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CONCITA DE GREGORIO cultura Le poesie inedite di Charles Bukowski ANTONIO GNOLI la memoria Il voto alle donne compie sessant’anni MIRIAM MAFAI e SILVANA MAZZOCCHI il racconto Buffalo Bill, ultimo cowboy e prima star LEONARDO COEN e ANTONIO MONDA spettacoli Vampiri, il mostro torna in pantofole NATALIA ASPESI e GIUSEPPE VIDETTI i luoghi Pechino riscopre il suo cuore antico FEDERICO RAMPINI MADRID S i riconosce dai baffi, poi dagli occhi. Le guance sono cadute, guance flosce di vecchio. I capelli non ci sono più, il corpo è appesantito. Gli abiti civili lo ingoffano come un vestito non suo, non ha mai imparato a star- ci dentro. I baffi però, ecco, quei baffi da cow boy sfortunato dei cartoni animati, sono identici: bianchi, ormai. Ingialliti dalle si- garette Fortuna, però uguali. E poi gli occhi. Alza lo sguardo e bal- lano come anguille, furibondi anche quando tace: occhi neri che scappano che non si fermano mai. Antonio Tejero Molina ha 74 anni, vive il furore che gli resta chiuso in questa casa di cemento nel cuore di Madrid, esattamente al centro del reticolo di strade che hanno scandito la sua storia e la sua dannazione. Laggiù il bar Galaxia, dove organizzò l’assalto alla Moncloa del ‘78. Più in fondo via General Cabrera, dove fumando e bevendo caffè cor- retto pensò il golpe dell’81. Cinque minuti a piedi, il Parlamen- to, dove dopo una notte intera col tricorno in testa e la pistola in mano pensò di arrendersi, sì, ma solo se i deputati, «quei capro- ni», fossero usciti in fila per uno e in mutande. La prima traversa a destra, via Martiri di Alcalà, il luogo dove ha passato in prigio- ne quasi sedici anni. Venticinque anni sono trascorsi da quella notte: il 23 F è lontano un quarto di secolo e invece eccolo qui, coi baffi bianchi e una lettera in tasca. Tejero esce dal portone del numero 1 di via Santa Cruz de Mar- cenado, uno di quei complessi residenziali concepiti secondo l’i- dea di lusso dell’epoca: un casermone coi balconi di cemento ar- mato simili a enormi mangiatoie grigie, rampicanti e edere pen- denti che raccontano le cure di trentennali domestici. Teleca- mere a circuito chiuso spiano i passanti, un furgone bianco sen- za insegne staziona fisso davanti all’ingresso. Saluta il portiere con un gesto, s’incammina verso il negozio di fotocopie e fax do- ve va a spedire la lettera che ha appena scritto per maledire Za- patero: un uomo da niente, un traditore della Patria. Passa da- vanti alla Scuola di Guerra dell’esercito: in guardiola c’è una sol- datessa bruna con gli orecchini di perla, la guarda in tralice. Don- ne in mimetica, un mondo invivibile. Si ferma a frugarsi le tasche proprio sotto un cartello che il quartiere Conde Duque, il suo quartiere, ha piantato lì per celebrare Cervantes: «Io voglio stare zitto perché non mi dicano che mento. Ma il tempo, scopritore di ogni cosa, dirà il vero quando meno lo aspettiamo». Verso 15, capitolo 37. Tejero, sul suo silenzio: «Non insista, signorina. Io del 23 febbraio non parlo. Non parlo perché non so cosa sia suc- cesso quel giorno. Chi avrebbe dovuto spiegare ha taciuto, qual- cuno ha tradito, troppe ombre ancora pesano. Io ho fatto il mio dovere di spagnolo, ho pagato colpe che non ho. La storia dirà». (segue nelle pagine successive) con un servizio di ALESSANDRO OPPES la lettura In sella a una bici per fare l’Italia EDMONDO BERSELLI e PAOLO RUMIZ DOMENICA 19 FEBBRAIO 2006 D omenica La di Repubblica Il ritorno del golpista Venticinque anni fa il colonnello Antonio Tejero Molina prese in ostaggio le Cortes. Oggi racconta e scrive “j’accuse” contro Zapatero Repubblica Nazionale 25 19/02/2006

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CONCITA DE GREGORIO

cultura

Le poesie inedite di Charles BukowskiANTONIO GNOLI

la memoria

Il voto alle donne compie sessant’anniMIRIAM MAFAI e SILVANA MAZZOCCHI

il racconto

Buffalo Bill, ultimo cowboy e prima starLEONARDO COEN e ANTONIO MONDA

spettacoli

Vampiri, il mostro torna in pantofoleNATALIA ASPESI e GIUSEPPE VIDETTI

i luoghi

Pechino riscopre il suo cuore anticoFEDERICO RAMPINI

MADRID

Si riconosce dai baffi, poi dagli occhi. Le guance sonocadute, guance flosce di vecchio. I capelli non ci sonopiù, il corpo è appesantito. Gli abiti civili lo ingoffanocome un vestito non suo, non ha mai imparato a star-

ci dentro. I baffi però, ecco, quei baffi da cow boy sfortunato deicartoni animati, sono identici: bianchi, ormai. Ingialliti dalle si-garette Fortuna, però uguali. E poi gli occhi. Alza lo sguardo e bal-lano come anguille, furibondi anche quando tace: occhi neri chescappano che non si fermano mai. Antonio Tejero Molina ha 74anni, vive il furore che gli resta chiuso in questa casa di cementonel cuore di Madrid, esattamente al centro del reticolo di stradeche hanno scandito la sua storia e la sua dannazione. Laggiù ilbar Galaxia, dove organizzò l’assalto alla Moncloa del ‘78. Più infondo via General Cabrera, dove fumando e bevendo caffè cor-retto pensò il golpe dell’81. Cinque minuti a piedi, il Parlamen-to, dove dopo una notte intera col tricorno in testa e la pistola inmano pensò di arrendersi, sì, ma solo se i deputati, «quei capro-ni», fossero usciti in fila per uno e in mutande. La prima traversaa destra, via Martiri di Alcalà, il luogo dove ha passato in prigio-ne quasi sedici anni. Venticinque anni sono trascorsi da quellanotte: il 23 F è lontano un quarto di secolo e invece eccolo qui, coi

baffi bianchi e una lettera in tasca. Tejero esce dal portone del numero 1 di via Santa Cruz de Mar-

cenado, uno di quei complessi residenziali concepiti secondo l’i-dea di lusso dell’epoca: un casermone coi balconi di cemento ar-mato simili a enormi mangiatoie grigie, rampicanti e edere pen-denti che raccontano le cure di trentennali domestici. Teleca-mere a circuito chiuso spiano i passanti, un furgone bianco sen-za insegne staziona fisso davanti all’ingresso. Saluta il portierecon un gesto, s’incammina verso il negozio di fotocopie e fax do-ve va a spedire la lettera che ha appena scritto per maledire Za-patero: un uomo da niente, un traditore della Patria. Passa da-vanti alla Scuola di Guerra dell’esercito: in guardiola c’è una sol-datessa bruna con gli orecchini di perla, la guarda in tralice. Don-ne in mimetica, un mondo invivibile. Si ferma a frugarsi le tascheproprio sotto un cartello che il quartiere Conde Duque, il suoquartiere, ha piantato lì per celebrare Cervantes: «Io voglio starezitto perché non mi dicano che mento. Ma il tempo, scopritoredi ogni cosa, dirà il vero quando meno lo aspettiamo». Verso 15,capitolo 37. Tejero, sul suo silenzio: «Non insista, signorina. Iodel 23 febbraio non parlo. Non parlo perché non so cosa sia suc-cesso quel giorno. Chi avrebbe dovuto spiegare ha taciuto, qual-cuno ha tradito, troppe ombre ancora pesano. Io ho fatto il miodovere di spagnolo, ho pagato colpe che non ho. La storia dirà».

(segue nelle pagine successive)con un servizio di ALESSANDRO OPPES

la lettura

In sella a una bici per fare l’ItaliaEDMONDO BERSELLI e PAOLO RUMIZ

DOMENICA 19 FEBBRAIO 2006

DomenicaLa

di Repubblica

Il ritornodel golpista

Venticinque anni fa il colonnelloAntonio Tejero Molina presein ostaggio le Cortes. Oggi raccontae scrive “j’accuse” contro Zapatero

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la copertina

za nazionale — coltiva camelie vicino aSantiago. Francisco Lanìa, allora diret-tore della Sicurezza di Stato, coltiva po-modori in una piccola fattoria in provin-cia di Avila. L’ex presidente del governoAdolfo Suarez, l’uomo colpevole per imilitari di aver legittimato il Partito co-munista, è afflitto da una malattia dege-nerativa fra la demenza e l’Alzheimer. Vi-ve chiuso nella sua casa di Florida, vicinoa Madrid: lo hanno trovato qualche vol-ta che raccontava dettagli del golpe diTejero ai giardinieri delle case vicine, lohanno riportato dolcemente nella sua.

Pazzi, vecchi e spaventati, muti: giardi-nieri che parlano coi fiori. Gli altri sonomorti. Tejero no, il colonnello camminaspedito verso l’edicola ogni mattina, poiva in chiesa. «Hai almeno messo il croci-fisso che t’ho mandato?», si spazientiva altelefono la moglie Carmen il primo gior-no di prigionia, 24 di febbraio. Ce l’ha, ilcrocifisso. La figlia, come gli altri cinqueeducati nel culto del padre, ne proteggeogni passo. Gli consente di rado di anda-re al telefono, filtra le chiamate. Lui, quan-do finalmente risponde alla domanda «èlei, colonnello?», dice così: «Al aparato».All’apparecchio, formula marziale e de-sueta, oggi vagamente ridicola: nessunochiama più il telefono «apparecchio».

E però è la stessa formula degli sbobi-nati allegati agli atti del processo: il mo-do in cui Tejero 25 anni fa rispondeva alsegretario del Re, Sabino FernandezCampo, che gli chiedeva «per carità cosasta facendo, colonnello, in nome di chiagisce?». Mentre Juan Carlos chiuso nel

suo studio pretendeva che il figlio Felipe,allora dodicenne, rimanesse lì nellastanza tutta la notte, sveglio, con lui.«Perché vedi, figlio, questa notte potreb-be essere l’ultima e di certo sarà unica etu devi sapere fin d’ora che essere re nonvuol dire solo tagliare nastri». Il bambinopiangeva, anche suo nonno Don Juan diBorbone dall’esilio portoghese piange-va. Ronald Reagan no, era andato a dor-mire e non lo svegliarono mentre Ma-nuel Fraga urlava in aula ai militari con lemitragliette «adesso basta», e AlfonsoGuerra il socialista pensava a suo figlio diun anno che non avrebbe forse visto più,e Santiago Carrillo il comunista si accen-deva un’altra Peter Stuyvesant. Dal con-siglio di guerra, in quel momento esatto,Lanìa stimava in «duecento morti ap-prossimativi» l’esito di un’azione arma-ta di liberazione del congresso che l’uo-mo col cappello a tricorno teneva inostaggio con una pistola Astra in mano.Diciotto ore, durò il golpe.

Carmen Tejero aveva capito ben pri-ma del marito che lo avevano lasciato so-lo come un mozzicone spento. Consola-va i figli, coraggio, nella stessa ora in cuilui rispondeva al generale Aramburu, ilsuo generale: «Non mi arrendo, mi ge-neràl. Se si avvicina ancora di un passo lesparo e poi mi sparo io». Nel bando chelesse dallo scranno più alto, quella notte,risuonano le stesse parole delle sue lette-re di oggi: «Spagnoli, le unità dell’eserci-to della Guardia civile che occupano ilcongresso non ammettono le autono-mie separatiste». Ai soldati che aveva

scandalo che abbiano cacciato con vio-lenza dall’Esercito il generale Josè MenaAguado, poche settimane fa, «solo peraver detto» che lo Statuto catalano, se ap-provato, avrebbe legittimato il ricorsoalle armi. «Uno scandalo, perché il gene-rale si è limitato a recitare un articolo del-la Costituzione, sebbene omettendo unparagrafo». La verità è che a questi poli-tici «noi serviamo solo un giorno ogniqualche anno, il giorno delle elezioni,per il resto ci vogliono ciechi sordi e mu-ti come le scimmie. Ma no, in nome diDio, non mi sentiranno tacere!». Gli oc-chi bruciano. «Vendono la patria pertrenta voti o, chissà?, forse per qualcosadi ancor più vergognoso. Il signor Zapa-tero, i suoi amici, le sue riunioni segre-te...». Le mani disegnano cerchi nell’aria,muovono il brillio della polvere nei raggidi luce delle persiane.

Di quelli che c’erano quella notte di 25anni fa Antonio Tejero è l’unico che an-cora frema di indignazione identica, so-lo contro i suoi mulini. Aveva provato adedicarsi alla coltivazione dell’aguagatein Costa del Sol, la sua terra natale. Lo fa.Da quando Gonzalez gli ha condonato lapena residua (quindici anni e nove mesiinvece di trenta, cinque scontati perbuona condotta: in carcere donava ilsangue), ha messo su una coltivazionesperimentale vicino a Malaga. AlfonsoArmada — il generale che fu per vent’an-ni istitutore del giovane Juan Carlos perconto di Franco, il vero ispiratore del gol-pe, uomo Opus dei che voleva sostituirsia Suarez a capo di un governo di sicurez-

Venticinque anni dopoIl 23 febbraio del 1981 un tenente colonnello della Guardiacivile fece irruzione nelle Cortes con una pistola in manoe un tricorno in testa. Il suo putsch stralunato e fallimentaredurò diciotto ore ma ancora oggi lui si domanda“chi lo tradì” ed è tornato in campo scrivendo letteredi fuoco contro Zapatero sulla “questione catalana”

“Non so cosa siasuccesso quel giorno:chi avrebbe dovutospiegare ha taciuto,qualcuno ha traditoIo ho fatto il miodovere di spagnoloe ho pagatocolpe che non ho”

LA LETTERA DEL COLONNELLONelle foto della pagina, due immagini

dell’assalto alle Cortes del 23 febbraio 1981

con al centro il colonnello Antonio Tejero

Molina. Nelle foto a colori, Tejero (sopra)

nel 1996 subito dopo la scarcerazione

e (sotto) nel 2003 con la moglie Carmen

Díez Pereira alla fiera di Malaga. A destra,

accanto alla prima pagina de “El Pais”

nel giorno del golpe, due pagine della lettera-

appello scritta da Tejero contro il presidente

Zapatero e consegnata alla nostra cronista

Nel montaggio di copertina, altre pagine

dello stesso documento

Madrid, nella casa di Tejerolo sfogo dell’ultimo golpista

(segue dalla copertina)

Invece poi parla, l’ultimo cupoDon Chisciotte di Spagna. Parla ilcavaliere nero dalla triste figurache ancora combatte contro il suoinesistente nemico. Parla infineperché «il cuore mi sanguina,

stanno attentando all’unità patria ed ècome se stessero accoltellando mia ma-dre: lei resterebbe ferma, non reagireb-be se vedesse uccidere la sua propria ma-dre?». La madre è l’unità nazionale, il col-tello che la uccide è lo Statuto autonomodi Catalugna, l’assassino è Zapatero.

Ecco qui la lettera, la missiva scritta amano che sta andando a inviare al gior-nale di Melilla — patria di militari nerid’ogni dove, enclave marocchina, terradi legione straniera, anche uno comeGhira è venuto a morire qui. Va a spedir-la dal negozietto di via San Bernardo. Lalettera s’intitola «Fino a quando... Zapa-tero?». Quo usque tandem. Dice: «Sperosolo che con questo Statuto non c’entri ilRe, perché come parlò quel 23 febbraioper evitare la ribellione così dovrebbeparlare oggi, giacché stanno tentando dirompere la corona di Spagna di cui è de-positario». Il febbraio ’81 come questofebbraio, quindi. Non ha cambiato idea,colonnello. «Cambiare idea? Non saquello che dice, non si rende conto. L’a-mor patrio non è un’idea. È il sangue checorre nelle vene degli uomini degni diquesto nome e io morirò da uomo. Di-fenderò Spagna finché avrò vita».

La casa è buia anche se fuori c’è il sole.È la casa della figlia, una dei sei figli — tremaschi, tre femmine — che ha avutodalla devotissima moglie Carmen: ladonna che la notte del 23 F, mentre luiera ancora dentro l’emiciclo che urlavaa Felipe Gonzalez, a Fraga e a CarreroBlanco «pancia a terra, cazzo», telefona-va disperata alle amiche: «Lo hanno la-sciato solo, lo hanno buttato via come unmozzicone di sigaretta». Gli altri, i gene-rali lo avevano buttato via: i signori delgolpe di cui Tejero è stato — in questaversione — solo una pedina. Il caproespiatorio. «Non so cosa sia successoquel giorno», appunto: dovevano arri-vare i carri armati da Valencia e non arri-varono; doveva esserci il generale Arma-da a fianco del Re e invece arrivò nell’e-miciclo a dettare un governo possibile —il suo — pieno di comunisti e di sociali-sti. Tejero, che aveva scatenato il golpe,lo fermò: lui lo fece, lui lo fece fallire.

Le serrande in casa sono abbassate, laluce elettrica accesa. Una scrivania scu-ra, una ciotola di cristallo con qualchecaramella Sugus, cimeli alle pareti: incornice il discorso che Franco inviò aglispagnoli prima di morire. Non c’è uncomputer, non una macchina da scrive-re. La tecnologia è un vecchio tv color insalotto. Il colonnello scrive a mano, instampatello. Si firma «Antonio TejeroMolina, carta d’identità numero1317104D, tenente colonnello dellaGuardia Civile espulso dall’esercito peril 23F». La lettera su Zapatero è del 25gennaio. In ordine sulla scrivania ce n’èun’altra scritta tre giorni dopo, il 28, an-cora inedita. Sono sette cartelle, il titoloè «In uso dei nostri diritti». Dice che è uno

26 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 19 FEBBRAIO 2006

CONCITA DE GREGORIO

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portato con sé nei sei autobus compratiper il bisogno aveva detto che il Parla-

mento era sotto attacco dell’Eta e bi-sognava difenderlo. Anche

adesso dice così: «Vorreiproprio che qualche giu-

dice chiedesse conto aquesti saltacostituzione

che cosa hanno fatto conOtegui e Batasuna, e allora ci

renderemmo conto delle lo-ro oscure intenzioni».

Arnaldo Otegui, ex compo-nente dell’Eta, ex parlamenta-

re di Harry Batasuna. I giornalidi oggi, quelli di sinistra, pubbli-

cano «il piano in quattro punti» diZapatero per chiudere le ostilità

con Eta. Quelli di destra portano inprima pagina foto delle vedove e

delle orfane del terrorismo («mai unaccordo con Eta») e della nuova li-

nea di moda di David Delfin ispirataalle divise delle SS, banda al braccio e

mostrine militari incluse. MelillaHoy, il giornale che ha pubbli-cato per esteso la lettera di Teje-

ro contro Zapatero, ha ricevutonei giorni successivi quaranta al-

tre lettere. «Trenta a favore diTejero e dieci contro», spiega il ca-

poredattore Mustafa Hamed. Tejero a novembre, tre mesi fa, è

andato in pellegrinaggio al Valle delos Caidos: la tomba di Franco. «Un

referendum è il minimo che questitraditori della patria possano conce-

dere al popolo sovrano. Io non ho vo-tato una costituzione in cui appare la

parola “aborto” e non compare il nomedi Dio. Però, adesso che c’è, è di tutti, edunque si dica che quello che sta succe-dendo è incostituzionale. Se si approvas-se lo statuto catalano, Spagna non sareb-be più Spagna: la avrebbero uccisa pro-prio quelli che il popolo ha eletto perchéne avessero cura». I soldi, è una faccendaanche di soldi. «Lo dice uno che ha rifiu-tato milioni per le interviste, uno che nonha cura del denaro». Colonnello, si diceche lei sia pagato per tacere. «Infamia. Neavrei bisogno, del denaro che mi offronoper parlare. Ma lo rifiuto, e denuncio loscandalo della bancarotta a cui stannoportando Spagna: i catalani vorrebberotenersi la metà delle loro imposte, milio-ni e milioni di euro che pagheremo tutti,e senza essere profeta dirò che dopo an-che gli altri vorranno la medesima auto-nomia, i baschi, i galiziani, tutti, fino a to-tale liquidazione della Patria. Prego il re».

Lei, prega il re? «Certo. Da repubbli-cano accetto la monarchia sempre chesia garante dell’unità di Spagna. Si pro-nunci su questo atto vandalico. Parlioggi come parlò allora». Allora, quandoa mezzanotte e cinque minuti del 23febbraio Juan Carlos disse in tv agli spa-gnoli «la Corona non può tollerare attidi chi pretende di interrompere con laforza il processo democratico». Tejerosentì il discorso mentre con l’Astra inmano pensava di salvare il Paese da«questi caproni democratici», e state aterra. Stamattina, venticinque anni do-po, ancora. Con una lettera in tasca, fer-mo impettito sul marciapiede di casa, ibaffi bianchi che tremano un po’. Colaacqua dai terrazzi, i domestici stannoannaffiando i rampicanti.

