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di Repubblica DOMENICA 31 DICEMBRE 2006 D omenica La Il tempo che abbiamo quotidianamente a nostra disposizione è elastico: le passioni che sentiamo lo espandono, quelle che ispiriamo lo contraggono; e l’abitudine riempie quello che rimane MARCEL PROUST All’ombra delle fanciulle in fiore anno Storie di altro Natale, Capodanno, Epifania. Due settimane di festa, consumi laici e riti religiosi, buoni sentimenti e impietosi rendiconti, faccia a faccia con gli anni che scorrono. Quanti modi ci sono per raccontarle? La smagliante decadenza delle capitali d’Occidente, come fa Bernardo Valli; o la festa dell’uomo più potente della Terra e di quello più misero, nei resoconti di Vittorio Zucconi e Paolo Rumiz; l’incrocio della Storia con queste date speciali, nella ricostruzione di Pino Corrias; l’avventura nomade di chi celebra cercando, come Gabriele Romagnoli o Arturo Pérez-Reverte; i dubbi morali e la curiosità rischiosa nei racconti inediti di Truman Capote e Daniele Del Giudice; le immagini e i sapori perduti, rievocati da Edmondo Berselli, Emanuela Audisio, Gianni Mura e Licia Granello; la novità dei regali dell’altro mondo, nei reportage di Federico Rampini e Enrico Franceschini; e il profilo di un protagonista di questo tempo sospeso, Babbo Natale visto da Francesco Merlo. Storie cucite dalle tavole di un grande illustratore, Mauro Evangelista un Repubblica Nazionale

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di RepubblicaDOMENICA 31DICEMBRE 2006

DomenicaLaIl tempo che abbiamo quotidianamente

a nostra disposizione è elastico: le passioniche sentiamo lo espandono, quelle

che ispiriamo lo contraggono;e l’abitudine riempie quello che rimane

MARCEL PROUST

All’ombra delle fanciulle in fiore

anno

Storiedi altro

Natale, Capodanno, Epifania. Due settimane di festa, consumi laici e riti religiosi, buoni sentimentie impietosi rendiconti, faccia a faccia con gli anni che scorrono. Quanti modi ci sonoper raccontarle? La smagliante decadenza delle capitali d’Occidente, come fa Bernardo Valli;o la festa dell’uomo più potente della Terra e di quello più misero, nei resoconti diVittorio Zucconie Paolo Rumiz; l’incrocio della Storia con queste date speciali, nella ricostruzione di Pino Corrias;l’avventura nomade di chi celebra cercando, come Gabriele Romagnoli o Arturo Pérez-Reverte;i dubbi morali e la curiosità rischiosa nei racconti inediti diTruman Capote e Daniele Del Giudice;le immagini e i sapori perduti, rievocati da Edmondo Berselli, Emanuela Audisio, Gianni MuraeLicia Granello; la novità dei regali dell’altro mondo, nei reportage di Federico Rampinie Enrico Franceschini; e il profilo di un protagonista di questo tempo sospeso, Babbo Natalevisto da Francesco Merlo. Storie cucite dalle tavole di un grande illustratore,Mauro Evangelista

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il reportageRiti urbani Parigi, Londra, Berlino. In questo scorcio d’anno le tre grandi

capitali d’Europa sono accomunate dalle luci celebrative:immensi falò che illuminano una ricchezza mai vista nel passatoe che coprono il loro ormai lungo declino. Sotto questabrillante euforia si nascondono, indelebili, le toppe della Storia

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queste occasioni si crea un’effimera unitàeuropea delle immagini. Che fa dimenti-care come le mitiche metropoli del Vec-chio continente siano diventate da tem-po provincia. È il destino dell’Europa de-tronizzata. Ma provincia di che cosa? Al-tre metropoli, poste al centro di imperi inpieno esercizio o in rapida ascesa, hannosottratto o eguagliato il loro primato. NewYork, naturalmente, da un pezzo; e ades-so, per fare un vistoso esempio, Shanghai.Ma il nostro discorso rifugge da paragonitanto lontani e ambiziosi. È una semplicelettura. È lo sguardo di un lettore che as-socia il declino storico delle capitali euro-pee a quello del grande romanzo nato inEuropa. I tempi coincidono.

Si tratta di una decadenza insolita. È

opulenta, ricca, smagliante. Neppure lascomparsa del grande romanzo europeolascia vuote le vetrine dei librai: al con-trario esse non sono mai state tanto affol-late di romanzi. Invece delle rovine, deipanorami desolati, dei centri urbani tra-sandati, immersi nell’oscurità, che do-vrebbero accompagnare il declino, Lon-dra, Berlino, Parigi si presentano nel XXIsecolo in grande forma. Ho rovesciatol’ordine, ho messo Londra in testa, per-ché la capitale britannica non ha più unimpero ma ha conquistato ed esibisceuna ricchezza e una vitalità che, aggiun-te al suo naturale aspetto, strano, fanta-stico, sorprendente (prendo i tre aggetti-vi da Guido Piovene, visitatore dei pri-missimi anni Settanta), creano una mi-

scela non certo banale.Non a caso Londra esercita oggi una

fortissima attrazione sulla vicina Parigi,ormai ad appena due ore e mezzo di tre-no grazie al tunnel sotto la Manica. Unaprossimità di cui approfittano decine dimigliaia di giovani parigini attirati dal“fun” londinese e altrettanti uominid’affari francesi interessati dal dinami-smo economico britannico. Ed è signifi-cativo che in senso inverso attraversinoLa Manica vecchi inglesi, pensionati, incerca del clima mite della Vandea, delGers, dell’Ardèche, della Loira, del Vau-cluse, e di case a buon mercato che nellaprovincia francese non mancano. Si di-ce che vi siano più di duecentomila fran-cesi a Londra e novemila inglesi a Parigi.

Nella lunga storia comune le due capi-tali si sono amate e detestate, sono pas-sate dalle guerre aperte alle intese cor-diali, ma non si sono mai disprezzate. Ilfair play non à mai venuto meno. L’at-tuale fascino londinese, al quale i france-si sono tanto sensibili, ricorda quelloesercitato sul Secondo Impero, quandoNapoleone Terzo ordinava al baroneHaussmann di rinnovare Parigi pren-dendo come modello Londra. Penso cheAmerigo, il principe romano di Henry Ja-mes (in La Coppa d’oro), si aggirerebbeper Piccadilly ancora oggi, dopo più diun secolo, convinto di essere nella capi-tale ideale. Anche se nel frattempo l’au-reola imperiale, che affascinava il fru-strato nobile italiano, si è dissolta.

Oggi le tre città-mito sono riservateai benestanti: è troppo caro viverci. Dickensnon riconoscerebbe la Londra popolaredei suoi racconti; Doeblin avrebbe le stessedifficoltà con Berlino; Hugo non troverebbepiù Gavroche da mandare sulle barricate

e metropolie l’allegraPARIGI

M i chiedose Parigi, Lon-dra, Berlino, le tre me-tropoli dell’Occidenteeuropeo, siano le stesse

in cui ho abitato o soggiornato decenni fa.Va da sé che non ci sia più la Parigi ro-

mantica e fuligginosa della Quarta Re-pubblica pregollista. Non c’è più, ma,con la vistosa eccezione della Torre diMontparnasse, il centro della Parigid’oggi ha conservato l’originale im-pronta orizzontale. I grattacieli sonospuntati ai margini della città, in quar-tieri confinanti con la periferia, o nelleperiferie comprese nella Grande Cou-ronne, ossia nella Grande Parigi, le cuiestremità sconfinano nella regione Ile-de-France. Il cuore della capitale, quin-di il cuore della Francia, ha finora re-spinto con successo, malgrado le ten-tazioni, l’assedio dell’edilizia verticale.

La resistenza urbanistica sulle spon-de storiche della Senna può essere usa-ta come metafora. Essa rivelerebbe ilcaparbio orgoglio di una nazione, sem-pre illustre ma assai meno potente e in-fluente, che continua a ritenersi depo-sitaria di «una civiltà universale»: e chequindi si considera la naturale antago-nista della superpotenza usurpatrice,che vanta un’identica ambizione e le harubato la ribalta. L’immutata immagi-ne del cuore di Parigi, indomito di fron-te all’arrogante dilagare dell’america-nismo, sarebbe il simbolo di quell’or-goglio. Mi sembra un’interpretazioneappallottolata.

L’idea di una Parigi-Asterix, un po’patetica, non convince. Va registrata epoi, a mio avviso, accantonata. Difen-dendo la propria immagine Parigi dàsemplicemente prova di buon gusto. Èun’Europa che difende la propria ele-gante impronta.

È assai più introvabile (della Parigipregollista) la Londra degli anni Ses-santa, in cui vidi governare il conserva-tore Douglas-Home e poi il laburistaHarold Wilson, e in cui imperavanoMary Quant e i Beatles. Anche quellaLondra (come Parigi) era fuligginosa,romantica e austera. Per far funzionareil riscaldamento o avere l’acqua calda,negli appartamenti di Chelsea, biso-gnava mettere una moneta nel contato-re del gas; e i gabinetti, in alcune case diPiccadilly, erano sospesi su ballatoiesposti al vento atlantico come la atti-gua Trafalgar Square. A differenza di Pa-rigi, Londra non ha resistito all’assediodell’edilizia verticale. Non ci ha neppu-re provato. Si è allargata e allungata. Haperduto per questo l’anima e la faccia?Non troppo. Forse un po’ dell’una e del-l’altra.

Londra suscita vampate di gelosianella Parigi virtuosa, colta a volte daldubbio (ingiustificato) che l’incrollabi-le virtù possa imprigionarla nel ruolo dimetropoli immobile, attardata. Inquanto a Berlino ce ne è una nuovafiammante, e rincollata, dopo la lungapunitiva divisione postnazista. La capi-tale della Germania unita ha bisognodella patina che dà nobiltà ai monu-menti. Berlino è comunque la metro-poli europea più lanciata nel futuro. Ènaturale: più che conservare il passato,irrimediabilmente perduto, ha dovutocostruire l’avvenire. E per descriverlo egiudicarlo, bisogna aspettare che l’av-venire sia diventato il presente.

* * *

Quel che unisce le tre grandi capitali inquesto scorcio d’anno sono le illumina-zioni festive, i cui bagliori osservati dalontano, e dall’alto, nel buio precoce del-l’inverno, quando infuria ancora la so-cietà motorizzata, fanno pensare a cittàin preda a inarrestabili incendi. Gli im-mensi falò ardono in boulevard Haus-smann e sugli Champs-Elysées fino al-l’Arco di Trionfo, come in Regent Street ea Knightsbridge attorno a Harrods, e sul-la Kudamm e la Unter den Linden fin sot-to la Porta di Brandeburgo.

È un’allegra catastrofe che festeggiauna ricchezza senza eguali nel passato eche copre l’ormai lungo declino. Assomi-glia a una ubriacatura che serve a dimen-ticare. Sotto la luminosa euforia ci sono,indelebili, le toppe della Storia.

Le grandi ricorrenze, in cui si riversanoil calore della tradizione e la frenesia delconsumismo, sono in Europa celebrazio-ni che si svolgono nel quadro della fami-glia, della casa, del quartiere. I quali sonoluoghi fissi della memoria come quellidella Storia nazionale o universale. In

BERNARDO VALLI

L

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45DOMENICA 31DICEMBRE 2006

Londra resta uno dei maggiori centrifinanziari del mondo, e la metropoli piùambita da emigranti provenienti da tut-ti i continenti. È sull’onda di questi suc-cessi che le è stato assegnato il compitodi ospitare e organizzare le Olimpiadidel 2012. Anche Parigi ci contava e an-cora soffre per essere stata scartata.Londra è allo zenit della sua gloria eco-nomica, ma politicamente apparespesso come una provincia di Washing-ton. Sulla carta il destino di Berlino èpromettente. La sua posizione geopoli-tica è invidiabile: la fine del comunismoe l’allargamento dell’Unione europea aest l’hanno collocata al centro del Con-tinente. Il posto le compete anche comecapitale della principale potenza indu-

striale d’Europa. E tuttavia la metropo-li tedesca non esercita ancora quell’in-fluenza che ci si aspettava e ci si aspetta.

* * *

Louis-Sébastien Mercier, ottimogiornalista e mediocre scrittore, pub-blica nel 1771 un libro stravagante,L’anno 2440, sogno se mai ve ne fu, in cuisono messe a confronto due immaginidi Parigi: quella contemporanea, nonlontana dalla Rivoluzione, e quella delfuturo che un sogno disegna luminosae cattivante, ma che ci sembra, comespesso accade alle utopie, tanto saggiaquanto noiosa. Nell’immaginare la Pa-rigi di settecento anni dopo Mercier si

ispira ai «lumi» e alla «philosophie» dicui è uno zelante seguace. La vede unacapitale che, risolti tutti i problemi, rea-lizzate le riforme vagheggiate dall’illu-minismo progressista, fiducioso nell’a-vanzamento delle scienze e dell’uomo,offre infine uno spettacolo di armonia edi misura. In quel bagno utopistico lestrade sono pulite e di sera illuminate, lebiblioteche purgate da tutti i libri inuti-li, le locande abolite perché i ricchi for-niscono gratuitamente buoni cibi e al-loggi confortevoli, i tetti non più rab-berciati sono terrazze fiorite, la giustizianon punisce, è paternalistica, e i crimi-nali vanno al patibolo contenti di espia-re. E così via. La troppa probità si ac-compagna al tedio. Anche il teatro, ad

esempio, è rinsavito, e riservato a per-sonaggi positivi. Corneille e Racine so-no riveduti e corretti.

Mercier può sbizzarrirsi perché tantola sua Parigi perfetta è lontana sette se-coli, e gli serve per contrapporle le mi-serie della Parigi settecentesca in cui vi-ve. Queste miserie le descrive con la ri-gorosa pedanteria del moralista, maanche con la precisione del buon croni-sta (Diderot e Grimm lo definivano un«infaticabile grattacarte») nei dodicivolumi della sua opera successiva: Ta-bleau de Paris. Nella Parigi che Mercierha sotto gli occhi i pedoni sono schiac-ciati da un fiume di carri e carrozze; viprevalgono i quartieri fetidi dove mi-gliaia di uomini respirano un’aria avve-

lenata; i miserabili vi muoiono senzacure; gli artigiani scaricano i resti delleloro botteghe nella Senna, sulla qualegià galleggiano le immondizie dell’inte-ra città; dopo il lavoro la gente del po-polo si rifugia in bevande detestabili;nelle strade non illuminate si incontra-no prostitute che con grinta militarescaoffrono piaceri rudimentali e insapori...Il poligrafo Mercier guarda Parigi comeun «mostro»; non il mostro favoloso al-la maniera di Balzac e di Baudelaire; mail mostro spaventoso per le sue realtà econtrasti. Siamo ben lontani dallosplendido «mito» di Parigi raccontatoda Giovanni Macchia.

* * *

Oggi Parigi, Londra, Berlino non sononeppure a mezza strada, stando all’ordi-ne cronologico, tra la metropoli reale difine Settecento e la metropoli utopisticadel 2440, descritte da Mercier. A che pun-to è la loro immagine? Tralascio i muta-menti dovuti ai progressi della scienza,della tecnica e all’evoluzione della so-cietà, anche sul piano politico, che sonosotto gli occhi di tutti. E mi soffermo suun aspetto che Mercier non poteva pre-vedere. Le tre metropoli sono semprepiù riservate ai cittadini benestanti. Ètroppo caro viverci. Bisogna persino pa-gare un pedaggio per entrare in automo-bile nel centro di Londra. E ci vuole unreddito alto per abitare nei quartieri sulTamigi dove un tempo era prudente noninoltrarsi dopo il tramonto.

Dickens non riconoscerebbe più nel-la Londra d’oggi quella popolare deisuoi romanzi. Doeblin avrebbe la stes-sa difficoltà nella sua berlinese Alexan-derplatz. Victor Hugo non troverebbepiù Gavroche da mandare sulle barrica-te. Parigi si è sproletarizzata. Zola sa-rebbe smarrito. Céline ritroverebbe lasua periferia, ma abitata da un mosaicodi comunità, per lo più africane. Allamattina fiumi di uomini e donne si ri-versano nei centri delle metropoli, e lasera ritornano nelle periferie o nellecittà satelliti. Restano in alcuni quartie-ri gli immigrati addetti ai servizi. Spessosono diventati cittadini con tutti i dirit-ti formali, ma soggetti a innumerevolidiscriminazioni. Sono i servitori dellemetropoli in cui gli abitanti privilegiativotano per sindaci progressisti. A Lon-dra come a Parigi e a Berlino.

* * *

Topografo meticoloso e passeggiato-re sonnambulo, Patrick Modiano è unodegli ultimi moicani: è uno scrittore chefa ancora della sua città, Parigi, la prota-gonista dei suoi romanzi. Una Parigi unpo’ opaca, angosciata, con lo sguardorivolto al passato, uno sguardo che nonsi alza per ammirare la Torre di Mont-partnasse o i grattacieli della Defense.Modiano è uno dei pochi parigini in gra-do di capirmi quando indico i marcia-piedi ben lastricati come il principalemotivo per cui vale la pena di vivere (nelmio caso da più di trent’anni) nella suametropoli. Nella Parigi che è la sua pas-sione. Una passione doppia: perché èsofferenza e attrazione. Da decenni lapercorre portando sulle spalle la crocedi un passato che non è neppure il suo,che è precedente alla sua nascita. Tuttii libri di Modiano sono lunghi itinerariparigini. La sua letteratura (magnetica,secondo un critico letterario) è anche ilfrutto di interminabili passeggiate, cre-do notturne.

Egli parte dai boulevards periferici: vada Place de L’Etoile a Denfert-Roche-reau in Chien de printemps; percorre l’A-venue des Ternes in Une Jeunesse, Bou-levard Soult in Voyage de Noces, l’AvenuePaul-Doumer in De si braves garçons; at-traversa le Tuileries in Quartier Perdu;passa da Pigalle in Vestiaire de l’enfance;si ferma sul Quai Conti in Un cirque quipasse. In Pedigree, l’ultimo romanzo, c’èla drammatica sintesi di quelle cammi-nate sui marciapiedi di Parigi popolati difantasmi usciti dalle rovine del ‘45, dallaFrancia occupata dai nazisti, ai qualiModiano dà la caccia da decenni.

La toponomastica ritma le pagine diModiano. Crea l’atmosfera. I nomi deiquartieri, i numeri degli arrondisse-ments precisano la condizione sociale,sollecitano un ricordo storico, evocanola trama di un classico della letteratura.Attraversando la città, camminando suimarciapiedi larghi, lastricati con blocchisquadrati di pietra da taglio, o tappezza-ti con asfalto duro ma elastico, entri nelmito di Parigi, di Londra, di Berlino. Gra-zie a loro la metropoli diventa il granderomanzo che non c’è più.

Patrick Modiano, passeggiatore sonnambulo,è uno scrittore che riesce ancora a faredi Parigi la protagonista dei suoi romanziUna Parigi opaca, angosciata, lo sguardorivolto al passato, dove la toponomasticadà il ritmo e crea l’atmosfera

catastrofe delle feste

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Il raccontoPrimi e ultimi

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nedy, fin troppo chic e in posa, quel toccodi spontaneità e di tenerezza domesticache fa, appunto, Natale. La mistica ken-nedyana esplodeva in pieno grazie a loro,quando a John John e a Caroline BabboNatale portò in regalo una slitta e compli-ce il tempo, che trasformò il giardino dellaCasa Bianca in una sequenza da Zivago, idue bambini si divertirono a farsi trasci-nare sulla neve dal cavallo della madre,Macaroni. Il Natale successivo lo avrebbe-ro trascorso da orfani, mentre il successo-re del papà, Lyndon Johnson, spediva au-guri natalizi listati di nero, primi e unicinella storia americana, per ostentare ilproprio pubblico lutto.

Per salvarsi, per ritagliarsi una brace dicalore famigliare, si deve scappare daquella Casa Gelida. Truman tornava aKansas City, da dove era partito comecommesso di abbigliamento, e riuniva inalbergo i vecchi amici cantando ballateaccompagnato dalla moglie al pianofor-

te. I Clinton volavano a Camp David, nelrifugio alpino dell’aquila americana, inMaryland. Carter correva a Plains, la suaBetlemme in Georgia, per gustare la tortadi zucca e noccioline preparata dallamamma Lilian. Kennedy tornava natu-ralmente nel tempio di famiglia a Hyan-nisport. Bush si nasconde nel ranch texa-no di Crawford, dal quale finge di spedirei biglietti di auguri che portano tutti il tim-bro dell’ufficio postale del paese. Que-st’anno si porterà dietro da Washington ilmagone dell’Iraq e di questa misteriosa«nuova strategia per la vittoria» che ci ri-velerà in gennaio. Laura ha convinto an-che le figlie, le gemelle, a esserci que-st’anno perché papà è un po’ scosso dal-la brutta vicenda politica e militare e habisogno di calore prima di tornare nel ge-lo della capitale, dove ormai risiede daestraneo. Probabilmente preferirebbeun Capodanno con le emorroidi, piutto-sto che con l’Iraq.

“Non siamo quiper divertirci”Così Nixonrimproveravai giovani assistentiche il 31 dicembresi presentavanocon fez di cartonee trombette

WASHINGTON

Erala notte della pace sulla Ter-ra, nella Casa Bianca del 1978.Appena quattro mesi primaJimmy Carter aveva strappa-

to il miracolo dell’abbraccio fra Begin e Sa-dat, tra Egitto e Israele, e nella Sala blu alpianterreno, le 550 lucine dell’albero de-corato personalmente da Rosalynn Cartergettavano chiazze di luce allegre persinosul ritratto arcigno di Benjamin Harrison,il primo Presidente che avesse fatto l’albe-ro di Natale dentro la Casa Bianca, nel1889. Al piano superiore l’orchestrina deiMarines in alta uniforme eseguiva conmarziale puntigliosità le lagne di stagioneper gli ospiti a cena. Sarebbe stato il per-fetto presepe di un “Power Christmas”, diun Natale dei potenti con ministri, consi-glieri, dame ben infrollite della high so-ciety e finanzieri, se non fosse stato per undettaglio. Mancava proprio l’uomo piùpotente del mondo. Gli ospiti guardavanonervosi Rosalynn che sorrideva rassicu-rante e alludeva a un «leggero incidente»occorso al marito mentre saliva la scalina-ta.

