnologia culinaria, tanto che sicontano sulle dita di una mano i ristoranti stellati orfani di piatti al va-pore nei loro ricercati, golosi menù.
Se andate a cena da “Vittorio”, ristorante con tre stelle Michelin apochi chilometri da Bergamo, chiedete a Chicco Cerea di preparavi ilpesce cotto al tavolo: sarete voi stessi a decidere come profumare il va-pore all’interno della Staub — le mitiche cocotte francesi — dove lan-gue il vostro branzino. Poi, scatenatevi nei dessert.
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40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 2GENNAIO 2011
i saporiPassata la festa
Sopravvissuti al surplus gastro-alcolico di Natale e Capodannosi impone immediato il rientro nei ranghi alimentariSenza alcun intento punitivo, però. Ma riscoprendo,anche grazie alla grande tradizione culinaria orientale,il consolante piacere delle acque-brodo e del fuoco lento
SogliolaIl principe dei pesci al vapore:
carne bianca, delicata,
di struttura sottile
Timo, sedano, pepe rosa
e un bicchiere di vino bianco
nell’acqua di cottura
PaniniI Man Tou della cucina
tradizionale cinese — farina,
acqua, lievito — si cuociono
per mezz’ora su garza umida
nella vaporiera. Esiste
anche la versione farcita
CotechinoNiente di meglio del vapore
per sgrassare l’insaccato
di Natale, senza sminuirlo
con una super bollitura
Invece dell’acqua, il lambrusco
è il suo vino d’elezione
Cous cousI piccolissimi grumi incocciati
con mani e forchetta
si cuociono nella parte superiore
della cuscussiera
con i vapori di carni e verdure
posizionate nella parte bassa
VaporieraPossono vantare due o più
piani, in plastica o metallo,
e garantiscono
con esattezza tempi
e gradi di cottura
FornoGrazie a ventilazione
e vapore, consente
di risparmiare energia
e tempo, per cibi morbidi
dentro, croccanti fuori
CestelloL’utensile da appoggiare
sul fondo delle pentole,
purché siano fonde
a sufficienza perché il liquido
di cottura non tocchi i cibi
Pentola a pressioneLa soluzione più efficace
per cuocere in tempi ridotti,
grazie all’utilizzo del cestello
da posizionare all’interno
della casseruola
BambùIl simbolo della cucina
cinese, con i suoi piccoli
cesti sovrapposti e coperti,
viene prodotto anche
in versione monoporzione
AfterDay
È ora di cucinare a tutto vaporeLICIA GRANELLO
Il vaporeper amico. Che altro, per restituire tranquillità a fegatoe colesterolo? Un tempo, l’attesa delle feste di fine anno era ri-pagata da una sequenza codificata: cenone di vigilia da noi,pranzo di Natale da loro, Santo Stefano dai cugini, etc... Pastiineguagliabili per quantità e qualità, rifiniti con pazienza cer-tosina grazie al coinvolgimento dell’intero nucleo familiare.
Oggi, possiamo mangiare ciò che ci pare tutti i giorni, delegando aristoranti e gastronomie gran parte dei nostri menù festaioli, perché iltempo è diventato molto più che semplice denaro: non ne abbiamonemmeno a pagarlo a peso d’oro. In più, i pasti celebrativi hanno stra-ripato dallo stretto recinto dell’ultima settimana di dicembre per in-vadere il mese intero, tra saluti aziendali e scambi di regali, in un dayby day che non ci dà tregua.