“Stanno tentandodi rompere la Coronadi Spagna, stannoattentando all’unitàdella patria. E il miocuore sanguina:è come se stesseroaccoltellando miamadre. Lei starebbeferma se vedesseuccidere sua madre?”

MADRID

Il film di quella giornata scorre an-cora limpido nella memoria del vec-chio generale a riposo. Anche se, a ven-ticinque anni di distanza, resta la con-fusione su come andarono realmentele cose, sulla vera genesi di quel golpeabortito. «Un rompicapo», lo definisceancora oggi Sabino Fernández Cam-po, 88 anni, che in quei giorni del 1981era il segretario generale della CasaReale. In altre parole, il più stretto col-laboratore del re. «È vero, io in quel mo-mento ero in una posizione privile-giata, ho potuto osservare da vicinominuto per minuto l’evolversi dellasituazione, e parlare con tutti i prota-gonisti. Però continuo ad avere l’im-pressione che mi manchi qualche tes-sera di quel mosaico. Elementi chenon coincidono, la probabile man-canza di un coordinamento tra chiaveva pensato l’azione e chi la stavarealizzando. È significativo quello chedisse il colonnello Tejero, mesi dopo,al momento del processo: «Io vorreiche qualcuno mi spiegasse che cosa èsuccesso il 23 febbraio». Come direche le cose andarono diversamenteda quel che credeva l’uomo che erastato mandato in prima linea».

Generale, lei fu la prima persona aparlare con re Juan Carlos quando sidiffuse la notizia che qualcosa di gra-ve stava succedendo nell’emiciclodelle Cortes. Quale fu la prima reazio-ne del sovrano?

«Quel pomeriggio era prevista l’in-vestitura del nuovo capo del governo,Leopoldo Calvo Sotelo. Seguivamo, al-la radio, la trasmissione in diretta,quando si cominciarono a sentire stra-ni rumori, voci concitate. Il mio ufficioalla Zarzuela era a diversi piani di di-stanza da quello del re. Don Juan Car-los mi chiamò, mi precipitai da lui. «Sa-bino, che cosa succede?», fu la sua pri-ma domanda. Che cosa stesse succe-dendo era ancora difficile capirlo. Inquel momento la confusione era tota-le. E anzi, il primo sospetto fu che ci fos-se di mezzo l’Eta. Era un periodo in cuii terroristi baschi avevano messo a se-gno parecchi attentati sanguinari. Te-mevamo una loro azione clamorosa».

Ma non tardaste a scoprire che l’uo-mo che teneva sotto sequestro il Par-lamento era un tenente colonnellodella Guardia civile.

«No, e per di più si trattava di unavecchia conoscenza. Antonio Tejeroera già stato protagonista di un altrocomplotto golpista, la Operación Ga-laxia. Sapevamo che era un perso-naggio molto deciso e disposto a farealcune cose, cose sbagliate, ma per lequali era determinato ad andare sinoin fondo».

Lei riuscì a parlare con Tejero, ma fuuna conversazione che non contribuìa migliorare le cose.

«È vero. Mi diedero il numero del te-lefono più vicino al punto dell’emicicloin cui si trovava il colonnello. Quandorispose gli chiesi: «Che fai lì? Che stasuccedendo? Perché ti sei presentatoin nome del re? Sappi che il re non è as-solutamente d’accordo con quello chestai facendo, e ti ordina di uscire im-mediatamente dal Parlamento». Notaitensione e nervosismo nella sua voce.Mi disse che lui non prendeva più ordi-ni dal re, ma solo dal generale Milansdel Bosch, il capitano generale di Va-lencia che aveva schierato i carri arma-ti per le strade. Questa fu la sua rispo-sta, poi mi chiuse il telefono in faccia».

Che cosa faceva, nel frattempo, ilsovrano?

«Si metteva in contatto telefonicocon tutti i più alti responsabili dei ver-tici militari, i capi di Stato maggiore, icapitani generali di tutte le regioni delpaese. Cercava di capire qual era la rea-le portata del problema».

Tra le persone che, in quelle ore,avevano un filo diretto con il re ce n’e-ra una che alla fine si rivelò un uomochiave del movimento golpista, il ge-nerale Alfonso Armada.

«Armada era una persona di massi-ma fiducia di Don Juan Carlos: era sta-to accanto a lui, come precettore, sinda quando, giovanissimo, il futuromonarca non era ancora principe. Edera anche mio amico. Tra l’altro aveva-mo lavorato insieme nella segreteria

del Ministero dell’Esercito».Ma né lei né il sovrano sospettavate

che stesse tramando qualcosa?«Quel che sapevamo per certo era

che la Spagna stava attraversando unasituazione molto delicata. I militarinon avevano perdonato al premierAdolfo Suárez non tanto il riconosci-mento del Partito comunista, quanto ilmodo in cui venne deciso. FelipeGonzález aveva già presentato unamozione di censura contro il governo,che non ebbe successo. È a quel puntoche viene fuori il nome di Armada co-me possibile capo di un governo pre-sieduto da una personalità «neutrale».Ma l’idea era quella di arrivarci attra-verso una nuova mozione di censura,cosa che divenne impraticabile nelmomento in cui Suárez presentò ledimissioni. È probabile che la desi-gnazione di Calvo Sotelo, considera-ta insoddisfacente dai militari, abbiaaccelerato il piano per imporre, aqualunque costo, un governo presie-duto da Armada».

Suárez aveva proposto, poco tem-po prima, che il generale venisse al-lontanato dalla segreteria generaledella Zarzuela. Evidentemente pen-sava che potesse costituire un perico-lo. Non le risulta che il premier abbiamai espresso con chiarezza la suapreoccupazione al re?

«Suárez si premurò di parlare conme perché io potessi testimoniareche si dimetteva per decisione pro-pria e non per pressioni esterne. Ma sisapeva bene che uno dei motivi percui decise di lasciare l’incarico era l’i-nimicizia insanabile che si era creatacon i militari».

Tutti gli storici sono concordi nel-l’attribuire a lei un ruolo chiave nelfallimento del golpe. Come andaronoesattamente le cose?

«Accadde un fatto del quale solo do-po capii la portata. Parlavo al telefonocon il generale Juste, capo della divi-sione corazzata “Brunete”. Lo trovavostranamente interessato ad avereinformazioni sul generale Armada.Voleva sapere se Armada era con noi,se era già arrivato alla Zarzuela. Gli ri-sposi semplicemente: “Non è qui, né lostiamo aspettando”. Quando Juste midisse che questo cambiava molto le co-se, capii che la presenza di Armada aPalazzo era probabilmente il segnaleche aspettavano per prendere in manola situazione».

È per questo che Armada insistevatanto...

«Sì, quando tornai nell’ufficio diDon Juan Carlos mi resi conto che sta-va parlando, ancora una volta, con Ar-mada. Gli suggerii che gli ordinasse direstare al suo posto, allo Stato Maggio-re della Difesa».

E poi fece rafforzare la sicurezza aicancelli della Zarzuela.

«Certo, bisognava prendere tutte leprecauzioni. Per questo ordinai, tral’altro, che venisse proibito l’ingressoal generale Armada».

Sono stati scritti libri che ipotizza-no un coinvolgimento del Cesid, i ser-vizi segreti, nel golpe.

«Su questo non ho nessuna infor-mazione. Il responsabile delle sezionioperative dell’intelligence, José LuisCortina, venne anche processato, mafu assolto. Quello che posso testimo-niare è che Cortina, in quelle ore, nonsi mise mai in contatto con noi».

Trascorsero 18 ore di tensione epaura prima che il re comparisse in tvper decretare il fallimento del golpe.Perché tanto tempo?

«Quel messaggio venne redattoquasi subito. Ma c’erano due proble-mi da superare. Il primo era chiarirequello che stava accadendo: doveva-mo raccogliere informazioni detta-gliate sulle intenzioni dei militari, co-sa che richiedeva tempo. Il secondoproblema era che la sede della tv eraoccupata militarmente. Ci volle unlungo negoziato per ottenere che ve-nisse sgomberata. Solo così Sua Mae-stà fu in grado di far arrivare agli spa-gnoli il suo pensiero. Alla fine, si puòdire che il 23 febbraio ‘81 è stato unbuon vaccino. È sempre meglio nondimenticare, perché tutto serve co-me esperienza. Quel che è certo è chela figura di re Juan Carlos ne è uscitaenormemente irrobustita».

“In quelle ore fatalicosì salvammo il re”

Il racconto del generale Fernández Campo

ALESSANDRO OPPES

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 27DOMENICA 19 FEBBRAIO 2006

OSTAGGI

ADOLFO SUAREZ

Primo ministro dimissionario il

giorno del golpe, è stato

il primo capo del governo

spagnolo ad essere eletto

democraticamente dopo

la caduta del regime franchista

FELIPE GONZALEZ

Nato a Siviglia nel 1942,

l’ex primo ministro spagnolo

nel febbraio 1981 è il leader

dell’opposizione socialista:

va al governo l’anno dopo

e vi resta per 14 anni

SANTIAGO CARRILLO

Il leader del Partito comunista

spagnolo nasce

a Gijon, nelle Asturie,

nel 1915. Costretto all’esilio

durante la guerra civile,

torna in Spagna

dopo la morte di Franco

MANUEL FRAGA

Ex ministro dell’Informazione

sotto Franco, anche dopo

la caduta del Caudillo

rimane per oltre dieci anni

governatore della Galizia

All’epoca del tentato golpe

ha 58 anni

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IL “23 F”

ORE 18

A capo di 200 agenti

della Guardia civile Tejero

fa irruzione

in Parlamento dove

si doveva eleggere

il capo del governo

ORE 20

Si ribella il capitano

della III Regione militare

Jaime Milans del Bosch:

i militari impongono

il coprifuoco nella regione

del Levante e a Valencia

ORE 21

Viene formato un governo

provvisorio composto

dai sottosegretari

di Stato rimasti liberi

che prende il controllo

della nazione

1.20

Il re Juan Carlos tiene

un discorso in tv, vestito

con l’uniforme di capo

delle Forze armate,

per condannare i golpisti

e difendere la Costituzione

ORE 12.50

Si conclude il colpo

di Stato: tutti i deputati

tenuti in ostaggio

vengono liberati

I responsabili

saranno condannati

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la memoriaSvolte epocali

Arrivavano ai seggi conil vestito buono dellafesta, con i bambini inbraccio, con il fazzo-letto sui capelli. Emo-zionate, come si con-

viene per un appuntamento impor-tante, decisivo. Quel 2 giugno del ’46le donne votano per la prima volta esono oltre dodici milioni. Un diritto,un adempimento ovvio per la demo-crazia, eppure una conquista diffici-le, inseguita fin dai primi movimentifemministi a cavallo del Novecento.In precedenza, il 1° febbraio del ’45,un decreto aveva esteso il suffragioalle donne che in alcune regioni ave-vano già potuto votare per le elezioniamministrative. Ma essere candida-te ed esprimersi per i destini della na-zione era tutt’altra cosa.

Paese povero e caotico, il nostro, inquel primo dopoguerra. L’Italia erarimasta a lungo divisa in due (a Romail governo Bonomi, il nord ancora oc-cupato dai tedeschi e dalla Repubbli-ca di Salò) e usciva dal conflitto con leossa rotte. Il salario di un operaio toc-cava appena 10mila delle vecchie li-re, il biglietto del tram ne costava 4,ma un chilo di pasta valeva 120 lire eun litro di latte ben 300. Quel 2 giugnosi deve scegliere tra Monarchia e Re-pubblica e, contempora-neamente, eleggere l’As-semblea Costituente perdisegnare la nuova iden-tità istituzionale. Per ledonne il salto è doppio:votano e possono esserevotate. «Stringiamo leschede come bigliettid’amore», racconta lagiornalista Anna Garofa-lo nella cronaca di quelgiorno, «si vedono moltisgabelli pieghevoli infi-lati al braccio di donne ti-morose di stancarsi nellelunghe file dinanzi ai seg-gi. E le conversazioni chenascono tra uomo e don-na hanno un tono diver-so, alla pari».

All’inizio era stata so-prattutto la Dc a premereper il voto alle donne; icomunisti e i socialisti te-mevano che la Chiesapotesse influenzare lecoscienze femminili, mala valenza di quell’irri-nunciabile conquistaaveva presto spazzatovia ogni dubbio. E Palmi-ro Togliatti e Alcide DeGasperi (contrari i laici,compreso BenedettoCroce) avevano presen-tato insieme la propostasulla quale Ivanoe Bonomi emanò ildecreto legislativo.

Nei mesi precedenti al voto i parti-ti mettono in campo ogni loro risor-sa. Fino ad allora le donne erano ri-maste escluse da ogni tipo di dibatti-to politico e molte candidature fini-scono per rivelarsi solo di bandiera. IlPci e il Psi pescano tra le partigiane ei quadri di partito, tra le militanti per-seguitate durante il fascismo o esilia-te. Mentre la Dc indica esponenti del-l’Azione cattolica e donne legate aimovimenti popolari. Il voto era statoreso obbligatorio per iniziativa de-mocristiana, ma l’imposizione nonserve: le donne sono contente di vo-tare e accorrono in massa. Già nellaprimavera di quell’anno erano stateelette per la prima volta oltre duemi-la donne nei consigli comunali. Nes-suno stupore quindi se alla Costi-tuente, su 556 deputati, 21 sono don-ne: nove dc, nove comuniste, due so-cialiste e una della lista “L’Uomoqualunque”. Cinque di loro entranonella “Commissione dei 75” incari-cata di scrivere la Carta costituziona-le: le dc Maria Federici e Angela Go-telli, la socialista Tina Merlin e le co-muniste Teresa Noce e Nilde Jotti.

«È il voto alle donne il punto di par-tenza» conferma Anna Rossi Doria,che insegna Storia delle donne all’U-niversità di Tor Vergata a Roma ed è

nella “Società italiana delle stori-che”: «Quello è un momento impor-tante soprattutto dal punto di vistasoggettivo, in quanto fu una con-quista di individualità oltre che dicittadinanza. Ci sono tante testimo-nianze di donne, intellettuali maanche delle classi popolari e conta-dine. Tutte ricordano l’emozioneprovata quel giorno per aver con-quistato un senso pieno di autono-mia individuale, fuori dai ruoli.Quel “voto segreto” significava po-tersi finalmente sottrarre al con-trollo e alla subordinazione. Anchedagli uomini della famiglia».

Alla Costituente le elette formanouna pattuglia variegata ma compat-ta e riescono a realizzare una colla-borazione trasversale e moderna,per l’affermazione, nella Carta, deiprincipi basilari di parità. Con un te-sto ispirato all’uguaglianza giuridi-ca di tutti i cittadini, «senza distin-zione di sesso, di razza, di religione,di opinioni politiche e di condizionipersonali e sociali». E alle “madri”della Costituzione va riconosciuto ilmerito di aver contribuito in mododecisivo a scardinare la strutturapatriarcale della famiglia, con il ri-conoscimento di pari doveri e paridiritti ai coniugi, primo fra tuttiquello di educare i figli.

Dal voto alle donne alla Costitu-zione. Dal diritto di cittadi-nanza acquisito nasce il se-me per quell’evoluzionedel diritto e del costumeche avrebbe, nei decennisuccessivi, reso possibilitante conquiste di parità edi civiltà. Leggi fondamen-tali e innovative nel cam-po del lavoro, del diritto difamiglia e della dignitàfemminile come l’aboli-zione delle case chiuse nel‘56, voluta da Lina Merline primo esempio di mobi-litazione parlamentaretrasversale. Le normesulle lavoratrici madri e,nel lavoro, la parità ditrattamento salariale pergli uomini e per le donne.Fino al divorzio e all’a-borto legale.

Momento particolar-mente felice quello dellaCostituente per la colla-borazione tra donne.Con il collante della ne-cessità di ricostruire l’I-talia, le elette, sebbeneavversarie, non eranostate mai nemiche.Un’alleanza sostanzia-le che viene meno giànel ‘48, quando con lenuove elezioni, l’Italiasi spacca in due. «An-

che se differenze ce ne eranosempre state» dice Marina D’A-melia che insegna Storia mo-derna all’Università la Sapienzadi Roma, «basti pensare al dirit-to al lavoro (che aveva visto lecattoliche più preoccupate delrapporto famiglia-occupazio-ne, rispetto alle comuniste), fuil ’48 con la forte contrapposi-zione tra Dc e Pci a creare tra lo-ro solchi profondi. Che si ag-gravano quando le dirigenzedei partiti richiamano le don-ne al gioco di squadra. E quan-do, nello stesso tempo, inevi-tabilmente, si attenua lo slan-cio derivante dall’assunzionedi responsabilità che le donneavevano patito, ma anchescelto durante il drammaticoperiodo della guerra».

L’eterno tema della lottadei diritti, un cammino nonancora concluso. «Se anco-ra oggi parliamo della ne-cessità di dare equilibrio al-la rappresentanza fra don-ne e uomini», sottolineaAnna Rossi Doria, «questaincompiutezza è la spiache qualcosa non funzio-na. E che il diritto di rap-presentanza delle donne non èancora pienamente realizzato».

Il giorno che le donnesi presero la StoriaSILVANA MAZZOCCHI

28 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 19 FEBBRAIO 2006

Sessant’anni fa, il 2 giugno ’46alle italiane fu concesso il primo“voto politico”: referendumMonarchia-Repubblica e CostituenteOra una mostra alla Cameraracconta quell’appuntamento cruciale

“Quando prendevo la parola

le piazze si riempivano”

Io ho sempre avuto fiducia nelle donne.

Prima delle elezioni del ’46 per mesi

avevo girato in ogni paese d’Abruzzo

e mi ero accorta del loro interesse.

Quando parlavo nelle piazze,

loro che non si presentavano mai

per ascoltare gli uomini uscivano

per ascoltare me. Mi chiamavano

Memena ed ero una di loro. Per me

le organizzazioni cattoliche e la politica

sono state una forma di emancipazione

femminile. Ricordo ancora la campagna

elettorale; era la prima volta che le donne

parlavano e si facevano sentire.

Quel giorno del voto, il 2 giugno del ’46,

fu un giornalista del “Messaggero”

ad avvertirmi. Mi disse: «Memena sei stata

eletta, preparati ad andare a Roma».

E io che non sapevo neanche dove era

la Camera. Eravamo consapevoli che

il voto alle donne costituiva una tappa

fondamentale della grande rivoluzione

italiana del dopoguerra. Avevamo

finalmente potuto votare e far eleggere

le donne. E non saremmo state più

considerate solo casalinghe o lavoratrici

senza voce ma fautrici a pieno titolo

della nuova politica italiana

(Costituente eletta nelle liste della Dc)

Teresa Mattei

Filomena Delli Castelli

“Quelle battute infelici

dei colleghi maschi”

Avevo appena 25 anni. Con la

Resistenza avevo perso mio padre

e un fratello e io stessa avevo lottato. Ero

stata eletta con moltissimi voti; ricordo

ancora il primo giorno a Montecitorio.

Ero entrata nella segreteria della

Costituente, ma presto, per volontà

di Togliatti, venni messa nell’ufficio

di Presidenza. Che emozione, non

avevo alcuna esperienza.

Quante battaglie, quante sfide.

E che soddisfazione quando riuscivamo

a portare a termine qualcosa di positivo.

Ma anche quanti ostacoli. Provammo

ad aprire le porte della magistratura

alle donne. In aula fui io a leggere

la relazione. Mentre parlavo i deputati

più anziani si misero a gridare:

«Le donne? E, durante quei giorni,

sì durante il ciclo mensile, come

potrebbero giudicare con serenità?».

Quando si votò per il ripudio della

guerra, noi, tutte e 21, ci tenemmo

la mano. Eravamo tutte per la pace,

anche la collega qualunquista, che poi

era monarchica. Fummo unite anche

per rimuovere il divieto che avevano

le infermiere di sposarsi. E ci riuscimmo.

(Costituente eletta nelle liste del Pci)

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LE ELEZIONISopra, una donna

al voto il 2 giugno 1946

A destra e nella foto grande

a sinistra, manifesti

di propaganda dell’epoca

In basso nella pagina

accanto, le 21 elette

alla Costituente

in un articolo pubblicato

dalla Domenica del Corrierenell’agosto 1946

Per le immagini

si ringraziano la Fondazione

Camera dei deputati,

l’Istituto Luigi Sturzo

e l’Istituto Gramsci

“Parlavo nel vuoto, a fantasmiin ascolto dietro le persiane”

MIRIAM MAFAI

Nel 1946 avevo vent’anni. Troppo giovane per votare, ma l’età giusta per fa-re la campagna elettorale: incontri con le donne nei cortili delle case po-polari, a Trastevere e Testaccio, preparazione e distribuzione di volantini,

comizi nelle lontane borgate e, la domenica mattina, in piccoli paesi della pro-vincia arrampicati sui tornanti delle montagne, Vicovaro, Sambuci, Saracinesco,Castel Madama, di fronte a piazze semivuote («ma tu, parla lo stesso» ti incorag-giavano i compagni «le donne ti ascoltano dietro le persiane chiuse»). Il 2 giugnosi votava per il referendum — Repubblica o Monarchia — e per l’Assemblea Co-stituente. Nei nostri comizi, di solito, si parlava in due. All’uomo spettava il com-pito di parlare delle riforme, delle istanze democratiche, della differenza tra i va-ri partiti. Alla donna il compito di ricordare le sofferenze passate, la fame, la guer-ra, i caduti. Colpa di Mussolini e del fascismo, ma anche colpa del Re che avevachiamato Mussolini al potere e non aveva impedito il disastro... Nei paesi il comi-zio era un evento e veniva annunciato da un “banditore”, con squilli di tromba erullare di un tamburo. E la presenza di una donna sul palco era sempre motivo dirichiamo e di novità.

