D Laomenica “Il diario della mia Germania anno zero”

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DOMENICA 17 APRILE 2005 D omenica La di Repubblica DOMENICA 17 APRILE 2005 D omenica La di Repubblica N ROMA ella casa morta che aspetta un’anima nuova per rivive- re, non c’è più neppure il doppio ritratto del padre in uniforme e della madre che guardarono impotenti il fi- glio morire dal comodino accanto al letto. Qualcuno, tra lesuore,imedici,ildevotoarcivescovoStanislaoDziwiszoJoaquinNa- varro, i pochissimi che erano attorno al letto nel momento dell’addio, li haportativiaquellanottedisabato2aprile,primacheilCamerlengosi- gillasse la porta dell’appartamento del Papa. Pensava certamente a re- liquiari di future cripte, ma si preoccupava che nessun oggetto, nessun indizio, nessun segno personale restassero per ricordare all’uomo che trapochigiorni,forsetrapocheore,dovràtentarediprenderesonnonel letto sul quale per quasi ventisette anni dormì Karol Wojtyla, la verità di questo luogo: che ogni ospite qui è un passeggero, soltanto un inquili- no transitorio nel residence più sublime della storia. L’appartamento del Papa Cattolico al terzo piano del Palazzo Apostolico. Nelle stanze che un uomo riempì del proprio spirito e della propria vita come soltanto un altro Papa, Pio IX, fece in cinquecento anni di esistenza, non si trova quasi più traccia di lui, come fosse una stanza di hotel dopo il passaggio del personale delle pulizie. Visito le stanze che furono, e non sono più, di Giovanni Paolo II, e si preparano ad ac- cogliere un nuovo ospite con la loro serena indifferenza, attraverso lo sguardodiunapersonachetraquelleparetivisseaccantoalPapagior- no per giorno nei quasi 27 anni di pontificato e ora me le illumina nei dettagli più affettuosi. Si rimane sbalorditi e un po’ increduli al pen- siero che il prossimo viaggiatore faticherà a trovare le impronte di chi l’aveva occupata per una intera generazione. In una città delle me- morie assolute e ingombranti come è il Vaticano, dove ogni stipite e ogni capitello portano inciso il ricordo di un Pio, di un Paolo, di un In- nocenzo o di un Benedetto, le sole due scritte che ricordino Wojtyla sono la targa appiccicata per l’insistenza di Navarro-Valls nel 1993 al- la sala stampa e la lastra di marmo bianco sopra la tomba nelle Grot- te, Joannes Paulus P.P. II, 2005. (segue nella pagina successiva) CON UN SERVIZIO DI PAOLO RUMIZ Nella casa del Papa cultura Feltrinelli: così ho scoperto Zivago BARNEY ROSSET spettacoli Risi e Monicelli, le facce della commedia PAOLO D’AGOSTINI la memoria “Il diario della mia Germania anno zero” GERHARD HOFFMANN e ANDREA TARQUINI il racconto Lego, dove nasce il gioco più bello CONCITA DE GREGORIO l’incontro Gae Aulenti: l’arte della semplicità LAURA LAURENZI FOTO ROBERTO CACCURI/CONTRASTO VITTORIO ZUCCONI Abbiamo “visitato” , con chi le ha frequentate, le stanze dove ha vissuto Giovanni Paolo II. E che aspettano il nuovo Pontefice Repubblica Nazionale 23 17/04/2005

Transcript of D Laomenica “Il diario della mia Germania anno zero”

DOMENICA 17 APRILE 2005

DomenicaLa

di RepubblicaDOMENICA 17 APRILE 2005

DomenicaLa

di Repubblica

NROMA

ellacasa morta che aspetta un’anima nuova per rivive-re, non c’è più neppure il doppio ritratto del padre inuniforme e della madre che guardarono impotenti il fi-glio morire dal comodino accanto al letto. Qualcuno, tra

le suore, i medici, il devoto arcivescovo Stanislao Dziwisz o Joaquin Na-varro, i pochissimi che erano attorno al letto nel momento dell’addio, liha portati via quella notte di sabato 2 aprile, prima che il Camerlengo si-gillasse la porta dell’appartamento del Papa. Pensava certamente a re-liquiari di future cripte, ma si preoccupava che nessun oggetto, nessunindizio, nessun segno personale restassero per ricordare all’uomo chetra pochi giorni, forse tra poche ore, dovrà tentare di prendere sonno nelletto sul quale per quasi ventisette anni dormì Karol Wojtyla, la verità diquesto luogo: che ogni ospite qui è un passeggero, soltanto un inquili-no transitorio nel residence più sublime della storia. L’appartamentodel Papa Cattolico al terzo piano del Palazzo Apostolico.

Nelle stanze che un uomo riempì del proprio spirito e della propriavita come soltanto un altro Papa, Pio IX, fece in cinquecento anni diesistenza, non si trova quasi più traccia di lui, come fosse una stanzadi hotel dopo il passaggio del personale delle pulizie. Visito le stanzeche furono, e non sono più, di Giovanni Paolo II, e si preparano ad ac-cogliere un nuovo ospite con la loro serena indifferenza, attraverso losguardo di una persona che tra quelle pareti visse accanto al Papa gior-no per giorno nei quasi 27 anni di pontificato e ora me le illumina neidettagli più affettuosi. Si rimane sbalorditi e un po’ increduli al pen-siero che il prossimo viaggiatore faticherà a trovare le impronte di chil’aveva occupata per una intera generazione. In una città delle me-morie assolute e ingombranti come è il Vaticano, dove ogni stipite eogni capitello portano inciso il ricordo di un Pio, di un Paolo, di un In-nocenzo o di un Benedetto, le sole due scritte che ricordino Wojtylasono la targa appiccicata per l’insistenza di Navarro-Valls nel 1993 al-la sala stampa e la lastra di marmo bianco sopra la tomba nelle Grot-te, Joannes Paulus P.P. II, 2005.

(segue nella pagina successiva)CON UN SERVIZIO DI PAOLO RUMIZ

Nellacasadel

Papa

cultura

Feltrinelli: così ho scoperto ZivagoBARNEY ROSSET

spettacoli

Risi e Monicelli, le facce della commediaPAOLO D’AGOSTINI

la memoria

“Il diario della mia Germania anno zero”GERHARD HOFFMANN e ANDREA TARQUINI

il racconto

Lego, dove nasce il gioco più belloCONCITA DE GREGORIO

l’incontro

Gae Aulenti: l’arte della semplicitàLAURA LAURENZI

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Abbiamo “visitato” , con chile ha frequentate, le stanze doveha vissuto Giovanni Paolo II.

E che aspettano il nuovo Pontefice

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guerra avevo quattordici anni e di por-nografia non sapevo niente».

Oggi in Italia, che tipo di censura esi-ste, se esiste, da parte della Chiesa o delGoverno, e che forma assume? Chi diceche la pubblicazione non è consentita?

«Nessuno. Non c’è alcuna forma dicensura oggi in Italia. Dopo che un libroè stato pubblicato, se il procuratore ge-nerale lo ritiene sovversivo o pornogra-fico, può chiamare l’editore e l’autore arispondere davanti a un tribunale».

Credo che stiamo confondendo unpo’ il significato della parola “censura”.A me sembra che lei consideri censuraqualcosa che accade prima dell’attodella pubblicazione. In altre parole, unlibro o uno scritto che è letto dai funzio-nari prima di essere dato alle stampe edi cui forse si cancellano alcune parti.Secondo me, qui negli Stati Uniti, dopoche un libro è stato pubblicato, se l’au-tore o l’editore o il libraio o l’editore del-la rivista fossero arrestati perché han-no venduto un certo libro o rivista, que-sto sarebbe considerato censura. Co-me si svolgono le cose in Italia, accademai qualcosa del genere dopo la pub-blicazione?

«Lei ha colto il sensodi come intendo la pa-rola “censura”. Ciò cheio considero censuraviene prima della pub-blicazione. In Italia nonaccade niente primadella pubblicazione.Può accadere qualcosadopo la pubblicazione,e per altri motivi. Peresempio, la stampa “disinistra” può essereperseguita perché at-tacca qualcuno, aven-do scoperto che questapersona ha delle attivitào dei traffici più o menoloschi; in questo casopuò accadere che i re-sponsabili siano perse-guiti con l’accusa diaver disturbato l’ordinepubblico. È successospesso che degli autoriimportanti siano statiattaccati con l’accusa dipornografia, ma devodire che di solito i tribunali italiani nonvanno avanti sulla strada del procuratoregenerale, vale a dire di un processo. In tut-ti i casi di cui sono a conoscenza, di auto-ri o di editori che sono stati portati davan-ti ai tribunali dal procuratore generale,questi tribunali hanno deciso contro laposizione del procuratore generale».

E cosa succede se il pubblico ritieneche l’intenzione dell’editore è stata dipubblicare un libro che all’apparenzaha finalità artistiche ma che nella so-stanza è semplice pornografia, unapubblicazione oscena? Cosa accade sel’opinione pubblica arriva a questaconclusione o se il tribunale arriva an-ch’esso a questa conclusione? Confi-scherebbero il libro sulla base dell’u-nanimità di quest’opinione? Lei riter-rebbe ciò la cosa giusta da farsi?

«No, perché la vita è un continuo svi-luppo. Le forze affermate oggi potrebbe-ro essere scavalcate da altre forze doma-ni. Voglio dire che la maggioranza nondovrebbe mai ignorare la possibilità chela minoranza diventi la maggioranza».

Un momento fa, tuttavia, mi è sem-brato di capire che lei ritenga che dopola pubblicazione di un’opera, il pubbli-co, tramite le varie forme di dibattitopubblico costruirebbe una propria opi-nione su un libro o su una rivista arri-vando più o meno alla soluzione corret-ta. Ora, consideriamo qualcuno che, inquesto secolo, come me, sta per pubbli-care L’amante di Lady Chatterly. Que-sto libro è stato proibito in questo pae-se da subito, fin da quando è stato pub-blicato inizialmente in Italia, nel 1928,credo. A ogni tentativo di pubblicarlo inquesto paese è stato dichiarato oscenoda varie autorità. Che devo pensare?Sto pubblicando un libro osceno inquanto tale, se mi baso sulle decisionigiudiziarie prese precedentemente? Odevo lasciarmi guidare dal mio giudiziopersonale che mi dice che si tratta di unlibro che voglio offrire ai lettori?

«Penso che lei abbiaragione quando deci-de di seguire il suo giu-dizio personale. Leesperienze degli uo-mini e delle donne so-no esperienze di esse-ri umani, e io non vedoperché non si dovreb-be scrivere sulle lorovite intime, sulle lorovite amorose, sulle lo-ro vite sessuali. Sonotutte questioni estre-mamente controver-se. Nessuno ha una ri-sposta definitiva. Noncredo che ci sia una ri-sposta definitiva aqueste questioni».

Un’ultima doman-da. Penso che in lineagenerale siamo en-trambi d’accordo chela censura sia una co-sa negativa. Lei puòpensare che ci sianodelle circostanze incui occorra appellarsi

alla censura. Io non credo che ci sianotali circostanze. Quale pensa sia il mo-do migliore, oppure, ci sono oggi delleistanze nella società fondamentali peruna stampa libera?

«Non so se ho una risposta da darle. Di-rei che la libertà, il parlamento, il governodecentralizzato, e la decentralizzazionedelle responsabilità, la possibilità per lepersone di riunirsi, di parlare, di discute-re, di pubblicare le loro parole, costitui-scano l’unica strada vera contro la cen-sura. La censura è in molti casi la lotta del-le forze nuove contro le vecchie. Accadein continuazione. È una lotta quotidianache esisterà sempre e che deve essereportata avanti con tutte l’energia possi-bile. È un problema ancora irrisolto deipaesi moderni e avanzati».

(traduzione di Guiomar Parada)

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 17 APRILE 2005

STORIA DI UN EDITOREGiangiacomo Feltrinelli (1926-1972) fondò la casaeditrice nel 1955 in poche stanze e con pochissimopersonale. Figlio di industriali, entrò nel Pcigiovanissimo, ma ne uscì nel ’57. Nel ’57 pubblicò “Ildottor Zivago” di Pasternak; l’anno dopo fu la voltadel “Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa. Vicinaalle rivoluzioni terzomondiste e, in letteratura, alleavanguardie, la Feltrinelli ebbe presto un profiloinconfondibile. L’editore morì nel ’72 a soli 46 annimentre tentava di far saltare un traliccio a Segrate

VINTAGE, COLLANA-AMARCORDSono già usciti “Cent’anni di solitudine” diMárquez e il “Diario del Che in Bolivia”: duebestseller storici della casa editrice milanese. Maper festeggiare i cinquant’anni altri antichi titolisono in arrivo: “Altri libertini” di Pier VittorioTondelli e “Storie di ordinaria follia” di Bukowski (5maggio) e ancora “Homo faber” di Max Frisch e“L’amante” di Marguerite Duras (9 giugno). A lugliousciranno invece “Sotto il vulcano” di Lowry e“Tropico del cancro” di Miller; a settembre “IlGattopardo” e “Zivago”

dell’avviso che per avere una società li-bera, o una replica ragionevole di unatale società, occorra assumersi una se-rie di rischi. Uno di questi è la completalibertà di espressione.

«Sono abbastanza d’accordo. In ef-fetti, mi lasci dire che io non concepiscoun paese dove esista la censura. Ciò cheho detto e ribadito è che, dopo l’uscita,se questa pubblicazione oltrepassacerti limiti (e certamente è sempre mol-to difficile decidere quali siano questi

limiti, lo so bene), allora il responsabiledovrebbe essere perseguito. In una so-cietà libera ci sono sempre le personeirresponsabili che vogliono approfit-tarne e oltrepassare i limiti. Io dico:niente censura, ma dopo la pubblica-zione se ne deve discutere».

C’è sempre stata una qualche forma dicensura, in tutte le società. Da ragazzocresciuto sotto il regime mussoliniano inItalia, quale era la censura in quegli anni?

«Veramente ero troppo giovane per

saperne qualcosa. Sapevo sì che si cen-suravano le notizie, la politica, i libri e laletteratura, e qualsiasi espressione chepotesse essere considerata critica dellostato fascista».

Questo è certamente qualcosa che sisarebbe potuto aspettare. Sono curiosoinvece di sapere quali erano le leggi ol’atteggiamento in quel periodo rispet-to alla pubblicazione di materiali chepotevano essere considerati osceni.

«Non saprei dirle. Quando scoppiò la

‘‘GiangiacomoFeltrinelli

Per me è unaquestione di qualità:

non credo chel’arte letterariapossa essere

giudicatarigidamente conschemi politici

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PALLAVOLO CON FIDELGiangiacomo Feltrinelli in una singolare fotoscattata con Fidel Castro. Sul tetto della sua casaall’Havana il dittatore cubano aveva fatto ricavareuna piccola palestra dove si divertiva a giocare apallavolo con gli amici, tra cui il giovaneeditore italiano

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«CROMA

aro Mario», «caroDino». A novant’an-ni (il 15 maggio) Mo-nicelli, a ottantotto

Risi, i due attaccano a scambiarsi scherzivelenosi su rispettivi acciacchi ed età, a ga-reggiare con finta modestia su chi ha avu-to più successo con le donne. Risi in jeans,l’altro in pullover verde sgargiante. Caz-zeggiano a tutto andare e non c’è verso diiniziare l’intervista. Ciascuno dei due neha date centinaia, ma mai una insieme.Per onorare il maestoso compleanno diMonicelli abbiamo proposto loro que-st’incontro: un dialogo tra i due maestridella commedia all’italiana. Iniziato spa-valdamente e concluso con parole malin-coniche e un abbraccio commosso.

Monicelli. «Mi fa piacere che non staibene».

Risi. «Come ti fa piacere?».Monicelli. «Il mio problema è di non

morire insieme a un altro. Mi si cancelle-rebbe la visibilità».

Risi. «Quindi è meglio se muoio pri-ma di te».

Monicelli. «L’importante è che moria-mo separatamente. Basta che non misucceda come a Ranieri. Ma il giornalista,qui, vuole parlare di cinema».

È prassi consolidata considerarvi pa-renti stretti. Di identificare nei vostri filmil cuore della commedia italiana.

Monicelli. «Non vorrei essere confuso».Allora cominciamo dalle differenze.

Una eccola: Risi è per definizione il can-tore dell’Italia del boom, delle spiagge,delle canzonette, dell’euforia consumi-sta. Monicelli non è identificabile conuna stagione.

Monicelli. «Risi è un libertino».Risi. «Un po’ sì. Ma anche tu non

scherzi».Monicelli. «Sei tu quello á la page, che

frequenta. Non hai sentito il giornalista? Ituoi film questo raccontano».

Risi. «Sono un solitario, non vado danessuna parte. Il mio motto è evitare».

Monicelli. «I tuoi erano film pieni digioventù. I miei pieni di poveracci».

Risi. «A Roma c’è un ristorante che èun ritrovo di cinematografari. Una voltache è andato a uno di questi raduni Ma-rio ha detto: non ci vado più, troppi vec-chi. E avevano tutti dieci o vent’anni me-no di lui».

Non vi siete mai sentiti rivali?Monicelli. «No perché andava bene a

tutti. Il lavoro era tanto che bisognava ri-fiutarlo, avevamo tutti successo, il pub-blico ci premiava».

Risi. «Poi c’erano dei bei gruppi di lavo-ro, stare insieme era piacevole, eravamouna famiglia».

Mai provata invidia per i colleghi chegodevano di maggior considerazioneartistica?

Monicelli. «Antonioni? Io avevo il pub-blico e la critica mi considerava trash, luiera amato dalla critica ma non aveva il

Il regista de “I soliti ignoti” compie novant’anni,l’autore de “Il sorpasso” ne ha già ottantotto.Non hanno perso la voglia di divertire e divertirsi,

prendendosi anche in giro. Per la prima volta hanno accettato di farsiintervistare insieme e di raccontare, fra battute fulminanti e amarcord,come è nato il più popolare genere del cinema italiano

pubblico. Eravamo abituati, la critica par-lava male dei film miei e di Dino e io mi eroconvinto che avesse ragione».

A Sordi avete dato occasioni memora-bili. Quali sono state le sue prove più belle?

Monicelli. «Una vita difficile di Dino,l’ho sempre detto. Più che un merito unafortuna, se vuoi che dica una cattiveria».

La domanda è antica ma non avetemai risposto insieme: di che cosa è fattauna commedia all’italiana?

Monicelli. «Viene da lontanissimo:Boccaccio».

Risi. «Plauto».Monicelli. «Turpitudine, cinismo. La

Mandragola. La commedia dell’arte, ar-rangiarsi, sopravvivere a miseria e fame,ai padroni».

Non è stata soltanto un genere. Unmodo di essere, di pensare. Un clima,

uno stato d’animo.Monicelli. «Una stagione. Anche quan-

do stavamo tra noi, scherzavamo, ci pas-savamo le battute e perfino i soggetti l’unl’altro, vivevamo dentro la commedia».

In che misura avete inventato voi equanto era sotto i vostri occhi?

Monicelli. «Era tutto nella società. Ri-cordate quello dei frigoriferi, Borghi, pernoi diventò il prototipo dell’industrialelombardo un po’ volgare».

Risi. «Tutto è cominciato con il frigori-fero e la Lambretta».

La diffidenza critica, e da parte del ci-nema cosiddetto serio.

Risi. «I critici per noi erano degli stron-zi. Pensare che poi gli stessi, dopovent’anni, ti chiamano maestro».

Monicelli. «Io mi arrabbiavo quandoscrivevano che i film non facevano ridere.Erano loro che non sapevano ridere».

Ora siete ampiamente celebrati.Monicelli. «Anche troppo».La consacrazione vi ha tolto una certa

spensierata irresponsabilità? Era proprioil sospetto di superficialità e disimpegnoa rendervi incisivi? Da quando siete statipresi sul serio avete perso qualcosa?

