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DOMENICA 8 MARZO 2009 D omenica La di Repubblica spettacoli Cinema, il gergo dei set di Hollywood STEFANO BARTEZZAGHI e ANTONIO MONDA i protagonisti Il pittore “abos” che divise l’Australia GIANNI CLERICI i sapori Tokyo, dove la cucina non dorme mai LICIA GRANELLO e RENATA PISU cultura Von Humboldt, l’esploratore filosofo AMBRA SOMASCHINI e LUCA VILLORESI l’attualità Se cambiano le regole del calcio MAURIZIO CROSETTI e GABRIELE ROMAGNOLI P ossiamo, forzando un po’, ricapitolare la storia della guerra fra noi, i civili, e loro, i barbari, così. Loro vogliono rubarci le nostre donne e violentarle. Noi li puniamo e ac- cogliamo le loro donne. Può trattarsi della bella Elena o del ratto delle Sabine, della Slesia nella Seconda guerra o della Bosnia di un’ora fa. «Per tutto il Diciannovesimo e il Ventesimo secolo i racconti di stupro furono pervasi dalla paura dei neri, degli immigrati e degli outsider razziali... delle persone sen- za fissa dimora...»: figurarsi oggi che «noi» diventiamo vecchi e non facciamo figli, e «loro» sono sfacciatamente giovani e prolifici come conigli. Romeni ci invadono e approfittano del buio per aggredire le no- stre donne. Noi, longevi e danarosi, andiamo da turisti in luoghi cal- di a noleggiare bambine: stupro geograficamente differito, pendant e rivalsa sullo stupro forestiero in patria. (segue nelle pagine successive) MICHELE SMARGIASSI ADRIANO SOFRI Uomini che odiano le donne Si celebra l’otto marzo in un clima di emergenza per l’ondata di stupri E forse è ora di smettere di parlare di violenza sulle donne e parlare di violenza dei maschi FOTO HARRI PECCINOTTI, COURTESY DAMIANI EDITORE « I spettore, ma da quand’è che si va in carcere se si pic- chia la moglie?». Damiano Maranò ricorda ancora l’e- spressione di sincero stupore sul viso di quell’uomo, mentre gli metteva le manette. Era uno dei primi ar- restati dal “Pool famiglia” della Procura di Milano. «Pensai fosse uno squilibrato, uno che non si rende- va conto delle proprie azioni. Quindici anni dopo non lo penso più. Penso invece che gli uomini, molti uomini, siano davvero lucida- mente cattivi con le donne». La sua autocoscienza di genere (ma- schile), l’ispettore Maranò se l’è fatta sul campo. Aprendo centinaia di porte di casa e trovandoci dietro donne piangenti, sfigurate, san- guinanti, «anche peggio: legate alla sedia e tagliuzzate col coltello, o devastate da una pentolata d’acqua bollente». E mariti sbalorditi che fosse reato. Ricorda i nomi. Tutti, e dire che sono tanti. Ce n’è anche qualcuno famoso, attori, professionisti. (segue nelle pagine successive) Repubblica Nazionale

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DOMENICA 8MARZO 2009

DomenicaLa

di Repubblica

spettacoli

Cinema, il gergo dei set di HollywoodSTEFANO BARTEZZAGHI e ANTONIO MONDA

i protagonisti

Il pittore “abos” che divise l’AustraliaGIANNI CLERICI

i sapori

Tokyo, dove la cucina non dorme maiLICIA GRANELLO e RENATA PISU

cultura

Von Humboldt, l’esploratore filosofoAMBRA SOMASCHINI e LUCA VILLORESI

l’attualità

Se cambiano le regole del calcioMAURIZIO CROSETTI e GABRIELE ROMAGNOLI

Possiamo, forzando un po’, ricapitolare la storia dellaguerra fra noi, i civili, e loro, i barbari, così. Loro voglionorubarci le nostre donne e violentarle. Noi li puniamo e ac-cogliamo le loro donne. Può trattarsi della bella Elena odel ratto delle Sabine, della Slesia nella Seconda guerra odella Bosnia di un’ora fa. «Per tutto il Diciannovesimo e

il Ventesimo secolo i racconti di stupro furono pervasi dalla pauradei neri, degli immigrati e degli outsider razziali... delle persone sen-za fissa dimora...»: figurarsi oggi che «noi» diventiamo vecchi e nonfacciamo figli, e «loro» sono sfacciatamente giovani e prolifici comeconigli.

Romeni ci invadono e approfittano del buio per aggredire le no-stre donne. Noi, longevi e danarosi, andiamo da turisti in luoghi cal-di a noleggiare bambine: stupro geograficamente differito, pendante rivalsa sullo stupro forestiero in patria.

(segue nelle pagine successive)

MICHELE SMARGIASSI ADRIANO SOFRI

Uominiche odiano

le donne

Si celebra l’otto marzoin un clima di emergenzaper l’ondata di stupriE forse è ora di smetteredi parlare di violenzasulle donne e parlaredi violenza dei maschi

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«Ispettore, ma da quand’è che si va in carcere se si pic-chia la moglie?». Damiano Maranò ricorda ancora l’e-spressione di sincero stupore sul viso di quell’uomo,mentre gli metteva le manette. Era uno dei primi ar-restati dal “Pool famiglia” della Procura di Milano.«Pensai fosse uno squilibrato, uno che non si rende-

va conto delle proprie azioni. Quindici anni dopo non lo penso più.Penso invece che gli uomini, molti uomini, siano davvero lucida-mente cattivi con le donne». La sua autocoscienza di genere (ma-schile), l’ispettore Maranò se l’è fatta sul campo. Aprendo centinaiadi porte di casa e trovandoci dietro donne piangenti, sfigurate, san-guinanti, «anche peggio: legate alla sedia e tagliuzzate col coltello, odevastate da una pentolata d’acqua bollente». E mariti sbalorditi chefosse reato. Ricorda i nomi. Tutti, e dire che sono tanti. Ce n’è anchequalcuno famoso, attori, professionisti.

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la copertinaOtto marzo

Omicidi, stupri in strada, abusi in famiglia, stalking. Si parla moltodi “difendere le donne”. Ma chi le difende? Gli uomini, ovviamenteCosì l’uomo aggressore scompare e si vede solo l’uomo protettore:soldati in città, ronde, voglia di linciaggio. Tutte risposte maschili,in quella logica proprietaria che è la radice della misoginia violenta

28 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 8MARZO 2009

(segue dalla copertina)

«Non c’è differenza. Poverac-ci, ricconi, sconosciuti, ce-lebrità. Ma dico io, è possi-bile che alla fine l’unica co-sa che li accomuna è chehanno tutti il pisello fra le

gambe, scusi se non trovo altre parole?»Uomini che odiano le donneè il titolo fortunato di

un giallo di Stieg Larsson che ha fatto il giro del mon-do. Lascia la possibilità, almeno grammaticale, cheesistano uomini che non odiano le donne. Ma noncosì tanti come vorremmo credere. Se una donnaitaliana su tre confida all’Istat di essere stata mal-trattata da un uomo almeno una volta nella vita, i ca-si sono due: o c’è in giro un’attivissima task force dipochi imprendibili maneschi, o un terzo circa di uo-mini ha commesso nella vita almeno una violenzacontro una donna. Se una donna su sette è stata pic-chiata fra le mura domestiche, vuol di-re che più o meno in una casa su settec’è un uomo violento. Che se lo sbattifuori di casa diventa violento il doppioo il triplo (il 64 per cento delle separa-te e divorziate ha subito violenze dagliex). Per non risparmiarci nessun orro-re: due donne maltrattate su tre han-no ricevuto «spinte, strattoni, capellitirati», una su due «schiaffi, calci, pu-gni, morsi», una su quindici un tenta-tivo di strangolamento.

Che la misoginia violenta esista,non è oggetto di dubbio. Semmai c’èda chiedersi se gli uomini siano diven-tati più cattivi ultimamente. Comesuggerirebbe il clamore mediaticosull’“ondata di stupri”. Ma se chiedi auno che i dati sulla criminalità li ma-neggia da anni, il sociologo bologneseMarzio Barbagli, ti frena: «Dove il non-denunciato, il sommerso, supera il 90per cento è impossibile individuaretendenze». La violenza misogina èuna zuppa torbida, basta immergere ilmestolo giusto per tirare su brodagliaa volontà: è stato sufficiente dare vigo-re di legge a una parola, stalking(il cre-scendo di persecuzioni di un preten-dente respinto descritte dal libro di Fe-

derica Angeli e Emilio Radice, Rose al veleno) e in po-che settimane la polizia ha scovato episodi distalking ovunque, da Bari dove l’arrestato (per cra-nio rotto) gridava «volevo solo delle spiegazioni!», aRoma dove è volato addirittura il coperchio di ghi-sa di un tombino, a Genova, Torino, Palermo...