La Federazione del Pci, il mio partito, era allora al secondo piano di un palazzet-to di Sant’Andrea della Valle. Da lì partiva, la domenica mattina presto, un ca-mioncino carico di materiale di propaganda, manifesti e volantini, e noi giovani eragazze sistemati alla meglio sulle panche. Ognuno scendeva nella piazza del pae-se che gli era stato assegnato, faceva il suo comizio, poi la riunione in sezione easpettava fino a sera che il camioncino tornasse a riprenderlo per portarlo a Roma.

Bisognava parlare facile, parlare semplice, farsi capire. Credo di aver detto an-che, qualche volta, che anche Gesù era venuto in terra per difendere i più poveri,gli schiavi, gli oppressi. Non certo per difendere i padroni.

Fu una campagna elettorale intensa, appassionata. Ma non cattiva come quel-la che si svolse due anni dopo, per le elezioni del 18 aprile, che videro un inter-vento più pesante della Chiesa e la minaccia della scomunica. La campagna elet-torale del 2 giugno del 1946 fu una ubriacatura di politica. Si discuteva di politi-ca, delle colpe del Re e di Mussolini, dovunque. A Roma, la Galleria Colonna eradiventata una sorta di Hyde Corner, luogo di incontro per tutti gli appassionatidi dibattiti, appuntamento per improvvisati capannelli in cui chiunque prende-va la parola, diceva la sua, litigava, accusando o difendendo il Re che ancora oc-cupava il Quirinale.

Alla vigilia ormai del 2 giugno venni promossa e scelta per un comizio in città,in Piazza Sforza Cesarini, uno slargo alberato davanti alla Chiesa Nuova. C’eraun vero palco, sia pure di proporzioni ridotte, un microfono che funzionava emolta gente. Io cominciai a parlare di slancio. Ma a un certo punto riconobbi, trala piccola folla che mi ascoltava, la faccia incuriosita e un po’ ironica di mio pa-dre, con il quale da un paio d’anni avevo rotto ogni rapporto. La sua presenza miimbarazzò, chiusi rapidamente senza entusiasmo (e senza successo) il mio co-mizio più importante.

Poi arrivò il giorno delle elezioni. Il segretario della Federazione, Edoardo D’O-nofrio (chiamato «il più comunista dei romani, il più romano dei comunisti») de-cise, non so perché, che avrei dovuto occuparmi dell’ufficio che raccoglieva i ri-sultati elettorali. A distanza di sessant’anni ricordo ancora quell’incarico e quellanotte come un incubo. I risultati arrivavano, dalle sezioni, disordinatamente o pertelefono o con un compagno che li aveva trascritti, malamente, su un pezzo di car-ta. Noi, in una stanza della Federazione, al secondo piano di Sant’Andrea della Val-le, attorno a un tavolo sul quale si accumulavano quei foglietti, tiravamo le som-me, a mano. O forse c’era anche una calcolatrice. Passavano lentamente le ore. Ildisordine, il fumo, l’ansia di tutti noi addetti all’ufficio e dei compagni che si affac-ciavano per conoscere gli ultimi risultati, si facevano di ora in ora più insopporta-bili. In città risultava in testa la Democrazia Cristiana, e questo era prevedibile. Ma,dai pezzetti di carta che ci arrivavano dalle sezioni, risultava che il Partito Repub-blicano (sì, l’Edera) stava conquistando più voti di noi. Incredibile. Ormai era not-te fonda. E quando, gonfia di caffè e di nicotina annunciai questi risultati a Edoar-do D’Onofrio, lui mi fulminò con lo sguardo e mi ordinò: «Vai a casa».

Me ne andai a casa, naturalmente. Ma purtroppo avevo ragione io. L’Edera eb-be, nel 1946 più voti di noi. E a Roma, anche a Roma (che vergogna...), la Monar-chia, nonostante il buon risultato dei repubblicani, risultò vincente.

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 29DOMENICA 19 FEBBRAIO 2006

LE CELEBRAZIONIMolte le iniziative per i 60 anni

del voto alle donne

e l’anniversario della Costituente.

La mostra “La Rinascita

del Parlamento”, a cura

della Fondazione della Camera

dei deputati, si apre a Roma

il 23 febbraio a Palazzo

Montecitorio nella Sala

della Regina (fino all’8 aprile,

in seguito si sposterà in altre

città italiane), con documenti,

video e immagini.

E con un settore dedicato

alle “Donne della Costituente”.

Manifestazioni in programma

anche per il “Comitato

promotore per le celebrazioni

del voto alle donne” a cui

fanno capo l’Istituto Luigi

Sturzo, l’Istituto Gramsci

e la Fondazione Basso,

oltre ad altre istituzioni culturali.

Il 2 marzo il Comitato

presenterà a Roma,

nella Sala della Protomoteca

del Campidoglio, il libro

“Le donne della Repubblica.

Italiane al voto 1946-2006”

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il raccontoStoria e leggenda

NEW YORK

È nato con il nome di WilliamFrederick Cody nella ScottCounty dello Iowa, uno di queiluoghi che gli americani defi-

niscono senza pietà «il centro del nulla».Ha imparato ad amare la solennità si-lenziosa delle praterie molti anni primadi diventare Buffalo Bill, e sin dalla gio-ventù passata nel Kansas ha capito cheil destino di chi vive in un paese di fron-tiera è quello di reinventarsi continua-mente. Ha fatto mille mestieri e si è mac-

chiato di crimini chevanno dal furto di caval-li all’omicidio, ma è di-ventato famoso in tuttoil mondo come grandecacciatore di bisonti,uccidendone, come di-ce la leggenda che luistesso ha propagato,ben 4280 prima di intui-re che la vita che avevarealmente vissuto, perquanto avventurosa edestrema, non rappre-sentava altro che il ca-novaccio di uno spetta-colo ben più grande eleggendario e, soprat-tutto, immortale.

È stato insieme per-sonaggio reale e interprete di se stesso, ilmassimo architetto del mito del Far We-st e la personificazione della battuta diJohn Ford, che spiegava come «quandola leggenda supera la realtà», nel West «sistampa la leggenda».

È impossibile discernereoggi quanto ci sia di vero nel-le mille avventure e negli al-trettanti aneddoti che lo cir-condano da quanto invecesia stato diffuso ad arte, ed ècertamente un segno deitempi il fatto che siano pub-blicati in America a distanzadi poche settimane ben tre li-bri che ne celebrano e analiz-zano il mito, invitando a unariflessione sui modelli epicifondanti del Grande Paese.Se i titoli presentano esplici-tamente le tesi dei rispettivitesti, dilungandosi sul mo-mento in cui Cody portò ilsuo spettacolo in Italia (Buf-falo’s Bill America: WilliamCody and the Wild WestShow; Buffalo Bill, AnnieOakley and the Beginnings ofSuperstardom in America;Buffalo Bill in Bologna: theAmericanization of theWorld), due saggi apparsi ri-spettivamente sulla NewYork Review of Books e sulNew York Times ne immor-talano la realtà più intima, el’intuizione, estremamentemoderna, che trasformò il cacciatore dibisonti in un grandissimo uomo di spet-tacolo: Showman of the Wild Frontier eThe Entertainer.

Non è certamente un caso che Wil-liam Cody sia diventato il protagonistadi operazioni smitizzanti come il Buffa-lo Bill e gli indiani di Robert Altman, e èilluminante la sostanziale ambivalenzastoriografica sulla tempra morale di unpersonaggio che sfruttò la propria po-polarità per sposare cause drastica-mente opposte, arrivando a difenderestrenuamente gli indiani dopo averlicombattuti ferocemente e essersi anchevantato di aver vendicato l’onore del ge-nerale Custer strappando lo scalpo a unpellerossa. Ma l’impatto culturale diquesti nuovi libri dimostra come nes-sun revisionismo possa scalfire la popo-larità di un personaggio che visse a ca-vallo tra due epoche e intuì le potenzia-lità spettacolari e commerciali del far ri-vivere in forma di farsa quelle avventureche la vita gli aveva proposto una primavolta in chiave epica e tragica.

Cody si trasferì nel Kansas all’età diundici anni e lì cominciò a cercare lavo-ro per aiutare la madre, ridotta quasi inmiseria dopo che il padre, convinto abo-lizionista, era morto per le ferite riporta-te in una rissa con un uomo che difen-

deva il “diritto” di possedere schiavi. Atredici anni si unì a un gruppo di cerca-tori d’oro e l’anno successivo, dopo unbreve periodo in cui si cimentò comedomatore di cavalli e conduttore di dili-genze, riuscì a farsi assumere comepony express. Nel giro di poco tempo siaccreditò come il più spericolato e velo-ce pony del West, quindi cominciò a la-vorare come scout nel Quinto Cavalleg-geri, combattendo in prima linea nellecampagne contro i Comanche.

La guerra civile lo vide scendere incampo con la stessa qualifica tra i solda-ti dell’Unione, che lo elessero mascottee portafortuna, e alla fine del conflittocominciò a lavorare come operaio allacostruzione della Kansas Pacific Rail-road. Nel giro di pochi giorni compreseche quel lavoro frustrava il suo amoreper i grandi spazi e convinse i capire-parto ad affidargli la responsabilitàdell’approvvigionamento degli ope-rai. Cody era consapevole che l’unicocibo reperibile nella zona erano le gi-gantesche mandrie di bisonti (in ingle-se buffalos) che vivevano nella sconfi-nate praterie e promise agli ex colleghiche non avrebbero mai patito la fame.Scoprì di avere un innato talento dicacciatore e cominciò a sterminare gli

ANTONIO MONDA

animali delle praterie a un ritmo im-pressionante.

La leggenda del giovane cacciatore sipropagò rapidamente per tutto il We-st, finché un altro grande cacciatore dibisonti di nome William Comstock losfidò a una gara di otto ore per decide-re chi si sarebbe potuto fregiare del so-prannome di “Buffalo Bill”. Cody vinseil duello in maniera umiliante per l’al-tro William, abbattendo, secondo di-verse versioni della stessa leggenda,otto, undici o addirittura venti anima-li nell’arco delle otto ore.

Il momento della consacrazione po-polare e la diffusione del soprannomecoincisero con l’idea di trasformare lapropria esistenza in un grande spettaco-lo, e a appena 26 anni Buffalo Bill comin-ciò a mettere in scena le proprie gesta,grazie all’aiuto di uno scrittore di nomeNed Buntline che usava amplificarne laportata sino all’inverosimile. Per i primianni diede al proprio personaggio il no-me di “scout delle praterie”, alternandoil lavoro di attore-impresario con quellodi autentico scout, sempre al seguito deisoldati del Quinto Cavalleggeri, che era-no estremamente divertiti di avere conloro nella campagna contro gli indianiuna grande star, circondata da un’aura

Tre libri da poco pubblicati in America celebrano e analizzanola figura del grande cacciatore di bisonti che recitò se stessosul palcoscenico, diventando celeberrimoanche nell’Europa di fine Ottocento. Per i contemporaneifu l’incarnazione dell’eroe della Frontiera; oggi viene vistopiuttosto come il padre dei grandi spettacoli di massa

30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 19 FEBBRAIO 2006

Combatté controi Comanche, poirecitò con Toro

Seduto. Cosìsalvò il West

dal declinotrasformandolo

in kermesse

Buffalo Bill, il cowboyche inventò lo show-business

di infallibilità e di fortuna spudorata.Ci vollero undici anni prima che lo

spettacolo si trasformasse nel Wild We-st Show. Cody comprese prima di moltialtri che l’epopea del West era giunta alcrepuscolo e seguendo i consigli dell’a-mico Wild Bill Hikcock mise in scenauno show gigantesco, molto più simileal circo che al teatro. Arrivò a scritturarecinquecento artisti alla volta, tra i qualiautentici cowboy, indiani Lakota, co-sacchi, vaqueros messicani e, per unastagione, lo stesso Toro Seduto. Lo spet-tacolo era un antesignano dei grandi ko-lossal hollywoodiani e riproponeva perun pubblico osannante una versione incartapesta di quanto avveniva nelle pra-terie, offrendo versioni a dir poco ro-manzate di episodi storici quali la mor-te di Custer a Little Big Horn.

Furono molti gli artisti che divennerocelebri grazie al Wild West Show (IrvingBerlin dedicò molti anni dopo il musicalAnnie get your gun a Annie Oakley, part-ner di Cody), ma soltanto Buffalo Bill eradotato di quella che oggi viene definita“star quality”. Dopo il trionfale debuttoad Omaha e l’elogio pubblico di MarkTwain, lo spettacolo iniziò una lunghis-sima tournée europea e divenne l’attra-zione principale dei festeggiamenti del

CON I BUTTERILa sfida con i “cowboy italiani”

nella tenuta Caetani, nel 1890.

Qui sotto, l’americano e la sua

troupe all’udienza del Papa

in Vaticano, nello stesso anno

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Giubileo d’oro della regina Vittoria.I libri raccontano con minuzia i detta-

gli del periodo europeo (lasciando tut-tavia qualche dubbio sull’episodio chevide Buffalo Bill sconfitto in una compe-tizione con i butteri della Maremma),sottolineando come l’avventura im-prenditoriale di Cody segni l’inizio del-

la cosiddetta “superstardom” e unmomento determinante nell’ameri-canizzazione del mondo occidenta-le. Alla fine del XIX secolo BuffaloBill era l’uomo più celebre del pia-neta e tra i grandi ammiratori del suo

spettacolo si annoverarono RosaBonheur, Paul Gauguin e Edward Mun-

ch. La leggenda vuole che Buffalo Bill siadiventato in quel periodo anche aman-te della regina Vittoria e che attraversol’amicizia con il grande attore ingleseHenry Irving abbia influenzato in ma-niera significativa Bram Stoker nella ste-sura di Dracula.

Il successo planetario del Wild WestShow, basato su una celebrazione no-stalgica e completamente reinventatadi un mondo che stava cambiando ra-pidamente, generò il paradosso di fa-

re di Buffalo Bill unpunto di riferimento

culturale e persinopolitico. Alla fine degli

anni Ottanta del XIX se-colo cominciò a pren-dere posizione pubbli-

camente a favore degliindiani, auspicando che il

governo non facesse «unasola promessa che non fosse

poi in grado di rispettare» espiegando ripetutamente che

ogni atto di violenza perpetrato daipellerossa era stato generato dai terri-bili soprusi che avevano subito. Nel1894 si pronunciò a favore del voto al-le donne e lanciò un appello pubblicoaffinché il governo limitasse la cacciaai bisonti, lamentandone il crudele edissennato sterminio. È lo stesso pe-riodo in cui fondò nel Wyoming unacittà che porta tuttora il nome di Codye grazie a degli investitori newyorkesiriuscì a far deviare il corso di un fiumein modo da poter rendere fertile tuttoil territorio limitrofo. Tuttavia glienormi costi dell’ambizioso progettolo portarono sull’orlo del fallimento esegnarono l’inizio del suo declino.

La presa di posizione pubblica a fa-vore dell’impegno militare americanoin paesi stranieri alienò a Cody le sim-patie di Mark Twain e di molti intellet-tuali. La causa di divorzio con la moglieLulu, pubblicizzata oltre misura su tut-ta la stampa e densa di particolari grot-teschi quali un presunto tentativo diavvelenamento, si risolse in un fiascomediatico di proporzioni clamorose

che compromise la sua immagine dieroe americano. Negli ultimi anni

Cody si consolò visitando le cittàdove venivano messe in scena le

sue gesta, divertendosi a farsi fo-tografare con gli attori che lo

impersonavano. A chi gli chie-deva se fosse stato lui a in-ventare il personaggio diBuffalo Bill, spiegava chelui non era «un attore ben-sì una star» e che «tutti gliattori possono diventare

star, ma non tutte lestar possono diven-

tare attori».

TORINO

Oggi il Circo Bianco delle Olimpiadi Inver-nali. Cent’anni fa, il Circo del Selvaggio West diBuffalo Bill. È passato giusto un secolo, ma il fer-vore e le emozioni sono sempre le stesse. Quan-do nel marzo del 1906 arriva a Torino l’impo-nente carovana del colonnello Cody, trasporta-ta su quattro treni, dalle 59 carrozze ferroviariesbarcano 500 cavalli e 850 persone, «fra rudi ca-valcatori, amazzoni e comparse di ogni colore»,scriveranno le gazzette dell’epoca. Un arma-mentario da riempire due piazze.

Tutto avviene ordinatamente e razionalmen-te, come fosse una perfetta manovra militare.Gli ufficiali della Regia Cavalleria restano stupi-ti dalla perfetta logistica che governa la spedi-zione americana. Sanno che in Germania i lorocolleghi la stanno analizzando per carpirne i se-greti. Sulle riviste del nostro esercito c’è spazioper quest’esotica intrusione: si parla del miticoWinchester, il fucile a ripetizione col quale Buf-falo Bill accoppò più di quattromila bisonti in 17mesi. La Stampa si sofferma a descrivere il no-tevole impegno alimentare che stava dietro l’in-

solito evento: «Nel mezzo dell’accampamentoindiano, verso il viale della Crocetta, spiccanodue enormi paioli per il caffè e il tè. Generi diconforto quotidiano si accompagnavano alleduemila uova, ai cinque quintali di carne, adieci quintali di pane, a trecento litri di latte e

ai quattro quintali di patate occorrenti per i pa-sti di un solo giorno».

Ma non è la prima volta che Buffalo Bill arrivain Italia. Anzi, si può dire che la sua tournée è di-ventata un appuntamento quasi annuale. Or-mai non c’è piccola o grande città del centronord che non abbia ospitato la sua numerosacarovana. Il circo di Buffalo Bill spesso si ac-campa nelle periferie, o ai margini delle campa-gne. Nei paesi della Padania è tutto un sognare,è tutto un parlarne. «Gli indiani! Non ne sannotanto, ma li hanno visti disegnati su qualchegiornale e conoscono la fama della loro ferocia,delle battaglie che hanno sostenuto per decen-ni contro gli uomini bianchi, nelle praterie ster-minate dell’America» (Eraldo Baldini, Bambini,ragni e altri predatori, Einaudi).

L’Italia piace a Cody. Ci viene spesso: con la fi-glia è stato persino in Sardegna, dopo aver tra-scorso qualche giorno di vacanza a Capri. A Na-poli è gran successo, nel 1890, l’anno del primoviaggio italiano: il circo fa doverosa tappa a Ro-ma, occupa le rive del Tevere. Presenta il suospettacolo a papa Leone XIII, in Vaticano, invi-tato da Sua Santità che sta festeggiando l’anni-versario della sua incoronazione: spassosa la ri-costruzione di Nate Salsbury, veterano dellaGuerra civile, attore, showman e impresario.Artefice dell’incontro John Burke, devoto catto-lico che ha convinto gli indiani che si tratta di unsolenne appuntamento, perché il papa rappre-senta Dio in Terra. Il novanta per cento dell’or-ganico di Buffalo Bill si assiepa ordinatamentelungo il corridoio che si snoda dalla Cappella Si-stina sino alla Sala della Sedia. Il corpo diplo-matico è a ranghi completi. Gli indiani sono at-tratti dai magnifici colori delle Guardie svizze-re, esprimono la loro ammirazione con suoni«gutturali». Ma quando ritornano all’accampa-mento scoprono che uno di loro è salito ai gran-di pascoli del cielo: morto per infarto. Alloraconvocano un consiglio dei capi, protestano:siamo stati dal Grande Capo che dice di esserel’emissario di Manitu sulla Terra, perché non hasalvato il nostro compagno? Le spiegazioni diBurke non convincono gli indiani, i quali pre-tendono che si celebri il lutto tradizionale dellaloro gente.

Nasce poi un’altra grana. I romani pretendo-no che il colonnello Cody si esibisca con i suoicowboy e gli indiani dentro al Colosseo. BuffaloBill fa il sopralluogo, sentenzia: «È troppo pic-colo per la mia troupe e pieno di buche e di sas-si: non posso svolgere il mio numero più spetta-colare, l’assalto alla diligenza da parte dei pelle-rossa». I romani si offendono. Ne nasce un casodiplomatico. Il conte Caetani di Sermoneta, persmussare le polemiche, organizza una sfida coibutteri maremmani. Mette in palio mille lire(dieci milioni di oggi), più l’incasso. Una bellasommetta destinata a chi è più bravo nel doma-re i cavalli degli altri. L’8 marzo 1890 AugustoImperatore detto Augustarello vince la sfida maBuffalo Bill protesta, sostiene che le regole era-no confuse e che è stato truffato. Scappa con lacassa dileggiato degli spettatori.

