DOMENICA 12 FEBBRAIO 2006 ENRICO FRANCESCHINI...

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il fatto DOMENICA 12 FEBBRAIO 2006 D omenica La di Repubblica GUIDO RAMPOLDI PAOLO RUMIZ cultura Consiglio d’Egitto, i conti dell’impostura ATTILIO BOLZONI e DARIA GALATERIA Così si fabbrica la foto da primo premio ANAIS GINORI e GABRIELE ROMAGNOLI il racconto Il blocco della pagina bianca ENRICO FRANCESCHINI e MARCO LODOLI l’incontro Margherita Hack: vivere diecimila anni LAURA LAURENZI i luoghi La Mole, castello in aria di Torino MAURIZIO CROSETTI e DAVIDE FERRARIO Scontro di culture e religioni, a volte fino all’omicidio Siamo andati a vedere chi sono i preti cattolici in terra d’islam Missionari FOTO ROB HOWARD/CORBIS IL CAIRO C omeogni sera alla fine delle lezioni il cancello verde del- la Dar Comboni, la casa dei missionari comboniani, è sventatamente spalancato. Chi volesse colpire il nemi- co cristiano non incontrerebbe ostacoli, né porte chiu- se né sorveglianti; ma superato il cortile si troverebbe in ambienti co- sì spogli che avrebbe difficoltà perfino a provocare danni. Banchi e la- vagne,lavagneebanchi,esullelavagneirestidiarabeschiarabi.Lapa- lazzina, quattro piani d’un giallo stinto, è placida e buia come una na- ve alla fonda. Per trovarne il capitano non resta che seguire una musi- ca tenue su per le scale, fino ad una porta incorniciata dalla luce. «In Italia non l’avete una radio così», fa. «Una radio senza pubbli- cità, intendo». È piccolo, agile, con occhi celesti e capelli bianchi. La sua stanza è anche il suo ufficio — un letto, una scrivania, un com- puter, e alle pareti non molto di più: una teca con una madonnina circondata da piccole conchiglie, il calendario d’una linea di navi- gazione, molti libri. D’estate ci sono anche le mosche. Quando la- scianoescrementisullefotocopiedegliantichimanoscrittiarabiche Giuseppe Scattolin sta consultando, inventano parole nuove, cam- biano il senso d’una frase. Chissà quante volte i precetti d’una fede sono stati deformati da uno scherzo del caso, da un gioco di mosche. Ma se chiamate il caso “provvidenza”, tutto torna a posto. (segue nelle pagine successive) spettacoli Beatles, gli scatti perduti dell’anno boom GINO CASTALDO e CYNTHIA LENNON MERSIN U n mattinola polizia di Antiochia, in Turchia, lo convocò per dirgli che era ora di finirla. Non era possibile, gli dis- sero, che ogni giorno alle 12.15 la sua perfida campana disturbasse la preghiera del muezzin. Ma lui non fece una piega. Rispose che era semmai il grido del minareto — l’«Allah u Akhbar» sparato alla stessa ora dai megafoni della moschea accanto — a coprire, apposta, il suono della campana. Poi, guardò sorridendo gli agenti, esterrefatti da tanta angelica sfrontatezza. Non è affatto un Don Abbondio padre Roberto Ferrari, frate cappuccino, decano dei preti italiani in Turchia e figlio di un “ardito” della Grande Guerra. È uno che non ha paura di nulla. E se oggi esiste ancora qualche avam- posto “latino” a Est di Ankara, la Chiesa lo deve a quest’uomo dimen- ticato all’ultima frontiera. Roma è lontana. S’accorge di gente così solo quando succede il fat- taccio. Ma padre Roberto sta sulla linea del fronte da oltre mezzo secolo. È stato più volte in galera e la polizia turca ha su di lui un dossier pesante come una valigia. Ha viaggiato milioni di chilometri a cercare pecorelle disperse nelle «terre estreme», fra Antiochia, Trebisonda e il confine ira- cheno. Ora potrebbe godersi la pensione. Di anni ne fa ottanta, proprio dopodomani, per San Valentino. Ma non molla: viaggia ancora, come Paolo di Tarso. E se lo incontri, credi di avere sbagliato persona. (segue nelle pagine successive)

Transcript of DOMENICA 12 FEBBRAIO 2006 ENRICO FRANCESCHINI...

il fatto

DOMENICA 12 FEBBRAIO 2006

DomenicaLa

di Repubblica

GUIDO RAMPOLDI PAOLO RUMIZ

cultura

Consiglio d’Egitto, i conti dell’imposturaATTILIO BOLZONI e DARIA GALATERIA

Così si fabbrica la foto da primo premioANAIS GINORI e GABRIELE ROMAGNOLI

il racconto

Il blocco della pagina biancaENRICO FRANCESCHINI e MARCO LODOLI

l’incontro

Margherita Hack: vivere diecimila anniLAURA LAURENZI

i luoghi

La Mole, castello in aria di TorinoMAURIZIO CROSETTI e DAVIDE FERRARIO

Scontro di culturee religioni, a voltefino all’omicidioSiamo andatia vedere chi sonoi preti cattoliciin terra d’islam

Missionari

FO

TO

RO

B H

OW

AR

D/C

OR

BIS

IL CAIRO

Comeogni sera alla fine delle lezioni il cancello verde del-la Dar Comboni, la casa dei missionari comboniani, èsventatamente spalancato. Chi volesse colpire il nemi-co cristiano non incontrerebbe ostacoli, né porte chiu-

se né sorveglianti; ma superato il cortile si troverebbe in ambienti co-sì spogli che avrebbe difficoltà perfino a provocare danni. Banchi e la-vagne, lavagne e banchi, e sulle lavagne i resti di arabeschi arabi. La pa-lazzina, quattro piani d’un giallo stinto, è placida e buia come una na-ve alla fonda. Per trovarne il capitano non resta che seguire una musi-ca tenue su per le scale, fino ad una porta incorniciata dalla luce.

«In Italia non l’avete una radio così», fa. «Una radio senza pubbli-cità, intendo». È piccolo, agile, con occhi celesti e capelli bianchi. Lasua stanza è anche il suo ufficio — un letto, una scrivania, un com-puter, e alle pareti non molto di più: una teca con una madonninacircondata da piccole conchiglie, il calendario d’una linea di navi-gazione, molti libri. D’estate ci sono anche le mosche. Quando la-sciano escrementi sulle fotocopie degli antichi manoscritti arabi cheGiuseppe Scattolin sta consultando, inventano parole nuove, cam-biano il senso d’una frase. Chissà quante volte i precetti d’una fedesono stati deformati da uno scherzo del caso, da un gioco di mosche.Ma se chiamate il caso “provvidenza”, tutto torna a posto.

(segue nelle pagine successive)

spettacoli

Beatles, gli scatti perduti dell’anno boomGINO CASTALDO e CYNTHIA LENNON

MERSIN

Un mattinola polizia di Antiochia, in Turchia, lo convocòper dirgli che era ora di finirla. Non era possibile, gli dis-sero, che ogni giorno alle 12.15 la sua perfida campanadisturbasse la preghiera del muezzin. Ma lui non fece

una piega. Rispose che era semmai il grido del minareto — l’«Allah uAkhbar» sparato alla stessa ora dai megafoni della moschea accanto— a coprire, apposta, il suono della campana. Poi, guardò sorridendogli agenti, esterrefatti da tanta angelica sfrontatezza. Non è affatto unDon Abbondio padre Roberto Ferrari, frate cappuccino, decano deipreti italiani in Turchia e figlio di un “ardito” della Grande Guerra. Èuno che non ha paura di nulla. E se oggi esiste ancora qualche avam-posto “latino” a Est di Ankara, la Chiesa lo deve a quest’uomo dimen-ticato all’ultima frontiera.

Roma è lontana. S’accorge di gente così solo quando succede il fat-taccio. Ma padre Roberto sta sulla linea del fronte da oltre mezzo secolo.È stato più volte in galera e la polizia turca ha su di lui un dossier pesantecome una valigia. Ha viaggiato milioni di chilometri a cercare pecorelledisperse nelle «terre estreme», fra Antiochia, Trebisonda e il confine ira-cheno. Ora potrebbe godersi la pensione. Di anni ne fa ottanta, propriodopodomani, per San Valentino. Ma non molla: viaggia ancora, comePaolo di Tarso. E se lo incontri, credi di avere sbagliato persona.

(segue nelle pagine successive)

(segue dalla copertina)

Ti si para davanti un tipo magro ipercineti-co, dall’allegria inestirpabile, foresta dicapelli argento, guida spericolata, accen-

to emiliano da viveur. Italiano nell’anima, tur-co nelle abitudini. Un brigante della fede.

È lui che affronta per primo Trebisonda, la cittàdell’assassinio didon Andrea. Unposto per duri,dove nessun pre-te vuole andare.Inaugura uno sti-le. Tra lì e Sam-sun, c’è da dirmessa per unacinquantina difamiglie, ultimesopravvissute al-la cancellazionedi greci e armeniall’inizio del se-colo. Solo qua-rant’anni prima icristiani erano un

quarto della popolazione turca, anche lì nell’an-tica Pontide. Ora stanno sparendo, e Robertoparte con una Cinquecento, cerca famiglia perfamiglia. Per stanarle, si porta dietro un proietto-re, lo attacca alla batteria dell’automobile, mo-stra piccoli film in villaggi sperduti, dove la tele-visione è ancora di là da venire. Invita anche i mu-sulmani, costruisce ponti tra le fedi.

Passa alla motocicletta, per fare meglio la spo-la tra le due città del Mar Nero. Diventa un pen-

la copertinaUomini di frontiera

Preti esploratori in terra d’islam

Giuseppe Scattolin, intellettuale comboniano del Cairoe appassionato studioso della religione di MaomettoRoberto Ferrari, frate cappuccino da più di cinquant’anniin movimento tra Trebisonda e Antiochia per tenere accesoquel che resta delle braci cristiane in TurchiaDue storie moderne di “missione” nei paesi musulmani

I NUMERI

I CATTOLICISono due milioni

i cattolici che vivono

attualmente

nei paesi arabi.

In tutto il mondo

le persone di fede

cattolica sono

invece oltre

un miliardo

I SACERDOTII preti cattolici nei paesi

arabi di religione

islamica sono, secondo

le stime, circa mille.

Altrettanti sarebbero

i monaci fedeli

alla Chiesa di Roma

censiti in quelle terre

IN TURCHIAI cattolici in Turchia sono

circa 25mila. I vescovi

presenti sono sei.

Complessivamente

i cristiani sono lo 0,2%

di una popolazione

di circa 67 milioni

di persone

IN EGITTOSecondo l’agenzia Fides

i cattolici in Egitto

sono 237mila,

su una popolazione

di 63 milioni di abitanti.

Le parrocchie

sono 219, mentre

i vescovi sono 14

(segue dalla copertina)

Senza una buona quota di ca-so o di provvidenza, certoScattolin non sarebbe qui,missionario in partibus infi-delium, come si diceva untempo, nella terra degli infe-

deli, e dei più testardi: i musulmani.Non fu una scelta eroica, e neppure undestino, anche se lui ricorda d’aver fat-to a scuola, nel suo Veneto, una ricercasu Maometto. Però missionario vollediventarlo fin da adolescente, affasci-nato dalle figure dei missionari del Sei-cento, Matteo Ricci in Cina, Roberto deNobili in India… Gliene raccontò un sa-cerdote, e quella vita avventurosa, perportare il Vangelo negli angoli più re-moti della Terra, lo stregò. In fondo è ri-masto fedele ai modelli dell’adolescen-za: come Ricci, come de Nobili, è unmissionario-esploratore dell’ignoto,che oggi non è più terra incognita d’Asiao d’Africa, ma una religione di cui sap-piamo poco, l’islam.

Influì anche l’inquietudine che siportava dentro la sua generazione.Racconta senza fronzoli: «Feci il semi-nario mentre scricchiolavano tutte leistituzioni della Chiesa post-tridenti-na. Venivano a trovarci teologi delNord Europa che la vecchia scuola ro-mana vedeva come il fumo negli occhi.Quando mi ordinai sacerdote, nel1968, la prospettiva di restare in semi-nario a insegnare filosofia mi sembròpoco interessante. Scelsi le missioni».Avrebbe preferito l’Asia, lo incuriosi-vano il buddismo e l’induismo, mentrel’islam non gli era simpatico. Ma op-tando per terre musulmane era sicurodi partire: nessuno voleva quelle desti-nazioni. Finì a Khartum, in Sudan.

È così che nasce un missionario?Probabilmente ogni vocazione ha unastoria propria. Ma potremmo rileggereil percorso di Scattolin, dalla fascina-zione per Matteo Ricci agli anni in-quieti del seminario, come una febbreconradiana che trascina un ragazzoverso l’ignoto, verso il rischio, versouna vita non banale. E se fosse identicala molla di altre vocazioni, questo nonsolo non sminuirebbe la figura del mis-sionario, ma la renderebbe più moder-na o più romantica, comunque più au-tentica dei santini in cui in genere la tvriduce i preti delle missioni. Anche ilseguito merita d’essere raccontatofuori da quel canone.

Al tempo in cui Scattolin arrivò aKhartum, fare il missionario in un Pae-se islamico pareva un’impresa quasi in-sensata. «Anche nella comunità eccle-siastica l’islam era considerato una ca-lamità, se non un’invenzione di Satana.E il musulmano, un fanatico prossimoalla stupidità, Maometto un bugiardosanguinario». Gli pare che questi ste-reotipi siano tuttora presenti nella no-stra cultura. Comunque all’epoca era-no diffusi tra gli stessi comboniani. Dalracconto di Scattolin s’intuiscono rap-porti tesi con alcuni confratelli: «Ma al-lora perché siete qui?, gli chiedevo. Perbestemmiare Allah potevate restarvenein Italia!». Con i sudanesi non andavameglio. Aveva cominciato a studiarearabo e letteratura araba all’universitàdi Khartum, unico cristiano in un’auladi musulmani che lo guardavano comenoi potremmo guardare ad una scim-mia in frac. I più per giunta convinti«che occidentali ed ebrei fossero nemi-ci perfidi, guidati dal demonio per di-struggere la religione di Dio, l’islam».

Questa doppia incomprensione, conaltri preti e con molti musulmani, coltempo s’attenuerà ma non sparirà deltutto. Ci sono preti che lo consideranotuttora uno strano ibrido: «Più musul-mano che cristiano», sbuffa. Come perspiegarsi ha scritto in un suo libro(Islam e dialogo, Edizioni missionarie):«Per conoscere se stessi, le ricchezzedella propria fede e della propria tradi-zione, inclusi limiti e difetti, non c’è nul-la di meglio che aprirsi ad una fede e aduna tradizione diverse dalla nostra». Seci sono cattolici che lo guardano con so-spetto, molti egiziani della Società filo-sofica, di cui è membro, lo trattano consufficienza: anche questo un po’ gli pe-sa. «Io mi interesso al loro mondo, loronon al mio. Conoscono Gadamer, Der-rida, ci sono perfino specialisti in Nietz-sche.Ma i più se ne stanno barricati die-tro una formula di autodifesa: l’islam,ripetono, ha già risolto questi problemi.Che è un modo per dire: non abbiamonulla da imparare da voi».

Contro questa supponenza due annifa Scattolin s’è preso una rivincita so-nante. Ha pubblicato un libro assai dot-to e documentato su un mistico delDuecento, Umar Ibn al-Farid, tuttoracosì famoso in Egitto che le confraterni-te sufi ne cantano le poesie durante i lo-ro riti. Scattolin ha trovato testi inediti dial-Farid che hanno lasciato di stucco glispecialisti egiziani. Li ha scovati in Tur-chia, a Konya, la città dei dervisci dan-zanti, dove era andato per colmare unalacuna: già insegnava Mistica islamicaal Pontificio istituto di studi arabi e isla-mici di Roma, ma non aveva mai visto latomba di Jalaluddin Rumi, forse il piùgrande tra i poeti sufi. Quasi per caso, siritrovò tra le mani una raccolta di liricheche nessuno aveva mai notato. Ma il li-bro di Scattolin, scritto in arabo e in in-

glese, non è prezioso tanto per gli inedi-ti, quanto perché documenta come lepoesie di al-Farid siano state interpre-tate in modo difforme attraverso i seco-li. È un modo elegante per suggerire al-la teologia islamica che il significato diqualunque testo, anche un testo sacro,non è eterno, ma cambia a seconda delcontesto storico. La regola, s’intende,vale anche per il Corano.

È il terreno su cui si gioca il futuro del-l’islam, e Scattolin lo perlustra almenodal 1976, da quando cioè conobbe aKhartum uno straordinario pensatoresufi, il sudanese Mahmud Taha. Noveanni più tardi Taha fu impiccato comeeretico; in Occidente nessuno mosseun dito per salvarlo. Lo uccisero neglistessi mesi in cui prima Reagan e poi laThatcher ricevevano con tutti gli onori

diventa il capo politico della comunitàmusulmana. In questo ruolo promulganorme che secondo Taha non possonoessere riproposte oggi perché appar-tengono al contesto d’una società be-duina del settimo secolo. Se si accettaquesta distinzione cadono un’infinitàdi precetti islamici, e la stessa identitàtra Stato e religione. Così liberato dallecatene della Sharia, l’islam diventa sor-prendentemente prossimo al cristiane-simo.

Questa sensazione di vicinanza per-fino personale Scattolin la trasmettenelle pagine che dedica al musulmanoTaha, «martire in nome della libertà dicoscienza». Fanno pensare ad un dialo-go tra navigatori solitari, l’uno scom-parso in una tempesta, l’altro ancora altimone. Se esiste l’aldilà probabilmen-

il fondamentalista Gulbuddin Hek-matyar, un tagliagole afgano eletto acollettore dei finanziamenti per la guer-ra santa contro i sovietici. Se fosse acca-duto l’inverso, se cioè Hekmatyar aves-se avuto il cappio che meritava e Tahaun’investitura internazionale, appog-gi, denaro per imporre la propria scuo-la, insomma quel che ottenne negli an-ni Ottanta il peggior fondamentalismopurché combattesse l’Urss, forse oggil’islam sarebbe diverso. Con Taha, in-fatti, entra nella teologia musulmana ladistinzione tra islam dei valori e islamstorico, corrispondenti a due fasi nellavita di Maometto, il periodo della Mec-ca e il periodo della Medina. Nel primo,Maometto proclama i principi della fe-de e della morale senza irrigidirli in uncodice giuridico. Nella fase successiva,

GUIDO RAMPOLDI

28 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 12 FEBBRAIO 2006

PAOLO RUMIZ

Il brigante della fedee la manutenzione

delle greggi cristiane

Rep

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Naz

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le 2

8 12

/02/

2006

PASSATO E PRESENTENelle foto qui accanto, scene

di martirio di missionari cristiani

fra sedicesimo e diciassettesimo

secolo. Le stampe sono tratte

dal volume “Societas Jesu usque

ad sanguinis et vitae profusionem

militans in Europa, Africa

et America, contra gentiles,

mahometanos, judaeos, hareticos”

di Mathia Tanner (Praga 1675)

te si ritroveranno nel paradiso degliesploratori. Ammesso che nel frattem-po la burocrazia vaticana non abbia se-gnalato Scattolin come sospetto. Certisuoi slanci verso il sufismo devono averfatto alzare più d’un ciglio.