Sopravvissuti anche al surplus gastro-alcolico di fine anno, si im-
PatateCottura ideale per la base
della macedonia di verdure
da insalata russa (aggiungendo
maionese, tonno e capperi)
Ottime anche schiacciate
con un filo d’extravergine
Repubblica Nazionale
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 2GENNAIO 2011
itinerari
Il campione della cucina vegetariana
Pietro Leeman impasta farina bianca
e integrale per i dischi di pane
al vapore imbottiti con code di gamberi
e petali di pomodoro
DOVE DORMIRETARA VERDE
Via Delleani 22
Tel. 02-36534959
Camera doppia da 120 euro
colazione inclusa
DOVE MANGIAREJOIA
Via Panfilo Castaldi 18
Tel. 02-29522124
Chiuso sabato a pranzo e domenica
menù da 50 euro
MilanoNella magnifica reggia restaurata
alle porte di una delle capitali del bollito,
Alfredo Russo cuoce nel forno
a vapore la terrina di coniglio
da servire con peperoni confit
DOVE DORMIREB&B VIA DELLA ROCCA
Via della Rocca 10
Tel. 348-8829485
Camera doppia da 95 euro
colazione inclusa
DOVE MANGIAREDOLCE STIL NOVO
Piazza della Repubblica 4, Venaria Reale
Tel. 011-4992343
Chiuso domenica sera e lunedì
menù da 75 euro
TorinoNella terra-madre degli insaccati
Massimo Bottura farcisce i ravioli
con tre qualità di lenticchie,
mescolate a briciole di cotechino
cotto nei vapori del lambrusco
DOVE DORMIREHOTEL CANALGRANDE
Corso Canalgrande 6
Tel. 059-217160
Camera doppia da 130 euro
colazione inclusa
DOVE MANGIAREOSTERIA FRANCESCANA
Via Stella 22
Tel. 059-210118
Chiuso domenica
menù da 80 euro
ModenaPochi chilometri separano la città
del bollito con la pearà (salsa al midollo)
dal ristorante di Giancarlo Perbellini,
che serve i tranci di branzino
al vapore con stracciatella d’uova
DOVE DORMIREARENA SUITE
Stradone Porta Palio 36
Tel. 045-2370167
Camera doppia da 90 euro
colazione inclusa
DOVE MANGIAREPERBELLINI
Via Muselle 130, Isola Rizza
Tel. 045-7135352
Chiuso lunedì e martedì
menù da 65 euro
Verona
Il bretone Philippe Leveillè è chef e proprietariodel ristorante “Miramonti l’Altro” a Concesio, nel brescianoMolto goloso ma altrettanto leggero il suo cotechino cucinatoal vapore con contorno di spinaci e purè
Le antiche magie del “digestore” MASSIMO MONTANARI
Nel centro di Blois, in cima a una scenografica scalinata che apre un suggestivo scorciosulla valle della Loira, un monumento ritrae Denis Papin, figlio illustre della città, natonel 1647. Fisico e matematico, egli è noto soprattutto per essere stato l’inventore di una
«macchina di cottura» che, per la prima volta, si propose di applicare la tecnologia moderna al-l’antica pratica di cuocere al vapore. La macchina di Papin, un doppio cilindro in ferro chiusocon viti e barre, destinato a cuocere a bagnomaria, è ritenuta l’archetipo della pentola a pres-sione. Il suo inventore, divenuto membro della Royal Society britannica, ne illustrò le poten-zialità in un libro pubblicato a Londra nel 1681 e l’anno successivo a Parigi: con quello stru-mento — spiegava — era possibile abbreviare i tempi di cottura e risparmiare sul combustibi-le; inoltre si potevano mettere a frutto materiali apparentemente inutilizzabili, come le ossa,con cui produrre brodi e gelatine per i poveri. A questa vocazione del marchingegno è dedica-to il titolo dell’opera, che lo definisce digester ovvero «macchina per ammorbidire le ossa».
La macchina di Papin suscitò subito interesse in Italia, dove fu chiamata “digestore” e divul-gata dallo scienziato veneziano Ambrogio Sarotti. Nel secolo successivo, il milanese Sangior-gio la utilizzò per produrre decotti e brodi medicinali. L’abate Ottolini dichiarò di usare Il dige-store di Papino (titolo di un suo libretto del 1783) per cuocere «la carne di manzo in meno diun’ora, un vecchio cappone in un quarto d’ora, il riso in tre minuti».
Il problema maggiore del “digestore” era la regolazione del vapore. Priva di una valvola, dif-ficile da chiudere, pericolosa da gestire, la nuova pentola faticò a diffondersi. Bisogna aspetta-re più di un secolo per trovarla in un manuale pratico di cucina, quello di Caterina Prato, tra-dotto dal tedesco in italiano nel 1902. La pentola di Papin è raccomandata non solo per la suaeconomicità e praticità, ma anche perché «si aumenta sostanza e aroma delle pietanze».