Che cosa fosse stato il «leggero inciden-te», lo rivelò inopinatamente poche oredopo il presidente egiziano Anwar Sadat,spiegando al mondo che «il caro Presiden-te americano, amico della pace e della na-zione egiziana, è stato colpito da un attac-co di emorroidi, dal quale preghiamo il Mi-sericordioso affinché si risollevi presto». Ilpensiero, la premura, la preghiera eranobene intenzionati, ma il Natale della pacepassò per sempre alla storia come il «Na-tale delle emorroidi». Un fatto che lo stes-so Carter ammise poi nelle proprie me-morie aggiungendo che gli estintori far-macologici avevano risolto la crisi in ospe-dale e gli avevano permesso di tornare al-la Casa Bianca il giorno dopo, il 25 dicem-bre, per festeggiare con Rosalynn e la figliaAmy. «Fu il più bel regalo natalizio cheavessi mai ricevuto», scriverà con humourfreddo.

Carter era un uomo sfortunato. Ma an-che senza umilianti varici, le feste coman-date di fine anno alla Casa Bianca non so-no mai un divertimento, soprattutto per legeneralesse, le first lady. Dietro quelle fotoufficiali di elegantissime signore (esclusaEleanor Roosevelt, che appare sempre ve-stita come una suffragetta appena tornatada una manifestazione), di presidenti gio-viali e di frotte di marmocchi propri o pre-si in prestito, le “Holidays at the WhiteHouse” sono un’operazione paramilitareche comincia molto prima che gli spot ag-grediscano i nostri televisori con zampo-gne, palline e offerte speciali. Per Jacqueli-ne Kennedy, che considerava ogni eventopubblico come una prima alla Scala, lascelta dell’abito per Natale e del menù perSan Silvestro (zuppa vichyssoise obbliga-toria, per dare quel tocco francese come ilsuo cognome Bouvier) cominciava in lu-glio, anche se il destino volle che lei tra-scorresse appena due Natali in quella ca-sa maledetta, quello del 1961 e del 1962.Per l’inquilina di oggi, la signora Laura Bu-sh, la decisione sull’architettura della im-mancabile gingerbread house, la casa dipan di zenzero decorata con la neve di zuc-chero glassato, è cominciata quest’annoaddirittura in giugno e la compilazionedella lista degli ospiti ai dodici party nata-lizi l’ha tenuta occupata da agosto. Averequindicimila persone in due settimane acasa propria, con un solo ospite fisso, l’uf-ficiale con la valigetta dei codici nucleariincatenata al polso, non è il paradigmadella tenerezza famigliare che il Natalevorrebbe.

Soltanto Ronald Reagan, accanto allasua Nancy drappeggiata negli abiti d’oc-casione (sempre rossi, anche lei comeJackie) tagliati in esclusiva da Oscar de laRenta e da Alphonse di Beverly Hills, riu-sciva a fingere di divertirsi, sguainando ilsorriso da provino hollywoodiano. Men-tre Richard Nixon si faceva ritrarre accan-to alla moglie e alle due figlie Tricia e Julie,sempre con l’aria di chi avrebbe preferitoun attacco di emorroidi a quei quadrettifamigliari forzati. John Kennedy tenevaostinatamente le mani sprofondate nelletasche della giacca, di fronte all’abete di tremetri e mezzo che la First Lady aveva de-corato nel 1962 con nastrini e ritagli di car-ta inviati da bambini orfani, appendendo-li personalmente, come Reagan fingeva difare facendosi fotografare in maglioni we-stern a motivi equestri, come se un presi-dente avesse tempo di appendere cinque-cento pendaglini all’albero.

Ma il dovere è dovere e una prima fami-glia alla Casa Bianca è «sempre in servizio,anche quando va a fare pipì», come dicevaLyndon Johnson, in verità usando un’e-spressione più pungente. «Non siamo quiper divertirci», rimproverava Nixon ai gio-vani assistenti che si presentavano il 31 di-cembre con fez di cartone, coriandoli etrombette di carta, nella speranza che al-meno la ricorrenza lo addolcisse. Daquando la celebrazione della convenzio-nale Natività di Gesù è divenuta uno showobbligatorio, ogni anno si complica e si fa

VITTORIO ZUCCONI

più difficile, pattinando sul ghiaccio sotti-le della political correctness e della sepa-razione fra Stato e Chiesa. Bandito da tem-po il Buon Natale, troppo cristiano, ab-bandonato anche il più generico HappyHolidays, perché holiday significa co-munque “santo giorno”, anche i più fiericrociati come Bush devono ricorrere al pi-randelliano Season Greetings, “auguri distagione”, e che ciascuno li legga come glipare. Non ci sono presepi, di conseguen-za, soltanto l’albero nazionale, l’abete-to-tem che ogni presidente deve accenderesullo spiazzo pubblico oltre il giardino, daquando lo fece Franklyn Delano Rooseveltnel 1941 per sollevare il morale di una na-zione che poche settimane prima aveva ri-cevuto la tremenda mazzata di Pearl Har-bor.

Soltanto i bambini, naturalmente, rie-scono a salvare le sante o laiche feste del Si-gnore americano. Erano loro, John John eCaroline, che davano al Natale dei Ken-

Il brindisidel potere

nella CasaGelida

La slitta di Caroline e John John, i vestitirossi di Nancy Reagan, le emorroididi Jimmy Carter. Breve storia delle festecomandate di fine anno nella White House,la gabbia dorata dell’Aquila americana

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47DOMENICA 31DICEMBRE 2006

Le amare festività del “sans papier” Milan,che - come altri diciottomila sloveni - ha persola cittadinanza per un cavillo amministrativoall’indomani dell’indipendenza. E da allorasopravvive allo sbando, escluso da ogni diritto

gogna. Ho vagato per giorni, dormivosulle panchine, temevo di essere arresta-to per qualcosa. Ma non capivo che co-sa».

Gli avevano già tagliato la luce, porta-to via il lavoro e l’assicurazione malattie,ma fino a quello sfratto coram populo luiaveva ostinatamente pensato a uno sba-glio. Sapeva che, causa i suoi viaggi permare, non aveva fatto a tempo a spedirequella fottuta domanda di cittadinanza,ma era certo che tutto si sarebbe chiari-to. «Ero sempre vissuto qui, i miei geni-tori erano sloveni, avevo votato l’indi-pendenza del mio Paese, avevo anchecombattuto contro l’Armata federale ju-goslava. Ero stato studente modello eavevo lavorato per il mio Paese». MaMakuc sottovalutava una “macchia” nelpedigree. Era nato in Istria meridionale,cioè Croazia, perché ai tempi di Tito suopadre c’era andato come minatore perqualche anno. Non sospettava, Milan,

che solo per questo il suo nome fosse sta-to segretamente cancellato dall’elencodei residenti permanenti, in nome delDio Nazione.

Andiamo in un bar tremolante di lu-mini natalizi. Fuori, l’Adriatico è striatodi schiume. Per Milan non è più tempodi panettoni. Da quando ha il cancro,non riesce a mangiare niente di solido.Deglutisce a fatica un tè alle erbe e con-tinua, ansimando, il suo racconto. Ecco:a un tratto si rende conto di non esiste-re, di essere un “desaparecido”. Non hapiù passaporto, può essere espulso inogni momento. Smette di protestare, inComune gli hanno detto che è finita.Racconta ad altri la sua storia, ma nes-suno gli crede. Lui stesso non ci crede.Sopravvive di carità, ma l’amarezza e lostrapazzo gli producono lesioni alle os-sa, poi un eczema alla bocca. Non dormepiù, si arrovella. Come in un racconto diKafka, è sicuro di essere vittima di una

mato cittadino di Pirano. Oggi è un clan-destino in patria. Per anni ha dormitosulle panchine del suo quartiere e ha vis-suto della carità dei vicini. E per anninon ha trovato medici che lo curassero,finché il cancro è diventato un cavolfio-re.

Sulla riviera della piccola Montecarloslovena ragazze alte ancheggiano colrosso cappello di Babbo Gelo, la Sloveniagongola perché da domani, primo gen-naio, diventa Europa anche come mone-ta. Milan non ci fa caso. Arranca versoquella che è stata la sua casa, in via deiCombattenti, poco oltre lo yacht club.Oggi ci abita un’altra famigliola, al caldo,col suo albero di natale. Racconta: «Èsuccesso nel ‘94. Tornando a casa, ho vi-sto due auto della polizia. Mi stavanosvuotando l’appartamento. Buttavanotutto nei bottini delle immondizie. An-che i documenti. Volevo gridare, inveceho pianto. Mi sono nascosto, per la ver-

Niente più casané lavoro,passaporto, pensione,assistenza malattieCosì uno stimatoabitante di Pirano,con l’unica “colpa”di essere natopur sempre in Istria,ma in zona croata,è stato trasformatoin un barboneda una burocraziaaccecatadall’odioetnico e dal razzismo

na patriadi cartoneal ventodella Storia

PIRANO (Slovenia)

Milan è un “sans papier”fortunato. Per Nataleha avuto un tetto, dopododici anni di vita nei

cartoni. Una stanza di due metri per tre,in fondo a un corridoio gelido, col cessointasato, ma pur sempre una stanza. Dipomeriggio, quando tira la bora, può fic-carsi sotto una montagna di coperte edormicchiare fino al mattino dopo, ac-canto a una radiolina. L’inverno è unabrutta bestia; per venirne fuori sta di-ciotto ore a letto, ogni giorno, feste com-prese. Per lui Natale e Capodanno sonogiorni come gli altri; anzi, peggio deglialtri. Le feste — si sa — fanno bene a chista bene, male a chi sta male. E MilanMakuc — celibe, anni 59, ex cameriere dibordo — sta peggio che male. Ha un can-cro in bocca che gli sfigura il volto comeuna maschera greca e fa di lui l’icona ter-ribile dell’insulto che ha subito.

Nessuno gli crede quando racconta lasua storia. Milan non è un relitto dellaguerra jugoslava. Non è un bosniaco oun kosovaro in terra straniera. È uno slo-veno, cancellato dall’anagrafe per averdimenticato — nel 1992 — di re-iscriver-si alla propria nazionalità dopo l’indi-pendenza del Paese. Per questa svista glihanno tolto tutto: appartamento, lavo-ro, passaporto, diritti civili, pensione,assistenza malattie. Quindici anni fa,prima che una burocrazia fascista lo tra-sformasse in barbone, Milan era uno sti-

PAOLO RUMIZ Ucongiura, perseguitato da un singolo,sadico funzionario.

E invece non è così. Nessuno sa che cisono migliaia di disperati nelle sue con-dizioni. “Sloveni impuri”, con piccoli“nei” nella “fedina etnica”. E tutti, comelui, convinti di essere uniche vittime diun singolo mostruoso errore. Il signorMakuc lo scopre appena nel ‘99, quandola Corte costituzionale di Lubiana inti-ma al governo di annullare le cancella-zioni e di reintegrare i cittadini nei lorodiritti, con effetto retroattivo. Il governofa finta di niente e non legifera. Ma in-tanto comincia a venire a galla l’abomi-nio. La storia di una pulizia etnica raffi-natissima e senza sangue. Quella dei“cancellati”.

Si scopre che le persone tolte segreta-mente dai registri nel ‘92 erano state di-ciottomila. Rapportate al totale dellapopolazione, in Italia equivarrebbero amezzo milione. Poi con gli anni la que-stione s’è in parte risolta da sé. Oltre die-cimila ce l’hanno fatta a mettersi in re-gola. Altri si sono tolti di mezzo da soli:suicidati o morti di stenti. Altri erano giàstati deportati in Croazia e risucchiatisenza ritorno dalla guerra. Per i rimasti èl’inferno: vagano per l’Europa comeapolidi, o vivono in Slovenia comeschiavi, lavorando gratis in cambio di unletto. Altri si nascondono in tuguri, so-stenuti dalla carità. La mannaia ha col-pito a casaccio, ha spaccato persino lefamiglie, dato la cittadinanza a uno solodei coniugi o a uno solo dei figli. Tutto ècosì inaudito che nemmeno a Bruxellesci credono. Dicono: non possono esiste-re profughi di un paese dove non c’èguerra. Nessuno pensa che la giovanedemocrazia mitteleuropea possa esser-si macchiata di una simile porcheria. Glisloveni per primi ne sono convinti.

Milan s’illude che sia finita, chiede alComune di riavere i documenti, ma locacciano via. A Lubiana il governo nonmolla. Lo scheletro nell’armadio è trop-po grande per essere ammesso. E poichéin troppi hanno coperto l’oscenità, a de-stra come a sinistra, il parlamento fa unfuoco di sbarramento e parla di monta-tura, congiura antislovena, nemico in-terno. L’11 settembre 2001 sposta pote-ri ancora più discrezionali sulla polizia,che in Slovenia controlla l’anagrafe equindi può espellere chi vuole. Il Paesesembra una Padania indipendente conla Lega al potere: espulsioni arbitrarie,ronde anti-zingari con fucili, cortei raz-zisti, esami di lingua agli individui etni-camente sospetti. La Chiesa, impegnataa ricuperare dal governo il patrimoniorequisito dai comunisti, tace per oppor-tunismo. E per i “sans papier” la clande-stinità continua.

Nel bar entra un postino intabarrato,le vetrate tremano nel vento. Milan ha ilfiato corto, raccontare lo stanca. Non haacrimonia, e poi per la prima volta daqualche mese ha cominciato a sperare.Una brava assistente sociale gli ha datouna mano; un medico impegnato nel-l’assistenza barboni a Lubiana lo ha fat-to ricoverare nel miglior centro clinicodel Paese. Ora è operato da poche setti-mane, la sua storia è finita sui giornali, eda Lubiana gli hanno fatto avere il docu-mento di residenza permanente, primopasso verso la regolarizzazione. Peraverlo, ha dovuto portare tre persone atestimoniare le sue radici. Cerca di sor-ridere, ma gli viene una smorfia: «Pensa,tre testimoni — dice in veneto — per miche conosso qua ogni buseto de graia»,per me che conosco ogni angolo di que-sta campagna.

Gli suona il cellulare, sono i compagnidi sventura in assemblea a Lubiana, inuna fabbrica abbandonata di biciclette.In un capannone hanno messo un albe-ro di Natale, anche per gli ortodossi checelebrano il 6 gennaio. Con loro c’è Ur-sula Lipovec, una bionda antropologaincinta di nove mesi che, col suo com-pagno italiano Roberto Pignoni e gliamici del Movimento antirazzista slove-no, ha portato il caso al Parlamento eu-ropeo e alla Corte dei diritti umani diStrasburgo. Ora i cancellati sono diven-tati movimento, hanno un leader checompare in tv. E Milan, con la sua ma-schera, è diventato il simbolo di una bat-taglia europea contro l’esclusione.

«Ce la faremo» dice, per la prima voltaal plurale, quando ci separiamo. E poi,prima di zoppicare via: «Mi telefoni ognitanto».

Repubblica Nazionale

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la memoria

ribattezzato della Repubblica e delle Arti debutta La Crea-

zione di Haydn. Sul palco centrale, hanno scritto i giornaliparigini, siederà Napoleone.

Napoleone ha trentuno anni, molti nemici, molto onore,ma non ancora tutto il potere. Ha messo in fuga gli inglesi aTolone. Ha battuto i piemontesi a Millesimo. Gli austriaci aMarengo. Ha conquistato Milano, Venezia e l’Egitto. Hasguinzagliato attraverso l’Europa le idee che hanno sbricio-lato le mura della Bastiglia, annunciando la fine delle disu-guaglianze feudali, dell’intolleranza religiosa e di tutte le ti-rannie dell’Ancien Régime. Ma in patria è il potere assolutoche cerca e che pretende: ha appena liquidato il Direttorio,coltiva la propria gloria, prepara il trono dell’impero. Così haraddoppiato i nemici: per aver tradito la Rivoluzione lo vo-gliono morto i giacobini; e tutte le case regnanti per averlaesportata.

Il segnale dice che la carrozza è in vista. Il tuono del ga-loppo lo conferma. L’innesco è acceso. Ma l’umidità dellanotte lo rallenta: la carrozza corre più veloce della miccia. Equando il barile e i ferri esplodono, la carrozza ha già volta-to l’angolo di rue du Faubourg Saint-Honoré. Viene feritol’ultimo granatiere che chiude la scorta di Napoleone e muo-re il primo cavallo della carrozza che segue, quella della mo-glie Joséphine che sviene. In quell’intervallo di spazio, lastrage. Muoiono i passanti, i clienti del café, due donne allafinestra, ventidue persone in tutto. E di Pensel, la ragazzina,restano pezzi di carne sulla strada, tra i legni del carro sbri-ciolato, la testa intera del cavallo e altri cinquantasei feriti.

È il sangue del nuovo secolo che proprio la notte di Nata-le inaugura la parola “terrorismo”. È “la macchina inferna-le”, come diranno le gazzette disegnando l’esplosione in pri-ma pagina, che dall’ombra versa il sangue innocente, feriscealle spalle la Francia e adesso chiede vendetta.

Napoleone accusa i giacobini. E in particolare un gruppochiamato Les Exclusifs. Scatena il pallido Fouché, ex semi-narista, ex rivoluzionario, amico di Robespierre e adesso diNapoleone, ministro di polizia, re di tutte le spie, re di tutti itradimenti. «Ci vuole un po’ di sangue», detta il Primo con-sole al Consiglio di Stato. Il Senato ratifica. Fouché esegue.

Natali di sangue È un attentato quasi dimenticato,quello del 24 dicembre 1800Eppure poteva cambiare il corsodei secoli a venire e inauguròle atrocità del moderno terrorismodi massa: un barile pieno di polvereda sparo, sassi e chiodi esplosenel centro di Parigi al passaggiodella carrozza del Primo consoleLui si salvò, morirono in ventidue

PARIGI

La carrozza di Napoleone Bonaparte passò al ga-loppo un minuto prima dell’esplosione cheavrebbe potuto cambiare il mondo e i secoli a se-guire. Parigi si infiammò all’istante, illuminan-

do urla, polvere e morti accatastati. Poi l’aria gelò. Tre con-giurati erano in fuga. La notte era in frantumi, ma non laFrancia, non Napoleone che entrò indenne e furibondo nel-la splendore di cristallo del Teatro dell’Opera. Tutti si alza-rono per lo spavento e per l’applauso: il Primo console è vi-vo e questa è la sua notte, la notte di Natale, anno XI dalla Ri-voluzione, 24 dicembre 1800.

Napoleone è vivo per un colpo di mano del destino e perl’acquavite che ha riscaldato i muscoli del suo cocchiere Cé-sar Germani, che ha frustato più del solito le due coppie dicavalli lanciandole lungo i giardini delle Tuileries e poi nel-la strada stretta dell’agguato, rue Saint-Nicaise*, in un fra-stuono completo di ruote che scheggiano il selciato, fannovibrare le vetrine dell’orologiaio Lepautre e tutti i passantiimprigionati dal freddo e dalla luce gialla dei lampioni.

I congiurati aspettano da ore. Hanno piazzato un barile dipolvere nera e chiodi su un carro davanti al Café Apollon, trail cappellaio Ometz e il parrucchiere Vitry. Uno di loro ha in-gaggiato una ragazzina che in rue du Bac vende piccoli paniai passanti. Si chiama Pensel, ha quattordici anni, indossauna gonna pesante blu e bianca, una casacca di lana grigia.Per dodici soldi deve fare la guardia al cavallo in modo chenon si sposti con il carro e con il barile di polvere esplosivache tra un po’ la ucciderà.

Quella di Napoleone è la prima di quattro carrozze. Viag-gia con il ministro della guerra Berthier, con il generale JeanLannes e il colonnello Lauriston, il suo aiutante di campo.Nella seconda carrozza ci sono la moglie, Joséphine deBeauharnais, e la sorella Caroline, incinta all’ottavo mese.Nelle altre viaggia il seguito. Ai lati galoppa la scorta di gra-natieri. Alle otto di quella sera al Teatro dell’Opera appena

PINO CORRIAS

48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 31DICEMBRE 2006

La vittima più giovane ha quattordici anni,è una ragazzina di nome Pensel

che vende pane per strada in rue du BacUno dei terroristi l’ha ingaggiata per badareal cavallo e al carro che nasconde la bomba

Repubblica Nazionale

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La ghigliottina torna in piazza. Tornano in piazza i plotoni. Isuoi uomini imprigionano centotrenta giacobini sospetti. Esenza processo li imbarcano verso le colonie penali dellaGuyana e delle Seychelles da cui non torneranno mai più.

Ma quel che risarcisce Napoleone non accontenta Fou-ché, il quale incarica il suo migliore investigatore, il prefettoDubois, di cercare la luce nel buio, seguire gli indizi della ve-rità e non gli inganni della propaganda. Si riparte dalla rueSaint-Nicaise, dai resti del carro e dalla testa del cavallo ag-giogato. Un tale Lamballe, mercante di grano, dichiara diaver venduto per duecento franchi proprio quel carro e quelcavallo a un ambulante che diceva di commerciare zucche-ro. Non lo aveva mai visto prima, ma ricorda il mantello, ri-corda l’accento bretone, il corpo tozzo e specialmente la fac-cia, con la barba nera e una grossa cicatrice che gli spacca ilsopracciglio.

Venticinque giorni dopo l’attentato, il 18 gennaio, il fan-tasma ha i ferri ai polsi. Si chiama Jean Carbon, detto PetitFrançois. Lo arrestano dentro alle mura del convento di No-tre-Dame des Champs, dove si era rifugiato. Ma non è affat-to un giacobino. È un fervente monarchico che sogna LuigiXVIII sul trono e l’usurpatore còrso nella polvere.

Lo interrogano con il fuoco e le tenaglie. Gli estraggonotutti e sette i nomi della congiura e abbastanza sangue damaledire la vita. Due nobili stanno in cima al complotto:Pierre Robinault de Saint-Réjant, ex ufficiale della Marinareale, e Joseph-Pierre Picot de Limoëlan, veterano dellaguerra di Vandea. Hanno ricevuto ventimila sterline dagliinglesi e istruzioni da Georges Caudoudal, monarchico, chei servizi segreti britannici hanno riportato clandestinamen-te in Francia per uccidere Napoleone.