Colpa del tribalismo, direbbe Scatto-lin. Il tribalismo gli pare una malattiamolto diffusa anche nelle religioni. Ci sichiude dentro una fede, una identità,una cultura, come fossero armature.«Questo vale innanzitutto per l’islam,che ha davanti a sé un lungo cammino.Ma anche il cristianesimo… ho letto ildialogo tra il papa e Marcello Pera, se latendenza è quella non c’è da essere ot-timisti». Insomma l’idea dell’Europacome tribù cristiana non gli piace. An-cor meno gli piace che il tribalismo cri-stiano si presti ad un uso politico.

«Quando cali nelle masse l’idea della re-ligione come ostilità e chiusura, non èdifficile immaginare il risultato. Qui hovisto un predicatore islamico, popola-rissimo, fanatizzare l’Egitto. Ma anchetra noi cristiani… quando Pera dice almeeting di Comunione e liberazioneche rischiamo di diventare meticci, chediscorso è? Cosa sarebbe la storia uma-na senza scambi, meticciato?». Cercarel’altro, cercarlo per imparare di lui mainnanzitutto della propria fede: questagli sembra l’essenza del cristianesimo.Così lo spazientiscono quei cristianiche vivendo in paesi musulmani accet-tano il ghetto, si rinchiudono nel loroquartiere come nei loro risentimenti.Gli sembra un atteggiamento perdente.E si allarma quando ha l’impressioneche quello stia diventando l’abito men-

tale della Chiesa. Ha scritto: «Soprattut-to in questi ultimi tempi nella Chiesa(…) sembra prevalere un’ondata di ri-flusso verso il proprio quartiere cristia-no».

Questo stile ruvido non dev’esseremolto apprezzato dalla curia. Ma vadetto che Scattolin coltiva idiosincrasiea 360 gradi. Freme quando ascolta gliimam italiani ripetere la litania dell’i-slam «pace e amore». Sbuffa quandolegge su Nigrizia, la rivista dei missio-nari per cui scrive, che l’Occidente èsempre perfido e il Terzo mondo sem-pre innocente e buono. Protesta quan-do lo vogliono convincere che Dio e Al-lah alla fin fine sono identici. Compren-de la reazione degli arabi alle vignetteche ritraggono Maometto come terrori-sta, ma vorrebbe che quelli reagissero

anche quando i loro regimi ammazza-no di botte un detenuto politico, essen-do la vita d’un uomo sacra (anche perl’islam) quanto i simboli della fede. In-somma Scattolin è un prete tosto, forseper tostaggine genetica. Tra i sette figlidel carabiniere Scattolin, suo padre,prevalgono le vocazioni radicali. Uno èrimasto comunista, anzi “comunistis-simo” dice don Giuseppe con un mistodi riprovazione per la scelta e ammira-zione per la tenacia. Un altro s’è fattoTestimone di Geova, e del tipo imper-meabile al dubbio. Poi c’è lo Scattolinprete, anch’egli uomo di idee forti. Nelsuo prossimo libro racconterà di tre im-perialismi (l’americano, il cinese, l’isla-mico, gli ultimi due forse alleati) perico-losamente vicini a scontrarsi.

Ad ascoltarlo si capisce il paradosso

d’una Chiesa che produce una straordi-naria quantità di pensiero non confor-me, originale, spesso perfino di buonaqualità intellettuale, ma rinuncia a co-municarlo, e anzi lo tiene chiuso a dop-pia mandata, congelato, nascosto. Cosìa spiegare l’islam al popolo cristianonon sono i preti che lo conoscono, peresempio quelli del Pontificio istituto distudi arabi e islamici, ma i preti da tele-visione, oppure i commissari del popo-lo ciellini, che ne sanno un accidenti masono ideologicamente allineati. A quelmodo non si rischiano idee urticanti,posizioni controverse, insomma i rischidell’intelligenza. Del resto possiamoimmaginare lo sconcerto che prende-rebbe gli spettatori di Vespa al cospettod’un sacerdote che non ha paura di direal-hamdu li-llah, sia lode a Dio.

“Le difficoltà - raccontapadre Roberto - sono quelle

di sempre: non puoipredicare, non puoi

indossare l’abito talare,devi stare sempre

attento a come ti muovi”

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 29DOMENICA 12 FEBBRAIO 2006

dolare della fede. Ma la sua ubiquità disturba gliimam, e un giorno i turchi l’arrestano con un pre-testo: esportazione illegale della campana dellasua chiesa, che pure aveva regolarmente sdoga-nato. In galera trova brutti ceffi, tutto gli è ostile,ma lui resta tranquillo. Sa prendere i turchi nelmodo giusto, con pazienza, fermezza, rispetto.Ha imparato a parlare loro con «Tatli til», la «lin-gua dolce». E quando una notte un temuto capo-mafia si sente male in cella, Roberto lo soccorre,gli sta accanto, gli dà le medicine giuste. Da allo-ra, l’italiano diventa intoccabile fra i musulmani.Un uomo di rispetto.

Non gli fanno niente, nemmeno quando, inun dibattito organizzato fra i detenuti e unimam, protesta che «Maometto è un falso pro-feta». Il direttore del carcere ne ha viste tante lìdentro, ma un matto simile mai. Lo rimette alfresco, solo per proteggerlo dalle teste calde,frequenti in quelle lande da contrabbandieri.Ma, appena rimesso in libertà, Roberto ripren-de il suo pendolarismo sfrenato. Confessa do-ve capita, anche al bar. Guida come un matto,semina il panico sulle strade intorcicate dell’E-st. Spesso dimentica i documenti, i soldi, persi-no la benzina. Un giorno tampona un asino,una notte finisce in un gregge a cento all’ora.«Lo schemino dell’incidente che mandò all’as-sicurazione — racconta ridendo un amico —aveva pecore al posto di persone e automobili».

Quando lo spostano dal Mar Nero al Medi-terraneo, scopre che ad Antiochia — la città do-ve il cristianesimo ebbe nel primo secolo il suomarchio di fabbrica — i cattolici stanno persparire. La chiesa è in rovina, ormai c’è l’inti-mazione di sfratto. Arriva come un nibbio, fa ri-

scoperto quanto è bello spendersi per la poveragente. Comincia come laico, aiuta i frati, fa il cuo-co, il giardiniere, l’autista. È affetto da inquietu-dine migratoria, tiene una media di centomilachilometri l’anno. Impara a conoscere la Turchiaestrema più dei turchi. Raggiunge Tur Abdin, ilmagico altopiano dei siriaci, la terra degli ultimicristiani autoctoni del Paese. Adana e Konya,città di islamismo duro. Kayseri, l’antica Cesa-rea, ed Erzurum, verso i grandi vulcani innevati.E poi Diyarbakir dalle nere mura; Mardin, affac-ciata sulla Mesopotamia dall’orlo dell’altopia-no. E ancora la natura magnifica delle praterie ol-tre il Tigri, i luoghi più caldi, verso la Persia, pienidi gente armata. Posti di nere memorie e di sepa-ratismo curdo.

Ne ha passate tante, padre Roberto, e noncrede — nemmeno ora — che la situazione stiapeggiorando. Non si fa impressionare da ag-gressioni e neppure da omicidi. «I problemi —dice — sono quelli di sempre, e cioè non puoipredicare, non puoi indossare l’abito talare,devi fare attenzione a come ti muovi». Sa chenella laica Turchia, i non musulmani sonospesso dipinti come «stranieri», elementi di-sgregatori della nazione, e così la gente sem-plice ci casca, costruisce muri di diffidenza.Per questo gli ultimi cristiani se ne vanno e aTrebisonda non resta più nessun cattolico. Mai turchi, insiste, sono «bella gente, ospitale.Hanno uno straordinario rispetto degli anzia-ni, e mantengono la parola data». Nessun mo-tivo per rinunciare alla missione. E così Rober-to va, veleggia sulle miserie umane, trova ani-me belle dappertutto. Protetto dalla sua sfron-tata innocenza.

costruire il tetto a tempo record per impedire larequisizione. Ma il prefetto lo convoca con unascusa e, durante l’incontro, manda gli agenti ademolire il tetto a sua insaputa. Poi, gli dicono:«Ora senza la chiesa non puoi fare il prete». Malui, tranquillo: «La chiesa sono io», e ricominciaa cercar terreni per un altro edificio. La questu-ra lo obbliga a notificare gli spostamenti, ma ècome ingabbiare un colibrì. Roberto notifica,poi va dove vuole. Depista la Volante. «E chi lotrova, quello lì» allargano le braccia gli agenti.Ormai è sulla bocca di tutti. Diventa una leg-genda vivente.

Va a dir messa nella grotta di San Pietro, il di-rettore del sito-museo gli rifiuta il permesso, luipianta una lite tremenda, la polizia accorre nuo-vamente. Alla fine lo espelle dalla città, ma Anka-ra — su intervento vaticano — gliela dà vinta: Ro-berto ottiene il rientro con soddisfazione. Ormaila polizia si rassegna, anzi, gli diventa amica. «Ro-berto non conquistava noi ragazzi col catechi-smo — dice un giovane turco che ha passato l’in-fanzia giocando a pallone nel suo oratorio — macon la simpatia, la semplicità e l’esempio». Se og-gi Antiochia ha una chiesa “latina”, con una ma-gnifica foresteria per i pellegrini di Terrasanta, losi deve prima di tutto a lui. Un “puerto escondi-do” nel bel mezzo dei minareti, con patio e albe-ri di limone, dove può entrare chiunque e i mu-sulmani sono i benvenuti.

La sua storia turca comincia nel ‘52, al tempodella crisi di Cipro, quando l’Anatolia è ancora unpolveroso Far West di strade sterrate, dimentica-to dal mondo. L’idea della missione lo affascina,fin da bambino. Il collaudo l’ha fatto un anno pri-ma, con l’alluvione del Polesine: nei soccorsi, ha

MEZZO SECOLO DI LAVORO

Nelle immagini in queste pagine, l’album

fotografico del frate cappuccino Roberto

Ferrari durante gli oltre cinquant’anni

passati nella regione orientale della

Turchia, tra Trebisonda e Antiochia

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AMSTERDAM

Il rito si ripete all’inizio di ogni febbraio nelle stanzedel villino rosso primi Novecento di Jacob Obrech-straat. Una piccola squadra di esperti si tuffa in unoceano di immagini (quest’anno erano oltre 83mi-

la provenienti da 122 paesi) per riemergere con una foto-grafia, una soltanto, che è un po’ la summa dei dodici me-si appena trascorsi.Da cinquant’anni ilWorld Press Photoè una fabbrica diicone: alla fotogra-fia principale ven-gono affiancate al-tre immagini con-sacrate nelle diecisezioni collegate.«Gli scatti che vin-cono sono una sin-tesi tra estetica emessaggio», spiegail giovane direttoreMichiel Munneke.La scelta è quasisempre “politica”:è un lamento, unasperanza, una de-nuncia, un grido diaiuto come il bam-bino del Niger cheha vinto questaedizione. «Ma nontutte sopravvivononel tempo», am-mette Munneke.

La costruzionedi un “monumentovisivo”, ovvero lafotografia che siconsacra comeicona, è la ricercache sta al cuore delWorld Press Photo.«Perché non riu-sciamo a dimenti-carci di certe foto-grafie? È un mecca-nismo misterioso»,s’interroga il foto-grafo ChristianCaujolle, direttoredell’agenzia fran-cese Vu. L’influen-za della pittura ènota: Henri Car-tier-Bresson avevainiziato dipingen-do, James Nat-chwey ha studiatostoria dell’arte e ci-ta Goya per i suoireportage di guer-ra. «Ma i canoniestetici che appli-chiamo alla foto-grafia sono diversi,la realtà si mischia alla creazione», dice Caujolle.

Caujolle ha curato la mostra per il cinquantenario delpremio, Things as they are (Le cose come stanno, citazio-ne di Cartier-Bresson). La sua tesi è che «senza il suppor-to, cioè la carta stampata, la fotografia non può diventareun’icona». Ripercorrendo quasi un secolo di quella che ènata come “stampa illustrata”, Caujolle cita alcuni classi-ci del fotogiornalismo: il viaggio in Russia di Cartier-Bres-son pubblicato da Paris-Match negli anni Trenta, il con-flitto nel Pacifico di Eugene Smith su Life, i primi ritratti dipolitici di Richard Avedon per Rolling Stone (1972), la mi-niera di Serra Pelada firmata da Sebastiao Salgado sul Sun-day Times (1987).

«Tra la stampa e i fotografi non c’è sempre stato unidillio», ricorda Caujolle. Alcuni litigi sono entrati nellaleggenda, come quelli tra Smith e Life: il fotografo ame-ricano fu uno dei primi a battersi per trasformare unasemplice testimonianza visiva nell’interpretazione deifatti. La celebrazione di questo passato è mista alla no-stalgia: i tempi in cui i magazine consacravano fino aquindici pagine a un reportage sono finiti e viene spon-taneo pensare che l’età dell’oro del fotogiornalismo siaalle spalle. Caujolle, tra i fondatori di Libération e raffi-nato direttore di una delle poche agenzie rimaste indi-

pendenti, è invece convinto che ci saranno ancora mol-te sorprese in questo mestiere. «Il futuro è di chi decidedi lanciarsi sull’attualità con un punto di vista persona-le, differente, impossibile per le televisioni», che sonovincolate «alla preoccupazione dell’immediatezza». Se-bastiao Salgado è il pioniere di questa tendenza: «Ha re-stituito l’ambizione ai fotografi, usando il bianco e neronegli anni del predominio del colore, dedicandosi a pro-getti di lungo termine quando tutti gli altri corrono».

Come nella religione, le icone fotografiche sono por-

tatrici di un senso che va al di là dell’immagine. «È faci-le rintracciare influenze cristiane in famose fotografie»,afferma Caujolle. Dalle braccia in croce della bambinaal napalm di Nick Ut (1972), che si ritrovano anche nelprigioniero di Abu Ghraib (2004), fino alla Madonna diBentalha di Hocine Zaourar in Algeria (1997), il primopiano della madre che piange il figlio appena ucciso. «Èun delicato equilibrio: entrare nel dolore senza offen-derne la sacralità».

La storia è piena di fotografi che hanno fatto marcia in-

Era l’estate del 1963. Tutti i giornalid’America pubblicavano le radioseimmagini della famiglia Kennedyin vacanza. Nelle fotografie Jack &Jackie apparivano, come spesso,meravigliosi e invulnerabili. La di-

dascalia rivelava che, come sempre, l’autoredegli scatti era Jacques Lowe, un ebreo nato inGermania che, più di ogni giornalista, scrittoreo di un Kennedy stesso, aveva creato il mito diCamelot, dando una rappresentazione da fa-vola della famiglia presidenziale.

A San Francisco, guardando quelle immagi-ni su una rivista, una bambina di dodici annibattezzata Karen Lorraine prese una decisio-ne: «Voglio essere Jackie». Mai una donna le eraapparsa così felice, praticamente perfetta.

Cambiò il suo nome, si fece chiamare Jackie,si firmò Jackie. Appese alle pareti della cameraquante più fotografie dei Kennedy poté. Tutteavevano la firma di Lowe e mostravano: J & Jnella tavola calda di una piccola città dell’Ore-gon, soli nella sala d’attesa di un aeroporto, incorsa sulla spiaggia di Hyannis Port, circonda-ti dai re della Terra durante un ricevimento al-la Casa Bianca. Comunque insieme, serena-mente e per l’America. Karen divenuta Jackiesognò di avere, come la sua “omonima”, unmarito e un Paese da servire, e un simile, perquanto in scala, destino. Chiuse gli occhi e vi-de le sue fantasie. Come noto, non c’è maledi-zione più grande di un sogno che si avvera.

Nell’aprile del 2005 la senatrice della Califor-nia Jackie (nata Karen Lorraine) Speier orga-nizzò una mostra fotografica nella sua città na-tale. Sarebbero state esposte 29 immagini ine-dite dell’altra Jackie, divenuta vedova Kennedynel novembre di quel ‘63 in cui Lorraine ne pre-se il nome e frattanto morta di leucemia. Quelche la sorte aveva regalato alla senatrice Speierera stata una beffarda replica della sua vita.

Nel 1978 era andata insieme al deputatoRyan a Jonestown, Guyana, dove il reverendo

il fattoWorld Press Photo

In questo fine settimana è stato attribuito il premio fotograficopiù importante dell’anno. È l’occasione per cercaredi smontare la ricetta che porta alla costruzionedi un “monumento visivo”, per capire come da una lungatradizione di magistrali scatti di cronaca siamo approdatialla sapiente creazione di immagini-metafora indimenticabili

La scelta dell’immagine vincenteè quasi sempre “politica”:un lamento, una speranza,

una denuncia, un grido d’aiuto

ANAIS GINORI

GABRIELE ROMAGNOLI

Così si fabbrica la foto-icona

Ma ogni scattonascondeun lato oscuro

30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 12 FEBBRAIO 2006

L’ATTIMO DELLA MORTEQui sopra, la famosa

foto scattata da Robert

Capa nel 1936: ritrae

un miliziano della Guerra

civile spagnola colpito

a morte da un proiettile.

In passato l’autenticità

della foto è stata messa

in dubbio. In basso

a destra, la foto simbolo

della rivolta di piazza

Tienanmen, scattata

nel 1989 da Charlie Cole

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pio lo studente cinese che sfida a mani nude i carri armatiin piazza Tienanmen (Charlie Cole, 1989) diventare sim-bolo della resistenza e della speranza. O il marine chepiange sulla bara dell’amico in Iraq (David Turnley, 1991)rappresentare la fragilità e il conflitto interno che esiste inogni uomo.

«Troppe volte chiediamo al fotografo di essere neutra-le. È una sciocchezza. Il fotografo prende posizione pernatura, deve essere militante», dice Caujolle. In questosenso, le critiche che furono mosse a Robert Capa per aver

parteggiato con laresistenza repub-blicana in Spagna«sono semplice-mente assurde».Morte di un mili-ziano lealista, pub-blicata il 23 settem-bre 1936 dal setti-manale franceseVu, poi ripresa daLife, sarà una delleprime icone delNovecento. Ancheil fotografo dell’As-sociated Press Ed-die Adams, checontribuì a far di-scutere l’Americasulla guerra in Viet-nam, venne accu-sato di complicitàcon il generale chespara al vietcong.