L’episodio entrerà nell’iconografia della sto-ria nazionalpopolare italiana, come la disfida diBarletta o la beffa di Buccari. Persino Emilio Sal-gari si lascerà sedurre da Buffalo Bill e scriveràtre articoli su L’Arena, sempre in quel meravi-glioso marzo del 1890, raccontando mirabiliedell’esibizione, salendo addirittura dentro ladiligenza. Nella sua fertile fantasia, il romanzie-re veronese ha già in mente di scrivere la sagadella frontiera.

Pellerossaaccampatia Torino

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31DOMENICA 19 FEBBRAIO 2006

LEONARDO COEN IN GONDOLAWilliam Cody in visita

a Venezia, anno 1890.

Al centro e in basso,

manifesti pubblicitari

del “Wild West Show”, 1888

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 19 FEBBRAIO 2006

Tre preziosissime piastre che il Gran Khan aveva datoal mercante veneziano come salvacondotto e che a lungosono state considerate una fantasia in più tra le tanteattribuite al “Milione”. Ora va in mostra a Veneziail testamento originaledi Matteo Polo che nel 1310 le descrivee ne dispone il lascito. Confermando una storia affascinante

VENEZIA

Se ne andava in giro sconsolato da vec-chio, parlava da solo e scuoteva la testa.Quelli che incontrava, e che lo ricono-scevano, si davano di gomito e rideva-

no e si facevano beffe di lui. Non gli credeva nes-suno. Non credevano a quello che raccontava néa quanto aveva scritto, dettandolo a Rustichelloda Pisa nel 1298, in carcere a Genova, nelle paginedel Milione. Fu il suo più grande cruccio. Non eraservito a nulla, a messer Marco Polo, «savio e no-bile cittadino di Vinegia», come si definiva, scrive-re nel prologo che «le cose vedute dirà di veduta el’altre per udita, acciò che ‘l nostro libro sia veri-tieri e sanza niuna menzogna».

«È davvero un singolare paradosso che un librosostanzialmente così realistico e positivo potesseessere ritenuto un contesto di fiabe e di menzognedai contemporanei e dai loro discendenti fino adun’epoca a noi prossima», scrive Maurizio Scar-pari, docente di cinese all’università di Cà Fosca-ri, nella prefazione alla versione trecentesca delMilione appena uscita da Einaudi. Del resto eradifficile credere, in quello che era stato battezzatoil «livre des merveilles», a tutte quelle storie all’ap-parenza strampalate di diavoli e briganti, santi emonarchi e bestie gigantesche. A uccelli che gher-mivano gli elefanti con gli artigli e li sollevavano involo, a popoli che potevano avere fino a cento mo-gli e le offrivano in dono agli ospiti, a sovrani chesi dilettavano con sei fanciulle alla volta, a uomini«che hanno la coda lunga più di un palmo», e a po-poli che hanno «testa di cane e mangiano tutti gliuomini che riescono a prendere».

Lo stesso sospetto di esagerazione, millanteria,mistificazione, gravava sulla «storiel-la» delle tavole d’oro, grandi, massic-ce, istoriate e preziosissime, che ilGran Khan avrebbe donato, come la-sciapassare, a Marco Polo, al padreNiccolò e allo zio Matteo. Quelle tavo-le invece, raffigurate in una preziosaminiatura custodita alla BibliotecaNazionale di Parigi, esistevano davve-ro. La prova è contenuta in un docu-mento del 1310, il testamento di Matteo Polo, che damartedì 21 febbraio fino al 1° marzo verrà esposto alMuseo d’Arte Orientale di Cà Pesaro nell’ambitodella mostra Dalla Cina a Venezia, vesti imperiali,porcellane e giade della dinastia Qing (1644-1911),un itinerario «tra draghi cinesi e antichi documentiveneziani». La rassegna è stata organizzata dalla So-printendenza speciale per il polo museale venezia-

no e dall’Archivio di Stato di Venezia in occasionedel festival Il Drago e il Leone della Biennale Teatrodiretto da Maurizio Scaparro e dedicato alla Cina,che inizierà appunto martedì.

Si tratta di un documento eccezionale, conser-vato in ottime condizioni nei depositi dell’Archi-vio di Stato, che torna alla luce dopo 52 anni. Fuesposto una sola volta, nel 1954, in occasione diuna mostra dedicata a Marco Polo. Sono due gran-di fogli di pergamena, redatti in latino dallo zio diMarco Polo, Matteo, il 6 febbraio del 1310 a Vene-zia, alla presenza del notaio Pietro Pagano e di duetestimoni. Un testamento preciso, dettagliatissi-mo, in cui Matteo incarica i suoi due nipoti, Marcoe Stefano, di eseguire una serie di disposizioni, tracui vari lasciti in favore di chiese e monasteri comeSan Mattia di Murano, San Lorenzo di Venezia,Santa Caterina di Mazzorbo. Inoltre assegna ai ni-poti varie somme di denaro, quantificate in lire ve-neziane dell’epoca, e stabilisce che debba esseredivisa tra loro la proprietà del palazzo di San Gio-vanni Grisostomo, accanto al teatro Malibran, do-ve abitava. Ed è qui, dopo l’elencazione di una se-rie di altri beni e di gioielli, «zoie incasate», che par-la, per la prima e unica volta, delle mitiche tre ta-vole d’oro del Gran Khan: le «tribus tabulis de auroque fuerunt magnifici Chan Tartarorum». Così ledefinisce. Le tavole sono inserite in un elenco di la-sciti al nipote Marco, il viaggiatore. L’autore delMilione, secondo Alessandra Schiavon dell’Archi-vio di Stato che ha curato la trascrizione del testa-mento, le avrebbe poi lasciate, una ciascuna, allefiglie Fantina, Moreta e Belella. Poi chissà.

Una tavola risalirebbe al primo viaggio dei Polo inCina, le altre due al secondo. Marco Polo ne parlapiù volte nel Milione. La prima all’inizio del libro,quando racconta che il Gran Khan diede loro «unapiastra d’oro su cui era scritto che ai messaggeri, in

qualunque parte andassero, fosse da-to ciò di cui abbisognavano... e in tuttii posti dove giungevano erano resi lo-ro i maggiori onori del mondo graziealla piastra d’oro». In un altro capitoloMarco racconta che per un nuovoviaggio il Gran Khan «fece dare lorodue placche d’oro e ordinò che aves-sero libero passaggio in tutte le sue ter-re e fossero completamente spesati,

loro e i loro servitori, dovunque andassero». E unavolta anche il re dell’isola di Giava, Chiacatu, diedeloro quattro piastre d’oro su cui era scritto che «an-davano serviti e onorati». Il «mercante illuminato»,come lo chiama il regista Scaparro, almeno sulle ta-vole d’oro non aveva mentito. Segno che forse, an-che sul resto, per quanto potesse apparire incredi-bile, aveva raccontato il vero.

le storieDocumenti

Marco Polo e le tavole d’oro, una leggenda vera

A CA’ PESARO DAL 21 FEBBRAIO

Nell’immagine in alto, la miniatura tratta dal “Livre des merveilles”, custodita

nella Biblioteca Nazionale di Parigi, mostra Marco e Matteo Polo mentre ricevono

da un ministro dal Gran Khan una “tavola d’oro”. Nelle immagini in basso (a cura

della Sezione di fotoriproduzione dell’Archivio di Stato di Venezia), il testamento

di Matteo Polo e, in evidenza, le righe sulle “tavole d’oro”. Il documento sarà esposto

dal 21 febbraio al 1° marzo al Museo d’Arte Orientale di Ca’ Pesaro nella mostra

“Dalla Cina a Venezia, vesti imperiali, porcellane e giade della dinastia Qing”

ROBERTO BIANCHIN

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lore sbagliato era un’arroganza imper-donabile, l’offesa valeva la pena di mor-te. Il quartiere a nord della Città proibitaera ricco di ville principesche per una ra-gione precisa: l’imperatore viveva conun esercito di concubine custodite daglieunuchi; non appena i suoi figli maschiraggiungevano la pubertà era indispen-sabile allontanarli dalle tentazioni; per-ciò si costruivano dimore sfarzose al difuori delle mura del Palazzo. Queste re-sidenze principesche, riproduzioni inminiatura della Città proibita, stabiliva-no il paradigma estetico dell’epoca. At-torno a loro, mandarini, generali e ricchimercanti si facevano i loro siheyuan suscala più piccola ma imitando i canonidi bellezza dell’aristocrazia.

Il codice degli status symbol di alloraha lasciato delle tracce per chi le sa deci-

‘‘Lao SheDietro il muro a Sud

si estendeva il piccolocortile di un vecchionegozio di incensoe di candele dove

venivano messi a seccarei bastoni di incenso

destinati al cultodi Buddha e dove erano

stati piantati alcunisalici piangentiche riempivano

lo spazio sul retrodella casa dei Qi

Da QUATTRO GENERAZIONI

SOTTO UN SOLO TETTO

i luoghiCina segreta

Il cuore della capitale nasconde il quartiere dei vicoli,ricco degli storici “siheyuan”: le dimore a un piano,disposte a quadrilatero attorno a un giardino centraleAdesso i municipi e le università di Roma e Parigisono stati chiamati ad avviarne il completo recupero

L’ingresso si apresu una muragliache è la barrieracontro i démoniIl vero percorso

d’entrata è a zigzag

ni hanno aggiunto ai siheyuan miriadi dicostruzioni abusive: misere casupolehanno intasato i cortili signorili perchécinque o dieci famiglie potessero abita-re dove prima ce n’era una sola, e poi bot-teghe, bettole e ristorantini, formicaibrulicanti di vita e di attività si sono infi-lati in ogni spazio libero, occupandoogni interstizio nel dedalo dei vicoli. Masotto il tessuto molle e pasticciato dell’a-busivismo povero, sotto la polvere delladecadenza secolare, molti edifici storicisono miracolosamente intatti. La loroprima trama urbanistica risale addirit-tura al 1200, la maggior parte delle co-struzioni superstiti sono del Settecento.

In una di queste aree, fra il laghettoimperiale Houhai e la maestosa Torredel Tamburo, è iniziata un’operazionedi restauro senza precedenti. Il governocinese e le autorità municipali hanno fi-nalmente capito che questo patrimonioha un valore inestimabile, merita di sal-varsi anziché essere raso al suolo per farposto a nuovi grattacieli (com’è accadu-to nel resto della capitale). Hanno chie-sto consulenze al Campidoglio e al Co-mune di Parigi, alle università di Scien-ces Politiques e La Sapienza, alla societàRisorse per Roma specializzata nelleoperazioni di recupero dei centri storici.Sono arrivati finanziamenti dall’Une-sco e dall’Unione europea. In due annidi lavoro gli esperti cinesi e internazio-nali hanno catalogato le meraviglie na-scoste in questo quartiere. C’è la villaprincipesca del generale Zhang Zhi-dong (1837-1909) che fu governatoredella provincia dello Hubei nella tardadinastia Qing, vicino a quella del gene-rale Zhang Aiping, Signoredella Guerra. C’è la casa del-l’eunuco favorito dell’impe-ratrice Cixi, e c’è il siheyuan diEn Hai che assassinò l’amba-sciatore tedesco durante la ri-volta dei Boxer del 1900. Alcu-ni abitanti del quartiere cono-scono bene la storia di questepietre. La signora ZhangShuzhen, 81 anni, sa di averabitato per tutta la sua vita nel-la casa del celebre generale-governatore: «Un tempo ilcortile interno era gigantescoe il viale d’ingresso arrivava fi-no al lago. La mia casupola èuna di quelle che occupanol’antico giardino privato, dovecent’anni fa il proprietario in-vitava la troupe di attori-can-tanti dell’Opera di Pechino per intratte-nerlo nelle sue feste». In quello spazioora sono accatastate aggiunte brutte eprecarie che fungono da camere da let-to, cucine, ripostigli. Non hanno riscal-damento centrale e neppure i bagni, leloro toilette sono quelle pubbliche. «An-che la ex casa padronale è così malcon-cia che ogni inverno il tetto cede e qual-che stanza si allaga».

Forse solo i piccioni ammaestrati chesi alzano in volo coi primi tepori prima-verili riescono a scorgere dall’alto le ul-time vestigia di topografia delle gerar-chie sociali di una Cina scomparsa: i co-lori dei tetti erano rigidamente definitiin base al rango, tegole gialle per l’impe-ratore, verdi per le dimore principeschee dell’alta aristocrazia, grigie per le casedei borghesi. Costruirsi un tetto del co-

FEDERICO RAMPINI

PECHINO

Spirito maligno non entreraiin casa mia. Se ci provi vai asbattere contro una parete dimattoni nerastri, scolpita

con un carattere che esprime scara-manzia e buon augurio per gli abitanti. Ifantasmi cinesi non conoscono la curvae la diagonale, non hanno l’accortezzadi aggirare l’ostacolo e imboccare il cor-ridoio laterale per introdursi in casa eportare la malasorte. Così le regole delfeng shui, la geomanzia, dettano la for-ma dell’ingresso. Sotto un grande arcoin muratura il portone dipinto di rosso siapre su una muraglia color antracite cheè l’insormontabile barriera contro i dè-moni. A zigzag si penetra nell’universoarcano della casa a forma di quadrilate-ro, con le stanze disposte intorno a uncortile chiuso. Le colonne di legno rossosostengono il tetto a forma di pagoda,con le grondaie in pietra dalle elegantiestremità a forma di prua di nave. Legrosse travi portanti — fissate con l’artesapiente dell’incastro senza chiodi néviti di metallo — sono decorate da pittu-re di paradisi celesti, paesaggi verdi e do-rati, fiumi e monti sacri, motivi floreali,uccelli, dragoni e figure leggendarie. Alcentro del cortile c’è il giardino alberato.Questo è lo siheyuan — letteralmente“cortile chiuso da quattro lati” — la casatradizionale cinese di un solo piano.

Dopo mezzo secolo di furiose demo-lizioni e costruzioni che a ondate hannostravolto la fisionomia urbana di Pechi-no, resta ancora nel cuore della capitaleuna zona segreta che nasconde tremilasiheyuan. È la città degli hutong, il labi-rinto impenetrabile dei vicoli. I “bassi” diPechino sorgono a ridosso del Palazzoimperiale perché erano i quartieri nobi-li dove vivevano i dignitari di corte, gli al-ti funzionari del mandarinato, e intornoa loro gli artisti e gli artigiani al serviziodei potenti. Alcuni di questi tesori archi-tettonici sono così invisibili che ci vuoleun lavoro da archeologi per riscoprirli eriportarne alla luce le bellezze. I turistiche visitano la città vecchia sui rickshawa pedali passano di fianco a molti capo-lavori senza poterli riconoscere. Le di-more tradizionali sono sepolte sottospessi strati di storia: il crollo dell’impe-ro, l’occupazione giapponese, la guerracivile, il comunismo maoista, la Rivolu-zione culturale e infine il boom econo-mico hanno sedimentato scorie e volga-rità sopra quei gioielli. La fuga dell’ari-stocrazia e dell’alta borghesia, la po-vertà, la sovrappopolazione, per decen-

34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 19 FEBBRAIO 2006

CORTILEQui accanto,

lo schema

di una

casa-

quadrilatero

Il cortile

(a sinistra)

è circondato

dalle stanze

e racchiude

un’area verde

TEGOLELe tegole dei “siheyuan”

avevano colori obbligati:

gialle per l’Imperatore, verdi

per le case della nobiltà,

grigie per quelle dei borghesi

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Pechino restaurail labirinto

delle tremila case imperiali

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frare. Quattro “lancette” di pietra otta-gonale sopra il portone d’ingresso se-gnalano la casa di un mandarino di ran-go superiore (i proprietari attuali conti-nuano la tradizione di appendervi allafesta della primavera i festoni di cartarossa con la calligrafia augurale: «Sen-tendo i fuochi d’artificio è l’anno vecchioche si conclude, vedendo sbocciare leprime gemme è l’anno nuovo che arri-va»). Due marmi scolpiti a forma di tam-buro, sovrastati da leoni, indicano l’in-gresso del siheyuan di un ricco mercan-te. La dimensione del cortile interno è unaltro segnale della posizione del proprie-tario nella piramide del potere imperia-le. Alcuni erano veri e propri parchi “ar-redati” con piccole riproduzioni di cate-ne montuose, ruscelli e cascate artificia-li, ponticelli e vasche di pesci. Anche lapiù modesta delle case-quadrilatero cu-stodisce piante deliziose: i melogranisimbolo di fertilità, le magnolie e i cachi,i gingko dalla radice di ginseng, le giug-giole, i grandi salici e i superbi bonsai. Pe-chino pullula di alberi pregiati, il decanoè una sofora della dinastia Tang che hasettecento anni, in uno studio dietro il

‘‘Lao SheRispetto agli altriabitanti del vicolo,egli si consideravadavvero fortunato:

da oltre quarant’anniabitava nello stessoposto. I suoi vicini,invece, erano venutida fuori o avevanodovuto traslocaree rari erano coloroche dimoravano

in quel luogoda più di vent’anni

Da QUATTRO GENERAZIONI

SOTTO UN SOLO TETTO

Mao Zedongha abitato per tutta

la sua vitain un “siheyuan”

Oggi se li disputanoi magnati occidentali

giardino Beihai. I più belli sono protettifra le mura dei cortili dei siheyuan, ma laregola imperiale che imponeva case diun solo piano offre a tutti il piacere di am-mirare le loro chiome, che spuntano ol-tre i tetti e i muri di cinta dei cortili.

Di qualunque rango sociale, gli abi-tanti della città vecchia si legavano di unaffetto tenace a questi luoghi, chi era na-to fra i vicoli voleva morirci. Qui aveva lesue radici il vero popolo di Pechino, conil suo dialetto e il suo umorismo, i pro-verbi e le leggende, che fu la materia pri-ma della letteratura cinese del Novecen-to: nei siheyuan hanno vissuto i più gran-di scrittori nazionali, da Lu Xun a MeiLanfang, e lo spirito degli hutong è im-mortalato dal romanziere Lao She nellasaga Quattro generazioni sotto un tettodegli anni Quaranta. La cultura dei vico-li è così forte che ha impregnato anche legenerazioni affluite negli ultimi cin-quant’anni, quelli che hanno invaso icortili dei nobili per costruirci loculi e of-ficine. Le vestigia del passato sono statericiclate per usi nuovi: un’antica stele dimarmo con incisioni preziose, dove untempo i domestici si sedevano ad atten-dere i mandarini per aiutarli a scenderedalla portantina, ora è usata come tavo-lo da gioco per le partite di mah-jong. Ri-vivono all’ombra delle calli le tradizionidei mestieri di strada: arrotini e calligra-fi, venditori ambulanti di patate dolci ar-rostite, barbieri e dentisti da marciapie-de, guidatori di rickshaw e maestri dimusica. Qualcuno di loro è un lontanoerede della servitù imperiale. Pochi an-ni fa è morto centenario Sun Yaoting,

l’ultimo eunuco della Città Proibita. Ilprofessor Li, matematico in pensione,discendente dei cuochi di corte, in unarustica osteria con quattro tavole ricreamagicamente la tradizione della sofisti-cata cucina imperiale. Il vecchio calzo-laio Peng che forniva pantofole su misu-ra per il fondatore della Cina comunistaMao Zedong e il suo primo ministroZhou Enlai, è l’ultimo a saper confezio-nare le scarpe di 12 centimetri per i “giglidorati”, come si chiamavano i piedini fa-sciati delle donne dell’èra antica. Anchei più poveri hanno rispettato una delleregole sacre che presiedono la vita inuno siheyuan: le stanze esposte a sud,più riscaldate dal sole, toccano di rigoreagli anziani della famiglia. È un popolocaparbio nel difendere i suoi riti come ilnuoto nel lago Houhai in tutte le stagio-ni dell’anno (d’inverno vanno a bucareil ghiaccio col piccone): quando la poli-zia ha vietato la balneazione per motividi igiene e salute pubblica, il club degliincalliti nuotatori ha portato una peti-zione fino al Parlamento.

Ma la loro capacità di resistere ha unlimite. Il grande piano di recupero delquartiere riporterà alla luce le bellezzedell’architettura antica, non salverà iltessuto sociale. Alle istituzioni interna-zionali le autorità locali hanno fatto cre-dere che gli abitanti avranno il diritto dirimanere. Loro sanno che non è vero.Xie Guozhong, 45 anni, è nato in uno diquesti siheyuan, la sua infanzia l’ha tra-scorsa in un cortile sotto le querce e i ne-spoli. «È il più bel posto al mondo dovepotessi vivere, ricorderò per semprequesti fiori, i giochi da bambino nei per-corsi segreti dei vicoli che conosciamosolo noi. Per ricostituire questa casacom’era cent’anni fa noi dobbiamo an-darcene. Con i soldi che ci offre il comu-ne non potremo mai più permetterci diabitare qui, dovremo andare in una ca-sa popolare, alla periferia di Pechino».