Ma un dato storico ce l’abbiamo: gli omicidi. Gliomicidi vengono denunciati tutti. Per forza. Ebbe-ne, le statistiche dicono che gli uomini ammazzanomolto più delle donne, e questo non sorprende: sia-mo i guerrieri, gli ancestrali titolari della violenza.Poi, che gli uomini ammazzano soprattutto altri uo-mini, e neanche questo sorprende troppo, à la guer-re comme à la guerre. Ma da un po’ sembrano avermodificato i bersagli. Se nel ‘94 meno di due maschiomicidi su dieci sceglievano una donna come vitti-ma, nel 2006 erano già più di tre. Se gli omicidi in as-soluto calano, i femminicidi proporzionalmentecrescono. Del resto, su tre delitti in famiglia, due ri-guardano mariti che ammazzano le mogli.

«E allora piantiamola una buona volta di parlaredi “violenza sulledonne” e cominciamo a dire “vio-lenza degliuomini”». Parla un uomo, Marco Deriu.Sociologo all’Università di Parma, firmatario del-l’appello “La violenza sulle donne ci riguarda”. «Siparla solo di “difendere le donne”. Ma chi le difen-

de? Gli uomini, è chiaro. Così l’uomo come autoredella violenza scompare, e si vede solo l’uomo pro-tettore. Soldati per le strade, ronde, tentativi di lin-ciaggio degli stupratori, perfino la “legge del carce-re”: sono tutte risposte maschili, legali o illegali, matutte dentro la medesima logica proprietaria chegenera la violenza sulla donna: confermano una su-premazia, non la contrastano».

Come si interrompe l’eterno ratto delle Sabine?Anche nella cultura femminista si fa strada ormail’idea che il problema va aggredito intervenendosull’altra parte, su chi picchia. A Bologna la Casa del-le donne per non subire violenza, storico rifugio del-le maltrattate, è presa d’assalto: quasi raddoppiatonegli ultimi anni il numero delle richieste di asilo.Sono soprattutto donne straniere, ma GiudittaCreazzo rifiuta l’apparente deduzione: «Quando ilviolento è uno straniero, è “colpa di una cultura pa-triarcale”. Quando è un italiano, è “un problema dipsicopatologia”. Sono due modi di scaricare lonta-no, sullo straniero o sul deviante, una responsabi-lità che appartiene invece alla normalità della cul-

tura maschile». Giuditta coordina da tre anni il pro-getto Muvi, il cui programma è presto detto: cosa nefacciamo degli uomini che menano. Curarli? Pu-nirli? «Per prima cosa, mettere al sicuro le donne».Insomma intanto prenderli, isolarli. «Tagliando l’a-lone di indulgenza. Quello che fa dire al vicino di ca-sa o anche al maresciallo di paese che è meglio “nonmettere il dito”, che “si aggiusteranno tra loro”».

Ma finora è tutto un lavoro di difesa, di scudi ebarricate. Corsi di tai-chi per massaie, spray al pe-peroncino nella borsetta. Tutto giusto. Ma è comedire: la guerra è eterna, attrezziamoci. Corsa agli ar-mamenti. Stefano Ciccone è un pacifista, vent’an-ni fa rimase sconvolto da un caso di violenza, pas-sato alle cronache come “lo stupro di piazza deiMassimi”. «Soprattutto dalle reazioni. Dai com-menti maschili. Mi accorsi che perfino nel movi-mento c’era un fondo di pregiudizio violento».Qualche anno fa Stefano ha fondato Maschile Plu-rale, forse la prima rete di riflessione e interventomaschile contro la violenza alle donne. Adesso so-no una dozzina di gruppi, da Pinerolo a Parma, da

(segue dalla copertina)

Sempre gli uomini (bianchi) si armano per castigare la foia profanatrice degli uomini (di colo-re). Il linciaggio serviva a quello. Anche le ronde: regolate, per carità, solo pensionati apoliticidelle forze dell’ordine. Non scandalizzatevi: fra il linciaggio e le ronde c’è un legame tanto più

sottile quanto più rivelatore. C’è una tale guerra di uomini, civili e barbari, che bastonano e sfregia-no e ammazzano donne per amore, che ci si chiede come le donne non abbiano preteso una formi-dabile polizia femminile per la loro difesa. In molti ambiti adiacenti — la schiavitù sessuale, la pro-stituzione forzata, la tutela dei minori, la violenza domestica — la polizia femminile è il più signifi-cativo progresso del nostro Stato. Quanto a romeni stupratori, veri o immaginati, siamo alle ronde.In una vignetta lei dice: «Mi sento più sicura: lui adesso esce per fare la ronda, e mi lascia in pace».

Come reagiamo alla frase: «Tutti gli uomini sono stupratori, almeno potenzialmente»? Be’, ci in-dignamo. Noblesse oblige. Però abbiamo un dubbio. Non che ci persuada la nozione biologista percui ogni maschio animale è un candidato stupratore, e magari ogni femmina una aspirante stupra-ta. Pensiamo che sia affare di cultura. Che, come dicono le femministe più riflessive, stupratori nonsi nasce, si diventa. Però. Però si tratta di un affare di cultura così antico e longevo da agire quasi co-me una seconda natura. Maschi si nasce, uomini si diventa. Per troppo tempo, diventare uomini si-gnificava forzare una donna, «conquistarla», ed esibirne il trofeo coi propri simili.

È cambiato abbastanza, almeno nel nostro pezzo di mondo? È cambiato molto, non abbastanza.Il maschilismo dimissionario conta molto meno del femminismo che si prende i suoi diritti. La for-tuna del titolo Uomini che odiano le donne non toglie che per secoli, e ancora, gli uomini, spesso imigliori, abbiano variamente fatto l’apologia degli uomini che ammazzano le donne perché le ama-no. Perché sono troppo belle, libere, orgogliose, amabili, come la Nastasja dell’Idiota, o la sua emu-la, la Nadia di Rocco e i suoi fratelli, per non essere assassinate per amore. O perché mangiano noc-cioline, come «la bimba mia» di via Broletto. Troppo. Se sloggiare il delitto d’onore dal codice pena-le è stato così morbosamente arduo, è ancora più difficile sloggiare la mitizzazione dell’assassino didonne e dello stupratore come eroe romantico. Banalità del male: a incontrarli, gli assassini di don-ne e stupratori sono penosamente squallidi. Come noi, appena un po’ di più. Ora che abbiamo ca-pito (abbiamo capito?) che lo stupro non è solo l’agguato dello sconosciuto che salta fuori dal buio,ma la violenza che segue la serata, che si compie fra famigliari e amici di famiglia, fra coniugi e fi-danzati, nell’auto in cui lei ha accettato un passaggio o nell’ufficio in cui lui ha lavorato i suoi ricatti,siamo più vicini all’idea che «tutti gli uomini sono potenziali stupratori». Naturalmente, una taleammissione è anche una mezza assoluzione: se siamo fatti così...

È appena uscito un libro di Joanna Bourke, Stupro. Storia della violenza sessuale (Laterza), si oc-cupa del tema per il mondo anglofono, dalla metà dell’Ottocento a oggi, sciorina un repertorio im-pressionante di fantasie maschili passate per scienza e legge. Una donna non può essere penetratasenza che il suo corpo acconsenta, una donna che torna a casa al buio sotto sotto si augura di esse-re assaltata, una donna che dice no, neanche sotto sotto, vuol dire sì... Tutte cose che fanno vergo-gnare, oggi, mentre si moltiplicano le leggi che colpiscono severamente gli abusi sessuali: e tuttaviaresta schiacciante la percentuale degli stupri che non vengono denunciati, e, fra i denunciati, cheescono impuniti. L’espediente di annoverare lo stupro fra le aggressioni fisiche piuttosto che fra icrimini sessuali, e renderne meno ambigua la persecuzione giudiziaria, non solo non sarebbe pro-ducente, ma negherebbe la radice decisiva della questione. «Si può dire — scrive Bourke — che lostupro è diventato sempre più un’aggressione sessuale». Io penso che la stessa tortura non solo ab-bia una componente sessuale, ma sia nella sua quintessenza un’aggressione sessuale. Nella por-nografia (che la si pensi come un manuale di istruzioni, o come uno sfogo liberatore) molti uominicredono di vedere “che cosa vogliono le donne”, moltissime donne vedono “che cosa vogliono gliuomini”. Quando la società viene scossa da cambiamenti troppo rapidi e imprevisti e l’insicurezzadiventa la chiave di un potere che non sa dove andare a parare, se non a se stesso, lo stupro diventail delitto per antonomasia. È la storia dell’Italia di oggi. L’ho letta lo scorso 21 dicembre in dodici ri-ghe in corpo otto. Occhiello: «Monza e Palermo». Titolo: «Trovati cadaveri di due donne». Testo: «Ilcorpo di una donna carbonizzata è stato trovato in un campo alla periferia di Monza. Potrebbe trat-tarsi di prostituta. Sempre ieri, sul litorale di Mondello, è stato rinvenuto il cadavere di una donna dicirca trent’anni dai tratti orientali».