La potenza delleicone ha avutospesso effetti im-prevedibili. Esisteuna ricca aneddo-tica sui soggettiche si sono ribella-ti alla loro rappre-sentazione. Flo-rence Thompson,la “migrantmother” diventataemblema dellaGrande Depres-sione degli anniTrenta, tentò dibloccare i diritti dipubblicazione allafotografa Do-rothea Lange. Lamadre di Tomoko,la bambina deva-stata dalla conta-minazione al mer-curio nel villaggiogiapponese di Mi-namata, disse aEugene Smith checonsiderava «in-sopportabile» lasua immagine.

La notorietà dicerte fotografie haanche creato ri-vendicazioni eco-

nomiche e battaglie legali. Ben otto persone si sono ri-conosciute nel bambino del ghetto di Varsavia con lebraccia levate e nessuno ha potuto dirimere la questio-ne: la foto venne scattata da un soldato tedesco. Decinedi coppie si sono attribuite Il bacio dell’Hotel de Ville diRobert Doisneau, finché non è stato lo stesso fotografoparigino a svelare l’identità dei due amanti, ammetten-do che erano anche stati messi in posa. Non sempre è fi-nita male: la giovane americana che brandisce un fioredavanti ai poliziotti durante una marcia contro la guer-ra in Vietnam (1967) ha scritto una poesia di ringrazia-mento al fotografo Marc Riboud.

Le nuove tecnologie hanno ovviamente rivoluziona-to la professione. Alcuni scatti simbolici dei grandieventi degli ultimi anni sono amatoriali: il maremoto inAsia, gli attentati nel metro di Londra. Caujolle non èpreoccupato: «Durante lo tsunami Paris Match ha fattoun numero con foto amatoriali, poi è passato al biancoe nero di Philip Blenkinsop. Sono queste le immaginiche sono rimaste». La sfida è aperta. «Con l’irruzione deldigitale, ora capita a noi ciò che accadde alla pittura nel-l’Ottocento, proprio a causa della fotografia», concludeCaujolle. Occorre dimostrare che i Cézanne, i Malevic ei Picasso della fotografia devono ancora arrivare.

dietro. Dopo trent’anni di guerre e una foto che aprì gli oc-chi al mondo sulla carestia in Biafra, Don McCullin scelsedi ritirarsi dalla professione, perseguitato dai fantasmidelle vittime cadute nel suo obiettivo. Christian Simon-pietri fu testimone di una terribile esecuzione a Dacca nel1971 e da allora decise che avrebbe fatto soltanto il ritrat-tista delle star dello spettacolo.

È nella Oude Kerk, la “chiesa vecchia” nel centro di Am-sterdam, che si svolge la messa solenne del fotogiornali-smo contemporaneo. Ad aprile, durante la cerimonia di

premiazione del World Press Photo, gli editor dei giornalidi tutto il mondo e i fotoreporter si confrontano. Que-st’anno la fondazione ha promosso il documentarioLooking for an Icon, (In cerca di un’icona). Nessuno è an-cora riuscito a trovare il segreto di certe fotografie. «Alcu-ne sono importanti più per la Storia che per la loro uma-nità», azzarda Caujolle citando la famosa immagine di Sal-vator Allende all’uscita dal Palazzo della Moneda duranteil golpe nel quale morì. Quando il documento si salda conla metafora universale allora nasce l’icona. Ecco per esem-

Jones e i suoi fanatici si erano rinchiusi proget-tando un suicidio di massa. I cecchini della set-ta avevano sparato, uccidendo il deputatoRyan. Jackie Speier, al suo fianco, si era presacinque proiettili, rimasti nel suo corpo. Nel1994 suo marito Steven era morto in un inci-dente d’auto, lasciandola, come l’altra Jackie,vedova con due figli, un maschio (Jack) e unafemmina, che portava in grembo il giorno del-la disgrazia. Insieme con lei passò in rassegnala mostra prima dell’inaugurazione.

Jacques Lowe aveva scattato ai Kennedy de-cine di migliaia di foto. Di notte guardava i ne-gativi e faceva un cerchio rosso a matita intor-no a quelli che gli piacevano. Ne mise quaran-tamila che nessuno aveva visto mai in una cas-saforte indistruttibile, custodita nei sotterra-nei della banca JP Morgan. L’indirizzo era“World Trade Center, 5”. Lowe morì nel mag-gio del 2001. L’edificio della banca fu distruttoil settembre successivo nell’attacco alle Torri.La cassaforte fu ritrovata. L’evento venne con-siderato straordinario, ma ancor di più lo fu ilfatto che, quando la figlia di Lowe, Thomasina,l’aprì, era vuota. Insieme con un fotografo ami-co del padre cercò di ricreare digitalmente leimmagini utilizzando i provini a contatto. Riu-scì a recuperarne alcune, tra cui le 29 spedite aSan Francisco.

Quel che Lowe riprese ma non mostrò era illato oscuro della luna, l’ombra che si allunga inun pomeriggio d’estate, il presagio. JackieSpeier si fermò davanti a una foto in cui J & J so-no a Londra, al termine di un faticoso viaggio inEuropa. Lowe li ha ripresi di spalle, su una so-glia, mentre la varcano. Sono al confine dellafelicità e della vita. C’è una luce che li richiamaaltrove. Non stanno semplicemente uscendo:escono di scena. La foto è bellissima, ma Lowenon la cerchiò di rosso. Il perché è evidente. Lasenatrice Speier disse: «Se avessi visto questealtre immagini, forse non avrei scelto di diven-tare Jackie».

Il fotoreporter Christian Caujolle:“L’equilibrio è delicato, ogni voltadobbiamo entrare nel doloresenza però offenderne la sacralità”

che ferma il cuore del mondo

GLI ORRORI DI GUERRASopra, un soldato Usa

piange accanto

ai commilitoni e alla salma

di un militare morto (foto

di David Turnley del ’91).

In basso a sinistra,

l’esecuzione

di un vietcong a Saigon

nel ’68 (foto di Eddie

Adams) e la fuga

di una bimba dopo

un attacco al napalm

in Vietnam (foto di Nick Ut)

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31DOMENICA 12 FEBBRAIO 2006

L’IMMAGINE DEL 2005

A sinistra, la foto vincitrice del World Press Photo.

È stata scattata nell’agosto 2005 in Niger dal fotografo

della Reuters Finbarr O’Reilly: è il volto di una donna

che ha sulla bocca la mano del figlio denutrito.

Tra gli scatti premiati anche quelli degli italiani Paolo

Pellegrin (con una foto scattata a San Pietro il giorno

della morte del Papa) e Massimo Mastrolillo

(con un’immagine di Banda Aceh dopo lo tsunami)

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il raccontoCreatività alla prova

32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 12 FEBBRAIO 2006

Sotto la pelle della pagina bianca

ANDREA CAMILLERICi propone un racconto, inedito

e con firma autografa,

intitolato “L’esperienza”

ISABELLA SANTACROCESul disegno a mano libera

campeggia il motto:

“La scrittura è rivolta”

KATHARINE HOLABIRDHa scritto un’avventura del suo

personaggio “Angelina ballerina”.

Le illustrazioni sono di Helen Craig

ALEXANDER MCALL SMITHIl giallista di Edimburgo ha immaginato

la sua eroina alle prese

col mistero di un foglio dattiloscritto

FREDERICK FORSYTHIl creatore di memorabili spy-story

ha scritto “The Old Man in the

Cave”, un apologo sull’Africa

Cosa succede quando uno scrittore si trova davanti alla cartaimmacolata? Venticinque star della letteratura britannica hannoaccettato di cimentarsi col foglio A4 per un’asta di beneficenzache si terrà nei prossimi giorni a Londra. E noi abbiamo chiestola stessa cosa a cinque famosi autori italiani. Ecco il risultato

I BRITANNICI

GLI ITALIANI

LONDRA

«Ieri era il mio compleanno», annotava malinconica-mente sul suo diario Samuel Taylor Coleridge, poetaromantico inglese, all’inizio dell’Ottocento. «E così,un altro anno è passato senza che io abbia prodotto al-

cun frutto. Vergogna e dolore, non ho più scritto niente». Qualche de-cennio più tardi, un altro scrittore inglese, Anthony Trollope, autoredi romanzoni realistico-didattici, così descriveva il suo stile di lavo-ro: «Ogni giorno mi alzo quando è buio e scrivo dalle cinque e mezzaalle otto e mezza del mattino. Tengo una media di almeno duecen-tocinquanta parole al quarto d’ora. Se finisco un romanzo prima del-le otto e mezza, prendo un foglio e ne comincio subito un altro». Trol-lope faceva sul serio: scrisse, a quel ritmo, quarantanove romanzi intrentacinque anni, conservando energie sufficienti anche per il suoregolare mestiere di impiegato in un ufficio postale e per andare acaccia tre volte alla settimana.

Due atteggiamenti estremi, non c’è dubbio, ma del resto poche si-tuazioni sono al tempo stesso spaventose ed eccitanti come il rappor-to tra uno scrittore e un foglio di carta immacolato. Il cosiddetto “bloc-co dello scrittore” è una sindrome che, dai poeti romantici del dician-novesimo secolo, è giunta fino ai giorni nostri attraverso Scott Fitzge-rald, Hemingway e da ultimo Gabriel García Márquez, il quale ha re-centemente ammesso, sia pure a una veneranda età e dopo copiosa

china da scrivere e oggi esce dalla stampante del computer. Book Aid International, un’associazione di carità dedita alla diffu-

sione dei libri e della cultura nel Terzo Mondo, ha chiesto a venticinquescrittori, commediografi, artisti del Regno Unito di confrontarsi con unfoglio bianco, un A4 appunto, e poi donare il risultato per beneficenza.Una sola regola: infilare da qualche parte nel testo l’espressione«between the lines» (tra le righe), per sottolineare che l’iniziativa con-sente una sbirciata dietro le quinte del laboratorio di uno scrittore, se-rio o scherzoso che sia l’argomento da questi prescelto. Le pagine cosìcompilate saranno messe all’asta il 21 febbraio a Londra da Bloom-sbury Auctions, la casa d’aste specializzata in manoscritti, prime edi-zioni, libri antichi e memorabilia letterarie. I proventi serviranno ad ac-quistare libri destinati a scuole, biblioteche, ospedali, università e cam-pi profughi in Africa. «L’alfabetizzazione è la chiave per aprire il mon-do, dalle istruzioni su una lattina di cibo in scatola ai nomi delle stradealle opere di scrittori, filosofi e scienziati», osserva l’arcivescovo suda-fricano Desmond Tutu, premio Nobel per la pace, in una lettera di so-stegno al progetto. «Ma non si può far crescere l’alfabetizzazione nelnostro continente se non ci sono abbastanza libri, libri per arricchire ilvocabolario, libri di storia e geografia, libri di conoscenza generale, li-bri sul linguaggio, libri che incoraggino la gente a scrivere a loro volta ea esprimersi. I libri sono uno strumento essenziale per costruire e svi-luppare una comunità, una nazione, il pianeta».

Gli autori rispondono alla sfida ciascuno alla sua maniera. Il gial-lista scozzese Ian Rankin ha disegnato sul foglio bianco il cervellodell’ispettore Rebus, protagonista dei suoi romanzi, dividendolo in

produzione, di avere infine esaurito la sua prodigiosa vena. Digitate ininglese “writer’s block” sul motore di ricerca Google, e otterrete cento-ventunomila pagine di risultati, tra cui il sito di una rivista specializza-ta canadese per curare il blocco creativo, varie terapie “online” per su-perarlo e perfino una “chat-line” su cui gli autori paralizzati davanti alfoglio bianco possono consigliarsi a vicenda. D’altra parte, nella storiadella letteratura, spiccano pure scrittori come Dickens, Balzac, Hugo,Dostoevskij, che pubblicavano un’opera dietro l’altra come se non po-tessero fermarsi. Una prolificità tanto intensa da provocare pregiudizio sospetti: «C’è un elemento compulsivo nel suo attivismo?», chiese uncritico alla scrittrice americana Joyce Carol Oates, autrice di trentottolibri di narrativa, ventuno di racconti, nove di poesia, dodici di saggi-stica. Non soffre per caso, in sostanza, di un disturbo mentale?

Bloccati o incontenibili che siano, davanti alla pagina vuota gliscrittori rivelano se stessi in un modo che rimane solitamente na-scosto ai lettori comuni: soltanto i bibliografi, gli studiosi e gli esten-sori di tesi universitarie hanno l’opportunità di consultare i mano-scritti originali di un autore, perlomeno nei casi in cui vengono con-servati negli archivi di università o biblioteche, così scoprendo can-cellature, sostituzioni, scarabocchi, appunti, disegnini, freccette,macchie d’inchiostro, d’unto, di cibo o di liquidi, insomma le traccedella creatività al lavoro — o della sua assenza. Senonché in questigiorni qualcuno ha avuto l’idea, un’idea a fin di bene premettiamo,di dare un’occhiata da vicino alla semi-clandestina relazione tra loscrittore e l’A4: che non è un’automobile, bensì la dimensione del ti-pico foglio di carta, quello che una volta s’infilava nel rullo della mac-

ENRICO FRANCESCHINI

PIETRO CITATIEcco la prima pagina manoscritta

del suo nuovo libro, dedicato

a Francis Scott FitzgeraldRep

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 12 FEBBRAIO 2006

L’EVENTO

I fogli in formato A4 scritti a mano dai venticinque

scrittori britannici che hanno aderito all’iniziativa

saranno venduti all’asta il 21 febbraio presso Bloomsbury

Auctions. Il ricavato sarà devoluto in beneficenza

all’associazione Book Aid International che si occupa

della diffusione dei libri e della cultura nei paesi

del Terzo Mondo

L’abisso che divoratrame e personaggi

Fenomenologia del blocco dello scrittore

MARCO LODOLI

Pagina bianca, immacolata, perfettanella sua purezza maestosa e silen-te: campo di neve muta e candidissi-

ma sulla quale un viaggiatore vuole la-sciare le sue impronte e le sue parole perandare lontano. Bisogna avere il sensodell’oltraggio per avanzare in quel bian-co extrastrong, bisogna dimenticarecompletamente la vergogna di prenderela parola al cospetto del mondo e pestarecon gli scarponi neri d’inchiostro, tiratidalla necessità di quel percorso: e quan-do si è giovani viene facile, si affondano lesillabe nella pagina pulita senza esitareun attimo, le frasi si posano facili e vio-lente, i fogli bianchi si sporcano di desi-deri assoluti, di incoscienza eccitata, so-no il vuoto in cui inventare il viaggio del-la salvezza: e il libro nasce in pochi mesi,ma già il primo giorno tutto è chiaro, de-ciso, irreversibile.

Ricordo che quando scrissi il mio pri-mo romanzo, a venticinque anni, pesta-vo come un ossesso tutto il giorno sui ta-sti della Remington di mio padre, ore eore a lottare contro il bianco per riempir-lo della mia vita immaginaria, e il biancoresisteva a più non posso, ma non potevasconfiggere l’ansia infinita che mi posse-deva. A sera la stanza era coperta di fogliappallottolati, perché strappavo e rico-minciavo ogni volta da capo, aravo la ne-ve, la zappavo, seminavo nei solchi bian-chi delle righe, fino a quando non avevoconquistato almeno una pagina che fos-se lo specchio esatto della mia smania.Una pagina al giorno, e in duecento gior-ni il bianco era nero, il libro era compiu-to.

Poi arriva il secondo libro, il terzo, figlidella fatica ma ancor di più di una voca-zione che non guarda in faccia a nessuno,che somiglia a un sogno o a un incubo cheè impossibile fermare o dirigere. Il nomedello scrittore comincia ad affermarsi, lagente gli dice: ho letto tutto d’un fiato, seistato bravo a raccontare ciò che già sape-vo ma che non mi ero mai detto così be-ne. Complimenti, premi, persino qual-che soldo. E d’improvviso ci prendi gu-sto, capisci che la tua vita sarà quella, enon è certo una brutta vita. Nasce il biso-gno di ritrovare spesso quelle soddisfa-zioni, che certo nascono da una sofferen-za, da una fabbrica di strazi e vertigini, mache sono miele sulle ferite.

Ora devo scrivere un nuovo libro, sonogià due anni che non pubblico niente, so-no tre anni, quattro, cinque. Alla casa edi-trice si aspettano un capolavoro, o alme-no altre duecento paginette da rilegare emandare in libreria in autunno. Parenti eamici chiedono: stai scrivendo? Quandouscirà il prossimo romanzo? Abbiamovoglia di leggere qualcosa di tuo, qualco-sa di nuovo. A RadioTre ti hanno intervi-stato su qualche polemicuccia culturale,sei stato brillante, rapido, incisivo, ma allafine ti hanno domandato: a cosa stai lavo-rando? e hai impapocchiato una risposta euna promessa bugiarde: tra poco il librosarà pronto. In realtà sono mesi che ac-cendi il computer e ti ritrovi davanti a quelbianco spaventoso che rifiuta ogni parola.È un abisso che divora ogni miserabile tra-ma, che cancella ogni inutile personaggio.La pagina resta sempre vuota, solo il por-tacenere trabocca. Cominci a pensare ache cosa sarebbe giusto scrivere oggi, aquali sono i temi brucianti del nostro tem-po, ritagli qualche articolo di fondo, vai avedere qualche posto lontano, ti informi:ma appena provi a riportare tutto quantosul foglio, ti sembra uno sforzo inutile, ungesto di pura volontà, qualcosa che non tiriguarda veramente.

Prima scrivevi per creare un altro mon-do, un luogo dove ripararti, dove nascon-derti, forse. Un luogo dove gli spigoli sisommavano fino a diventare un cerchioperfetto. Vorresti tornare lì, ma le porte sisono chiuse per sempre. Ora non hai piùniente da dire, quello che era confuso si èchiarito, ora si tratterebbe solo di posarela penna e di cominciare a vivere davve-ro. Resti inebetito davanti al foglio bian-co: ti basterebbe scrivere una favoletta ditre pagine per sbloccarti, ma non vieneproprio niente. È finita. La neve è diven-tata un ghiaccio su cui tutto scivola via. Ètempo di fare altro, ma ormai hai cin-quant’anni e non sai fare niente. Sonoguarito, pensi, e ti sembra di morire.