Nel corso del Novecento la pentola a vapore comincerà a diffondersi nelle case, sia per il pro-gressivo perfezionamento della tecnologia (con l’introduzione di valvole di sicurezza) sia perché,con l’introduzione delle cosiddette “cucine economiche”, il controllo del calore si farà più stabi-le e sicuro. Inoltre, la rapidità di cottura sarà sempre più percepita come un valore positivo.
Tre secoli dopo, la pentola a vapore continua a tradurre in linguaggio tecnologico la mille-naria saggezza di un sistema di cottura che unisce i vantaggi dell’umido a quelli del secco, uti-lizzando l’acqua non per diluire ma per concentrare sostanza e aroma. Quasi una magia, nuo-vissima e antica.
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42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 2GENNAIO 2011
le tendenzeFantasie al potere
Sete, broccati, colori sgargianti, il tuttorivisitato con modernissimo taglioeuropeo. Ecco il mix che ha catturatol’alta moda. E così da Chanel a Cavalli,da Gaultier a Elena Mirò il 2011si inchina ai nuovi padroni del mondo
a vogliadi Oriente contamina la moda. Su tutte le passerelle, da Mila-no a Parigi, passando per Londra e New York, si scoprono echi, detta-gli e reminiscenze di mondi una volta lontani, dalla Cina al Giappone.Gli abiti tradizionali — dal kimono delle geishe al qipao delle donnecinesi — tornano in una versione aggiornata e sexy, mescolati all’ab-bigliamento più classico europeo. E questo fenomeno non è da attri-buire solo a un omaggio degli stilisti ai Paesi che in questo momentohanno una forza economica trainante. Anche se è lì che il mercato del-la moda pesca le sue più ricche clienti, quelle che possono spenderealla grande e comprare vestiti dalle cifre esorbitanti. La moda guardaa Oriente con una forte motivazione estetica. Era già accaduto neglianni Cinquanta. Niente di strano. Lo stile asiatico ha sempre esercita-to un grande fascino negli atelier di tutto il mondo. I tessuti, le prezio-se sete e i broccati, le linee sensuali dei tagli, i colli, le maniche larghe ei dettagli della moda che arriva dall’Est, sono oggi fonti di ispirazionedichiarata dai grandi couturier sia francesi che italiani.
Nelle collezioni la forza dell’Oriente balza all’occhio per le fantasie
dai colori brillanti, esaltati dai neri totali, sui quali spiccano gli arabe-schi dai decori molto elaborati. La moda familiarizza con la Cina, gio-ca con la sensualità del kimono, e mette in scena sfilate dai titoli evo-cativi come “Paris-Shanghai”, scelto da Karl Lagerfeld di Chanel persfilare, lo scorso anno, a Pechino. Tra i più grandi contributi alla Ci-na, c’è quello, destinato a passare alla storia, di Fendi che, già nel2007, ha portato le sue modelle a sfilare sulla muraglia cinese, tra-sformando una delle sette meraviglie del mondo in una straordi-naria passerella.
Ma oggi per riscoprire il fascino dell’Oriente non occorre an-dare così lontano. Basta entrare nelle boutique delle griffeche si sono sintonizzate su quest’onda trendy. Da Etro è tut-to un frusciare di sete per abiti da sera stretti in vita da fa-sce, con scolli profondi e maniche ampie come quelle deikimono. Roberto Cavalli punta su sontuosi cappotti dibroccato, riscaldati da interni di pelliccia maculata,mentre Jean Paul Gaultier usa le sete cinesi per farnegonne molto sexy da abbinare a giacconi sportivi.Un mix di impronta europea, che si ritrova, da sem-pre, anche nelle collezioni di Kenzo, dove Orien-te e Occidente convivono in perfetta armonia.Tra i marchi che tengono alto il mito dell’Orien-te c’è anche una griffe come Elena Mirò, che veste le donne “curvy”,quelle dalle linee tonde, dimostrando così che “la signora di Shan-ghai” non deve essere, per forza, sottile come un giunco, ma può ave-re le rotondità di una donna mediterranea. Cina forever anche perMax Mara: nella collezione per l’inverno ci sono molti dettagli ripresidal guardaroba classico di una concubina della Città Imperiale. Im-pronta più giovane per le ragazze di Philosophy, la linea di Alberta Fer-retti, che hanno sfilato con i classici cappelli di paglia cinesi e un cor-redo di pantaloni, casacche e abiti al ginocchio. L’Oriente è sbarcatonel guardaroba e fa proseliti, soprattutto tra le fashion victim.