Quel che accadrà nei prossimi anni ègià scritto nelle regole del mercato. Unautentico siheyuan d’epoca restaurato aregola d’arte e con l’aggiunta deicomfort moderni va a ruba tra le agenzieimmobiliari. Non se ne trovano per me-no di un milione di euro. Tra i nuovi abi-tanti della zona sono comparsi il ma-gnate della televisione Rupert Murdo-ch, il fondatore di Yahoo Jerry Yang, l’expresidente della Goldman Sachs JohnThornton. Del resto il valore di questecase lo aveva perfettamente capito lanomenklatura comunista. Mao Zedongfece radere al suolo interi quartieri di Pe-chino per costruire autostrade urbane eorridi palazzoni in stile sovietico, maabitò per tutta la sua vita in un siheyuan.

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 19 FEBBRAIO 2006

PORTONEIl portone

si apriva

sul reticolo

dei vicoli

ed era ornato

con battenti

di fattura

squisita (foto)

Nella foto

grande,

“siheyuan”

a Pechino

FENG SHUISecondo le regole

del feng shui,

l’arco e il portone

rosso si aprivano

su una muraglia

nera capace di

bloccare i demoni

L’entrata vera

era invece laterale

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ILLUSTRAZIONE

MIRCO

TANGHERLINI

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Esce “Il primo bicchiere, come sempre, è il migliore”, una raccoltadi poesie mai pubblicate in Italia che ricordano le inquietudini giovanilidi uno scrittore entrato nella leggenda. Un artista convinto che le parole

abbiano il potere di uccidere o resuscitare, un funambolo che viveva sull’abisso. Sono testidel ventennio Settanta-Novanta, che descrivono l’universo di un individuo tormentato, che ha semprecercato di toccare l’inferno. Sicuro che fosse il solo modo di redimersi da un’epoca indecente

Quando gli anni Sessantastavano per far esploderela loro esistenza, c’era an-che Charles Bukowski(1920-1994) con la manosul detonatore. Aveva la-

vorato in un mattatoio, era stato por-tiere di un bordello, renitente alla le-va. Perdigiorno. Sempre in bilico suun abisso di ricordi che gli picchiava-no in testa come martelli. Aveva l’ariatrasandata di uno che nella vita pen-sava solo a farsi male: alcol, donne,parole. La scommessa alla fine nonera come ma quando sarebbe finitoall’inferno. Bukowski è stato il meglioe il peggio della letteratura. Il meglio eil peggio delle frasi sferzanti dettatecon disinvolta e micidiale acredine.Non ce l’aveva con il mondo. Ce l’ave-va con l’universo intero, con le costel-lazioni, con le stelle morte, con i para-disi che la gente normale immaginacome ricompensa. Lavorò per alcunianni in un ufficio postale. Ma restavapoeta e narratore del risentimento. Lesue poesie somigliano ai suoi raccon-ti. Pallottole che crivellano la vita.Nessuna vera differenza troverete frai racconti raccolti in Storie di ordina-ria follia e le poesie di L’amore è un ca-ne che viene dall’inferno.

Bukowski fu la leggenda, perché inuna società di miti scarsi e asfittici, eradiventato l’icona della diversità. Lareincarnazione di un piccolo dio ca-priccioso e provocatorio capace di fe-rire e di guarire come pochi.

Pensava che le parole avessero il po-tere di uccidere e di resuscitare. Cre-deva che bastasse parlare di sé, permettersi davvero ai margini della vitae palleggiare come un virtuoso solo safare. Ecco. Fu un grande palleggiatore:toc, toc, toc. Un’infinita meravigliosa

capacità di tenere permanentementela palla sospesa a mezz’aria. Vita da fu-nambolo, ma da fermo. Quale conti-nente ci ha restituito? Quale Americaha preso di mira? Quali sogni ha volu-to scardinare?

Ora esce Il primo bicchiere comesempre è il migliore, una raccolta dipoesie (Minimum Fax, traduzione diDamiano Abeni) che fa seguito a Sedu-to sul bordo del letto mi finisco una bir-ra nel buio. Poesie a loro modo belle egrottesche. A loro modo esemplari. Ilverso si deposita asciutto sulla pagina,

come un racconto stringato. Stretto inun ritmo che musicalmente rimandaal jazz e per le atmosfere letterarie allarudezza ironica di Fante e alla malin-conia di Chandler.

Sono poesie sull’adolescenza e sulturbamento: «Dovevamo avere 14 o 15anni/e ce ne stavamo seduti al cine-ma/ed ecco che sullo schermo arrivauna bionda/dagli occhi pallidi e vuo-ti/e il mio amico mi dà di gomito e di-ce:/ “Cristo, Hank, guarda chelabbra!/ guarda come sono bagnatequelle labbra!/voglio baciare quelle

36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 19 FEBBRAIO 2006

poesie inediteBukowski

CONDIVIDI IL DOLORE

ho avuto uno scazzo con il padrone[e la padrona di casa

perché non c’era nient’altro dafare.

non dovresti far venire tutte quelle puttane[e quegli scoppiati

a casa tua,ha detto la padrona.

io e il padronesiamo usciti per menarci. lui mi ha preso

[per il colloe io gli ho tirato un cazzotto in pancia esiamo andati a sbattere contro un alberoe poi lei ha interrotto la lottaquando abbiamo spezzato l’albero.

ti potrei ammazzare, ha detto il padrone,ma che ciguadagno? sei il mio inquilino.

grazie compare, horisposto.

siamo rientrati e ci siamo sedutie il padrone aveva una grossa insalatiera acentro tavola.ci ha versato del whisky e ci ha versatodel vino e ci ha versato della birrae poi ci ha versato due litri di7-Up.

già che c’era poteva buttarci dentropuregli alka-seltzer.

le tette spenzolano dalle vacche, ho detto,e la mia terra è la tuaterra.

maledetto imbecille, ha detto la padrona,[checcazzo

ne sai di vacche? mi sa che non ci sei[neanche mai stato

in una fattoria.

sissignora, ho risposto, cioè, no,nossignora.

dai, ha detto il padrone, pescaci dentro[e fatti un bel

bicchierone.

come un maledetto imbecille, ci ho pescato. [la rivoluzione era di là

da venire.ANTONIO GNOLI

le poesie

SPEZZATO

non c’è nessunagiustificazionenon c’è nessunabugianessuna veritànessun amore... non c’è nessunrimorchiatore, gatto, cane,pesce,cielo.

perfino il vostro soffrire èun miraggio.

non c’è nessun contrattonon c’è nessun onorenessun mandante,e la ragione se n’è andataa pesca neldeserto.

non c’è nessuna base razionalenon c’è nessuna nobiltà.

un laccio da scarpe spezzatoè la tragedia:non le mani mieche strangolano quelminuscolo luogoche chiamateamore.

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le poesie

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 19 FEBBRAIO 2006

Pallottole sulla vitai suoi versi ritrovati

CENA, DOLORE & TRASPORTO

percorro adagiola strada delle streghe,banale e bruciantemangioin tavole caldedove i filobus passanosopra il tetto, ericevo letterine del sindacoche mi chiedono di uccidere pallidiragazziin bicicletta;è un’epoca indecentequando i mitragliatori stanno zittie le nuvole non nascondono nientein guance di bignè;posso profetizzare il malecon la forza di un martello pneumaticoche spacca una stupida strada;mi pulisco la bocca e conto lesbarre della balaustrata, contemplo lospazio biancotra le gambe del camerierementre corre a portarmiil conto; fuori,è lo stesso:i diavoli bevono dalle mammelledi vergini stupefatte;sta cominciando a piovere:macchia, macchia, macchia,le gocce sporche di vino tulipano...compro un giornale all’angolo,lo piego come un cobra addormentatoe me ne sto lìme ne sto lìa disegnare figure per aria,figure zozze e cattedrali,lucertole scotennate, miracoli sbronzi;poi prendo il bus delle sei e un quartoe torno alla mia stanza; è una stanzache cattura mosche e carte ebicchieri polverosi, cattura me,e io ci dormiròper risvegliarmi sotto la mano

[ dello specializzandodentro una luce malata, o saràil sapore rosso del fuoco, il fumo che cantacome questi uccelli nelle mie pareti.

idillio che non fosse con la disperazio-ne, la pietà e l’orrore.

Bukowski ha indagato l’universo dalbasso. Non ha mai cercato un centro,ma sempre un altro gradino da poterscendere, per avvicinarsi a quell’infer-no che per lui era il solo modo di redi-mersi da un’epoca indecente. Osten-tava disprezzo per la cultura ufficiale.Commentò in maniera impareggiabi-le: «I camerieri leggevano Truman Ca-pote. Io leggevo solo i risultati dellecorse». Alcol a gogò e ippodromi dovescommettere. Ha amato il whisky, ledonne il baseball e i cavalli. Del vec-chio Hank — così lo chiamavano gliamici — resta qualcosa più del colore,una lunga e irrisolta rabbia che animòracconti e poesie. È facile dire oggi cheè stato uno scrittore maledetto. È faci-le dire che l’eccesso è stata la sua cifra.Quella faccia che sembrava tormenta-ta da un trapano e su cui troneggiavaun naso che ricordava un violaceo tu-lipano olandese nascondeva una tri-stezza infinita. La malinconia dell’uo-mo che ha smarrito le sue notti e il sen-so della bellezza del mondo: «La cosapiù immensa della bellezza è capireche è scomparsa», disse.

Erano gli anni delle sbornie infini-te. E degli ideali degradati. Nessunprezzo fu mai talmente alto da vie-targli di parlare quasi sempre di sé.Viveva teatralmente il proprio scri-vere. Il suo corpo era la sua scrittura.Guardate quella foto di lui, davanti aun frigorifero, avvinghiato a unacompagna di strada. Sembrano duenaufraghi su una deriva urbana. Ec-co il vero Bukowski: la lattina di bir-ra strozzata in una mano, lo sguardoironico e il pancione in vista tra unamaglietta troppo corta e un pantalo-ne troppo basso. È da lì che bisognaripartire per entrare nel linguaggiodella sua poesia.

labbra!”/“e dai, Cristo”, gli ho detto,“chiudi il/becco!”/tutta la gente che cistava intorno lo/sentiva».

C’è una nostalgia aggressiva, co-sparsa di ricordi fulminanti che strap-pano bettole al neon e infime stanzed’albergo alle notti cui sono condan-nate: «La mia camera stava a un isola-to di distanza/aprivo il bar alle 5 dimattina e/lo chiudevo alle/2 di notte/spesso il buio e la luce mi si/ mischia-vano/me ne stavo lì seduto e si era albicchiere/della staffa/un attimo dopoil sole/era sorto e io me ne stavo/an-cora lì.../ 5 anni di quel bar/e nessunoè venuto a/prendermi.../in realtàquello che mi ha portato via da/quelbar/è stato l’avvento della/ televisio-ne/che proprio allora stava/inizian-do.../qualcosa era morto/in Ameri-ca/per sempre/avevo finito i miei 5anni/su quello sgabello/in fondo albancone/appena in/tempo».

Le poesie di Bukowski sono senza re-denzione, ricordi che, in mancanza difuturo su cui sputare, prendono a pugni

il passato. Il raccontoche egli fa del mondoha la stessa fatale ne-cessità del gesto ani-male. Bracca un detta-glio come la leonessa ilcollo di uno gnu.

Il suo stile è la sua fa-me: la presa direttasulle cose da divorare:«Lo stile», scrisse, «èimportante. Tantagente urla la verità, masenza stile è inutile,non serve». La forzamuscolare dei suoiversi è fatta di resi-stenza e provocazio-ne. Mai un’incertezza,mai un dubbio, mai unripensamento. Mai un

LA NUOVA RACCOLTAA sinistra, la copertina de “Il primo bicchiere, come

sempre, è il migliore” la raccolta di poesie di Charles

Bukowski in uscita in Italia per Minimum Fax. Si tratta

del dodicesimo volume del “Progetto Bukowski”,

dedicato dalla casa editrice alle opere dello scrittore

Nella foto grande, “Hank” in una scena di “Bukowski:

Born into This” il documentario realizzato nel 2003

da John Dullaghan. Nelle immagini sotto, Bukowski

al lavoro davanti al computer e con una birra in mano

abbracciato a una compagna occasionale

TUTTO QUELLO

le uniche cose che mi ricordo diNew Yorkd’estatesono le scale antincendioe la gente che escesulle scale antincendiola seraquando il sole tramontadall’altra partedei palazzie alcuni si sdraianolì a dormirementre altri stanno seduti tranquillial fresco.

e su moltidei davanzalici sono vasi di gerani ocassette piene di geranirossie lagente seminudase ne sta lìsulle scale antincendioe ci sonogerani rossidappertutto.

in realtà questoè uno spettacolo da vedere piuttostoche da raccontare.

è come un gran quadromulticolore e sorprendenteche non è appeso da nessun’altraparte.

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La ricerca dell’eccessoviene considerata la cifradella sua esistenzaMa sullo sfondoc’è la profonda tristezzadi una personache ha smarrito il sensodella bellezza del mondo

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la letturaTempo libero

38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 19 FEBBRAIO 2006

Farel’Italia pedalando: la “na-zionalizzazione” del Paese,della sua società come dellasua geografia, con il suo pa-norama di città, cattedrali,paesi, campanili, valli, mon-

tagne e colline, si può realizzare anchesu due ruote. Era questo il pensiero di 57pionieri della bicicletta, riunitisi l’8 no-vembre 1894 per costituire il TouringClub Ciclistico Italiano. La sede dell’in-contro era il milanese Albergo degli An-gioli, vicino al Duomo, e fra loro figura-va la crema della borghesia milanese.Industriali come Luigi Bertarelli e Al-berto Riva; un grande editore musicalecome Giuseppe Ricordi; professionistivari, una summa della haute meneghi-na. Erano tutti convinti che l’Italia nuo-va avesse bisogno di dinamismo, non dioziosità arcadiche; e che occorresseguardare alla modernità straniera, chein pochi anni aveva affollato di bicycletouring club l’intera Europa.

In Italia i primi “velocipedisti” eranoapparsi alla fine degli anni Sessanta del-l’Ottocento. Quel meeting ambrosianoche fonde positivismo lombardo, orgo-glio nazionale e passione sportiva, in unclima «da salotto buono della borghesiatardo ottocentesca», è ricordato dallostorico Giuseppe Pivato in un libro cheesce in questi giorni per i tipi del Muli-no. Si intitola Il Touring Club Italiano(pagg. 162, euro 12) e offre lo scorcio diun’Italia allo stato nascente. Se fino aqualche decennio prima la penisola erapoco più che un’espressione geografi-ca, e se dalla fine del Cinquecento era laterra del Grand Tour, il Touring nasceproprio con l’intenzione di cambiare laprospettiva: all’Italia «vista da fuori»,vuole sostituire un’Italia «vista da den-tro, percorsa e scoperta da chi l’abita».

Pivato, che insegna a Urbino ed è unostudioso di storia sociale attentissimoai fenomeni popolari (dall’onomasticapolitica agli inni politici), ricorda che ilfondatore del Touring Club, Luigi Ber-tarelli, aveva ben chiari gli obiettivi del-la nuova associazione: «Adoperarsiperché non sia più, quella degli italiani,solo una platonica aspirazione alla co-noscenza del loro Paese». Ossia fare inmodo che «essi debbano conoscerlodavvero, non soltanto per udito dire,non soltanto per convenzionale abitu-dine di ripetere nomi noti di paesi chenon si conoscono, di aprire bocca adesclamazioni di stereotipa ammirazio-ne per meraviglie che si dice esistano,ma che non si sono mai viste!».

Mentre il proletariato solca i mari sul-le rotte dell’emigrazione, cercando disfuggire alla patria povertà, una bor-ghesia emergente e modernista cerca lapropria strada, e il veicolo per percor-rerla. Se la scrittrice Matilde Serao, ma-dre dell’italianità, prescrive i capi d’ab-bigliamento che il buon borghese distampo nuovo, uno sportsman aristo-cratico ed evidentemente sfaccendato,deve mettere nel suo bagaglio delle va-canze («costume da cavallo, da veloci-pede, da tennis, da polo, da caccia, dacanottiere, da alpinista, da bagno dimare, da scherma»), il panorama va-canziero è ancora costellato da abiti ecostumi da ancien régime, anche inspiaggia: «Calze, ombrellini, velette».Ed è proprio al paese delle velette e de-gli ombrellini da sole che il Touring «op-pone la fatica della pedalata e l’abbi-gliamento popolare del ciclista»: ossiauna maglia a rete posta immediata-mente sulla pelle; una di lana a collodritto e sufficientemente alto; un pan-ciotto e una giacca della medesima stof-fa, larghi quanto basta per lasciare libe-ri i movimenti.

Così bardata, si profila una figurainedita: il «tourista». L’emanazione diun’élite? In parte sì, naturalmente. Maanche il protagonista «niente affattosecondario in quell’opera di costru-zione dell’identità civile di massa checostituisce uno dei disegni principalidelle classi dirigenti». Cioè il compitodi fare gli italiani dopo avere fatto l’I-talia, secondo il monito attribuito aMassimo D’Azeglio. Il fondatore Ber-tarelli lo aveva chiarissimo, se è veroche nel 1901, chiudendo un convegnoa Bologna, «con una prosa dal saporecarducciano» aveva esclamato: «Da-temi l’appoggio del sentimento, date-mi l’anima infine, e con questa, per-dio, sì l’Italia — e il Touring l’aiuterà —l’Italia farà gli italiani».

Il Touring Club Ciclistico era «unamissione». Missione deamicisiana, pa-triottica, risorgimentale, atletica, di unpopolo «allenato alla modernità dei“giochi inglesi” che preparano la men-te alla libera iniziativa». Un programmaper l’Italia umbertina. Ma anche unprogramma per il secolo nuovo. E unprogramma a suo modo ideologico,perché gli scopi statutari del Touringsono espliciti: la bicicletta è un mezzo«tendente a diminuire la distanza so-ciale che divide le classi meno abbientida quelle più ricche». Quasi una religio-ne, un mazzinianesimo a pedali. Conl’Italia che infatti pedala, metafora di unimpegno equivalente nello sport comenel lavoro, e con la bicicletta, scrive Pi-

vato, che è «veicolo di una filosofia po-polare improntata all’etica della fatica edel sudore».

Ma in questo modo l’interclassismo adue ruote contiene anche un valore in-sidiosamente sovversivo, benché Ber-tarelli si sforzi di rilevare l’anima bor-ghese del suo club (da parte sua, il mo-vimento socialista comincerà presto aorganizzare i propri club ciclistici, i «ci-clisti rossi», per differenziarsi anche dalnazionalismo del Touring, che avrebbetrovato il suo acme con i tour «sui cam-pi delle patrie battaglie»). Inoltre, in unpaese così religioso, furono ben presto icattolici a guardare con sospetto alla fi-losofia del Club: «Le sue origini liberali(e dunque massoniche secondo una

equazione diffusa nella mentalità cat-tolica del tempo) non fanno certo odo-rare d’incenso il Touring».

Così, ricorda l’autore, il maître à pen-ser dello sport cattolico agli inizi delNovecento, Giovanni Semeria, prov-vede a esorcizzare le due ruote, «uten-sile di lusso» inadatto a «quest’alba de-mocratica» e invita a imitare «i metodisportivi di san Francesco». Quindi:«Andate a piedi, moltiplicate le gite po-distiche». Accompagnato dal parerepro veritate dell’Osservatore Romano,secondo cui «il velocipedismo è unavera anarchia del mondo», proprio co-me «l’anarchia è un vero velocipedi-smo nel mondo della vita sociale».Questo perché «il velocipedista non èun pedone, non è un cocchiere di car-rozza, non è un macchinista di ferrovia,non è un animale da tiro o da soma: è unche di ermafrodito…». A cui seguono ivescovi che proibiscono la bicicletta alclero, minacciando pene severissime eperfino sospendendo a divinis i colpe-voli. Proibizioni e castighi che provo-cano domande causidiche: può il pre-te nel caso di un malato grave inforca-re la bicicletta «nonostante il superioredivieto», si chiede un parroco dellaprovincia di Ravenna? E conclude que-sto primo caso di «morale ciclistica»con un pragmatismo tipicamente ro-magnolo: «Lo può». Altrove si costitui-scono comitati di preti «pro bicicletta»,che rivendicano l’uso del biciclo «levi-ta», ossia con la canna da donna, ne-cessaria per non rimboccare ignomi-niosamente la tonaca.

Ma non ci si può opporre al carduc-ciano Satana del progresso. Alla finedell’Ottocento erano apparse numero-se fabbriche di biciclette: dopo la stori-ca azienda di Edoardo Bianchi fondatanel 1885, in pochi anni erano sorteOlympia, Velo, Maino, Dei, Frera, Lu-gia, Taurense Legnano, Atala, Torpa-do, Ganna. I comuni avevano emanatodisposizioni per far fronte al traffico:«Chi usa il velocipede dovrà portare at-torno al braccio destro una fascia nera,sulla quale sia trapunto o dipinto inbianco il numero della macchina, altoalmeno dieci centimetri», intimava ilmunicipio di Verona.