J. K. ROWLINGHa voluto disegnare un albero

genealogico che incrocia

i personaggi di Harry Potter

IAN RANKINHa schizzato sul foglio bianco

il cervello dell’ispettore Rebus,

protagonista dei suoi gialli

sfere d’interesse: “il lavoro”, quella che prende più spazio, poi “na-tura ossessiva”, “alcol”, “Scozia”, “nicotina” e, in un quadratino, “vi-ta privata”. Aggiungendo a margine: «Leggere un libro vi darà la tra-ma, leggere tra le righe vi darà qualcos’altro». Un altro giallista che,come Rankin, vive a Edimburgo, Alexander McCall Smith, autore diuna fortunata serie di best-seller su una detective privata nelle sava-ne del Botswana, immagina la sua eroina alle prese con un foglio dat-tiloscritto, “tra le righe” del quale si nasconde — letteralmente — laprova del crimine. Il commediografo Tom Stoppard scrive un dram-ma dialogato di un atto, o meglio di una sola pagina, intitolato Mur-der (Omicidio). L’autrice di thriller P. D. James, nel suo raccontinoThe gravestone (La lapide), racconta la storia di un soldato a cui vie-ne predetto che sarà sepolto in una tomba senza nome: perché il suotragico destino è diventare il “milite ignoto”. J. K. Rowling tratteggiasulla pagina un albero genealogico che si incrocia con i personaggidel mondo di Harry Potter, La nobile e molto antica famiglia deiBlack, sfuocando deliberatamente il nome di alcuni membri della fa-miglia, tanto per non smentire l’alone di magia della saga più lettadel globo. E il maestro della spy-story Frederick Forsyth narra in Theold man in a cave (Il vecchio in una caverna) un beneaugurante apo-logo proprio sull’Africa. Tre giovani, un nero, un mulatto e un bian-co, si recano da un vecchio in una caverna, ognuno gli dice che in-tende combattere contro le tribù e le religioni degli altri due, per do-minare tutto il continente, ma il vecchio rivela a tutti e tre di essere illoro unico Dio, redarguendoli aspramente: «Vi ho creati differentinelle piccole cose, ma identici nelle grandi. Non vi ho creati per

odiarvi e uccidervi a vicenda. Se farete ciò che dite, insulterete il mionome». Tornati alle rispettive tribù, i tre giovani riferiscono il mes-saggio di Dio: «E su tutta l’Africa venne la pace, e con la pace venne laprosperità, e non ci furono più guerre, fame, malattie».

Sono tutte pagine scritte a mano: un po’ un trucco rispetto al mo-derno processo creativo, che generalmente passa per più fasi di scrit-tura e riscrittura sullo schermo del computer, dove l’editing non la-scia tracce. Ma viene sempre il momento in cui lo scrittore, penna inmano, si confronta con un foglio di carta: per buttare giù la primaidea del romanzo che verrà o per correggere le bozze, comunque inun certo senso il rapporto continua. In ogni caso l’interesse dei col-lezionisti è alto: Rupert Powell, direttore della casa d’aste Bloom-sbury, non fa previsioni sul totale che si aspetta di incassare, ma sti-ma in almeno 50mila sterline, circa 70mila euro, il valore del docu-mento probabilmente più concupito, quello firmato dalla Rowling.

Curiosamente, nessuno degli scrittori che hanno accettato di par-tecipare si è ispirato al tema di fondo evocato da una pagina vuota:quello del “writer’s block”, del blocco creativo. Si vede che, su que-ste cose, nemmeno i campioni di best-seller amano scherzare. Jo-seph Mitchell, memorabile giornalista del settimanale americanoNew Yorker, autore di migliaia di articoli e di libri di successo, scris-se nel 1964 per il suo giornale un lungo racconto intitolato Joe Gould’ssecret (Il segreto di Joe Gould), giudicato a posteriori la sua opera mi-gliore. Era la storia di uno scrittore che non riesce più a scrivere. Do-po averlo pubblicato, Mitchell lavorò per altri trentadue anni al NewYorker. Ma non scrisse più una riga.

C’è chi si arena per settimane,mesi o addirittura annie chi invece non riesce a fermarsi

Tra i romanzieri che hanno soffertodella crisi anche Fitzgerald,Hemingway e García Márquez

CARLO LUCARELLISulla pagina destinata a un giallo

propone appunti che documentano

la difficoltà di cominciare a scrivere

MARCO LODOLILo scrittore romano

ha disegnato sul foglio bianco

un suo “autoritratto con palloncini”Rep

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i luoghiMonumenti simbolo

36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 12 FEBBRAIO 2006

TORINO

È tanta, è troppa. Nella notte è bianca, enor-me e un po’ spettrale con i fari che le sbatto-no contro. È incongrua, assurda. È folle co-me l’uomo che la sognò, e poi la costruì. È

stramba, panciuta sotto, appuntita sopra, ma soprat-tutto è vuota anche se l’hanno riempita con un mu-seo bellissimo dedicato al cinema. Starci dentro met-te le vertigini: perché il vuoto rimanda ad altro vuoto,è come galleggiare, il soffitto non arriva mai, le paretisono curve. Alla fine bisogna chiudere gli occhi ep-pure il vuoto resiste, ed entra nelle orecchie come l’e-co sinistra di un suono che non c’è.

La cosa meno torinese di Torino, «il caro vecchiofiasco di cemento armato», da più di cent’anni ne è ilsimbolo. La Mole Antonelliana, unico edificio almondo che porta il nome del suo progettista insiemealla Tour Eiffel, sta tra le case nel reticolo geometricocome spingendole più in là col suo volume pazzesco.Alessandro Antonelli ne ebbe forse visione quando lacomunità israelitica di Torino, che aveva deciso dicollocare lì la sinagoga per celebrare l’emancipazio-ne concessa da Carlo Alberto, lo portò a vedere il ter-reno. Il Borgo Vanchiglia non aveva spazi orizzontaliesagerati, e quella tovaglia di terra trapezoidale sug-geriva rinunce più che fantasie. Ma Antonelli vide l’al-tezza, non l’estensione. Sentì nel suo sangue di inge-gnere provocatore la sfida positivista della tecnicasulla natura, e decise che quel lotto cittadino imba-vagliato sarebbe stato perfetto per la sua vera specialità:un castello in aria.

E in aria, proprio, si fece issare egli stesso durante la co-struzione che più travagliata non si poté. Dentro una ce-sta di vimini, come il viaggiatore nell’aerostato, appesoalle impalcature con funi penzolanti, l’Antonelli dirige-va e ammirava, rifaceva e sognava, urlava e veleg-giava. Era il 1863. Quell’uomo stava cercandol’edificio più alto del mondo, e arrivò ad ag-giungere un piano per alzarlo ancora, estudiò un ardito sistema di cavi e ti-ranti, fulcri e colonne e pilastri persostenere la massa immensadi quel vuoto. Troppoavanti per il suo tempo,un visionario, an-che un profeta.Ma profetiz-zare co-sta, e

la com-mittenzasi accorseche i denarierano finitiperché l’inge-gnere era «divo-rato dalla smaniadi accoppiare il suonome a un monu-mento di singolaremaestria e di smisurataaltezza...», come si leggein una relazione del Consi-glio dell’università israelitica.Eppure lui non si scoraggiò.

Gli intimarono di ridurre le pre-tese e Antonelli, appeso nella sua ce-sta, urlò che non sarebbe stato il car-nefice della propria creatura. Sorserodubbi sulla stabilità dell’edificio, eranocomparse delle preoccupanti crepe, il primopreventivo di 380mila lire si era già gonfiato a412.786. E allora si sospesero i lavori: era la fine del1869. Seguirono quasi dieci anni di silenzio e ab-bandono, finché nel 1878 il Comune di Torino non ac-quistò cantiere, fabbrica e terreno per 150mila lire, percompletare l’opera (167,5 metri di altezza finale, a lungoè stato l’edificio in muratura più alto d’Europa) e desti-narla a Museo Nazionale del Risorgimento. Unica clau-sola: pagare solo alla fine. Antonelli, già vecchio, non eraperò cambiato in niente, e la municipalità torinese deci-

MAURIZIO CROSETTI

È la cosa meno torinese della capitale sabaudama svetta da sempre sulla sua rete ordinata di stradee adesso è anche stata promossa emblemadell’Olimpiade 2006. Un fiasco di cemento strambo,stonato, folle come l’uomo che lo progettò e gli diedeil nome: Alessandro Antonelli. Ecco la sua storia

La Mole, castello in aria di TorinoDopo la completa ristrutturazione portata

a compimento nel 1996, la Mole ospita,

distribuito su quattro piani, il Museo

Nazionale del Cinema, unico in Italia

e tra i più importanti al mondo

per la ricchezza delle collezioni.

L’allestimento verticale è stato

curato dall’architetto François Confino

il museoIl guscio della Mole

Antonelliana poggia

su un quadrato di trenta metri

di lato e alto cinquanta,

formato da due muri distanti

tra loro meno di due metri

e ciascuno spesso dodici

centimetri. Queste pareti

sono tenute insieme da tiranti

in ferro e da un complesso

intreccio di setti e archi

in mattoni appositamente

ideato dall’architetto Antonelli

L’illustrazione

della Mole Antonelliana

è di Francesco Corni

la cupola

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2006

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 12 FEBBRAIO 2006

L’architetto durantela costruzionesi faceva issaredentro una cestalungo la struttura

se di assecondarlo pur di chiudere il cantiere alla svelta.Quel matto, geniale visionario ormai novantennemandò a dirigere i lavori suo figlio Costanzo, e la MoleAntonelliana venne conclusa nel mese di settembre del1900: l’ingegnere era morto un anno prima, senza fare intempo ad ammirare per intero il proprio sogno.

Ed eccola qui. Gigantesca, smodata. Impossibile farlastar dentro una fotografia se non ci si allontana. Oppureminuscola, dentro la palla di vetro che se la giri viene giùla neve. Sono i ricordini turistici, qui li chiamiamo «giar-giàtule», c’è la Mole di metallo brunito alta dieci centi-metri e c’è quella in plastica bianca. C’è il piatto con lastrana torre in mezzo e c’è il distintivo ufficiale delleOlimpiadi a 6 euro e 80: «Unico, vero simbolo di Torino»,pubblicizza il dépliant. Anche il logo dei Giochi, in fon-do, è una Mole, ricamata da cristalli di ghiaccio e un po’obliqua, dinamica, sembra una rete di cantiere e unamontagna volante, forse un po’ incantata.

La Mole come grossa mamma della città, pancia di ce-mento e chioma di ferro, aerea, lassù. Mica tanto fortu-nata: crollò infatti due volte. Antonelli, all’inizio, sullapunta della sua candela aveva messo il Genio Alato, «nu-me tutelare della nostra Patria e della augusta Casa Sa-bauda», lui e non un angelo come viene sempre erro-neamente detto. Ma l’11 agosto del 1904, un fulmine locentrò in pieno: le cronache del tempo ne parlarono co-me di un prodigio, visto che il simulacro abbattuto nonprecipitò a terra con le sue tre tonnellate, rischiando unastrage, ma rimase in bilico sul terrazzino sottostante. Alsuo posto fu piazzata una stella. Buona stella dal favore-vole auspicio? Manco per niente. Copertina della Dome-nica del Corriere del 24 maggio 1953, disegno di WalterMolino: la guglia della Mole è spezzata e sta cadendo, tra-volta dal tornado del giorno prima. Quarantasette metridi cemento precipitano nel piccolo giardino della Raisottostante senza sfiorare un’anima, come il Genio laprima volta, decapitando però il progetto dell’Antonel-li. La stella fu rimessa a posto, su una cuspide — stavoltametallica — ricostruita in tempo per le celebrazioni delcentenario dell’unità d’Italia, nel 1961. Una stella largadue metri e mezzo e pesante 210 chili, nuova.

Sta lì da quarant’anni, attirando l’energia captatadal cielo, figurarsi se nella tradizione magica di Tori-no poteva mancare l’influsso esoterico. Narra la leg-genda che se uno studente universitario sale sullaMole Antonelliana durante il suo corso di studi, nonimporta come, scavalcando di buona lena i 1.040 gra-dini oppure facendosi sparare verso l’alto dal nuovoascensore di cristallo (85 metri da terra in 59 secondi),egli sarà destinato a non laurearsi mai.

Anche se il torinese non dice, perché «non fa fine», cheil caro vecchio fiasco di cemento porta sfiga, tuttaviamolti lo pensano. E ne stanno alla larga. Non così il po-vero Friedrich Nietzsche, che proprio in questa città eb-be la sventura di impazzire. Prima di uscire totalmentedi melone, il filosofo della volontà di potenza fece in tem-po ad ammirare la follia forse contagiosa della Mole, scri-vendo: «È l’edificio più geniale che sia mai stato costrui-to — strano, esso non ha ancora un nome — per un as-soluto impulso verso l’alto, non ricorda nient’altro senon il mio Zarathustra. L’ho battezzata Ecce Homo e l’hocircondata nel mio spirito con un immenso spazio libe-ro». Nietzsche amava pranzare al ristorante “Della Pace”in via Rossini, quasi sotto la Mole, per catturarne la forzae lasciarsi stordire dalla geometria e dalla tecnica strabi-liante: il guscio che forma la cupola, impostata su un qua-drato di trenta metri di lato e alto cinquanta, è formato dadue muri distanti meno di due metri e spessi dodici cen-timetri, tenuti insieme da tiranti in ferro e da un intrec-cio di setti e di archi in mattoni. Tanto, troppo.

Ma che fare, veramente, di questo «luogo eventua-le» che anticipò i grattacieli? Mostre, rassegne, spazi etempi vuoti, finché nel 1996 non iniziarono i lavori diristrutturazione e adeguamento, realizzando la piùgrande centrale tecnologica sotterranea per un edifi-cio storico, con sessanta chilometri di cavi e tubi: nellapancia del tempio, su quattro piani spettacolari c’è oraun museo che gioca al gioco del cinema tra lanternemagiche e dagherrotipi, manifesti e cimeli. E il registaDavide Ferrario ha ambientato proprio lì dentro unsuo film, Dopo mezzanotte, dove il protagonista Mar-tino è il guardiano notturno della Mole e proietta in so-litudine, tutte per sé, le pellicole più amate.

Forse è proprio l’assurdità di luogo e spazio ad aver re-so così affascinante l’insalata architettonica che è la Mo-le, un misto di neoclassico e neogotico senza trascurareil corinzio, e peccato che gli ornamenti liberty di questobizzarro frutto della Belle Epoque siano andati perdutitra un cantiere e l’altro, quando la struttura un po’ a ri-schio venne rinforzata con calcestruzzo armato. Resta-no un tempietto a colonne sotto la guglia, corridoi, archie finestroni a raccontare il percorso di una visione dila-tata, nella mente del suo creatore, per quasi trent’anni. Emai Antonelli smise di progettare meravigliose assur-dità. Ecco il ritratto che ne fa Sebastiano Vassalli in Cuo-re di pietra: «Il grand’uomo fu chiamato da altri clienti inaltri luoghi, dove costruì colonnati corinzi in mezzo aiboschi, ville-palazzo in cima alle colline e castelli in aria,mandando in rovina, uno dopo l’altro, tutti quelli cheavevano avuto l’infelice idea di rivolgersi a lui».

Ma guardandola ancora, da vicino vicino, proprio sot-to la pancia, questa cosa enorme sembra più una sfidache una scommessa, una provocazione e non una follia.Qualcosa che spinge al limite le possibilità dell’ingegnoe della costruzione, per spostare quel limite un po’ piùavanti. È così che lavorano i mattoni del mondo. Ed è quiche si portano gli amici in visita a Torino, quelli che la Mo-le sono abituati a maneggiarla solo con le monete da duecentesimi, dove il fiasco di cemento compare su un ver-so. Si fa la coda all’ascensore, poi si sale in un colpo solo,con tutto il vuoto intorno, quello del tempio e quello del-le pareti trasparenti che mettono paura e brivido ai bam-bini. Infine si arriva in cielo e si guarda la città, l’incrociodi strade diritte e ad angolo retto, come un cruciverba.Sporgendosi un po’, si può indovinare un anziano si-gnore dentro una cesta appesa al nulla.

Ferrario. La mia scalata alla gugliaper rivivere il volo dell’Angelo

DAVIDE FERRARIO

Della Mole Antonelliana misono innamorato ben pri-ma di Dopo mezzanotte.Era il 1996 e, sebbene allorafosse chiusa per restauri,decisi di ambientarvi una

breve sequenza di Tutti giù per terra. Entrare era come sorprendere una si-

gnora attempata all’ora della toeletta: laMole era vuota e spoglia, il tempio deser-to e bianco rimbalzava la luce che piom-bava giù dai finestroni. Il vecchio ascen-sore era stato smontato e dalla cupolapendevano un paio di cavi morti. Ma pro-prio come certe dive la cui bellezza invec-chia ma non scompare, nella sua nudità laMole trasmetteva un purissimo incantoarchitettonico. Una specie di forma asso-luta, a cui il vuoto non conferiva angosciama un fascino arcano.

Si poteva salire solo a piedi. Ci organiz-zammo come una colonna di portatori co-loniali, ciascuno un pezzo di materiale inspalla. All’inizio, si tratta semplicemente difare tre, quattro piani di scale ampie. Si ar-riva a quota trenta metri, in un pianerotto-lo con vetrate, che offre una comoda vedu-ta sulle vie circostanti. Subito, però, le sca-le vengono sostituite da una stretta scala achiocciola in ferro, che comincia ad avvi-tarsi verso l’alto in corrispondenza dei duecolonnati che stanno alla base della cupo-la. Adesso sono protette da una struttura divetro e ferro, ma allora no e la nostra “spe-dizione coloniale” affrontò il passaggio insilenzio, perché se uno di noi avesse parla-to avrebbe materializzato la paura comu-ne: stavamo camminando nel vuoto…

Una porta di ferro, con un cigolio di or-dinanza, si aprì sulla base della cupola. Cifermammo a prendere fiato. Eravamo dinuovo all’interno, in una specie di mondodi mezzo, a circa cinquanta metri dal suo-lo: in cima al quadrilatero su cui poggia laMole, ma solo all’inizio dell’ogiva che cul-mina nella guglia. Sotto, gli operai eranominuscole marionette in movimento; in-torno a noi solo polvere, polvere su ognicosa, polvere da farti chiedere da quantonessuno passasse di lì. Forse avrei potutogirare, ma ormai mi sentivo come uno conuna missione da compiere. Spinsi la por-ticina che immetteva al camminamentoche attraversa l’intercapedine.

Di tutte le tappe di avvicinamento allaguglia, l’intercapedine è la più straordina-ria. Si tratta di un esiguo spazio, largo cir-ca un metro e mezzo, che sale a spirale al-l’interno della cupola. Sulla sinistra si af-faccia sul tetto, attraverso una teoria dioblò di vetro; a destra c’è la volta interna,su cui si aprono finestre quadrangolari.Affacciarsi a una di queste significa capiredi colpo cos’è la vertigine del vuoto. Nonsi tratta solo di una questione d’altezza. Èche il muro segue la curvatura della voltae quindi le finestre sono già per metà sbi-lanciate verso il baratro. Appena metti ilnaso fuori avverti come un invito a la-sciarti andare, un quasi irresistibile ri-chiamo della forza di gravità. E se distoglilo sguardo e procedi, accade un altro cu-rioso fenomeno: avendo come riferimen-to due linee curve, il cervello cerca auto-maticamente di rimettersi in equilibriocon esse. Il risultato è che cominci a cam-minare storto, pencolando verso l’inter-no. E, pur essendone consapevole, nonc’è nulla da fare.

Raggiungemmo i tempietti che sovra-stano la volta. Quello inferiore è quello piùlargo, dove oggi c’è la terrazza panoramica.Girammo la scena lì, ma una volta che ci sei,il bisogno di salire ancora è inarrestabile. E,di lontano, intuisci quale dev’essere statal’ossessione di Antonelli, la sua mania diandare su con la costruzione per il sempli-ce gusto di dirsi: «Ci sono arrivato».