Monicelli. «Non c’è dubbio, per me».Risi. «Invecchiando io ho sentito che la

mia vita diventava più seria. Attratta dafilm che non fossero più solo di diverti-mento, vacanze, belle ragazze».

Monicelli. «Io no. Avrei continuato conTotò all’infinito».

La Grande Guerra o Una vita difficilecomunicavano un messaggio che erapiù avanti di quello che si diceva a scuo-la o alla tv o sui giornali.

Monicelli. «Ma La Grande Guerra pre-se un sacco di botte. Anche Il sorpasso fuliquidato come una commediola».

Risi. «Il produttore Cecchi Gori non vo-leva che finisse in tragedia».

Monicelli. «Era la battaglia che doveva-mo combattere sempre. Difendere ilprincipio che la commedia italiana non èa lieto fine».

I vizi italiani che voi rappresentavatevenivano sovrapposti al giudizio su divoi, accusati di essere complici.

Risi. «Un po’ è vero».Monicelli. «Un po’ di compiacimento

ma identificarsi no. Tante domande nonce le ponevamo».

Risi. «Ci sono registi che inseguono ilcapolavoro. Noi eravamo artigiani,mestieranti. Ci piaceva una cosa, la fa-cevamo».

Monicelli. «Poi i significati uno ce li ave-va dentro, senza bisogno di fare film a tesi».

Ma erano più presenti che nei film a te-si. Questo pensate?

Risi. «Alla fine dell’anteprima del Sor-passo, con le mogli impellicciate dei fun-zionari, ci fu un gelo totale».

Oggi si rivendica che la commedia al-l’italiana era di sinistra. Ma se Monicelliportò I compagni al congresso del Psi diNenni, Risi si è sempre dichiarato nonpoliticizzato.

Risi. «Non mi è mai fregato niente diessere di destra o di sinistra, ma rac-contavo cose che avevano dentro uncuore politico. E non si spiega perchénessuno abbia fatto un film su Berlu-sconi o Bossi. I giovani raccontano i lo-ro tormenti privati mentre il mondoproduce mostri. Qualsiasi film intelli-gente è politico, se parla non a diecipersone ma a centomila».

Oggi prevale un’idea di voi non dicobonaria perché non avete mai smesso diessere provocatori, ma insomma sietedue patriarchi.

Risi. «Come?»Monicelli. «Dice che sei un patriarca».Ma nei vostri film avete messo molta

cattiveria. Siete cattivi?Monicelli. «La commedia all’italiana co-

s’è? Argomenti drammatici visti attraversola commedia. Per trovare il comico neldrammatico non puoi che essere cattivo».

Risi. «Chi più cattivo di Chaplin?».Monicelli. «Il vero comico è spietato.

L’umorismo non ha pietà».Tratto comune è il cinismo (vero o ap-

parente?): sminuire, smitizzare tutto.Siete stati severi verso voi stessi, iperau-tocritici.

Risi. «Per pudore».Monicelli. «Siamo stati educati così. Se

usciva un film di De Santis era un trionfodi discussioni, interventi di pezzi grossidel partito. Noi non siamo abituati allaconsiderazione di sé».

36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 17 APRILE 2005

PAOLO D’AGOSTINI

Monicelli1949“Totò cerca casa”racconta levicissitudini di unosfollato

1951“Guardie e ladri”vede Totòconfrontarsi conAldo Fabrizi

1958“I soliti ignoti” è lastorica pellicolacon Mastroianni,Gassman e Totò

1959“La grande guerra”è ambientato nel1916, con Sordie Gassman

1965“L’armataBrancaleone” haGassman comegrande mattatore

1975“Amici miei”, conTognazzi, è ilprimo film di unfortunato ciclo

“Noi, ragazzacci della commedia”

Risi&

GLI ATTORI

Vittorio Gassman eAlberto Sordi (nella fotoa sinistra nel film diMonicelli “La Grandeguerra”) sono stati fra gliattori più amati evalorizzati dai due registi

“Caro Mario, io saròun po’ libertinoma tu non scherzi.Sei sempre in giro”.“Caro Dino, ma chedici? Guarda i film.I tuoi pieni di gioventù,i miei di poveracci”

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I registi più giovani sono alla vostraaltezza?

Risi. «Che parolone. Ci sono ragazziche valgono».

Monicelli. «Ce ne sono di qualità. Mar-ra, Costanzo, Sorrentino».

Estranei al vostro modello. Ce ne sonoaltri che si ispirano a voi.

Monicelli. «Cui però manca l’animanata da una dittatura e da una guerra per-duta e dalle macerie».

Vengono dalla pace e dal benessere,non è una colpa.

Monicelli. «Già. C’era la famosa battu-ta: non possiamo mica perdere una guer-ra per far fare un bel film a Rossellini».

Venite da famiglie borghesi, intellet-tuali, antifasciste.

Risi. «Mio padre è morto quando ave-vo dodici anni. Era medico della Scala. Ho

visto Toscanini mentre si cambiava la ca-micia tra un atto e l’altro, Toti Dal Montemi ha preso in braccio. La domenica arri-vava a casa con il pacchetto delle paste edera una festa».

Monicelli. «Mio padre è stato cacciatodal fascismo da direttore del Resto delCarlino, vent’anni senza poter lavorare,quando è tornata la libertà il crollo delle il-lusioni è stato tale che si è suicidato».

Risi. «Mio padre era stato compagnod’armi di Mussolini. C’è una foto dove,capitano medico elegante, è accanto a unuomo con le mani in saccoccia e l’elmet-to sulle ventitré con la faccia da mascal-zone. È Mussolini».

Avete raccontato la guerra. Come èstata la vostra?

Monicelli. «Chiamato nel ’40 in ca-valleria, mi hanno mandato in Jugosla-

via. Poi a Napoli dovevo essere imbar-cato per la Libia ma è arrivato prima l’8settembre, mi sono messo un vestitoborghese, sono uscito dalla caserma enon mi hanno più visto».

Risi. «Ero al corso allievi ufficiali, dove-vo partire per la Russia ma ho beccatoun’epatite che mi ha salvato. I miei com-pagni sono partiti in duecento e sono tor-nati in cinquanta. L’8 settembre con miofratello, Giorgio Strehler e altri siamo en-trati in Svizzera e ci siamo rimasti fino al-la Liberazione».

Un pensiero sui vostri compagni distrada?

«Monicelli. «Con Steno ho vissuto ilmomento più felice della mia carriera, ifilm di Totò. Di Germi sono stato amicoanche se non era facile: fu lui ormai mala-to a chiedermi di dirigere Amici miei».

Sui titoli c’è scritto “un film di PietroGermi”.

Monicelli. «Certo, era suo».Risi. «I primi due produttori della mia

carriera. L’avvocato Martello, che guida-va come un pazzo, un giorno mi trascinòa Varese, poi a Lugano per comprare le

sigarette, poi a pranzo allacorte del principe del Lie-chtenstein, dove si pre-sentò come giornalistamostrando la tessera deitram di Milano: diventò l’i-spiratore del Sorpasso. E ilcommendator Mambrettiche si rifiutò di fare Paneamore e fantasiaperché se-condo lui offendeva l’Ar-ma. Ancora una parola perdue “ragazzi” della nostraetà: uno condannato in unletto dal Parkinson, Co-mencini. L’altro, Lattuada,sono andato a trovarlo enon mi ha riconosciuto.Che siano festeggiati an-che loro».

Vi sono piaciute le vostre vite?Risi. «Nel cinema non ho mai sentito

nessuno scontento. È o almeno eraun’avventura, una vacanza».

Monicelli. «Anche quando va male, fi-gurati quando va bene: sono andato in gi-ro dappertutto a spese altrui, ho cono-sciuto gente importante, fino a 90 anni.Che vuoi di più?».

Risi. «Lasciami ricordare anche un’al-tra faccia. Gassman, l’ultima volta che èvenuto qui da me, si è affacciato alla fine-stra e ha visto l’aquila lì nella gabbia (Risiabita di fronte allo zoo, ndr). Ha detto:quell’aquila sono io. L’ultima cosa cheabbiamo fatto insieme era una pubblicitàdi trenta secondi e Vittorio non riusciva aricordare l’unica battuta. Alla fine, comeun debuttante, mi è venuto vicino e sotto-voce mi ha chiesto: come sono andato?».

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 17 APRILE 2005

IL COMPLEANNOI novanta anni di Mario Monicelli

saranno celebrati con un libro-intervista,“La commedia umana” di Sebastiano

Mondadori (Il Saggiatore) e un festival,“Europa cinema” che si terrà nella sua

Viareggio dal 26 aprile al 1 maggio.Roma gli farà gli auguri il 10 maggio alle

18,30 all’Auditorium. Monicelli sta pergirare un film tratto dal romanzo di

Mario Tobino “Il deserto della Libia”.Venti anni fa Risi fece la stessa cosa, il

film era “Scemo di guerra”

1977In “Un borghesepiccolo piccolo”,c’è Sordi in unruolo drammatico

1981“Il marchese delGrillo” vede Sordinei panni di unnobile burlone

1986“Speriamo che siafemmina” mettetre generazioni didonne a confronto

Mario Monicelli (a de-stra nella foto sotto) na-sce il 15 maggio 1915 aViareggio. Inauguracon “I soliti ignoti”(1958) la stagione dellavera commedia all’ita-liana. Con “La Grandeguerra” Monicelli vinceil Leone d’oro a Vene-zia. Ottiene enormi suc-cessi anche con “L’ar-mata Brancaleone” e“Amici miei”.

i protagonisti

Dino Risi (a sinistra nel-la foto sopra) nasce il 23dicembre 1916 a Mila-no. Il primo successo è“Poveri ma belli”. Diri-ge Sordi in “Una vita dif-ficile”. Con “Il sorpas-so” e “I mostri” raccon-ta il boom. Poi prevale lamalinconia, come in“Profumo di donna”

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MARIO MONICELLI

Massimo Gatti

tracce di presenza umana

“Sfoglio il libro di Gatti.

Mi innamoro della

Tuffatrice Misteriosa.

L’immagine è poesia scritta

con camera da pochi euro.

Esistono poeti fotografi,

reporter di attimi e sogni.

Gatti è dei loro.”

“Le foto di Gatti sono

un racconto di umanità,

di vita, e dunque

di sogni, di ansie,

di illusioni...

il senso della voce

che rompe la solitudine,

suggerita da immagini

inquiete che sanno

di edward hopper.”

“con la sua “camera”

da turista a tracolla,

Gatti è reporter,

è registratore

è commentatore cui

non importa quasi niente

di gondole o colossei,

molto, però, della vita.”

“Massimo, sei una felice

e bella eccezione,

non ti fai accecare

dalla macchina

fotografica. Tu metti

gli occhi e il cuore

davanti e non dietro

l’obbiettivo.”

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 17 APRILE 2005

Se le lacrime non ci fossero, ve-dremmo un altro mondo. Lo ve-dremmo pieno di lacune, segnatoda strane diffrazioni, infine nonriusciremmo più a muovere gliocchi e perderemmo la vista. Le

lacrime dunque sono molto importanti: unamembrana liquida che ci protegge dal mon-do e al tempo stesso ci consente di acceder-vi. Ma queste sono solo un tipo di lacrime, lebasali, che ci sono anche quando non pian-giamo. E quando le lacrime sgorgano perchéci commuoviamo?

Diventa tutta un’altra storia che viene damolto lontano (Ippocrate), passa per Freud(«solo gli esseri umani piangono»), arriva al-la chimica delle lacrime. Il contenuto dellelacrime basali differisce profondamente daquello delle lacrime emozionali che a lorovolta differiscono delle lacrime indotte, la-crime provocate da un moscerino che entranell’occhio o da una cipolla tagliata. Ci sonocirca 130 sostanze contenute nelle lacrime,che risultano diverse per concentrazione disostanze chimiche, ormoni e proteine, mu-cina e oli, proteine dotate di proprietà anti-batteriche, immunoglobuline, glucosio,urea e diversi sali. Le emozionali contengo-no più proteine e potassio. Perché? Non losappiamo. Ma sappiamo — lo scoprì loscienziato americano William Frey negli an-ni ‘70 — che contengono anche il 30 per cen-to di manganese in più rispetto al sangue e

la scienzaEmozioni in provetta

Perché l’uomo, unico tra gli esseri viventi, piange?Una domanda spontanea in queste settimanedi commozione planetaria. E si scopre che ci sono tre tipidi pianto, chimicamente molto differenti tra loroma tutti indispensabili per conservare o recuperarela nostra salute fisica e psicologica

Anatomia di una lacrimaEMILIO PIERVINCENZI

Non ci commuoviamo per le stesse cose, l’emozione che porta alle lacrime è un percorso solitario

Il nostro pianto è un’impronta digitale

Le lacrime sono come le impronte digitali. Ognuno di noi ha il suoreticolo di pianto, inconfondibile come la vita individuale, uni-co come le cause e gli effetti che ci scompigliano l’animo. I gran-

di viaggiatori dicono spesso che ovunque, nella Terra, si piange e si ri-de per le stesse cose fondamentali, a dispetto della cultura e dell’et-nos. È una considerazione accattivante e probabilmente vera, e suf-fraga il nostro spontaneo umanesimo, e cosmopolitismo. Ma smettedi essere vera quando poi si passa all’io profondo, che ama (o è con-dannato a) essere differente e solo: e in fondo ciascuno è geloso delsuo pianto, e non vorrebbe confonderlo né diffonderlo troppo oltre iconfini del privato, e del pudore.

È anche per questo che certi cordogli unanimi e collettivi (ne abbiamoappena vissuto uno, incontenibile e quasi devastante nella sua ripetiti-va formulazione del lutto) alla fin fine allontanano dal pianto, per il ti-more che si inflazioni e svaluti, che si annacqui il sale prezioso delle la-crime: e costringono a ripiegare su se stessi, a riprendere certe distanze.

Perché un conto è il pianto della debolezza e della paura, il piantobambino di quando siamo in fondo al dolore o all’impotenza, il piantoche chiama la madre, e ci accompagna anche ben oltre l’emancipazio-ne da lei, per tutta la vita, quando certe durezze ricacciano nello statoindifeso della prima infanzia: quello sì, è un pianto quasi identico pertutti, è un impulso basico come la fame e la sete. Ben altro conto è l’al-tro pianto, quello adulto, quello che scaturisce dall’esperienza, dallacultura, dalla sensibilità, dal carattere, dalle convinzioni profonde chevia via ci siamo guadagnati: quello è solamente nostro, di ciascuno dinoi. Ci sono film e canzoni che commuovono alcuni e lasciano del tut-to indifferenti altri. Ci sono parole, discorsi che a volte trapassano lascorza della compostezza, e altre volte ricevono un’alzata di spalle.

Questo secondo pianto, il pianto degli adulti, il pianto quasi con-senziente che lasciamo scaturire quando la vita ci tocca non solo lapancia, ma pure il cervello, dobbiamo tenercelo da conto, perché ci de-finisce (insieme al riso) come poche altre cose. Se si prova a confronta-re con amici e persone care quantità e qualità delle rispettive lacrime,

si possono misurare molte delle vicinanze e delle distanze che leganoo dividono. Quasi non concepisco, per esempio, che si possa rimane-re a ciglio asciutto davanti a certi film (vi dico solo alcuni dei miei, i pri-mi che mi vengono in mente: quasi tutto Colazione da Tiffany, le sce-ne finali di Truman Show e L’attimo fuggente, poi Miracolo a Milanoche mi fa addirittura singhiozzare fin dai titoli di testa, Chaplin quasitutto, e Kapo quando i russi liberano il campo, e Toto l’eroe quando al-la bimba riappare il padre morto che suona Charles Trenet al pia-noforte…), o ascoltando Edith Piaf (tutta!), o la voce di De André, o I tre-ni per Reggio Calabria di Giovanna Marini o Santa Lucia di De Grego-ri, La sera dei miracoli di Lucio Dalla, Se ghe pensu, Douce France,Blowing in the Winde Mister Tambourine Man, Ives Montand che qua-lunque cosa canti canta il dopoguerra e dunque la giovinezza di miamadre e mio padre, Moon River, qualche Modugno, qualche Vasco,molto Puccini anche il più pucciniano, arie di Verdi fino a che gli “zum-pa-pa” non le sommergono, canzonette sparse anche futilmente ro-mantiche anche da Festivalbar, poi la Marsigliese e l’Internazionale, oleggendo Emily Dickinson e William Blake e Rilke e Auden quando lapoesia è così misteriosamente precisa da lasciarti secco…

La lista è così lunga, per ciascuno di noi, che questo era solo un ab-bozzo, tanto per rompere il ghiaccio. Mi commuovo spesso, che vole-te. Ma i pochi esempi fatti bastano per rendere evidente, anche a mestesso, quanto il tracciato della commozione degli adulti sia condizio-nato dai gusti, dalle idee politiche, dagli eventi storici: dubito, ad esem-pio, che I treni per Reggio Calabria facciano piangere più di sette-ottopersone al mondo, ma sono sicuro che se ci incontrassimo, tutti e set-te-otto, avremmo probabilmente parecchie cose da dirci. Almeno finoa che uno di noi avesse la cattiva idea di passare oltre, e magari aggiun-gere che lo commuovono assai anche altre cose che a me paiono solomelense, e allora i tracciati delle lacrime si separano di nuovo, comequelli della vita. Commuoversi, muoversi insieme, è del resto un privi-legio raro, un affratellamento da non sciupare troppo a buon mercato.

Ah, dimenticavo: Furoredi John Ford. Tutto.

La formula

Nelle lacrimesono state

scoperte finora130 sostanze,

che sidifferenziano

a secondadella tipologia

Le donne

Ricerchee statistiche

hannoconfermato

che piangonotre volte

più spessodegli uomini

I neonati

Non versanolacrimeemotive

né riflesse:il loro pianto

è costituitosolo di

secrezioni basali

Gli animali

Gli studi piùrecenti sulle loro

reazionifisiche ed

emotive hannodimostrato che

non possonoversare lacrime

Le emotive

Dette anchepsicologiche,dipendonoda stati emotivi:contengonopiù proteine,potassioe manganese

Le tipologie

Ippocrate nedistingueva tretipi: d’amore,di vittoria,di dolore. Perla scienza sonobasali, riflesseed emotive

Le basali

Sono le lacrimeche lubrificanogli occhie consistononella pellicolapermanentee umidache li ricopre

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Le riflesse

Sgorganocome reazionea un fenomenoesterno,per esempioquandosi sbuccianole cipolle

MICHELE SERRA

che il manganese si ritrova in abbondanzanel cervello dei depressi. Ecco allora una pri-ma conclusione: forse il pianto allevia la de-pressione visto che le lacrime espellono ilmanganese in eccesso.

Proseguiamo l’analisi. In una lacrimaemozionale troviamo un ormone indicatoredello stress, l’ormone adrenocorticotropo, ela prolattina, ormone responsabile della pro-duzione del latte, in quantità nettamente su-periore a quella delle lacrime indotte. Le don-ne hanno più prolattina e maggiore è la quan-tità di prolattina in una donna più questa èansiosa e aggressiva, o depressa. Conclusio-ne di Frey: la differenza di produzione di pro-lattina si spiega perché le donne piangonopiù degli uomini (il massimo studioso dellalacrima, lo spagnolo Juan Murube del Castel-lo: «Gli uomini piangono tre volte in menodelle donne») e dunque una delle funzioni delpianto è l’eliminazione della prolattina in ec-cesso per combattere la depressione. Con ilpassare degli anni si piange sempre meno: a65 anni l’organismo produce il 65 per centodelle lacrime di cui era originariamente ca-pace, a 80 anni il 30 per cento.

Cosa fa sgorgare una lacrima emoziona-le? Tutto dipende dal cervello, più esatta-mente dal sistema limbico (l’insieme di si-stemi cerebrali attivati durante le esperien-ze emotive), dal sistema endocrino e i suoiormoni. È questa miscela che ci fa piangeredi gioia o di dolore. Un fenomeno di cui gliesseri umani hanno l’esclusiva. Gli anima-li, infatti, non piangono.