L’Oriente è vicino
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LAURA ASNAGHI
BORSETTADa sera,di BraccialiniPerfettaper un oriental-look
SOL LEVANTEFirmata Rebeccala lunga catenastile EstremoOriente
ANELLIDa Pomellatogli anelli della lineaArabesquecon decori preziosi
styleAsia
L
SEVERAL’abito
in seta nera
con i grandi
fiori stampati
è firmato
dall’inglese
Paul Smith
Si porta
con la borsa
a tracolla,
le calze
a rete
e la fascia
nera
tra i capelli
DORATAOmaggio
alla Cina
per Max
Mara,
tra i primi
marchi
ad aprire
boutique
in Oriente
L’abito
da sera,
dalla gonna
vaporosa,
ha i colori
dell’oro
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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 2GENNAIO 2011
IL DISEGNOIl kimono
in un disegno
di Antonio Marras
per Kenzo
FLOREALII ricami di fiori
sugli stivali
con la zeppa
di Car Shoe
IMPEROEcco gli stivaletti
Roger Vivier
della serie
“Pour un empire”
MANDALAGeometrie
orientali
nella collana
griffata Rosato
CINTURA Lana intrecciatamulticolore e pendagliin metallo in perfettostile Missoni
PERLEHanno perle
con decori
in oro
gli orecchini Fendi
“L’essenza della donna?Sta tutta in un kimono”
Antonio Marras, direttore artistico di Kenzo
Antonio Marras, lei da otto anni disegna Kenzo ed è noto come “il piùeuropeo degli stilisti orientali”. Ma perché siamo così attratti dal fa-scino dell’Oriente?
«Fin da ragazzo sono stato stregato da questo mondo diametralmente op-posto al mio. Vivo ad Alghero, in Sardegna, un’isola con stratificazioni cultu-rali frutto di dominazioni diverse. Da noi ci sono stati i greci, i romani, i tur-chi, i francesi, che hanno lasciato tracce indelebili. Nei tessuti, nell’arte ora-fa ma anche nei costumi tradizionali. E il Giappone, che è un’isola come laSardegna, mi ha sempre attratto per il suo attaccamento alla tradizione e lacapacità di accettare nuove sfide. Un mix di rigore e innovazione, che si in-nestano perfettamente nel kimono, la quintessenza dell’abito, antichissi-mo ma di grande modernità».
In che senso?«Il kimono è un vestito semplice ma con una magia incredibile. È fatto
di un rettangolo di tessuto, più i due piccoli quadrati utilizzati per le ma-niche. Dunque, un inno all’essenzialità, esaltato dall’indiscutibile bel-lezza delle sete. Io, con mia moglie Patrizia, sono arrivato a collezio-narne più di quattrocento, una fonte inesauribile di ispirazione».
Cos’ha di magico il kimono?«Tutto, perché racchiude il mistero della femminilità. I kimono
non sono tutti uguali. All’interno, nascondono i segreti delle donne.Le orientali amano personalizzare i loro abiti con ricami speciali,nastrini, fodere con i fiori o le righe. Tutti elementi che servono atracciare un profilo della donna che li indossa».
Ma oggi non è anacronistico?«Lo è se viene riproposto come un costume, vecchia maniera,
lo stesso che portavano le geishe. Ma il kimono a cui mi riferiscoio è una sorta di giacca, facile da portare con un abito corto dasera ma anche con i jeans».
Operazione che sta alla base delle sue creazioni.«Io sono inebriato dalle collezioni lasciate in eredità da
Kenzo. La sua è una cultura che mi appartiene e quando so-no stato nominato direttore artistico mi sono sentito a ca-sa. Di lui ho sempre apprezzato la capacità e il coraggio dimescolare colori e fantasie in contrasto tra loro ma alla fi-ne in perfetta armonia».