Un’ulteriore scala a chiocciola, che siavvita su se stessa, con spirali sempre piùstrette, all’interno della guglia immette aogni giro su un terrazzetto circolare, sem-pre più stretto. Quando anche la scala achiocciola non ha più spazio per snodarele sue spire un’ultima scaletta di ferro,dritta, dà accesso a una botola. La apri e seiin cima. La vista di toglie il fiato. Ma nontanto per lo spettacolo, ma perché ti ritro-vi aggrappato a un mancorrente di ferro,in uno spazio largo meno di un metro qua-dro. Ti senti il prolungamento della gu-glia, parte della struttura. E per un po’ sen-ti quello che deve aver sentito l’Angelo dibronzo che per decenni è stato lì, prima diesserne sradicato da un fulmine.

Immaginarsi quel volo a capofitto suTorino è l’ultima, definitiva emozione chela Mole mi regalò.

Pesa 210 chili, è larga

due metri e mezzo

e venne collocata

in cima alla Mole

nel 1961, dopo che

nel 1953 un tornado

aveva fatto crollare

la stella precedente.

Invece nel 1904

un fulmine aveva

abbattuto il Genio Alato,

sempre scambiato dai

torinesi per un Angelo

la stella

l’altezza della Mole,

che rimase a lungo

l’edificio in muratura

più alto d’Europa

167,5 metriil costo dell’opera

secondo la stima

del primo preventivo,

che risale al 1860

380mila lirela superficie complessiva

degli spazi espositivi

del Museo Nazionale

del Cinema

3200 mqè la lunghezza

delle decorazioni colorate

custodite dentro

la cupola della Mole

3 chilometri

Si può raggiungere

a piedi il tempietto a colonne

dal quale parte la guglia,

salendo 1.040 gradini

lungo le varie e successive scale

di quest’edificio progettato

nel 1863 e terminato nel 1889.

Oppure si può

prendere il più comodo

e veloce nuovo ascensore

di cristallo che ci mette

appena 59 secondi

per salire a quota 85 metri

le scale

Dagli archivi dell’Università di Palermo riemergono le carteche svelano la genesi del “Codice arabo”, il clamoroso falsofatto stampare due secoli fa dal religioso siciliano e reso famoso

da Sciascia nel “Consiglio d’Egitto”. Ecco come fu confezionata e quanto costòla truffa che sconvolse per anni lo status quo dell’Italia borbonica

Fu una piccola truffa dentro un grandeinganno. Per la pubblicazione in splendi-da veste di quel Codiceche aboliva i privi-legi feudali dai quali discendevano i titolidi patriziato, baroni e principi sostenne-ro un discreto esborso per arruffianarsi loscaltro abate che da lì a poco avrebbe an-che conquistato la cattedra di arabo nellacostituenda Università di Palermo.

Il Codice arabo fu stampato in quasi600 copie e, tra il 1789 e il 1790, costò al-l’incirca 300 once. «Con un calcolo suf-ficientemente preciso e aggiornato ainostri anni, possiamo dire che la spesa siaggirava intorno ai 20mila euro attuali»,spiega Antonino Giuffrida, il professoredi Storia moderna che ha ritrovato tuttala documentazione contabile dell’«ara-bica impostura».

È stato qualche mese fa che Giuffrida

— per trent’anni funzionario di rangodella Regione, gli ultimi dieci come se-gretario generale dell’Assemblea — harecuperato tra gli scaffali degli archividell’università i registri di don AntoninoEpiro. Racconta il professore: «Su man-dato del rettore ho cominciato a cercaremateriale per il bicentenario del nostroateneo, fondato nel 1806. Nella parte piùantica degli archivi di Viale delle Scien-ze ho rintracciato tutti i volumi del Set-tecento e mi sono imbattuto nei contirelativi alla stampa del famoso Codice».Ricorda la scoperta: «Quando ho letto ilnome dell’abate Vella nelle pergamenedella stamperia di don Antonino Epiro,ho provato a individuare una spiegazio-ne sulla nascita di quel falso. Dal puntodi vista storico i falsi non possono chenascere in un contesto che li richiede: ei conti spiegano meglio di qualunque al-tra cosa gli avvenimenti. I conti sonoobiettivi perché registrano ciò che i sin-goli responsabili dell’amministrazionedecidono».

Il professor Giuffrida ha continuato aspulciare nei libri contabili della regiastamperia della Palermo di fine Sette-cento, città di sontuosi palazzi, di lussi edi trame, di capricci aristocratici e com-plotti rivoluzionari. In quella capitaleche viveva del mito dei suoi re e dell’“au-tonomia” dal Regno dei Borboni, com-parve per incanto un frate un po’ tapinoche sopravviveva “smorfiando” sogni edando numeri ai carnezzieri del Capo edell’Albergaria. L’incontro con il naufra-go ambasciatore, che non conoscevauna parola di francese né di napoletanoed era bisognoso di un interprete, cam-biò la sua vita e fu pretesto «per raddriz-zare le gambe della Storia».

L’impostura dell’abate Vella fu stam-pata su carta di varia qualità. Ogni copiadei sei volumi che componevano l’operafraudolenta, rilegata e venduta o ancorain magazzino, venne segnata da don An-tonino Epiro nei suoi registri: «Tomo pri-mo parte seconda... ne restarono a tutto di-cembre 1789 n. centoquarantadue comenel precedente raziocinio cioè n. 38 in car-ta di Napoli, n. 48 in carta bastarda ordi-naria e n. 56 in carta bastarda fina». E poiil prospetto della diffusione: «Ne furonovenduti n. 41 cioè n. 38 in carta di Napoli eper once 13 e tarì 28 e n. 3 in carta bastardaper once 2 e 9 tarì il prezzo de quali introi-tato come sopra...». Nell’elenco del so-vrintendente della reale stamperia si ri-portano anche le copie omaggio: «Conse-gnati all’illustrissimo monsignor Ayroldisciolti 25... all’abate Vella sciolti 10... al si-gnor Governatore e signore abate Vellanell’atto che si eseguisce l’edizione 7...».

La fandonia era stata così impressa,dando licenza al fracappellano maltese disostenere il suo riscatto sociale, frequen-tare le ville e le feste dei nobili, godere deiloro onori e piaceri, gioire per i continui

38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 12 FEBBRAIO 2006

Le seicento copiediffuse furono pagatetrecento once,l’equivalentedi ventimila euroMa garantironoall’autore poteree prosperità

PALERMO

Anche in quell’inizio di an-no i conti furono fatti sinoall’ultimo denaro e sinoall’ultima «risima» di car-

ta bastarda ordinaria, la più adoperatanella reale stamperia di don AntoninoEpiro. Nella sfarzosa Palermo del temponon c’era tipografo o rilegatore più abile.Figlio d’arte, uomo onestissimo e tantometicoloso da rasentare la pedanteria. Ilcomputo delle spese dei primi mesi del1790 fu annotato sui suoi registri il 30 diaprile: «Mi faccio introito di once novan-tanove e grani diecisetti dell’infrascrittilibri venduti in detti mesi come sotto...».In un lungo elenco erano uno dietro l’al-tro i titoli, i numeri delle tirature, i nomidei committenti, gli anticipi presi, le re-se di magazzino, il calcolo delle entrate edelle uscite corredato da tutte le pezze diappoggio, ricevute e ordinazioni. Più diogni altra, considerevole era la cifra rife-rita «all’opera intitolata il Codice arabotirata in più tomi per conto dell’illustris-simo e reverendissimo monsignor donAlfonzo Ayroldi, arcivescovo di Eraclea,giudice dell’apostolica legazione e dellaregia monarchia nel Regno di Sicilia».

Era il preziosissimo scritto che l’abateGiuseppe Vella diceva di avere avuto indono da Abdallah Mohamed ben Ol-man, ambasciatore del Marocco allaCorte di Napoli. E che aveva poi pazien-temente tradotto. Era uno sconvolgen-te testo politico sulla storia della Siciliadominata dagli emiri, scritto che avreb-be tenuto in scacco per tredici lunghianni l’aristocrazia isolana e si sarebbe ri-velato un clamoroso falso. L’abate Vellase lo era inventato di sana pianta per ab-bandonare un’esistenza misera e farsiinseguire e incensare dai più blasonatipalermitani. Quello che aveva spacciatoper raro e straordinario documento ri-mescolava tutti i rapporti di potere tra laSicilia e Napoli, tra una nobiltà feudale ela monarchia dei Borboni. Ogni paginadi quella contraffazione storica e lette-raria nutriva interessi personali e inte-ressi politici: i primi erano tutti a favoredell’abate e i secondi della Corona.

Negli archivi dell’Università di Paler-mo due secoli dopo sono stati scoperti iconti della «minzogna saracina» parto-rita dalla mente di Giuseppe Vella, il fra-cappellano maltese che con il suo im-broglio ispirò nel 1963 Il Consiglio d’E-gitto, uno dei più celebrati romanzi diLeonardo Sciascia, la ricostruzione delbugiardo manoscritto dal giorno in cuil’ambasciatore marocchino naufragòsulle coste siciliane — il 17 dicembre del1782 — fino alla condanna dell’abateVella a quindici anni di reclusione nelleprigioni della Vicaria.

La GrandeImpostura

ATTILIO BOLZONI

I conti segreti dell’abate Vella

inviti a quelle “conversazioni” tipica-mente settecentesche che si svolgevanonei palazzi della Kalsa o nelle dimore do-rate della Piana dei Colli. «L’abate Vellacapì che non bastava solo conoscere l’a-rabo... E l’arabo lo conosceva a dispetto dialcune cattiverie circolate sul suo conto...Ma capì soprattutto che aveva bisogno diqualcosa per stupire. Intuì ciò che quellasocietà voleva sentirsi dire e lui diede aisuoi interlocutori ciò che chiedevano»,spiega ancora il professor Giuffrida.

Fu così che un giorno il religioso malte-se salì al monastero di San Martino delleScale, dove c’era una grande e antica bi-blioteca. Attinse informazioni in uno deitanti testi sulla vita di Maometto «in scrip-turae arabica» e poi iniziò la grande ope-ra di corruzione: cominciò a stendere ilCodice. L’impostura tenne per più di undecennio nonostante i sospetti di qual-che erudito siciliano, dubbi seppelliti dal-le convenienze politiche di una casta ba-ronale che non riconosceva al Regno lapiena potestà sull’isola. Rammenta Giuf-frida: «L’abate Vella non lo diede mai anessuno quel Codice, alla reale stamperiadi Antonino Epiro faceva arrivare le suetrascrizioni a una a una».

Con l’inganno finì di vagabondare tra iquartieri popolari per sbarcare il lunario.Fino a quando nella seconda metà diquell’ultimo decennio del 1700 l’austria-co Hager, famoso arabista, scoprì il falsoCodice. Alla Corte di Napoli fu grande lapaura di essere travolti dallo scandalo.Venne ordinata l’incarcerazione dell’a-bate. Lui confessò, al processo chiamò incausa alcuni “intoccabili” che lo avevanoprotetto e solo per quello e per un soffiosfuggì al patibolo.

«Dopo più di duecento anni ci restanoadesso anche i conti del suo raggiro»,commenta il professore di Storia che haripescato tra gli scaffali di Viale delleScienze i registri del tipografo. E control-la un’altra volta i numeri: «Ho fatto e ri-fatto il calcolo di quelle 300 once speseper la stampa e dei singoli tomi: mi hacolpito il costo basso dei libri in queglianni». Riguarda i fogli di pergamena,esamina ancora il prezzo dei volumi, al-la fine dice: «Il Codice dell’abate malteserisulta il più caro di tutti, molto più delleopere di Virgilio stampate nel 1789 o diuna grammatica greca, eppure la parteprima di un tomo del Codice non supe-rava il prezzo di 20 euro di oggi. Questa èmateria per un’altra ricerca storica, mol-to probabilmente quello fatto da donAntonino Epiro era un prezzo politico,forse la reale stamperia riceveva finan-ziamenti pubblici per mantenere costicosì bassi». È una scoperta nella scoper-ta. Il magnifico rettore dell’Università diPalermo Giuseppe Silvestri assicura:«Ne verranno fuori tante altre, dopo que-sta truffa accademica ante litteram».

Sventata in extremis già all’epoca, an-nusando probabilmente la puzza di unseconda trappola. Prima di finire alla Vi-caria l’astuto fracappellano maltese ave-va fatto circolare la voce che l’ambascia-tore marocchino Abdallah Mohamedben Olman gli aveva inviato un altro testo,fitto di lettere «tra i sultani d’Egitto, il fa-moso Roberto Guiscardo, il Gran ConteRuggiero e il di lui figlio dello stesso nomeche fondò la monarchia della Sicilia». L’a-bate Vella si stava preparando a tarocca-re un’altra storia di dominatori dell’isola.Quella dei Normanni.

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 12 FEBBRAIO 2006

IL DOCUMENTOA sinistra,

i documenti

che mostrano

le spese

sostenute

dall’abate

per l’impostura.

Sopra,

Palermo

in una stampa

di inizio

Ottocento.

Sotto,

un ritratto

d’epoca

di Giuseppe

Vella

LEONARDO SCIASCIACosì, dall’ansia di perdere certe gioie appena gustate, dall’innataavarizia, dall’oscuro disprezzo per i propri simili, prontamentecogliendo l’occasione che la sorte gli offriva, con grave ma lucidoazzardo, Giuseppe Vella si fece protagonista della grande impostura

Da IL CONSIGLIO D’EGITTO

‘‘

Quando l’imbroglione diventa eroeDa Plauto a Proust, il fascino dei falsari nella letteratura

DARIA GALATERIA

Cicikov gira per la madre Russia a comperare anime. Prende informazioni sui grandiproprietari terrieri: quante anime (cioè servi della gleba) possiede ciascuno, e se cisiano state di recente epidemie. Perché Cicikov non cerca contadini vivi, ma “anime

morte”, e dopo l’ultimo censimento — vive dunque per la legge, ma virtuali, da pagare per-ciò a prezzi stracciati. A volte Cicikov spiega di volersi sposare, e che il futuro suocero pre-tende che possieda trecento contadini. Ma la verità è che, con un certo numero di “anime”,può ottenere l’assegnazione di terre. Mentre attraversa la Santa Russia imperiale, indu-cendo immancabilmente a collaborare alla truffa onesti proprietari agrari, si insinua il so-spetto che le Anime mortedi cui parla Gogol nel 1842 non siano contadini trapassati, ma leanime sempre corruttibili del mondo borghese con le sue modeste felicità — Cicikov so-gna il benessere, la rispettabilità, la famiglia.

Mérimée pensava che fosse una storia inverosimile; invece commerci di anime morte cifurono davvero. E spesso le più immaginifiche truffe apparse in letteratura hanno una fontereale. L’ingegner Lemoine, ad esempio, non tentò nel 1904 di vendere diamanti falsi per ve-ri, bensì di spacciare diamanti veri per falsi. Dichiarò di averli prodotti per cristallizzazionedel carbonio a alta temperatura; la De Beers, la compagnia diamantifera olandese, si affrettòa affidare a Lemoine 1.671.000 franchi per costruire una fabbrica ad Arras; ma l’inganno fuscoperto. L’intento di Lemoine era di far precipitare il corso della De Beers e rastrellarne leazioni. Marcel Proust ne possedeva un po’, e scrisse per il Figarouna serie di articoli raccon-tando la truffa di Lemoine nello stile dei suoi scrittori preferiti. Temeva, nell’iniziare la Re-cherche, di imitarli, e quello era il suo modo di guarire, omeopaticamente: copiarli, ma rac-contando una storia di pietre non di imitazione, ma autentiche, uniche e originali.

Anche per le Confessioni del cavaliere d’industria Felix Krull (1954) Thomas Mann siispirò, fin dal 1909, alle vere memorie del rumeno Georges Manolescu, imbroglione in-ternazionale. Ma l’avventuriero dall’amoralità lieve, e dalle tante identità, funge da con-troparte, col suo allegro sperpero del denaro e della credulità altrui, al cupo mondo delcommercio. Balzac mise in scena l’ergastolano Vidocq, e in Splendori e miserie delle cor-tigiane (1845) Vidocq-Vautrin-Herrera falsifica il testamento di una cortigiana in favoredel suo protetto Lucien de Rubempré. Prendimi se puoi (Piemme), memorie del 1980 diFrank W. Abagnale, famigerato truffatore globale oggi consulente dell’Fbi, hanno ispira-to al cinema Steven Spielberg. E anche il morto dell’ultima inchiesta di Montalbano, L’o-dore della notte (2001, Sellerio), un “mago” del raggiro di pensionati, è un lestofante di cuiCamilleri ha letto in un articolo di Ciccio (Francesco) La Licata.

Del resto la legge era stata enunciata già nel I secolo da Petronio Arbitro nel Satyricon: «Met-tetevi bene in mente», spiega un villico a Encolpio e Gitone, naufragati davanti a Crotone:«Tutti coloro che incontrerete laggiù si dividono in due grandi classi: gli imbroglioni e gli im-brogliati». I due subito fingono di essere i servi dell’amico Eumolpo, raccontano in città cheè ricchissimo e ha appena perso l’unico figlio, e si dispongono a farsi corteggiare da una po-polazione dedita alla caccia alle eredità. La prosperità arride ai giovani, ma — la felicità non èdi questo mondo — una ricca dama di Crotone si innamora di Encolpio, che non ha gusto perle donne; e Priapo sceglie quel momento per vendicarsene e sottrargli la virilità.

Truffe e raggiri per amore sono in letteratura frequentissimi, a partire dall’Anfitrione diPlauto. Anfitrione è in guerra e Giove, si sa, ne assume le sembianze presso la moglie Alcme-na in una lunga notte d’amore. Intanto il padrone di casa torna col fido servo Sosia, e Sosiacosì si trova di fronte a Mercurio, che ne ha preso le forme, ed è assalito da dubbi sulla propriaidentità — il duetto è scintillante soprattutto nella versione di Molière (1668).