Quelli che uccidono per amoreovvero il killer come eroe romantico

ADRIANO SOFRI

MICHELE SMARGIASSI

IL CATALOGO

La foto di copertina

e quelle che pubblichiamo

in questa pagina sono tratte

da H.P., la prima monografia

dedicata al fotografo

Harri Peccinotti,

autore di scatti celebri

(tra gli altri, i calendari Pirelli

1968 e 1969 realizzati

con Derek Birdsall)

e negli anni art director

di Flair, Vanity Fair,Rolling Stone e VogueIl catalogo, che raccoglie

200 illustrazioni, pubblicato

da Damiani (228 pagine,

45 euro), è stato

presentato ieri a Parigi

nello spazio Colette

L’indottrinamento che spingea una virilità malintesascorre da sempre sottotracciain molti spot, libri, film

“Maschi per obbligo”dalla paura alla violenza

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 29DOMENICA 8MARZO 2009

Torino ad Anghiari a Pietrasanta, ad affermare cheva aperta finalmente una “questione maschile”.Fanno conferenze, documenti, lezioni. Qualcuno lichiama “i femministi”, qualcuno peggio. I blogdel-l’orgoglio neomaschile come Uomini 3000 li accu-sano di «invitare gli innocenti a riconoscersi rei». Masoprattutto incassano sorrisini. Battute. Sfottò.«Accettiamo volentieri il rischio del ridicolo. È unsegnale prezioso. Ci dà la prova della nostra effica-cia: dimostra che sta scattando la reazione difensi-va della cultura maschile».

Cultura potente perché invisibile. Trentacinqueanni fa perfino le femministe rimasero perplessequando Carla Ravaioli, giornalista e militante, pub-blicò Maschio per obbligo, antologia dell’indottri-namento subliminale alla virilità nascosto nellapubblicità, nei libri di testo, nei copioni del cinemae della tivù. «Non cambierei quasi nulla di quel li-bro», dice oggi, «se non sottolineare che, in una so-cietà dove la violenza è ormai uno strumento accet-tato e quotidiano della politica, la pedagogia delmaschio è ancora più forte, più spudorata, e conta-

gia anche le donne». Se ne accorgono i Medici per idiritti umani, onlus impegnata nei paesi in guerra(quindi anche nel nostro, dove la guerra alle donneè sempre in corso), quando vanno nelle scuole aprevenire il bullismo di genere con una lezione perimmagini che s’intitola appunto Maschio per obbli-go. Sfilano sullo schermo i poster pubblicitari cheormai non mostrano più solo donne disponibili aoffrirsi, ma anche uomini che comunque sia se leprendono: come le “perquisizioni” palpeggianti diuna campagna della Relish, o quel poster di D&Gche sembra sublimare uno stupro di gruppo. I ra-gazzi (e le ragazze) annoiati sbuffano: «È un proble-ma vecchio, roba di voi adulti, tra di noi non c’è piùdifferenza tra maschi e femmine, siamo alla pari».Poi scavi un po’. Approfondisci. E la verità viene fuo-ri. «È vero, io controllo gli sms della mia ragazza». «Ilmio ragazzo mi vieta di andare in gita scolastica congli altri». «Mi ha minacciato di far vedere a tutti le no-stre foto intime». «Se la vedo in discoteca con un al-tro, la meno». Dice Paolo Sarti, il pediatra che con-duce gli incontri: «Non si nasce col gene della vio-lenza maschile. Ma è come un virus che s’inoculamolto in fretta, e attende il suo momento per esplo-dere». È una malattia, la violenza misogina? «No, maanche i guasti socio-culturali hanno un’ezio-pato-genesi». Delicata è la terapia. «Gridare che la vio-lenza è sbagliata non serve: non si sentono violenti.L’unica strada è mettere alla berlina i comporta-menti che per loro sono invece premianti: l’arro-ganza, i ricatti, le vanterie sessuali. Prendere in giroi modelli che ammirano, ridicolizzare i maschi de-menti di cui è piena la tivù. Ma bisogna stare moltoattenti: se sono solo le ragazze a ridere, i maschi rea-giscono incattivendosi ancora di più».

Smontare la misoginia violenta dall’interno: èuna parola. In Italia, il maschilismo è ormai assurtoa cultura di governo con le battute guascone di Ber-lusconi. Sotto traccia, ma esplode a volte in modianche meno ridanciani, come nello showdown del24 settembre 2003 a Montecitorio, quando alcuni(poco) onorevoli apostrofarono così le colleghe:«Altro che Camera dei deputati, vi portiamo in ca-mera da letto!». Se non è odio misogino quello chesembra guadagnare terreno ogni giorno, cos’è?«Paura delle donne», risponde senza esitazione l’i-spettore Maranò, che la sa lunga. «Paura», concor-da Carla Ravaioli. «Paura», insiste Marco Deriu: «Gliuomini non odiano le donne, ne sono terrorizzati.Ho analizzato molti casi di cronaca. Nella maggio-ranza delle violenze domestiche, il violento cercadisperatamente di sottomettere la donna di cui inrealtà è debitore, dipendente, senza la quale sareb-be finito. La violenza misogina di oggi non è il ritor-no del patriarcato, è il sintomo del suo crollo». Maattenti, che i calcinacci in testa fanno male.

IL DIPINTOI giorni giganteschidi René Magritte(1928)

Chi va nelle scuole a prevenireil bullismo di genere si sentedire: “Problemi da vecchi”Ma poi la verità viene fuori

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Moviole in campo e alla tv:i novanta minuti sarannodissezionati in una lunga,continua autopsiaE con super-intervalloe time out avremo più spot

30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 8MARZO 2009

Tra vent’anni sarà tanto cambiato cheneppure lo riconosceremo. Forse, oforse no, ma probabilmente sì. Avràpiù occhi, elettronici e umani. Avràpiù spazi da percorrere e più tempoper farlo. Avrà l’illusione dell’esattez-

za scientifica e la presunzione di saperla usare. Saràun calcio meno tecnico e più tecnologico, semprepiù rapido e muscolare, dove le moviole — natu-ralmente in campo — faranno scansioni di ogniazione come se fossero disegni di Leonardo, e sicontinuerà a litigare e a sospettare proprio comeadesso: solo, avremo più presunti colpevoli con iquali prendercela.

E magari sentiremo malinconia di questi giornipreistorici in cui si litigava per un rigore: però saràdifficile accusare un sensore di sudditanza psico-logica. La regia dello spettacolo, televisiva, agiràdentro stadi costruiti apposta, senza settori ospiti,massimo quarantamila persone. Tutti gli altri a ca-sa, davanti allo schermo dove la partita si vedrà co-munque meglio. Il telecomando sarà una consolleche permetterà di costruirsi la propria moviola per-sonale (anche tu Biscardi). Il gioco sarà disseziona-to in una lunga, continua autopsia e avremo moltispazi per seguire i consigli per gli acquisti: ad esem-pio, l’intervallo tra un tempo e l’altro durerà ventiminuti, cinque più di adesso, e ci saranno quattro“time out” a partita, due per tempo, due per ogni al-lenatore. In apparenza serviranno ad aggiornare leindicazioni tattiche, nella sostanza saranno solocontenitori di spot pubblicitari.