I congiurati hanno impiegato due mesi a perfezionare ilpiano, scartando il veleno o il pugnale, come gli odiati gia-cobini — lo scultore italiano Arena, i rivoluzionari Topino-Lebrun e Demerville — arrestati e adesso pronti per la ghi-gliottina, avevano tentato cinque mesi prima. Hanno sceltodi usare la polvere da sparo, ma in forma di bomba, riem-piendo un intero barile, aggiungendo i chiodi e i sassi perrenderla micidiale e poi sigillarla con dieci grossi anelli di

Il futuro Imperatore dei francesiaveva molti nemici e l’indagine seguìdue strade diametralmente opposteLa prima, a fini di propaganda, colpìi giacobini: centotrenta di loro,senza processo, vennero imbarcatiper le colonie penali della Guyanae delle Seychelles. La seconda scoprìla verità: i congiurati, nostalgicidella monarchia, furono ghigliottinati

ferro. La certezza di uccidere uomini e donne innocenti nean-

che li sfiora. Anticipano il peggio dei secoli a venire inaugu-rando l’attentato di massa. Napoleone è il male assoluto. Ela ferocia è il suo rimedio. Dirà Saint-Réjant al processo: «Lapolvere e la miccia non erano buone quanto avrebbero do-vuto. Lo sbaglio è lì. Non nel complotto. E neppure nel pia-no».

È lui con Carbon che quel pomeriggio del 24 dicembre in-dossa la blusa dei carrettieri e parcheggia il carro a metà del-la strada. È Limoëlan che intorno alle sette di sera ingaggiala più innocua tra la folla degli ambulanti, Pensel, la ragazzi-na, con i suoi pani in vendita. Deve solo tenere a bada il ca-vallo. Un’ora, dodici soldi, mentre lui, in fondo al carro, ca-rica e scarica. Intanto Carbon e Saint-Réjant vanno all’im-bocco della via per il segnale. Ecco, ci siamo. Appena il tem-po di accendere la miccia nascosta, dire alla ragazzina di nonmuoversi, allontanarsi senza correre. Poi l’ondata dei caval-li che il cocchiere Germani sprona. Gli evviva dei passantiche hanno riconosciuto Napoleone. Anche se Napoleone,che ha imparato a dormire a comando, si è appena addor-mentato. Poi il tuono, la luce, l’aria rovente. E il nero.

Carbon e Saint-Réjant saliranno sul patibolo in place deGrève il 21 aprile 1801. Hanno il volto coperto da una stoffanera che il boia gli sfila prima di farli inginocchiare davantialla ghigliottina. Tutti e due gridano «Per il re!» e muoiono in-dossando la camicia rossa dei parricidi.

Limoëlan non verrà mai catturato. È riuscito a imbarcarsiclandestino per gli Stati Uniti d’America. Lo consuma il ri-cordo di Pensel, la ragazzina. Nel 1816 si fa frate. Entra inconvento. Rispetterà per sempre la regola del silenzio, per-seguendo l’oblio. A eccezione di ogni 24 dicembre, anniver-sario della strage. Quando andrà a sdraiarsi davanti all’alta-re per piangere, al buio, il tuono di Parigi e gli occhi di Pen-sel. Per tutta la notte, aspettando il Natale.

* La rue Saint-Nicaise oggi non esiste più. Il luogodell’attentato corrisponde, più o meno, a dove

è stata collocata la statua di Léon Gambettadentro ai nuovi confini dei giardini delle Tuileries

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 49DOMENICA 31DICEMBRE 2006

L’uomo che l’ha ingaggiata per dodici soldiè un nobile: Joseph-Pierre Picot de Limoëlan

Riuscirà a imbarcarsi clandestinamenteper l’America ma finirà per farsi frate,

tormentato dal ricordo della piccola Pensel

L’ILLUSTRATORE

Mauro Evangelista, illustratoredel numero odierno della Domenicadi Repubblica (tutte le illustrazioni sonorealizzate a tecnica mista), è natoa Macerata nel 1963. Uno zio pittorelo avvicina all’arte fin da bambino. Poi,dopo il diploma artistico, si trasferiscea Venezia per frequentare l’Accademia.Qui avviene un incontro “fondamentale”per la sua formazione: le lezioni di EmilioVedova, “uno shock per potenzae libertà del segno”. Di ritornoa Macerata, attraverso l’operadi Stephan Zavrel, inizia a guardarel’illustrazione con occhio professionale.Gli interessa ricreare la stessa “magiada favola” che lo incantava da bambino.Dopo una parentesi nella pubblicità,decide così di dedicarsi ai libriper ragazzi. Le pubblicazionisi susseguono numerose, in Italia (tra glialtri, per Gallucci e Fabbri) e all’estero(Grimm Press, Dorling Kindersley,Penguin, etc.). Evangelista è anchedirettore artistico di “Libriamoci”,progetto didattico e mostradi illustrazione per ragazzi di Macerata,città in cui vive e lavora.

graziò Napoleonela notte santaE

Buone festee buona lettura

Variazioni selvaggeHélène Grimaud

Traduzione di Patrizia Farese

Collana «Varianti», 2006pp. 169, euro 18,00

Bollati Boringhieri editore

Una pianista bella, talentuosa e di fama mondiale incontra il mondo selvaggio e misteriosodei lupi e se ne innamora.Sembra una favola di Natale ma è una storia vera, già bestseller in Francia e Germania,che vi appassionerà.

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il viaggioFesta nomade Un tuffo nella morte, un ritorno alla vita

quasi miracoloso. Poi un oceanoe un continente lasciati alle spalle per trovareil veggente capace di indicargli la verità,di vedere il volto del suo assassino nel buio

50 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 31DICEMBRE 2006

mento come quinta. Perfino con diecigradi sottozero, i funghi caloriferi sulpalco e il pubblico in piumino era straor-dinario. Nel parcheggio uomini insmoking e cappello da cowboy sparava-no tappi di champagne.

Istintivamente portò lamano al torace: un centi-metro più su e avrebbeperforato il cuore, uc-cidendolo, ma anchecosì era vivo per mi-racolo.

Trovò il suo po-

to». Si aggrappò al bancone. Non avevaidea di che cosa stesse parlando.

Prese il biglietto che non aveva maichiesto: era per la Santa Fe Opera House,lo spettacolo di Natale, in programma lasera seguente. Mitridate, di Mozart. L’a-veva scritto a quattordici anni. Che cosasapeva fare suo figlio, a quell’età?

Il vecchio Il Viaggiatore salì in auto all’imbruni-

re. Guidò verso il deserto.Chi aveva costruito l’Opera House era

un genio: un teatro nel nulla, il firma-

L’indiana aveva una t-shirt rossa e jeans neri,cuciti sulla pelle. Gli guardava la mano:la linea della vita era più corta del tempo

che dimostrava, avrebbe dovuto essere mortoda un pezzo. Le chiese:“Per cosa

sono sopravvissuto?”

l cacciatoredi fulminiII

l ViaggiatoreIl Viaggiatore arrivò al tramonto.Parcheggiò la Mustang a noleggioe si avviò all’albergo. Hotel LaFonda: l’aveva scelto perché era ilpiù antico in città, perché ci aveva

dormito JFK in campagna elettorale, masoprattutto perché, a inizio secolo, uncorrispondente di guerra aveva scritto:«Se stai cercando qualcuno a Santa Fe,non lo troverai in nessunaltro posto». Lui stavacercando qualcu-no, verdàd. Avevaattraversato ap-posta l’oceano pri-ma e un continentepoi. Cercava il più pro-digioso veggente d’America:Manny Kline.

Prese la tessera magneticadella sua stanza, ritirò la Visa diplatino, fissò il portiere, che eracalvo con gli occhi così chiari dasembrare, a tratti, trasparenti eglielo disse: «Sto cercandoManny Kline». Aveva let-to molto su di lui, e an-cor più ascoltato: la vol-ta in cui predisse il ter-remoto salvando la ri-serva indiana; quella incui individuò in sogno l’assas-sino dell’attore meticcio; quella in cui ilboss di Los Angeles pretese i suoi servizie ottenne un rifiuto, allora prese la li-mousine blindata, tre scagnozzi e andò acasa di Manny Kline (allora ne avevauna), lo fece trascinare fuori con la pisto-la alla tempia, aspettandolo seduto, ariacondizionata e whisky con ghiaccio, maManny non aprì la portiera, posò unamano sul finestrino, il vetro antiproietti-le andò in frantumi e il boss via di nuovoin California.

Il portiere disse: «Non lo cerchi, saràlui a trovarla».

Aggiunse: «Se vorrà».

L’indianaIl Viaggiatore si svegliò molto tardi,

mezzogiorno era passato. Si affacciò albalcone: indiani in costume svendeva-no perle, incantatori taroccavano il futu-ro e il cielo era vuoto. Il telefono non an-nunciava messaggi. Fece la doccia piùlunga del mondo, adesso che l’acquascivolava sulle cicatrici, lasciando unadomanda: «Chi era stato a sparargli nelbuio?». Indossò abiti di lana per affron-tare l’inverno del New Mexico e uscì conuna sola parola in mente: «margarita». SeManny Kline l’avrebbe trovato senza chefosse lui a cercarlo, tanto valeva che lotrovasse allegro. Attraversò la piazza, en-trò alla “Ore House”, due piani di bar conterrazza, si arrampicò sullo sgabello da-vanti al cameriere e ci prese la residenza.

Quando si era seduta accanto a lui,l’indiana? Fuori era buio, davanti a luic’era un tappeto di gusci d’arachide, i ca-lici si davano il cambio.

L’indiana aveva una t-shirt rossa ejeans neri, cuciti sulla pelle. Gli teneva lamano e ne osservava il palmo: la lineadella vita era più corta del tempo che di-mostrava, avrebbe dovuto essere mortoda un pezzo. Ma questo lo avevano det-to anche i medici, il giorno in cui avevariaperto gli occhi, tornando da una va-canza non pagata. Era così ubriaco dapermettersi di chiederle: «Per che cosasono sopravvissuto?». Lei rispose: «Perandare oltre, immagino». Poi si alzò escomparve. Lui provò a fare altrettanto.Gli ci vollero venti minuti.

Quando rientrò all’hotel il portiere lofermò: «Signore, il suo biglietto è arriva-

DetestoBabbo Natale. Se un giorno decidessi di diventare uno psi-copatico, un serial-killer, la mia serie di vittime sarebbe compo-sta da ex-ministri e ministre della Cultura, e poi da sorridenti cic-

cioni vestiti di rosso e con la barba, e con le loro renne mangerei bistec-che alla brace per un bel po’ di tempo. Anche se la Spagna va bene, co-me dice mio cugino, e siamo europei e internazionali e sgrulliamo il pi-sello al presidente americano quando a quel figlio di puttana viene vo-glia di pisciare sull’Iraq o su qualche altra parte, trovarmi davanti BabboNatale in una strada di Chamberí continua a crearmi le stesse difficoltàche può avere uno dell’Arkansas a ballare il flamenco. Lo so, è qui daquasi trent’anni, è più moderno e trendy dei magi d’Oriente, e con lui,dicono, i bambini si godono più a lungo i giocattoli. Nonostante tutto,quel ciccione con la barba — senza arrivare al limite insopportabile diidiozia di Halloween, che adesso sostituisce anche la nostra secolare

notte dei defunti — continuo a ve-derlo fuori contesto: un gringo mer-cenario reclutato dai grandi magaz-zini per raddoppiare le vendite chevale meno di un escremento delcammello di re Gaspare.

Perché il sottoscritto è stato unbambino monarchico, di quellanotte in cui tre re giungevano dal-l’Oriente per materializzare sogni.Certo, erano altri anni e altri Natali.E io ero un bambino, e i ragazzini ve-dono il mondo, assorbono sensa-zioni, odori, immagini, in modo di-verso dagli adulti. Forse è per questoche tutte quelle cose mi sembranooggi così belle. Ricordo i riflessi diluce delle vetrine sul selciato umidodelle strade, la gente che scendeva

dai tram con il cappotto e la sciarpa, i vigili urbani — con quei meravi-gliosi caschi bianchi che qualche cretino gli ha tolto — e quelle casset-te e bottiglie di vino che gli regalavano gli automobilisti. Ricordo i vil-lancicos alla radio, i tamburi e i tamburelli, e quelle raganelle di legnoche giravano intorno a un perno. Ricordo le mie lacrime e quelle dei

miei fratelli quando ci ritrovammo arrosto il tacchino Federico, cheavevamo fatto ingrassare a casa del nonno. Ma, soprattutto, ricordo levetrine dei negozi, luoghi magici pieni di giocattoli, ai cui vetri noi bam-bini — che non conoscevamo la televisione — schiacciavamo il naso,sognando di possedere uno di quei tesori: il meccano, la bambola dipezza, la pistola di latta, il cavallo di cartone, la scatola di soldatini dipiombo, i giochi assortiti da tavolo Geyper.

Poi, con il tempo, imparai a interpretare altri segni che accompa-gnavano tutto questo e che allora ero incapace di capire: lo sguardo delbambino che osservava la vetrina accanto a me, e che poi, quando ilgiorno dell’Epifania io uscivo a giocare con la mia spada fiammante delCigno Nero, mi guardava fisso, le mani vuote nelle tasche dei pantalo-ni corti. La desolazione della povera donna che usciva dal negozio con-tando i soldi, insufficienti per la bambola che una bambina aspettava.L’uomo con il cappotto logoro, fermo davanti alla vetrina di sogni e lu-ci, che poi se ne andava a testa china, a casa, dove di nascosto, senza far-si scoprire dai suoi quattro o cinque figli, fabbricava con le sue mani,con legno e vernice, l’umile giocattolo che il suo povero salario non gliconsentiva di acquistare... Tutti quegli esseri e quegli sguardi suscita-no oggi in me rimorsi retrospettivi, perché ora so che cosa racchiudes-sero. Ma io, allora, ero un bambino ignorante. Un impertinente ragaz-zino fortunato.

Oggi non esistono più quelle care ombre familiari che scivolavano dinotte ai piedi del mio letto, sapendomi addormentato. Se ne sono an-date quasi tutte, e non possono più proteggermi dal freddo che fa fuo-ri, né ritardare il cancro inevitabile della lucidità. Eppure, quando tor-na di nuovo la notte magica e aspetto sveglio nel buio, sento entrare dol-cemente nella mia stanza da letto tutti quei fantasmi del mio cuore eriunirsi in silenzio, vegliandomi con un sorriso.

Per questo, quei tre tipi vestiti con porpora da guardaroba teatrale ecorone di carta dorata, che a dispetto di Santa Claus e del primo imbe-cille che lo portò, della modernità, delle serie televisive americane e ditutto il parafernalia, continuano a scendere in strada ogni 5 gennaio,con tre cammelli e due palle così, costituiscono l’unica causa monar-chica alla quale davvero aderisco pienamente e senza condizioni, conspada e daga. E al diavolo il ciccione straniero.

Traduzione di Luis Moriones Brugo© Arturo Pérez-Reverte, XL Semanal 2006

GABRIELE ROMAGNOLI

ARTURO PÉREZ-REVERTE

Il lungo sentierodi Re Gasparee degli altri Magi

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Il Viaggiatore aveva sceltol’Hotel La Fonda:se cerchi qualcunoa Santa Fe, non lo troveraiin nessun altro posto...

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 51DOMENICA 31DICEMBRE 2006

Chi aveva costruito l’OperaHouse era un genio:un teatro nel nulla,il firmamento come quinta,in platea dieci gradi sottozero

sto: accanto gli sedeva un uomo così vec-chio che gli parve impossibile fosse arri-vato fin lì con le sue gambe.

Eppure si alzò perfino in piedi per far-lo accomodare, esibendo un portamen-to militare. L’opera parve assorbirlo. IlViaggiatore, invece, era sperduto, fatica-va a seguire la storia. Questo Mitridateera un re, sconfitto dai romani. Avevadue figli che si disputavano l’amore del-la stessa donna e quando lui tornava alsuo regno scopriva che... il primo atto erafinito. Si unì agli applausi per inerzia. Re-stò seduto, accanto all’uomo troppo

vecchio.«Piaciuta?», si sentì chiedere. Ammi-

se difficoltà. Il vecchio scosse il capo:«Lei cerca il senso nell’insieme, ma èsolo un particolare a poterglielo dare».Si alzò senza fatica, lasciò sul sedile l’o-puscolo che aveva in mano e si allon-tanò. Il Viaggiatore restò solo. Guardòdavanti a sé. Stelle, aria carica di elettri-cità. Notò l’opuscolo abbandonato alsuo fianco. Era una guida del NewMexico, aperta alla pagina sul “Ligh-ting Field”, il campo dei fulmini: qua-rantotto chilometri a nord-est di Que-

mado, quattrocento aghi d’acciaiopiantati in un fazzoletto di terra da uningegnere italiano, Walter De Maria,cinque tende per passarci la notte, soli,e vedere l’effetto che fa quando si sca-tena il temporale.

Uscì dal teatro anzitempo: l’indoma-ni notte, solo questo sapeva per certo,non avrebbe dormito all’Hotel La Fon-da. E sotto una tempesta elettricaavrebbe forse sognato, come MannyKline, il volto dell’assassino.

L’uomo senza volto La mattina seguente aprì il giornale: i

meteorologi prevedevano il sereno, madecise di partire ugualmente. Quandopagò il conto il portiere calvo gli auguròbuon viaggio. Aggiunse: «Veda di arri-vare prima della tempesta». Risalì sullaMustang impolverata, direzione sud.

Arrivò al “Campo dei fulmini” per ul-timo. Le altre quattro tende erano giàoccupate, gli dissero. Da chi, non loseppe mai. Entrò nella sua, depose ilbagaglio, uscì a fare una passeggiata.

Nessuno si fece vedere. Un vento leg-gero scuoteva la stoffa dei coni

colorati piantati a terra, l’in-gresso di uno parve aprirsi

per un istante, poi il lem-bo si ripiegò sull’assen-za. Gli snelli pali d’ac-ciaio vibravano.

Nell’aria promesse etimori. Poi, solo silen-zio. Andò a dormirepresto, confuso. Lo sve-

gliò il tuono.Scostò l’ingresso della

tenda e uscì. Pioveva a di-rotto. I fulmini crepitavano,

accendendo di luce traspa-rente i quattrocento pali del

Campo, la scultura dell’ingegne-re italiano prendeva energia e vita.

Quando il temporale finì si trovò,fradicio, accanto a una tenda che non

era la sua. La voce dall’interno dissesoltanto: «Come Mitridate». Luiaspettò: «Fu il figlio a tradirlo, deside-rarne il regno, colpirlo». Portò la manoalla cicatrice e capì, semplicemente.La pioggia che gli rigava il volto si fe-

ce di lacrime. Chiese soltanto:«Perché?». La voce rispo-

se: «Era stato così lonta-no quando lui lo aspet-

tava, così impegnatoin battaglia, il figliolo aveva credutomorto. Non l’ave-va ucciso, lo cre-deva già mortoda tempo». Si in-ginocchiò sullaterra scossa,aspettando al-tre parole: «Ma

l’amore tenne vi-vo il re, perdonò il

figlio e combattero-no, infine, fianco a fian-

co».Era sopravvissuto per andare oltre:

perdonare chi aveva cercato di ucci-derlo, assolvere lui e se stesso, dimenti-care, di più, fingere di non aver mai ca-pito chi aveva sparato nel buio.

Si svegliò molto dopo l’alba. La terraera secca. Uscì dalla tenda. Andò all’in-gresso. Lo attendeva lo stesso ragazzoche l’avevo accolto. Disse: «Mi dispiacenon abbia piovuto stanotte, signore, sevuole tornare...». Lui si guardò intorno,stupito. In lontananza, quattro figuresalivano sulle rispettive auto. Gli parve-ro un uomo calvo, uno molto vecchio,un’indiana e qualcuno che non avevamai, davvero mai conosciuto.

Accanto a lui sedeva un uomo così vecchioche gli parve impossibile fosse arrivato

fin lì con le sue gambe. Alla finedello spettacolo il vecchio scosse il capo:

“Lei cerca il senso nell’insieme, maè solo un particolare che glielo potrà dare”

nei giornidella cometa

ARTURO PÉREZ-REVERTEÈ nato a Cartagena nel 1951. Giornalistae scrittore di fama internazionale,è membro della Real Academia EspañolaIn Italia per la Marco Tropea Editore sono uscitinove romanzi fra cui La tavola fiamminga,Il maestro di scherma e Il club Dumas(da cui Roman Polanski ha tratto il filmLa nona porta, con Johnny Depp)È anche autore del ciclo di romanzi d’avventuradel Capitano Alatriste (l’ultimo è L’oro del re),da cui è stato tratto il film Alatriste con ViggoMortensen, che sarà nelle sale italiane nel 2007

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TRUMAN CAPOTE

52 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 31DICEMBRE 2006

Una signora attende la visita di una conoscente quasi dimenticatache le ha offerto la sua vecchia pelliccia di visone. Per la primaè un affare, per la seconda una necessità. La prima

programma la sua vita tra cocktail e viaggi a Parigi, la seconda ha persotutto tranne il cane. Ma niente è come appare.Si intitola “The Bargain”,è un racconto inedito del grande scrittore americano

C’erano varie cose, in suo marito, che irritava-no la signora Chase. Per esempio la voce:suonava sempre come se stesse puntando inuna partita a poker. Sentire quella cantilenaindifferente la esasperava sempre, e soprat-tutto in quel momento, al telefono, quando

la sua stessa voce strideva per l’eccitazione. «Certo che ne ho giàuna, questo lo so. Ma non capisci, caro — è un’occasione», dis-se, accentuando l’ultima parola e facendo una pausa per la-sciarle il tempo di sprigionare tutta la sua magia. Ma ci fu sem-plicemente il silenzio. «Beh, potresti almeno dire qualcosa. No,non sono in un negozio, sono a casa. Alice Severn verrà a pran-zo. È della sua pelliccia che stavo cercando di parlarti. Certo ri-corderai Alice Severn». La lacunosa memoria del marito eraun’altra delle cose che la irritavano, e anche quando gli ebbe ri-cordato che a Greenwich li avevano incontrati spesso, Arthur eAlice Severn, anzi, li avevano addirittura invitati ai loro ricevi-menti, lui finse di non averli mai sentiti nominare. «Non impor-ta», sospirò lei. «Voglio comunque darle un’occhiata, a quellapelliccia. Buon appetito, caro».

Più tardi, mentre si agitava attorno alle precise ondulazionidei suoi capelli ritoccati, la signora Chase dovette ammettereche non c’era ragione al mondo per cui suo marito dovesse ri-cordarsi dei Severn. Se ne rese conto mentre cercava, con scar-so successo, di richiamare alla mente l’immagine di Alice Se-vern. Ci arrivò vicino: una donna rosea e allampanata, non an-cora trentenne, che andava in giro in una station wagon con unsetter irlandese e due bei bambini dai capelli rosso-dorati. In gi-ro si diceva che il marito bevesse: o era il contrario? E poi, ecco,le pareva che la loro posizione creditizia fosse considerata ad al-to rischio, o almeno la signora Chase ricordava di aver sentito di-re che erano terribilmente indebitati equalcuno, o forse lei stessa?, aveva de-scritto Alice come un po’ troppobohémienne.