Ma la più intensa truffa sentimentale è in un piccolo racconto settecentesco di Diderot sco-perto solo nel 1954 — e illustrato allora da Picasso: Mystification o la storia dei ritratti, in Ita-lia pubblicato da Archinto. Una storia vera: il principe Galitzin, ambasciatore di Caterina diRussia a Parigi, nel 1768 è richiamato in patria. Galitzin è innamorato, la sua leggerissima da-ma, mademoiselle Dornet, no: «E comunque, chi può amare abbastanza da seguire l’aman-te a Pietroburgo»? Galitzin parte solo e disperato, e alla prima sosta, a Aix, inopinatamentescopre una contessina prussiana, e la sposa. Si tratta allora di recuperare un paio di ritratti la-sciati imprudentemente nelle mani di mademoiselle Dornet. Entra allora in scena l’imbro-glione Desbrosses, che con dodici compari, «creando il fantasma di un grande credito», ot-teneva finanziamenti. Desbrosses si finge un medico turco e spiega alla signorina, che è ipo-condriaca, che bisogna disfarsi degli oggetti che possono suscitare cattivi ricordi. Profetici ar-gomenti sui sogni e i vapori e mille incantevoli osservazioni sulle passioni persuaderebberola fanciulla, se l’imbroglione, di fronte a una truffa fallita, non si tirasse un colpo di rivoltella.Intanto, nella realtà, i ritratti si erano persi durante un trasloco…

Una trappola sentimentale è allestita dal ragazzo di Soffocare(2001) dell’autore cult ChuckPalaniuk (Mondadori). Finge al ristorante che un boccone lo soffochi, un cliente invariabil-mente lo salva, lui piange miseria, e l’altro rimane vincolato dal suo stesso senso di eroismoa mostrarsi generoso per sempre. Il filone della frode fantapolitica annovera anche l’ultimoDan Brown, La verità dei ghiacci.Ma la truffa più carina è nei Sotterranei del Vaticano(1914),dove per André Gide è tenuto prigioniero dai massoni il vero papa. Per liberarlo, molte ani-me pie si metteranno a contributo: e intanto, sul soglio, c’è solo una controfigura.

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Basta guardare le foto. Gliastratti furori erano ancoradi là da venire. In quel mo-mento erano belli, irresisti-bili, toccati dalla grazia,collocati un gradino più su

della cima del mondo. Dalla cornucopiaBeatles continuano a uscire incessante-mente nuovi piccoli e grandi tesori. So-no stati il gruppo più fotografato dellastoria, e parliamo di un’epoca in cui nonc’erano telefonini e macchine digitaliaccessibili a tutti. Eppure ancora spun-tano servizi inediti, come quello di Mi-chael Peto, un fotografo scomparso nel1970, che lasciò il suo immenso archivio,circa 130mila foto, all’Università di Dun-dee. Due anni fa, archiviando la collezio-ne, sono usciti fuori ben 400 scatti inedi-ti sui Beatles che ora verranno pubblica-ti in un libro, Now these days are gone,dalla casa editrice inglese Genesis.

Sono i Beatles del 1965, il loro anno fe-lice, forse il più felice di tutti, prima cheYoko arrivasse a turbare le ambizioni ar-tistiche di Lennon e gli equilibri di grup-po, prima che si ritirassero dai concerti,prima che John dicesse che loro eranopiù popolari di Gesù, scatenando la rab-bia dei benpensanti americani. Fu unodegli anni più travolgenti e in fondospensierati. Tempo dopo Lennon dissedi quel periodo che in quel momento sisentivano come «i re della giungla». Era-no uniti, avevano il mondo ai loro piedi esfornavano canzoni a getto continuo.Passavano molto tempo insieme ad altriprotagonisti del rock, frequentavano gliStones, alla faccia della presunta rivalitàtra i due gruppi, gli Animals e altri, graziead alcuni locali di Londra che servivanoda discreti luoghi d’incontro.

L’anno inizia nel modo più dolce, conRingo che implora Maureen Cox di spo-sarlo. Da lì a un mese sarà la sua primamoglie. Lennon se n’era andato in va-canza sulle Alpi con George Martin e unasera, in camera, scrisse Norwegianwood.Pensava già a Rubber soul, che uscìin dicembre, ma quello naturalmente fusoprattutto l’anno di Help, film e disco.Fu a maggio che Paul si svegliò con unmotivetto in testa, bello e finito, e crede-va di averlo sentito da qualche parte, chenon fosse suo. EraYesterday,ed è stata laprima canzone al mondo a essere tra-smessa più di cinque milioni di volte dal-le radio e televisioni americane. Il 22 feb-braio, il giorno dopo l’assassinio di Mal-colm X, volarono alle Bahamas per ini-

GINO CASTALDO

Quattrocento foto, fatte sul set di Help e dimenticateper quarant’anni nei cassetti dell’Universitàdi Dundee, diventano ora un libro. Ne esce il film

di una stagione di grazia in cui i quattro ragazzi di Liverpool erano uniti,cambiavano la storia della musica sfornando a getto continuo canzoniculto e quella dello spettacolo inventando tournèe leggendarie

Nascosti nei bagnidi Buckingam Palace,fumarono marijuanaprima di essereinsigniti dell’Mbedalla Regina

Di quel periodoLennon ebbe a dire:ci sentivamocome “i redella giungla”

ziare le riprese di Help, diretto da RichardLester, una storia pazza e sconclusiona-ta in cui Ringo veniva rapito da una stra-na setta. Prima di cominciare avevanovisionato e poi scartato varie idee. Una diqueste era loro, era la storia di un certoPilchard, un nuovo Gesù che torna sullaterra e si ritrova a fare il barbone.

Fu un anno importante, decisivo perloro e per tutto il mondo della musica. Èl’anno in cui Dylan pubblicò Like a Rol-ling Stone, una delle canzoni più in-fluenti di tutta la storia della musica po-polare. L’anno di Satisfactiondei RollingStones e del celebre discorso «I have adream» di Martin Luther King.

Fu anche l’anno in cui Brian Epstein, illoro controverso e “innamorato” mana-ger cercò di dare solidità all’impero eco-nomico mosso dai Beatles, creandomolte società di supporto. I quattro viag-giavano incessantemente e tra un viag-gio e l’altro trovavano il tempo per nuo-ve esperienze. La cronologia beatlesianaci ricorda che il 27 marzo del 1965 JohnLennon e George Harrison approdaro-no al loro primo incontro con l’Lsd.

Il racconto di quella sera è altalenante:visioni infernali, situazioni comiche, e

per Harrison anche uno dei suoi primiincontri con Dio. L’11 giugno Buckin-gam palace annuncia l’intenzione di de-corare i Beatles con la prestigiosa Mbe,“members of british empire”. Molti ve-terani di guerra rimandarono al mitten-te la loro decorazione in segno di profon-da riprovazione. Ma, come fecero nota-re i portavoce della band, le medaglieerano conferite per meriti speciali neiconfronti del paese, non solo per l’onoreconquistato sul campo di battaglia. E iBeatles di meriti ne avevano di sicuro.Non solo per i benefici effetti sulla bilan-cia dei pagamenti, grazie alla smisurataesportazioni dei loro dischi, ma anche esoprattutto per aver diffuso nel pianeta

la leadership dello stile e della cultura in-glesi. I giornali titolarono “She lovesthem, yeah! yeah! yeah”, alludendo ov-viamente alla Regina.

Il 20 giugno aprirono il tour europeoa Parigi e subito dopo sbarcarono inItalia. Da noi era stato appena inaugu-rato il Piper, uno dei pochi segni di rin-novamento del costume, allora appenascalfito dall’ondata del beat. Una Fiat600 costava 640mila lire e un litro dibenzina 120. I ragazzi iniziavano timi-damente a farsi crescere i capelli e ve-devano i Beatles come i messaggeri diuna nuova era. Il 23 giugno arrivaronoin treno a Milano. Vennero caricati suquattro spider rosse e sistemati all’Ho-tel Duomo, assediato dai fan. Il Corrie-re della sera, con non molta lungimi-ranza, titolò «i quattro cavalieri dell’ur-lo, menestrelli miliardari e scaltri». Ilconcerto fu al Velodromo. A Roma suo-narono all’Adriano, in piazza Cavour.

A scorrere il loro calendario c’è da ri-manere storditi. Quasi ogni giorno unevento, qualcosa di significativo, un in-contro, una canzone scappata fuori co-me per magia. Per incredibile che possasembrare, a incidere Help e Rubber Soul

ci hanno messo appena un paio di mesi.La storia incalzava, la loro avventura nonpoteva concedersi pause.

Il 29 luglio al London Pavillion, in Pic-cadilly Circus ci fu la prima di Help. Il 6agosto uscì l’omonimo album. Il 15 ago-sto debuttarono in America col celeber-rimo concerto allo Sea Stadium di NewYork, famoso anche perché di quel con-certo ci è rimasto il loro miglior filmato li-ve. C’erano 55.600 spettatori urlanti, cheper quei tempi era un record assoluto. Iconcerti non si facevano negli stadi. An-cora no. Loro furono i primi, come pertante altre cose, e proprio perché era unanovità gli organizzatori spesero giorni egiorni solo per programmare i criteri disicurezza. Era come un piano di batta-glia, dissero. Era talmente nuovo chenon esistevano impianti all’altezza. IBeatles avevano ognuno un amplifica-tore Vox alle spalle, tutto lì. ma non im-portava. I fan erano lì soprattutto perstrillare. L’isteria aveva raggiunto il cul-mine, e i Beatles cominciavano a soffrir-ne. Alle loro canzoni ci tenevano e queibagni di folla erano sempre più assurdi.In quel momento poi dal vivo non erapossibile riprodurre la magnificenza deisuoni che stanno inventando in studio equesto era motivo di grande disagio arti-stico. Pochi mesi dopo decisero di smet-terla. Dal vivo non avrebbero più suona-to ed è grazie a questa scelta che hannopotuto incidere i loro massimi capolavo-ri, rimanendo mesi in studio a inventareun nuovo mondo musicale.

Il 27 agosto ci fu il famoso incontro conElvis nella sua casa di Beverly Hills. Il rac-conto è esilarante. John si sentiva comePeter Sellers in Hollywood party. Eraemozionatissimo: «Elvis era l’unica per-sona che veramente avessi voglia di in-

40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 12 FEBBRAIO 2006

gli scatti rubati1965, l’anno formidabile di John & Co

Beatles

contrare in America. Era il mio idolo.Quando per la prima volta ascoltai Heart-break Hotel rimasi tramortito». Ma l’in-contro fu in gran parte deludente. Priscil-la, la moglie di Elvis, apparve come unadiva hollywoodiana, con tanto di diade-ma, e sparì dopo pochi minuti. Elvis li fe-ce accomodare in un salottino, e per mol-ti minuti nessuno disse una parola. Gelo.Allora Elvis prese il telecomando e co-minciò a cambiare canali. «Era il primo

telecomando che avessi mai vi-sto» raccontò Paul. Elvis mostrò aJohn orgoglioso una statuetta condedica del presidente Johnson eJohn non gradì. Elvis, si dice, bor-bottò tra sé che qualcuno avrebbedovuto denunciare all’Fbi quel«son of a bitch» e infatti così fece, unpaio d’anni dopo.

Il 26 ottobre andarono finalmen-te a Buckingam Palace per riceverel’Mbe. La leggenda vuole che abbia-no fumato marijuana in bagno pri-ma dell’incontro con la Regina. Sta difatto che quando Sua Maestà chieseloro da quanto tempo stavano insie-me, Ringo rispose: «Da quarant’an-ni». Ma la regina apprezzò, disse che liaveva trovati simpatici. L’anno erainiziato con Ringo che chiedeva insposa Maureen e si chiuse con Georgeche chiese la stessa cosa a Patty Boyd.Era l’anno più spensierato, quello incui quattro ragazzi toccati dalla graziastavano conquistando il mondo.

LE IMMAGINILe foto in queste

pagine sono tratte

dal libro “Now These

Days Are Gone:

Photographs of the

Beatles” di Michael

Peto. L’edizione

limitata e numerata

in 2.500 copie

è disponibile tramite

Genesis Publications,

incluse 350 copie

“deluxe” che

contengono

tre immagini extra

raffiguranti John

Lennon e Peter Cook

durante le riprese di

un episodio di “Not

Only... But Also”

del 1966. Ulteriori

informazioni

al sito Internet

www.genesis-

publications.com

LA VITA PRIVATA DEI FAB FOURNelle foto, le immagini inedite

di Paul McCartney, John Lennon,

Ringo Starr e George Harrison

scattate nel 1965, all’apice

della carriera musicale

dei Beatles, dal fotografo

Michael Peto

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 12 FEBBRAIO 2006

Brian Epstein aveva sempre dettoche i Beatles sarebbero stati piùgrandi di Elvis, una battuta che fa-

ceva ridere tutti. Elvis era ben saldo sultrono come re del rock and roll e nessu-no aveva ancora sentito parlare dei Bea-tles. Ma, a partire dal 1965, la sua predi-zione era diventata realtà: i Beatles era-no il più grande gruppo pop del mondo,avevano eclissato Elvis e tutti gli altri ar-tisti in circolazione. Le loro facce eranoconosciute in ogni angolo del pianeta —la Beatlemania aveva dilagato in paesilontanissimi come l’Australia, le Filip-pine, il Giappone e la Scandinavia.

In Gran Bretagna eravamo all’epicen-tro di quelli che sarebbero rimasti nellastoria come i “swinging Sixties”, i favo-losi anni Sessanta. Un’epoca di sfrena-ta creatività, di spensieratezza e di stra-vaganza. All’improvviso la gente nondoveva più aspettare Natale per accen-dere le candele: si accendevano ognigiorno e ardevano fino alla fine. Per noiera come se l’intero paese fosse prontoa fare festa e noi eravamo in cima alla li-sta degli inviti dellagente più “in”. Pertutto il 1965, e per i treanni successivi, fre-quentammo i risto-ranti e i night club piùesclusivi, fummo in-vitati ai party di tuttele celebrità, facem-mo incetta di abitinelle boutique allamoda e le nostre fotofinirono su quotidia-ni, settimanali emensili.

La mia vita eraall’epoca pienadi contraddizio-ni. Una sera auna prima, sottoil flash dei foto-grafi e il pubbli-co in delirio, il giorno dopo a scuola conJulian come una mamma qualunque. Omagari scendevo a fare la spesa all’“ali-mentari” sotto casa — difficilmente miriconoscevano se ero sola — per poi cor-rere a prendere John che aveva finito lasua seduta di registrazione. Di solito an-davo ad ascoltare il risultato delle ses-sion con le altre ragazze dei Beatles, perpoi finire in uno dei locali per vip di Lon-dra, a ballare e chiacchierare con gentefamosa che noi ormai chiamavamoamici.

Ma nonostante la nostra celebrità,eravamo ancora molto ingenui. Noneravamo gente snob e vivevamo con so-brietà. Quando abitavamo a Liverpool,la nostra idea di una serata chic era brin-dare a scotch e coca cola, o birra e limo-nata — in realtà gli alcolici solo a Nataleo nei compleanni. Birra e coca era già ilmassimo. Raramente mangiavamofuori e nelle rare occasioni in cui aveva-mo soldi per andare al ristorante, nonandavamo oltre il pollo con le patatine.

Tratto da “John” di Cynthia Lennon(pubblicato nel settembre 2005,

352 pagg., 30 euro)© copyright Hodder & Stoughton Ltd

Quell’anno formidabiletra vip e vita da casalinga

Il ricordo della moglie di John Lennon

CYNTHIA LENNON

IL DIARIONella foto, la copertina

di “John”, il libro

pubblicato l’anno scorso

da Cynthia Lennon

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spettacoliLuci della ribalta

La storia di soprusi e redenzionedi una ragazzanera nell’America di inizio secolo, portata sul grandeschermo da Spielberg nel 1985, oggi è diventataun musical di successo. Senza perdere la sua intensità

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 12 FEBBRAIO 2006

Colore viola, la favola scomodaadesso commuove Broadway

Oprah Winfrey, una che non sbaglia uncolpo e che nel Colore viola cinemato-grafico era Sofia (Celie era Whoopi Gold-berg), e Quincy Jones, che in quell’occa-sione scrisse la colonna sonora. Supera-te le perigliose preview, il musical firma-to da Marsha Norman, Brenda Russell,Allee Willis e Stephen Bray è ormai unarealtà della nuova stagione, con incassipari a quelli di spettacoli top come RenteThe producers, due commedie musicaliche hanno fatto il percorso inverso, dal

palcoscenico sono finite sul grandeschermo.

Il nome di Oprah, che ha fatto una per-sonale apparizione nella replica del 3febbraio con una sorta di talk after-showcon il pubblico al quale ha partecipatoanche la Walker, è ben strillato sul cartel-lone del Broadway Theatre, e le sue paro-le hanno certamente stimolato la comu-nità di colore a non mancare all’appun-tamento: «Dal primo momento che holetto il romanzo di Alice Walker, vent’an-

ni fa, compresi che sarebbe diventatouna forza portante nella mia vita. Corag-gio, redenzione, amore e speranza: checosa non ho imparato da quel libro e dal-la mia partecipazione al film! Ora,vent’anni dopo, sono fiera di far parte diquesto progetto legato a The color purple,è il completamento di una fase della miavita».

Le belle parole (e i milioni) della Win-frey non sarebbero bastati a garantire ilsuccesso, molti dei nuovi musical nel-

l’ultimo anno non sono andati oltre lepreview (vedi Lennon). Qui è la stupefa-cente professionalità del cast che dà ilgiusto colore a una storia che si sapevaavvincente e vincente in partenza. Feli-cia P. Fields, che sul palcoscenico inter-preta la parte che fu della Winfrey, dà unaulteriore sferzata di energia al carattere diSofia, donna di grande temperamento,protofemminista determinata a lottarecontro lo strapotere degli uomini, vittimea loro volta della violenza dei padronibianchi. Spiega la Walker: «Quando si ètrattato di fare le prime prove, ho dettoagli attori: affidatevi completamente aipersonaggi. Nessuno di loro esprime vio-lenza gratuita. Tutti hanno alle spalle sto-rie di padri crudeli, cresciuti nella durarealtà delle piantagioni, figli di schiavi oloro stessi schiavi. Ognuno di loro rimet-te in circolo la violenza subita».

Celie è l’ultimo anello, solo apparente-mente più debole, di un susseguirsi diabusi che sembrano non aver fine nelledue ore e cinquanta minuti di spettacolo.Il canto e la musica hanno un’importan-za decisiva nello svolgimento del dram-ma. LaChanze, che interpreta alla perfe-zione tutte le sfumature che il ruolo di Ce-lie richiede, dalla sopraffazione alla ri-scossa, fino alla redenzione, è la nuovastella di Broadway. Di grande tensione lascena in cui Celie scopre per la prima vol-ta il piacere del sesso dalle labbra dell’av-venente amante di suo marito: più che unbacio lesbico, lo stupore di fronte a unatenerezza mai prima conosciuta, la sco-perta del sentimento («Non ti piace farel’amore con lui?», le chiede Shug. «Piace-re? Ho solo voglia di ammazzarlo quandomi tocca», risponde Celie). Nella scena fi-nale, quando la sorella Nettie missiona-ria in Africa, si riunisce a Celie insieme aidue figli ormai adulti, la platea singhioz-za con i protagonisti. E la tensione si scio-glie in una interminabile standing ova-tion. Siamo nell’anno 1949, due guerresono iniziate e finite. Celie ha combattu-to quella più dura, la sua.

GIUSEPPE VIDETTI

LA PRODUTTRICEOprah Winfrey sul palco

al termine di una

delle repliche dello show

NEW YORK

«Caro Dio, ho quat-tordici anni e sonosempre stata unabrava bambina.