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i saporiGusti esotici

I nostri chef riscoprono gli aromi di un tempo, grazieanche alla contaminazione con le ricette etniche.E così la buona tavola celebra l’arte di impreziosirei cibi e i liquori, cercando l’equilibrio perfettotra gli ingredienti della tradizione e le essenzeprovenienti da terre lontane

SpezieDall’assenzio allo zenzerotorna l’alfabeto degli odori

ZenzeroIl fusto sotterraneo èusato in cucina e infitoterapia. I giapponesilo abbinano al pescecrudo per le virtù diantisettico intestinale

Potete immaginare un film che odora di spe-zie? Vedere Un tocco di zenzero per credere.Mentre il bambino Fanis, circondato datrecce d’aglio e collane di peperoncini,ascolta il nonno raccontare che il pepe è cal-do e scotta come il sole, «infatti illumina tut-

te le cose, proprio come il pepe che va su tutti i cibi», lamagìa è lì, a portata di naso: basta chiudere gliocchi per sentire aleggiare il meravigliosoafrore del mercato di Istanbul.

Potere delle spezie. Che solo apparente-mente abbiamo acquisito negli ultimi anni,aprendo cuore e padelle alle cucinedel mondo. In realtà la cultura degliodori golosi ci appartiene da millen-ni, molto prima che la cucina rina-scimentale, dalla selvaggina ai panpepati, li celebrasse nelle sue ricet-te più sontuose.

Certo, non possiamo competerecon le carovane che quattromila anniprima di Cristo percorrevano distan-ze infinite per portare i loro preziosicarichi dalla Cina all’Africa. Ma se èvero che già Apicio aveva sdoganatole spezie dall’armadio dei rimedi pertrasferirle in cucina, i venti secoli se-guenti sono stati un crescendo rossi-niano di commistioni tra carni, verdu-re, pani e le polveri magiche arrivatedal lontano Oriente.

A far crescere la cultura delle spezie(dal latino species, merce speciale), l’abilità, leconoscenze — grazie agli scambi tra i cuochidelle più prestigiose corti europee — e un piz-zico di leggenda, come per la nascita del risotto allo zaffe-rano, attribuita a un garzone del maestro Valerio diProfondavalle, durante la decorazione del Duomo, ametà ‘500: una pentola di riso in cottura, il sacchetto del-lo zafferano usato per dorare le vetrate improvvisamen-te a terra, il colore che si spande per lo studio, accenden-do di un giallo intenso e profumato il pasto dei pittori.

Ci sono voluti altri trecento anni, prima che i libri di ga-stronomia cominciassero a contemplare l’uso delle er-be aromatiche, una sorta di alter ego mediterraneo del-le spezie: basilico, prezzemolo e affinihanno finito per diventarci così familiari,e tale è l’abitudine a usarli nei nostri piat-ti, che quasi fatichiamo a considerarli deitocchi in più.

Del resto, il punto non è sostituire, sot-trarre, affiancare, ma equilibrare i sapo-ri, impreziosendoli. Da questo punto divista, la cucina etnica ha un approcciodiverso: così, quello che noi chiamiamo,sbagliando, pollo al curry, nella dizionecorretta (e originale) è un curry di pollo.A essere in primo piano, infatti, non è lacarne, ma la miscela di spezie (una deci-na, con formule diverse a seconda dellaprovenienza e della ricetta tramandata),arrivata in Europa attraverso le colonieinglesi e diventata un vero passepartoutdella gastronomia internazionale.

Siamo bravissimi, in compenso, nell’a-romatizzazione dei liquori. La nostra ver-sione del maledetto (e ora riabilitato) As-senzio si chiama Vermut ed è un’inven-zione piemontese datata metà ‘700, otte-nuta da Antonio Carpano aggiungendo alvino bianco zucchero di canna e la cosid-detta “concia”, un assemblaggio ricco esegretissimo di erbe e spezie, prima fratutte proprio l’Artemisia Absinthium (intedesco, vermuth).

Più che la salute, poté la moda. Il Ver-mut ha smarrito il suo fascino solitariocon l’irrompere sulla scena alcolica deicocktail (ora è usato quasi esclusivamen-te come ingrediente). Ma la passione perle spezie non è tramontata. Al contrario,l’arrivo sulle nostre tavole dei sapori delmondo porta ciclicamente alla ribalta ungusto nuovo e irresistibile. Ultimo, in or-dine cronologico, lo zenzero (ginger), ov-vero il rizoma della pianta giapponeseche viene abbinato al pesce crudo per lesue doti di antisettico intestinale. In unattimo è stato tramutato in gelato, prali-na, puré, giù giù fino al distillato “Zen 0”(zero scritto in numero), presentato lascorsa settimana al Vinitaly. Tutti da gustare e godere.Nella speranza che il surrogato chimico (come la va-nillina per la vaniglia) arrivi il più tardi più possibile.

PeperoncinoUsato già da Maja eAztechi (anche peraromatizzare la primacioccolata), è arrivato inEuropa dopo Colombo.Ha proprietà digestive

Anice stellatoÈ un albero originariodella Cina. I frutti sonousati nelle misture cinesie nel curry indiano.Si masticava perprofumare l’alito

Noce moscataColtivata nel Sud-estasiatico, se ne utilizzanola mandorla internae la guiana (macis).Aromatizza dolci, salse,ripieni, cocktail

CrenNoto anche come“barbaforte”, è la radicedi una pianta dellafamiglia del rafano. Digusto piccante, è unottimo digestivo

LICIA GRANELLO

L’aumento deiconsumi in un anno

+6%

In un papiro si parladell’assenzio

1600 a.C.

Il valore del mercatodelle spezie in Italia

95 mln

La cannellaarriva dall’Egitto

4000 a.C.

Un bicchiere di assenzio:non c'è niente di più

poetico al mondo. Che differenza c'è fra

un bicchiere di assenzioe un tramonto? Il primo

stadio è quello del bevitorenormale, il secondo quelloin cui cominciate a vederecose mostruose e crudeli; e [...] al terzo livello: cose

strane e meraviglioseOSCAR WILDE

La formaggeria si presenta a Palomar

come un’enciclopedia a un autodidatta; potrebbememorizzare tutti i nomi[...], uva passa, pepe, noci,sesamo, erbe, muffe, ma

questo non l’avvicinerebbedi un passo alla veraconoscenza, che sta

nell’esperienza dei sapori

ITALO CALVINO

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CardamonoCresce nelle foreste diIndia e Sri Lanka. I semigrigi hanno un saporearomatico e pungente.Arabi e indiani lo usanoper aromatizzare il caffè

ZafferanoGli stimmi dei fiorisi raccolgono inautunno, primadell’alba, e si fannoasciugare al sole. È unpotente antiossidante

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 17 APRILE 2005

itinerariLo chef sassareseGiovanni Fancello,premio PellegrinoArtusi 2003,è un appassionatostudioso della cultura

alimentare sarda, che proponeanche in articoli e saggi. L'ultimo,“Sabores de Mejlogu” in libreriada qualche settimana, raccontaorigini e storia delle materieprime di alcune ricette-cultodella cucina regionale

La “perla del Tirreno”,definizione di Matilde Serao,costruita su una scoglierae caratterizzata da quasi200 murales, è sededell’AccademiaNazionale del Peperoncino.A pochi km, alle portedel parco del Pollino,Maierà ospita il museo

DOVE DORMIREFERRETTI HOTELVia Poseidone 171Tel. 0985 81428Camera doppia da 116 euro,colazione inclusa

DOVE MANGIARELA GUARDIOLAVia Guardiola (lungomare Riviera Blu)Tel. 0985-876759Chiuso martedì, menù a pertireda 30 euro

DOVECOMPRARESAPORE CALABRIAVia Lungomare Tel. 0985-87784010

VanigliaIl lungo baccello scuroè il frutto di una piantaoriginaria dell’Americacentrale. Incisa perlungo, aromatizzail liquido di bollitura

CannellaSi utilizza la corteccia,tagliata ed essiccataal sole. Originaria delloSri Lanka, si usa interao macinata in dolcie liquori

PepeFrutto (drupa) di unarbusto di provenienzaasiatica. Sbucciatoè bianco, essiccatodiventa nero. Raccoltonon maturo è verde

Chiodi di garofanoSono i boccioli di unsempreverde, originariodelle Molucche, essiccati prima dellafioritura, con proprietàlenitive per i denti

islamica, che ha por-tato una grande ric-chezza nella varietàdei prodotti alimen-tari, nelle spezie, neimodi e nei metodi dicottura. Lo sappiamodai ricettari e dalla let-teratura del medioe-vo arabo- islamico.

La scelta di ingre-dienti raffinati e pro-fumati con ambra, le-gno di aloe, muschio,era la condizione ne-cessaria per la riusci-ta di un piatto, esatta-mente come l’utiliz-zo di pentole accura-tamente lavate condifferenti prodotti(tutti biodegradabili,ovviamente).

Certe spezie eranoincorporate alla carneo alle verdure all’ini-zio della cottura, men-tre altre erano aggiun-te alla fine. Il pesce, in-vece, veniva marinato, prima dellacottura, in salse fatte con aceto, olio dioliva, murri (condimento ottenutodalla fermentazione di cereali o di pe-sci salati, paragonabile al Nuoc Mam)e spezie diverse a seconda della ricet-ta, con l’aggiunta di sale raffinato.

Bisognava che lesensazioni olfattive evisive precedessero lavera e propria degu-stazione. L’odore, ilcolore e l’aspetto delpiatto dovevano pro-vocare turbamento estupore. Anche il va-sellame doveva essereadeguato alla pietan-za: le classi ricche van-tavano bellissimi ser-vizi in porcellanasmaltata e decoratacon iscrizioni o deco-razioni di verdure,frutta, animali.

Un piatto molto dimoda a quell’epocaera il sikbaj , con lasua caratteristica cot-tura con l’aceto.Quello preparato dal-la cuoca Bad’a per ilprincipe abbaside al-Amin, era «come ungiardino fiorito, unasposa la notte delle

nozze, una spada decorata di inci-sioni». Il suo profumo stordì a talpunto il principe, che egli ringraziòla cuoca con una collana del valore didiecimila dirham!

Le spezie e le erbe sono tuttora l’es-senza della cucina dei popoli del Sud

Ma oggi nelle nostre case si combatte l’invasione olfattiva

I profumi intensidelle antiche cucine

LILIA ZAOUALI

La capitale italiana dellozafferano (un quintalee mezzo di produzioneannuale, quasi il 70%del totale nazionale)è un piccolo centro con unabella rocca di memoriaprearagonese, adagiatonella piana del Campidano,alle spalle di Cagliari

DOVE DORMIRESA MUREDDAVico San Sebastiano VillanovaforruTel. 070-9331142Camera doppia da 65 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIARES’APPOSENTUVia Sant’Alenixedda - Teatro LiricoTel. 070-4082315. CagliariChiuso domenica e lunedì, menù da 41 euro

DOVE COMPRARESANTU ‘ENGIU - SU TZAFFARANUVia Majorana 7Tel. 070-9337520

Il paese, posizionatosulla riva sinistra del Po,tra le province di Torinoe Cuneo, è famosoper le sue colture officinali,dalla menta piperita, coltivataa partire da metà ‘800,al redivivo assenzio,elemento-base perla preparazione del Vermut

DOVE DORMIREAGRITURISMO MARGHERITAStrada Pralormo 315Tel. 011-9795088. CarmagnolaCamera doppia da 78 euro,colazione inclusa

DOVE MANGIARETRATTORIA DEL VIAGGIATOREVia VI Maggio 18Tel. 0172-55659. Sommariva del BoscoChiuso domenica, menù a partireda 35 euro

DOVE COMPRARECOOP ERBE AROMATICHE PANCALIERIVia Principe Amedeo 95Tel. 011-9734801

Pancalieri (To) San Gavino Monreale (Ca) Diamante (Cs)

Il percorsotra Cina e Siria

7.200 km

Dall’India, partonole prime spezie

1497 d.C.

Successo al cinemaper “Un toccodi zenzero”.L’ultima modaè proprio il ginger,che i giapponesiabbinano al pescecrudo per le sueproprietàdi antisetticointestinale: da noiviene presentatosotto formadi gelato, pralina,purée e persinodi distillato

C’è unagastronomiasenza tempo

che devealle spezie

il suo segreto

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TimoDalle cime della qualitàVulgaris si ricava l’oliobalsamico. La variantemontana, Serpillum, piùdelicata, è utilizzata perla cucina del pesce

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La cucina di inizio millen-nio, intendo il luogo do-ve si fa da mangiare, è at-trezzata con i più sofisti-cati strumenti manuali,elettrici ed elettronici.

Un’organizzazione che vale ancheper gli alimenti, comprese le spezie,custodite dentro contenitori di de-sign ben allineati su uno scaffale divetro trasparente, senza l’ombra dipolvere.

La storia degli ultimi anni ci dice,senza possibilità di equivoci, che nel-le case moderne si tende all’esteticaincolore e all’ambiente inodore. Permolti, a essere sgraditi non sono sologli odori della cucina degli altri, maanche quelli della propria. La lottacontro l’invasore olfattivo è spietata:nel migliore dei casi, si spruzzano nel-l’aria dei profumi alla cannella o sibruciano dei bastoncini d’incensogiapponese (come fa la sottoscritta).

Ben diverso è il caso dello scrittorecinquecentesco Montaigne, incurio-sito e affascinato dal «vapore soavissi-mo» che riempiva non soltanto la salada pranzo, ma tutte le stanze del pa-lazzo, arrivando persino alle case delvicinato. Si trattava dei profumi esala-ti da un pavone e due fagiani ripieni di«droghe odorifere», del costo di centoducati e preparati «secondo le loromaniere». “Loro” erano i cuochi delsultano Hafside, rifugiatosi a Napolidopo la presa di Tunisi da parte deiTurchi Ottomani.

Del resto, i tunisini hanno avuto ilprivilegio di collezionare diverse cul-ture culinarie, risalenti all’epoca fe-nicia e greco-romana, prima di la-sciarsi assorbire dalla cultura araba e

del mondo e dell’Oriente (arabo enon). Non a caso, da lì arrivano le spe-zie, le radici e le resine più pregiate,dallo zenzero al cardamomo, dallacannella alla gomma arabica e a certitipi di pepe.

Ma alcune sono coltivate anche in-torno al Mediterraneo: il prezioso zaf-ferano per esempio, è di casa in Spa-gna, in Marocco e in Italia. Purtroppocosta così caro che viene spesso sosti-tuito con falso zafferano – il cartamo –che però dà semplicemente un giallopiù intenso ai cibi.

Nei paesi del Maghreb, la cucinaquotidiana utilizza comunemente lespezie che Apicio incorporava in qua-si tutte le sue salse, ovvero pepe, cu-mino e coriandolo. Se così si può dire,la cucina maghrebina ha un saporeantico, come abbiamo sperimentatoqualche giorno fa durante le cene ma-rocchine organizzate a Torino e cura-te da cuochi venuti appositamente daCasablanca.

Tocca a questi artigiani del gustotramandare gusti e profumi di ricet-te come il medievale atraf tib (unamiscellanea di nardo, betel, alloro,noce moscata, macis, chiodi di garo-fano, boccioli di rosa, pepe, zenzero,cardamomo) o il tunisimo tabel(carvi, coriandolo, più peperoncinorosso e aglio secchi): veri tesori diuna gastronomia senza tempo, chedevono alle millenarie spezie odoro-se il loro segreto.

L’autrice, storica e antropologa del mondo musulmano, insegna

Istituzioni formali e informali dell’Islam all’università del

Piemonte orientale di Alessandria

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Armonia, pace interiore e voglia di sensazioniintense. Il guardaroba femminile (e maschile)si tinge di un nuovo colore. É in arrivo il blu,con tutta la sua carica simbolica. Come ricor-dano gli psicologi ma anche gli esperti d’arte,il blu è il colore della saggezza, della verità e,

gli stilisti aggiungono, della “nuova seduzione”. Il blu entranegli armadi e segna una “nuova stagione dell’anima fem-minile” fatta di voglia di potere, senza rinunciare al piace-re. Qualche consistente pennellata arriverà quest’estateper espandersi in autunno ed esplodere poi il prossimo in-verno. L’avanzata si annuncia inesorabile.

Dopo l’invasione del nero “che ti fa sentire sempre a po-sto”, ecco il colore del mare in tutte le sue tonalità: chiaro,scuro, cobalto o celestino. Il blu di Prussia o quello delleporcellane della dinastia cinese Ming. Il blu del manto del-la Madonna o quello delle ceramiche inglesi Wedgwood. E’un diktat di stile e sono tutti convinti.

«Il blu è meno drammatico del nero, alle donne piacerà»dice Giorgio Armani ricordando che questo colore è “do-nante”. Ma è anche il colore della memoria: «Riporta all’in-fanzia, alle divise da collegiali — spiega Alberta Ferretti — èun misto di naturalezza ed eleganza sofisticata». MiucciaPrada è stata una delle prime a credere nel blu, l’ha adotta-to da diverse stagioni, ma per il prossimo inverno tornerà alnero. Gucci veleggia sui «dark blu», in compagnia di Fendi,Antonio Marras, Alessandro Dell’Acqua e Coveri. Pennella-te di blu anche da Burberry, John Richmond, Iceberg e Ma-riella Burani. Senza dimenticare Max Mara e i suoi «mitici»cappotti blu o Dirk Bikkembergs, lo stilista «nero-azzurro»che disegna le divise dell’Inter. Per Valentino il blu è «deci-samente chic», per i Dolce e Gabbana è «un concentrato disensualità» mentre Donatella Versace lo vede come «il sim-bolo dell’eleganza senza tempo» e Laura Biagiotti ne perce-pisce l’effetto sogno.

La moda si tinge di blu, il colore che esalta la bellezza fem-minile e sul quale gli stilisti puntano per vivacizzare le vendi-te. Ma il nuovo avvento di questo colore non è un fenomenopuramente commerciale. A celebrarlo c’è anche il libro di Mi-chel Pastoureau, “Blu, storia di un colore” (editrice: Ponte al-le grazie), il saggio scritto dal docente francese di Storia delsimbolismo in occidente che sta andando a ruba a ruba tra ar-tisti, designer, stilisti, studenti dei licei e appassionati di curio-sità. Sì perché la storia del blu è affascinante. Per i romani erail colore dei barbari e aveva dunque connotazioni negative equesto spiega perché nell’antichità fosse considerato inade-guato. Ma a partire dal XII secolo comincia la sua riscossa nel-l’abbigliamento come nella vita quotidiana. Diversi secoli piùtardi, durante la rivoluzione francese, il blu divenne un colorepolitico e fu adottato come emblema di libertà dai difensoridella Repubblica. E da allora ha mantenuto il suo carattere ri-belle. Una riprova più recente? Nel ‘68 i giovani contestatoriindossavano i blu jeans e fumavano le Gauloises blu.

E oggi che cosa rappresenta il blu? La risposta la dà MichelPastoureau proprio nel suo libro: «Il blu è diventato una pa-rola magica, che seduce, tranquillizza, fa sognare. E anchevendere». E infatti, dopo quasi dieci anni di dominio incon-trastato del nero, ora si volta pagina, si cambia. Il blu diventauna «magnifica ossessione».