Quali sono i pezzi storici delle collezioni di Kenzo dacui è partito per ridare contemporaneità al marchio?
«L’abito con le stampe a fiori, il kimono e il pantalone sa-ruel. Sono tre elementi che si possono mescolare a piacere, dando vi-ta a mise diverse. Per i quarant’anni di Kenzo, celebrati di recente a Parigi, so-no partito, come faccio sempre, da una storia. Quella di un giapponese cheapproda in Sardegna dopo aver fatto il giro del mondo. E così ho mescolatoabiti indiani con quelli peruviani, giacche afgane con gonne messicane,stampe marocchine con tessuti inglesi, e via elencando mix di grande fanta-sia e accessori etnici. Tutto questo attingendo dall’archivio storico di Kenzo.L’effetto finale è stato spettacolare».
(l. as.)
GILETÈ firmato
da Philipp Plein
il gilet in pelliccia
bianca
GRINTOSALa moderna
china-girl
così come
la immagina
Jean Paul
Gaultier
Indossa
stivali
cuissard
in seta nera
con fiori
In testa,
un turbante
con stampe
orientali
ELEGANTEIl qipao
delle donne
cinesi
interpretato
da Veronica
Etro, che usa
sete e velluti
per ricreare
un abito
che si adatta
a più
occasioni:
dalla cena
elegante
al cocktail
LEGGERAL’eterea
leggerezza
di un abito
in seta,
di gusto
orientale,
firmato
da Antonio
Marras
per Kenzo
Da indossare
con un paio
di stivali
in pelle
nera
CURVYLa giacca
kimono
per donne
“curvy”,
dalle linee
tondeggianti
È stata
realizzata
da Elena
Mirò,
caratterizza
le collezioni
ispirate
alla moda
orientale
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Repubblica Nazionale
44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 2GENNAIO 2011
l’incontroPensatori
‘‘
Se fossi guidatosolo dalla ragione,direi che il mondova verso la catastrofeMa nella storiadell’umanità esistel’imprevisto, il fattoinatteso che cambiail corso delle cose
progresso, ci siamo illusi prima con ilcomunismo e poi con il consumismo, lademocrazia sembrava ancora la formu-la perfetta di convivenza. Ora quest’o-rizzonte è stato spazzato via».
Non farebbe mai a cambio con unventenne di oggi, anche se camminalentamente nella casa vuota, aiutando-si con un bastone. Due anni fa è mortala sua terza moglie, Edwige Lannegra-ce, alla quale ha dedicato un libro,Edwige l’inséparable. Con la modella eattrice canadese Johanne Harelle, co-nosciuta negli Usa, aveva trascorso iruggenti anni Settanta viaggiando inAmerica Latina. Gran seduttore, rac-conta di aver «bevuto la vita». Non si èfatto mancare niente. Nato nel 1921,nella comunità ebrea sefardita delquartiere di Menilmontant, ha rischia-to di morire durante le fasi del parto, in-sieme alla madre Luna, gravementemalata di cuore. «I medici le avevanoconsigliato di non avere figli, lei avevanascosto la sua patologia anche a miopadre Vidal». La madre sopravvive permiracolo, accudisce il figlio unico comeun piccolo principe, ma nove anni do-po è vittima di un infarto. «Quella mor-te è stata la mia Hiroshima» ricorda.Non a caso il suo primo libro di antro-pologia, pubblicato nel 1951, s’intitolaL’homme et la mort, e analizza tra l’altroil concetto di “resilienza”, la capacità diresistere agli urti.
Durante l’occupazione nazista, tro-va la sua seconda famiglia. Entra nelleforze combattenti della Resistenza,nella fazione guidata da François Mit-terrand. È così che Edgar Nahoum perl’anagrafe diventa Edgar Morin, nomedi battaglia che poi terrà anche dopo laguerra. Impara a nascondersi, a com-prare le soffiate, ad anticipare i movi-menti della polizia. Un giorno sta rag-giungendo Lione, per un appuntamen-to. Ha come un presentimento, decidedi non andare. L’amico che l’aspettaviene catturato, torturato e ucciso. Inclandestinità, conosce Violette Chapel-laubeau, prima moglie e madre dellesue figlie Irène e Véronique. Il giornodella Liberazione entra a Parigi a bordodi un’automobile militare, sventolan-do la bandiera insieme all’amica scrit-trice Marguerite Duras. Subito decidedi partire per Baden-Baden. Nel 1946,due anni prima del film di Roberto Ros-sellini, scrive L’Anno Zero della Germa-nia, un racconto sul paese in macerie,un tentativo di capire come la nazionedi Goethe e di Beethoven abbia potutoprovocare la barbarie del nazismo.