Spero tu possa mandarmi un segno af-finché io possa capire quel che mi sta ac-cadendo». Siamo nel 1909: nella comu-nità nera della Georgia rurale tutto è trop-po grande per la piccola Celie. Tenera,ma bruttina e sgraziata, è destinata, duevolte schiava, a subire come una bestia dasoma. Partorisce per la seconda volta eper la seconda volta il padre (di lei e delpiccolo) le strappa il bambino dalle ma-ni. «Dopotutto è suo», dice alla sorellinaNettie, unica amica di una infanzia deva-stata, «ha il diritto di farne ciò che vuole».Il padre padrone fa anche peggio: la dà insposa a un vedovo dispotico (Mister) chela tratta come una serva, le fa crescere lesue due figlie, la umilia portandosi in ca-sa un’amante bellissima, la cantanteShug Avery, e le fa credere che la sorella èmorta nascondendo per anni sotto ilpiancito della cucina tutte le lettere cheNettie le scrive.

The color purple, già film di successodiretto da Stephen Spielberg nel 1985 (26nomination all’Oscar, nessun premio), èora il fiore all’occhiello di Broadway (laprestigiosa etichetta Blue Note ha giàpubblicato il cd con le canzoni del musi-cal). Alice Walker, che con l’omonimo ro-manzo conquistò il Pulitzer nel 1983, nonne voleva sapere. Per lei era già stato trop-po doloroso rivivere quella storia («chemi fu dettata dagli avi e che scrissi quasiin uno stato di trance») in occasione del-la riduzione cinematografica. Il produt-tore Scott Sanders ci ha messo cinqueanni a convincerla e altri due per ottene-re i diritti da Spielberg e dalla Warner. Aquel punto, a siglare il progetto, sono su-bentrate altre due firme prestigiose,

FEBBRAIO 1966 - FEBBRAIO 2006

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IL TOUR OSPITE DI: PUNTO RISTORO:UNA PRODUZIONE: ACQUISTA ON LINE SU:

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LICIA GRANELLO

Questa sera andiamo al Cinese. Menù? Riso cantonese,involtini primavera, pollo coi peperoni. Cinese, certo,ma di quale regione? Si fa presto a dire Cina. Come sequasi dieci milioni di chilometri quadrati (poco menodell’intera Europa) esprimessero una sola tipologia dicucina. Come se ci dicessero che pudding e spaghetti

alla carbonara sono più o meno la stessa cosa o comunque arri-vano dallo stesso pezzo di mondo.

In realtà, conosciamo soprattutto una delle quattro grandiscuole in cui viene abitualmente suddivisa la monumentale tra-dizione culinaria cinese: quella cantonese (le altre fanno riferi-mento a Pechino, Shanghai e Sichuan). La regione è quella delGuangdong, estremità sud del Paese, tra Hong Kong e Taiwan, ov-vero clima tropicale e una straordinaria varietà di prodotti — pe-sci, frutta e verdura su tutti — che i cantonesi cucinano con me-ravigliosa leggerezza per esaltarne i sapori originari. Peccato chequanto viene importato in Italia, in termini di prodotti e di chi licucina, quasi mai sia all’altezza di tanta fama.

Cucinare cantonese a casa propria è una bella alter-nativa. I libri sull’argomento abbondano, anche sepochissimi hanno pieno rispetto di una cultura ga-stronomica che data il suo primo testo gourmand el’invenzione dei ristoranti nel periodo degli StatiCombattenti, cinquecento anni prima di Cristo. Percominciare ad annusare l’argomento, comunque, sipuò leggere Il riso non cresce sugli alberi, ovvero la Ci-na in cucina, di Bamboo Hirst (La Tartaruga, Milano2002) dove le ricette sono rallegrate da piccoli raccon-ti, oppure optare per un approccio più tradizionalecon Cucina cinese di Agostina Carnevale Maffè (LaSpiga languages, Medialibri).

Secondo passo, la spesa. In una casa cinese che si ri-spetti devono esserci sette cose: fuoco, olio, salsa disoia (la più chiara che trovate), aceto, riso, sale e tè. Acui aggiungere, secondo i gusti, zenzero, porri, aglio,maizena, zucchero, funghi neri secchi, germogli dibambù, salsa di ostriche, sherry, olio di sesamo ed er-be medicinali assortite, a cominciare dall’Angelica.

Terzo capitolo, quello degli utensili. Che differi-scono dai nostri abituali perché diverse sono le cot-ture, anche se il felice meticciato gastronomico degliultimi anni ha aperto gli armadi delle nostre cucinead attrezzi inusitati. Allora, via libera al wok, rigoro-samente di ferro o ghisa (diffidate da quelli leggericon il teflon), che consente di “saltare” rapidamentegli ingredienti, tagliati in piccoli pezzi, secondo il me-todo dello stir-frying. Agitando la pentola in manieratrasversale, tutti i bocconcini vengono a contatto conle pareti, regalando una cottura uniforme e croccan-te. L’altro recipiente-culto è la vaporiera di bambù,con i cestelli sovrapposti, perfetta per cuocere buona

parte dei dim sum, i piccoli antipasti antesignani ultra secolaridelle nostre merende più golose, che nel Guangdong vengono ser-viti insieme al tè (yam cha).

Completato il menù, resta il problema delle bevande. Birra? Tè?Succhi di frutta? Vino di riso? Disastro. Ma il decano dei critici ga-stronomici cinesi, Lau Chi Sun, è possibilista: «Stiamo imparando ilpiacere del vostro vino. Gli abbinamenti non sono così difficili, vistoche i tannini del vino sono in tutto simili a quelli dei nostri tè. I rossi“incontrano” più dei bianchi perché non amiamo le bevande fred-de, ma uno Chardonnay strutturato con la zuppa di pinne di squaloè semplicemente perfetto, come un Sangiovese con il pollo marina-to in salsa di soia o un Barolo con l’anatra arrosto». Anche per que-sto, il Vinitaly, primo a portare i migliori vignaioli italiani a Pechino,ha allungato i tempi del suo tour in terra cinese: una tappa per ogniscuola di cucina. È il bello della globalizzazione virtuosa. E alcolica.

Quei sette ingredienti-baseper una cena dell’altro mondo

In legno o bambù, vengono

usate come le posate.

Le più lunghe sono utilizzate

per mescolare il cibo

Bacchette

Padella fonda, a tronco

di cono o semisferica,

che diffonde e mantiene il calore

Per friggere e stufare i cibi

Wok

Uno o più cilindri sovrapposti,

in bambù intrecciato,

su cui si cuociono carni

e verdure grazie al vapore

Cestello

Grata d’acciaio di forma

semicircolare che va posta

sul bordo del wok.

Serve per scolare i cibi fritti

Reticella

RISO ALLA CANTONESE

250 gr riso Basmati200 gr pisellini sgranati e lessati al dente80 gr prosciutto cotto a dadini(o gamberetti lessati 2’)2 uova 3 cucchiai olio di sesamo1 cucchiaio salsa di soia diluitain 4 di acqua1 peperone rossosale e pepe

Bollire il riso dopo averlo

sciacquato più volte

Scaldare l’olio nel wok

e strapazzarvi le uova

Aggiungere riso (freddo),

piselli e prosciutto

(o gamberetti)

Far “saltare” girando

con due spatole

Insaporire con sale e soia

Servire caldissimo

INVOLTINI PRIMAVERA

250 gr farina125 ml acqua125 gr. lonza di maiale a bastoncini90 gr. bambù a bastoncini1 porro tritato, sale2 cucchiai maizena 3 cucchiai olio di arachide,2 di brodo di pollo1 cucchiaio zucchero,mezzo di salsa soia

Preparare le crepes

con farina, acqua, sale

e cuocerle nell’antiaderente

Saltare nel wok il maiale

infarinato con la maizena

e i germogli

Aggiungere l’olio

di arachide, zucchero,

salsa, brodo e far evaporare

Mettere il porro e far

raffreddare in una ciotola

Farcire le crepes, arrotolare

e sigillare con acqua

e farina

Friggere in olio bollente

Germogli di soiaOttenuti dalla pianta

appena nata, sono

ricchi di vitamine,

proteine, minerali

Diuretici

e disintossicanti.

Crudi in insalata

o saltati nel wok,

si servono per contorno

Nidi di rondineÈ un impasto di fango

e saliva d’uccello

diffuso in Thailandia,

(a Pee PeeLeh),

dove abbondano

i raccoglitori. Il piatto

più prelibato – brodo

chiaro con nidi – entra

nei grandi banchetti

SesamoUno dei cereali

più amati nelle cucine

orientali (e arabe) viene

utilizzato sotto forma

di olio, grani, semi

(tostati o no)

Ricostituente, ricco

di minerali, si usa

per friggere, impanare

cucinaCantonese

i saporiCibo etnico

Si fa presto a dire Cina: milletrecento milionidi abitanti, un territorio vasto come l’Europa, quattrograndi tradizioni culinarie. Così, quando andiamoa mangiare “al cinese”, ci troviamo davanti a un mixdi piatti addomesticati e ingannevoli. Ecco i consiglifai-da-te per conoscere le ricette e i gusti originali

44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 12 FEBBRAIO 2006

LE RICETTE

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La cucina cantonese è praticata

in gran parte dei ristoranti cinesi

Ecco una serie di indirizzi italiani

MILANOHONG KONG

Via Schiapparelli 5, Tel. 02-6701992

Chiuso lunedì, menù da 40 euro

TORINOKING HUA

C.so Racconigi 30bis, Tel. 011-331967

Chiuso lunedì, menù da 30 euro

VENEZIATEMPIO DEL PARADISO

Sestiere di San Marco 5495

Tel. 041-5224673

Chiuso lunedì, menù da 20 euro

ROMASHIN YA

Piazza Rovere 84, Tel. 06-68806147

Senza chiusura, menù da 25 euro

CAGLIARICANTON

Via Alagon, Tel. 070-656738

Chiuso lunedì mattina, menù da 15 euro

RistorantiNei negozi di alimentari e di gastronomia

specializzati si trovano anche gli utensili

per cucinare cinese

MILANOZHOU

Via Canonica 54

Tel. 02-312371

TORINOORIENTAL MARKET

C.so Regina Margherita 119

Tel. 011-4368482

VENEZIASOUTH ASIAN

REGIONAL COMMERCE

Via Brenta Vecchia 5

Tel. 041-5040455

ROMAORIENTAL STORE

Viale delle Milizie 9E

Tel. 06-37518773

CAGLIARIASIA FOOD

Via Barcellona 53

Tel. 070-656221

Negozi

“Mangiare cinese” è per il consumatore occidentale una formaquintessenziale di orientalismo (à la Edward Said) gastronomi-co, o addirittura di colonialismo gastronomico-culturale. Insie-

me al nostro riso alla cantonese, ai nostri involtini primavera (due piatti chemai entrerebbero nel menù di un autentico pranzo cinese), al nostro maialein agrodolce dal sapore e dal colore dei dolciumi da fiera, consumiamo la no-stra idea di Cina, di Oriente e, in ultima analisi, di “altro”. Un altro che deveessere esotico, strano, bizzarro, così da farci sentire avventurosi e di larghevedute, ma anche “addomesticabile”, così da renderci superiori e conqui-statori. Un cibo “altro” che, oltretutto, ha il vantaggio di costare poco: si va “alcinese” anche per risparmiare (e se questo risparmio deriva dalla bassa qua-lità degli ingredienti, dalla ignoranza di norme igieniche e di regolamenta-zione del lavoro, poco importa).

Naturalmente gli stessi ristoratori cinesi contribuiscono a questa co-struzione culturale, soddisfacendo tutte le aspettative del cliente occiden-tale, addomesticando i sapori, sovvertendo l’ordine e l’armonia delle por-tate, introducendo innovazioni strampalate, improbabili dessert (il gelatofritto) e zuccherosi aperitivi di benvenuto. La maggioranza dei ristoranti ci-nesi delle Chinatown italiane offre, sulla carta, “cucina cantonese”. Al con-trario, in Italia, al giorno d’oggi, la maggioranza dei cuochi e ristoratori ci-nesi proviene dalla zona di Wenzhou nel Zhejiang e, non avendo una spe-cifica preparazione professionale, pratica una cucina genericamente “ci-nese” senza spiccate caratteristiche regionali.

La cucina cantonese, più generalmente definita cucina meridionale, èdiffusa nelle provincie del Guangdong e del Guangxi, nella Cina meridio-nale, ed ha i suoi centri di elaborazione nelle città di Guangzhou (Canton)e Hong Kong. Le condizioni climatiche ideali, con abbondanti precipita-zioni estive e inverni miti e brevi assicurano raccolti abbondanti tutto l’an-no, mentre la vicinanza del mare garantisce un rifornimento costante di pe-sce, crostacei ed altri prodotti ittici. La grande varietà di salse e condimen-ti disponibili non deve far pensare che la cucina cantonese sia grave di sa-pori pesanti, frutto di cotture lunghe e elaborate. Al contrario, essa è notaper la sua leggerezza e perché mantiene il più possibile intatti freschezza,sapore e colore originari degli ingredienti. Al punto che il commensale oc-cidentale non avvezzo alla “reale” cucina cantonese può giudicare le suepreparazioni blande e “indietro di cottura” (la «Chine est fade», la Cina èblanda, scrive Roland Barthes, ripreso da François Jullien, nel suo Elogiodell’Insapore).

L’estrema popolarità della cucina cantonese all’estero è legata ai flussimigratori cinesi, che, soprattutto all’inizio del Ventesimo secolo, proveni-vano dalla provincia del Guangdong, e alla relativa “facilità” del suo gusto.E tuttavia, i cuochi cinesi della diaspora sembrano dimenticare che alla cu-cina cantonese, più che ad ogni altra cucina regionale cinese, si applica lafamosa descrizione del cibo perfetto contenuta negli Annali di Lü Buwei(Terzo secolo a. C.): «Si mantiene a lungo e non si guasta, è cotto a fondo manon è sfatto, è dolce ma non stucchevole, agro ma non troppo, salato manon tanto da togliere ogni sensazione, pungente ma non bruciante, delica-to ma non blando, ben condito ma non unto».

L’autore insegna letteratura cinese all’Università Ca’ Foscari di Venezia

Lo strano caso involtino primaveracelebre ovunque, snobbato a Canton

MARCO CERESA

Pinne di squaloIngrediente base

di una zuppa-culto

(e costosa) a volte

arricchita con pollo

o granchio.

Le fibre di collagene

contenute

nelle pinne

danno consistenza

ZenzeroPianta tropicale,

cresce tra Asia

e Pacifico, terapeutica

contro nausea,

mal d’auto, artrite,

con proprietà digestive

La radice, di sapore

forte, è usata

fresca ed essiccata

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45DOMENICA 12 FEBBRAIO 2006

In ItaliaApprezzare la cucina cantonese

è possibile sia al ristorante che in casa,basta avere gli indirizzi giusti...

Strass, paillette, monili, oro, platino, argentoe cristalli Swarovski: una pioggia luminosasi posa sulla pelle, sui vestiti, sugli oggettiche ci circondano. La “moda sfolgorante”degli anni Settanta torna, forse per farcidimenticare una stagione di crisi e paura

Avolte ritornano, si dice. Ci sono mo-de, invece, che non passano maidavvero. Magari si appannano,oscillano tra alti e bassi. È il caso del-l’argento, l’oro, la paillette, il cristal-lo, il brillante e tutto quanto sfavilla.

Case, gioielli e vestiti. Tutto splende di una lucesempre più abbagliante. Una rimonta, è il caso didirlo, in grande stile e per una ragione precisa.«Nei momenti in cui di bello in giro c’è molto po-co», spiega il sociologo Enrico Finzi «come accadeora in una Italia in cui il settanta per cento dellepersone dichiara che economicamente sta peggiodi cinque anni fa, tutto ciò che è luminescente èapprezzato e ha una funzione consolatoria». Teo-ria, quella di Finzi, supportata anche dall’antro-pologo australiano Eugene Beauty che denunciail «forte bisogno di luce della generazione con-temporanea».

Il concetto di luminoso è spesso legato a un’im-magine estetica di charme. Le donne si compiac-ciono di ciò che indossano e dello splendore che lerende più graziose, indipendentemente dal valoredel gioiello. Ed è il trionfo della bigiotteria. Ma c’èdi più. Secondo Finzi, «Il fascino della brillantezzaè radicato sin dall’infanzia. Basta vedere in chemodo un bambino di due anni ne è attratto. L’im-portante è che l’oggetto non sia immobile perchéil vero potere catalizzan-te, è dato dall’alternanzatra luce e opaco».

E poi c’è l’autoseduzio-ne. «Usiamo sempre piùl’abbigliamento, il truccoe i gioielli», aggiunge il so-ciologo, «per una costan-te messa in scena di noistessi, per piacerci di più ecorrispondere al nostroideale di io. Il brillante ol’oro contano sempremeno come oggetti di va-lore e sempre più comeforma di narcisismo con-temporaneo». Il gioiellonon è più neppure un se-gno d’amore. San Valentino e anniversari a parte,gli uomini regalano sempre meno preziosi alle lo-ro compagne che entrano da sole in gioielleria ecomprano quello che vogliono. Spesso diventa unconforto magari se il fidanzato si comporta maleo non arriva una promozione sul lavoro.

Ma quella del brillante, sotto forma anche di po-vero cristallo, è un’attrazione fatale per tutte. «Re-siste da millenni — spiega Antonio Mancinelli,autore di Moda vivendi. L’arte di stare bene neipropri panni — e non è necessariamente un segnod’esibizione. Spesso è più semplicemente unricorso funzionale a un grande alleatofemminile e una forma d’investi-mento in qualche cosa che rima-ne nel tempo». Non si spiega co-sì il ritorno dell’oro nell’arredo. ATorino, in occasioni delle Olimpia-di appena cominciate, è stato inaugu-rato il Golden Palace, «un albergo —racconta Mancinelli — in cui tutto risplen-de a partire dalle camere in oro, argento e bron-zo. Il ritorno al prezioso del 2006 ha un’imposta-zione conservatrice, quasi da vecchia Inghilterra,e il lusso si propone in chiave bon ton».

Oltre ai grandi classici da sogno di Bulgari,Cartier, Pomellato e Chanel, c’è anche il boom dioro e brillanti in un’inedita versione street style.L’ultima novità sono i teschi. Ma le ragazze in-dossano volentieri anche le scarpe luminescen-ti (Pollini, Ferragamo, Dolce e Gabbana) o ma-gari il vestito con Swarovsky, la camicia e il pan-talone in strass e paillette. Capi che nessuno sti-lista fa mancare nelle sue collezioni. Perché lasera s’illumini di luce.

le tendenzeStili emergenti

FIORE SHOCK IN SALOTTOSi apre come un fiore appena sbocciato

la poltroncina ricoperta di cristalli

Swarovski che fa parte della collezione

“The Diamond collection” di Edra

Per sedute luminose

IRENE MARIA SCALISE

PASSI DA REGINAÈ firmata Stuart Weitzman

la scarpa da sera

in raso viola

con cinturino tempestato

di pietre colorate e piccoli

luminosissimi cristalli

Casa, abiti, gioiellii nuovi narcisisi vestono di luce

46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 12 FEBBRAIO 2006

Trionfa la bigiotteria,si tingono di riflessicangianti anchele scarpe e gli arrediLa lucentezzanon è più sinonimodi lusso e ricchezza

BAGNO D’ARGENTOUn bagno argento

che cambia il look

della scarpa

con tacco

Perfetta sotto l’abito

da sera nero. È di D&G

L’ANELLODEI DESIDERIUn anello

di diamanti

è il sogno

di ogni donna.