Le due esigenze, cioè una più vasta commercia-bilità del prodotto e una maggiore certezza tecnicache riduca l’errore umano, procederanno insiemesu un terreno minato. Oggi, le pupille degli arbitriin campo sono otto: arbitro, due assistenti e il quar-to uomo. Diventeranno quattordici: arbitro capo,due arbitri d’area, due assistenti, quarto uomo equinto uomo addetto alla moviola e ai contatti congli altri sei.

Tre direttori di gara in campo è l’ultima idea del-l’International Board, ovvero l’organo della Fifa (lafederazione del calcio mondiale) che vigila sulle di-ciassette sacre regole del pallone e che — unico en-te supremo — può modificarle. Va detto che in ol-tre cent’anni è accaduto rarissimamente, essendoil football uno degli sport più conservatori, o forseessendo nato nella seconda metà dell’Ottocentogià quasi perfetto: se piace così com’è in tutto ilmondo, e da sempre, una ragione ci sarà.

Anche se poi, dall’epoca dei padri fondatori in-glesi (26 ottobre 1863, Taverna dei Framassoni,Great Queen Street, Londra) fino ai giorni contro-versi di Collina e Rizzoli, le tavole della legge sonocambiate proprio poco. Da quel primo regolamen-to ufficiale della Football Association, ecco arriva-re in seguito il fuorigioco (1867), arbitro, rigore e re-ti nelle porte (1891), calcio di punizione (1895), areadi rigore (1901), regola del vantaggio (1903). Da al-lora, la novità più rilevante è stata la sostituzionedei giocatori infortunati, datata 1968. Poi, a parte ildivieto per il portiere all’uso delle mani su retro-passaggio (1992) e i tre punti per la vittoria (1994,questa sì una svolta epocale), il calcio ha saputo in-novarsi (oddio) scrivendo i cognomi sulle magliet-te e distribuendo agli atleti numeri fissi, talvolta si-mili a quelli degli autobus (1995). Totalmente nau-fragati, invece, “golden gol” (o “morte istantanea”,1996: la partita viene vinta dalla prima squadra chesegna nei supplementari) e il suo ancor più sfortu-nato gemello “silver gol” (chi segna nel primo tem-po supplementare vince, se poi la frazione si chiu-de senza altre reti).

Comunque sia, i due arbitri d’area verranno col-laudati già nella prossima Coppa Italia (la qualeospitò, anni fa, un non memorabile doppio arbitroin campo). Nel calcio di dopodomani avremo qua-si certamente il cartellino arancione, via di mezzotra ammonizione ed espulsione. E gli allenatori po-tranno sostituire un quarto giocatore, ma solo du-rante i supplementari. Come dice Zoff, aumenteràla confusione. Come dice Blatter, il gran capo delcalcio, ci sarà più spettacolo, bisogna solo capire aquale prezzo.

Proprio il celeberrimo colonnello dell’esercitosvizzero, una specie di dittatore senza veri avversa-ri (caratteristica dei poteri forti del calcio, non soloall’estero), da anni cerca di introdurre norme più lu-diche, a volte un po’ carnevalesche, perché il pro-dotto più piace e più si vende, più annoia e meno siguarda. Dunque, la sua famosa (e famigerata) pro-posta di allargare le porte, fin qui respinta al mit-tente, avrà buone probabilità di essere accolta. Og-gi sono larghe 7 metri e 32 per 2 metri e 44: potreb-bero estendersi a 7 metri e 50 e alzarsi a 2 metri emezzo, per la gioia dei portieri. I quali, nell’ormailontano 1992 sono stati i protagonisti dell’ultimocambiamento regolamentare di un certo peso,quando venne loro proibito di prendere con le ma-ni i passaggi all’indietro (intenzionali) da parte deicompagni.

Poi, è chiaro che le novità più importanti riguar-deranno le due situazioni che da sempre fanno più

discutere, cioè rigori e gol fantasma. Per i falli inarea, i due arbitri supplementari dovrebbero basta-re, tenendo conto che la moviola in campo farà il re-sto: verrà azionata da tecnici e supervisionata dalquinto uomo, in collegamento via radio con i colle-ghi. Sarà lui a rivedere in tempo reale le azioni con-testate (e in tv passeranno nel frattempo altri spotsupplementari) per poi comunicare il verdetto al-l’arbitro capo, cui comunque spetterà la parola de-finitiva. Un giorno potrebbero abolire il fuorigiocoe magari il pareggio attraverso i rigori a oltranza, op-pure quell’americanata degli “shoot out”, i rigori in

MAURIZIO CROSETTI

Se cambiano le regole del gioco

l’attualitàShow business

Gol fantasma, vittorie o sconfitte sul filo del fuorigioco, arbitriin sudditanza psicologica... Le polemiche sono sempre più aspree il calcio punta a introdurre nuove norme per diventare più esatto,tecnologico e “vendibile”. Ecco come, selezionando le propostesul tappeto, potrebbe essere disputata una partita del futuro

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31DOMENICA 8MARZO 2009

corsa provati senza esito in qualche dimenticabiletorneo estivo. E che dire del “corner corto”, già te-stato invano a livello giovanile? Oppure delle ri-messe laterali con i piedi? Torneranno di moda?

Sarà totalmente elettronica la soluzione degliscabrosi casi da linea bianca: il pallone l’ha supe-rata oppure no? Era gol o non lo era? Il perimetro diporta ospiterà i sensori, e il pallone conterrà un di-spositivo che sarà “letto” da questi, dunque senzamargini d’errore (in teoria, perché poche cose so-no fallibili e capricciose come la tecnologia). Ilprincipale sponsor tecnico planetario, che produ-

ce anche palloni, ha già messo a punto un sistemache non è entrato in produzione a causa dei costi:infatti, il regolamento del calcio prevede una ne-cessaria uniformità a livello mondiale, e tutti de-vono poter sostenere le spese di eventuali innova-zioni. Se oggi l’Uefa, guidata da Michel Platini,spinge per una maggiore democrazia e una piùequa distribuzione delle risorse, domani la ragiondi stato potrebbe ridurre il numero delle federa-zioni, lasciando in vita soltanto le più ricche: e que-ste si compreranno tutti i giocattoli che vogliono.Forse, per giocarci da sole. C

i deve aver giocato perfino Blatter, se mai è stato bambino, cicciottello ma felice. È acca-duto in tutte le parti del mondo, bastava ci fosse un prato, o una spiaggia, anche il cementodi un parcheggio andava bene. Non era una partita, erano tante in contemporanea, al-

troché diretta gol, con rettangoli di gioco senza lati, perpendicolari e paralleli, palloni che vola-vano da uno all’altro e venivano rispediti con irritata cortesia. C’erano regole internazionali maiscritte né codificate, è un mistero come si siano tramandate. Se ne applicavano, quante? Un tot.L’universo era una forma imprecisa, la vita un pressoché, il gioco una cosa serissima.

Se da qualche parte quel calcio fai da te si gioca ancora, è così che accade: come viene. Per pri-ma cosa si delimitano le porte. Per pali si usano due sacche. Poi si contano i passi dall’una all’al-tra. Le possibilità che la distanza sia la stessa eguagliano quelle di dimostrare il quinto postulatodi Euclide. Quando, inevitabilmente, a un certo punto della partita un tiro supererà il portiere equello griderà «Palo!» o, ancora meglio «Traversa!» Borges sorriderà tra le nuvole: «E dicevano cheio avevo fantasia». La seconda operazione si chiama “fare le parti”. I due capitani (rigorosamen-te privi di fascia) si trovano al centro «bim bum bam» e chi ha vinto a pari o dispari sceglie per pri-mo chi vuole in squadra tra i presenti. Poi l’altro ne sceglie due, per compensare. E avanti a duealla volta fino all’ultimo, lo sciagurato Egidio, il figlio di Loria, l’uomo che incontrate in ascenso-re, quello che saluta guardando il pavimento, scende un piano sotto di voi, dove ha studio l’ana-lista. Ancora una cosa prima di cominciare: si fissano le regole accettate. Poiché non c’è arbitro,le consolida un patto d’onore tra i giocatori. Non è mai stato chiarito come siano nate queste va-rianti al calcio ufficiale, occorre pensare a un legislatore fantasma supremo, una variante infan-tile della Grundnorm, la norma fondamentale che il filosofo del diritto Hans Kelsen poneva, pre-supposta e non definita, in cima allo Stufenbau, l’ordinamento giuridico. Oppure bisogna chie-dersi dove fosse cent’anni fa, quando la palla cominciò a rotolare, il nonno di Moggi. E comun-que: corner-tre-rigore era (forse è) una delle più diffuse variazioni sul tema del regolamento cal-cistico. Induceva i difensori a rinviare in avanti, i portieri a cercare disperatamente di trattene-re. Ogni calcio d’angolo concesso avvicinava la maledizione. Che fosse ineluttabile risultavadalla secchezza della formula, concepita come la strofa di una “conta”: corner-tre-rigore e nonc’è moviola che tenga. Un’estrema concessione del capitano in superiorità numerica o con lasquadra decisamente più forte dopo aver fatto le parti era: «Voi, portiere volante». Il portiere vo-lante è già a nominarsi una figurina uscita dall’album FantaPanini, all’incrocio tra Battara e Bat-man. È l’eccezione viaggiante, l’eresia che si fa prassi: può abbandonare la porta, avanzare, se-gnare, come vuole, quando può. Se la partita si svolge (va) in un campo delimitato lateralmenteda qualche muro occorre (va) un’ultima decisione: vale sponda? Ossia, quando la palla tocca laparete è fuori o resta in gioco e questo schema diventa un succedaneo della triangolazione?