Già nel 1900, mentre esordiva il se-colo dell’automobile, il Touring avreb-be abolito la dicitura «Ciclistico»; masolo un anno prima aveva esaltato l’u-so del velocipede da parte delle donne.Su una rivista del Club venne pubbli-cata una poesia in latino, Muliebris bi-rota velocissima, lanciando un premioper la migliore traduzione (vinse Lo-renzo Stecchetti: «Monta la biciclettaveloce, fanciulla romana / tu, ancora,donna, vinci a la corsa i maschi; / mapur vincendo i maschi non romper nénasi né braccia. / Ti basti solo romperle gambe ai cani / quando la biciclettainseguon latrando rabbiosi…»).

Poi sarebbe venuta l’immagine del-la diva Sarah Bernhardt sul sellino neiCampi Elisi, la moda, gli scandalosipantaloni, la scomunica igienica deimedici perché la sella potrebbe indur-re «soddisfacimenti genitali». E via viasarebbe cambiato il sentimento gene-rale, con l’ode di Giovanni Pascoli de-dicata al campanello sul manubrio, leelegie ciclistiche di Guido Gozzano, leprose di Alfredo Oriani, che fece unviaggio solitario dalla Romagna allaToscana «in sella a una Bremiambourgda corsa a ruota fissa». Sarebbe arriva-ta anche la tassa sui velocipedi (10 lireper le biciclette e 15 per i tandem), sar-casticamente evocata sempre da Stec-chetti: «Né molto andrà che per volersovrano / avrete un contator fra i dueginocchi / e la marca da bollo al dere-tano» (nel 1909 il Touring riuscì a far ri-durre l’imposta a sei lire).

Ai primi del Novecento ci volevanocento giornate lavorative di un ope-raio per acquistare le due ruote. Maintanto (nel 1909) nasceva il Giro d’I-talia. Al tempo della Grande guerra lebiciclette censite erano quasi un mi-lione e mezzo. Sulle strade comincia-vano a vedersi le moto e le automobi-li. Come scrisse un socio del Touring,era cominciata l’era «anippica», senzacavalli. Ma la bicicletta, come il Tou-ring, avrebbe attraversato il fascismo,la guerra fredda, il boom economico,il centrosinistra, le autostrade, le do-meniche a piedi, fino a noi. Chissà sele restrizioni energetiche riporteran-no la nostra epoca a essere «il secolodella bicicletta».

Il Touring Club nacque nel 1894 come associazioneciclistica. Tra i suoi 57 fondatori c’erano industriali,editori, professionisti della borghesia milanese. L’intentodi quegli appassionati “velocipedisti” era far scoprireil paese da poco unificato ai cittadini di ogni ceto.Un volume a giorni in libreria ricostruisce questa storia

I cattolici guardaronoil sodalizio

con sospettoe proposero

in alternativail podismo,

“metodo sportivodi san Francesco”

Su due ruote per fare l’Italia

IL LIBRO DEL MULINO E LE FOTO ALINARI SU INTERNET

Il libro di Stefano Pivato “Il Touring Club Italiano” viene proposto dal Mulino

con una particolare formula editoriale. Al costo di 4 euro per un anno, i lettori possono

consultare il sito web www.fotografiaeturismo.alinari.it, che contiene una selezione

di 400 fotografie degli Archivi Alinari sulla storia del turismo in Italia, come quella qui sopra

EDMONDO BERSELLI

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 19 FEBBRAIO 2006

PAOLO RUMIZ

Il cicloturismo cento anni dopo

Esploratori a pedalidelle strade di nicchia

Statale 62 della Cisa, pianura alla spalle, temporalefinito. Una finestra cobalto si apre su in alto, e già siriparte nell’aria fina, col Mediterraneo che chiama

dall’altra parte. Bicicletta, penetrazione totale del pae-saggio. Campanili e colline che si spostano, ogni colpodi pedali diventa triangolazione millimetrica dell’Italiaminore. Non c’è lettore satellitare che mostri così fedel-mente il terreno. Il tuo bracco meccanico gli è mille vol-te superiore. Va rasoterra, si infanga, cattura voci, odo-ri, rumori. Li inanella come i grani di un rosario.

Berceto, dopo il primo strappo. Intercetto un parro-co, una donna bruna che stende i panni, una banda cheprova gli ottoni oltre la finestra di una taverna. Odoredi ragù italiano, un salumiere che saluta, un funerale.Percezione laterale, filmica, della vita.

La salita riprende, si intorcica in tornanti, e subito,con la fatica, la visione si riduce. Ti chiudi nel tuo ma-tra, uno-due-tre-quattro, vedi solo le chiappe di chi tiprecede. La visione diventa frontale. Tutto sta in fondoalla stradone. Il passo. La birra all’arrivo. Il seno glorio-so della cameriera che te la porge.

La Cisa, il tuffo verso Pontremoli, con la percezioneche, in discesa, muta ancora, diventa olfattiva; a ses-santa orari non vedi niente, sì e no il battistrada. Profu-mo di pinete, resina, la temperatura che sale, fumo dicarne alla brace, i castagni selvaggi di Lunigiana, l’o-dore del mare che ti arriva addosso trenta chilometriprima, ti lascia senza fiato a un curvone tra Aulla e San-to Stefano di Magra.

All’arrivo sul Mare Tirreno capisci: la Parma-La Spe-zia è più corta in bici che in auto. Impossibile? Provareper credere. A bassa velocità il terreno ti si stampa in te-sta, la memoria te lo disegna con la fedeltà di un ormo-grafo. Lo riempie di incontri, volti, odori. Lo rende fa-miliare, vicino, e quindi lo accorcia. Del paesaggio vi-sto in auto, invece, rimane poco o nulla. Figurarsi in au-tostrada, la “A 15” che corre parallela. La noia dilata lospazio, lo rende interminabile.

Potenza delle due ruote. La lentezza comprime spa-zi immensi. L’ho misurato con Francesco Altan edEmilio Rigatti sulla Trieste-Istanbul, archetipo deiviaggi a puntate su Repubblica. Un secolo fa gli italianil’avevano già capito. Il Touring chiese loro qual era ilmezzo migliore per esplorare la loro terra, ed essi dis-sero in coro: la bici. Con quella vedi più cose che a pie-di, e puoi fare dei paragoni. Ma vedi anche più che inauto: la quale è troppo veloce e non ti fa vedere niente.

Esplorare necesse est, ieri come oggi. Ma oggi — variconosciuto — è più difficile di un secolo fa. Magari hail’asfalto, ma hai anche un traffico infernale. La grandedistribuzione ha cancellato le locande, gli anni Ses-santa hanno riempito il Paese di schifezze in cemento.E allora oggi, paradossalmente, devi essere più esplo-ratore di allora. Devi saper cercare negli interstizi del-le grandi reti. Ed è proprio qui che la bici si prende l’ul-tima rivincita sull’auto. Come qui sulla Cisa.

Te ne accorgi all’incrocio con la “A 12 Tirrenica”.L’autostrada ha prosciugato il traffico della vecchiastatale, e tu dal sellino puoi goderti, in splendida soli-tudine, il traffico dei gommati. Far loro una sonora, li-beratoria pernacchia.

TRA I SOCI UN FUTURO PAPA

Questa pagina è illustrata da sei copertine della rivista

del Touring Club Italiano, pubblicate tra il 1908 e il 1931.

Qui sopra, l’iscrizione al TCI di monsignor Angelo

Giuseppe Roncalli, il futuro Papa Giovanni XXIII

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SAN FRANCISCO

Il vampiro fa la fila al botteghino.È mattino, strano che la luce delgiorno non lo ferisca. Pallido, hala pelle diafana, gli occhi infossa-

ti cerchiati di scuro, i capelli biondi benpettinati, la camicia con le maniche asbuffo, troppo leggera per questa SanFrancisco flagellata dal nubifragio. Unbimbo aggrappato al cappotto dellamamma lo fissa, chissà se ha davvero icanini aguzzi? Il vampiro sorride beffar-do, i due denti si piantano sul carnosolabbro inferiore in segno di sfida. Il pic-colo rabbrividisce e cerca protezionesotto il braccio della madre: «Non averpaura, è solo un attore», dice lei scom-pigliandogli i capelli. Un altro vampirosbuca dalla pesante tenda di vellutorosso che separa il foyer dalla platea:

Il musical del momento debutterà a Broadway ad aprile,e ci rimarrà forse per anni. Si chiama “Lestat”, è scrittoda Elton John e Bernie Taupin, e porta a teatro la saga di Anne Rice

consacrata al cinema in “Intervista col vampiro”. Siamo andati a vedere l’anteprimadello show. Per scoprire perché i padroni della notte hanno perso il fascinodell’immortalità, sono diventati “i mostri della porta accanto”. E non fanno più paura

40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 19 FEBBRAIO 2006

L’ALLESTIMENTONelle foto qui

sotto e a sinistra,

due momenti

del musical

“Lestat” al Curran

Theatre

di San Francisco.

Lo spettacolo

sbarcherà

a Broadway

il 25 aprile

«Jack, non dovresti essere qui». «Devoassolutamente ritirare i biglietti per lamia famiglia, arrivano all’ultimo mo-mento da Cincinnati, Ohio. Sarò da voitra un secondo».

Il Curran Theatre di San Francisco è ilteatro ideale per i vampiri di Anne Rice.Piccolo, gotico, pieno di stucchi e di ca-riatidi dorate, tenebroso e sinistroquanto basta. Lestat, il musical scritto daElton John e Bernie Taupin e ispirato al-la saga dei succhiasangue della scrittri-ce americana (The Vampire Chronicles),debutta proprio nella città in cui la Riceambientò le prime pagine di Intervistacol vampiro, best seller e film di succes-so con Tom Cruise, Brad Pitt e AntonioBanderas. In una tetra casa disabitatadel quartiere Divisadero, il vampiroLouis racconta la sua estenuante, inter-minabile esistenza al giovane cronistaMalloy, morbosamente attratto da unacreatura che supponeva spettrale ed ef-ferata e invece scopre tormentata, per-sino attraente, piena di “buoni” senti-menti. Louis è vittima e carnefice del piùspietato Lestat, il vampiro vecchio di se-coli che l’ha iniziato alla notte eterna inuna villa stile coloniale nel bel mezzo diuna piantagione di New Orleans, il se-colo scorso: «Quando vidi la luna sul sel-ciato, ne rimasi a tal punto incantato cherestai lì un’ora, credo [...]. Quanto al miocorpo, non aveva ancora subito la com-pleta trasformazione e non appena miabituai a tutti quei suoni e a quelle visio-ni cominciò a dolermi. Tutti i fluidi uma-ni venivano espulsi. Morivo come crea-tura umana, eppure come vampiro eropieno di vita; e con i miei risvegliati sen-si dovetti assistere alla morte del miocorpo con un certo disagio e, alla fine,con terrore. “Mi sta succedendo qualco-sa”, gridai. “Stai morendo, tutto qui; nonfare lo stupido”, disse Lestat mentre giàispezionava le carte della piantagione»(Anne Rice, Intervista col vampiro, Ed.Tea Due, 366 pagg., 8 euro).

L’unico attimo di paura quel bimbol’ha avuto davanti al botteghino, perchéLestat è un musical decisamente nonvietato né da vietare ai minori. Anzi, lospettacolo che il 25 aprile sbarca al Pala-ce Theatre di Broadway (in preview dal25 marzo), dove secondo l’idea dei pro-duttori è destinato a rimanere per moltimesi, anni addirittura, ha ancora i dentida latte. Dopo una serie di preview alCurran di San Francisco, lo spettacolo èstato finalmente presentato alla stampa.Ed è stato un coro di «ai vampiri di AnneRice sono caduti i canini». Non è bastatoil nome Elton John, che per la prima vol-ta firma un musical con Bernie Taupin (Ilre leone e Aida li ha scritti con Tim Rice,Billy Elliot con Lee Hall), paroliere di fi-ducia dei suoi più grandi successi, a sal-vare dal linciaggio lo spettacolo più atte-so della nuova stagione.

Il primo a farne le spese è stato Jack No-

seworthy, l’attore che si era mostrato incostume di scena al botteghino il giornodella prima. Il suo licenziamento non ècerto da imputare al gesto incauto, ma alfatto che i produttori hanno deciso dicambiare radicalmente il carattere di Ar-mand. A Drew Sarich, nuovo vampiro incarica, è toccata la sciagura di mettere ibrividi a uno spettacolo che ha trasfor-mato in Mary Poppins le Cronache delvampiro di Anne Rice.

«Che significa morire quando si puòvivere fino alla fine del mondo? Ormai hogià vissuto due secoli e ho visto le illusio-ni dell’uno completamente distruttedall’altro, sono stato eternamente gio-vane ed eternamente vecchio, senzapossedere illusioni, vivendo attimo perattimo come un orologio d’argento chebatte nel vuoto», si lamenta Louis in In-tervista col vampiro. Il musical messo inscena su libretto di Linda Woolverton ela regia di Robert Jess Roth già pluripre-miato a Broadway per Beautyand the Beast (con canzoniconfezionate da John & Tau-pin) banalizza all’eccesso iltormento umano che quellecreature terribili provano difronte alla prospettiva di unavita eterna vissuta nelle tene-bre, al punto che i vampiri sulpalco perdono del tutto la loroconnotazione diabolica e laloro eccezionalità per diven-tare comuni mortali, tutt’al-tro che temibili, afflitti dallestesse problematiche della fa-miglia della porta accanto.

E poi della morbosa ambiguità dei ro-manzi della Rice in Lestatnon c’è traccia.Hugh Panaro, nei panni del protagoni-sta, è un innocuo bellone che pare usci-to fresco fresco dal set di Beautiful. L’ir-resistibile impulso a mordere e bere san-gue per sopravvivere si risolve con unvorticoso viaggio visuale all’interno delsistema circolatorio, immagini da an-giografia come ne abbiamo viste da Pie-ro Angela in tv.

Anne Rice non la pensa allo stessomodo: «Questo musical è la realizzazio-ne dei miei sogni». Non c’è da stupirsi: lascrittrice, 64 anni, ha preso le distanze

Nello spettacolo i signoridelle tenebre perdonola connotazione diabolicae l’eccezionalità: sonocomuni mortali, afflittidai nostri stessi problemi

Vampiri

GIUSEPPE VIDETTI

Se il diavolosi risvegliapovero diavolo

dal mondo delle tenebre che cominciò aconoscere nel 1969 a Berkeley e che haesplorato a fondo in lunghe notti di lunapiena a New Orleans. Leggenda vuoleche per rendere più verosimili i suoi rac-conti, la Rice vivesse solo di notte, si ag-girasse nei quartieri più equivoci dellacittà e costringesse tutta la famiglia auna esistenza in penombra (suo figlioChristopher Rice è un giovane scrittoredi successo; omosessuale dichiarato, haesordito con il torrido Density of Souls etiene una rubrica sul mensile gay Advo-cate). Oggi Anne Rice, che una volta si fe-ce trovare in una libreria per la presen-tazione di un romanzo distesa dentroR

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 19 FEBBRAIO 2006

IL FILML’immagine

qui sopra è tratta

dalla locandina

del film “Dracula”

di Francis Ford

Coppola

Lo stucchevole fascinodei succhiasangue

Dovendo scegliere, quanto a morsi sul collo, c’era chi siaccontentava di quelli di Brad Pitt, il vampiro Louis, mala maggior parte delle signore, nel buio incantatore del

cinema, bramava quelli dell’allora divinamente pallido TomCruise, il vampiro Lestat. Era il 1994 e finalmente con Intervi-sta col vampiro di Neil Jordan, il povero morto vivente tran-silvanico, tipico esempio di stupratore riluttante e talvolta dipedofilo sedotto, non aveva il volto orribile, con rivolino di

sangue sul mento, di Nosferatu-Klaus Kinski (del film diHerzog); né quello antipatico, respingente di Dracula-Gary Oldman (del film di Coppola); e neppure quell’ariaridicola, da gentiluomo dalle chiome grigie con mantellonero foderato di rosso, del pur seducente, per damesprovvedute, Frank Langella in un altro dei tanti Draculaanni Settanta. Se si calcola che a tutto il 2004, elencati dal

dizionario Mereghetti, i film di vampiri sopravvissuti all’o-blio sono almeno 133, si avrebbe il diritto di pensare che non

se ne può più, anche di quelli comici, tipo Fracchia con-tro Dracula di Neri Parenti o Dracula morto e conten-

todi Mel Brooks (addirittura con comparsata di EzioGreggio). Persino Anne Rice, massima signora del-la letteratura vampirica, esausta dopo le tantesanguinolente avventure del suo Lestat, ha al-meno per ora abbandonato il buon giovane almusical, per, ritornata cattolica, scrivere di Gesùbambino (Christ the Lord: Out of Egypt).

Però i vampiri sonnecchiano vigili, nelle lorobare da giorno, in attesa di svolazzare di notte

quali pipistrelli e, essendo morti viventi, nonmuoiono mai: quindi ogni tanto ce li ritroviamo tra

i piedi, per esempio nella moda appassionata di hor-ror, vedi sfilate di John Galliano stile oltretomba, festeg-

giatissime. Oppure il video Fendi, 12 minuti, che sostituì lasfilata alle ultime presentazioni milanesi di moda maschile:si intitola Lo specchio d’oro, regia di Gadagnino (quello delpopolarissimo Melissa), dove l’attore Malik Zidi, provvisto dilunghi dentini sporgenti e perfettamente abbigliato InvernoFendi («cappotto reversibile in marmotta»), si getta su suevittime maschili (con «cardigan di montone intrecciato») ese le pappa. Citazioni auliche, da Bava a Huysmans, tutte ten-denti al gotico. Si tratta dei tanti esempi di vampirismo gay,a partire dall’irresistibile Polanski 1967 Per favore non mor-dermi sul collo, in cui il giovane vampiro biondo, figlio delvampiro castellano, cerca di sedurre l’assistente (il poco piùche trentenne Polanski) dell’acchiappavampiri.

Il connubio moda-Nosferatu è inscindibile ormai da de-cenni: e sia sulle passerelle che soprattutto nelle fotografiedelle grandi riviste di culto, sono privilegiate modelle che pro-babilmente sono servite da antipasto e dessert a mai sazi Le-stat: anoressiche, scarnificate, ceree, non solo, ma con quel-l’aria imbambolata e perversa delle creature filmate da Mur-nau o dipinte da Gustave Moreau, che da un momento all’al-tro possono a loro volta mostrare le zanne e piantarle su qual-che gola di passaggio. Si sa come la vampira, in letteratura enel cinema, abbia a un certo punto azzerato il collega ma-schio. Nel 1900 la scrittrice Rachilde scrisse il romanzo La bu-veuse de sang (e nel 1898 Joseph Ferdinand Gueldry aveva di-pinto un macello in cui le signore malaticce si abbeverano alsangue delle bestie morenti, puro grand guignol). Negli anniin cui la donna cercava di uscire dalla soggezione maschile cifu tutto un fiorire di romanzi, studi, dipinti che privilegiandola donna dissanguata dal vampiro, stabilivano il nuovo idea-le femminile: la donna morta. Mentre la scienza e la poesia siergevano preoccupate contro la donna emancipata, la don-na sensuale, in pratica la donna-vampiro. Nel 1922 l’eminen-te professor Robinson del Bronx Hospital scrisse un manua-le di felicità coniugale terrorizzante: «Mi riferisco alla donnaipersensuale, alla moglie con una eccessiva carica di eroti-smo. È a lei che il termine vampiro si può applicare. Come ilvampiro succhia il sangue delle sue vittime nel sonno, da vi-ve, così la donna-vampiro succhia la vita al suo compagno, ovittima, esaurendone la vitalità. Alcune di loro, il tipo più mar-cato, sono del tutto prive di compassione e considerazione».

Il cinema draculiano non demorde, e in attesa di qualcheNosferatu contro Batman, oppure di un vampiro Armand in-terpretato da Massimo Boldi, ci dobbiamo accontentare di si-milvampiri, o di vampiri metaforici. Per esempio nel buio do-rato di The libertine il secentesco poeta inglese Wilmot ducadi Rochester, volto esangue, nere occhiaie attorno a sguardimortuari da Theda Bara, tendenza a gettarsi sul collo di pro-stitute ed attrici (anche della sua sposa), ha tutte le caratteri-stiche fisiche del vampiro aristocratico. In più con i tratti disquisita perversione di Johnny Depp. E quando il giovane cor-tigiano muore tutto coperto di pustole, è come se una dome-stica distratta avesse sollevato sbadatamente il coperchiodella bara in pieno giorno. E si sa quanto sia pericolosa, comel’aglio, il crocefisso e il punteruolo piantato nel petto, la lucedel sole: basta un raggio e il morto vivente muore. E come nonscambiare per Dracula lo scrittore Capote del film a lui dedi-cato, che sia pure con occhiali e guance grassocce vampiriz-za i due assassini condannati a morte, succhiandogli spieta-tamente ogni informazione utile per il suo libro rivelatosi diimmenso successo, A sangue freddo, per poi versare qualchelacrimuccia al loro impalamento, cioè impiccagione?