Prima di trasferirsi in città iChase avevano abitato aGreenwich: una vera secca-tura per la signora Chase,che non amava quel tantodi natura che c’era là epreferiva il divertimen-to delle vetrine di NewYork. A Greenwich, aun cocktail, alla sta-zione ferroviariaavevano cono-sciuto e poi incon-trato di nuovo i Se-vern, ma la cosa nonera andata oltre. Noneravamo nemmeno ami-ci, concluse un po’ stupita.Come accade spesso quando al-l’improvviso sentiamo nominareuna persona che appartiene al passato, una persona che abbia-mo conosciuto in un contesto del tutto diverso, aveva provatoun senso d’intimità. Ma ripensandoci le sembrò straordinarioche Alice Severn, che non vedeva da più di un anno, l’avessechiamata per proporle di comprare il suo visone.

La signora Chase si fermò in cucina e ordinò il pranzo: zuppae insalata, non la sfiorava nemmeno l’idea che qualcuno potes-se non essere a dieta. Riempì un decanter di sherry e lo portò insalotto. La stanza era verde vetro e somigliava al suo gusto nelvestire, un po’ troppo giovanile. Il vento scuoteva le finestre per-ché l’appartamento era a un piano alto e permetteva di ammi-rare il centro di Manhattan come da un aeroplano. Mise sul fo-nografo il disco di un corso di lingua e sedette rigida ad ascolta-re la voce forzata che pronunciava le frasi in francese. In aprile,per il loro ventesimo anniversario di matrimonio, i Chase ave-vano in programma di festeggiare con un viaggio a Parigi; perquesto la signora Chase aveva cominciato ad ascoltare quelle le-zioni registrate, e sempre per questo aveva preso in considera-zione l’acquisto della pelliccia di Alice Severn: viaggiare con unvisone di seconda mano le sembrava più pratico, e più tardiavrebbe sempre potuto ricavarne una stola.

Alice Severn arrivò con qualche minuto di anticipo, certo percaso perché, a giudicare dai modi controllati e dall’andaturasciolta, non sembrava una persona ansiosa. Indossava dellescarpe comode e un tailleur di tweed che aveva conosciuto gior-ni migliori, e in mano aveva una borsa dal cordoncino logoro.

«Che delizia stamattina, quando mi ha chiamata! Sa il Cielo,sembra passato un secolo; ma ovviamente non ci capita mai dipassare da Greenwich».

L’ospite sorrise ma rimase in silenzio, e la signora Chase, ac-cordata su uno stile più espansivo, si sentì respinta. Mentre si se-devano i suoi occhi studiarono la donna più giovane e le vennein mente che, se l’incontro fosse stato casuale, probabilmentenon l’avrebbe riconosciuta; e non perché il suo aspetto fossemolto cambiato, piuttosto perché, se ne rendeva conto solo inquel momento, non l’aveva mai osservata bene, cosa abbastan-za strana dato che Alice Severn era davvero una persona note-vole. Se fosse stata meno allampanata e compatta, forse sareb-be stato possibile ignorarla, magari notando solo che era carina.E di fatto lo era: con quei capelli rossi, quel senso di lontananzanegli occhi, quel viso lentigginoso, autunnale, e le mani forti eossute aveva una distinzione che non si poteva liquidare facil-mente.

«Sherry?»Alice Severn annuì e la sua testa, che sembrava reggersi in pre-

cario equilibrio sul collo sottile, faceva pensare alla corolla di uncrisantemo troppo pesante per il suo stelo.

«Un cracker?», offrì ancora la signora Chase, pensando cheuna persona così lunga e magra doveva mangiare come un ca-vallo. La frugalità del suo zuppa-e-insalata le diede un istante dipanico, e così disse una bugia: «Non so proprio cosa stia prepa-rando per pranzo, la nostra Marta. Lo sa com’è difficile organiz-zare qualcosa con un preavviso così breve. Ma dica, mia cara,che novità ci sono a Greenwich?»

«A Greenwich?», disse l’altra, sbattendo le ciglia come se unaluce improvvisa avesse inondato la stanza. «Non ne ho idea. Nonsiamo rimasti laggiù a lungo, più o meno sei mesi».

«Oh?», disse la signora Chase. «Vede come sono rimasta in-dietro. E adesso dove abitate, cara?»

Alice Severn alzò una delle sue mani ossute e goffe e la sven-tolò in direzione della finestra. «Là fuori», disse con espressionepeculiare. La sua voce era chiara, ma con una qualità esausta, co-me se le stesse venendo il raffreddore. «In città, voglio dire. Manon ci piace molto, soprattutto a Fred».

Con la più lieve delle inflessioni interrogative la signora Cha-

se disse: «Fred?». Ricordava perfettamente che il marito dellasua ospite si chiamava Arthur.

«Sì, Fred: il mio cane, un setter irlandese, credo l’abbia visto.È abituato ad avere più spazio, e l’appartamento è così piccolo,in realtà una sola stanza».

Dovevano attraversare un periodo davvero difficile, i Severn,se erano ridotti a vivere tutti quanti in una stanza sola. Pur es-sendo molto curiosa, la signora Chase si controllò e non fece al-tre domande. Assaggiò il suo sherry e disse: «Ma certo che ricor-do il vostro cane, e anche i bambini, rivedo ancora le testolinerosse di tutti e tre affacciate al finestrino della vostra station wa-gon».

«I miei figli non hanno i capelli rossi. Sono biondi, comeArthur».

La correzione fu fatta con una tale mancanza di umorismo dasuscitare nella signora Chase un risatina piccata. «E Arthur co-me sta?», disse ancora, preparandosi ad alzarsi per fare strada al-l’ospite in sala da pranzo. Ma la risposta di Alice Severn la fecesedere di nuovo. Formulata senza alcun mutamento nel tonoplacidamente disadorno della voce, era composta da un’unicaparola: «Ingrassato».

«Ingrassato», ripeté un attimo dopo. «L’ultima volta che l’hovisto, credo sia stato una settimana fa, stava attraversando lastrada e camminava ondeggiando un po’, come un papero. Semi avesse visto sarei stata costretta a ridere: era così pignolo sul-la sua figura».

La signora Chase si sfiorò le labbra con un dito. «Lei e Arthur,separati? Ma è semplicemente straordinario».

«Non siamo separati». E Alice Severn sventolò la mano comeper spazzar via una ragnatela. «Lo conosco da quando ero bam-bina, da quando eravamo entrambi bambini: pensa davvero»,disse in tono pacato, «che potremmo mai essere separati l’uno

Quando si trattava di solidarietàla signora Chase sapeva cos’èla prudenza: prima di concederela sua prendeva semprela precauzione di attaccarviuna cordicella, in modo da poterlaritirare in caso di necessità. Mentreguardava Alice Severn, però,fu come se quella cordicellasi spezzasse e per la prima voltain vita sua si trovò faccia a facciacon gli obblighi della carità

Oil dubbiodi Capoteccasioni a perdere

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dall’altra, signora Chase?».L’uso preciso del suo nome sembrò escludere la signora Cha-

se; per un attimo si sentì tagliata fuori; e mentre accompagnaval’ospite in sala da pranzo sentì un filo di ostilità muoversi fra lo-ro due. Probabilmente fu la vista delle mani sgraziate di Alice Se-vern che spiegavano goffamente il tovagliolo a convincerla cheera solo frutto della sua immaginazione. A parte qualche scam-bio di cortesie mangiarono in silenzio, e la signora Chase co-minciò a temere che non ci sarebbe stato alcun racconto.

Ma poi: «In realtà», disse Alice Severn sbottando, «abbiamo di-vorziato in agosto».

La signora Chase attese e poi, fra il saliscendi del cucchiaio,disse: «Ma è terribile. Sarà perché beve, immagino».

«Arthur non ha mai bevuto», ribatté l’altra, con un sorrisoamabile ma stupito. «Cioè, bevevamo tutti e due. Ma bevevamoper divertimento, per non essere meschini. Era molto piacevo-le, d’estate. Andavamo a raccogliere la menta giù al ruscello epreparavamo cocktail con whisky e zucchero, grandi cocktailnelle coppe da frutta. A volte, se di notte faceva caldo e non riu-scivamo a dormire, riempivamo dei thermos di birra ghiaccia-ta, svegliavamo i bambini e andavamo in macchina fino al ma-re: è divertente starsene lì a bere birra e nuotare e poi dormiresulla sabbia. Erano bei tempi, quelli: ricordo che una volta re-stammo là fino allo spuntare del giorno. No», disse, mentre unqualche grave pensiero le irrigidiva i tratti del viso, «le dirò iocom’è andata. Io sono più alta di Arthur di tutta la testa, e credoche lui ne fosse infastidito. Quando eravamo piccoli lui era con-vinto che un giorno, crescendo, mi avrebbe sorpassato, ma poinon è successo. Per questo non sopportava di ballare con me, esì che adorava ballare. E gli piaceva circondarsi di un mucchio digente, tutte persone piccole con vocette acute. Io non sono co-sì, a me piaceva che fossimo soltanto noi due. In modi che non

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 53DOMENICA 31DICEMBRE 2006

L’INEDITOIl racconto di queste pagine

si intitola The Bargain(L’occasione) ed è stato scritto

da Truman Capotenel 1950. Sarà pubblicatoin Italia nel giugno del 2007

da Garzanti libri, editoredelle altre opere dell’autore

di Colazione da Tiffanye A sangue freddo,

in una raccolta dal titoloLa forma delle cose. Tutti

i racconti di Truman Capote(traduzione

di Stefania Cherchi)

mi rendevano piacevole per lui. Beh: si ricorda Jeannie Bjork-man? Una con il viso tondo e i ricci, alta un po’ come lei».

«Temo proprio di sì», disse la signora Chase. «Era nel comita-to della Croce Rossa. Una donna orribile».

«No», disse Alice Severn riflettendo. «Jeannie non è orribile.Eravamo buone amiche. La cosa strana è che Arthur diceva sem-pre che non la poteva soffrire: ma poi immagino che abbia per-so la testa per lei, perlomeno adesso ne va pazzo, e i bambini an-che. Credo sarei più contenta se ai bambini non piacesse cosìtanto, anche se penso che in realtà dovrei esserne felice dato chedevono vivere insieme».

«Non può essere vero: suo marito ha sposato quell’orribileBjorkman!».

«In agosto».Dopo una pausa per suggerire che si poteva passare in salot-

to per il caffè, la signora Chase disse: «Ma è una vergogna che leidebba vivere qui a New York tutta sola. Dovrebbe avere perlo-meno con sé i suoi figli».

«Arthur li ha voluti lui», disse Alice Severn con semplicità. «Manon sono sola: Fred è uno dei miei migliori amici».

La signora Chase ebbe un moto d’impazienza: non le piace-vano le fantasie. «Un cane. Ma non ha senso. Riesco a pensaresolo che si è comportata da sciocca: se un uomo provasse a met-tere i piedi in testa a me, se li ritroverebbe tagliuzzati in mille pez-zi. Quindi immagino che non vi siate nemmeno accordati per uneventuale…», esitò, «suo contributo».

«Lei non capisce: Arthur non ha un soldo», disse Alice Severn,delusa come un bambino che abbia appena scoperto che gliadulti, dopotutto, non sono poi così intelligenti. «Ha dovuto ad-dirittura vendere l’auto, e ogni giorno va e torna dalla stazione apiedi. Ma sa com’è, penso che sia felice».

«Lei meriterebbe un bel pizzicotto», disse la signora Chase,quasi disponendosi a farlo lei stessa.

«È piuttosto Fred a preoccuparmi. È abituato ad avere più spa-zio, e una persona sola non lascia molti ossi. Lei pensa che, fini-to il corso, riuscirò a trovare lavoro in California? Frequento unascuola commerciale, ma non sono particolarmente svelta, so-prattutto con la dattilografia. Le mie dita sembrano odiarla. Cre-do sia un po’ come suonare il piano, bisogna imparare da giova-ni». E si osservò meditabonda le mani, con un sospiro. «Alle treavrei una lezione; le spiace se ora le mostro la pelliccia?»

Di solito per risollevare il morale alla signora Chase si potevacontare sulle belle cose che vengono fuori dascatole misteriose; ma non appena vide aprir-si i due lembi di carta velina si sentì messa al-le corde da un malinconico senso di disagio.

«Era di mia madre».La quale deve averla portata per ses-

sant’anni di fila, pensò la signora Chaseguardandosi allo specchio. La pelliccia learrivava alle caviglie. Passò la mano sulpelo privo di splendore, diradato, e losentì acido e ammuffito come se fossestato conservato in una soffitta vicinaal mare. Dentro la pelliccia facevafreddo e lei rabbrividì e al tempostesso sentì il rossore salirle alleguance nel vedere che Alice Severnla fissava da sopra la spalla conun’espressione carica di un’a-spettativa tesa e priva di dignitàche prima non aveva. Quandosi trattava di solidarietà la si-gnora Chase sapeva cos’è laprudenza: prima di conce-dere la sua prendeva semprela precauzione di attaccarviuna cordicella, in modo dapoterla ritirare in caso dinecessità. Mentre guarda-va Alice Severn, però, fu co-me se quella cordicella sispezzasse e per la primavolta in vita sua la signoraChase si trovò faccia a fac-cia con gli obblighi della ca-rità. Ciononostante si di-vincolò alla ricerca di unavia d’uscita, ma quando isuoi occhi incrociaronoquelli dell’altra donnaseppe che non ve n’era al-cuna. Il ricordo di unaparola appresa dal corsodi francese le rese più fa-cile la domanda cruciale:«Combien?».

«Non vale niente, ve-ro?». La domanda suonò

confusa, non schietta.«No, in realtà no», disse la signora Chase stancamente, quasi

con stizza. «Ma credo che potrò comunque farne qualcosa». Enon fece altre domande: era evidente che fra i suoi doveri c’eraanche quello di fissare lei stessa il prezzo.

Tirandosi dietro la brutta pelliccia andò allo scrittoio posto inun angolo del salotto e, scrivendo con stilettate cariche di risen-timento, riempì un assegno del suo conto personale: il maritonon doveva saperne niente. Più di chiunque altro la signora Cha-se odiava il senso di perdita: una chiave che non si trovava più,una moneta caduta ravvivavano in lei la consapevolezza dei fur-ti e delle frodi che ci dispensa la vita. Una sensazione del generel’invase mentre tendeva l’assegno a Alice Severn, che lo piegò indue senza guardarlo e l’infilò nella tasca della giacca. Era di cin-quanta dollari.

«Mia cara», disse la signora Chase con un sorriso di fintapreoccupazione, «deve assolutamente chiamarmi al più prestoe tenermi informata su come vanno le cose. Non voglio che sisenta sola».

Alice Severn non ringraziò e, giunta alla porta, non salutònemmeno. Prese invece una mano della signora Chase fra le suee le diede qualche piccola pacca come chi premia gentilmenteun animale, un cane. Chiusa la porta, la signora Chase si guardòla mano e se la portò alla bocca. La pelle conservava ancora lasensazione di quell’altra mano. Rimase lì, aspettando che sva-nisse: di lì a poco sarebbe stata di nuovo fresca.

Traduzione di Stefania Cherchi© 2004 by The Truman Capote Literary Trust

Published by Arrangementwith Roberto Santachiara Literary Agency

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la lettura

Ammassare, vendere e comprare la merce più immateriale e preziosa che c’èInconcepibile, eppure basta “trovare il modo” e qualcuno l’ha fatto

Un celebre scrittore segue una pista dal Marocco alla Norvegia fino a quando...

tra i prodotti esposti quel che preferisce». «Mi piacerebbe comperare tempo… ishtara zaman…» ho detto scherzando.«Ishtara zaman?… Tempo? Tempo, dice lei, Monsieur?… E chi potrebbe comperare tempo?

Chi potrebbe venderlo?».«Lei», ho risposto in un cerimonioso falsetto. «Lei, l’altro giorno, non ha forse venduto tem-

po a quel vecchio?».«No, Monsieur, lei scherza, questa è una bottega di cose semplici, cose di prima utilità». «Vuol dire che il tempo non è di prima utilità? O forse ci sono negozi ben più avanzati del suo

“Au soulier moderne” in grado di vendere tempo?».«No, no certamente. Non c’è nessun negozio di questo tipo, che io sappia». Il calzolaio mi

sembrò preoccupato, preoccupato all’idea che qualcuno potesse aver intuito il suo segreto;magari, però non gli sarebbe dispiaciuto ammettere che tra le merci più sofisticate del suo “Ausoulier moderne” ci fosse il tempo. Forse per questo ha scelto un tono intermedio, ironico, unparlare tutto al condizionale, delimitando rigorosamente il campo ipotetico con ampi svergo-lamenti delle braccia che poi si richiudevano in tutta onestà sul cuore: certo, diceva, sarebbebello vendere tempo, di tempo del resto qui ne avremmo molto, di tempo qui per noi ce n’è tan-to quanto la sabbia, ce n’è a volontà, tempo di prima scelta, bello lungo e immobile. Eh, sì, sevendessi tempo… si venderebbe bene secondo lei, si venderebbe lì da voi?… se avessi un com-mercio così potrei mostrarle anch’io fatture e ordini di chissà quale atelier europeo, ma comedovrei venderlo questo tempo?, a minuti, a ore, a giorni, a mesi, o annate intere? E come lo im-ballerei il tempo, come lo spedirei all’acquirente? E poi i prezzi, chi li farebbe i prezzi del tem-po… All’improvviso il calzolaio arrestò ogni suo movimento di gesti e di parole, rimase sospe-so sui prezzi, illuminandosi alla sentenza ultimativa e indiscutibile che doveva essergli venutaalla memoria come via d’uscita molto opportuna. Disse compìto: «Monsieur, per noi il temponon è dell’uomo ma di Dio, Allahu s-Samad, Dio è l’Eterno».

Giovane calzolaio nonché erede dell’“Au soulier moderne”, non me lo diresti mai, sento la tuapaura, eppure sento anche l’indecisione e il compiacimento dietro i tuoi tempi verbali obliqui,come sento dietro di me il tuo sguardo inquieto che punta al riquadro della porta.

Treviso, Nordest dell’Italia, prima settimana d’inverno

Treviso, e con Treviso tutto il Trevigiano, più che Treviso il contorno, Veneto industriale e con-torno di Venezia, continuo di fabbriche e fabbrichette per miglia e leghe e strade e incroci, terracontinua dell’invenzione, prodotti d’ogni genere e misura, pasticche per freni a disco, caterpil-lar, climatizzatori, letti a scomparsa, macchinari di precisione per fabbricare altri macchinari,

tempo!, tutto celato in capannoni e capannette moderni e a colori, non comele vecchie fabbriche di ferro e disastro, prefabbricati gradevoli all’aspetto, co-sì composti che non sembrano nemmeno capannoni, tempo!, e incistati neltessuto dei capannoni i vecchi paesi e i loro nomi, puro riferimento geografi-co, campanili e brevi piazze municipali per ricordare che lì dentro, nell’ordi-nato mondo di frese e torni e anfratti industriosi e robotizzati, c’è ancora No-venta di Piave o Motta di Livenza e San Stino o San Donà o Preganziol o Cam-po d’Arsego, città-paesi autofabbricanti e autoespandenti, a raggiera, a levan-te e ponente a meridione e settentrione, tempo!, costruisci e assembla, investie prevedi, inventa e vendi, economizza e rosica, erodi leggi e rosica fisco, lavo-ra e spartisci il prodotto in plurimi lavori, il medesimo lampadario per quattroo cinque imprese, tempo!, chi ci mette il vetro, chi ci mette il cavo elettrico, chici mette la cannula di alluminio che contiene il cavo elettrico medesimo, chi ci

mette le viti per bloccare il tutto, chi ci mette la scatola per imballare, chi ci mette la spedizione,e adesso tocca a te corriere, tempo!, corri corriere, corri veloce fino all’Oman o alla nuova e sdru-cita Russia, corri manufatto del Nordest, da Mogliano Veneto su su a Samarcanda, straight away.

Quanto a me, vado piano nella nebbia del mattino verso l’azienda di un signore che conosco,guido lentamente per non sbagliare svincoli, tangenziali e raccordi fino alla sua piccola fabbri-ca, vado piano ma perseguo la mia pista. La mia pista adesso è questo vecchio fondatore d’im-presa e fabbricante di tecnologie, ingegnere ma non laureato, poeta ma non riconosciuto, tra-pianto di sapienza contadina in astuzia manageriale. Mi è venuto incontro sulla porta del suoufficio, ha voluto accompagnarmi subito a vedere i nuovi impianti: «Vieni, femo un tour, ti fac-cio fare un giro, anzi guarda bene perché in realtà è la fabbrica che gira, deve girare, il noccioloè questo, nessuna installazione fissa, quando un prodotto non tira più avanti un altro, per co-struirlo devi girare la fabbrica come un guanto, veloce, adeguarla, come le terre una volta, rota-zione delle colture, rotazione dei prodotti, ma mai sfibrare la terra né i prodotti, per esempio elmercato del cyber se ga sfibrà, possiamo ancora andare avanti co tute ste chip e ste chop che se rin-core?, no, devi passare al corpo, intervenire sul corpo, adesso ho preso un’équipe coreana, li homessi qui a studiare, studiano dalla mattina alla sera, gli faccio studiare la corrente umana, lacorrente contenuta nel nostro corpo, si può usarla sai, si può usarla per trasmettere informa-zioni, poca roba, pochi volt, ma bastano se trovemo el modo, basta trovare il modo, il trucco ètutto lì, sempre trovare il modo». Non dubitavo che prima o poi “trovare il modo” gli sarebberiuscito anche questa volta; lo stesso modo che aveva trovato agli inizi, molti anni fa, per una fu-sione speciale di metalli, lega leggerissima e dura brevettata da lui nel Trevigiano e finita a Hou-ston, Texas, dentro le sonde spaziali della Nasa.

Un uomo d’invenzione e di imprese come lui doveva sapere qualcosa, per questo sono ve-nuto a fargli visita; gli ho raccontato di Rabat e del sospetto che laggiù facessero commercio ditempo. Si è messo a ridere, «laggiù?» ha risposto, «mica solo laggiù, magari in tanti altri posti…»,come se la cosa fosse ovvia e risaputa, «ti ga rason, certo che c’è, ma cosa c’entri tu?».