“Ma come non hai niente di blu? Allora sei fuori moda”.Questo è il tormentone che già fa il giro tra le ragazze e le si-gnore più attente ai trend, a caccia di tessuti blu notte o in-chiostro, tutti pezzi forti della collezione Gucci, disegnata daAlessandra Facchinetti. Ma tra le stiliste più esaltate da questanovità di stagione c'è Anna Molinari. É lei che disegna il cele-bre marchio Blumarine, un vero inno al “bleu marin”, il colo-re che in origine apparteneva alle divise dei marinai, delleguardie, dei gendarmi. «L’ho sempre amato, perché dà alledonne un tocco di femminilità davvero speciale». Un amorecondiviso da Roberto Cavalli che aggiunge: «il blu è il colorepiù presente in natura. Basta guardare il mare, il cielo. E da lìche parte la mia fantasia per nuovi abiti». Mentre Krizia prefe-risce parlare del blu come «elegante alternativa al nero».

le tendenzeNuovo guardaroba

LAURA ASNAGHI

42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 17 APRILE 2005

Tutti pazziper il coloredella libertà

AutunnoInverno

JEANS, VELLUTO E TANTI RICAMISono jeans preziosiquelli di Ermanno Scervino.Ricamati in Egitto in un laboratoriogestito da donne arabe.Si portano con stivali e giaccaaderente

IL BOMBER DELL’AIR FORCEBomber con gli stemmi dell’AirForce americana. È uno deimodelli storici del marchio Alpha,amatissimo dai giovani

E ADESSO SI PARTEPer il week-end ma anche per

il viaggio d’affari. Le valigie trolleydi Schedoni uniscono la qualità

del “made in Italy” alla funzionalità

TEMPO DI STELLEDA POLSONon solo orologioma anche romanticogioiello, a formadi stella. Fa partedella nuovacollezione disegnatada Anna Molinariper Blumarine

CALDISSIMO CON ZIPL’alternativa alla giacca? CristianoFissore propone il maglionein cachemire, lavorato a trecce, conil collo chiuso da una piccola zip

CLASSICA MA INIMITABILEE’ interamente fatta a mano da artigiani milanesila borsa Valextra (coordinata ai guanti). Fa parte

degli oggetti “classici”, da portare sempre,perché slegati dai diktat della moda

A CAVALLOO IN TAILLEURMai più senza

stivali. Il modelloda cavallerizza

di Chanel,si porta con i

tailleur ma anchecon abiti da sera

Magiche e misteriose le tonalità del mare hannoconquistato quest’anno stilisti e designer. Si tingonodi azzurro o cobalto borse, gonne, maglioni e accessori.Tutta colpa di un libro di uno storico franceseche del blu esalta i pregi e ne raccontail grande significato simbolico

Blumoda

NODI D’AUTORELa cravatta con fondo blue microdisegni colorati,fa parte dei pezzi classicipiù venduti al mondodella collezione Marinella

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 17 APRILE 2005

PrimaveraEstate

LENTI AZZURRE

BON TONEcco gli occhiali“bon ton” firmatida RobertoCavalli. Sonotondi, con lalente azzurrataQuesto modelloè molto amatodalle signoreche non vogliono“occultare” gliocchi dietro lenti“total black”

NIENTE TACCO

PER BALLAREUltrabasse e moltofemminili. Le ballerineestive dell’EmporioArmani si portano conjeans di tela bianca obermuda con tasconi

SOUVENIR DI VIAGGIOPer i globe trotter cheamano i viaggiavventurosi in giroper il mondo, Mason hacreato i pantaloni, incotone delavé, consouvenir di viaggiocostituiti da scrittee immagini

METTI UN’IDEA IN TESTACappello in feltro di lana con cinturain lucertola maculata. Sono di Trussardiche realizza il celebre logo in osso

GIROCOLLO

DA PRINCIPESSAÈ la quintessenzadello stile BulgariIl collier che incorniciala pagina è un pezzounico di alta gioielleriaI nove zaffiri, taglio“cuscino”, sonolegati con diamanti

GEOMETRIE

REVIVALSi ispirano agli

anni Settanta leborse estive di

Prada. I tessuti,dai disegni

geometrici, sonotipici di quegli

anni e ricordanole tappezzerie

e le stoffed’arredo

che trionfavanonei salotti “stile

seventy”. Leborse hanno tutte

tracolle in verocuoio

COME ONDE DELL’EGEOC’è il colore delle acquedel mare Egeo nell’abitoda sera di Ungaro, fattocon centinaia di ondedi chiffon e increspaturedi brillanti paillette. Uninno alla Magna Grecia

IN MOTO CON STILEIn moto con stile. Il giubbino biker della Pirelli P Zero,protegge dal vento e dall’acqua ed è realizzatoin poliuretano termosaldato

Blu notte, blu Cina, blu oltremare,blu di prussia, blu navy, blu in-chiostro: il blu ha mille anime,

mille identità e una potenzialità espres-siva straordinaria. Riesce sempre a sor-prendere, a stupire, ad emozionare. E’,in qualche modo, emblema di rigore, diseverità, di un’eleganza nobile e senzatempo. Ma sa anche evocare atmosferepiù rilassate, echi di libertà, orizzontilontani e sconfinati.

E’ un colore che amo proprio per il suofascino discreto ed irresistibile, per la suaversatilità che lo rende capace di millevariazioni sul tema, di mille performan-ce, nessuna delle quali dà l’impressionedi essere sconta-ta, di essere dejavu. Anche perquesto, nelle miecollezioni il bluc’è da sempre. Inquelle maschilicome in quellefemminili. E’ unmust dell’estate,ma anche dell’in-verno. Declinasenza difficoltà ilook formali nonmeno che l’abbi-g l i a m e n t oleisure. Nella sta-gione fredda co-stituisce un’alter-nativa più “lumi-nosa” rispetto alnero. Giocato neigessati da città ga-rantisce uno chicsenza pari. Abbi-nato al biancocrea un contrastoraffinatissimo edessenziale.

In breve: il bluper me è un pro-tagonista chenon può mancare. Innanzitutto, perchéè protagonista di molti miei ricordi che,rielaborati e rivissuti, diventano linfaper la mia creatività. Nella mia memoriac’è, per esempio, il blu stinto delle giac-che “alla Mao” che nella Cina che io hovisitato più di trent’anni fa era l’unica al-ternativa al verde militare e che ora, nel-la stessa Cina, pare quasi impossibile ri-trovare. Questo blu, smorzato ed ele-mentare, ritorna in una mia collezionedi moltissimi anni fa, dedicata, non a ca-so all’Oriente: la percorre per intero, lacaratterizza in profondità pur lasciandospazio ad un’infinità di segni preziosi, diricami opulenti, di colori vivaci. Poi c’è ilblu, terso e cristallino, dei cieli del Nord,del cielo di San Pietroburgo, o meglio, diLeningrado, perché così si chiamavaquesta incredibile città quando l’ho vi-sitata da studente, arrivando via terradalla Finlandia. Parlarne mi emozionaancora: la luce era scintillante e ghiac-ciata, i palazzi color pastello perfetti eimponenti, i fregi e le cupole risplende-vano d’oro, le acque della Neva pareva-no quasi nere. Anche questo blu ritorna,nei cappotti e nei mantelli più sontuosi,negli abiti tempestati di cristalli lucenti.E ancora, c’è il blu vivace del mare dellaGrecia o delle Hawaii, opposto al biancoo ai colori intensi dei fiori tropicali. Per-fetto per evocare la passione…

Dai cieli del Nordalla giacca di Mao

I ricordi di un grande stilista

GIANFRANCO FERRÈ

LADY IN GESSATOUn classico, secondoFerrè? Il completogessato, impreziositoda maniche in pelliccia

ISPIRATE AL BOWLINGLe sneaker Miu Miu, incuoio invecchiato,ispirate al bowlinghanno un’arialievemente vissuta chele rende decisamentetrendy Ai lati due bandecolorate

UN TUFFO TRA LE RIGHEVestivamo alla marinara.I costumi di Intimissimi,tutti elasticizzati, alternanorighe blu, diverse, amorbide ruches confiocchetto

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la copertinaDietro la finestra

Dentro il Palazzo Apostolico, nelle tre piccole stanzedagli arredi monacali, che attendono l’arrivo del nuovoPapa, non resta quasi traccia del passaggio di GiovanniPaolo II, che qui ha abitato per oltre 26 anni.Le abbiamo “visitate” con chi le ha frequentate sinoagli ultimi giorni del Pontefice

VITTORIO ZUCCONI

24 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 17 APRILE 2005

(segue dalla copertina)

ell’appartamento, nulla.O quasi. Perché così ilviaggiatore polacco ave-va voluto.

Nella magnificenza diun luogo, dove i suoi predecessori ave-vano chiesto ai Buonarroti e ai Sanzio eai Botticelli di colorare un poco le paretidi casa, le stanze che attendono un Papasono state lasciate per tre decenni nellatinteggiatura giallognola e scialba, che fasubito commissariato di P. S. o Ginnasiodi un liceo statale. Il Pontefice che saliràla scalinata fino al terzo piano, se avràgambe ancora giovani, o prenderà l’a-scensore interno fino al vano centraledell’appartamento, forse rimpiangerà losfarzo e l’ostentazione di molti arcive-scovadi e sedi cardinalizie, quando ve-drà questi ambienti da canonica qual-siasi, che parlano di preti, di parrocchia,perché Wojtyla era, voleva essere, unprete. La sala da pranzo con il lungo ta-volo rettangolare dove il segretario par-ticolare di Karol Wojtyla sempre sedevaa capotavola, e il Papa su uno dei lati lun-ghi, racconta di refettori, non di pranzi distato. I due si schieravano in quella for-mazione per un motivo semplice e do-mestico. Perché l’arcivescovo aveva ilcompito di maneggiare il telecomandodel televisore, come fanno i mariti pre-potenti in cucina, sistemato nell’angoloopposto di fronte a sé, e dunque alla sini-stra del Papa. Doveva accenderlo al mo-mento dei telegiornali. Ma soltanto per ititoli, mi precisa colui che mi conduce inquesta visita, mai per l’intera durata oper i programmi. La televisione lo infa-stidiva, lui che pure tanto bene aveva im-parato a usare il mezzo senza subirlo.Guardava qualche diretta sportiva, pez-zi di Olimpiadi, ma non più calcio. Il cal-cio lo interessò soltanto quando ungrande campione polacco come lui gio-cava ancora in Italia, nella Roma e nellaJuventus, Zibì Boniek.

Il vecchio televisoreQuel televisore dal quale tra poco unnuovo Papa guarderà se stesso — alme-no nei titoli — è un antiquato modello acolori, niente cristalli liquidi o plasma,con tubo catodico e schermo bombatoda 30 pollici, “regalato”, non compera-to, dicono i miei occhi dentro la casa delPapa. È uno dei soli tre segni lasciati dalui, per ricordare la propria presenza.Soltanto quando il successore percor-rerà il breve corridoio interno che dal-l’ascensore porta verso le tre stanze nel-le quali alla fine Giovanni Paolo si era ri-dotto a vivere, riconoscerà il secondo se-gno, un’altra delle impronte umane la-sciate. Superata l’auletta nella quale ri-ceveva gli sceltissimi fedeli che avevanoassistito alla Messa o a un battesimo nel-la cappella privata e oltrepassati gli uffi-ci dei segretari privati, l’arcivescovo Sta-nislao e don Mietek, entrambi ormai al-lontanati dal Vaticano, insieme con lesuore, verso un anonimo ostello religio-so sulla via Cassia, vedrà lo studio per-sonale con la finestra più guardata delmondo. E noterà quel corrimano di fer-ro verniciato in bianco, un poco più bas-so del davanzale per non essere visibile,al quale il Papa doveva aggrapparsi peraffacciarsi. Tutto quello che rimane diuna lunga sofferenza. Il secondo segno.Non c’è stato il tempo per togliere i bul-loni e levarlo.

Accanto allo studio delle benedizioni,nella camera da letto, sparite le carte ri-maste sulla piccola scrivania sistematatra le due finestre d’angolo che il segre-tario ha avuto l’ordine diretto dal Papadi bruciare, finestre da cui ogni tantospiava la piazza durante il Giubileo perosservare quanta gente affluisse alla“Sancta Porta”, di lui, il nuovo Ponteficenon troverà niente. Il letto ottocentesco,con la testata di legno intarsiato rivoltaverso il lato di porta Angelica, dunqueparallelo alla piazza, sarà stato perfetta-mente rifatto e squadrato dalle suorecon precisione militare nella sovraco-perta dorata, prima di essere anche lorosfrattate. Sul tavolinetto, affiancato daun alto crocefisso e illuminato da unalampada a braccio incongrua e squalli-

da nella sua modernità da ufficio del ca-tasto, non troverà stilografiche, sigilli,penne. Quando si svegliava e si alzava,per scrivere di getto cartelle e cartelle dipensieri sempre a mano, usava queipennarelli con punta sottile di feltromorbido che si comperano a mazzetti inogni cartoleria.

Il nuovo Papa sistemerà probabil-mente le proprie minute icone famiglia-ri, le foto di famiglia, al posto del piccoloportaritratti d’argento aperto a libro,con le foto di Josef Wojtyla, il padre, e diEmilia, la madre, ma la storia di quelledue fotografie, come me la racconteràJoaquin Navarro-Valls, per esserne sta-to testimone diretto, è bellissima. Fu nel1989, quando Giovanni Paolo II andò inpellegrinaggio nel santuario spagnolodi Compostela, che qualcuno mise, tra iparamenti stesi per la Messa su un tavo-lo della sacrestia, quel portaritratti. Il Pa-pa indossò gli indumenti sacri. Celebròle funzioni solenni. Tornò in sacrestiaper cambiarsi e stava per uscirne, quan-do si arrestò e disse «questo lo vorrei pro-prio». Nessuno osò contraddirlo, néchiedersi se quello fosse stato un donomisterioso di qualcuno che in Spagnaaveva ritrovato le foto del padre e dellamadre polacchi. Da allora, per sedici an-ni, quell’oggetto è rimasto accanto alsuo letto, fino alle notte tra il due e il treaprile.

Dalla stanza, piccolissima, dove le tresuore polacche si erano ormai trasferiteper essere più vicine a lui, negli annisempre più spietati delle infermitàsquassanti, lo divideva il bagno che si-curamente sbalordirà colui che, nellaprima notte di solitudine, dovrà usarlo.Un locale di forse quattro metri per cin-que, rettangolare per accogliere la vascada bagno attrezzata, come negli ospiziper anziani non più autonomi, la cabinadoccia, che non usava più da tempo, illavandino con la mensola sulla quale ri-

poneva la quotidianità di ogni uomo, ilrasoio da barba di sicurezza, che nonadoperava più, il bicchiere con lo spaz-zolino da denti e la pasta dentifricia, tut-to in bianco. Attorno, non maioliche,piastrelle, finiture almeno da albergo diprima classe, ma pareti anch’esse sol-tanto tirate a vernice.

Fuori dal bagno, una diecina di metridividono il Papa dalla sala da pranzo,quella dove il segretario lo attendeva im-pugnando il telecomando, dopo cheWojtyla aveva trovato, nel corridoio, iquotidiani del mattino aperti, per ve-derne le prime pagine. Un’immagineche di nuovo richiama alla mente il ri-cordo comunque di pensioni di mezzamontagna “tutto compreso” con i gior-nali per gli ospiti, non certo il cuore di unorganismo che raggiunge oceani e con-tinenti. Anche negli ultimi giorni, i se-gretari avevano disposto le copie fre-sche su quel tavolo, per diligenza, certa-mente, ma anche per il conforto dellaroutine che consola coloro che circon-

dano una persona cara che muore. Gliocchi della mia guida nella casa del Pa-pa non ricordano di averli visti buttarevia. Sarà il nuovo Papa a cestinarli, conquei loro titoli neri e lugubri che annun-ciavano l’agonia

La cappella voluta da Paolo VIUna cosa, certissimamente, neppure ilsuccessore getterà via con i giornali vec-chi, la stampella di appoggio verso la ba-laustra, il televisore panciuto e magari iltubetto di dentifricio rimasto mezzo sec-cato nel bicchiere. È quello che troverànella cappella privata del Pontefice, vo-luta e costruita da Paolo VI Giovan Batti-sta Montini quasi nel centro planimetri-co esatto dell’appartamento. Si guar-derà attorno, con occhi ben diversi daquelli con i quali la guardò quando eracardinale invitato alle funzioni e alleMesse private. Si inginocchierà sull’ingi-nocchiatoio di bronzo massiccio che lostesso Montini fece collocare davanti al-l’altare. Poggerà i gomiti su una corta ri-

baltina, come neibanchi di legno di tan-te chiese, dove si ripongo-no messalini e salmi. Se loaprirà, lo troverà vuoto, ripulitoanch’esso da monsignor Dziwisz,che avrà bruciato i foglietti che eranostipati dentro (o nascosti? Il futuro San-tuario avrà fame di reliquie, di un Papache non ha lasciato niente di tangibiledietro di sé). All’inizio del suo Pontifica-to, sotto quel ribaltino poggia gomiti, isegretari mettevano le lettere che arriva-vano dai fedeli, sempre richieste di pre-ghiere e di intercessioni per bambinimolto malati o per coniugi troppo sani,per figli dispersi e per genitori farabutti.Soltanto quando divennero troppi, esotto lo sportello non ci stavano più, gliassistenti dovettero trascrivere e stam-pare l’elenco dei nomi con una stam-pante da computer. Wojtyla leggeva si-lenzioso quei nomi pregando, senza cheloro osassero immaginare che il Papaaveva davvero ricevuto e accettato le lo-

La foto di mamma e papàl’unico lusso di Karol

Wojtyla pranzava assiemea monsignor Stanislao, che“aveva in custodia” il telecomandodel televisore: i titoli dei tge le partite di Bonieki programmi preferiti

LA CAPPELLA PRIVATAVoluta e costruita da Paolo VI quasinel centro dell’appartamento.Sull’inginocchiatoio di bronzo,dove pregava, Karol Wojtylametteva le lettere dei fedeliche chiedevanopreghieree intercessioni

LA BIBLIOTECAPRIVATAIn questa ampia salail Papa riceve , spessosingolarmente, le personalitàche vengono in visita.Sulla parete di fronteall’ingresso un grande quadrodel Pinturicchio:L’Incoronazione della Vergine

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ro suppliche, trasmet-tendole.

Ma se quei nomi e quei fo-gli non ci sono più dentro l’ingi-

nocchiatoio di bronzo, resta il ter-zo e indelebile segno del viaggiatore ve-nuto da Cracovia. Dobbiamo entrarenella cappella privata per vederlo, e os-servare il crocefisso sopra l’altare. È unapiccola icona di Maria, forse venti centi-metri per trenta — la misurano gli occhidella nostra guida — che lui fece appen-dere sotto il braccio sinistro di Cristo,esattamente nella collocazione della“M” che poi fu disegnata nel simboloscelto da Wojytla, la croce gialla in cam-

po azzurro e la “M”. Fu quando entrò perla prima volta nella cappella, guardò lacornice di Cristo in croce sulle pareti, conla scena della Resurrezione soltanto sulsoffitto, che costringe il celebrante a pie-gare la testa all’indietro per vedere lapromessa del Cristianesimo, il Gesù ri-sorto, che si accorse del fatto che in quelluogo non c’era una sola immagine del-la Madre. La pretese immediatamente,collocandola nella posizione che poiispirò il simbolo araldico. Non un’iconapreziosa e solenne come la Vergine diKazan con la sua storia e i suoi duecentodiamanti incastonati, che un gruppo dicattolici nord americani comperò attra-verso la casa d’aste Sotheby’s e gli regalò,prima che lui la restituisse ai Russi nellainutile speranza di commuovere la ge-rarchia Ortodossa. Una immagine mo-desta, e ormai un segno intoccabile.

«Non lascio dietro di me alcuna pro-prietà di cui sia necessario disporre» ave-va scritto nel proprio testamento, e dellepoche cose quotidiane «fate come vi

sembrerà opportuno». Nella stanza daletto, quella notte i fratelli e le sorelle del-la fine si divisero fra di loro, senza litiga-re, a bassa voce, i gingilli e il bric-a-bracdi una vita di prete senza valore, come lecosette che i parenti si passano di manoin mano, imbarazzati, senza decidere.La mia guida si prese «due ricordini»,ammette con timidezza, con pudore.Ventisette anni e questo troverà il nuovoPontefice, di chi lo ha preceduto. Un vec-chio tv color; un corrimano da invalido;una iconcina per dare qualche tenerez-za di femminilità a una cappella moltodura. Ha lasciato tutto come lo trovò,portandosi nella bara anche le vecchiescarpe che aveva fatto risuolare da pococon la gomma, per non scivolare suimarmi dei pavimenti. Non sarà un tra-sloco facile, per colui che dovrà riempirequella casa vuota.