Anche l’arte però vampireggia: alla Tate Britain di Londraè appena iniziata la grande mostra Incubi gotici con 120opere dei grandi pittori romantici fine Settecento, Füssli eBlake, maestri dell’orrore poetico, sensuale e ambiguo,completo dei celebri La casa dei morti e Il risveglio di Tita-nia. Salgono le quotazioni degli inglesi fratelli Chapmancon i loro bambini di plastica che paiono assolutamente ve-ri, massacrati da bestiali Nosferatu che non si accontenta-no del loro sangue ma anche si divertono a tagliargli i geni-tali e a metterglieli nelle orecchie.

Vampiresca anche l’opera dell’artista svizzero GianniMotti, che nel 2005 ha esposto a Basilea l’opera Mani Puli-te, venduta per 12mila euro: trattasi di una saponetta otte-nuta dal grasso di Berlusconi. Non suzione ma liposuzione,non sangue ma ciccia, anche le abitudini alimentari dracu-liane peggiorano.

NATALIA ASPESI

The Gothic Queen si sta comodamen-te riciclando in God Queen: l’ultimo ro-manzo, già best seller, s’intitola Christthe Lord: Out of Egypt (Cristo il Signore:fuori dall’Egitto). Eppure la Rice ha cal-deggiato la realizzazione del musical,con quelli che la Woolwerton chiama«vampiri creati a nostra immagine e so-miglianza». Tanto umani da risultare ir-riconoscibili. «Muori giovane, vivi persempre», c’è scritto fuori dal teatro, mapoi Lestat fa scempio di quel mondo de-cadente descritto dalla Rice con tantameticolosità da risultare quasi credibi-le, e di quei sexy-vampiri che affondanoi denti sul collo e succhiano sangue conun’ingordigia quasi sessuale non restaquasi nulla.

«La nostra intenzione era di fare unmusical elegante, intelligente, ipnoticoche evitasse tutti gli stereotipi sui vam-

una bara, considera The Vampire Chro-nicles, 75 milioni di copie vendute nelmondo, «più che romanzi horror, storieesistenziali di personaggi esecrabili, unpercorso spirituale, riflessi di me stessapersa e lontana da Dio, cosa che ogginon sono più».

piri», recitano in coro Elton John e Ber-nie Taupin. «Lo spunto dell’opera è la lo-ro dannazione vista da una prospettivaestremamente umana e realistica». È lostesso principio con cui la Rice ha co-struito le sue Cronache: tutta la vita diLestat è segnata dal rapporto con lamorte (per non perdere sua madre lavampirizza quando lei sta per esalarel’ultimo respiro). Ma è difficile trovarenel dizionario del pop tanto macabrotormento. Per questo le canzoni di Eltone Bernie, come tutta la messa in scena,non riescono a far venire i brividi (anzi,trasformano tutto in parodia, più Per fa-vore non mordermi sul collo di RomanPolanski che Intervista col vampiro diNeil Jordan).

«Al Teatro dei Vampiri si entrava solosu invito, e la notte seguente il portierecontrollò un istante il mio biglietto, in-tanto che la pioggia cadeva leggera in-torno a noi: sull’uomo e sulla donna chesi erano fermati davanti al botteghinochiuso; sui manifesti increspati che raf-figuravano vampiri da romanzo dell’or-rore con braccia e mantelli sollevati co-me ali di pipistrello, pronti a richiudersisulle spalle nude d’una vittima morta-le...», racconta Louis a Malloy. La rico-struzione del Teatro dei Vampiri potevaessere la carta vincente di Lestat: suc-chiasangue che si aggirano come ombrein una Parigi maledetta e incantata, e dinotte sciamano nel teatro dove il rito sicompie sul palcoscenico, quotidiana-mente, coinvolgendo umani ignari del-la diabolica messa in scena. A Parigi,Louis ci va in nave da New Orleans, conla piccola Claudia, la bambina trasfor-mata da Lestat in una creatura delle te-nebre (altro spunto formidabile). Nean-che in questo caso però il musical si di-mostra all’altezza delle pagine. Alla finedello spettacolo non c’è nessuno in salache, come il cronista Malloy, vorrebbeessere morso sul collo per porre fine auna piatta e insipida esistenza umana ediventare un bel tenebroso.

Se Lestat non cambierà i denti, sul suofuturo non ci sono certezze (il debutto aBroadway, in attesa di nuovo sangue, èstato provvidenzialmente posticipato diun mese rispetto al calendario iniziale).L’unica certezza è che Anne Rice nonscriverà mai più un romanzo sui vampi-ri. «Come potrei? Ormai mi sono conver-tita a Gesù Cristo. Sarei una pazza se nonmantenessi fede alla mia promessa». LaRice abdica e passa lo scettro a ChelseaQuinn Yarbro, nuova regina dell’horror,americana anche lei, che ha già pubbli-cato Hotel Transilvaniae si appresta a faruscire in Italia un sequel, Il palazzo (ed.Gargoyle), protagonista Francesco Ra-goczy Conte di Saint Germain, vampirogentiluomo. Il magazine ChristianityToday, giura che la contrizione è sincerae intitola un botta e risposta con Anne Ri-ce Intervista col pentito.

LE OPERE

LA SAGALa saga letteraria

con cui, nel ’76,

esordisce

la scrittrice Anne

Rice è un insieme

di racconti

dedicati ai vampiri

Il protagonista

si chiama Lestat

NOSFERATUIl film muto realizzato

dal grande regista

Murnau nel 1922

è la prima pellicola

dedicata

al conte Dracula:

si ispira al romanzo

di Bram Stoker

uscito nel 1897

DRACULAÈ del 1992

e vince tre Oscar

il film di Francis Ford

Coppola

con un cast formato

da Gary Oldman,

Anthony Hopkins,

Winona Ryder

e Keanu Reeves

L’INTERVISTADal best seller

di Anne Rice,

nel 1994 esce

“Intervista

col vampiro”,

il film di Neil Jordan

con Tom Cruise

(Lestat) Brad Pitt

e Antonio Banderas

StudioUrania e Rai Cinemapresentano

alessio bonimichele placido

amore,ciaoarrivederci

in un film di

michele soavi

dal 24 febbraio al cinemaRep

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i saporiEccessi di stagione

42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 19 FEBBRAIO 2006

Uno tira l’altroE poi vienela Quaresima

CastagnoleRicordano grosse ciliegie,

realizzate friggendo un impasto

classico con aggiunta di lievito

e rum. Esiste una variante “ricca”

che prevede la farcitura

con crema pasticciera

CicerchiataSi taglia l’impasto in tocchetti grandi

quanto un’unghia. Una volta fritte,

le palline vengono girate in salsa

di miele e limone, con mandorle

a lamelle e frutta candita,

e poi composte in uno stampo

FrittelleNella versione più nota uniscono

la classica pasta lievitata

con le mele, che possono essere

grattugiate, spezzettate o tagliate

ad anello. I più golosi aggiungono

all’impasto uvetta e pinoli

Cartellate La “cartiddata” nella tradizione

pugliese contende al “bocconotto”

(cuscinetto ripieno di cacao

e canditi) il titolo di re dei dolci

di Carnevale. Le girelle di pasta fritta

sono ricoperte di miele o vino cotto

ChiacchiereAltrimenti dette: frappe, bugie,

stracci, sono fatte con un impasto

aromatizzato con scorza di limone

e liquore. La pasta viene tagliata

in rettangoli lisci o annodati. Fritte,

si spolverizzano con zucchero a velo

LICIA GRANELLO

CannoliErano il dolce preferito delle suore

del convento di Santa Caterina,

a Palermo. A Messina e Catania,

la ricetta viene arricchita con una

diversa farcitura, a base di crema

pasticciera, all’uovo o al cioccolato

DolciCarnevaledi

Sono fragranti, allegre, lievi. Una tira l’altra, come e piùdelle ciliegie. Hanno nomi diversi, frizzanti, tanti: daregione a regione, da nord a sud vengono battezzatebugie, chiacchiere, lattughe, galani, crostoli, sfrappo-le, cenci, frappe, frijolas… Sono il dolce-simbolo delCarnevale che avanza in questi giorni, golosità per ec-

cellenza di un periodo votato da secoli alla trasgressione gour-mand (e non solo).

Infatti, il nome di derivazione latino-medievale “carnem le-vare”, certifica l’obbligo, secondo i precetti della religione catto-lica, di astenersi dalla carne nei quaranta giorni della quaresima.Ma prima che il mercoledì delle ceneri (il primo marzo) introdu-ca il tempo della penitenza, occhi, cuore e palato hanno di chesollazzarsi, tra feste in maschera e buffet sontuosi.

Non a caso, il giorno che chiude il Carnevale è detto martedìgrasso (tranne a Milano, dove il rito ambrosiano introdotto daSant’Ambrogio nel Quarto secolo prolunga i festeggiamenti finoal sabato). Un aggettivo che dice molto sugli intendimenti delCarnevale: dieci, quindici giorni di extraterritorialità alimenta-re, dove tutto è consentito, colesterolo permettendo. Certo, l’ab-binamento è di quelli che fanno sussultare la bilancia: ma anco-ra affondati nei freddi grigiori dell’inverno, perseguitati dall’in-quinamento e dalle paure dell’influenza aviaria, la tentazionedel dolce&fritto riesce davvero poco resistibile.

A cominciare dalle chiacchiere, sfoglie golose che i dannati del-la dieta mal si perdonano. Così i pasticcieri più sensibili alle ga-stro-angosce dei loro clienti, hanno inventato la versione al forno,tradimento imperdonabile per tutti quelli che hanno assaggiatoalmeno una volta la ricetta originale eseguita a regola d’arte.

Certo, una volta steso e ritagliato in rettangoli dentellati il clas-sico impasto di farina, uova, zucchero, nulla ci vieta di spennel-larlo con uovo e latte, e di infornarlo per un quarto d’ora. Ma lachiacchiera dietetica è come mangiare il formaggio senza pane odolcificare la panna cotta con lo sciroppo d’acero: una tristezzaannunciata, che lascia frustrati e delusi artigiani e acquirenti. E al-lora, ecco il trucco: una volta fritti, i dolcetti sono poi messi ad“asciugare” in forno. Il gusto leggermente tostato e la consistenzabiscottata illudono che il miracolo sia stato compiuto.

E le chiacchiere casalinghe? Chi si vuol cimentarecon struffoli e tortelli da offrire ad amici e picci-ni, deve decidere tra la trasgressione tout courte gli aggiustamenti dietetici. Se dev’esserefritto, ci si può confortare con qualche det-taglio a supporto. Per esempio la sceltadel grasso di cottura: intere generazionidi bambini sono cresciute gustando lechiacchiere di Carnevale cotte nellostrutto, che resta tra le opzioni migliori,insieme all’olio extravergine (bastacomprarne uno delicato, dal ligure ailombardo-veneti). Scorrendo gli oli di se-mi, invece, è da privilegiare quello di ara-chide, il più resistente alla temperatura difrittura (e anche il più caro, così da risultarepoco popolare tra i pasticcieri).

Altro atout, la pentola, che per i dolci di Carnevalesarà alta, stretta, riempita d’olio a metà. Perché si trattaquasi sempre di paste lievitate, che hanno bisogno di gonfiarein cottura e quindi di non appesantirsi appoggiati sul fondo. Il dia-metro contenuto impedisce anche di mettere troppi dolci al fuo-co, pratica che abbassa la temperatura di cottura, producendofritti unti e pesanti.

Se siete tipi da pentimento tardivo, evitate di far piovere zuc-chero in quantità sui bignè appena fritti. Lo scarto calorico saràminimo, ma il senso del sacrificio vi farà sentire subito più magri.

Fragranti, allegri, lievi: con nomi diversi si ripetono uguali dal nordal sud d’Italia e sono il simbolo della trasgressione gourmanddei giorni di festa che precedono il brusco confine tra martedì grassoe mercoledì delle ceneri. Ecco i trucchi per cucinarli al meglio,riducendo al minimo i rischi per i gastro-angosciati

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 19 FEBBRAIO 2006

Le “dolci terre”

testimoniano

la presenza

di una grande

tradizione

dolciaria,

espressa

da piccole industrie e artigiani. La regina

di Carnevale è la “bugia”

DOVE DORMIREHOTEL LUX

Via Piacenza 72

Tel. 0131-251661

Doppia da 100 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREPISTERNA

Acqui Terme, Via Scatilazzi 15

Tel. 0144-325114

Menù da 50 euro

DOVE COMPRARELABORATORIO ARTIGIANALE GIRAUDI

Castellazzo Bormida, Via Liguria 26

Tel. 0131-275563

itinerari

AlessandriaGià nel ‘600

i “fritoleri”

impastavano

farina, uova,

zucchero,

uvetta e pinoli.

Una volta cotte,

allora come oggi, le frittelle sono

cosparse di zucchero

DOVE DORMIRECASA DEL MIELE

Ca’ Noghera, via Paliaghetta 2a

Tel. 041-5416129

DOVE MANGIARELA CORTE SCONTA

Calle del Pestrin 3886

Tel. 041-5227024

Menù da 60 euro

DOVE COMPRARECAKE AND COFFEE

via Bissuola 24

Tel. 041-5343262

VeneziaSimbolo

del Carnevale

palermitano,

il cannolo

nel ‘600 venne

battezzato

“scettru di ogni

re e Virga di Moisè”, per la sua forma

caratteristica

DOVE DORMIREIL MEZZANINO DEL GATTOPARDO

Via Alloro 145

Tel. 333-4771703

Doppia da 110 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIARELO SCUDIERO

Via Turati 7

Tel. 091-581628

Menù da 30 euro

DOVE COMPRAREPASTICCERIA ALBA

Piazza Don Bosco 7c

Tel. 091-309016

Palermo

Luciano Stillitano è il proprietario di “Dany”, pasticceria-cultodi Torino, dove tradizione e innovazione sono elaborate alivellidi eccellenza assoluta. Tra i dolci di Carnevale, spiccanole “bugie”, fritte in olio di arachidi e asciugate in forno

Olio e strutto alla guerra delle frittelle

L’alternanza storica fra cibi “di grasso” e “di magro”

MASSIMO MONTANARI

«Togli farina distemperata con ova et acqua, e assottigliata estesa; tagliala a modo di foglie, o di fichi, o come vuoli, e frig-gile nel lardo, o oglio ad abbondanza; e cotte, mettivi su del

mele bollito, e mangia». È la ricetta del dulcamine, ovvero «frittellenon quaresimali», contenuta in un libro di cucina italiano del XIV se-colo, scritto in Toscana su un modello meridionale. Ma che significa«frittelle non quaresimali»?

Ce lo spiega Maestro Martino, il più famoso cuoco italiano delQuattrocento, nel capitolo del suo ricettario dedicato a «far ogni fric-tella», dove si insegnano molti modi per preparare le frittelle (di fio-re di sambuco, di bianco d’uovo con fior di farina e cacio fresco, dilatte quagliato ovvero giuncata, di riso, di salvia, di mele, di fronde

d’alloro, di mandorle…) con tutte le varianti «quaresimali». L’al-ternanza fra cibi «di grasso» e «di magro» è una costante della cu-cina medievale, che durerà a lungo. È un’alternanza impostadai tempi liturgici della Chiesa, per alcuni giorni della settima-na e alcuni periodi dell’anno: il Carnevale e la Quaresima nerappresentano la sublimazione. Quaresima è il tempo di ma-gro per eccellenza, in cui sono banditi i cibi di origine animale;

Carnevale è il tempo della festa, a cui seguiranno privazioni e ri-nunce, ma anche un’attenta gestione gastronomica dei cibi con-

sentiti. In realtà si tratta di cambiare qualcosa, non di stravolgerei moduli consueti di cucina: ogni carne sarà sostituita da un pesce(magari addobbato in forma di carne); uova e formaggi (consentitidurante l’anno nei tempi di magro, ma non durante la Quaresima)lasceranno il posto alle verdure; il lardo sarà sostituito dall’olio. Gliaccostamenti, i sapori saranno comunque garantiti.

Spiega, dunque, Martino che le nostre frittelle, «si fusse in tempoquadragesimale, le poi frigere in olio, et non gli mettere grasso néova». Le frittelle di magro sono quelle senza uova e fritte nell’olio. Èquesto il sacrificio che si chiede; ma prima che scatti il mercoledì del-le ceneri, che apre la Quaresima, si faranno «vere» frittelle con uova,fritte nel lardo. Questo fu, per secoli, il vessillo principale del «gras-so» Carnevale: friggere nel lardo. «L’olio combatte con lo strutto»,leggiamo nella Battaglia di Quaresima e Carnevale, un testo del XIIIsecolo da cui prese avvio un vero e proprio genere letterario. È que-sto il senso dell’alternativa lardo/olio prevista dalla ricetta trecente-sca del dulcamine.

Il gusto del fritto ha sempre accompagnato le feste di Carnevale:le nostre chiacchiere, sfrappole, cenci, o comunque vogliamo chia-marle, sono il punto d’arrivo di una tradizione lunghissima, che si-curamente risale al Medioevo e forse anche oltre, alle feste paganedi età romana. Ma più ancora del sapore dolce, più ancora del mie-le o dello zucchero che si aggiungeva alla pasta per farne un segnodella festa, era il tipo di grasso a determinare il carattere carnevale-sco della frictella.

Oggi ci hanno insegnato che friggere nell’olio è meglio, e l’impera-tivo dietetico non ha tardato a trasformarsi in abitudine alimentare,modificando il gusto: abbiamo imparato ad apprezzare l’olio e il suosapore acre (sia pure addolcito da zucchero e miele). Ancora qualchesecolo fa, molti dei nostri dolcetti sarebbero apparsi un cibo da Qua-resima più che da Carnevale.

GraffeÈ la versione napoletana

del krapfen austriaco. I dischi

di pasta vengono sovrapposti

con un’intercapedine di marmellata

di amarene e fritti a fuoco basso fino

a diventare gonfi e rotondi

TortelliSi preparano partendo da un

impasto senza lievito, cotto, fatto

raffreddare, ridotto in palline. Dopo

la frittura e l’asciugatura in forno

possono essere farciti con crema

pasticciera. Si servono caldissimi

La foto qui a sinistra

è stata gentilmente

concessa dalla

rivista “Sale & Pepe”,

Mondadori editore

‘‘Ray BradburyDietro quella porta, la stufa stava

preparando delle frittelleche riempivano la casa di un buon

profumo di pasticceriae di sciroppo

da CRONACHE MARZIANE

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44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 19 FEBBRAIO 2006

le tendenzeBaby eleganza

Tutte le firme hanno ormai linee interamente dedicateall’infanzia e progettate avendo bene in mente il guardarobadei genitori. Perché la barriera stilistica che dividevale generazioni è definitivamente saltata. Ma soprattutto perchéoggi i più piccoli sono tanto attenti alle mode da voler cambiarelook, come i grandi, ad ogni giro di stagione

PASSI BRILLANTISuola in gomma bicolore

e paillette dalle nuance accese,

a forma di margherita,

per le sneaker-ballerine in tela

di Lelly Kelly

TENNISTI IN ERBATroppo piccoli per impugnare

la racchetta ma non per indossare

le scarpe da tennis: ecco quelle

della linea Chicco Jeans,

dedicate a chi ha meno di un anno

Ijeans a vita sempre più bassa e la lingerie di piz-zo, le minigonne ultraridotte e gli abiti sottove-ste, le camicette di voile e gli hot-pants di pizzo. Eancora i boxer a vista, gli stivali da cowboy, i bla-zer di lino. Ammettiamolo: i bambini del nuovomillennio si vestono ogni giorno di più come pic-

coli adulti. Per rendersene conto basta dare un’occhia-ta alle ultime proposte di stilisti e creativi. Che sfornanomise all’ultima moda per piccole lolite e manager ver-sione mignon. Una volta, il mondo infantile e quelloadulto erano rigidamente divisi. Almeno in fatto di mo-da. I piccoli si vestivano con abiti studiati appositamen-te per loro. E il massimo divertimento di ogni bambinoera quello di frugare nell’armadio di mamma e papà al-la ricerca di un qualche travestimento che lo facessesembrare un adulto in miniatura.

Oggi, invece tutto è cambiato. Sarà perché nell’eradelle coppie mono-figlio i tanto attesi reucci della ca-sa finiscono per diventare l’epicentro della vita fami-gliare. Anche in termini di consumi. Oforse perché i bambini di oggi sono lorostessi più adulti. Ma una cosa è certa: gliunder 12 sono diventati i cloni perfetti deiloro genitori.