Non mi aspettavo una conferma così immediata, piena, e sono rimasto un po’ sorpreso: «Nonè un segreto?».

«È un segreto sì, per ovvi motivi di competizione, e sicuramente anche militari, ma la voce gi-ra da parecchio, almeno in certi ambienti. Io posso dirti quello che so, ti conosco, e poi sei estra-neo al tutto, cosa potresti fartene? Diciamo che è un mercato di ricerca, ancora allo stato em-brionale, ma molto custodito. Non proibito, bada, nessuna legge vieta la vendita di tempo, matutto è rigorosamente protetto, inaccessibile».

Ne parlava dando alla questione un andamento di routine, eppure mi ha chiesto con insi-stenza dettagli d’ogni tipo su quanto era accaduto “Au soulier moderne”. Poi ha accelerato il pas-so, prendendomi in disparte: a bassa a voce ha raccontato come all’inizio ci fossero stati pro-blemi di stoccaggio, riuscivano a trasformare il tempo naturale in tempo artificiale ma non c’e-ra modo di accumularlo e conservarlo, tempo efficace, sì, ma instabile, dopo un po’ perdeva lecaratteristiche, si contraeva.

Ero così eccitato e curioso che lui mi ha prevenuto: «Adesso no star a domandarme, non chie-dermi chi e come, perché ti giuro che non lo so neanch’io. Probabilmente lo prendono dai pae-si dove ce n’è abbondanza, il Marocco, perché no, ma chissà dove ancora». Camminando fa-ceva ogni tanto una sosta, ma il suo parlare era affrettato, sdrucciolo, «Sei proprio sicuro di quel-lo che hai visto?» ripeteva, perché alla probabilità che io avessi visto giusto legava, nel suo ra-gionamento, la possibilità che qualcuno avesse “trovato il modo”. Rabat comunque non eracertamente un punto di arrivo, piuttosto un punto di partenza del tempo, uno dei luoghi di rac-colta e di prelievo, magari gli arabi ne trattenevano un po’ per il commercio locale, e io dovevoessere incappato in uno di quei rivoli, ma il grosso, il grezzo, dovevano mandarlo fuori. «Già» haconcluso «non sono loro a elaborare il tempo, i processi sono sicuramente altrove; tempo allostato sorgivo, questo possono offrire loro, tempo che scivola clandestinamente dai continentilenti ai continenti veloci. Del resto, qui da noi, dove xe che ti trovi tempo?, dove troveresti anco-ra non dico un’ora ma un secondo?».

Ho provato a valutare quanto dovesse valere il tempo che mi dedicava, vera elargizione, co-

54 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 31DICEMBRE 2006

DANIELE DEL GIUDICE

Rabat, Marocco, seconda settimana d’autunno

Ieri per la prima volta ho assistito a una transazione commerciale riguardante il tempo.O meglio credo di aver percepito un commercio di tal genere in un negozietto, un bugi-gattolo sul versante occidentale della Medina cui si accede dalla rue des Consuls; inten-do riferirmi con ciò alla mia personale sensazione d’aver assistito al semplice evento di

un uomo che vendeva tempo a un altro uomo. Ho visto il giovane calzolaio indicare un qualcheordine di grandezza con le dita, ho visto l’anziano entrato nella bottega che pagava senza rice-vere alcunché in contropartita. Il mio arabo, già fragile, prescinde dalla scrittura, è un arabo par-lato, fonetico e non scritto, da me appreso come suoni e come suoni restituito. Dunque non èdetto che le parole che mi è sembrato di cogliere, e che trascriverei zaman, ishtara, cioè “tem-po” e “comperare”, stessero insieme e siano proprio quelle che il giovane e il vecchio si sonoscambiati prima che l’uno scambiasse con l’altro soldi contro nulla.

Il calzolaio lo conosco da tempo, ed è difficile circoscrivere la sua attività alla sola fattura dibabuchese sandali di cuoio, entrambi i tipi mal conciati nella pelle come attesta il permanentecattivo odore; il negozietto, oltre alle calzature, propone oggetti di altra e corrente utilità, cor-de, lampadine a baionetta, radioline Sony, accendini, spezie e minutaglie da cucina, ciò cherende complesso definire cosa esattamente venda il calzolaio. All’ingresso del vecchio, il cal-zolaio aveva abbandonato subito il francese, volendo così mettere da parte quella lingua e me;sia lui sia il nuovo cliente parlavano arabo rapidi imbarazzati e incerti per la mia presenza, o co-sì appariva, fatto sta che la transazione è stata veloce, niente trattative o cerimonie, presuppo-nendo prezzo, pagamento e consegna stabiliti per consuetudine. All’uscita del vecchio, il cal-zolaio è tornato al francese e a me, però assai meno disponibile di prima, preoccupato soprat-tutto di rassettare la bottega, quasi avesse dispiegato nel commercio precedente un intero cam-pionario di merci. Nel suo teatrino dell’affaccendarsi mi rivolgeva periodicamente sorrisi com-plici e un sussurro: ce vieux fou. E questo, per lui e per me, è stato l’unico commento su quantoprobabilmente era accaduto poco prima. Ciò che più desiderava il calzolaio era che io sparissiall’istante; curiosamente, ero io a desiderarlo ancor più, stupito e perplesso avevo fretta di usci-re dal negozio e di appartarmi con la mia personalissima e poco fondata sensazione di aver as-sistito per la prima volta a una transazione commerciale riguardante il tempo. Finalmente gliho consegnato i sandali per la cui riparazione ero arrivato fin lì, nella rue des Consuls. Il calzo-laio li ha buttati in una cesta senza nemmeno guardarli, ha detto semplicemente: «domani».

Ma per lui quel “domani” non indicava esattamente il giorno dopo, piuttosto un tempo pro-crastinato, un’altra volta e non ora; infatti, quando oggi sonotornato, i sandali non erano pronti. Pieno di persone il nego-zietto, indaffarato il calzolaio: ogni sentimento o agitazioneerano ricomposti nel suo sguardo, cancellati, niente da ri-cordare o da temere, la mia presenza sulla porta meritava ap-pena un fugace «mi scusi, Monsieur, non c’è stato tempo».Naturalmente il tempo che non c’era mancava ai sandali o alcalzolaio, eppure la frase lasciava una certa ambiguità e il fi-lo di allusione lasciò me attestato sull’attesa, mentre il giova-ne calzolaio tornava al suo pubblico vociante. Quanto all’at-tesa, se già era stata lunga e agitata quella della notte prima,più lunga ancora sarebbe stata quella dei giorni successivi,che ho interposto prima di ripresentarmi nel negozio. Con

chi potevo parlarne? A chi avrei potuto raccontare che avevo assistito, o peggio ancora credevodi aver assistito, a una transazione commerciale riguardante il tempo? A dire il vero facevo va-ghi sondaggi, lanciando esche generiche ai miei amici rabattini nelle conversazioni, tutti peròintendevano il tempo come tempo meteorologico, e quando li riportavo al tempo cronologicoaprivano le mani o inclinavano leggermente la testa, indicando una serena e ovvia rassegna-zione alla vastità dell’argomento, che oltretutto non si sapeva mai come prendere. Al più sa-piente di loro domandai a bruciapelo: «E se da qualche parte, qui in città, si potesse comperaretempo?».

«E dove?», disse lui. «Al mercato, per esempio».«Come i fiori, le olive e il pesce?».«Magari in qualche negozio che sembra vendere tutt’altro, qualche bottega che vende tem-

po sottobanco».«Tu lo compreresti?».«Certamente. Adesso, per esempio, ne comprerei quanto basta per finire in tempo questo

racconto. Per tutto il resto, e in generale, preferisco attenermi al tempo che mi è dato. Però sa-rei molto curioso di un commercio di tempo, vorrei sapere tutto, come si svolge, chi fornisce lamateria prima, chi lo acquista e perché, quanto costa, e chi lo mercanteggia». Ma queste con-versazioni si svolgevano nell’alcool, ufficialmente proibito e privatamente consumato, e all’al-cool finivano per essere attribuite da tutti.

A proposito di tempo, per quanto possa perderne, anch’io ho delle cose da fare, prima di la-sciare Rabat. Come sempre le cose da fare attenuano i pensieri, e così anche quello del com-mercio di tempo è stato accantonato come una stramberia, qualcosa che nel tempo sfuma e di-venta sempre più irreale. Anche i sandali da ritirare sono finiti in fondo alle mie preoccupazio-ni, e comunque per questa incombenza, vada come vada, ho lasciato libero l’ultimo giorno pri-ma di partire, questo giorno, esattamente oggi. Nel pomeriggio ho imboccato la rue des Con-suls, in salita, venendo dagli Oudaia, senza alcuna emozione, pronto anche a trovare il nego-zietto chiuso. Mi sono lasciato prendere dal vecchio mercato, e da come il vecchio mercato e lacittà cambiano di anno in anno a Rabat, anche questa volta c’era una maggiore dignità dellepersone, una diversa consapevolezza di sé, un interesse più composto, senza troppe aspettati-ve o illusioni nei confronti di chi è straniero. Col calzolaio, solo nella bottega e tranquillo nel ve-dermi, ho usato da subito prudenza e naturalezza. Gli ho ricordato di quando avevo conosciu-to anni prima suo padre, titolare e fondatore dell’attività che aveva chiamato “Au soulier mo-derne”, insegna a smalto ancora fiammeggiante sulla porta della bottega, suo padre che ognivolta mi mostrava nuove ordinazioni provenienti da celebri negozi francesi e italiani, o alme-no celebri per lui. Ho detto al calzolaio che avevo scattato una foto di suo padre mentre lavora-va una suola, lì nel negozio, e che la conservavo. Tentavo una confidenza attraverso la familia-rità e la memoria del calzolaio padre, ma il calzolaio erede restava sulla difensiva: «Se vuole, puòfare una foto anche a me», è tutto quello che ho ricevuto in cambio insieme ai sandali riparati.Dovevo prendere tempo, ho comperato un rasoio elettrico Philips un po’ antiquato (che nonuserò, abituato da sempre alle lame); ho comperato un abaco in legno e una Texas Instrumentsdi plastica da pochi dirham; uno swatch prima maniera, un filtro circolare da farina, un petti-ne, delle bustine di cardamomo. Passavo ogni nuovo acquisto al calzolaio, lui lo accantonavascrivendo il relativo importo su un foglietto. Dopo le spezie ho finto di cercare a lungo tra gli scaf-fali aerei e i pochi sacchi a terra; alla fine mi sono girato dalla sua parte, lentamente, ho teso lemani vuote, concave e accostate, gli indici divaricati nella misura di un ordine di grandezza, imi-tazione goffa del gesto che gli avevo visto fare al vecchio arabo. Ho aggiunto senza importanza:«…e, naturalmente, anche questo». Il calzolaio si è ritratto, fissando il vuoto tra le mie mani co-me un aspide velenoso. Poi, rapidamente, ha ritrovato il tono, sornione, sorridente: «Questo…cosa, Monsieur?».

«Questo, …questo… zaman… Un po’ di zaman, non ce l’ha?».«Ma certo che ho zamanper lei, abbiamo tutto il tempo che vuole, non che qui ci sia tanta ro-

ba, il negozio è piccolo, io sono prevalentemente un calzolaio, ma lei può scegliere con calma

Tutto si basa sul fattoche un’ora di Rabate un’ora di Chicago

come consumo e resanon valgono lo stesso

L’AUTORE

Daniele Del Giudiceha scritto i romanzi Lo stadio

di Wimbledon, Atlanteoccidentale, Staccando

l’ombra da terra,Mania (tuttiEinaudi). Questo racconto

è inedito in Italia

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 55DOMENICA 31DICEMBRE 2006

me per le informazioni che, a differenza dell’uomo di Rabat, concedeva copiose, sebbene lecongetture prevalessero sulle informazioni, sebbene il poeta prevaricasse l’ingegnere: «Vedi, iltempo potrebbe derivare dai continenti lenti ai continenti veloci, e forse anche in direzione op-posta. Tutto si basa sul fatto che un’ora di Rabat non è un’ora di Chicago. Per la cronometria so-no uguali, ma al consumo e alla resa non sono la stessa cosa. È questo differenziale che conta.Forse tempi lenti e tempi veloci si attraggono, come i fronti freddi e i fronti caldi in meteorolo-gia, come l’alta e la bassa pressione e la circolazione conseguente, è possibile che anche le mas-se temporali si spostino così, sfruttando uno scompenso naturale».

Si è illuminato, acceso dal proprio paragone climatico: «Qualcuno deve avere trovato il mo-do!» ha esclamato sopra il poco rumore dei macchinari e degli addetti nel capannone, per poismorzarsi in un rammarico lieve, «beati loro, questo sì che è l’affare grande, chi c’è riuscito haper le mani l’affare grande».

Stavanger, Norvegia, terza settimana di primavera

“STAVANGER”. La prima volta che ho letto questa parola è stato nella lettera arrivata parecchiotempo dopo, a dire il vero lettera di una sola parola scritta a stampatello dall’ingegnere stesso,isolata al centro sotto l’intestazione dell’azienda. Sembrava un appunto preso al telefono, e altelefono, quando l’ho chiamato per ringraziarlo, pur nella prudenza che la conversazione im-poneva ha tenuto a precisare che quelle nove lettere dovevano intendersi come il risultato diinterrogazioni lunghissime e delicatissime, una catena che aveva valicato, in andata e in ritor-no, diffidenze, garanzie, verifiche e legittimazioni.

“STAVANGER”non è un termine dialettale, né una chiave in codice, non un acronimo e neppu-re un anagramma, è semplicemente il nome della cittadina norvegese dove sono approdatodue giorni fa, al termine di quella catena di validazioni, in attesa di conoscere quanto mi è sta-to concesso. Ogni tanto penso con emozione che qui, da qualche parte, c’è la fine del mio viag-gio e del mio scopo, nascosto magari in una di queste stradine a pavé e vecchie case di legno insalita dal porto alla cattedrale, antichi insediamenti di balenieri ed emigrati, costa occidentaledella Norvegia, stesso parallelo delle Orcadi, aperto Atlantico, nordissimo Mare del Nord. Dal-la cattedrale, nel sole ancora freddo, si vede bene come il mare entri in città dal Bokn Fjord, di-ramandosi poi in braccia e dita terminali e gerarchie di piccoli sottofiordi che disegnano la cittàin forma di arcipelago.

Anch’io, come il mare, vorrei entrare dappertutto e aderire, parlare con chiunque, scuoterel’austerità di questi norvegesi dagli occhi distanti, ma la presente circostanza non è adatta alloscopo.

Ho fatto mio l’obbligo del segreto tassativamente imposto, ho deciso cioè di rispettarlo perfondati motivi, la cui opportunità spero risulterà evidente. Nessun segreto invece sui due gior-ni di attesa previsti nella procedura d’ingaggio, due giorni di studio, non mio ovviamente, madi chi mi ha seguito e ha studiato ogni mio movimento, ogni uscita e entrata dall’albergo sul por-to e le poche telefonate familiari in arrivo o in partenza. Quel che non avevano ancora era ap-punto questo, il mio comportamento, quanto al resto sapevano già tutto, e naturalmente san-no che mi occupo di discontinuità, e che della discontinuità — i salti, le rotture, quando una ca-tena si spezza e riparte in modo imprevisto — mi occupo da un punto di vista strettamente co-noscitivo. Un ricercatore, niente di più, niente commerci o traffici di sorta.

Discontinuità, già, ma è curioso come i luoghi al contrario siano spesso continui nelle loro vi-cende, sorprendentemente fedeli e coerenti. Ne ho avuto conferma anche qui, in questi due gior-ni di zonzo a Stavanger. Dai suoi musei ho appreso la storia dei vichinghi, pirati e non, la spadaconfitta nella roccia, la poesia di Kipling dedicata alla città, la tradizione leggendaria delle bale-ne bianche e la concreta e sterminata produzione di sardine, poi soppiantata dallo scavo del pe-trolio greggio in mare. Ma insieme a tutto questo ho appreso con stupore l’epopea nazionale diStavanger: e cioè il sabotaggio degli impianti installati qui dai nazisti per fabbricare l’acqua pe-sante, unico elemento mancante alla loro bomba atomica. L’Operazione Freshman, opera del-la popolazione locale che costò parecchi morti, fu un «episodio poco conosciuto ma cambiò idestini del mondo», secondo i documenti del museo. E non è detto che adesso, in questo stessofiordo, in questi giorni, non avvengano magari per continuità altrettanti cambiamenti. Per il re-sto ho camminato a lungo, il mio lavoro è fatto anche di questo, camminare, il mio posto è dovele cose si interrompono e prendono un’altra strada, fosse anche durante una passeggiata…

«Questa sua visita, lo sa, è un’eccezione molto particolare. Sa anche quali sono i vincoli». Ladonna parlava con trattenuta dolcezza, per nulla contenta però della mia presenza così fuori del-l’ordinario. «Ne sono consapevole» ho risposto, chiedendomi quali pressioni avessero reso ac-cessibile tale privilegio, perché proprio io, e perché mai mi avessero lasciato arrivare fin qui e la-sciato solo in piedi di fronte alla bella signora austera e convinta di sé, osservato dal suo irresisti-bile sguardo come il risultato misero dell’errore o della leggerezza commessi da qualcuno.

Il posto, comunque, è tutto diverso da come lo immaginavo: un ufficio piccolissimo e rialza-to al termine di una scaletta, nemmeno un ufficio, piuttosto un’astanteria, visto il tavolo per-fettamente sgombro, le pareti strette a losanghe di legno, e la porticina in fianco alla vetrata co-perta da tende bianche. Quanto ai vincoli, temo sia giunta l’ora di rispettarli: sarò dunque ge-nerico nel raccontare come mi abbiano prelevato poco fa, a sera inoltrata e senza alcun preav-viso, giusto allo scadere del secondo giorno, interrompendo bruscamente la mia passeggiata.Sono stati rapidi e decisi ma non scortesi, la voce maschile aveva detto alle mie spalle in ingle-se: «Non abbia paura. E non si volti». Poi all’oscurità della notte si è aggiunta l’oscurità dell’in-terno di un furgone e il buio ermetico e definitivo di una mascherina da sub stretta e cieca. Bre-ve il trasporto, disorientante però, con salite e discese e giravolte forse necessarie forse inten-zionali, comunque senza più parole fino a queste della signora, bionda e bella e infastidita: «Vor-rei che lei avesse ben chiare alcune cose. Primo: ciò che vedrà adesso è un esperimento, un pro-totipo, un modello sul quale stiamo lavorando. Secondo: ciò che vedrà non ha nulla a che farecon un traffico clandestino, con i disdicevoli commerci che percorrono globalmente il piane-ta, organi umani, ovuli femminili, corpi innocenti o non per perversioni sessuali, droga, avan-zi di arsenali nucleari, tecnologie di dubbia destinazione. Terzo: non siamo…».

Apprezzavo l’ordine mentale nel preambolo della signora, ma aspettavo che le sue dita can-dide e snodate ultimassero l’elenco ad excludendum, per arrivare finalmente a ciò di cui si trat-tava. Quando è stato il momento, lei ha cambiato tono di voce, più sensibile, sottile: «Noi trat-tiamo tempo. Il tempo non è inquinante, non è tossico. Naturalmente ha un costo, ma conte-nuto se rapportato agli investimenti, per non parlare del nostro lavoro». Mi sono permesso didomandare in cosa consistesse tale lavoro, e ha risposto che lo avrei visto tra poco; nel frattem-po dovevo considerare molto significativo il fatto che qualcuno si fosse preso cura della distri-buzione del tempo, sottraendola a interessi speculativi o più rischiosi ancora. Lasciava a med’immaginare cosa accadrebbe se tutti…, se alcuni poteri…, se certe finalità…, e alla sommadi tutti questi “se” mi invitava ad attribuire la saggia segretezza che circondava la loro attività, icui caratteri s’intendevano più simili all’iniziativa umanitaria che ai commerci di una holding.

Avevo in mente mille domande e mille curiosità, ma non volevo perdere altro tempo; ho la-sciato al silenzio e al mio volto il compito di esprimere una statica, assoluta interrogatività. Lasignora ha aperto di colpo le tende: al di là dei vetri ho percepito un enorme spazio sottostante,con scaffalature e percorsi illuminati da una fortissima luce azzurra e liquida; così intensa la lu-ce, che in realtà più dello spazio sotto si vede bene il sopra, il tetto in legno a poliedro con un ag-getto più avanzato, e da com’è l’interno si può riconoscere benissimo l’esterno: era uno di que-gli hangar alti e stretti che usavano cent’anni fa per smontare le balene, tagliare le carni, racco-gliere il grasso, districare le ossa. Perfettamente restaurato, come gli altri che avevo visto cam-minando lungo il porto.

«Mi segua», ha detto la signora, e io l’ho seguita attraverso la porticina laterale. Ci siamo fer-mati alla fine di pochi gradini, al livello del grande padiglione. Per quanto mi sforzassi di ricon-

ercanti del tempoMdurre l’ambiente a qualsiasi altra natura, la disposizione dei percorsi, i contenitori, la segnale-tica bilingue norvegese inglese, e insomma la sua specifica totalità poteva corrispondere a unacosa sola: «Ma è un supermercato!».

Senza clienti, nel più perfetto silenzio delle merci, comunque un supermercato. Ho avuto lasensazione che la signora stesse per esercitare nuovamente la sua vocazione alla premessa, masi è trattenuta, o deve aver scelto l’immersione immediata imboccando uno dei percorsi, nonsenza precisare: «Sì, un supermercato, ma molto speciale. È molto più di un supermercato, èquello che viene dopo…». Abbiamo fatto due o tre passi lungo il primo corridoio destinato aitempi Personals, nell’odore e nell’incontaminato che solo il nuovo emana: «È la simulazione diun supermercato, la sua stessa rappresentazione. Ovviamente il tempo non si può vendere co-me ogni altra cosa. Questo grande magazzino è, diciamo, un sostegno psicologico: vede i regi-stratori di cassa laggiù?, lei pagherebbe cifre piuttosto consistenti per non portare via niente? Ilnostro è un commercio del tutto nuovo, non si è mai comprato e venduto tempo fino ad ora;per rendere psicologicamente credibile l’acquisto, o meglio per riportarlo all’esperienza abi-tuale, abbiamo scelto la simulazione di ciò che è più familiare».

Le scatole negli scaffali erano di grandezze diverse, molto colorate, colori aggressivi e titoli dafumetto, ma come ha spiegato la signora le dimensioni delle scatole non erano collegabili allaquantità di tempo o al suo valore commerciale, piuttosto a qualcosa che lei stessa ha definito“densità”.