«Spero solo che il prossimo inquilinorinnovi quell’appartamento. Lo spe-ro perché è un luogo triste, banale,

vecchio. Una casa che crea soggezione, e forsenon fa sentir bene nemmeno chi ci abita». Krzy-stof Zanussi, il regista polacco che è stato tra gliospiti fissi al tavolo di Karol Wojtyla e al Papa del-la sua terra ha dedicato anche un film, final-mente si sbottona. Può chiedersi — a Papa mor-to — come mai il capo della cristianità occiden-tale, un uomo vitale, solare e vicino alla gente siapotuto vivere lì, in uno spazio deprimente, om-broso, anonimo, chiuso come una prigione.

Zanussi, quante volte è stato a colazionedal Papa?

«Ora non ricordo, ma certo molte volte, al-meno quattro. L’ultima fu tre anni fa».

Come ricorda quello spazio privato?«La prima volta rimasi stupito, o meglio fui

sorpreso di non trovare nulla di sorprenden-te. Ma forse avevo intuito qualcosa già dall’a-scensore, che mi prelevò dalla piccola anti-camera al piano-terra. Era un lift come quel-li dei vecchi alberghi generazione-Orient Ex-press, il Pera Palace di Istanbul per esempio.Ci vedevi Agata Christie».

Quando entrò cosa vide?«Una casa pesante fine Ottocento, con mobi-

li scuri, industriali, pesantemente decorati. Sof-fitti, mobilio, lampade, sala da pranzo e stanzeprivate, tutto era in penombra, serio e privo diispirazione. Le sedie erano quelle di mia zia allaperiferia di Varsavia. Poteva essere la casa di unimprenditore, di un alto funzionario di Viennao Milano prima della Grande Guerra. Pensai an-che all’arredamento del castello di Massimilia-no d’Asburgo a Miramar, Trieste. Solo che quel-lo era datato metà Ottocento, e per l’epoca erauna soluzione d’avanguardia. L’arredamentodel Papa invece era di uno stile già fuori dal no-stro gusto. E con parecchia luce in meno».

Si sentì a disagio?«Ovvio che non mi aspettassi soluzioni di

grande edonismo. Il problema è che il luogo nonera, e non è tuttora, nemmeno un luogo tera-peutico, un luogo che fa star bene. Il Quirinale,la casa del presidente della Repubblica, è moltomeglio. Ha una bellezza classica, barocca, cheavvolge, rilassa».

Fu sorpreso?«Certo che lo fui. Tutto il resto del Vaticano

era iper-sofisticato, risentiva del tocco diPaolo VI, un Papa che ebbe gusti molto deli-cati, fini. Molto del Vaticano e di Castelgan-dolfo è segnato dalla sua impronta, spessonei minimi dettagli: tappeti, scalini, lampa-dari. Invece, lì dentro, niente di niente. Il tem-po si era come fermato».

Si è chiesto come mai Wojtyla non abbiacambiato nulla?

«Chi lo sa, forse non si cambia ciò che funzio-na, forse il Papa ha troppe cose da fare, forse nes-suno osa toccare mobili che hanno visto tanto.Nemmeno Giovanni XXIII cambiò molto lì den-tro, eppure era un papa innovatore».

E adesso?«Ora sarebbe davvero il momento di dargli

una rinnovata. Lì non c’è nemmeno la sem-plicità della canonica di un prete di campa-gna. L’appartamento del Papa è la banalissi-ma casa di un vescovo di provincia. Mi aspet-to che il successore di Wojtyla operi dei cam-biamenti, così come ha fatto Paolo VI dopol’ultima stagione conservatrice di Pio XII. Fuallora che il Vaticano fece il suo primo ma-quillage dopo un secolo».

“Una casa buia e tristeè tempo di rinnovarla”

Il regista Zanussi, amico di Wojtyla

PAOLO RUMIZ

ALLA FINESTRA Dallo studio

personale, il Papasi affacciava sulla

piazza di SanPietro. Negli ultimianni si aiutava con

un corrimano diferro

LA CAMERA DA LETTOQui il Pontefice passava gran

parte del suo tempo seduto altavolino affiancato da un

crocefisso e illuminato da unalampada a braccio. Di fianco al

letto ottocentesco con latestata di legno c’è un

comodino su cui il Papa avevamesso la foto dei genitori

LA SALA DA PRANZOKarol Wojtyla sedeva sul

lato lungo del tavolo, il suosegretario Monsignor

Stanislao, stava acapotavola. Durante i pastiil Pontefice guardava i titolidei Tg e, quando c’erano,

eventi sportivi

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26 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 17 APRILE 2005

la memoriaDiario del vincitore

Febbraio-maggio 1945. Un giovane viennese si arruolanell’esercito americano e si spinge sempre più a fondonegli orrori del Terzo Reich in agonia. Il suo racconto e le sue foto,ritrovati esattamente dopo sessant’anni, documentanole devastazioni e la disperazione, ma anche le prime formedi comprensione tra un popolo sconfitto e i conquistatori-liberatori

“La mia Germania anno zero”

LFebbraio 1945

e autostrade che percorria-mo, fino a pochi giorni fa era-no teatro di dure battaglie; lecase lungo la strada sono

nient’altro che macerie e cenere. La lineatranviaria è riconoscibile solo a tratti daibinari storti e dai pali piegati. Ci avvici-niamo alla città all’imbrunire. Per la stra-da nessuna luce, nessun segno di vita. Ilnostro autista cerca accuratamente dievitare la miriade di crateri lasciati dallebombe; solo alcuni sono stati frettolosa-mente riempiti con pietre. Davanti a noiAquisgrana, la prima città tedesca dove,in questa guerra, ha messo piede unesercito straniero. La strada a fatica sicerca un percorso tra le macerie delle ca-se crollate; a destra e a sinistra nient’al-tro che rovine. Qui giace sepolta Aqui-sgrana, pensiamo tutti, ma nessuno par-la. Tutti noi abbiamo visto le città bom-bardate in Francia ed in Belgio, ma quinon è stato risparmiato nemmeno unospillo. Questa è una città morta...

Come quartiere per la notte ci assegna-no il “Quellenhof”, il lussuoso albergoscelto da Hitler per le sue visite ad Aqui-sgrana. Ci avventuriamo tra le macerie fi-no alla rampa d’ingresso e troviamo ilportone barricato. Entriamo per una fi-nestra: anche dentro montagne di mace-rie, che vagamente fanno intuire le passa-te glorie, e nel mezzo una mitragliatrice.Nelle stanze materassi marci, vasche dabagno frantumate, arredamento a pezzi.Il tutto corredato dai resti dell’ultimopranzo dei soldati: le conserve dellaWehrmacht, una borraccia, mozziconi disigaretta. Il tetto è distrutto, ma il clima èclemente. Sgomberiamo una delle stan-ze, ci prepariamo alcuni letti con i mate-rassi più decenti e passiamo la nostra pri-

ma notte in Germania.La mattina dopo vediamo i primi tede-

schi: donne e ragazzine con sporte, qua elà gruppetti che si scambiano poche pa-role e si dividono frettolosamente. Piùtardi compaiono i “migratori” che carat-terizzano le strade tedesche: un anziano,una donna e una ragazzina tirano e spin-gono un misero carrello lungo la strada.Da una parte una vecchietta in mezzo al-la strada — vestita ancora con un abito dasignora-bene — seduta su una valigia;una bambinetta balla intorno alla nonni-na come se fosse un gioco. Mi viene vogliadi attaccare discorso, ma questo ci è seve-ramente vietato. Probabilmente sareb-bero contenti di fare conversazione conun soldato americano, sono curiosi di noinon meno di quanto noi lo siamo di loro.

Si moltiplicano le dicerie su GI (Go-vernment Issue) assaliti e strangolaticon fil di ferro. Perché questa è terra diconquista. Dappertutto ci sono segnievidenti di battaglie. I soldati americani,ben nutriti e ben equipaggiati, che arri-vano sul suolo della Germania sconfittasono diffidenti nei confronti dei tede-schi. Nei loro volti disperati e disorienta-ti cogliamo ancora la superbia dei bene-stanti del recentissimo passato. Ma ci ac-corgeremo presto di quanto anche i te-deschi abbiano sperimentato rapida-mente la miseria vera...

Nei nostri due giorni di permanenza adAquisgrana non abbiamo il tempo di ac-corgerci del mutamento. Sulla strada al-tre città fantasma, crateri lasciati dallebombe, montagne di macerie, miseriaumana, dispera-zione, letargo. At-t r a v e r s i a m oMönchen-Glad-bach, Reydt — pa-tria di Goebbels —

e avanti fino a Krefeld. Solo qui incontria-mo i tedeschi faccia a faccia. A Krefeld sia-mo a quattro chilometri dal fronte checorre lungo il Reno. La guerra è ancora inpieno svolgimento e l’artiglieria tedescacosparge la sponda di granate.

Krefeld tra i luoghi sul nostro percorsoè quello messo meglio, decine di migliaiadi persone arrivano qui per aspettare lafine della guerra. La nostra unità si è sta-bilita nella vecchia sede della polizia te-desca. L’ordine è di non lasciarlo pernessuna ragione. Si dice che, la notteprecedente, alcuni soldati dell’Us armysiano rimasti uccisi in maniera atroce.Ma i civili che passano davanti alla no-stra porta sembrano persone pacifiche esemplici. Di fronte al nostro quartier ge-nerale i tedeschi sono faccia a faccia conle prime ordinanze delle autorità di oc-cupazione americane: non commenta-no gli ordini degli alleati, come non ave-vano commentato quelli dei nazional-socialisti in precedenza.

Ben presto il comando abolisce il divie-to di lasciare il quartier generale. Possia-mo muoverci liberamente, ma non pos-siamo avere contatti con la popolazione.La chiamano non fraternization. Sononostri nemici e devono rimanerlo. Il mioorologio ha bisogno di una riparazione equesto mi costringe alla prima trasgres-sione. Ho visto l’annuncio di un orolo-giaio che comunica il suo nuovo indiriz-zo. Noncurante delle dicerie su GI stran-golati, in compagnia del mio amico Ed-die, oso cercare «la tana dell’orologiaio».

Trovo la famiglia del maestro in un ap-partamento di fortuna. Ci ricevono senzapaura. L’orologiaio è stato iscritto al par-tito socialdemocratico fino al 1933 e nonsi è mai sentito vicino ai nazisti. Dice di es-sere contento della fine dell’incubo. Ri-para l’orologio, ci salutiamo e basta.

Incoraggiati da questa prima avven-tura ci addentriamo nelle vie di Krefeld.Ci passa vicinissima una giovane donnaben vestita e ci intima di seguirla. Eddieè entusiasta, io mi faccio degli scrupoli.La seguiamo in un cortile, prende sottobraccio Eddie e ci accompagna in un ap-partamento dove troviamo altre duedonne sulla trentina. Vogliono cono-scere gli eroi d’America. Ci diamo unnuovo appuntamento: portiamo co-gnac e cioccolato; ci offrono caffè d’orzoe ascoltiamo musica. Passiamo una pia-cevole serata anche se Eddie resta delu-so per la poca disponibilità della suabionda a passare la notte insieme.

Vogliamo vedere il Reno. Sugli argini cisono dozzine di biciclette buttate lì daisoldati prima di attraversare il fiume. Neprendo una di fabbricazione olandese.E con Eddie pedaliamo per ritornare aKrefeld. Non sappiamo cosa sta succe-dendo di là, nel caos di quel che rimanedella Germania nazista, ma si intuisceche la fine è questione di molto poco.

23 marzo 1945

È caduto nelle mani degli alleati il pontesul Reno nei pressi di Remagen e si co-struiscono alcuni ponti provvisori. Deveessere praticabile anche il ponte ferrovia-rio nei pressi di Krefeld chiamato “AdolfHitler” perché il traffico ferroviario si svol-ge con una certa regolarità. Ora inizia il no-stro vero lavoro: su quel ponte viaggianolunghissimi treni che portano alle truppe

‘‘Città distruttaCi avviciniamo alla cittàall’imbrunire: nessuna

luce, nessun segnodi vita e una miriade

di crateriLa strada a fatica

si cerca un percorsotra le macerie delle case

A destra e a sinistranient’altro che rovine

Qui giace sepoltaAquisgrana, pensiamotutti, ma nessuno parla

Dal diario

di Gerhard Hoffmann

GERHARD HOFFMANN

ANDREA TARQUINI

tro Panzer e guardie scelte di Saddam Hussein. InAfrica, i bambini col Kalashnikov non fanno più no-

tizia, solo paura quando li incontri. Il Volkssturm, Assalto del popolo, fu creato con un decreto del Fuehrer

del 25 settembre 1944. Das letzte Aufgebot, l’ultimo impegno di fedeltàchiesta da Hitler al popolo tedesco. Ai capi del partito nazista, al Reich-sfuehrer delle Ss Heinrich Himmler primo fra tutti, fu impartito l’ordinedi arruolare fino a sei milioni di civili — bimbi e teenager, pensionati edonne — per l’ultima resistenza agli alleati. «Fummo mandati allo sba-raglio in bicicletta contro i tank americani, con in spalla rudimentali Pan-zerfaust o moschetti italiani della prima guerra mondiale, spesso conscarpe rotte e uniformi tarlate», ricorda Meyer.

L’arruolamento a forza era effettuato con persuasione brutale. Pattu-glie della Feldgendarmerie e delle Waffen-Ss passavano al setaccio lecittà. Al minimo sospetto di renitenza, gli uomini validi venivano impic-cati in strada. Ma un po’ di entusiasmo incosciente contagiava i giovani.Anche chi come Terpitz non subiva il fascino del nazismo. «Sognavo ilsogno della gioventù di quegli anni, diventare soldato, darsi alla Patria,provare il brivido dell’avventura. Temevo di lasciarmi sfuggire una gran-de esperienza, se non fossi partito con gli altri bambini». Czech, a dodi-ci anni — nato, cresciuto, indottrinato sotto la dittatura — credeva an-cora al mito del Fuehrer. Si era guadagnato la Croce di ferro sul fronteorientale, portando in salvo dodici soldati adulti feriti col carretto di fa-

La Germania ricorda l’innocenza perduta

Alfred e gli altrii bimbi soldatodi Adolf Hitler

DEVASTATA DALLE BOMBENelle sette foto qui a sinistra, altrettanti

momenti fissati dalla macchina fotograficadi Gerhard Hoffmann durante l’avanzata delletruppe americane nella Germania degli ultimi

giorni di Hitler. Sono evidenti le distruzioniprovocate dai bombardamenti alleati

e la disperazione della popolazione civile

IBERLINO

l più giovane, Alfred Czech, aveva appena dodici anni. Ingiallitadal tempo, una foto storica lo ritrae con l’uniforme malridotta,l’elmetto troppo grande e pesante sulla testolina ancora da bim-bo, il lanciarazzi anticarro Panzerfaust che gl’incurva le spalle.

Come una macchina del tempo, il fotogramma scattato da una vecchiaLeica ci riporta indietro nei decenni e nella memoria. È il 19 marzo 1945,Alfred è con altri coetanei nel giardino della Cancelleria. Hitler si piega adecorarlo con la Croce di ferro, lo accarezza quasi paterno sulla guancia.Un altro bimbo-soldato del Terzo Reich, Werner Terpitz, scrisse da adul-to sulla Frankfurter Allgemeinevent’anni fa in resoconti esemplari, fred-di e precisi, i ricordi dell’inferno di Koenigsberg assediata. Un terzo,Claus Heinrich Meyer, classe 1931, fu arruolato tredicenne. Oggi gran-de firma della Sueddeutsche Zeitung, ha appena rievocato quei mesi ter-ribili dell’innocenza perduta. Sessant’anni dopo la disfatta di Hitler, laGermania ricorda e rilegge le confessioni delle loro pagine tragiche.

Quello dei bimbi-soldato di Hitler è rimasto nella memoria colletti-va della Germania come uno dei crimini più cinici del nazionalsociali-smo, ma nel resto d’Europa e del mondo è poco noto. Oggi, nel mondodelle mille guerre incontrollabili, i bimbi-soldato sono una realtà quo-tidiana. Gli ayatollah iraniani mandarono decine, o forse centinaia dimigliaia di ragazzini e adolescenti all’attacco nelle paludi del Tigri con-R

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di là dal Reno i rifornimenti; una volta ar-rivati sull’altra sponda, i treni devono es-sere divisi e diretti verso le varie destina-zioni. Questo è nostro compito. I treni tra-sportano tutto quello che può servire alfronte: attrezzature belliche, munizioni,rancio per i soldati, equipaggiamenti. E suogni treno arrivano anche migliaia di pro-fughi da tutta Europa: russi, polacchi, sla-vi ed ora anche tedeschi liberati dai lager.Nessuno sa dove porta questo viaggio, maa nessuno importa. L’importante è scap-pare da dove non c’è speranza.

31 marzo 1945La sconfitta della Wehrmacht viene per-cepita dalla popolazione come una pe-sante sconfitta del popolo germanico eciò si rispecchia nei loro volti. Donne, an-ziani e bambini tedeschi vagano in mez-zo alle rovine delle loro case in cerca diqualche oggetto che sia spunto per rico-minciare. All’inizio gli americani li man-dano via in malo modo, poi però si vedo-no in giro dappertutto in compagnia dipiccoli tedeschi. Qui la gente vive i solda-ti alleati come liberatori dal giogo dellaguerra, dai bombardamenti, dal caos delReich in dissoluzione. Certo, gli alleatinon sono venuti da liberatori: sono i vin-citori, e gli altri i vinti. Ma non si permet-terà che i sopravvissuti muoiano di fame,ritroveranno la forza di ricominciare.

Darmstadt, un’unica rovina; Pforz-heim, nessuna casa rimasta in piedi; Ulm,il monastero come unica prova del passa-to glorioso; Norimberga, un ammasso disassi con in mezzo una chiesa... La nostra

divisione continua ad essere spostataavanti in questa Germania disfatta. Dap-pertutto si ripetono le stesse immagini dimiseria dei fuggiaschi. Ci si stanca anchedi vederli in attesa del proprio destino nel-le stazioni fredde e piovose. In una vedia-mo un treno di ebrei liberati da un campodi concentramento. Parliamo con alcunidi loro: vengono da diversi campi, sonotutti scheletrici, ancora vestiti con le tuterigate dei lager, non riescono a comuni-care quasi nulla delle atrocità subite. Cisono tre giovani soldati della Wehrmachtben nutriti. Capisco subito che vengonoda Vienna. Mi prende una fortissima no-stalgia di casa, mi rivolgo a loro in dialettoe vedo il loro stupore nel sentire un solda-to americano parlare viennese.

8 maggio 1945La nostra piccola unità viene chiamata arapporto nella piazza della cittadina ba-varese di Plattling per celebrare, in for-mazione militare, la fine della guerra inEuropa: VE day. È la mia ultima appari-zione da militare. Gli abitanti di Plattlinge i tanti cacciati dalle loro terre e casual-mente finiti qui possono leggere sui gior-nali pubblicati sotto il controllo delle au-torità alleate l’ingloriosa sconfitta dellaloro fiera Wehrmacht. Berlino è sommer-sa sotto sangue e cenere. Anche Plattlingha avuto la sua parte. Nella stazione sonoammassati treni ammaccati, pezzi di ro-taia, locomotrici distrutte dai bombarda-menti. In pochi giorni le unità specialiamericane hanno reso operativo un bi-nario, ecco il nostro primo treno...

miglia. A quella carezza sulla guancia sentì un brivido d’emozione. «È una battaglia per l’essere o il non essere del nazionalsocialismo, e so-

no fiducioso grazie a voi, miei ragazzi», disse Hitler al piccolo Alfred e aglialtri bimbi che il capo della gioventù nazista Arthur Axmann gli avevaschierato nel giardino della cancelleria. Axmann credeva ancora a una car-riera radiosa nella Berlino su cui i carri armati del maresciallo Zhukov pun-tavano a tappe forzate. «E tu, dunque, sei il più giovane di tutti», disse adAlfred. «Hai paura?». «Nein, mein Fuehrer», fu la risposta insieme prontae timida, come di uno scolaro al maestro il giorno dell’esame. La Wo-chenschau, il cinegiornale nazista, ritrasmise più volte la scena.