Attenti in modo quasi maniacale alletendenze, a ogni stagione sono pronti acambiare look. E, quindi, guardaroba. Se-condo i dati di Pitti bimbo, solo in Italia nel2004 sono stati spesi 3 miliardi 520 milionidi euro in moda junior. Il mercato è più cheappetibile. Sarà per questo che tutti i gran-di stilisti hanno ormai almeno una lineababy. Per i mini adulti c’è solo l’imbarazzodella scelta: i jeans di Diesel e i caftani diAntik Batik, i trench di Burberry e i giub-botti jeans di Dior, le polo di Fred Perry e lebotton-down di Polo Ralph Lauren, gliabitini gipsy di Roberto Cavalli o le baby-doll di Miss Blumarine. Per non parlare de-gli accessori. La varietà di calzature è infi-nita: si passa dalle sneakers monogram-mate di Louis Vuitton ai sandali capresi fir-mati Pepè, dai classici scarponcini Hogan alle Lelly Kel-ly in tela e paillettes.

L’espansione del mercato non riguarda solo il setto-re fashion. «I nostri clienti oggi prediligono case conspazi aperti che inglobano tutto dal living alla stanza daletto», racconta l’architetto Giorgia Dennerlein, pro-prietaria di Loto design, uno dei negozi più di tenden-za della capitale, «per non parlare del reparto dedicatoalla quotidianità ed al gioco del bambino». Non c’è al-lora da meravigliarsi se anche le grandi firme del desi-gn hanno cominciato a muovere all’attacco dell’uni-verso baby. La Magis ha prodotto un’intera linea, bat-tezzata Me Too dedicata ai più piccoli. Ikea ha lanciatola collezione PS: una decina di pezzi utilizzabili sia co-me complementi d’arredo sia come giocattoli. Kartellpunta sulle sedie impilabili, come i pezzi Lego. MentreAlessi produce set da tavola di mille colori diversi.

I dati confermano il fenomeno. Negli Stati Uniti nel2003 sono stati spesi 3 miliardi e 300 milioni di dollariin mobili per bambini. L’Europa si prepara a seguire aruota. «Fino ad oggi le camere dei piccoli rimanevanoisolate, in termini estetici, dal resto della casa», spiegaElisa Astori, responsabile prodotto di Driade che, que-st’estate lancerà un’intera collezione per bambini. Eaggiunge: «Noi vogliamo fornire ai nostri clienti unmodo per coniugare il loro amore per la bellezza concomplementi adatti allo spirito infantile». Ovvero co-me rimanere bambini, macon stile.

JACARANDA CARACCIOLO FALCK

Mini-adultile griffeall’assalto

Bambiniclone

PICCOLI VIAGGIATORISi chiama Square ed è prodotta da Cult

Sul fondo della scarpa è sovraimpressa,

ogni stagione, la mappa di una città diversa

Quest’estate è il turno di Barcellona

PIOGGIA DI FRAGOLINEIl classico sandaletto viene impreziosito,

a beneficio dei più piccoli, da una pioggia

di fragoline applicate su fondo giallo.

La scarpa fa parte della linea Naturino

Questo mercatoè in grande espansione:per l’abbigliamentodei figli gli italianispendono ogni annotre miliardi e mezzo.E anche dal frontedell’arredamentoarrivano nuove idee

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45DOMENICA 19 FEBBRAIO 2006

IN PASSERELLATop jeans e gonna lunga

in chiffon

a più strati:

è la proposta

di Nolita Pocket

per la bimba elegante

ma trasgressiva

(a sinistra)

Sembra appena sceso

dallo yacht del papà

il ragazzino griffato

Ferré che sceglie

il pinocchietto rosso,

la t-shirt bianca

bordata in rosso

e un giubbottino leggero

Sportiva in jeans bianco

e t-shirt fantasia,

la piccola griffata Cavalli

può contare sull’assoluta

somiglianza del suo look

con quello materno

ADESSO BEAUTYLe piccole Lolite

viaggiano sempre,

al pari delle loro mamme,

con il beauty-case.

Come quello a fiori

della neonata linea

MyMy di Trudy

Carrozzine aerodinamiche, seggio-loni spaziali, pannolini “intelligen-ti”, salviettine ecologiche: questi

alcuni dei numerosi gadget che rendonodiversi i nuovi bebè dalle generazioni pre-cedenti, spesso semplificando la vita deigenitori. C’è anche un mercato molto at-tivo che cura il look dei piccolissimi. Pos-sono gattonare sul pavimento, ma devo-no farlo con pantaloncini a zampa di ele-fante o tutine con inserti in pelle. In se-guito dovranno indossare magliette grif-fate, scarpette ad alta tecnologia, giub-betti di pelle metallizzata, gonne fatte apunte di chiffon, cravattini a farfalla, look“povero” e look principesco, insommauna ricca gamma di vestiti e accessori, ge-neralmente molto costosi, che innalzanoil bambino degli anni Duemila su un tro-no regale, anche se ovviamente a spinger-lo sono ormai i grandi stilisti che hannoindividuato nell’arco 0-2 anni e soprat-tutto in quelli 2-4 e 4-10 un campo fertileal cui centro c’è un Ego da gonfiare, quel-lo del bambino ma soprattutto quello del-la sua mamma che, per documentarsi, haa disposizione in edicola una raffica di ri-viste che propongono quella che è ormail’alta moda infantile, al centro di defilè edi giornate “importanti” dal punto di vi-sta del marketing.

Che il bambino stia diventando un pic-colo re, dipende in gran parte dal fatto chesoprattutto nel nostro Paese, quando c’è,è anche facilmente un figlio unico e quin-di al centro degli investimenti dei genitoriche sovente vedono il Bene (leggi l’affetto)nei beni materiali. Vestendolo in manierasontuosa e non facendogli mancare nulla,in primo luogo il superfluo, pensano diavere già assolto una buona parte del lorocompito educativo. Solo che, ovviamen-te, i piccoli diventano sempre più esigen-ti, sempre più con l’occhio rivolto al bim-bo a fianco, sempre più bizzosi e ovvia-mente sempre più frustrati: perché c’èsempre qualcuno che ha un paio di oc-chiali, una spilla di strass o un giocattolopiù belli e più trendy di quelli che mammae papà gli hanno comprato. Con questepremesse, ci sono buone probabilità chequesti bimbi, viziati dal mercato e dai ge-nitori, diventino quello che ormai gli psi-cologi chiamano il “bambino tiranno”: unsimpatico viperino che ha ormai iniziatola sua carriera acquisitiva e non si vuol farmancare nulla. È impaziente. Le attesedevono essere ridotte al minimo. Il pre-mio deve essere immediato. L’aspettativaè costante. Non arriva il giocattolino delgiorno? Lui è già un po’ stressato: che lamamma non gli voglia abbastanza bene?

Ovviamente non tutte le mamme e nontutti i bambini vivono in questa atmosfe-ra principesca e iperprotettiva; ma per igenitori che non si adeguano e per i bam-bini che non sono stati adeguati, la vitapuò sembrare un po’ più dura: anche se sipuò scommettere che i bambini che han-no subìto un addestramento alla pazien-za e alle normali frustrazioni saranno piùresilienti, vale a dire più in grado di padro-neggiare quei piccoli stress e di affrontarequelle difficoltà che potranno essere inve-ce vere mazzate quando cadranno suiprincipini. Ogni genitore dovrebbe sape-re che per il bene dei figli qualche rinunciaè importante e che il loro benessere fisicoe psicologico non deriva tanto dagli og-getti di cui riescono a venire in possesso,quando dall’atmosfera che vivono in fa-miglia, dalle attività che fanno, dai giochi,dalle relazioni con gli altri bambini. Certopuò essere difficile giocare vestiti da de-filè. Così come è difficile abbandonarsi aimovimenti e alla fantasia dei giochi spon-tanei quando si è troppo centrati su di sé,sulle proprie esigenze oppure sul giocat-tolo invece che sul gioco.

L’autrice insegna Psicologiadello sviluppo alla Sapienza di Roma

Il rischio di allevarefragili tiranni

ANNA OLIVERIO FERRARIS

LAVARSIÈ UN GIOCOUn’idea per giocare

anche in bagno?

Lo spazzolino

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collezione junior Benetton

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debardeur e culotte

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Bateau e disegnate

a mano dall’artista

Christophe Leroux

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l’incontroSimboli della moda

MILANO

C’èuna fotografia in cui èbellissima. Avrà sì e notrentacinque anni, èseduta alla sua scriva-

nia di lavoro, tiene una sigaretta tra le di-ta, la sta avvicinando alle labbra, ha i ca-pelli scuri raccolti dietro la nuca, unamaglietta bianca a maniche corte e asso-miglia a Faye Dunaway. Ancora adesso asettant’anni, Mariuccia Mandelli è unadonna molto bella. Se è fragile, lo na-sconde bene. Prega soltanto che le si par-li con voce un po’ più alta. Indossa pan-taloni neri, una t-shirt nera e una giaccanera. È senza trucco. È curiosa, vivace, avolte fa domande da ragazzina timida:«Non le sono piaciuta, vero?». Dice che èsempre stata affascinata dal cinema, dalsuo modo di raccontare le storie. Il suogioco preferito è essere se stessa inter-pretando qualcun’altra, ogni giorno di-versa. Come in questo momento. OggiKrizia ha la testa acconciata da princi-pessa egiziana, una collana ad anelli cheregge un disco di platino in mezzo al pet-to e due bracciali da gladiatore romanoche le coprono per intero i polsi sottili ele arrivano fin quasi sotto i gomiti. Devo-no essere costosissimi. Mi spiega che liha creati Marta Marzotto. All’anularedella mano sinistra porta una pietratriangolare, nera. È preoccupata, ansio-sa. Dice: «Non credo di essere una perso-na interessante. Ho sempre paura di nonessere capace di andare oltre pensieribanali, di deludere chi mi deve giudica-re in una chiacchierata di non più diun’oretta. Sono una persona semplice».

Nel quartiere generale di via Manin iluoghi solo suoi sono due, separati dauna trentina di metri di corridoio a elle.Nello studio c’è un tavolo rettangolarelungo e stretto ingombro di tessuti egrandi sottili fogli da disegno. Regna undisordine costruito. Il suo ufficio di rap-presentanza invece è lindo e minimale,piccolo e raccolto, la finestra d’angoloincornicia un pezzo di giardino. È appe-na un respiro. Da questo punto di osser-vazione si scorge pochissimo della Mila-

d’invincibilità che galleggia sempre nel-l’aria quando passa la giovinezza.

Dove sono gli eredi di Armani, Ferré,Valentino, Krizia? Mariuccia Mandellispalanca i suoi grandi occhi celesti e ride:«Il futuro è dei giovani, presto appari-ranno sulla scena parecchi nomi nuovi efinirà questa oligarchia della moda. Ma,attenzione, se noi siamo ancora qui si-gnifica che non abbiamo smarrito il ge-nio e che in giro, tra i possibili emergen-ti, ci sono troppi presuntuosi e troppi ar-roganti. E pochissima umiltà». Cercauna metafora, la trova: «Infilano troppepiume sui vestiti, e le piume, tra l’altro,portano sfiga». Le chiedo di fare la classi-fica dei suoi maestri. Il primo nome èquello di Walter Albini, il talento di BustoArsizio scomparso nel 1983, che può es-sere considerato l’iniziatore della modapronta in Italia. Krizia lo conobbe a Pari-gi all’inizio degli anni Sessanta. Fu un in-contro fortuito, come raccontò lo stessoAlbini: «Ci siamo conosciuti per errore.Avevo aperto per sbaglio un telegrammadella Mandelli indirizzato a un amico co-mune. Sapevo chi era lei, l’amico nonc’era e al posto suo, a prenderla all’alber-go, quella sera sono andato io. Lei eraperfetta, tornava da Megève, tutta in crê-pe nero con un filo di perle al collo. Ab-

no un tempo tanto amata. «È come se perpudore e vergogna avessi chiuso gli oc-chi su questa città. Non voglio vedere co-me si è ridotta. È orribile, sporca, degra-data. È l’unica città al mondo dove lemacchine vengono parcheggiate suimarciapiedi. I vecchi non osano piùuscire di casa e nonostante il loro isola-mento vengono truffati da sciacalli chegli portano via i risparmi anche dietro leporte di sicurezza, le giovani coppie unacasa per andare a vivere insieme invecenon riescono a trovarla, la povertà dila-ga, lo smog ci uccide e nessuno se nepreoccupa. La borghesia si è chiusa neisuoi appartamenti, ha messo il culo nelburro, come si dice qui. Sono una che siindigna dalla mattina alla sera, ma mi so-no accorta che non serve a nulla, nonscuote la gente dall’indifferenza o, forse,dalla rassegnazione. Criticavamo Ro-ma, ora dovremmo andare a lezione diciviltà dai romani. Qui invece abbiamoperso il senso di normalità, ecco perchéspero che il prossimo sindaco sia sem-plicemente una persona normale. Nonmi dispiace Ferrante, l’ho invitato qui dame per un dibattito, deve migliorare mami pare onesto e determinato, pieno d’a-more per Milano. Letizia Moratti, inve-ce, non mi interessa».

Qualcuno ha definito Krizia la signorapiù «cattiva» del prêt-à-porter. Di certonon è una che le cose le manda a dire. Haavuto in passato forti polemiche con laCamera della moda per l’organizzazio-ne delle sfilate a Milano, si è scontratasenza esclusione di colpi con Anne Win-tour, l’erinni di Vogue America, confessache Prodi non è abbastanza passionaleper i suoi gusti ma lo voterà perché il suocuore batte a sinistra e che se Berlusconidiventasse mai presidente della Repub-blica lei si trasferirebbe all’estero, maga-ri in Giamaica dove si sposò, «in una por-tineria d’albergo», con l’imprenditoreAldo Pinto oppure sull’isola caraibica diBarbuda, alcuni chilometri quadrati diparadiso, dove ha costruito un posto dafavola che pochi si possono permettere.

In un libro di Isa Tutino Vercelloni a leidedicato c’è un’immagine che la ritraeassieme a Valentino, Armani, Versace eFerré. Sono al Quirinale, sono giovani esono appena diventati commendatori. Igrandi stilisti sono anche personaggistrani. Credono di essere come gli eroi ei desideri. Si illudono di non invecchiarecon l’età. Non hanno stipulato un pattocon il diavolo, ce l’hanno dentro, il dia-volo, oppure gli scodinzola attorno pertutta la vita come un rimpianto, esiben-do la sua faccia più pericolosa e ingan-nevole: la gioventù. La gioventù delle ra-gazze più belle del mondo sempre po-chissimo vestite e degli adolescenti daitratti efebici o dai muscoli scolpiti sottole canottiere per l’abitudine alla pale-stra. Durante le sfilate per chi sta sotto leluci e attraversa la pedana il tempo sem-bra fermarsi, forse è per questo che, allafine, chi le ha vestite esce abbracciato al-le modelle. Crede di ricevere, assiemeagli applausi, un po’ di quella polvere

biamo passato una deliziosa serata in-sieme da Castel, dove suonava un’or-chestrina di sole donne. Offrì lei, natu-ralmente, perché io a quei tempi mi nu-trivo solo dell’aria di Parigi... Così la mat-tina dopo, per ringraziarla, sono passatoal suo hotel per lasciarle in regalo tuttociò che possedevo: una cartella piena didisegni». Mariuccia se la portò a Milano,qualche giorno dopo chiamò anche lui econ Albini cominciò una lunga e profi-cua collaborazione.

«Poi — dice Krizia — nella lista ci met-to Capucci, Coco Chanel, Dior, Balen-ciaga, Givenchy e Armani». Giorgio Ar-mani e la Mandelli si vogliono bene. Sisomigliano anche un po’. «Crediamotutti e due che la moda non debba esse-re imposta, ma debba piuttosto asse-condare il tempo che viviamo, le esigen-ze e le possibilità delle persone. Dobbia-mo fare vestiti per gli uomini e le donneche vanno in ufficio, a scuola, a fare laspesa, in vacanza in luoghi normali. Nonfaccio alcuna fatica ad ammettere cheBenetton e Zara, per esempio, sono bra-vissimi e producono abiti molto belli.Dobbiamo difendere l’eleganza, questosì, perché l’eleganza è cultura».

Krizia era una bambina ricca, poi è sta-ta una ragazza povera perché la sua fami-glia perse tutti i suoi beni «dal mattino al-la sera», oggi è di nuovo ricca, soprattut-to per merito, lei dice, di tanti mariti chehanno comprato i suoi vestiti per rende-re felici le loro mogli e anche le loro aman-ti. «Al giorno d’oggi possediamo tutto,possediamo troppo. Da piccola i miei ge-nitori mi hanno insegnato il dono dell’of-ferta. La gioia che si prova quando si è ca-paci di pensare agli altri. Dopo ogni Na-tale accantonavamo una parte dei mieigiocattoli e li portavamo ai poveri».

Spesso le vite prendono una certa stra-da per avventura, altre precipitano persventura. La sua cominciò con una bam-bola ed è stata fortunata. «Era quella cheamavo di più. Avevo sette anni e abitavoa Bergamo. Cominciai a fare vestiti perlei, prima di carta, poi di stoffa. Spesso miospitava e mi consigliava la signora Pa-rietti che aveva una sartoria vicino a casanostra. Fu lei, anni dopo, a dire a mia ma-dre: “Non mandi sua figlia all’università,vedrà che diventerà qualcuno nella mo-da”. Io avevo il diploma di maestra, inse-gnavo in una scuola di Cassano d’Adda.Diedi retta all’amica sarta dei miei e an-dai a Milano. Avevo 23 anni, una lam-bretta che vendetti per pagare l’affitto didue camerette in via Pagano, una socia,Flora Dolci, lo sguardo spaurito e nep-pure un fidanzato con i soldi. Entravo neinegozi con il mio campionario sotto ilbraccio e non ho mai capito se mi dava-no retta perché ispiravo simpatia oppu-re mi ascoltavano per pietà».

Viaggiò tanto, soprattutto in treno. Laprovincia, Bari e molto altro Sud, il Samiadi Torino che fu un trampolino di lancio,Firenze dove allestì la prima sfilata veratutta sua e venne premiata come miglio-re esordiente, Milano dove stava soprat-tutto a ammirare i colleghi già famosi,

Parigi grazie all’ospitalità di un paio diamiche ricche che andavano ad accarez-zare l’alta moda. «Volevo, e lo voglio an-cora, vestire soprattutto le donne. Nelcorpo femminile ho sempre visto la li-bertà. In Italia sono stata la prima a dise-gnare la minigonna, in contemporaneacon Mary Quant. Facevo pantaloncinicortissimi per rendere le donne milane-si un po’ meno signore, andavo alla sta-zione centrale per studiare le francesiche giungevano con il treno a Milano ederano così eleganti, così avanti rispetto anoi. Evitavo l’alta moda, mai attuale, mairealistica, sempre troppo costosa, met-tevo nei miei vestiti un po’ di Greta Gar-bo, Magritte, Dalì, l’imperatrice Sissi,Malevic e Depero. Con il trascorrere de-gli anni ho modificato il carattere, sonodiventata aggressiva. E ormai non misfugge nulla. È una disgrazia, questa. So-no malata di perfezionismo, una malat-tia gravissima. Chi lavora con me la devevivere come un tormento». È esigente, èuna rompiscatole. Mi spiega che lo è an-che Armani, uno che la sera, quandoscende il buio, lo si può incontrare in viaManzoni mentre controlla a una a una levetrine dei suoi negozi.

Mariuccia Mandelli è innamorata del-le donne. E come succede nella storia diogni grande amore ha ricevuto in cambioanche qualche delusione. «Una volta ledonne esageravano nel vestirsi e noi ab-biamo insegnato loro a spogliarsi. Oggiesagerano nello svestirsi. Ormai le guar-di in tv e sembrano sempre in mutande.Sono nude fino all’inguine, mi fanno ve-nire il sospetto che abbiano smesso diguardarsi allo specchio. Portare la mini-gonna può essere un segno di libertà, mac’è chi esagera. Non tutte possono per-mettersi di mostrare il sedere». Le chiedoquali sono i cinque capi di abbigliamen-to che non possono mancare nell’arma-dio di una signora. Risponde subito, sen-za esitare: «Il tailleur, il pantalone, la ca-micia, l’abito con le spalline e il golf». Di-ce che nella nostra vita i colori devono es-sere tre: «Il nero, il beige e il bianco. Il piùbello di tutti». E che loro, gli stilisti, oltre aessere strani sono egocentrici: «Abbiamoscelto questo mestiere perché volevamoprima di tutto vestire noi stessi».

Gli eredi? Prestoappariranno nominuovi. Ma attenzione:se siamo ancora quivuol dire che nonabbiamo smarritoil genio. E poi frai giovani ci sonotroppi arroganti

Ha cominciato a sette anni, disegnandoe cucendo i vestiti per la sua bambolaAdesso, che di anni ne ha settantaed è un monumento vivente al Madein Italy, Mariuccia Mandelli è ancora

una donna bella, vivace,curiosa, capace di faredomande da ragazzinatimida. Ma anchedi esprimere giudizitaglienti. Come quello

su Milano, un tempo tanto amata:“Questa città è orribile, sporca,degradata. Criticavamo Roma, che oraci dà lezioni di civiltà. Qui abbiamoperso il senso della normalità”

DARIO CRESTO-DINA

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