Fino a trent’anni ha creduto nel Soldell’Avvenire. «Sono stato un comuni-sta di guerra, perché ho dato la priorità
alla lotta contro il nazismo, trascuran-do perciò i difetti dello stalinismo. Ma intempo di pace, appena sono incomin-ciati i processi e le epurazioni, ho strac-ciato la mia tessera». Nel 1951 viene de-finitivamente espulso dalla dirigenzadel Pcf per aver criticato in un articolo ilGran Timoniere Mao Tse Tung. «Il par-tito era come una chiesa, un ambientesacro — ricorda — qualcosa di inimma-ginabile per i giovani di oggi». Morinscrive in quegli anni Autocritique, me-morie di un ex comunista, genere desti-nato a fare proseliti, in Francia e non so-lo. Oggi si considera «droitiergauchiste». «A destra, perché secondo latradizione rivoluzionaria voglio difen-dere le libertà, e a sinistra perché pensoche ci sia bisogno di radicalità». Di KarlMarx, al quale ha dedicato un piccolosaggio l’anno scorso, dice che «è statoun formidabile profeta della globaliz-zazione capitalista, ma non ha visto chel’homo faber, l’uomo produttore, eraanche l’homoeconomicus, e che l’homo
sapiensera anche l’homo demens, la fol-lia umana che si manifesta in tutta lastoria dell’umanità».
Nel 2008 Nicolas Sarkozy citò la «po-litica di civilizzazione» teorizzata daMorin in un suo discorso. Lui fece sape-re di non aver gradito. «Dubito che ilpresidente conosca i miei lavori e il si-gnificato reale di quest’espressione» ri-pete adesso, con un moto di fastidio.Per Morin la «politica di civilizzazione»consiste nel ritorno della supremaziadella politica sull’economia, del pub-blico sul privato. «I partiti di sinistrahanno accettato supinamente il libera-lismo senza capire che bisognava pri-ma discutere di regole e salvaguardiadei diritti. Con la globalizzazione eco-nomica abbiamo avuto cose positive,come la circolazione delle persone edelle idee, ma abbiamo integrato anchei ritmi di lavoro della Cina».
Nel suo album personale conservafoto con molti dei leader della sinistrafrancese, da Maurice Thorez a Mitter-rand, con i quali ha spesso polemizza-to. Eppure ogni volta che la gauche è indifficoltà, Edgar Morin viene consulta-to come un oracolo. Tutti, anche i suoinemici, gli riconoscono una grande ca-pacità di fiutare l’esprit du temps, lo spi-rito dell’epoca, titolo di un suo studiodel 1962. Ha battezzato negli anni Ses-santa la generazione «yé yé», i ragazzidipendenti dal consumismo, nel 1993ha pubblicato un pamphlet sulla «Ter-ra-Patria» prima che l’ambientalismodiventasse una moda, ha previsto il ri-torno dei nazionalismi e della xenofo-bia in Europa. «Sono rimasto scioccatonel vedere quello che la Francia ha fattoai rom, un popolo perseguitato da seco-li, mandato nei campi di concentra-mento dai nazisti». Morin non teme ditrovarsi su posizioni politicamente sco-mode. Si è schierato a fianco dei pale-stinesi durante l’Intifada, è andato aparlare all’università di Sarajevo sottole bombe.