«L’addestramento fu rapido e duro», ricorda Alfred, «i soldati adul-ti mi salutavano sull’attenti, per la croce di ferro che portavo». L’ad-dio all’infanzia fu per loro come una frattura silenziosa nell’animo,un trauma che spezza il cuore quasi senza che tu te ne accorga, so-verchiato dai drammi più grandi attorno a te. «Io, bimbo viziato, fi-glio d’un pastore protestante», narra Claus Heinrich Meyer, «vissi iprimi mesi in uniforme come ausiliario sotto i bombardamenti al-leati. Ero un ragazzino mingherlino, quasi effeminato. Nel coro del-la mia scuola, il ginnasio Adolf Hitler, ero ancora una voce bianca.L’ordine impartito ai nostri superiori era di renderci scattanti comelevrieri, resistenti come il cuoio, forti come l’acciaio dei Krupp».

«Alla vista dei primi morti, del primo sangue, mi scomparse dall’ani-mo l’illusione della guerra sopportabile. Mi rifugiai in un mio picco-

lo mondo interiore, una mia invenzione. Sognavo di essere non unbimbo-soldato ma un altro pianeta, un piccolo pianeta bambino cheguardava da lontano quella carneficina folle… così rimossi l’orroredalla coscienza, registrandolo però nella memoria. Ci portarono al-l’Est, in Turingia. Lavorammo come bestie per costruire sull’Elbasbarramenti di tronchi d’albero che secondo loro avrebbero dovutofermare i tank americani o russi. Un giorno ci convocarono tutti allasede del partito nazista nel villaggio di Barby. Il capo nazista locale,Sickert, dette udienza in pubblico alla giovane vedova in lacrime d’unsoldato appena morto al fronte. “Cara signora, non si dimentichi maiche suo marito è caduto da eroe per il Fuehrer, per il popolo e per lapatria”, disse. In quel momento pensai per la prima volta con la miamente di adolescente che un uomo poteva essere un porco».

L’orrore del fronte non risparmiava i bimbi-soldato. «Koenigsbergera stata trasformata in città-fortezza, con l’ordine di resistenza a ol-tranza», narrò Terpitz. «Quando noi ragazzi appena arruolati fummoradunati in uniforme alla stazione per la prima volta, l’addio a mam-me, papà e nonni fu un lungo abbraccio insostenibile, il primo dolorestraziante da adulti». Basic training a quattro chilometri dal fronte, poimarce tra villaggi distrutti dalla guerra. «Cadaveri di soldati si alterna-vano a carogne di cavalli con strane mutilazioni. Qualche ignoto, ma-gari anche i nostri commilitoni adulti, aveva tagliato via filetti e lom-bate per sopravvivere alla fame». «Il nostro terrore», annotò Terpitz,

«erano da un lato le pattuglie dei reparti scelti sovietici, pronte a sgoz-zare i nemici in silenzio. Dall’altro i poderosi, inabbattibili “carri armativolanti”, gli aerei anticarro Iljushin 2. Volavano a bassissima quota,non sfuggiva loro un bersaglio. Neanche bimbi in uniforme che fuggi-vano piangendo disperati dal mostro d’acciaio in picchiata».

Terpitz fuggì dal fronte orientale su un carretto, insieme a feriti adulti.La gamba lacerata da spezzoni di bombe, vide da lontano la Koenigsbergin fiamme, caduta in mano all’Armata rossa. Meyer pattugliava Barby in-sieme a un altro bimbo-soldato, i due furono circondati da soldati ame-ricani ubriachi che gli puntarono contro i mitra Thompson. «Il mio com-pagno sapeva l’inglese, recitò la parte del bimbo innocente arruolato aforza, sembrava un angelo. Gli dovetti la salvezza… poco dopo, al muni-cipio, seppi che il comandante del mio reparto, un ex preside di ginnasio,si era tolto la vita sparandosi un colpo in bocca». Czech cadde prigionie-ro dei cecoslovacchi. Dopo due anni di prigionia fu liberato, tornò allacittà natale Goldenau, la trovò annessa alla Polonia. «Trovai lavoro comeminatore. Solo quando chiesi l’iscrizione al Partito comunista la mia ri-chiesta d’espatrio nella Repubblica federale fu accettata». In Renania hasgobbato da edile per una vita, si è costruito una casa, è diventato padredi dieci bambini, nonno di venti nipoti e bisnonno di sei pronipoti. Figlidi un’altra Germania, decisa a vincere non più guerre ma la pace. Alme-no 175mila bimbi-soldato del Volkssturm non ebbero una simile fortu-na. «Disperso», disse d’ognuno di loro l’ultimo bollettino di Himmler.

BAMBINI IN UNIFORMENella foto grandeal centro della pagina,un bambino-soldatodi Hitler catturatodalle truppe alleatenella Germaniadi fine guerra. I ragazziniin uniforme facevanoparte del “Volkssturm”(assalto del popolo),corpo speciale creatocon un decretodi Hitlernel settembre 1944

L’AUTOREL’autore del diario di guerra di cui alcuni estratti sonopubblicati in questa pagina è Gerhard Hoffmann,un austriaco di 87 anni che vive nei dintorni di Vienna.Incarcerato per le sue idee di sinistra nell’Austriadegli anni Trenta, combattente in Spagna con leBrigate internazionali, si rifugiò poi in Francia, siarruolò nell’esercito americano nel 1944 e partecipòall’invasione della Germania negli ultimi mesi del TerzoReich, osservando un popolo sconfitto e in rottacon occhi di nemico e di vincitore, ma di un nemicoe vincitore che parla la stessa lingua e sente via viacrescere sentimenti di pietà e solidarietà.Sessant’anni esatti più tardi, ha ritrovato casualmenteil suo diario e le sue foto di allora e ha deciso dipubblicarli. La traduzione dei diari è stata curata dasua figlia, Cornelia Hoffmann. Chi volesse contattarlilo può fare a questi indirizzi e mail:[email protected] - [email protected]

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il raccontoInvenzioni felici

CONCITA DE GREGORIO

CBILLUND(Danimarca)

hi è l’assassino del gioco piùbello del mondo? È un gialloplanetario, e questa che se-gue non è la soluzione del

mistero perché soluzione finora non c’è.È un appello agli investigatori di tutto ilpianeta perché si interessino al caso: il mi-gliore dei giochi del secolo è in pericolo.Milioni di bambini ancora non lo sanno,ma un’ala nera li minaccia: qualcunovuole uccidere il Lego, bisogna trovarel’omicida e fermarlo. I bimbi sono praticidi eserciti, di lotte del bene contro il male,di draghi joker e sterminatori. Si devechiedergli aiuto. Spiegare bene cosa suc-cede, cominciare dal principio. È una sto-ria terribilmente seria, un delitto ai dannidella fantasia: devono occuparsene loro.

Informazione introduttiva a un undi-cenne. «Lo sai che una giuria ha detto cheil mattoncino Lego è il miglior oggetto diplastica mai inventato?». L’undicenne,continuando a giocare al computer a Ageof Empires, siamo alla civiltà degli aztechi:«È vero, è bellissimo». Lo sai che un’altragiuria aveva detto che è il più bel gioco delsecolo? «Di quale secolo?». Del ventesi-mo, quello finito. «Ah, sì. È vero, è il piùbello». Ma perché è così bello? «Perchétutti gli altri giochi sono già pronti per es-sere giocati, e dopo un po’ diventanonoiosi. Invece il Le-go lo devi inventaree non è mai uguale.Non è già fatto, è dafare, hai capito?».Ho capito: comel’accampamentoche stai facendo quisullo schermo, cimetti le tende poi isoldati poi costrui-sci le case: è comequesto gioco colcomputer no? «Sì,ma questo è per fin-ta, il Lego è per dav-vero. Si fa con le ma-ni». È per davvero, sifa con le mani, cer-to. E allora comemai secondo te il signore che è il padronedella Lego ha problemi di debiti e devevendere il parco Legoland inglese? Saràperché i bambini preferiscono giocare colcomputer piuttosto che col Lego? «Noncredo. Sarà perché i genitori non li porta-no a Legoland. Allora giocano al compu-ter».

Eccoci qua, l’assassino sono i genitori:è sempre colpa loro, pensa come sarebbecontento Freud. Stai a vedere che se la Le-go è in difficoltà non dipende dalla tv cheipnotizza i ragazzini, dai videogame che lirimbecilliscono, dai colossi dell’econo-mia mondiale, dai dittatori planetari deldivertimento che impongono logichemortali per un’azienda ancora familiarecome quella danese: il “Signor Lego” daCopenaghen, il nipote del fondatore,contro il resto del mondo. No, la colpa èdei genitori che non hanno tempo pergiocare né soldi per viaggiare. I genitoriche non stanno lì il pomeriggio a costrui-re astronavi dei Bionicle e non hanno tregiorni liberi per partire coi figli, né i milleeuro per finanziare il viaggio.

Questo dei soldi è un argomento po-tente. Lo sai che c’è la crisi economica, unsacco di gente non ha da mangiare, deverinunciare ai vestiti e alle vacanze, ancheTommaso, ti ricordi, ha detto che que-st’estate resta coi nonni, per non parlaredei bambini nei paesi più poveri che nonhanno nemmeno le medicine per curar-si, li vedi no alla tv? «Certo certo, lo somamma non ti devi preoccupare per meio sto bene anche a casa. Se le cose stannocosì, comunque, è normale che Legolandchiuda. Se c’è la crisi…». Ecco, l’assassinoè la crisi, non papà e mamma. Certo che lecose stanno così, è evidente, lo capisconotutti. Comunque si parte.

I parchi dei divertimenti sono in gene-re terrificanti. Posti con l’ufficio bambinismarriti dove i genitori urlano è colpa tua,no è colpa tua comunque adesso smetti-

la che non sento l’altoparlante, vedrai chelo ritrovano. Il divertimento, ci siamosempre detti, non può essere preconfe-zionato, non basta un pacchetto offertaweekend. Anni di discussioni, perciò orasi parte con oscuri presagi. DestinazioneBillund, Danimarca.

L’aeroporto è attaccato al parco, si arri-va a piedi. È un aeroporto fatto appostaper quello, tutto attorno non c’è altro.L’albergo è dentro la città della Lego. Èmolto tardi, ci danno da mangiare lo stes-so. Sono gentili, c’è un maggiordomo diLego all’ingresso e dei camerieri di Legonella sala ristorante, le sedie sono piccolei tavoli piccolissimi. Si può fumare, è sor-prendente. È l’unica cosa non pensataper loro. C’è l’area Duplo coi mattonigrandi per i bimbi più piccoli che così nonsi annoiano nell’attesa del secondo, unpiccolo Lego in regalo su ogni piatto. Pic-cole sorprese anche nel letto, in camera:un pilota, un aeroplano arancione. Unagigantesca scatola di pezzi introvabili sot-to il tavolo: quel certo ingranaggio, il mat-tone a tre uscite, la coda snodabile delcoccodrillo. I bagni sono fatti perché ibimbi si lavino da soli. Quelli dei paesi delNord lo fanno di certo anche ogni matti-na prima di andare a scuola, denti com-presi, senza ricatti né scenate. Rubinettibassi e una straordinaria sicura perchél’acqua non esca troppo calda. Tv attac-cata alla parete davanti al mini wc, per in-testini pigri.

La mattina alle otto i mille addetti delparco si avviano ai controlli: la manuten-zione consiste nel riattaccare pezzi even-tualmente caduti o sottratti il giorno pri-ma. Nell’attesa dell’apertura si imparanoalcune nozioni, a colazione coi cornflakes a portata di seienne. Che Ole KirkChristiansen, il fondatore, era un falegna-me che costruiva giochi di legno per suofiglio. Che Lego viene da leg (gioca) e godt(bene), il falegname gli dette questo no-me nel 1932 del tutto inconsapevole chein latino e nelle lingue come la nostra si-gnifica “unisco” e dunque evoca la co-struzione. Cifre da favola, poi. In un li-bretto si spiega che nel mondo vengonocostruiti venti miliardi di pezzi di Lego al-l’anno, quasi due milioni e mezzo all’ora.Che, se fossero distribuiti fra i sei miliardidi persone sulla terra, ogni uomone avrebbe 52, abbastanza per gio-carci. Che esistono quasi 103 milio-ni di modi per abbinare sei matton-cini a otto bottoni, e questo per chinon abbia frequentazioni con lamatematica è veramente sorpren-dente: 102.981.500 modi per uniresei pezzi, per l’esattezza. Che pervia della fabbricazione delle ruotedei minuscoli mezzi la Lego è il pri-mo produttore di pneumatici delmondo. Che per renderla indi-struttibile la plastica del Lego vienefusa a 232 gradi, diventa morbidacome pasta di pane, e che il difetto

di fabbricazione tollerato non può esseresuperiore a due millesimi di millimetro.Questo perché ogni mattoncino Lego daqualunque fabbrica del mondo provengae in qualunque epoca sia stato fabbricatodeve essere compatibile con il mattonefratello, più antico più moderno o stra-niero che sia. La precisione delle presseche li fabbricano è tale per cui solo 18 pez-zi ogni milione vengono scartati. Nulla lipuò distruggere e durano in eterno.

Una qualità straordinaria, riflettiamoandando verso il parco accompagnati daun pirata (vero), e però anche un proble-ma — alla lunga — per l’azienda: pensa seesistessero lavatrici che durano in eterno

I PEZZI

Sono i pezzi di Legoche ciascuna persona nelmondo, tra adulti e bambini,possiede. Ogni 7 secondiviene venduta unaconfezione di Lego

L’OSCARIl Lego è stato votatomiglior oggetto diplastica del XX secolo

52

LA PENNA BIC

La storica biro,messain commercionel 1950e mai ritoccatanel design,è al secondopostotra gli oggettidi plasticapiù belli delventesimo secolo,secondo unsondaggio webinglese

Qui tuttoè costruitopensandoai bambini:nessuno piange,nessunoprotesta.Qui anchegli adulti sitrasformano etornano piccoli

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Dove nasce il gioco più bello

GLI ALTRI IN CLASSIFICAÈ stato votato come miglior oggettodi plastica, prima aveva vinto il premiocome miglior divertimento, eppure èin difficoltà. Per scoprire chi lo minacciasiamo andati a Billund, nella capitalestorica dei mattoncini colorati

Lego

Il Lego nasce nel 1932 nella bot-tega di Ole Kirk Christiansen,un povero falegname di Billundin Danimarca: due anni dopoprende il nome di Lego, dallafrase in danese “leg godt”, chevuol dire “gioca bene”. Uno deiprimi giocattoli modulari ad es-sere costruito è un camion chepoteva essere scomposto e poiriassemblato. Nel 1949 comin-ciano ad essere prodotti i primimattoncini in plastica da “lega-re” tra loro per costruire altri og-getti. Nel 1968, a Billund, vienecreato il primo parco Legoland

L’intuizionedel falegname

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che si tramandano per sei generazioni,chi le produce chiuderebbe. Pensa se cifosse un’automobile indistruttibile,avremmo ancora la Millecinque beige delnonno, pensa.

Il parco è un posto gentile. Intanto èdelle dimensioni giuste: non così piccoloda stancarsi subito, non così grande dafarsi venire l’ansia che non ce la farai a vi-sitarlo tutto, devi scegliere, e poi tienimiper mano che ti perdi. Difatti, e di conse-guenza, dopo i primi dieci minuti i bam-bini, tutti, vanno soli. Si staccano dai ge-nitori, «vado a Microland, ci vediamo lì»,e partono. Tanto non ci sono pericoli.

Tanto lontano non possono andare.Tanto prima o poi ci si ritrova. Microlandè il mondo in miniatura riprodotto co-

me sarebbe se fosse stu-pendo: New York con le li-mousine che scorrono len-te, i paesi del Nord con lechiuse a motore idraulico ei battelli che salgono e scen-dono nei fiumi tranquilli, itempli orientali con i devo-ti in preghiera, le rovinegreche senza troppi turisti,Roma pulita. Un aeroportocon gli aerei che decollano,elicotteri che sembrano ve-ri, fanno anche rumore.

Ai bambini le cose picco-

le piacciono enormemente, e il gusto del-la miniatura in Danimarca è virtù nazio-nale. Sorprende di più vedere l’effetto chetutto questo fa sugli adulti: uomini in gi-nocchio a studiare da vicino e da sotto imeccanismi, gruppi di conversazione,flash proustiani di memoria: «Io ho fattoarchitettura perché volevo continuare acostruire anche da grande quelle casette lì,avevo i mattoncini bianchi e rossi, da pic-colo, e le finestre, ti ricordi le finestre?», sisente in un gruppo di francesi. Non c’è res-sa, non c’è coda per entrare nei giochi ani-mati. Due minuti per salire sulle jeep delsafari (rinoceronti enormi, serpenti chesibilano, avvoltoi che battono le ali), cin-que minuti per salire nella canoa che fa ilgiro della collina fra minatori che cantanoe scavano. L’isola dei pirati è la preferita: sisale su una barca in mezzo agli squali Le-go, e si parte per la grotta del tesoro.

Nelle oasi per costruttori decine e deci-ne di bimbi di lingue diverse stanno im-mersi in piscine piene di mattoncini e co-struiscono insieme, capendosi benissi-mo. Ore, anche. Alcuni rinunciano ai gio-chi animati dove i genitori vorrebberoportarli: dai, andiamo al castello. «No, vaitu. Io devo finire». Il castello, dice un car-tello, è stato costruito in otto mesi ed èperciò quello edificato più rapidamentefra i castelli di Danimarca. La faccia che faun bambino ad entrare in un edificio diLego (anche quella dei padri, in molti ca-si) vale il viaggio. Nessuno strilla, nessunopiange, nessuno protesta che ha fame de-ve fare pipì. Il banco dei gelati è vicino alposto dove in piscine di acqua tiepida sipuò cercare l’oro nella sabbia, coi setacci.Nessuno chiede il gelato, vogliono tuttitrovare le pepite.

Il parco chiude alle sei, anche in questocaso è l’ora giusta: siamo un po’ stanchi,non troppo stanchi. Accanto alla pista deigo-kart di Lego c’è uno stupendo stadio inminiatura, con i giocatori delle due squa-dre in campo, il pubblico gli striscioni e lebandiere: di nuovo, come sarebbe unostadio se fosse un bel posto, se il calcio fos-se un gioco. Due giapponesi e un messi-cano lo fotografano. Nel magazzino ac-canto sono in vendita per dieci euro l’unavaligette verdi di plastica grandi comeventiquattr’ore che puoi riempire di tutti ipezzi che vuoi, tanti quanti ce n’entrano.Il paradiso dei pezzi perduti: medici cine-si e piloti neri, bambine africane con letrecce e orsi polari, cespugli, giraffe,ascensori. Alla ricerca della combinazio-ne migliore con cui stipare la valigetta pas-sano le ultime due ore prima della cena.

A letto, prima di addormentarci sotto lafoto del mattoncino rosso a otto bottoni— l’oggetto di plastica del secolo, il capo-stipite di tutto questo — ci diciamo chedavvero un gioco più bello che costruireinventando non c’è. «Mi dispiace tanto

che Legoland chiuda, mamma.Dovrebbero aprirne una inogni posto, invece. Dici che nonsi può fare niente?». Non lo so.