Triangolazione? Fluidificazione? Ripartenza? In quelle partite saltavano, come le regole, glischemi e ciascuno si trasformava, nel suo piccolo va da sé, in una specie di versione giovaniledel Dino Sani (centrocampista brasileiro, non chansonnier petroniano, attenzione) rievocatoda Edmondo Berselli nel Più mancino dei tiri, uno che «vede il calcio come un orizzonte di mi-sconosciuta razionalità, capace di trasformare mentalmente triangoli scaleni in equilateri, li-nee divergenti in parallele, il principio di determinazione in calcolabilità assoluta». Quale è ilrisultato? Gol. O, più semplicemente e clamorosamente: divertimento. E quando è che fini-scono le partite? Non mai, spiacenti, ma quasi: quando fa buio.

Corner-tre-rigore, portiere volantei miracoli del football fai da te

GABRIELE ROMAGNOLI

Repubblica Nazionale

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a costumi civili. La situazione si aggravòquando, in seguito ad una rissa di ubria-chi, e alla morte di due di loro, Albertvenne chiamato a testimoniare, e dovet-te difendersi dall’accusa di aver offertoalcool ai colpevoli.

Intanto, da un viaggio in taxi, era natoun nuovo caso, e Albert veniva accusatodi aver passato una bottiglia di rum al-l’autista aborigeno, tale Henoch Rabe-raba. Namatjira non riuscì ad evitare unacondanna a sei mesi, con l’obbligo di la-voro forzato.

Colori violenti

Mentre si attendeva il risultato dell’ap-pello alla Suprema Corte, le ricadutepubblicitarie della vicenda furonoenormi. Pandit Nehru giunse a parlaredi razzismo, mentre, dall’altro lato, il di-rettore della Galleria di Stato del Victo-ria rifiutava l’esposizione di un quadro,adducendone «l’insufficiente livello ar-tistico». Al limite della resistenza, Na-matjira dichiarò: «Non ne posso più.Quel che desidero è tirarmi una fucilata.Perché non ci ammazzano tutti? Inrealtà, è quello che vogliono».

Mentre la Regina evitava di esseremessa al corrente, la segregazione delpoveraccio finì grazie ad un ricovero peruna crisi di cuore, che ebbe almeno il ri-sultato di far ritornare presso di lui la mo-glie, e di consentire un trasferimentonell’ospedaletto di Hermannsburg.

Durante il periodo di convalescenza,Albert riprese a dipingere. Iniziava unquadro per subito lasciarlo, e rimanereimmobile, in uno stato di sonnolenza, losguardo lontano: i colori dei suoi dipintisi distinguono da tutti i precedenti perintensità, quasi per violenza. Quel suopovero stato vegetativo ebbe a cessare inseguito all’ultima crisi cardiaca.

Non cessarono le polemiche, e si vol-le negargli la sepoltura ad Alice Springsperché si trovava fuori dai confini degliAranda. Uno dei migliori giornalisti au-straliani riassunse, sul Sun di Melbour-ne: «La deprecabile verità è che bisogne-rebbe far davvero qualcosa in favore de-gli aborigeni, ma solo cittadini eccezio-nali se ne occupano. Siamo tutti respon-sabili, ma se un critico obiettivo dicesseche non ce ne importa nulla, avremmoserie difficoltà nel contraddirlo».

Par giusto ricordare, a conclusione,che le scuse ufficiali ad un popolo deru-bato delle sue terre e in condizioni di se-mischiavitù ci sono state soltanto il 12febbraio 2008, grazie al Primo MinistroKevin Rudd. Forse anche Namatjiraavrebbe apprezzato.

MELBOURNE

Dopo cinquant’anni diAustralian Open, ho lafortuna di essermi creatouna piccola cerchia di

amici, a Melbourne. Tra loro primeggiaGeorge, che condivide la mia passioneper le ricerche rinascimentali sul tennis,ed è un inesausto collezionista di testi ememorabilia.

L’amico si è spostato di recente in unavilla vittoriana all’angolo di Fitzroy Gar-dens e me ne ha offerto, simbolicamen-te, le chiavi. All’interno della sua casaGeorge conserva e accresce una notevo-le collezione di pitture aborigene, chenon posso fare a meno di ammirare, dalgiorno in cui un altro amico, titolare diuna galleria d’arte, ha tentato di spiegar-mene il significato.

Per gli aborigeni, la pittura è più che di-versa dalla nostra rappresentazione difatti, dapprima correlati alla religione, inseguito a umane vicende, a paesaggi, in-fine pura astrazione. Per gli antichi abi-tanti dell’Australia dipingere significa ri-trovarsi all’interno del Dream Time,dentro la consapevolezza della creazio-ne del mondo, della legge dell’esistenza,che tutti sono obbligati ad osservare.

Creature semidivine

Il Dream Time è il Tempo degli Antena-ti, creature semidivine che emersero dalsuolo durante la Creazione, e nelle loroperegrinazioni suscitarono le monta-gne, i fiumi, le piante; gli uomini, gli ani-mali, dai canguri alle formiche, dall’o-possum al dugongo.

Nel dipingere, dapprima su corteccelisciate, con pigmenti d’ocra gialla, argil-la bianca, o carbone, in seguito con i co-lori e le tele offertegli dai bianchi, gli abo-rigeni rappresentano quel che noi chia-miamo weltanschauung.

La galleria dei dipinti non ha certo se-greti per George. Ma, nell’assuefarmi, al-meno un poco, ai segni e ai simboli, nonpotevo evitar di notare un quadro diver-so dagli altri, un dipinto in parte figurati-vo, se una piccola radura racchiusa dauna cerchia di eucalipti veniva attraver-sata da un canguro volante. Nel notare lamia curiosità, George sorrise, per affer-mare: «È Namatjira». E, alla mia sorpre-sa, prese a raccontarmi la storia che miprovo a riassumere.

Namatjira venne battezzato Albertdal prete luterano di un luogo a sua voltaribattezzato Hermannsburg, a cinqueore d’auto da Alice Springs. Era il 1902 e,dopo il genocidio del secolo seguente

i protagonistiApripista

Albert Namatjira è stato il primo “abos” a mescolare l’iconografiadel Tempo degli Antenati con l’arte occidentale,e per questa viail primo a entrare nel “Who’s Who” degli australiani celebriLa sua vita, in altalena tra i successi decretati dai benpensantie le persecuzioni dei razzisti, è un esempio di integrazione mancata

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Il pittore aborigenoche fece volare i canguriagli sbarchi dei primi bianchi, le autoritàavevano intrapreso un tentativo di con-versione di massa degli abos, come veni-vano definiti i precedenti proprietari diquelle terre. Gruppi di nomadi, spessoincapaci di comunicare tra loro per leenormi distanze e i duecento dialetti avolte incomprensibili.

Tra i suoi coetanei della tribù degliAranda, Albert si distinse subito, per lacapacità di apprendere l’inglese, e per lanativa intelligenza. Seguì tutti gli inse-gnamenti dei missionari con facilità, mad’improvviso, a tredici anni, scomparve.Era il tempo dell’iniziazione virile, che sisvolge segreta, a volte cruenta, lontanoda occhi indiscreti, nel bush o in qualchecaverna graffita da migliaia d’anni.