Mentre parla, continua a consultarele email sul computer. «Sono già dipen-dente da questo aggeggio» scherza.Viaggia ancora per conferenze, soprat-tutto in Brasile dove ci sono diversi cor-si dedicati al suo lavoro, ha appena ri-cevuto un invito per andare in Cina. Ilsuo sogno, oggi, sarebbe veder nascereuna nuova stagione della sinistra. «Nonci sono segreti. Le due parole che dob-biamo riscoprire sono solidarietà e re-sponsabilità. In senso etico ma anchepolitico. L’idea di un unico partito di si-nistra mi sembra destinata a fallire per-ché contiene forze che si sono semprecombattute e che difficilmente posso-no superare le loro diverse identità.
Piuttosto, è preferibile una coalizioneche unisca le sinistre, senza che nessu-no debba rinnegare la propria origine,seguendo un processo che io chiamo dimetamorfosi». Nella natura, spiega, ilbruco si autodistrugge per diventareuna crisalide e poi una farfalla. Cambiama rimane lo stesso essere vivente. «Èl’esatto contrario del concetto di fare“tabula rasa”, come dice lo slogan del-l’Internazionale. Io penso invece chedobbiamo andare avanti, integrandosempre il nostro passato».
La paura è la nuova ideologia. Unsentimento che paralizza le coscienze,la malattia di questo secolo. Quando èscoppiata la crisi, Morin si è staccato dalcoro. «È una straordinaria opportunitàper ripensare il nostro stile di vita, il mo-mento in cui si può finalmente impara-re dai propri errori. Purtroppo non staaccadendo e siamo ancora dentro altunnel. Ricordiamoci che Adolf Hitler èarrivato al potere in modo assoluta-mente legale, proprio dopo una lungacrisi economica». Ci salverà, forse, l’im-ponderabile. Quello che neanche acca-demici come Edgar Morin riescono aprevedere. La piccola Atene che resisteall’impero della Persia, facendo nasce-re la filosofia e la democrazia. L’Urssche nel 1941 respinge i nazisti all portedi Mosca, e prelude alla fine della guer-ra. «È già successo, succederà ancora»confida Morin, con il tono di chi ha an-cora molto da studiare. Quando si ballasull’orlo dell’abisso non c’è tempo perannoiarsi.
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ANAIS GINORI
PARIGI
«Se fossi guidato solo dallume della ragione,dovrei dire che il mon-do va verso la catastro-
fe, che siamo sull’orlo dell’abisso. Tuttigli elementi che abbiamo sotto gli occhici prospettano scenari apocalittici. Manella storia dell’umanità esiste l’impre-visto, quel fatto inatteso che cambia ilcorso delle cose. Ecco perché, in fondo,sono ottimista». Anche quando si trattadi guardare al lungo periodo, Edgar Mo-rin non rinuncia al suo famoso “pensie-ro complesso” che teorizza ormai daquarant’anni. Tesi, antitesi, sintesi. Ilsuo marchio di fabbrica. Unire gli op-posti, abbracciare saperi diversi, comeha spiegato nei sei volumi della Métho-de, l’opera enciclopedica scritta tra il1967 e il 2006, che gli è valsa il sopran-nome di «Diderot del Novecento».
Morin è un pensatore poliedrico, cul-turalmente onnivoro. Filosofo, socio-logo, antropologo, una bibliografia fat-ta di oltre cinquanta titoli, saggi chespaziano dall’elaborazione del lutto ainuovi miti dello spettacolo, dall’ecolo-gia alla riforma del welfare. Tra pochimesi compirà novant’anni. Le Mondegli ha dedicato un numero speciale, se-condo il Nouvel Observateur è uno dei«giganti del pensiero» del secolo tra-scorso. Davanti al computer, nello stu-diolo del suo appartamento di rueSaint-Claude, sopra alle vecchie tipo-grafie del Marais, lavora al nuovo libro.Sarà dedicato alla speranza. «Sì, vorreirestituirla ai giovani che sentono di averperso il futuro. Noi avevamo la fede nel
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La morte della madre da bambino,l’occupazione nazista, la ResistenzaMa anche i viaggi, le donne, gli studiche lo hanno reso famoso. Ora, sulla
soglia dei novant’anni,il “Diderot del Novecento”che ha previsto i guastidella globalizzazioneconfessa di essersi “bevuto la vita”E pensa ai più giovani:
“Noi ci siamo illusi con comunismoe consumismo. Loro hanno perdutoil futuro, hanno bisogno di speranza”
Edgar Morin
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