Questo è un Leo

Cut Diamond

realizzato da Bibigì

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Il segreto è nella luce. Sta tutto qui il fa-scino esercitato da sempre dagli oggettiluccicanti sulla fantasia degli uomini

delle culture e delle civiltà più diverse.Quello che si rivela nello splendore dell’o-ro, nello scintillio dei diamanti, nella tra-slucenza multicolore delle gemme, nellamagia degli specchi, nello sfolgorio son-tuoso delle sete, nell’abbagliante policro-mia delle paillettes, nel lampeggiare sedu-cente del lurex, non è altro che il mistero delbagliore. O, per dirla con Stanley Kubrick,l’irresistibile richiamo dello shining, di unaluccicanza che sembra avere in sé qualcosadi soprannaturale.

Risplendere e riflettere. Le due proprietàdegli oggetti preziosi sono infatti stretta-mente legate alla riproduzione dell’imma-gine e soprattutto della luce, sorgente stes-sa della visione.

È questo che spiega, almeno in origine, lacredenza così diffusa nella natura magico-sacrale di oro, pietre preziose e oggetti sfa-villanti: la loro capacità di catturare la lucee di ridarle vita, di farla letteralmente rilu-cere. È proprio questo, del resto, il signifi-cato letterale del termine “brillare” —splendere di luce tremolante e viva — e de-riva dal berillo, la splendida pietra dai ri-flessi verdi cui nel mondo antico erano at-tribuiti poteri straordinari. Come quello diguarire le malattie degli occhi o di evocaregli spiriti delle tenebre. Coniugando, in al-tre parole, la vista e la visione.

Non a caso gli dèi e i sovrani, incarnazio-ni supreme del potere, hanno sempre avu-to un rapporto così stretto con tutte le ma-terie che imprigionano la luce e ne rifletto-no l’energia vitale. Autentici specchi di unapotenza soprannaturale.

L’imperatore della Cina, raccontavanonel Seicento i missionari gesuiti, non sco-priva mai il suo volto e quelle rarissime vol-te che si mostrava ai sudditi, celava il visodietro una cascata di fili di perle e di pietrepreziose. Ed era proprio lo scintillio dellegemme prodotto dal movimento della testadel sovrano a significare la presenza e la vo-lontàdi una potenza infinita che non si ma-nifestava se non per lampi di luce. Come lafolgore, come le stelle, come la luna. E comeil sole col quale dèi e regnanti si identifica-vano fino al punto da rivestirsi completa-mente d’oro e di gemme.

Nell’antico Egitto il corpo dei faraoni eraconsiderato della stessa sostanza di cui erafatto il sole, ovvero d’oro, il re dei metalli,emblema di incorruttibilità e di perfezio-ne, e proprio di oro erano rivestite le mum-mie regali. Gli imperatori incas erano cre-duti incarnazioni del dio solare Viracocha.E sull’analogia simbolica con il re degliastri, Luigi XIV, passato alla storia come ilRe Sole, costruì un’autentica mitologia alpunto da indossare, nelle sontuose feste diVersailles, una maschera d’oro a forma disole radioso.

Per una analoga proprietà transitiva leimmagini sacre e i paramenti rituali sonospesso dorati o tempestati di gemme: daisimulacri di Budda, alle icone bizantine,dalle aureole dei santi, agli sfondi sfavil-lanti di Cimabue e di Duccio di Buoninse-gna, dagli idoli di giada indiani a quelli dicristallo aztechi. Simboli di illuminazione,di immortalità, riflessi terreni della luce ce-leste. Come lo specchio che insieme alleperle costituiva l’attributo sacro dell’im-peratore del Giappone.

Qualcosa di quest’aura sacrale restapersino nel nostro culto, ormai secolariz-zato, dell’oro, dei gioielli, e di “tutto quelche luce” — compresi abiti e make up lu-minosi — che continuano a incantarci,proprio come gli specchietti e le perlinecolorate incantavano i selvaggi. In que-st’epoca di narcisismo diffuso l’aura lu-minosa serve soprattutto a far risplende-re noi stessi, a consacrare la nostra imma-gine. Realizzando così il senso più profon-do del termine look. Che ha la stessa eti-mologia di luce e di luccicare. Come dice-va Simone de Beauvoir, questi oggettiscintillanti danno il tocco finale alla no-stra trasformazione in idoli di noi stessi.Idoli fragili, sedotti dal rilucente glamourdello stagno di Narciso.

Dal fulmine al berilloil fascino del bagliore

MARINO NIOLA

PICCOLA CUSTODEÈ firmata Ferragamo la baguette

argentea pensata come borsetta

da cerimonia. In vendita

anche nella versione oro

L’ORA DEL LUSSOCinturino blu oltremare,

quadrante con pavé

di diamanti cifre arabe

e tre corone

per il superbo

automatico della Rolex

SUGGESTIONE DIABOLICAHa un aspetto diabolico

il guanto da sera di Armani

rivestito di paillette

rosso fiamma. Con tanto

di finte unghie

e chiusura in pietra nera

ENGLISH STYLEBasso, all’inglese,

in versione oro

o argento

(con frangia oppure

senza), il mocassino

di Studio Pollini

coniuga eleganza

e sobrietà

BrillanteSGUARDI INDIMENTICABILISi chiama Quadrato l’occhiale da vista

in acetato impreziosito da cristalli

Swarovski. Disponibile in rosso, miele

e nero. È proposto da Bulgari

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47DOMENICA 12 FEBBRAIO 2006

LUCE STELLAREIn oro giallo e bianco

con smeraldo

centrale da quasi

7 carati e un totale

di oltre 1270 diamanti

di varie dimensioni

Il collier Chanel brilla

come una stella

Un gioiello da sogno

per gran parte

delle donne

PREZIOSO ART DÉCOLinee dal puro stile Art

Déco per l’orologio-gioiello

di Chopard che ha

sul quadrante brillanti

di vario taglio e dimensioni

CALZARI DA GRAN GALAÈ un vero coccodrillo

color verde militare

con fitta maglia

Swarovski alla caviglia

Disponibile anche

in raso e nero Di Testoni

EFFETTO ARCOBALENOGiallo, oro, bianco,

azzurro

e rosso: sono i colori

delle paillette

che adornano

la borsa Roi Soleil.

Blumarine

48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 12 FEBBRAIO 2006

l’incontroPrimedonne

TRIESTE

Margherita, evidente-mente, è un nometroppo vezzoso e cosìil marito — suo mari-

to da 62 anni — la chiama Marga, chele sta benissimo. Marga è in calzoni co-modi, felpa, mocassini robusti. Ha unbel sorriso naturale e gli occhi limpidie celesti come quand’era giovane.Cammina veloce, sale bene le scale delsuo giardino, una casa in cima a unasalita dove si arriva col fiatone, accoltida un cane e da tre gatte, che si chia-mano Jenny, Trappola e Cicciolina.

Marga l’astrofisica è abbastanza invena per parlare di cose personali, for-se frivole o forse importanti. Non qua-sar, non pulsar, nane bianche, buchineri e supernove. Ma vestiti, trucco,femminilità, vanità, shopping. Soprat-tutto amore. Sembra sollevata all’ideadi prendersi una vacanza dall’impegnoquotidiano, dalla politica che la vedeschierata come capolista alla Cameraassieme a Diliberto nel Partito dei Co-munisti Italiani in Friuli, come candi-data indipendente. «Spero proprio dinon essere eletta», ride di cuore.

Dunque il privato. E dunque AldoDe Rosa, suo marito da anni immemo-ri. L’altra metà della mela, comple-mentare in tutto, lei atea lui cattolico,lei una scienziata lui un letterato(«un’enciclopedia vivente che consul-to in continuazione»), lei del tipo ag-gressivo e lui pacioso, «imprevedibile,timido, sognatore, come un extrater-restre, il mio opposto».

Si sono conosciuti da bambini, a Fi-renze, dove lei abitava profeticamen-te in via Centostelle. «Io avevo 11 annie lui 13, ci incontravamo ai giardinipubblici. Giocavamo a guardie e ladri,noi s’era sempre i ladri. Facevamo an-che grandi tornei di palla e corse di re-sistenza. Ci arrampicavamo sugli al-beri, e io lo battevo sempre». La lorofrequentazione si interrompe per die-ci anni: il padre di Aldo, commissariodi polizia, viene trasferito, prima al-

poti di amici alcuni dei quali sono giàin cattedra, le capita mai di rimpian-gere di non avere avuto bambini. «Mai,mai. Noi i figlioli non si volevano. C’èchi è portato e chi non è portato: io nonsono portata. Da ragazza poi mi davamolta noia tutta quella propaganda diMussolini secondo cui le donne dove-vano fare figlioli per forza, e anche tan-ti. Oggi c’è molta retorica attorno allamaternità. Io preferisco i gatti».

Dai genitori non ha avuto nessuncondizionamento. «Mi hanno cre-sciuta nel modo più libero, senza an-corarmi ai ruoli femminili, inculcan-domi due valori fondamentali: la li-bertà e la giustizia. Una grande fortu-na per me». E la religione? «Mio padreera nato protestante, mia madre cat-tolica, ma erano entrambi disgustatidella loro religione e aderirono allateosofia, laicamente però».

Atea, e in modo granitico, lo è di-ventata prestissimo. Non crede innessun sublime orologiaio: «L’ideache esista Dio mi sembra talmente as-surda! Non c’è né Dio, né l’aldilà, nél’anima. Quello che noi chiamiamoanima è il nostro cervello. Non credonella vita dopo la morte e tanto menocredo a un paradiso in versione con-

l’Aquila, poi a Palermo. «Ci siamo ri-trovati all’università e a dire il vero cieravamo piuttosto antipatici. Si leti-cava sempre, non mi ricordo poicom’è finita che ci siamo innamorati eaddirittura sposati».

Da ragazza, campionessa di salto inlungo e di salto in alto, Marga era fa-scista: «Si era tutti nazionalisti, si an-dava alle adunate, si faceva sport, ci sidivertiva un mondo. Sono stata fasci-sta fino al ‘38, fino al giorno in cui en-trarono in vigore le leggi razziali. Ave-vo una professoressa di scienze bra-vissima, si chiamava Enrica Calabresi,con un centinaio di pubblicazioni alsuo attivo, che era ebrea e da un gior-no all’altro non venne più a scuola.Cercammo di informarci, di sapereche cosa le era capitato e solo dopo laguerra venimmo a sapere che era sta-ta rinchiusa a Santa Verdiana, il carce-re femminile di Firenze, e venti giornidopo morì suicida: si avvelenò».

Nel ‘44, a febbraio, Margherita e Al-do si sposano. «Io non avevo nessunavoglia di sposarmi. Considero il matri-monio una cosa inutile. In chiesa poi!Mi vergognavo come un cane. Ma i ge-nitori di Aldo erano religiosi, eranocredenti, ci tenevano... Il mio abito dasposa? Un cappotto rivoltato. Celeste,credo. E cosa portavo sotto non me loricordo neppure. Niente di specialecomunque. Anche Aldo aveva un cap-potto rivoltato. Una cerimonia sem-plicissima, eravamo sette o otto perso-ne in tutto. Nessun pranzo di nozze.Andammo lui e io da soli a mangiare inuna trattoria a piazzale Michelangio-lo. Mangiammo certi spaghetti al po-modoro così cattivi che ancora me li ri-cordo. Ci voleva la tessera per mangia-re: si staccavano i bollini».

Margherita Hack sa che c’è un atto-re molto bravo, si chiama Max Torto-ra, che le fa una splendida imitazione,ma non l’ha mai sentito, non l’ha maivisto. Se ne infischia allegramente diessere presa in giro sulla sua, diciamocosì, non vanità. «Da giovanissima unpo’ ci tenevo. Mi piaceva vestirmi be-ne, anche se sempre in modo moltosemplice. Truccarmi no, al massimoavrò messo qualche volta un po’ di ros-setto. Ma se i capelli non mi stavanocome volevo io pativo molto. Poi m’èpassata. A 18 anni ho smesso di badar-ci. Non mi sentivo più incerta. Moltasicurezza me l’ha data lo sport. E forseanche il successo negli studi, la mate-matica. Mi sentivo forte». Niente truc-co, niente abiti femminili, nienteshopping: «Ancora oggi per me è lapeggiore delle condanne. Piuttostovo’ vestita di stracci. Se devo entrare inun negozio mi vergogno, ci vado sol-tanto quando è indispensabile, prefe-risco i grandi magazzini, perché neinegozi normali mi appioppan quelche voglion loro».

Chissà se oggi, a 84 anni, con una vi-ta piena di successi e gratificazioni al-le spalle, tanti amici, figli di amici, ni-

dominiale, dove rincontrare parenti,amici, nemici, conoscenti. Non misoddisfa. Certo, può essere consolato-rio: un po’ come credere alla Befa-na...». Ma professarsi così strenua-mente atea non è, alla fine, una formadi fede anche quella? «Dice? La veritàè che non me n’è mai fregato nulla del-la religione, a esser sincera».

Né della religione né della morte:«Non me ne preoccupo minimamen-te. Io la penso come Epicuro. Quandoc’è la morte non ci sono io, e quando cisono io non c’è la morte. Della malat-tia sì, ho paura: ho paura di soffrire, dinon essere più autonoma, per questosono così favorevole all’eutanasia. Lavita e la morte appartengono all’uomoe non a Dio. Uno Stato laico e non teo-cratico deve riconoscere il diritto al-l’eutanasia come all’aborto, ai pacs, aldivorzio, alla ricerca sulle cellule sta-minali embrionali». Lo ripete ogni vol-ta che può. Quando va in televisioneper esempio. La sua tv è piccola e unpo’ sbilenca: la accende soltanto perguardare i telegiornali e i dibattiti, es-senzialmente su Rai3 e la7. Confessadi avere un debole — sarà perché è ani-malista — per Il commissario Rex;quanto ai reality li etichetta come «tut-te bischerate».

Il suo approccio con le stelle è quan-to di meno «poetico» si possa immagi-nare: «Capisco che un bel cielo stella-to possa essere uno spettacolo mera-viglioso, ma come un bel tramonto,come una bella aurora, come un ma-gnifico paesaggio, non a caso l’Unescoha dichiarato il cielo stellato patrimo-nio dell’umanità. Ma perché turbar-si?». Abituata a scrutare l’infinito,Margherita Hack alle stelle non chie-de segni ma temperatura, densità,composizione chimica. «La gente ciimmagina a testa in su che studiamo ilcielo con un cannocchiale. Ma quan-do mai? In realtà stiamo molto piùtempo al computer. Anzi: i telescopimoderni sono dei computer su cui i ri-levatori elettronici traducono l’inten-sità delle radiazioni delle stelle espri-mendola in numeri».

Ammette di avere con il firmamentolo stesso approccio che gli entomologihanno con gli insetti e non condividela celebre affermazione di Kant: «Duecose mi riempiono l’animo di crescen-te meraviglia e di timore: il cielo stella-to sopra di me e la legge morale dentrodi me». La legge morale benissimo, an-che la meraviglia di fronte alle stelle,ma non certo il timore: «È sbagliatoprovare questo senso di annienta-mento. Anzi: quel che sento io è pro-prio il contrario. È una grande soddi-sfazione al pensiero che noi siamo co-sì piccini, viviamo così poco, eppurenegli ultimi cento anni siamo riusciti acapire così tanto di astrofisica, c’è sta-ta un’accelerazione incredibile».

Se avesse la bacchetta magica chie-derebbe di poter campare altri dieci-mila anni, perché è curiosissima del

futuro: «Altri diecimila anni per sco-prire cos’è la materia oscura, arrivareal primo istante del big bang, vederetutte le conseguenze meravigliose cheavrà la mappatura del dna». Se potes-se o dovesse trasferirsi su Marte, infondo il meno inospitale fra i pianetidel sistema solare, porterebbe con sé«Guerra e Pace, la Montagna incanta-ta, Vivaldi, Mozart e Bach. E anche lamia amatissima bicicletta: su Marte si-curamente non c’è traffico».

In bici — per ora sulle salite e sullediscese di Trieste — ci va ancora, men-tre ultimamente ha rinunciato allepartite di pallavolo: «Ho le ginocchiadi titanio, non posso più saltare». Mo-ni Ovadia l’ha definita una straordina-ria affabulatrice: «Forse perché quan-do faccio le conferenze o tengo lezio-ne, riesco a sorprendere chi mi ascoltadicendo cose meno ovvie. Mica facciocome gli americani però, che raccon-tano tutte quelle barzellette!». Da bra-va affabulatrice ha scelto la favola del-le favole, Pinocchio, come «libro di unavita» di cui andrà a parlare a Roma ilprossimo giugno nella basilica (aiuto,una chiesa!) di San Lorenzo in Lucina:«Pinocchio perché è il libro sul qualeho imparato a leggere. Perché è il librodelle avventure. Perché c’è dentrotanti insegnamenti che si attagliano aoggi: i ladri fuori, gli onesti in galera...».

Già, i libri: tracimano in questa pic-cola casa frugale. Saranno trentamila,stipati ovunque, in un disordine tra-volgente nel quale Marga sembraorientarsi perfettamente, per nullascoraggiata. Ci sono pile che partonoda terra e arrivano fin quasi al soffitto,pile sul tavolo da pranzo, pile in cuci-na, pile di fronte ai vecchi divani, pilesu cui saltano elastici i gatti. Ne pren-do un paio a caso, fra quelli più a por-tata di mano. Uno si intitola I labirin-ti del sacro, dalla protostoria alla NewAge quantistica. Un altro è l’autobio-grafia di Rossana Rossanda, La ragaz-za del secolo scorso. Margherita Hacksi guarda intorno, sorride e allarga lebraccia: «È il tempo, è il tempo che mimanca. Quando riuscirò a leggeretutto questo?».

Èuna grandesoddisfazionepensare che noi siamocosì piccini, viviamocosì poco, eppurenell’ultimo secolosiamo riuscitia capire così tantodella fisica degli astri

Da piccola, quasi una premonizione,abitava in via CentostelleMa stavolta la famosa astrofisicanon parla di pulsar e quasar. Raccontaemozioni e sentimenti, la lunga storia

d’amore col marito(“un extraterrestre, il mioopposto”), la passioneper lo sport, l’ostilitàper tutto ciò che passaper “femminile”: abiti,trucco, shopping,maternità. E confessa,

lei atea militante, un punto debole:la curiosità del futuro, la vogliadi vivere diecimila anni

LAURA LAURENZI

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