Gli affari non van-no bene, è difficile:bisognerebbe ca-pire perché. «Già,chi è l’assassino.Però i Bionicle sivendono un sac-co». Mi sa che nonbasta. «E se per Na-tale, per i com-pleanni tutti co-minciassero a re-galarsi solo Le-go?». Non possia-mo mica deciderlonoi, la gente com-pra quello chevuole, sai: la pub-blicità, la tv... «Già.Marco mi ha dettoche loro in casa

non possono più giocare col Legoperché con tutti i pezzi che avevano lui ciha costruito il Titanic e nessuno si azzar-da a smontarlo. Magari possiamo pren-dere una valigetta verde anche per loro».Va bene, la prendiamo. «Ok, allora buo-nanotte». Buonanotte. «Mamma, dormigià?». No, dimmi. «Niente. Cioè volevo di-re: grazie».

I VISITATORI

Sono 36 milionii visitatori del parcodi Billund da quandoè nato nel 1968.Per realizzarlo ci sonovoluti 50 milioni dimattoncini Lego

36mln

I MATTONCINI

Sono 203 miliardii mattoncini Legofabbricati nel mondodal 1949 sino ad oggicon una media di 20miliardi di pezzi prodottiogni anno, in pratica2,3 milionidi mattoncini all’ora

203mld

IL RECORD

È costituito da oltre2 milioni di mattoncinil’ultimo recordda guinness dei primatiraggiunto a Singaporenel 2004 con unacostruzione interamentein Lego lunga1.408,04 metri

2.890.580

I BAMBINI

Sono 5 miliardi le ore chei bambini di tuttoil mondo passano, ognianno, a giocare conil Lego. Sono 400 milioniinvece le persone checi giocano ogni anno

5mld

IL CONTENITORE

TUPPERWARE

Al terzo postonella classificadi Plastics Design& Mouldingc’è il contenitoredi plasticaTupperware, messo

in produzionenel 1942

L’OROLOGIO SWATCH

Il popolare orologio svizzero è il quartoclassificato. Il suo primo modellofu commercializzato nel 1983. E nel 2004in tutto il mondo ne sono stati vendutioltre 300 milioni di esemplari. La grandeinnovazione dello Swatch fu la riduzionedel numero di componenti fondamentalida una novantina a cinquantuno

IL COMPUTER iMAC

È uno dei più celebri personal computerprodotti dalla Apple. La sua primaapparizione risale al 1998.Si è classificato al quinto posto

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ROBERTO BIANCHINe SAVERIO CORRER

le storieSoluzioni alternative

Nelle acque della Laguna è cominciata una rivoluzioneepocale: le brìcole, ovvero i lunghi pali usatiper ormeggiare e sostenere i pontili, rischiano di non esserepiù di legno pregiato come avviene da secoli e di venirrimpiazzate da prodotti artificiali. Con alcuni vantaggie tante polemiche

BVENEZIA

orsalino a tesa larga sulleventitré, sigaro Havanastretto fra le labbra, il vec-chio gondoliere cammina

su e giù, lento e pensieroso, misuran-do i passi, lungo la fondamenta dei To-lentini. La sua attenzione è attratta daalcuni lunghi pali conficcati nel fangodel rio che spuntano alti dall’acquaquieta. Lui vede subito che sono diver-si, non ha bisogno di spiare la targhet-ta appesa al collo come una meda-glietta. Amedeo Memo detto El profe-sòr, decano dei gondolieri veneziani,capisce immediatamente che non so-no più le brìcole di una volta,quelle di legno grezzo, quelledella sua giovinezza, quelledove si è attaccato milioni divolte con la sua gondola, ma-ledicendo quelle scheggeche si staccavano quando lesfiorava e gli si infilavano co-me aghi nelle mani. Si china,il gondoliere in pensione,piegato sul suo bastone colpomo di argento a forma dischiena di donna, e si sporgedalla riva fino a toccare, conle sue dita nodose, la pelle lu-cida e liscia di una di quellebrìcole strane. Non diceniente. L’accarezza a lungo,perplesso. Poi si rialza, lenta-mente, soffia una nuvolettadi fumo azzurro e brontolafra i denti, senza staccare ilsigaro di bocca: «Plastica.Mah».

È cominciata una rivolu-zione silenziosa in laguna.Un mutamento epocale, checambia uno scenario immo-bile da millenni. Una nuovaforesta di alberi sta perspuntare, rigogliosa e tec-nologica, dalle pigre acquedella città che fu Serenissi-ma. Una foresta di alberi fin-ti, prodotti in laboratorio ecresciuti in una fabbrica in-vece che in un bosco. Eranodi rovere, di castagno, di la-rice e di acacia i legni usati fi-nora, come da tradizione,per fare le brìcole, come lechiamano i veneziani, queilunghi pali usati per ormeg-giare le barche, sostenere ipontili, segnare il percorsodei canali navigabili.

Ora cambia tutto. Le brìco-le del futuro saranno di pla-stica: un tubo di ferro rivesti-to di poliuretano espanso adalta densità, che chiamanosimil-legno, o anche legnoinnovativo. Ormai lo usanoanche i mobilieri, dicono, e silavora proprio come il vec-chio legno, del quale ha lastessa densità e uguale pesospecifico: si carteggia, si segae si pialla con tanto di riccio.Dalla fine dell’anno scorsone sono state piantate quat-tro in città, di queste nuovebrìcole sperimentali di pla-stica, con tanto di autorizza-zione numerata della com-missione di salvaguardia,che hanno messo bene inmostra, quasi a giustificareun’anomalia, su una tar-ghetta metallica. Se l’esperi-mento funzionerà, le nuovebrìcole hi tech cambieranno i conno-tati di un mondo che a Venezia è qual-cosa di più di una parte non seconda-ria del paesaggio, con i suoi riti, le suetradizioni, i suoi misteri, la sua musicanascosta.

Foresta nella nebbia

Un mondo liquido che è come una fo-resta tropicale cresciuta nella nebbia,nel calìgo come dicono qui, come unapioggia di matite giganti finite im-piantate nell’acqua per il capriccio diun dio bizzarro. Uno spartito muto,ma solo in apparenza, di crome e di bi-scrome, con il suo linguaggio segreto,comprensibile solo a chi è nato sul-l’acqua, fatto di nomi che variano a se-conda della grandezza e del fatto di vi-vere solitario oppure in gruppo. Perciòsi chiamano «pali» e «paline», ma an-che «dame» e «meda», fino alle aristo-cratiche «colonne» da palazzo, gene-ralmente a fasce bicolori, bianche e

trevigiano, con una piccola aziendache progetta sistemi di poliuretanichiavi in mano. La sua invenzione sideve alla scoperta del «male oscuro»che ha colpito le vecchie brìcole di le-gno. «Un tempo duravano di più —spiega — perché almeno fino a diecianni fa i pali, acquistati in Slovacchia aprezzi abbastanza alti, erano di legnomolto stagionato, e quindi resisteva-no meglio al tempo che passa. Negliultimi tempi invece ci si è accontenta-ti di un legname meno costoso ma po-co stagionato, acquistato prevalente-mente in Germania, che oggi diventauna facile preda, oltre che della salse-dine, della teredine navalis, un picco-lo mollusco marino simile a un verme,

che i veneziani chiamano elbisso».

Questo animaletto è unpericoloso parassita che siciba di ogni tipo di legno chetrova in acqua, dalle brìcolealle barche, delle quali man-gia tutta la parte che rimaneimmersa, fino a divorarla. Lapresenza del bisso, nomi-gnolo che le vecchie nonneveneziane affibbiano aibambini che non stanno maifermi, è molto aumentata inlaguna negli ultimi anni per-ché più c’è da mangiare e piùcresce, e i pali poco stagiona-ti, secondo Gianni Trovò, so-no per lui un pasto più appe-tibile. Di qui l’idea di fare lebrìcole di plastica, renden-dole praticamente inattac-cabili sia dai vermi che dalsalso, e quindi «più durature,più ecologiche, più sicure emeno costose». Anche se, in-dubbiamente, più povere, senon del tutto prive, del fasci-no dell’usura del tempo e delcolore del legno che lenta-mente sbiadisce.

Un milione di euro

Il progetto, costato un milio-ne di euro, ha superato l’esa-me della facoltà di chimicadell’università di Padova sulfronte dell’impatto ambien-tale, e ha ottenuto l’approva-zione della commissione disalvaguardia, del magistratoalle acque e del settore mobi-lità acquea del Comune diVenezia. L’unico problema,per chi voglia acquistarneuna, è che prima di piantarlain acqua deve chiedere l’au-torizzazione perché si trattapur sempre di un materialediverso dalla secolare tradi-zione veneziana.

L’inventore delle brìcoledi plastica se ne rende con-to. «Penso che per motivi diimmagine — dice — evite-ranno probabilmente diconcedere l’autorizzazionein certe zone della città chehanno un grande pregio ar-tistico, come lungo il CanalGrande o nel bacino di SanMarco». Ma lui non si sco-raggia: «La laguna è gran-de». E pensa già di allargareil fronte della sua scoperta,che è stata presentata neigiorni scorsi all’ultimo salo-ne nautico di Venezia, nonsolo alle spiagge dell’Adria-tico e dell’Emilia-Romagna,dove i problemi ambientali

sono minori rispetto alla laguna diVenezia, ma anche ad altre costru-zioni. Sta infatti meditando di rifarecol suo finto legno di plastica anche ipali in ferro che attualmente sorreg-gono i pontili e quelli in legno chevengono usati per la difesa dellesponde delle isole.

Una rivoluzione di plastica. Che,come tutte le cose nuove che si pro-gettano a Venezia, sempre divisa trafronti del sì e fronti del no, come av-viene da decenni sul sistema di para-toie contro l’acqua alta, rischia di tra-sformare la laguna in un campo dibattaglia che vede nelle opposte trin-cee conservatori e innovatori. «Mah,non vedo niente di buono all’orizzon-te», scruta nell’acqua quieta il vec-chio gondoliere.

sei agli otto metri, oltre a un altro mi-lione di paletti piantati nelle barene.Una foresta che, per la gioia dei com-mercianti di legname e la disperazio-ne degli ambientalisti, ha bisogno diessere rinnovata ogni due anni. Si ali-menta così il disboscamento, soprat-tutto in Slovenia, in Germania e nelleArdenne, perché ormai in Italia nonesistono più foreste in grado di soddi-sfare la richiesta per la fornitura deipali necessari in laguna. Le nuove brì-cole di plastica invece, pur costando ildoppio (400 euro) di quelle di legno,durano molto più a lungo: sono garan-tite per quindici anni. Inoltre assicu-rano maggior sicurezza perché non sispezzano e quindi non diventano pe-ricolose per la navigazione.

«Le nuove brìcole», assicura il loroinventore, «hanno superato tutti i teste gli iter autorizzativi necessari». L’uo-mo che le ha ideate si chiama GianniTrovò, ha 57 anni, è un imprenditore diMestre che ha lavorato per trent’anninel settore delle materie plastiche, al-la Zanussi e alla Grundig, prima dimettersi in proprio a Zero Branco, nel

azzurre o bianche e rosse, usate perdelimitare le antiche porte d’acquadei palazzi affacciati sul Canal Gran-de. «Un simbolo — dice il vecchio gon-doliere — quasi un totem della vene-zianità, oltre che un elemento tipicoda sempre del paesaggio lagunare».

I gabbiani, per ora, non ci fanno ca-so. E vanno tranquillamente a posarsianche sulle nuove brìcole plastificate,sempre lucide come il miele, propriocome facevano prima sulle vecchie. Icustodi più gelosi della venezianitàcominciano invece a storcere il nasodavanti a questo corpo estraneo a unatradizione storica millenaria, come lodefinisce l’arcigno Gigio, pescatore dicaparòsoli, severo guardiano di tuttele antiche usanze. Ma non mancano ifavorevoli, gli innovatori, quelli chesostengono che le brìcole di plastica,che hanno già suscitato interesse negliUsa e in alcuni paesi del nord Europacome Olanda e Danimarca, aprirannonuovi orizzonti sul fronte ambientale,del risparmio e della sicurezza.

Nella laguna veneziana sono infissiun milione di alberi di legno lunghi dai

IL VECCHIO E IL NUOVONella foto grande, a sinistrala nuova brìcola di plastica,a destra due brìcoletradizionali in legnoQui sopra, brìcole venezianein uno scatto d’epoca

Materiale: tubo di ferro rivestitodi poliuretano espanso ad altadensità, noto anche come similegno Durata: sono garantite 15 anniNumero: finora ne sono statecollocate quattro sperimentaliAltezza: uguale a quelladelle brìcole di legnoCosto: 400 euroVantaggi: più durature, più sicure,più economiche (se si considerala durata) e più ecologiche(nel senso che non alimentanola deforestazione)Svantaggi: non rispettano latradizione ed esteticamente dannol'impressione dell'artificiale

Materiale: sono in rovere,castagno, larice o acaciaDurata: in media 2-3 anniNumero: un milione Altezza: da sei a otto metriCosto: 200 euroVantaggi: rispettano unatradizione secolareSvantaggi: si usurano primae, quando si rompono, sonopiù pericolose per lanavigazione. Inoltrealimentanola deforestazione

Il bosco di plasticache cambia Venezia

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i luoghiTerre lontane

I navigatori sbarcati quindici secoli fa le diedero un nome che significa“ombelico del mondo”. Non a caso: la città più vicina è a 3.700chilometri e intorno non c’è altro che Oceano. Ecco Rapa Nui,abitata da un popolo che fino a quaranta anni fa era ridottoin schiavitù e che si sta riscattando grazie ai “moai”, misteriosestatue di pietra le cui origini si perdono tra storia e leggenda

La rivincita dell’Isola di Pasqua

L’HANGA ROA

ombelico del mondo èsperduto in mezzo almare. Intorno non hanulla: solo acqua per mi-

gliaia di chilometri. È una pietra scura,tonda, poco più grande di un pallone dacalcio. Te Pito o Te Henua la chiama lagente di qui, lo stesso nome con cui 1500anni fa un gruppo di navigatori corag-giosi battezzò la terra dove era sbarcatodopo giorni in mezzo al mare: un trian-golo perduto nell’Oceano pacifico, lon-tanissimo da qualunque altro punto.L’ombelico del mondo, appunto. Ognianno quasi trentamila persone arriva-no davanti a quella pietra, sull’isola cheporta lo stesso nome: Te Pito o Te He-nua. Pochi ricordano un nome tantodifficile: sulle cartoline per gli amicipreferiscono scrivere Rapa Nui, l’ap-pellativo reso celebre da un kolossalhollywoodiano, o Isola di Pasqua, comela chiamarono increduli gli olandesiche ci sbatterono contro quasi per casonella domenica di Pasqua del 1722.

I visitatori sbarcano nel piccolo aero-porto di Mataveri, una costruzionebianca a poca distanza dall’unico vil-laggio, Hanga Roa: è poco più di un pre-fabbricato, ma in cinquanta anni è di-ventato l’ombelico dell’isola di oggi.Basta una mappa per capire perché: dalposto più vicino, Santiago del Cile, civogliono 3.700 chilometri per arrivareall’Isola di Pasqua. Cinque ore di volo,

con sotto solo acqua: l’alternativa sonogiorni e giorni su una nave cargo. Di fat-to gli aerei blu della LanChile sono l’u-nico mezzo che collega Rapa Nui al re-sto del mondo: per questo da Mataveripassa tutta la vita dell’isola. I ragazziche partono per studiare, i containercon il cibo e l’acqua, i mobili per le casee i pezzi di ricambio per le macchine. Eil benessere, sotto forma di turisti incalzoncini corti e occhiali da sole: indodici anni il flusso è aumentato a di-smisura. Le guide dicono che nelle ulti-me due stagioni si è sfiorata quota30mila arrivi, un record per un luogocon poco più di tremila abitanti.

L’assalto dei visitatoriTutto lavoro in più per Maria, guarda-parco in uno dei siti archeologici piùbelli, l’Ahu Tahai, dove il sole tramontaalle spalle dei moai, le enormi statue dipietra che secondo gli archeologi rap-presentavano i re e i potenti dell’isola.«A volte sono davvero troppi — raccon-ta lei, mentre fra una parola e l’altra usail fischietto per fermare quelli che si av-vicinano troppo alle sculture — non rie-sco a stare dietro a tutti». La storia di Ma-ria cammina in parallelo con quella del-la sua terra. Suo padre era uno deglioperai che negli anni ’60 lavorarono alrestauro di questa zona: da bambina leigiocava fra quelle pietre enormi da do-ve oggi allontana turisti indisciplinati.Erano tempi difficili: dalla fine dell’800il governo di Santiago aveva ceduto l’in-tero territorio a una società scozzese diallevamento di pecore che lo trasformòin pascolo: agli abitanti era vietato ab-bandonare il villaggio, circolare nell’i-

sola e tantomeno lasciarla. Per ottantaanni i fieri discendenti degli scultori deigrandi moai furono di fatto ridotti inschiavitù: solo nel 1966 gli scozzesi fu-rono cacciati e i divieti rimossi.

Maria oggi ha una grande casa vicinoalla spiaggia. Sua figlia si chiama Rosa: èalta e affascinante e porta un fiore fra icapelli come si usa qui. Ha 17 anni e du-rante la bella stagione vende collane aituristi. Fra pochi giorni partirà per tor-nare a Vina del mar, in Cile, dove studia:«Vuole prendere un master in turismo,e tornare qui a lavorare — dice la madre— ma è presto ancora: deciderà lei».Una libertà che suo nonno, prigionierodel villaggio, non avrebbe mai sognato.

Molte cose sono cambiate a Pasquanegli ultimi decenni, ma la maggior par-te dei turisti non se ne rendono conto:vengono a vedere l’isola dei misteri e ascattare foto ai moai. Fanno domandesulle leggende: gli spiriti, gli extraterre-stri, le statue che camminano. Chiedo-no del sangue e dei complotti che hannovisto al cinema, nel Rapa Nui prodottoda Kevin Costner, che uno degli alberghiproietta tre sere a settimana: «Pochi ca-piscono che quella era finzione, ma que-st’isola ha vissuto drammi veri più gran-di di quelli del film», racconta Bill Howe.Questo australiano alto e biondo è sbar-cato ad Hanga Roa per la prima volta nel‘92 con la troupe di Costner: è rimastoprigioniero del fascino del luogo e di unabella ragazza che poi è diventata suamoglie. Oggi gestisce un albergo e ac-compagna piccoli gruppi di visitatori:dell’isola e dei suoi misteri è uno dei mi-gliori conoscitori. Howe racconta chequando arrivò qui non avrebbe maipensato di restarci: non c’erano strade,né macchine, gli uomini bevevano, ledonne lavoravano per l’intera famiglia.Molti bambini pativano la fame, quasitutti erano poveri, ma nessuno avevatroppa voglia di lavorare per la produ-zione. O almeno, non nel modo in cui in-tendevano gli americani.

Per mesi dovette discutere per tutto:

poi si abituò, e cominciò a notare i pratigialli che finiscono in mare, ad affezio-narsi ai cavalli e alle mucche che faceva-no irruzione sul set e amare le onde del-la spiaggia di Anakena, dove si respiraodore di Polinesia. Capì che non occor-reva allontanarsi molto per studiare imoai: sono ovunque, dritti vicino al ma-re, spezzati sulla via dalla cava alla piat-taforma di destinazione, a terra in ango-li sperduti. Si innamorò dell’isola e diEdith Pakarati. Fu lei a spiegargli quelloche sui libri non c’è: la pena di un popo-lo orgoglioso che per mille anni scolpì lasua gloria nei moai, si distrusse da solo inuna spirale di violenza generata dall’e-saurirsi delle risorse e a metà del ’700sprofondò in una decadenza durataduecento anni, culminata con l’annes-sione al Cile e la cessione agli scozzesi.