C’erano scatole di Change your chance, tempo in tagli diversi da minuti fino a poche ore, perpoter tornare a qualche bivio della propria vita e con questo tempo fare la scelta opposta, l’op-portunità lasciata cadere, riaprire un amore che era stato chiuso, per esempio; confezioni diHow much more?, per chi avesse bisogno di un po’ di tempo ancora e Delays per chi intendes-se saldamente ritardare. Meantime indicava invece un doppio canale temporale per fare si-multaneamente due cose che non si possono fare nello stesso tempo, come cantare e bere, odire e contraddirsi nello stesso istante, o più genericamente dilatare fino al raddoppio la quan-tità di una giornata nelle medesime ventiquattr’ore. Lo stesso effetto, in verità, si poteva otte-nere per contrario con gli Slow timesdegli scaffali successivi, tagli di tempo lento in diverse gra-dazioni di lentezza, che l’immagine sul dorso delle scatole iconizzava in forma di gocce pocoallungate, o più allungate, o allungatissime.

Poiché fissavo le gocce sulle confezioni, la donna ha detto: «Apra una scatola, se vuole. Den-tro non c’è niente», con un primo sorriso da quando ero arrivato.

«E dunque?» ho chiesto, dopo aver constatato di persona.«E dunque questo fa parte di quello che non potrà sapere, cioè il come, in ogni sua compo-

nente. Da come si produce artificialmente il tempo fino a come si trasferisce ai clienti».«Saranno contenti di uscire con delle scatole vuote?». «Pensiamo di sì. Il tempo acquistato è autentico, anche se lì dentro non c’è

niente».Scale mobili dividevano l’hangar in più livelli sottostanti, uno dei quali tutto

dedicato ai tempi industriali e massivi, il grande reparto Economical, vasto eprezioso tempo distinto in provenienze, con ingombranti e suggestivi conte-nitori di Indian Time o Northafrican Time o Subsaharian Time; ma anche Su-batomic time, nel piano ancora più sotto, quello dei tempi infinitesimali per fi-sici delle particelle, scatoline di nanosecondi e picosecondi, e tempi reversibi-li in cui un evento può tornare indietro, seppure un evento fatto solo di pochis-sime particelle e non più. E giù giù, nel basamento del vecchio edificio da bale-ne, un reparto ristrettissimo di tempi sorprendenti di cui non potrò mai parla-re, tempi inimmaginabili, tanto che le scatole non avevano immagine, scatoleprofessionali grigie e severe, tempi da ricerca pura, tempi dalle proprietà che adesso, nel rispettodell’impegno preso, posso soltanto dare come “sconosciute”. Credere o non credere.

Credere o non credere, quel che avevo visto era davvero incredibile, inconcepibile; quandosiamo tornati al livello più alto e prossimi all’ufficio, tra quegli scaffali Personal che adesso misembrano del tutto ovvi, ho trovato il coraggio di domandare alla signora «E chi mi dice che fun-ziona?».

«Le piacerebbe provare?».«Davvero? Lei davvero potrebbe…?».«Sì, è stata prevista questa possibilità per lei. Che tipo di tempo vuole?».«Posso sceglierne solo uno?».«Sì, uno solo. Lo consideri un piccolo omaggio».Voglio il tempo per finire questo racconto, ho pensato subito, schiacciato dalla sorpresa e dal-

l’incertezza; poi d’istinto, venuto da chissà dove, mi è uscito: «Vorrei la prima ora. La mia primaora».

«Che ora era?».«Non so, mi pare le due del pomeriggio».«La prego, dica l’ora con precisione».«Le due del pomeriggio».«Che anno?».«1949».«Che giorno?».«11 luglio».«È sicuro?».«Sicuro, sì, lo stesso giorno e mese di mio padre». Ma per un istante ho avuto il sospetto che

la sua domanda non riguardasse soltanto l’esattezza del momento della mia nascita ma più ingenerale…, sì per un istante, anzi meno, anche meno, ho avuto solo il tempo di un sospetto, oun sospetto non solo sul tempo, soprattutto su cosa mi fosse stato veramente chiesto in quelmomento…

…Altro che bello, era bellissimo, ma non potevo muovermi, vedevo tutto confuso, che fossigià miope allora?, un freddo terribile, tutto umido, bagnato di liquami, ne avvertivo l’odore for-te, avevo le mani ma non potevo toccarmi la pancia, lì c’era un sorprendente nodo del mio tes-suto tenue, un tubicino che qualcuno aveva appena annodato come un fiocco, cosa ci faccioadesso, pensavo, andrà via col tempo?, volevo chiederlo al calore femminile e familiare che av-vertivo come un animale lì vicino, volevo chiederlo a quell’odore che è ancora mio, volevo par-larle, o parlare almeno alle voci che sentivo attorno, chiedere qualcosa, ma chissà cosa, e poinon conoscevo le parole, nel cercarle mi strozzavo col mio stesso pianto, mi stancavo, ero stan-chissimo. Sfinito.

…Tra tutte le cose che non so adesso, non so evidentemente cosa sia il tempo, ma ho una sen-sazione strana, chissà da dove viene, non conosco il tempo ma mi sembra di ricordarne vaga-mente alcune misure elementari, che il tempo sia una misura?, a mio parere l’ora dev’essere pas-sata da un pezzo, l’ho detto alla signora? Era lei? Era tornata? Gliel’ho detto che l’ora è passata daun pezzo o l’ho solo pensato? No, devo averglielo proprio detto alla signora, e forse la risposta èquesto suo filo di voce calda come un carezza: «Noi riponiamo in te la massima fiducia, ma a suotempo capirai perché non possiamo rischiare. Almeno non adesso, certamente non in questafase. Ci prenderemo cura di te. Tra qualche tempo tornerà tutto come prima, ma non subito, nonora. Al momento opportuno sarai perfettamente uguale, perfino il tuo lavoro sarà lo stesso. Diche cosa ti occupavi?… Di cosa hai detto che ti occupavi?… Ah sì, la discontinuità…». Non vedobene, ma se fossi più grande potrei dire che il suo volto si è illuminato a quell’idea o a quella pa-rola: «Sì, la discontinuità, adesso potrai ricominciare. Proprio da questa…».

© Copyright Daniele Del Giudice 2000-2006

Un supermercatocreato come sostegnopsicologico:per rendere credibilel’incredibile acquisto

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56 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 31DICEMBRE 2006

C’era il cli-ma che si manifestadopo i lunghissi-mi pran-zi, con lefamiglie

che si erano riunite: fuoridalle finestre le immanca-bili bianchissime nevid’antan, gli alberi stilizzaticon i rami scheletrici eghiacciati, e dentro casa ilprofumo dei mandarini elo spettacolo delle tavo-le imbandite, con lestoviglie e le posatemigliori, lo spuman-te sprecato gioiosa-mente perché unafesta è una festa enon si sta a sottiliz-zare sull’allegrosciupio delle coseinsolite e preziose.

Così è naturale chela memoria vada qua-si per inerzia ad anniche possono stare fra iCinquanta e i Sessanta,ma che arrivano anchemolto più vicini, in ognicaso quando fra gli ad-dobbi, le stelle natalizie ele decorazioni dell’albe-ro cominciava a manife-starsi l’idea per eccellen-za, l’assoluto che trasfor-mava la festività religiosain un’attesissima festa lai-ca. Che era il cinema pertutta la famiglia, bambinicompresi.

Si trattava di una tradi-zione esplicitamente no-vecentesca, convenzio-nalissima e irrinunciabi-le, che trasferiva il mo-mento capitale della riu-nione di famiglia dalla ca-sa all’esterno, dal salottodomestico alla platea delcinema, quando i cinemanon erano le multisale dioggi ma sterminate diste-se di poltrone dispostespettacolarmente ad anfi-teatro. L’occasione, ognianno, poteva essere il soli-to puntualissimo film dellaDisney: perché nell’Italiadella stagione che precedeil vhs e il dvd i cartoni ani-mati costituivano un ap-puntamento annuale, se-condo una scansione ine-luttabile stabilita dal mer-cato. Sta di fatto comun-que che il film disneyano sipoteva vedere soltanto inquei giorni benedetti, sitrattasse della riedizione diFantasia, dell’uscita dellaCarica dei 101, o più tardidei fortunati Aladdin e Il ReLeone.

Ma non c’era soltanto Di-sney, naturalmente. Conqualche precauzione a tu-tela delle psicologie infanti-li, il film delle festività pote-va essere un western, comepiù tardi una di quellecommedie catastrofiche epazzesche all’americana,o una spettacolare storiadi ghostbusting. Non c’e-ra ancora, è vero, il marke-ting implacabile e piuttosto ovvio che poiavrebbe portato l’industria cinemato-grafica nazionale a imporre ogni dodicimesi la coppia, poi scoppiata, compostada Massimo Boldi e Christian De Sica: an-zi, quando le feste erano davvero le feste,intervallo canonico fra due parti distintedell’anno, il trash nazional-romanesco enazional-milanese non era ancora statoinventato, e l’industria si preoccupava diconsegnare al pubblico un’offerta dispettacolo in cui dovevaesserci il prodot-to per le famiglie, capace di raccogliereun pubblico generalizzato, che accomu-nasse per un giorno le diverse generazio-ni, dai bambini ai nonni. Senza parolac-ce, senza cafonaggini e atti di maleduca-zione: il film doveva essere ricreativo e di-vertente ma senza scalfire i modelli dieducazione vigenti; e i genitori non do-vevano poi passare l’intera serata a spie-gare perché nei film ci si comporta diver-samente dalla vita reale.

Occorre pensare infatti a un cinemaquasi sempre pomeridiano, con platee egallerie affollate di bambini che aspetta-vano tutti eccitati l’avvio della proiezio-ne, con sciarpe e cuffie e cappottini ap-poggiati sugli schienali delle poltroncinerosse, e coppie di genitori che per una vol-ta si concedevano una tolleranza diverti-

EDMONDO BERSELLI

Poteva essere un western, una storiadi ghostbusting, o l’immancabile DisneyEra prima delle multisale e prima che fosse

inventato il trash nazional-popolare. Un prodotto che riunivanegli spettacolari anfiteatri dei vecchi cinema nonni e nipotini,un apprendistato collettivo al gusto della settima arte

Anno mondialeper lo showdella pallastradaEMANUELA AUDISIO

NAPOLI

Copacabana proprio no. Lì c’è la sabbia, la rovesciata è dolce. Qui c’è l’asfalto, la pietra lavica, l’assistdel marciapiede. Pelè non lo puoi fare. Sbagli il dribbling e ti accoppi un piede, toppi il rilancio e finisci incattedrale. Ognuno ha la sua pallastrada. Quella di Napoli è mondiale. È il sogno che ha portato Cannava-ro in cima al mondo, con la spinta di tutti gli scugnizzi. Per Stefano Benni nella Compagnia dei Celestini leregole sono semplici: ammessi gli sgambetti, il cianchetto, la gambarola, il ganascio, il pestone, il costolo-ne, il raspasega, il placcaggio, il ponte, la cravatta, l’entrata a slitta. La palla deve essere stata rattoppata al-meno tre volte e avere protuberanze. Guai a fermarsi per il passaggio di bici, auto, moto e camion, per ilcarro funebre invece sì.

A Napoli la pallastrada si affolla al centro. Sbatte sull’arte concettuale, rimbalza sulle facciate delle chie-se, s’incastra tra i monumenti e le decorazioni. Vola sull’anno nuovo, sulle feste della città, finisce tra i pie-di di tutti, sul palco dove stasera canterà Ranieri. E quando piazza Plebiscito si illumina, con le frasi del-l’artista americana Jerry Holzer che dovrebbero ingoiare la notte e le angosce dell’umanità, la vedi lì in al-to, impiccata alla luna. È il vintage che non se n’è mai andato. Non manca una festa: c’era a Natale, conCannavaro e Ferrara, cercava traiettorie l’anno scorso tra le mura dell’installazione di Sol Lewitt. L’arte laispira, ne usa ogni spazio, sfrutta i suoi angoli. Le porte delle chiese spesso sconsacrate e le inferriate ven-gono ridisegnate con vernice bianca, i bidoni della spazzatura servono da pali. Si gioca in notturna sottola galleria Umberto, con squadre trasversali, in via Verdi, tra l’edifico appena restaurato del consiglio co-munale e palazzo San Giacomo, con i cestini di immondizia piazzati verso il Municipio e verso il San Car-lo e con l’edicola di Gennaro che è quasi palla al centro.

La pallastrada qui ha i suoi blues: auti nostro, come ha scritto Ciro Fusco, che in un bel libro ha fotogra-fato i calciatori fuori campo. Auti, dall’inglese out. Il calcio di chi è fuori, escluso, senza campo. Il lessico fa-miliare di chi rimastica tutto: pronuncia e regole. E se ne frega dei playground. Enz da hands, fallo di ma-ni. Il gioco a lampione unico, perché in certe strade solo una porta era illuminata, l’altra al buio. Le partiteche finivano perché tra un rimpallo e l’altro il supersantos arancione scuro a righe nere non si trovava più.Sparito nell’oscurità. Anzi il supersantòs, 280 grammi di gomma, evoluzione del supertele, a pentagonineri, che volava leggero come un pipistrello. E per questo la crudele guardia municipale lo bucava, anzi loschiattava con la penna Bic.

Non solo yesterday, ma anche cronaca, quotidianità. Ghezzi è il ct di piazza del Plebiscito. In realtà si chia-ma Tonino, ha 63 anni, è bidello alla scuola Vittorio Emanuele, niente moglie, né figli, capelli lunghi bion-di, pochi denti, chiamato così perché da ragazzo giocava in porta e aveva la passione per l’Inter. Allenamenti

eraC’

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 57DOMENICA 31DICEMBRE 2006

una volta il film di famiglia ta verso l’impazienza dei figlioletti. E poi,a film cominciato, ecco la felicità e la pau-ra nei momenti più emozionanti, le lacri-me, le risate, la disperazione quando il ReLeone muore o quando sembra che i cat-tivi siano capaci di sconfiggere i buoni,prima dell’entusiasmante colpo di scenache conduce alla catarsi finale.

Imperdibile, il film dei pomeriggi di fi-ne anno. Quasi una cerimonia blanda-mente secolarizzata che tuttavia conser-vava una sua piccola sacralità, quasi fos-se il riflesso mondano dei riti religiosi delfinale d’anno, dalla vigilia con la messa dimezzanotte a Natale fino alle celebrazio-ni molto più pagane e spumeggianti del-la serata di San Silvestro.

Non ci sarebbero state infatti tante al-tre occasioni per ricostituire l’unità fami-liare davanti al grande schermo. E d’al-tronde negli anni di un’Italia ancora permolti aspetti antica, l’atmosfera festivaera creata non soltanto dalle luci e dallevetrine dei negozi: nelle case, i program-mi televisivi della tv del monopolio eranoincentrati intorno ai film chapliniani

che venivano regolarmentemandati in onda a Santo

Stefano, “comiche”come L’evaso, Un

idillio di campagnao Vita da cani, e lun-

gometraggi come Ilcirco, Il monello e La

febbre dell’oro. Si pote-va restare indifferenti

davanti alla scena del Na-tale solitario di Charlot, e

alla festa da due soldidella danza dei pa-nini? No che non sipoteva. Si rideva fi-no a singhiozzare, emagari ci si sentiva

più buoni, liberati dalle re-sponsabilità, e dai compitidelle vacanze.C’era dunque quasi una

preparazione implicita, unaspecie di sentimento filmico con-

diviso e quasi connaturato al perio-do di festa: nel senso che nelle altre

stagioni erano poche per le fami-glie le probabilità di assistere a

un film senza scene imbaraz-zanti, dato che ci si imbarazza-va con poco, e le mamme scri-vevano a Famiglia cristianachiedendo come avrebberodovuto comportarsi quandosul teleschermo, durante unfilm innocente, classificato«per tutti», o al massimo «tut-ti con riserva» dalle schededel Centro Cattolico Cine-matografico, fosse apparsala scena di un bacio un po’troppo esplicito e passionale.E dunque l’attesa del film diNatale e Capodanno si prepa-rava con una serie di ritualiimmodificabili, che facevanodel cinema la continuazionedei cenoni e della liturgia dei re-gali sotto l’albero o accanto alpresepio.

Qualcosa è poi cambiato, an-che senza che debba essere perforza necessario ricorrere all’i-dea sarcastica delle festività co-me un incubo, una specie di Ni-ghtmare Before Christmas (dal ti-tolo del film di Henry Selick scrit-to da Tim Burton) trasportatocon esattezza diabolica nel pe-riodo fra le due feste, Natale eCapodanno. Se si pensa che inquesto 2006, anno della com-

puter animation, manca dalla program-mazione “il” film della Disney, il cambia-mento è radicale, che fa pensare come lerivoluzioni possano nascere da una tra-dizione mancata. Decisione organizzati-va e commerciale, quella della grandemultinazionale dell’intrattenimento,ma che comunque intacca le abitudini ein fondo lascia perplessi: niente cerbiat-ti, niente sette nani, sirenette, niente labella e la bestia, niente di niente.

Per questo conviene fare un tuffo nelpassato e pensare che il film delle festerappresentava a suo modo una specie diapprendistato al gusto del cinema. Non èun caso che ciascuno di noi sia in grado diricordare il primo film visto in compa-gnia dei genitori, nell’atmosfera ricca ditrepida magia delle sale del centro. La sa-la, il buio, il fascio luminoso del proietto-re. Sarebbe facile ricamare sulla poeticitàdel cinema di allora, quando per molti unfilm era una spesa da valutare con atten-zione, ma che apriva le porte a un mondodi meraviglia e di incanto. Ma convienepiuttosto recuperare quegli appunta-menti di allora e considerarli un fram-mento del nostro personale romanzo diformazione: la piccola Bildung che ab-biamo avuto grazie al Natale e alle festi-vità, e grazie a quel semplice cinema rea-lizzato per le famiglie.

Una tradizione novecentescaormai in gran parte perduta,che trasferiva e prolungavail momento capitale della riunionefamiliare:dal salotto domesticoalle poltroncine di una platea

Erano i tempi della tv del monopolio,la tv in bianco e nero che festeggiavatrasmettendo la danza dei paninie il Natale solitario di Charlot:si rideva fino a singhiozzaree magari ci si sentiva più buoni...

sotto il colonnato della chiesa, schemi sotto le statue. Una piccola nazionale di pulcini, a zero lire. A una cer-ta ora della sera Ghezzi pare il Pifferaio Magico di Hamelin, gira per le strade del centro a raccattare bam-bini, a ogni curva la fila si allunga, quando sbuca in piazza Plebiscito è il momento di fare le squadre. Ghez-zi allena e vigila, perché se vai in fuorigioco finisci tra Carlo e Ferdinando di Borbone, tossici, cani, e dispe-rati. Si comincia sulla strada, si finisce a volte sull’erba di uno stadio. «Nocerino, che gioca con il Piacenza,è cresciuto qui. Non è il solo, non tutte le famiglie hanno i soldi per mandare i figli a scuola di calcio».

La pallastrada viene dalla viscere. Napoli ha solo 12 campi da calcio regolari, Padova che è tredici voltepiù piccola ne ha 65, Milano 153, Roma 232. Ciro Muro, 11 partite nell’anno del primo scudetto, un postoin squadra, soprattutto in caso di assenza di Maradona: «Le buste dell’immondizia, quand’ero bambino,erano le nostre porte. Si giocava quattro contro quattro dietro le palazzine di San Pietro a Patierno».

La strada insegnava: la palla non diventava più piccola, anche se bucava le mani, passava sulle teste, an-dava fuori, e soprattutto non in tv. Riccardo Siano, che da ragazzo passò una notte in cella con tutta la squa-dra, beccata a giocare nei vecchi quartieri, ha fotografato i palloni persi, affondati, vagabondi nella città.Sono la mappa di un’infanzia sbagliata, ma mai in affanno davanti alla storia: sulla statua del marescialloDiaz c’è una palla di cuoio incastrata tra il ventre del cavallo e le sue zampe anteriori (complimenti all’au-tore del pallonetto), in piazza del Gesù accanto al chiostro di Santa Chiara c’è una terrazza con una venti-na di supersantos orfani, in piazzetta Banchi Nuovi i tubi dell’acqua servivano come pali, altre sfere sonoinfilzate sui cancelli dei giardini del lungomare da calciatori asini, incapaci di aprire spazio sulla fascia, esulle palme di Piazza Carità. L’anno scorso giocarono pure con le cape di morto davanti alla chiesetta diSant’Arcangelo a Baiano, chiusa da sedici anni per restauri. Non c’era niente da prendere a calci e i ragaz-zi scelsero come palla alcuni teschi del convento. Nelle dichiarazioni del dopo partita dissero: «Le ossa no,le abbiamo lasciate, non andavano bene».

Napoli è tutta un campo, anche se le macchine, i parcheggi, i posteggi, cancellano le righe del calcio. An-zi è tutta una religione, basta cercare chiese, porte, porticati, colonne, andate in pace sì, ma soprattuttoandate in gol. Si gioca in piazzetta Montecalvario tra il profumo di chi sforna il pane e le urla degli scolari,soffocati dalle auto che avanzano come famelici dinosauri, di sera ci si sfoga, evitando la vigilanza, in gal-leria Umberto, c’è chi si prende l’ala lunga e chi la corta. E gli alberi di Natale vanno a fuoco, perché certebarriere sono fuori misura. La pallastrada disturba i sonni, non i sogni. Sennò Pasquale, stoppèr di piazzaConcordia, mastino classe 1946, terrore di tutti i vicoli come faceva? Moglie e tre figli, e nessun aiuto. Peròè vero che sotto il selciato c’è la spiaggia, e se la palla è rasoterra ci può stare anche Bahia. E il figlio di quel-lo stoppèr si chiama Fabio. E la pallastrada vola. Anche oggi, con i cin-cin. E Cannavaro è number one. Au-ti nostro, ma nostro pure il mondo.

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i sapori

lo, e un pezzetto di petto magrissimo misarebbe toccato. Maledetto perché si-gnificava brodo, agnolotti in brodo, e io(ma anche mio padre, però se stava zit-to lui non potevo protestare) li avrei pre-feriti col ragù di carne, e magari qualchefungo secco.

Mia madre aveva preparato il ripienola sera della vigilia, mia nonna aveva ti-rato la sfoglia. «E il brodo è squisito, co-me si fa a buttar via il bene del Signore?».