Ritornato a Hermannsburg, Albertvenne a trovarsi in difficoltà per le leggitribali, che impedivano il suo matrimo-nio con Rubina a causa di un tessuto ge-netico vietato. Fu così costretto a fuggir-sene con l’amata, a vivere da mandrianodei bianchi in un luogo remoto, sinché ildivieto tribale venne tolto, e i due furonoriammessi a Hermannsburg.

Al di fuori di un continuo lavoro con lemandrie, Albert iniziò a dimostrare untalento creativo che si manifestava nelladecorazione di boomerang e di tavolet-te ovali tratte dall’acacia. Un poliziottoche sorvegliava l’area, MacKinnon,trovò quei lavori di suo gusto e, nella vi-vissima sorpresa generale, ne acquistòben dodici, offrendo l’inattesa somma dicinque scellini. Fu l’avvio di una carrierache apparve praticabile quando la visitadi un pittore, Max Batterbee, fece sì chea Namatjira venisse offerta una scatoladi acquarelli, e suggeriti i primi rudi-menti per utilizzarli: con risultati sor-prendentemente positivi.

Per quello che era uno svago, Albertaveva poco tempo. Con sei figli a carico,si alzava all’alba per il suo lavoro di man-driano, sellaio, tuttofare. Sinché un nuo-vo pastore, padre Albrecht, prese con sé

dieci acquarelli per mostrarli a Melbour-ne, e addirittura organizzare una esposi-zione. Il successo, e la sorpresa, solleci-tarono la visita della moglie del Gover-natore del Victoria, Lady Huntingfield,che si spinse sino a Hermannsburg perincontrare Albert.

Cifre astronomiche

Era, nel frattempo, iniziata la Secondaguerra mondiale, e ad Hermannsburgvenne inviato, quale controllore dellacomunità germanica, il primo estimato-re di Albert, Rex Batterbee. Quattro annipiù tardi, nel 1944, Batterbee fu in gradodi organizzare a Melbourne la primamostra personale del suo pupillo, chevendette tutti i trentotto dipinti a prezzitra le dieci e le trentacinque ghinee. Cifreastronomiche per un aborigeno. Il qua-le, insieme al successo, ricevette critichecrudeli, per aver, secondo alcuni, ab-bandonato i nativi canoni teosofici in fa-vore di «una versione approssimativadella pittura occidentale, con risvolti di

qualche interesse topografico e assolu-tamente banale».

Quando il professor Elkin, l’antropo-logo di maggior fama, volle inaugurareuna nuova esposizione a Sydney, Na-matjira divenne una personalità, certodiscussa, ma addirittura in grado di figu-rare, primo tra gli aborigeni, nel Who’sWhodegli australiani celebri. Insieme alsuccesso, che gli valse tra l’altro l’abban-dono della baracca per una casetta inmuratura, giunsero difficoltà, sotto for-ma di tasse, e dell’obbligo tribale di divi-dere i guadagni con una cinquantina diparenti, secondo una tradizione checonsiderava la proprietà bene comune.

Nel bel mezzo di queste difficoltà, iltour della Regina Elisabetta giunse ad of-frire a Namatjira un onore sin lì negato aisuoi corazziali. Vestito a nuovo e imbar-cato su un aereo per Darwin, il pittore furicevuto e congratulato dalla Regina edal Duca di Edimburgo, e gli fu offerto ilcertificato di cittadinanza australiana.

Ragioni in apparenza burocratichefecero sì che diritti eguali a quelli deibianchi lo raggiungessero solo tre annidopo. Nell’istante stesso in cui venivapubblicato un elenco di 15.711 aborige-ni che, da una condizione di semi-schia-vitù, venivano ammessi alla “tutela”:con limitati diritti di spostamento all’in-terno della riserva, e divieto assoluto diacquistare alcolici. Ma la riqualificazio-ne non sembrò giovargli. Dopo un dis-senso con il suo agente, la richiesta diquadri diminuì. Non meglio andava lasalute, e Albert si vide costretto al ricove-ro per una angina. E, dopo essere statamaltrattata, la moglie Rubina lo abban-donò, affermando: «Lui Albert cambiatoadesso. Lui spesso irritato e triste».

Il direttore regionale del Welfare sichiese pubblicamente se non fosse il ca-so di revocargli la cittadinanza. Il suo ca-so fu discusso, e i razzisti trovarono mo-do di servirsene a dimostrazione dellaincapacità degli aborigeni ad adeguarsi

GIANNI CLERICI

L’ARTISTAA sinistra,un paesaggioaustraliano dipintoda Albert Namatjira;sopra e in basso,due fotografieche ritraggono l’artista

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Tra Settecento e Ottocento questo prussiano anomaloattraversò le foreste e scalò le montagne dell’Americalatina, tracciando mappe, catalogando fiori,

decifrando i misteri delle civiltà sepolte. Un prototipo degli eroi di Salgari e Verneora riscoperto, a centocinquanta anni dalla morte, in un libro pubblicato da Prestel

CULTURA*

34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 8MARZO 2009

LUCA VILLORESI

Von Humboldt? Alexan-der Von Humboldt? Ladomanda potrebbestroncare il concorrentedi ogni telequiz. Un vuo-to di memoria (colletti-

vo), che appare tanto più singolare se siconsidera che pure chi quel nome lo ri-corda finisce spesso per calarlo neipanni di un avventuroso esplo-ratore. L’immagine certa-mente si addice al perso-naggio, autore di un fa-moso viaggio attraver-so il Sud America, dalRio delle Amazzonialle Ande; ma, con-temporaneamente,la definizione suonafin troppo limitativaper un uomo che,mentre fissava i me-ridiani e i parallelidelle nuove cartegeografiche, rilegge-va le leggi del magneti-smo terrestre, decifravai misteri dei calendari at-zechi, identificava centi-naia di piante sconosciute, pe-netrava i misteri dei vulcani...Botanico, geologo, astrono-mo, antropologo... senza di-menticare il brillante conver-satore, il fine diplomatico, il di-vulgatore... e l’uomo che nonaveva paura di schierarsi, oracontro la schiavitù, ora al fian-

co delle barricate del ‘48. Un genio. E ungenio di successo perché, oltre a esserericonosciuto come una massima auto-rità scientifica da tutte le accademie delmondo, Von Humboldt è stato ancheuno dei grandi miti popolari dell’Otto-cento.

Letame o diamanti, non faceva moltadifferenza. Perché la prima dote di VonHumboldt — un tratto che lo accomunaalla mente di Leonardo — era la sua ca-

pacità di leggere la natura: un ec-cezionale colpo d’occhio sul

particolare, associato auna grande visione d’in-

sieme. Von Humboldtera capace di andarea scoprire (controogni previsione)una miniera di dia-manti in fondo allaSiberia con la stes-sa semplicità con laquale, in Sud Ame-rica, trovandosi apassare davanti a

una grande coloniadi uccelli marini, ave-

va analizzato le pro-prietà fertilizzanti di

quei giacimenti di guano,intuendone il futuro econo-

mico. Se in Germania e in Fran-cia Von Humboldt siede ancoraal suo posto d’onore, tra Kant eGoethe, in Italia sembra nonavere più la memoria che si me-rita. La ricorrenza dei 150 annidalla morte diventa così un’oc-casione per rispolverare una

biografia davvero fuori dal comune.Una storia che inizia nel 1769, in un ca-stello prussiano. Da una famiglia che,accanto ad Alexander, annovera tra isuoi geni anche il fratello, Wilhelm, filo-sofo, diplomatico, pioniere della lin-guistica. Alexander è, ovviamente, pre-coce. Gira le università tedesche. Studiadi tutto: fisica, chimica, finanza, storia,medicina, matematica, botanica.

Nel 1792 Von Humboldt comincia a

lavorare nella società mineraria stataleprussiana. L’esperienza è breve; ma giàdelinea le capacità di quell’ingegnereche migliora le attrezzature di soccorso,inventa una nuova lampada, si batteper far ottenere una pensione agli ope-rai. Gli offrono anche una carriera di-plomatica. Ma la Prussia ad AlexanderVon Humboldt va stretta. Lui è un uomodel suo tempo. E il suo è un tempo mu-tevole. Sono gli anni — illuminati, ro-

mantici, scientifici, avventurosi — chechiudono il Settecento e aprono le por-te dell’Ottocento. Da una parte i viaggidi Cook e Bougainville, dall’altra quellodel Beagle di Darwin. Da una parte Lin-neo che esplora la Lapponia e mette apunto la sua nomenclatura, dall’altra ilJardin royal des plantes di Parigi e i Giar-dini reali di Kew. Von Humboldt è lì inmezzo, come uno spartiacque. Un geo-grafo, in un tempo dove la geografia èancora una materia da scrivere e da ri-scrivere. La fine delle guerre napoleoni-che ha liberato e spinto le flotte versonuovi orizzonti: Oceania, Africa, il pas-saggio a Nord Ovest... esplorazioni, co-lonie, traffici. Le piante del Nuovo mon-do non sono più solo una curiosità per igiardini dei nobili, ma assumono im-previste valenze commerciali.