La lotta per l’autonomiaHowe dice che da questa pesante ere-dità l’isola fatica ancora a riprendersi. Irapporti con il governo centrale restanotesi, e neanche il mea culpa fatto nel2003 dal presidente Lagos sulle violenzedei cileni è servito a ricomporre la ferita.Nelle generazioni più vecchie bruciaancora il ricordo della schiavitù prima edell’arroganza di Santiago poi: in moltiquesti pensieri alimentano la voglia diuno stato proprio. «Siamo stanchi delcolonialismo — dice Erity Teave, porta-voce del Parlamento Rapa Nui, il movi-mento indipendentista — è arrivato ilmomento che la gente faccia valere ilsuo diritto all’autodeterminazione».

Parole che suonano come veleno alleorecchie del sindaco Pedro EdmundsPaoa: «L’indipendenza è la morte», ripe-te a ogni occasione utile. Da anni il pri-mo cittadino si batte perché il Cile rico-nosca all’Isola di Pasqua lo status di ter-ritorio autonomo, sul modello di quan-to ha fatto la Francia per la Polinesia. Inautunno i pasquensi lo hanno riconfer-mato in carica per il quarto mandatoconsecutivo, su un programma che ve-de al primo posto l’autonomia. Ce lo il-

32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 17 APRILE 2005

Il parcoarcheologico èvisitato ogni annoda trentamila turisti,che portano denaroe benessere. Cosìtra gli abitanti crescela voglia diindipendenza:“Siamo polinesiani,non cileni”

FRANCESCA CAFERRI

LE SCULTURENelle foto quisopra e in basso,alcuni degliimponenti “moai”disseminati perl’isola di Pasqua.Nella paginaaccanto, dasinistra, untramonto a RapaNui, un negozioad Hanga Roa, laspiaggia diAnakena e un ritoreligioso localeper propiziarel’intervento deglispiriti protettivi

“Pochi gli indigenima armati di lance”

Dal diario di bordo del 1774

JAMES COOK

Nessuna nazione si contenderà mai l’onoredella scoperta di questa Isola di Pasqua,perché difficilmente in questo mare si tro-

va un’isola che offra meno sollievo di questa allasete o offra altre comodità per le navi. La naturale ha dato ben poco di idoneo a sfamare o disse-tare l’uomo e poiché gli indigeni sono pochi, sipresume che essi vi piantino soltanto quello chebasta loro, e pertanto non hanno molto da offri-re ai nuovi arrivati.

I prodotti sono patate, patate dolci, canna dazucchero, una varietà di banane, tutti eccellentidal loro punto di vista. Le patate sono le miglioriche io abbia mai assaggiato. Ci sono anche zucchee (...) poi galli e galline come le nostre, ma piccolee poche. Questi sono gli unici animali domesticiche abbiamo visto tra loro, non vi era alcun qua-drupede, bensì ratti che credo che mangino, per-ché ho visto un uomo che ne avevaalcuni in mano e pareva molto pocodisposto a darli via. Abbiamo vistopochi uccelli terrestri e soltantoqualche uccello marino: erano Uc-celli degli Uomini di Guerra, Sem-pliciotti, Uccelli delle Uova, etc…Ilmare pare del tutto privo di pesciperché non siamo riusciti a pren-derne nessuno, nonostante il fattoche abbiamo provato in parecchiposti con gli ami e le lenze, e ben po-co ne abbiamo visto tra gli stessi in-digeni. Questo è ciò che produce l’I-sola di Pasqua, situata a 27°6’ di lati-tudine sud e a 109°51’ 40'' di longi-tudine ovest. È di circa 10 leghe dicirconferenza e ha una superficierocciosa e collinosa. Le colline sonoalte tanto da poter essere avvistateda 15 o 16 leghe di distanza. (...)

Da quanto abbiamo potuto ve-dere, gli abitanti di quest’isola nonsuperano le sei o settecento anime.Oltre due terzi di loro sono uomini: o hanno po-che donne tra loro, oppure molte non hanno osa-to farsi vedere. Questa seconda ipotesi pare la piùprobabile. Sicuramente sono della stessa razzadel popolo della Nuova Zelanda e delle altre iso-le: lo dimostrano l’affinità delle loro lingue, il lo-ro colore e alcune delle loro usanze. (...)

Gli abitanti dell’isola hanno enormi fori nelleorecchie, ma non saprei dire quali siano i princi-pali ornamenti delle loro orecchie. Ne ho visti al-cuni con un anello fissato nel foro dell’orecchio,ma non appeso, e ne ho visti altri con anelli fattidi qualche sostanza elastica e arrotolata, quasifosse la molla di un orologio, il cui scopo deve es-sere quello di allargare ulteriormente il foro. Leloro armi sono mazze di legno e bastoni molto si-mili a quelli della Nuova Zelanda, e lance lunghesei o otto piedi con un’estremità appuntita e conpezzi di freccia nera.

Non possiamo dire nulla con certezza della lo-ro religione e della loro forma di governo. Lesplendide statue di pietra erette in differentipunti lungo la costa sicuramente non raffigura-no alcuna divinità né segnalano un luogo di de-vozione. Più probabilmente contrassegnano illuogo di sepoltura di alcune tribù o famiglie. (...)

Tra questa gente sono state trovate delle scul-ture, né mal disegnate né mal eseguite. Essi nondispongono di nessun altro attrezzo oltre a ciòche hanno costruito con le pietre, le ossa e le con-chiglie. Danno scarso valore al ferro, pur cono-scendone l’uso.

(Traduzione di Anna Bissanti)

lustra Ingrid Westermeier Tuki, giovanevice-sindaco che sostituisce Paoa quan-do lui è impegnato sul continente.«Questo è un territorio che geografica-mente appartiene alla Polinesia. Abbia-mo una nostra lingua, un sistema, un’i-dentità, una cultura diversa da quelladei cileni. Tutto è diverso: abbiamo bi-sogno di un’amministrazione diversa».Oggi l’isola è un comune di Valparaiso,la capitale provinciale che sta a 4.000chilometri di distanza: dal governo cen-trale riceve circa dieci milioni di dollaril’anno, altri tre arrivano dal turismo.Non si pagano tasse locali, quindi la po-polazione è fra le più ricche dell’interopaese: ma allo stesso tempo dipende intutto e per tutto dall’amministrazionecentrale. E i soldi non bastano: «È un po-sto dimenticato — spiega Howe — chi siricovera in ospedale deve portarsi cibo elenzuola: non ci sono le macchine per leanalisi. Fino all’anno scorso la scuolaera una delle peggiori di tutto il Cile: iostesso ho mandato mia figlia a studiarefuori. Ora l’abbiamo ricostruita, grazie adonazioni di privati dall’estero: mia fi-glia è tornata, e con lei molti altri ragaz-zini. Tutto è così su quest’isola».

Nella cava delle meraviglieMentre parla, Howe indica il sentieroda seguire in uno dei posti più incredi-bili del mondo, il vulcano di Rano Ra-raku, la cava in cui venivano scolpiti imoai dell’isola. Lungo le sue pendici cene sono centinaia. Spuntano dall’erbaverde: alcuni sono altissimi, di altri sivede solo la testa, altri ancora esconoappena dal terreno. Moltissimi sonoancora sepolti. È difficile persino rico-noscerli tutti, per quanti sono: ci sonoquelli appena abbozzati nella roccia,quelli rimasti a metà, quelli finiti epronti per il trasporto. Sembra di esse-re in una fabbrica dove gli operai sonousciti per una pausa centinaia di annifa, lasciando ogni cosa al suo posto, manon sono più tornati. È un luogo mera-viglioso, quello che forse meglio di tut-ti incarna i misteri dell’isola di Pasqua:e che nessuno sorveglia. Rubare le sta-tue è impossibile, ma danneggiarle sa-rebbe facilissimo. «Il guardiano sta qui

’68, sono più di 50 oggi. Offrono turi-smo per tutti i gusti: si può fare trekkingo andare a cavallo, scegliere fra surf eimmersioni o dedicarsi a tour esoterici,sulle orme di spiriti e leggende.

Spiriti benigni e maligniEppure miracolosamente l’anima dell’i-sola finora è rimasta intatta: basta ascol-tare la domenica mattina la messa bilin-gue — spagnolo e Rapa Nui — di padreJohn Navarrete per rendersene conto. Ifedeli lo ascoltano con molta attenzione:le donne hanno corone di fiori in testa, gliuomini collane di piume. Non è folcloreper i turisti ma tradizione, vera. Gli stra-nieri che assistono sono estranei: cileni enon, qui sono cittadini di serie B. Nonpossono possedere terreni né accedere afinanziamenti, se non con condizionistrettissime. Norme che finora hanno fer-mato l’avanzata delle grandi catene di al-berghi e per le quali i pasquensi ringrazia-no Pinochet: raccontano che fu propriouna collana donatagli da uno di loro a sal-varlo da un attentato. Il dittatore ricambiòcon queste leggi. «Una storia di spiriti —dice Howe — ne sentirete decine comequesta: qui tutti pensano che ci siano spi-riti maligni e spiriti protettivi, ovunque».

Il primo, il più grande degli spiriti, sa-rebbe quello che protegge Te Pito o TeHenua e la sua gente, il popolo RapaNui. Howe è australiano, e a queste co-se dice non credere. Ma sta qui da mol-to tempo, e quando la sera vede il solescendere in mare dietro ai moai si ri-crede: «Deve esserci per forza uno spi-rito a proteggere un posto così».

la mattina, quando arrivano i pullmandei turisti — spiega Howe — poi piùniente». Solo visitatori fuori orario efantasmi di artigiani di secoli addietro.

Rano Raraku illustra bene perchétanta parte della disputa sull’autono-mia sia legata al parco archeologico. Ilparco di fatto è l’isola intera: i novecen-to moai che lo compongono non sonoconcentrati in pochi punti, ma sparsiovunque, dal centro del villaggio allaspiaggia. Per vigilarli tutti ci vorrebbeun esercito di guardiani: invece non siriesce neanche a far pagare il biglietto atutti i visitatori. Pochi soldi, poco per-sonale, pochi controlli: una spirale cheil sindaco vuole interrompere pren-dendo direttamente in mano il parco.«È un dono dei nostri antenati, per il fu-turo nostro e dei nostri figli — dice In-grid — dobbiamo essere noi a gestirlo».

Non è pura questione di orgoglio: imoai sono una miniera d’oro, un’assi-curazione per il futuro di una terra chenon ha altre risorse oltre al turismo. Ipasquensi lo hanno capito a partire da-gli anni ’90, quando è iniziato il boomdei visitatori: prima il kolossal RapaNuiha fatto conoscere l’isola al mondo,poi la fine della dittatura di Pinochet hariammesso il Cile nell’elenco delle na-zioni “visitabili”. Infine l’11 settembreha fatto il resto, dirottando in Sud Ame-rica orde di turisti in cerca di destina-zioni sicure. Il risultato è che in meno di15 anni l’asfalto ha trasformato i sen-tieri in strade, al posto dei cavalli sonoarrivate le macchine e gli alberghi si so-no moltiplicati: ce ne era uno solo nel

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 17 APRILE 2005

L’ESPLORATOREIl capitano JamesCook nacquenel 1728in un villaggiodello YorkshireS’imbarcòa 18 annie morì nel 1779

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“Così ho scoperto Zivago”parole, pensa che in una libera societàci debba essere la censura?

«Non credo che in una libera societàpossa esistere la censura. Penso inveceche se qualcuno decide di pubblicarelavori, libri o altre forme di espressioneche non hanno alcun valore artisticoma che perseguono soltanto l’oscenitàin quanto tale, questo qualcuno do-vrebbe risponderne davanti a un tribu-nale, dove si discuterebbe se a causa diquesta oscenità chi le ha pubblicate siao meno perseguibile».

Lei ritiene che ci siano delle personequalificate per stabilire dove finisce ilmerito artistico e si oltrepassa la lineadell’oscenità?

«Questa è una domanda molto diffi-cile. Non credo che uno possa definirechi è chi, ma il fatto che l’autore e la ca-sa editrice o il giornale possano esserechiamati a rispondere davanti alla giu-stizia, soltanto dopo la pubblicazionedi un’opera, permette che al riguardo sicrei, si formi, un’opinione generale. Ladiscussione sarà allora più estesa diquella che si potrebbe avere in un tri-bunale. Per questo motivo, quando suun argomento si è creata un’opinionepiù generale si può arrivare a un giudi-zio non corretto in qualche caso. Mal’opinione pubblica, se coinvolta, equando è coinvolta, può gradualmenteesercitare un’influenza sul legislatore esui giudici riguardo a cosa è cosa».

Naturalmente, se l’opinione pubbli-ca influenzerà il legislatore e i giudicinella direzione giusta è una questioneaperta. Ma possiamo essere d’accordoche alla fine uno potrebbe decidere sucos’è osceno e cosa non lo è. Quale dan-no pensa che la cosiddetta letteraturaoscena potrebbe cagionare alle perso-ne? Le pongo questa domanda così im-pegnativa perché personalmente sono

Signor Feltrinelli, potrebbe di-re a me, che sono nel campodell’editoria da poco tempo,quando ha iniziato a pubbli-care libri e che tipo di libripubblicava allora in Italia?

«Abbiamo cominciato a pubblicarelibri nel 1955. Con qualche eccezione,erano assai brutti».

Perché è venuto in America questavolta?

«Sono qui perché ora stiamo pubbli-cando libri migliori. E vogliamo pubbli-carne ancora di miglior qualità. Hopensato che questo contatto diretto epersonale con gli editori americani fos-se un passo importante per svilupparela nostra attività, per aggiungere nuoviautori al nostro catalogo e per avereuna conoscenza diretta della produ-zione letteraria negli Stati Uniti».

Ci sono degli scrittori di cui lei ha sen-tito parlare, che l’hanno colpita e che lesono rimasti impressi nella memoria?Ci sono tre o quattro scrittori che po-trebbero essere pubblicati in Italia?

«Non ne ho trovati molti. Questo è unperiodo di transizione. Ci sono alcuninuovi autori che probabilmente saran-no pubblicati tra qualche anno: JamesPurdy, Jack Kerouac, anche se non è piùgiovane. Mi auguro di poter includere di-versi di questi libri nel nostro catalogo».

Lei è una figura fuori del comune ar-rivata sulla scena pubblica soltanto dapochi anni. Non succede spesso che uneditore attiri su di sé tutta l’attenzioneche lei ha suscitato. Tutto ciò ha ruota-to principalmente attorno alla pubbli-cazione del libro di Boris Pasternak, Ildottor Zivago. Ci racconta come è arri-vato a pubblicare questo libro?

«Il romanzo è arrivato nelle mie maninel più semplice dei modi. Avevo un ami-co che stava a Mosca e che s’informavaper me, mi diceva cosa c’era di nuovo».

Mi scusi. Ma questo mi sembra unpunto molto interessante. Com’è cheuno ha un amico che sta a Mosca es’informa per conto suo? È una cosa cherende geloso e mi chiedo chi siano quel-li che hanno questo tipo di possibilità.

«Ci sono molti giovani italiani che stu-diano all’università di Mosca per due otre anni. Uno di loro mi chiese prima dipartire se ero interessato a ricevere conregolarità notizie sulla nuova letteratu-ra russa e sulla saggistica. Io risposi: “Sì,naturalmente”. Questa persona era aMosca nel 1956 e aveva sentito parlaredel romanzo che Pasternak stava scri-vendo. Io gli dissi: “Ok, procedi”. Lui simise in contatto con l’autore e prese gliaccordi necessari per la pubblicazionedel libro in Italia. Il libro doveva ancoraessere pubblicato nell’Unione Sovieti-ca. Non c’erano problemi di censura.Questo amico mi portò il manoscrittooriginale. Io andai a prenderlo a Berlino.Era scritto a macchina con le correzionie le cancellazioni dell’autore».

In tutto questo tempo, ha saputoqualcosa di Pasternak?

«Ho ricevuto diverse lettere sue e misembrava interessato alla pubblicazio-ne del suo libro in Italia».

In America abbiamo letto che a uncerto punto le cose erano cambiate, luio i sovietici avevano cambiato idea.

«Dopo aver annunciato la pubblica-zione, nell’autunno del 1956, a Moscasi verificò un cambiamento. Inizial-mente mi fu chiesto di posticipare lapubblicazione fino all’ottobre 1957,

cosa sulla quale fui d’accordo perché lamia traduzione non era pronta. Poi sirinunciò definitivamente a pubblicar-lo (in Russia). Alcuni rappresentantidegli scrittori sovietici, in particolareAleksei Surkov, che era il presidentedell’Unione degli scrittori sovietici,vennero a visitarmi. Parlammo del li-bro e lui era molto critico. Ne sconsi-gliava la pubblicazione».

Che idea si fece di questi tentativi didissuaderla dal pubblicarlo?

«Pensai che i suoi giudizi fossero in-fluenzati da una strana rigidità politica,direi. Non aveva niente a che fare conun giudizio obiettivo del libro, che ionon considero un romanzo antisovie-tico o anticomunista. È un romanzo suitempi duri che attraversa un paese.Tratta di esseri umani e della loro lottanella vita. Contiene una serie di lezionifondamentali, valide per qualsiasi es-sere umano nella società moderna».

L’avrebbe pensata diversamente sesi fosse trattato di un romanzo antiso-vietico?

«Per me è una questione di qualità.Non credo che l’arte letteraria possa es-ser giudicata rigidamente con questio-ni politiche o schemi politici».

Sono certamente d’accordo con lei.Ma la posizione di Surkov, che il libronon doveva essere pubblicato a causa diquel che lui considerava una natura an-tisovietica, suscitò in lei nuove conside-razioni rispetto all’Unione Sovietica?

«Mi sorprese il fatto che in un paeseche aveva alle spalle quaranta anni dirivoluzione vittoriosa, dove i sovieticierano ancora al potere, questi stessi so-vietici fossero tanto preoccupati per unromanzo come questo. Pensai che eraassolutamente ridicolo. Quelle espe-rienze umane possono darsi sottoqualsiasi governo, in qualsiasi paese».

Personalmente, come editore, miha sempre interessato la censura. Èstato sempre un problema rilevantenegli Stati Uniti: la libertà della stam-pa. Lei deve aver avuto esperienze diprima mano al riguardo pubblicandoIl dottor Zivago. Ritiene che la censuradebba esserci, per esempio, da partedella Chiesa o dello Stato sulla base diargomentazioni morali, politiche oche riguardino la pornografia? In altre

BARNEY ROSSET

È il 1959, il giovane editore italiano è in viaggio negli Stati Unitia caccia di nuovi talenti da lanciare come Jack Kerouac e JamesPurdy. In una intervista radiofonica concessa al suo collega Barney

Rosset racconta gli inizi della sua carriera e come è arrivato a pubblicare, primoal mondo, il capolavoro di Boris Pasternak. Poi parla di una censura a posteriori“necessaria per evitare che qualcuno pubblichi oscenità senza valore artistico”

“Il libro mi fu indicatoda un amico chelavorava a Mosca

e io gli dissidi procedere subito”

34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 17 APRILE 2005

FeltrinelliGiangiacomo

IN FAMIGLIAIn alto, GiangiacomoFeltrinelli con l’attore OmarSharif, Zivago cinematografico;sotto, con la moglie Ingee il figlio Carlo

Quella che pubblichiamo inquesta pagina è un’intervistaradiofonica realizzata a NewYork nel 1959. Feltrinelli haaperto la sua casa editrice dasoli quattro anni , ma ha giàall’attivo uno scoop eccezionale:la pubblicazione del romanzo diPasternak di cui ha avuto notiziaprima che uscisse in UnioneSovietica. Ad intervistarlo è unaltro editore, Barney Rosset, cheha a cuore soprattutto il temadella censura e della libertà distampa. Feltrinelli concorda maintroduce alcuni distinguo. Laconversazione mantiene tutta lafreschezza del parlato

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