Mia nonna era molto religiosa e tirava inballo il cielo nelle cose di tutti i giorni. Sesmarriva qualcosa (un bottone, unamoneta) il ritornello era: «Sant’Antoni ebon Gesù fèmm trovà quel ch’hoperdù». Quando mi lamentavo del gras-so del prosciutto (ci avrei messo anni acapire quant’era buono) mi diceva:«Pensa ai moretti, in Africa, che nonhanno il prosciutto». Già, i moretti percui si raccoglieva la carta stagnola, ri-

Monza in corriera si sarebbe trovato,ma era già un piccolo viaggio. Dunque,il maledetto cappone. Sempre megliodello stramaledetto tacchino, bestiache mi terrorizzava più dei babau in-ventati da mia nonna, tanto più daquando mi ero preso una beccata in fac-cia. Bestia feroce, avvoltoio domestico,boicottato usque ad mortem (mia, nonsua). Cappone maledetto non tanto insé, poveraccio. Era pur sempre un pol-

Tavole lontane

Il cucciolo Pippo,un minuscolo riccioraccolto in strada,

era sparitosenza lasciare traccia

È il Natale del 1951 intere famigliesfollate dall’alluvione del Polesinevengono aiutate a trascorrere le festein modo più degno. Sulla tavola di chipuò compaiono gli squisiti agnolotti

l profumo vintage

Carlìn Petrinie il cenone slowfatto di spiccioli

In quel Natale del ‘51 avevo impa-rato molte parole nuove. Sfolla-to, per esempio, e me la ripetevoin silenzio, trovando assonanzecon sfogliato, spogliato e svoglia-to. Avevamo traslocato da Santa

Maria della Versa (la Madòna per gli in-digeni) a Brugherio giusto in tempo perfarmi cominciare lì la prima elementa-re. In Oltrepò avevolasciato gli amici eanche un senso di li-bertà. Era un paese disalite e discese, toltala strada principale. Eio ero sempre fuori,per vigne o cascine. ABrugherio la caserma(mio padre era mare-sciallo dei carabinie-ri, di qui gli sposta-menti) aveva un altomuro di cinta coi coc-ci di bottiglia sopra, edentro c’era un orto,qualche albero dafrutto, uno spiazzoasfaltato dove giravala jeep. Quando lajeep non c’era, la por-ta del garage era quel-la di San Siro. Gioca-vo al chiuso senten-domi prigioniero.Non conoscevo nes-suno. Per farmi pas-sare il magone miopadre m’aveva rega-lato un piccolo riccioraccolto per strada,probabilmente orfa-no. L’avevo chiamatoPippo. Mangiava ditutto, tranne che pa-tate e carote crude(cotte sì) e il veterina-rio aveva detto di dar-gli poco latte, altri-menti sarebbe statomale. In novembreera sparito. «Sarà an-dato in letargo», dice-va mio padre.

Gli sfollati veri era-no arrivati in treno,sui camion, qualcu-no in bicicletta da Mi-lano. Dormivano al-l’oratorio e anchenella scuola, brandi-ne lungo i corridoi,uscivano prima cheentrassimo noi per lelezioni, tornavanoquando uscivamo.Ricordo i giornali-ra-dio ascoltati in cuci-na (l’unico locale ri-scaldato) e le parolenuove: Polesine, Oc-chiobello, terreni go-lenali, esodo. Sfollati.«Hanno perso tutto,proprio tutto», dice-va mia madre. E in ca-sa, come in altre case,si cercavano vestitivecchi, giocattoli di-menticati, cose dadare agli sfollati, co-perte, andavano be-ne anche i soldi manon è che ne avessi-mo molti. Quasi misentivo un privilegia-to, grembiulino nero,colletto bianco e na-stro blu. Togliere ilquasi. Il fatto che aglisfollati fossero anda-ti i vestit ini diquand’ero più piccolo mi faceva pensa-re che non avrei avuto fratelli o sorelle ela cosa vagamente non mi dispiaceva.

E comunque era Natale e Gesù Bam-bino mi aveva fatto trovare ai piedi delletto un paio di scarponcini con la suo-la di para e due torroni. Magnifico, l’u-nica preoccupazione era per Pippo,sparito la sera prima, ma era molto piùalta l’aspettativa del pranzo, durante lamessa continuavo a guardare l’orolo-gio. Per me Natale era antipasto e dolci,del resto avrei fatto volentieri a meno.Un padre sardo, una madre di Milano-Lambrate, una nonna lomellina, di Gar-lasco, il menù tradizionale non esiste-va. Ossia: a mio padre sarebbe piaciutol’agnello al forno, ma solo se sardo ga-rantito. Non era facile, forse andando a

GIANNI MURA

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Il menù delle feste secondo Terra Madre. Che sarebbe poi il menù dellefeste di Carlìn Petrini, il più tradizionalista dei contadini langaroli, maanche il più aperto, visionario, accelerato tra gli intellettuali terzo-quar-

tomondisti. Una bella miscellanea, capace di sortire effetti esplosivi, quan-to e più dei mortaretti di Capodanno. Come conciliare la secolare, intoc-cabile cultura alimentare del basso Piemonte con le mille e mille ritualitàgastronomiche del pianeta?

«Semplice, rispettandole tutte», risponde il padre nobile di Slow Foodcon voce allegra. E perentoria. «Perché non deve venire in mente a nessu-no di fare opera di globalizzazione con la tavola delle feste: sarebbe una be-stemmia nei confronti di chi aspetta tutto l’anno per offrire ai suoi cari i ci-bi più buoni e affettuosi — sì, c’è un’affezione nel cibo, altroché! —, quelliche ha imparato a cucinare dietro il grembiule delle donne di famiglia. Chea loro volta li hanno mandati a memoria durante l’infanzia. La memoria delcibo è straordinariamente resistente».

Se tutto il mondo è paese, insomma, non esiste momento più di questoin cui il paese si frammenta in enclaves tanto minute e pervicaci da rasen-tare il fortino. «Sento fare grandi discorsi sulla trasversalità delle feste di fi-ne anno. Balle. Secondo me, invece, sono momenti di vita intima, che toc-ca corde molto consuetudinarie e tradizionali. Ogni popolo, ogni persona,ogni etnia ha codificato piatti dedicati. E il cerchio potrebbe stringersi an-cora fino a diventare un anellino da niente, se pensiamo che in un postominuscolo come l’Italia i menù delle feste sono totalmente diversi da un

LICIA GRANELLO

I

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piegandola con cura, e poi la si conse-gnava in parrocchia, e mi era difficilecapire come la carta stagnola risolvessei problemi alimentari dei moretti, macosì si doveva fare, anche a scuola ce lodicevano. Se piangevo perché mi erosbucciato un ginocchio o avevo datouna testata contro un mobile, mia non-na diceva: «Pensa ai mutilatini di donGnocchi». Come se non ci pensassi già,una fetta di risparmi era per loro. Don

Solo a pasto finitoarriva la rivelazione

dolorosa: Pippoè stato catturato

e mangiato dai vicini

del maledettocapponevamo cipolle sottaceto e quei peperon-cini verdi e lunghi. Ma c’era anche ilpaté di fegatini, comprato dal salumie-re, e l’insalata russa, tutt’e due copertida uno strato di gelatina di cui ero mol-to ghiotto. Gli agnolotti cercavo di aver-li quasi asciutti, con abbondante gratta-ta di formaggio, perché gli occhi delgrasso, nel brodo, mi ispiravano diffi-denza. Il cappone si accompagnava conla mostarda, che non mi piaceva per via

del pizzicore al naso. Altri contorni: fi-nocchi al forno e purea di patate, che miusciva dagli occhi. Il vino era una Bo-narda, ancora proveniente dall’Ol-trepò, di cui ricordo perfettamente co-lore e profumi, ma non potevo berla. Ar-rivava in damigiane, mio padre la im-bottigliava seguendo calcoli che misfuggivano, ma mi piaceva assistere al-la cerimonia dell’imbottigliamento pervia dell’odore d’olio che assumevano i

tappi di sughero.Guardavo gli altri

mangiare con gran-de piacere un gor-gonzola più verdeche bianco (che di-sgusto, che roba: mene sarei innamoratonegli anni del liceo).E arrivava il mio veromomento: quellodei dolci. Il panetto-ne (Motta, di rigore),i torroni, i cioccola-tini, ma anche lafrutta secca, che nelresto dell’anno si ve-deva raramente. Epoi la frutta: l’uvadetta luglienga, ap-passita in Oltrepò, ilmelograno che por-ta fortuna, le arancee i mandarini. Poi simettevano le buccesui cerchi di ghisadella stufa e quelprofumo per me eraNatale e patetica-mente continua aesserlo, altro che lemadeleines di Prou-st. Natale era, an-che, quel caldo deli-zioso, mentre nellealtre stanze il gelofaceva fiori sui vetri ela notte si andava adormire col matto-ne caldo di forno,per tenere buoni al-meno i piedi. Dopo ilbattesimo del vino aquattro anni, avevodiritto a un goccio dimoscato annacqua-to, mentre mia non-na beveva un gocci-no di alchermes emio padre un Mille-fiori Cucchi, che miattirava per via deirametti di zuccheroche ricordavanoquelli degli alberi,fuori. Fuori ero an-dato, dopo il pranzo,negli angoli preferitida Pippo, ma nonc’era. Strano chemio padre mi se-guisse con un’ariatra dolce e severa.

«Prova a dimenti-carlo, perché non lovedrai più. Ormai seiun ometto e puoi su-perare certi piccolidolori. Pippo è mor-to». E lui come lo sa-peva? Lo sapeva per-ché aveva sentitoqualcosa tra il gru-gnito e lo squittio ve-nire dalla cascinadietro la caserma, epassando dalla ca-scina aveva chiesto.Visto un riccio? Sì, eanche mangiato.Pare siano buonissi-mi. Ma è bruttissimo

sapere che l’usanza è di bollirli vivi.Questo mi fece piangere come un di-sperato. «Ma era mio». «Non potevanosaperlo, non aveva il collarino e la me-daglietta, un riccio è di chi lo trova. So-no bestiole curiose, qui nessuno gli fa-ceva niente, ha voluto vedere dall’altraparte, è stato sfortunato». Poi aggiunse:«Potresti avere un cucciolo di cane lu-po, per la Befana». Passai dal pianto alriso in un secondo. «Lo chiamerò Alì».

Alì morì serenamente di vecchiaia.Mi era rimasta dentro la voglia di spac-care a sassate qualche vetro della casci-na, ma il figlio di un maresciallo certecose non le deve fare, peccato. Di moltialtri Natali non ricordo assolutamentenulla, quello del ‘51 era il primo con undolore.

Gnocchi era considerato quasi di casa:mi aveva battezzato e prima aveva spo-sato i miei genitori, di nascosto, nellavilla dei Visconti di Modrone a Mache-rio, quando mio padre era ricercato inquanto partigiano.

In Lombardia, almeno qui eravamorispettosi della tradizione, si cominciacon i salumi e «ghe voeur el brusc», os-sia i sottaceti. Con prosciutto, coppa (diSanta Maria, come il salame) mangia-

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 59DOMENICA 31DICEMBRE 2006

luogo all’altro. Non dico il nostro brodo di cappone e i mustazzolisiciliani,sarebbe troppo facile. Penso alle diversità che si accumulano da una fami-glia all’altra: a Napoli, la ricetta delle melanzane col cioccolato viene tra-mandata di madre in figlia con la consegna di segretezza assoluta. Due me-si dopo Terra Madre, mi piace immaginare le migliaia di comunità che so-no venute a Torino impegnate a perpetrare la loro diversità, la loro unicitànei piatti delle feste. Ma non scordiamo che molte di loro hanno rituali di-versi dai nostri: il Ramadan musulmano, il Capodanno buddista... Smet-tiamola di pensare che esistano solo le festività della nostra parte di mon-do. Anche perché il sincretismo gastronomico stenta a decollare».

Infatti, in virtù della memoria del cibo, popoli e paesi sono vincolati amaterie prime precise: il maiale è la pietanza delle feste in tutto il NordEuropa. Puoi declinarlo in mille modi diversi, ma l’ingrediente-base re-sta quello, immutabile. Succede anche per il tacchino in America o il bac-calà in Portogallo.

«E poi bisogna parlare delle feste degli emigranti. La loro memoria del ci-bo è speciale, perché fa parte di quei brandelli di cultura rimasti attaccatialle dita. Un siciliano di terza generazione in Argentina non parla più ita-liano, ma il piatto della memoria ce l’ha ancora lì, in testa, in bocca. Questovale per tutti: mi ricordo un Capodanno armeno a Brooklyn, fatto con tut-ti i crismi della gastronomia originale, dai mezès, i ricchi antipasti, allapakhlava, la sfoglia di noci della festa. Un’altra volta ero a Sidney, invitatoal cenone da una famiglia di italiani. Orgogliosi, portarono in tavola un bel

cotechino fumante. Solo che in Australia a dicembre è estate e fuori c’era-no trenta gradi!».

Eppure, un filo che leghi i riti gastronomici di fine anno da una parte al-l’altra del pianeta deve pur esserci. Forse, dire: per fortuna il Natale non èancora globalizzato, è una bella frase ma non basta.

«È vero, la vera festa della biodiversità deve avere un approccio diverso.Ma è il contenitore che ci deve accomunare, più che il contenuto. È quello,che deve essere protetto... E il contenitore, che si richiami alla stalla dellatradizione cristiana o ad altre iconografie, mal si concilia con le mangiatepantagrueliche di questi giorni. L’intimità esige una ritualità diversa. Nonmi tiro indietro: mi piace mangiare bene, in compagnia, anche più del ne-cessario, a volte. Ma bisogna distinguere. Nel giorno del bue grasso, un ap-puntamento che mi è molto caro, si celebra la civiltà contadina. Il brodo colvino bevuto all’alba, la sfilata dei buoi e la condivisione della tavola con ilbollito fumante: non è ostentazione, ma un rito della memoria. Il menù del-le feste non dovrebbe essere così. Tutto questo esagerare ricorda antropo-logicamente i pasti del riscatto dalla fame. Eppure, dai tempi in cui si la-sciavano giorno dopo giorno gli spiccioli del resto al bottegaio per raggra-nellare a fine anno i soldi per il cenone è cambiato tanto. Diciamo che miunisco agli inviti alla moderazione dei dietologi per motivi di buon gusto».

Dia un suggerimento. «Mi piacerebbe un menù locale ed ecososteni-bile. Più capponi e meno salmoni. E se il cappone sotto le feste costa iltriplo, sostituiamolo con la gallina».

E poi arrivano i dolci: cioccolatini,torroni e panettone. Le bucce sottilidei mandarini finiscono sulla stufadi ghisa e il loro profumo restanella memoria come il profumo delle feste

In Lombardia il pranzo cominciacon salumi e sottaceti, si assaggial’insalata russa e il paté. Il piccolodella famiglia preferisce il ragù,ma va rispettata la tradizione...

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le tendenzeMade in China

60 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 31DICEMBRE 2006

e colori tutti diversi dai nostri. Del restocol loro misero salario le operaie di OkTree non avranno il privilegio di celebra-re neppure il Capodanno cinese con unavacanza. Cento euro al mese per lavora-re almeno sessanta ore a settimana, sa-bati e domeniche inclusi. Le ragazze in-dossano maglioni di lana sporchi sotto igrembiuli verdi d’ordinanza; una ha ilvezzo di mostrare una collanina sopra latuta di lavoro; un’altra porta il passa-montagna per coprire le orecchie dalfreddo.

Fuori dalla finestra appannata s’intra-vede lo squallore di una periferia indu-striale disseminata di ciminiere, discari-che industriali, qualche campo agricoloabbandonato e pronto per essere invasoda nuove fabbriche. Una latrina all’aper-

to segna il confine di questa ditta. Nelcortile dello stabilimento le operaie ten-gono un orticello dove spuntano unadozzina di cavoli congelati e coperti dibrina, un passatempo per arrotondare ilsalario con una razione di verdure. Il fo-tografo batte i denti mentre ritrae le ope-raie; loro resistono sorseggiando acquabollente da un thermos, le dita arrossatenon rallentano il balletto sul bancone.Un vecchio mangianastri gracchia can-zoni pop americane: l’unico legame conl’atmosfera festiva dell’Occidente sonoqueste note che invadono lo stanzone,riempiono le ore troppo uguali.

L’apice della stagione sul mercato eu-ropeo è già passato da un pezzo ma qui silavora a pieno ritmo per il Natale orto-dosso dei russi che arriva più tardi, e poiper il nostro Natale del 2007: centomilaalberi ordinati dai grossisti con dodicimesi di anticipo. Ogni albero viene in-cellofanato e imballato a mano per laspedizione sui mari. I metodi di produ-zione restano semiartigianali. In miriadidi fabbriche-botteghe come questa unesercito proletario — per lo più giovanidonne, a volte bambine — anima catenedi montaggio dove ancora il lavoro è tut-to a mano. Attorciglia, lega, incolla, èun’opera di attenzione, cura, manualità,precisione certosina. Le macchine nonsono arrivate in questo universo. Milio-ni di alberi natalizi, tonnellate di coronedi fiori sintetici con la scritta Happy NewYear, Buon 2007, escono annodati unoper uno da tanti alveari femminili comequesto, dove s’intrecciano fili di plasticacolorati, seguendo forme progetti eistruzioni presi dai magazine stranieri,

copiati su Internet.Al centro della fabbrica dentro un gab-

biotto di vetro c’è l’ufficio del padrone,riscaldato più generosamente. Compu-ter, collegamento Adsl, è un universo vir-tuale dove convivono tutte le feste delmondo. «Posso assumere più ragazze —dice l’imprenditore Li Xiaoyue —, il mioprogetto è eliminare i tempi morti e lebasse stagioni, produrre 365 giorni al-l’anno, 24 ore su 24». Il capo è immersonel suo piano di espansione sui mercatiinternazionali, mostra le divinità indùche i clienti di Mumbai hanno comin-ciato a ordinargli nello stesso materialeche lui usa per Befane e Santa Klaus. Lemicrolampadine che cambiano colore,le fibre ottiche come capocchie di spillosono una trovata che i cinesi convertonoper tutti gli usi. La decorazione di cui ilmanager va più orgoglioso ha successonella South Carolina e nel Texas, nelprofondo Sud americano del protestan-tesimo fondamentalista: è una croce im-macolata e splendente per celebrarel’anno nuovo nelle chiese dei “teocon”.La stessa plastica, gli stessi aghi iride-scenti intrecciati dalle mani delle bam-bine-operaie compongono anche sva-stiche indù per gli Om-Tree, gli alberi sa-cri per le case degli immigrati indiani aLondra. Mezzelune islamiche di aghi dipino partono da qui per il mercato deipaesi arabi, Dubai e gli Emirati. Ikebanaluminosi sono stati ordinati dai giappo-nesi. L’Italia riceverà duemila bouquetdi orchidee che sembrano fuochi d’arti-ficio: la luce attraversa le venature deifiori, i petali assumono colori diversiogni istante, dal celeste al rosa shocking.Sono stati ordinati per cerimonie di noz-ze, i primi sposi italiani del 2007 avrannoi centro-tavola del banchetto di nozze il-luminati da questi colori, nati in una spo-glia fabbrica cinese. Babbo Natale e laBefana, Capodanno e Pasqua, l’Islam eVishnu, tutte le tradizioni e tutte le reli-gioni del mondo, le corone floreali e lepiante finte per le divinità del Pantheondi quattro continenti hanno in comunel’odore di cavolo in una periferia di Pe-chino, le dita rapide e attente delle ope-raie cinesi.

moltiplicherà per cento la potenza deicollegamenti Internet fra Pechino e gliStati Uniti. Queste giovani operaie nonlo sanno. Né immaginano a cosa serva-no gli alberelli, i festoni, i fiori finti, i per-sonaggi colorati che escono dalle loromani, a migliaia ogni giorno, con la fibraottica che s’illumina, cambia i colori, di-venta fosforescente al buio. Sono ogget-ti insensati, destinati a mondi lontani,per ubbidire a usanze misteriose.

Natale? Capodanno? Epifania? Miguardano smarrite, fanno scena muta difronte alle domande, abbozzano timidisorrisi d’incomprensione. Il Natale nonè una festa cinese salvo che per le mino-ranze cristiane. Il business del grandecommercio da qualche anno sta provan-do a importare anche qui l’usanza dei re-gali; come per Halloween e la festa dellamamma gli shopping mall copiano ledecorazioni occidentali; per ora solo unaélite di cinesi ricchi adotta queste modestraniere. Con qualche tensione. In que-sti giorni imperversa una polemica anti-Natale, dieci studenti dell’università diPechino hanno scritto una lettera apertaal quotidiano China Dailyper denuncia-re l’infiltrazione. «Natale è una festa cri-stiana importata dall’Occidente — scri-vono i firmatari — e noi cinesi dovrem-mo restare fedeli alle tradizioni e festivitàdella nostra cultura. Esortiamo solenne-mente i nostri connazionali a risvegliar-si dal loro coma ideologico per restituirealla cultura cinese il ruolo dominante».

La polemica interessa solo pochi elet-ti. La festa nazionalpopolare per il 99 percento dei cinesi resta il Capodanno lu-nare, a fine febbraio, che ha iconografie

I fasci di fibre otticheintrecciati accendono

migliaia di simbolicopiati su Internete destinati a usanze

che le lavorantinon conoscono

Pechino.L’officinadelle festivitàaltrui

PECHINO

C’è un luogo dove Natale,Befana e il nostro Capo-danno non hanno sen-so eppure si ripetono

ogni giorno dell’anno, senza tregua.Fuori la temperatura è a meno sette, nel-la fabbrica una stufetta elettrica è impo-tente contro il gelo. Una mattina di finedicembre un centinaio di ragazze con leguance violacee sono sedute attorno aun bancone, afferrano velocemente isottili fasci di fibre ottiche trasparenti, liintrecciano con nastri di foglie di plasti-ca verde (gli aghi dei pini), li annodanocon precisione attorno al fil di ferro chefa il rametto dell’albero. Legando i ramisintetici col nastro adesivo prendonoforma gli alberi. Da questo stabilimentonella zona industriale Xi Zhuang, a ses-santa chilometri dal centro di Pechino,sono già partiti nel 2006 quaranta con-tainer navali carichi di decorazioni per lefeste di fine anno, destinazione Europa eAmerica. Il lavoro non conosce pause traun Natale e l’altro, le ragazze stanno giàriempiendo scatoloni per il dicembre2007. L’ultima moda in Occidente sono imicro-materiali iridescenti che s’illumi-nano con pochi watt di corrente e cam-biano colore cento volte al minuto. Il 95per cento degli alberi di Natale sintetici èmade in China, così come i personaggi ele luminarie per tutte le altre feste delmondo, dalla Befana italiana al Nataleortodosso russo, dai riti induisti ai matri-moni e funerali americani.