Von Humboldt, in compagnia delmedico e botanico francese Aimé Bon-pland, si imbarca per il Sud America nel1799. È l’inizio di un’esplorazione che,nell’arco di cinque anni, lo porterà a co-prire 9.650 chilometri. Cuba, Venezue-la, Perù, Colombia, Ecuador, Messico.Risale il Rio delle Amazzoni e l’Orinoco.Scala le Ande. E una sua ascensione aquota 5.600 metri, oltre a portare allaprima descrizione del mal di monta-gna, resterà per trent’anni il record d’al-titudine dell’alpinismo europeo. Man-gia tuberi e formiche. Raccoglie unaquantità incredibile di osservazioni:zoologia, astronomia, vulcanologia.Per restare alla botanica: Von Hum-boldt e Bonpland classificano sessan-tamila piante, scoprendone 6.300 finoallora sconosciute. Intanto scrive con-

Il genio di Von Humboldt

RITRATTOVon Humboldt

in un ritratto

che lo raffigura

in età più matura

SE IT 1707

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in Europa centrale apre a Roma

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 8MARZO 2009

tro la schiavitù, lamenta le condizioni divita delle donne, denuncia lo sfrutta-mento delle miniere d’argento. Quandorientra sul vecchio continente, nel 1804,è già un mito. E fama maggiore (i con-temporanei ritenevano che, dopo Na-poleone, fosse lui l’uomo più conosciu-to in Europa) gli verrà dalla pubblicazio-ne del resoconto delle sue esplorazioni:Viaggio nelle regioni equinoziali delNuovo mondo, un’opera in 34 volumiche vedrà la luce in Francia tra il 1807 e il1833. Von Humboldt si stabilisce a Pari-gi. È un’anticipazione degli eroi di Sal-gari e Verne. Ma è anche un’autorità ac-cademica. Un grande divulgatore (unoscienziato, sosteneva, deve essere unpo’ artista e trasmettere le sue cono-scenze), preso a modello da quel filonescientifico letterario che all’epoca ri-scuote una grande fortuna con le biblio-teche universali e le riviste stile Annalesdes voyages. È anche un brillante con-versatore: «Una fontana dai molti zam-pilli», racconterà Goethe, «sotto i qualibasta porre dei recipienti perché essisiano riempiti da un fiotto rinfrescantee inesauribile». Von Humboldt si fermaa Parigi per vent’anni. Di giorno scrive,studia, sperimenta. Di notte domina isalotti. Federico Guglielmo II, però, lo ri-chiama a Berlino. Vuole utilizzarlo co-me ambasciatore. Von Humboldt hasessant’anni. Ma quando lo zar si offre difinanziargli un viaggio ai confini orien-tali della Russia per la ricerca di giaci-menti minerari parte in quattro e quat-tr’otto per un viaggio di quindicimilachilometri che lo porterà fino all’estre-mo della Siberia e ai confini con la Cina.

L’esploratore annoterà di aver sostatoin 12.244 stazioni di posta; senza ag-giungere troppi particolari perché lozar, per concedergli i fondi, gli ha postouna condizione precisa: non commen-tare la situazione del paese.

Von Humboldt non ha paura dischierarsi. Ed è nemico dei pregiudizi.Si dice sia omosessuale. E gli vengonoaccreditate diverse relazioni, da quellegiovanili, fino a quelle dell’età matura.Molto chiacchierata quella con il fisicoGay-Lussac; assieme al quale, peraltro,scoprirà quelle due parti di idrogeno euna di ossigeno che danno vita allacombinazione dell’acqua. Infine, c’èanche il profeta dell’ecologia. Perché ilsuo approccio alla natura — vista comeuna realtà unitaria che chiude cielo, flo-ra, animali, uomini in un concatenarsidi cause ed effetti — anticipa molte tesimoderne, traducendole in precise pre-visioni. Vede gli spagnoli che disbosca-no i fianchi delle colline nel basso Perùe prevede ciò che aveva già previsto perla Lombardia: frane, fonti che si secca-no, alluvioni. «Abbattendo gli alberi chericoprono la cima e il fianco dei montigli uomini, in tutte le regioni del globo,in ogni situazione climatica, preparanocalamità per le generazioni del futuro».

Muore a Berlino, nel 1859. Sta finen-do di scrivere il quinto ed ultimo volu-me di Kosmos, un «progetto di descri-zione fisica del mondo» che l’ha occu-pato per venticinque anni e resta, forse,l’opera scientifica più ambiziosa del se-colo. Ha novant’anni. E se ne va serena-mente perché in fondo, dice, «la vita èuna gran noia».

Ogni esemplare veniva seccato, pressato tra due fogli di carta e conservato in unflacone di formalina con il nome, la data e l’ora in cui era stato raccolto. Passi-flora, mimose, dalie, lobelie, rose, acacie, fiori di senna, di cactus, di iperico, co-

me ibernati. Sono soltanto alcune delle specie botaniche scoperte alla fine del Sette-cento tra Cuba, Messico e Ande settentrionali. Sono soltanto un tassello di quel pat-chwork di fitogeografia costruito con centocinquanta illustrazioni e materiale ineditoda Hans Walter Lack — direttore dell’Orto Botanico e professore alla Free Universitydi Berlino — in Alexander Von Humboldt and the botanical exploration of the Ameri-cas(Prestel, 288 pagine, 148 euro, 185 dollari), da fine aprile nelle librerie tedesche e dagiugno in quelle anglosassoni, per celebrare il 6 maggio prossimo il centocinquante-simo anniversario della morte del botanico berlinese.

Lack ha raccolto materiale per sei anni in tutta Europa. Inediti, manoscritti, disegnie acquerelli recuperati tra il Fitzwilliam Museum di Cambridge, la University Library,i Tropical and Botanical Gardens di Francoforte. Una ricerca che mette in luce il viag-gio di Von Humboldt in America latina fatto tra il 1799 e il 1804 a piedi, a cavallo, in ca-noa, tra Colombia, Venezuela, Ecuador, Perù, Cuba e Messico. L’autore ha analizzato,estratto e riprodotto i disegni di piante e fiori da lettere, taccuini e quaderni, ma non siè fermato alla spedizione in Sud America. Ha raccontato per la prima volta come le ri-cerche sul campo siano state successivamente pubblicate — in mezzo a mille difficoltà— a Parigi da Aimé Bonpland e tra Parigi e Berlino da Karl Sigismund Kunth.

Von Humboldt era un botanico ma soprattutto un esploratore. Organizzava viag-gi, scriveva diari e immaginava itinerari tra giungle e foreste, scalava montagne e se-guiva i percorsi dei fiumi dal mare alle sorgenti. Secondo molti la sua è stata la “sco-perta scientifica” dell’America. Mentre l’attraversava, aveva fissato meridiani e pa-ralleli, redatto mappe, studiato sessantamila piante. Per fare più misurazioni possi-bili si era portato dietro telescopi, sestanti, quadranti, cronometri e barometri. E laspedizione per i pionieri dell’epoca era subito diventata un modello da imitare.

Una collezione di sessantamila pianterisalendo Amazzoni e Orinoco

AMBRA SOMASCHINI

BOTANICOIl ritrattodi AlexanderVon Humboldtdipinto da JosephStieler nel 1843;a sinistrae a destra,alcune tavolebotanicherealizzatedal grandeviaggiatoretratte dal libroAlexanderVon Humboldtand the botanicalexplorationof the Americasedizioni Prestel

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36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 8MARZO 2009

NEW YORK

Quando venne chiamato a interpretare il protagonista delTexano dagli occhi di ghiaccio, Clint Eastwood accettò conentusiasmo: aveva apprezzato enormemente la sceneggia-tura di Philip Kaufman, al quale era stata affidata anche la re-

gia. Ma ci mise meno di una settimana per capire che con lui non sareb-be mai andato d’accordo e che, per dirla con il termine diffuso in seguitodai publicist, si erano immediatamente create «insanabili divergenzecreative». Con il potere attribuitogli dal suo status di star, chiese ed ot-tenne che Kaufman venisse licenziato, assunse in prima persona la regiadel film e finì per firmarlo. Una cosa simile avvenne qualche anno dopocon Corda tesa, ma in questo caso il regista Richard Tuggle riuscì a man-tenere almeno il nome nei titoli, sebbene fosse stato fatto licenziare daEastwood dopo pochi giorni. Si trattò di una vittoria di Pirro, e forse nonè un caso che in seguito Tuggle sia riuscito a dirigere soltanto un altro film.