La società Ok Tree Company si trovasu Internet, ha il suo catalogo di tele-marketing dove sono esposti otto for-mati di alberi natalizi e poi pupazzi diSanta Klaus, elfi e fate e ogni divinità pa-gana. Tutto è fabbricato usando mate-riali sintetici che sono scarti di altri set-tori della tecnologia cinese. Le fibre otti-che che le ragazze annodano negli aghidi pino artificiali sono un sottoprodottodei cavi che la Cina sta usando per co-struire la nuova autostrada informaticasotto l’Oceano Pacifico, il cablaggio che

FEDERICO RAMPINI

In uno stabilimentogelido, un centinaio di operaie-ragazzineassembla i decoriluminosi destinatiad allietarele ricorrenze cristiane,buddiste e islamicheUna fatica senza soste

Tra luminarie, alberidi Natale, mezzelunemusulmane e immaginidi Vishnu iridescentisi riempiono scatoloniordinati da ogni angolodel pianeta. “Vogliamoprodurre 365 giorniall’anno, 24 ore su 24”

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 61DOMENICA 31DICEMBRE 2006

muta, raccolta, emozionata, come chisi prepara ad assistere a uno storicoevento. Anche fotografi, telecamere,cronisti armati di penna e taccuino, co-me il vostro inviato. Ogni tanto una vo-ce: «Eccola». Poi la smentita: ma no, lanave avvistata era troppo piccola peressere quella che aspettavamo. Nel-l’attesa, qualcuno canticchiava JingleBells.

A un tratto, un fischio di sirena da fartremare il suolo. Illuminata come unalbero di Natale, l’Emma Maersk appa-re all’orizzonte. La nave cargo piùgrande del pianeta e della storia. Quat-trocento metri di lunghezza, cinquan-ta di larghezza, ottanta di altezza. Piùlunga del parlamento di Westminster,della torre Eiffel o dell’Empire State

Building, grande come quattro campida football, alta come un grattacielo diventi piani. Appena tredici uomini abordo, insieme a undicimila contai-ner. E dentro i container, tutto quelloche non starebbe dentro il sacco e so-pra la slitta di Santa Klaus: 1.886.000decorazioni natalizie, 12.880 lettoriMp3, 40 scatoloni di reggiseni, 742 sca-toloni di borsette, 9.000 paia di scarpeda jogging, 195 scatole di jeans da don-na, 34 di magliette, 12 flipper, sei dino-sauri elettronici, e poi scatole di puzz-le, di sudoku, di automobili radioco-mandate, di pupazzetti di pelouche, dilibri di favole, di calendari, di bicchieridi Martini, di dvd, di televisori al pla-sma, di occhiali da sole, di profumi,deodoranti, schiuma da bagno, sapo-nette, di cornici e di lampade, di divaniin pelle e tostapane, e dieci tonnellatedi cozze congelate, due tonnellate di tèverde e tè nero, 87.000 spazzole per ca-pelli, 590 forni a microonde, 5.000 cor-nici per fotografie, 138.000 scatolettedi cibo per gatti, 150 tonnellate diagnello neozelandese, 1.939 paia discarpe da sera, e mi fermo qui con l’e-lenco perché se no occuperebbe tuttoil resto dell’articolo. Basti dire che unasquadra di trecento facchini, assistitada trenta gru computerizzate, ha im-piegato da un sabato sera al seguentelunedì mattina a scaricare tutta questaroba destinata alla Gran Bretagna, perun totale di tremila container: poi lanave è ripartita, con ottomila contai-ner pieni ancora a bordo, per andare adistribuire giocattoli, regali e beni diconsumo a Rotterdam, e da lì in mezza

Europa continentale.L’Emma Maersk è oggi la nave più

grande del mondo, ma non lo sarà permolto: entro fine 2007 la società di ar-matori olandesi che la controlla neavrà completate altre undici, grandiuguali; e le statistiche indicano che ladomanda di spazio su queste super-imbarcazioni, chiamate “post-Pana-max” perché troppo grandi per passa-re dal canale di Panama, cresce del die-ci per cento annuo, per cui si prevedeche tra non molto ne verranno costrui-te di ancora più grandi. La loro rotta ti-pica è sempre la stessa: dalla Cina ver-so l’Europa e l’America. Il carico è sem-pre identico: container, pieni di merciprodotte a basso prezzo in Asia e riven-dute in Occidente. Il costo del viaggio èinfinitesimale: spedire un container daSouthampton a Leeds, hanno calcola-to gli esperti, costa come spedirne unoda Hong Kong a Southampton. «Questisono i beni che avrebbero potuto esse-re prodotti in Europa, sono la prova cheinteri settori del commercio globalesono dominati dalla Cina, sono il risul-tato di milioni di lavori perduti in Occi-dente», si arrabbia Caroline Lucas, eu-roparlamentare dei Verdi per l’Inghil-terra del sud.

Ma c’è poco da arrabbiarsi con l’ine-luttabile realtà del progresso. «Senzaquel bastimento carico di doni», hascritto scherzando ma non troppo ilGuardian di Londra, «quest’anno inInghilterra sarebbe saltato il Natale».Bisognerebbe spiegarlo al bambinettodavanti ad Hamley’s, e ai suoi coetaneisparsi per ogni dove, che Santa Klausormai non arriva più dal Polo Nord:bensì casomai dalla Cina. Solo che ilbambinetto, i suoi coetanei nelle im-mediate vicinanze e i rispettivi genito-ri, sono già stati risucchiati all’internodel negozio: glielo diremo un’altra vol-ta. Din-don, din-don, continua a fareincessante il Babbo Natale all’ingres-so, e finalmente comprendo il suomessaggio: non chiediamoci per chisuona la campana della globalizzazio-ne, perché essa suona per noi. MerryChristmas.

quando il mondo era più arcaico e me-no popolato, funzionasse più o menocosì. Ma oggi, nel frenetico mondo glo-balizzato, Babbo Natale non usa unaslitta: usa una nave. E non fa tutto inuna notte: gli ci vogliono tre settimane.Il tempo necessario a circumnavigareil globo, dal mar della Cina alla Malesia,poi risalendo l’oceano Indiano fino almar Rosso, quindi passando per il ca-nale di Suez, attraversando l’interoMediterraneo fino a Gibilterra, persbucare nell’oceano Atlantico, costeg-giare Portogallo e Francia, entrare nelcanale della Manica, fermandosi infi-ne nel porto di destinazione, Felixtow-ne, sulla costa sud-orientale dell’In-ghilterra.

I giocattoli sfavillanti di Hamleys, al-meno in buona parte, provengono daquella nave, così come parecchi diquelli che la mattina del 25 dicembreverranno febbrilmente scartati da uncapo all’altro del Regno Unito e di altrenazioni d’Europa, Italia compresa.Non ci credete? Allora continuate a leg-gere. Perché tre settimane fa, quandola nave di Babbo Natale ha attraccato aFelixtowne, c’ero anch’io, a guardare ilsuo arrivo da terra.

Non ero solo. Avete presente la cele-bre scena di Amarcord in cui tutto ilpaese va ad aspettare il passaggio delRex, il mitico transatlantico, grandecome una montagna? Ho partecipato aqualcosa di simile, quel giorno a Felix-towne. Uomini, donne, molti con i fi-glioletti tenuti per mano o in braccio,avvolti in una coperta, perché calava iltramonto e faceva freddo: una folla

Trecento facchinie trenta gru

computerizzatehanno impiegato tregiorni per scaricarele merci comprate

dalla Gran Bretagna

Londra.Il bastimentodei regali d’Oriente

LONDRA

«Merry Christ-mas», ripetei n c e s s a n t e ,agitando un

campanaccio che fa din-don, l’im-menso Babbo Natale all’ingresso diHamley’s, il negozio di giocattoli piùgrande del mondo, cinque piani dibambole, trenini, soldatini, pupazzi,giochi elettronici, giochi di società,giochi di prestigio, giochi intelligenti,giochi scemi, giochi fai-da-te, giochiper tutte le età e giochi per tutti i gusti,fra le luci, i rumori, l’incredibile pigiapigia di Regent’s Street, alle sei di unpomeriggio qualche giorno prima delfatidico 25 dicembre. Una fiumana dibambini e genitori straripa dall’inter-no allargandosi come una macchiad’olio sul marciapiede circostante,bloccando il traffico di pedoni, rallen-tando auto e bus. Schiacciato tra mam-ma e papà, apparentemente a rischiodi venire stritolato ma in realtà perfet-tamente a suo agio, un bimbetto riescefaticosamente a conquistare la posta-zione di fronte al finto omone vestito dirosso e, non arrivando alla barba, lo ti-ra per un lembo del vestito. «Sei il veroSanta Klaus?», domanda perentorio ilbimbo. «Certo», risponde l’omone. «Ecome hai fatto a portare fin qui tuttiquesti giocattoli?», insiste il piccoletto.«Con la mia slitta, naturalmente», re-plica Santa Klaus. «E hai fatto tutto inuna notte?», chiede ancora il ragazzi-no. «Tutto in una notte».

Ebbene, sul marciapiede in quel mo-mento c’ero anch’io e non ho voluto di-struggere di colpo l’innocente fantasiadi quel simpatico moccioso; ma a voi,bambini ed ex-bambini di Repubblica,posso confidarlo: il Santa Klaus davan-ti ad Hamley’s racconta frottole. La slit-ta che distribuisce regali in tutto ilmondo in una sola notte è una balla,buona solo per le fiabe. O meglio, ma-gari può anche darsi che un tempo,

ENRICO FRANCESCHINI

L’“Emma Maersk”è la nave cargopiù grandemai costruitaA ogni viaggio lascianegli scali europeiundicimila containerpieni di prodottiimbarcati a Hong Kong

Repubblica Nazionale

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62 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 31DICEMBRE 2006

l’incontroUomini mito

PARIGI

Ci vediamo dopo Natale per-ché prima — mi ha fatto sa-pere con un sms — «non hotempo da perdere con te». Mi

dà dunque appuntamento il 28 di dicem-bre in cima alla Torre Eiffel e mi fa subitoarrabbiare. Lui ci arriva con le renne vo-lanti, ma a me tocca fare la coda per l’a-scensore e constatare ancora una voltaquanto sia diffusa questa maledetta maniadi arrampicarsi sugli edifici più alti, e maiper scrutare il cielo e le stelle alla ricerca delsegreto dell’universo, ma sempre perguardare in giù alla ricerca del segreto del-la città. Poi chiede un’intervista «all’italia-na». Pretende che gli mandi le domande evorrebbe correggere il testo finale: «Cosìfanno Prodi, Berlusconi, Fassino, Monte-zemolo, Tremonti... Perché io, Babbo Na-tale, dovrei essere trattato peggio?». Ri-spondo che non faccio interviste in questomodo, e gli racconto che Spadolini, buo-nanima, cambiava non solo le risposte, maanche le domande. Emandava al giornalepure la smentita.

Di nuovo mi irrito, perché non so comechiamarlo. Gli dico che al Tg1 lo chiame-rebbero «Presidente». «Tagliamo corto:dammi del tu». Gli faccio notare che se, nel-la vita, ci si dà del tu, poi al Tg1si finge il lei.«Beh, quelle sono interviste false, e la no-stra è vera, no?».

Per fargli accettare un’intervista vera,devo promettergli che parlerò male dellaPasqua e che non insisterò sulla sua vitaprivata. Per esempio non gli chiederò co-me mai non ha moglie, figli, amanti: «E tuche ne sai?». Beh, non fai certo vita di cop-pia. «Le persone vicine vanno tenute lon-tane». Ho letto in un affascinante saggioamericano, La solitudine del simbolo, chenegli alberghi, per sentirsi meno solo, Bab-bo Natale prende sempre una stanza a dueletti. Quel libro gli era sfuggito. Prodottodell’immaginazione collettiva, non gli è fa-cile aggiornare se stesso. Nordico o bare-se? Cristiano o pagano? Assume un’aria daMichelangelo e dice: «Sono uno smemo-rato gremito di memorie altrui. L’amnesiaè il mio legame con l’eternità». Aggiungeche non mi farà rivelazioni sulla sua capa-

Chiesa quel che la Chiesa vede come unadisgrazia. A Milingo ho portato un bellissi-mo dono d’amore per la sua Maria».

Scommetto che anche quest’anno nonhai avuto il coraggio — gli dico — di porta-re regali agli estremisti islamici. Come mi-nimo, ti avrebbero sgozzato: «Non è meche cercano, neppure per sgozzarmi. Civorrebbe una Mamma Natale che restitui-sca alle donne islamiche quello sguardoche gli uomini nascondono per non anne-garvi». Però, la barba ce l’hai politicamen-te corretta. «Ci sono barbe che nascondo-no, e barbe che esaltano il volto». È vero:Babbo Natale non ha l’aria del mendican-te di montagna, dei mullah e degli imam,fattucchieri precocemente incartapecori-ti, corpi che rivelano nella anoressia o nel-la bulimia vizi dell’anima. «Giovanotto,ammetti che è difficile portare una barbada profeta senza degradarla a maschera».

Papà Natale dice queste cose senza va-

cità di passare attraverso i camini, e nep-pure mi spiegherà la sua ubiquità alla mez-zanotte del 25 dicembre, ma io replico chese mi interessasse questa roba interviste-rei il mago Silvan o Giucas Casella.

Sulla Pasqua ha ragione. «Non c’è con-fronto — spiega — tra la festa della nascitadel mondo e il giustizialismo vendicativodella resurrezione, tra la santificazionedella generosità, del dono, e quella dellavendetta che comincia tre giorni dopo l’as-sassinio». Sospira: «Ecco il regalo che que-st’anno avrei dovuto fare al tuo Paese sefossi stato buono come dicono: bambini.All’Italia manca la fertilità». E difatti in Ita-lia il dibattito si accende solo sulla morte,ci si infiamma ai funerali, c’è una letteratu-ra sui reparti di rianimazione, e persinoquel terribile sacrosanto diritto naturaleche è il suicidio non viene protetto dal pu-dore e dal riserbo ma viene collettivizzatocome un bene sociale, diventa una ven-detta ideologica: «Nessuno fa lo scioperodella fame per una Carta dei diritti delbambino o per nuove leggi sulle adozioni.L’Italia è un paese di vecchi, malato e col-pevole: le speranze sono ricordi, si proget-ta il passato. A un paese che si spegne avreivoluto regalare la luce. Ma io non rifaccio ilmondo, esaudisco desideri».

Gli racconto che mia moglie, quando hasentito che dovevo intervistare Papà Nata-le, mi ha detto: «Così ti sei ridotto?». Alza ilsopracciglio: «Tua moglie ha ragione. Houn enorme archivio di interviste. Un famo-so giornalista italiano mi immaginò diret-tore di un supermarket: “Ho chiesto all’il-lustre commesso barbuto — scrisse — diincartarmi mezzo chilo di bontà, tre chili dipace, due etti di amicizia. Mi ha rispostoche era merce da tempo esaurita, anche incielo”. Ecco una prosa esemplare dei vostrigiornali: tempeste di retorica». D’altra par-te, cosa chiedere a Babbo Natale? Un pare-re sul matrimonio tra omosessuali? «In Ita-lia c’è sempre “un matrimonio che nons’ha da fare”». E un parere sulla Chiesa chesi sente assediata? E qui, inaspettatamen-te, Papà Natale mi fa l’elogio di Milingo: «Èil solo vescovo che ride». E mentre parla, ioaccosto quel viso nero e solare ai visi grifa-gni e lunari dei cardinali romani, penso aCamillo Ruini, per esempio, e subito Bab-bo Natale mi dice: «Quale dei due porta Diodipinto sulla faccia?». Aggiunge che Milin-go, nonostante sia stato recluso e costrettoall’autocritica «come un dissidente sovie-tico», non ha perso né la fede né il buonumore, «ha preferito perdere la fiducia del-la Chiesa piuttosto che tradirla», e persinoi suoi esorcismi «somigliano più alla danzaafricana che alla violenza». Insomma Bab-bo Natale è affascinato dal cattolicesimoafricano di Milingo, così vivo e gravido difuturo: «Vedo come una fortuna della

nità né arroganza, energico e cristallino,con una vaga espressione di burla canzo-natoria senza mai però ostentare superio-rità: non è nel suo stile. Mi colpisce la rapi-dità della sue reazioni, il suo fare imperio-so e al tempo stesso insinuante, a tratti miricorda Eugenio Scalfari, con una fede chenon conosce cielo, e con la barba esagera-ta, non solo per la lunghezza, ma soprat-tutto perché è trattata come un capello,non è ruvida e non è ispida, insomma è ve-ra ma non è credibile.

Spesso parla al telefono portatile. Ne hadue: uno comunissimo, con la specialitàperò di una soneria intermedia tra il ruggi-to, il barrito e il muggito; l’altro è un sofisti-cato satellitare ed ha per soneria il ritornel-lo dell‘ultimo successo del gruppo ameri-cano Suspicious Characters: «I like all thegirls / all the girls like me». Dice che il te-lefonino è democratico: «Nel secolo scor-so, quando si diffuse il telefono fisso nellecase, i super-raffinati si scandalizzarono:pensavano che con la voce passassero an-che le malattie, e odiavano le suonerie per-ché equiparavano il gentiluomo al dome-stico che corre appena sente il campanel-lo. Proprio come oggi. Chi irride il telefonoportatile è uno snob cretino-cognitivo».Sento che pratica tutte le lingue. Ma ho ilsospetto che non ne conosca bene nessu-na: «Io da solo sono come un’assembleadell’Onu».

Per esempio non sapeva che solo in To-scana “babbo” sta per padre, perciò io pre-ferisco chiamarlo “Papà Natale”. Al Sudbabbo vuol dire sciocco. Conveniamo chesia di origine onomatopeica, come barba-ri, “bar-bar”, che per i greci erano quelliche incespicavano nelle parole. Anche ibambini incespicano nelle parole: in fon-do, pure pa-pà è un balbettio. Nei paesidella Sicilia c’era u babbu di l’ova, lo scemoche aveva appunto il compito di distribui-re le uova, lavoro adattissimo a uno scemoo a un bambino. Anche Babbo Natale in uncerto senso distribuisce “uova”.

Lo diverte l’idea di essere uno scemo: èl’idea che sta nascosta nelle omelie controil Natale consumista, quelle del Papa chead ogni Natale vorrebbe che non si distri-buissero doni ma perdoni: «Insomma nonavrei dovuto regalare giocattoli, libri, te-lefonini, dischi e macchine fotografiche,ma atti di contrizione, indulti, sanatorie,condoni, indulgenze, clemenze e remis-sioni». Gli ricordo che cinquant’anni fa,proprio in Francia i preti lo bruciarono vi-vo (si fa per dire): diedero fuoco a un Bab-bo Natale di paglia sul sagrato della chiesa,e su quei roghi Lévi-Strauss scrisse un libropiccolo ma importante per due generazio-ni; e così Babbo Natale divenne dei nostri:laico e sovversivo.

Eppure adesso lo prendono per scemo

anche gli anticonsumisti per ideologia,tutti gli antiglobal, quelli che ci spieganosussiegosi come il Natale sia la festa dell’a-vida industria che ci avvelena, ci rimpinzadi falsi bisogni e di illusori desideri: «Pen-sano e scrivono che i miei doni fioccanocome bastonate, e che per ogni uomo, an-che quest’anno, c’è stato un diavolo diBabbo Natale con il compito di stordirlo diregali e di logorarlo di festeggiamenti fin-ché di lui non rimane più nulla, tranne i de-biti: vecchie frottole». Hanno scritto libriper dimostrare che Babbo Natale è statoimposto dalla Coca-cola, ma sono dema-gogie da black block, «sono marxisti fru-strati che stanno ancora aspettando la ca-duta tendenziale del saggio di profitto».

Chiama le renne e mi invita a volare suParigi: il flusso luminoso e sensuale delleauto, le strade che serpeggiano in devia-zioni incomprensibili, edifici, spazi verdi,ponti, monumenti: «Dall’alto hai l’illusio-ne di “leggere” la città. E Parigi diventa piùParigi, un’Iperparigi caricaturale». Dovesta il segreto di una città? L’imprevedibileBabbo Natale cita il Nobel Orhan Pamuk:«In realtà ogni frase sulle caratteristichegenerali di una città, sulla sua anima e sul-la sua essenza, si trasforma in un discorsosulla nostra vita, e soprattutto sul nostrostato d’animo. La città non ha altro centroche noi stessi». Gli dico: se leggi i Nobel vuoldire che sei politicamente corretto. «Cometutti, non leggo i Nobel. Ma Pamuk è un’al-tra cosa». Mentre parla, passiamo attra-verso una tempesta di neve e in un minutosiamo sopra Istanbul: «La sua malinconi-ca bellezza non è ascrivibile, come per Pa-rigi, alla conservazione dell’architettura,ma alla sua rovina». Con l’abolizione delCaliffato e con le riforme occidentalizzan-ti «Istanbul, dove sono stato vescovo con ilnome di Nicola e dove feci il mio primo re-galo a una prostituta bambina, perse la suavecchia connotazione plurilinguistica,vittoriosa e magnifica e si trasformò in unluogo spopolato, vuoto, bianco e nero, conuna sola lingua, in cui tutto pian piano di-ventava datato». Mi fa scendere. «Conoscoun posticino dove fanno i migliori mas-saggi del mondo. Da qualche anno ci ven-go dopo le fatiche del Natale. Sono statocosì vecchio, quando ero giovane, cheadesso, da vecchio, mi permetto i piaceridei giovani».

Ecco il regaloche farei al tuo Paesese fossi buono comedicono: bambiniL’Italia è una terradi vecchi, le speranzesono ricordi,si progetta il passato

È a pezzi dopo il superlavorodella notte santa ma arriva puntuale,lui e le renne, all’appuntamentoChiede che gli si dia del tu, non vuoledomande sulla vita privata, promette

di non fare rivelazionisulla sua ubiquitàSpesso parla al telefonoportatile, praticando tuttele lingue del pianetama, a quel che sembra,senza conoscerne benenessuna. Dice di sé:

“ Sono uno smemorato gremitodi memorie altrui. L’amnesiaè il mio legame con l’eternità”

‘‘

‘‘Babbo Natale

FRANCESCO MERLO

Repubblica Nazionale