In seguito a questi episodi, il Directors Guild (il sindacato dei registi)ha sanzionato il divieto per un attore di far licenziare e sostituire il pro-prio regista, ma la regola continua a essere aggirata, grazie alla compli-cità di produttori che hanno ben chiara la scala del potere su un set hol-lywoodiano. La “Eastwood Rule” è uno dei tanti termini dello slang ci-nematografico elencati da Tony Bill in un delizioso libro intitolato Mo-vie Speak, con il quale l’autore propone un vero e proprio dizionario delcinema, intervallandolo ad aneddoti e considerazioni sull’industriadello spettacolo. Bill, che ha prodotto La Stangata, ha un approccio ametà tra il disincanto e l’affetto nei confronti del proprio ambiente, e usail linguaggio veloce del set e delle trattative tra talents (gli attori, dei qua-li spiega che non è necessario che abbiano realmente talento) e percen-ters (i manager, gli agenti e tutti coloro che sono pagati a percentuale).Queste alcune delle voci maggiormente significative.

PRODUTTORE

A Hollywood esiste una differenzafondamentale tra produttore, pro-duttore esecutivo e produttore as-sociato. Il primo è quello che detie-ne il vero potere e ha il diritto di riti-rare l’Oscar in caso di vittoria. Il se-condo è identificato come “i soldi” espesso viene defraudato del fatto diaver reso possibile il film. Il terzorappresenta un titolo che è poco piùche un contentino per professioni-sti che spesso hanno svolto un ruolodeterminante. In Hollywood, Ver-mont David Mamet spiega che «ilcredit di produttore associato èquello che dai alla tua segretaria in-vece di aumentarle lo stipendio».

DORIS DAY PARKING

È il parcheggio migliore dello studiocinematografico, riservato storica-mente per contratto all’automobiledella diva.

GROUCHO

La posizione assunta da un inter-prete che si abbassa per aiutare il ca-meraman nell’inquadratura. La de-finizione nasce dall’inconfondibilemodo di camminare di GrouchoMarx.

HORACE MCMAHON

Definizione opposta al “Groucho” Èil termine che indica il movimentoimprovviso con cui un interpreteesce improvvisamente dal campo.Per questo modo di fare il caratteri-sta Horace McMahon era detestatodagli operatori hollywoodiani.

SEAGULL/GABBIANO

Uno stacco inutile e fintamente poe-tico, girato da registi a corto di ideecon l’illusione di nobilitare la scena.Tipiche le inquadrature degli uccelliche hanno dato il nome al lemma.

FIFTY-FIFTY

La tecnica di ripresa che equilibraun’inquadratura con due personag-gi che dialogano, valorizzando il pro-filo migliore degli interpreti in que-stione e rispettando nello stessotempo il rispettivo star power. Nelcaso di attori di grandissima impor-tanza l’equilibrio è mantenuto con-tando i secondi e i centimetri di pre-senza sullo schermo. Tony Bill rac-comanda di non chiedere mai a Bar-bra Streisand di recitare sul lato sini-stro.

TELEVISIONE

Paddy Chayefsky, il grande sceneg-giatore di Marty e Quinto Potere, ladefiniva «democrazia al livello piùbasso», mentre Billy Wilder la elogia-va con questa motivazione: «Daquando è stata inventata anche noiuomini di cinema abbiamo qualco-sa da guardare dall’alto in basso».Tony Bill si limita a scrivere a carat-teri cubitali di NON DIMENTICAREMAI che il suo unico fine è quello diraccogliere il pubblico più numero-so possibile di fronte ad una pubbli-cità. Oggi alcuni canali televisivi pro-ducono serie degne dei migliori filmhollywoodiani, ma non è un caso chelo slang della Hbo sia: «It’s not tv, it’sHbo».

GREEK/GRECO

L’ordine dato al trovarobe di rende-re incomprensibile una scritta osce-na. “To greek it/Rendere greco qual-cosa” significa ad esempio trasfor-mare la scritta sul muro “fuck” in“buck”, e prende origine da un’am-missione di ignoranza: «Non capiscocosa significhi: per me è greco».

REMBRANDT

Il nome con cui viene chiamato il pit-tore di scena.

Cosa si intende per “Regola Eastwood”?E perché Groucho non è solo il nome del piùnoto dei fratelli Marx, ma anche un movimentodella macchina da presa? Un libro appenauscito in America svela il linguaggio nascostoparlato da Hollywood tra un ciac e l’altro

SPETTACOLI

paroleCinema

del

Le

Lo slang segretosussurrato sul setANTONIO MONDA

CLINTEASTWOOD

DORISDAY

GROUCHOMARX

HORACEMCMAHON

IL MISTERO DEGLISQUALI MARTELLO

NATIONAL GEOGRAPHIC VIDEO

IN EDICOLA IL DVD DI MARZO A € 9,90

Circa 20 milioni di anni

fa apparve una nuova

specie: lo squalo martello.

Come ha potuto evolversi

questo strano animale

marino e, soprattutto,

come è riuscito ad arrivare

fino ai giorni nostri?

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 8MARZO 2009

“SIAMO NELL’ORO”

Una delle espressioni che preoc-cupa maggiormente i produttori,ed è quel che annuncia il direttoredi produzione per spiegare che so-no iniziati gli straordinari a doppiapaga.

“PORTATE LA CARNE”

Il modo dispregiativo con cui il regi-sta comunica al suo assistente diconvocare gli attori sul set.

PERRIER MEETING

Appuntamento che dura meno deltempo che ci vuole a bere un bic-chiere di acqua minerale, e preludegeneralmente a un licenziamentoin tronco.

DISNEY DEATH

La morte provvisoria di un perso-naggio, che è riportato miracolosa-mente in vita, come avviene perBiancaneve nel film omonimo e perBaloo nel Libro della Giungla.

REGOLA CASTLE ROCK

Prende il nome dall’omonima casadi produzione, fondata da Rob Rei-ner, Martin Schafer e altri soci nel1987. La regola è quella secondo laquale esistono soltanto quattro tipidi film: «Buoni film che funzionano,brutti film che funzionano, buonifilm che non funzionano e brutti filmche non funzionano», dove il termi-ne “funzionare” intende unicamen-te generare soldi.

MICKEY ROONEY

Un movimento rasoterra della mac-china da presa, chiamato così per labassa statura del celebre attore. Roo-ney non si è mai offeso per la defini-zione, e anzi ne ha fatto pubblica-mente motivo di vanto.

“AZIONE!”

È l’ordine con cui si dà il via ad unascena. Sul set hollywoodiano non èsempre il regista a dare l’ordine inquestione: molti cineasti amano sot-tolineare il proprio potere limitan-dosi a muovere leggermente il capo,altri affidano il compito all’assisten-te, ed altri ancora propongono va-rianti personali. Martin Scorsese di-ce: «Azione, energia!»; Clint Ea-stwood sussurra con un filo di voce:«Inizia pure»; mentre Samuel Fulleramava sparare un colpo della pro-pria Luger.

REGISTA

Secondo la “teoria dell’autore” diAndrew Sarris il regista è il massimoresponsabile artistico di un film. AHollywood la teoria di Sarris rap-presenta soltanto una variabile, espesso un’eccezione. Orson Wellesdefinì una volta il regista «una per-sona che tiene sotto controllo gli in-cidenti».

GO WITH THE MONEY

Seguire con la massima cura tuttociò che riguarda la star più pagata delfilm mettendo in secondo piano il re-sto. Pochi cineasti come Welles han-no rifiutato di accettare questo ordi-ne da parte del produttore. Registicon minore personalità replicanoinvece l’indicazione perentoria sot-tovoce al direttore della fotografia,facendo bene attenzione che altri in-terpreti non si accorgano di quantosta avvenendo.

JANE RUSSELL

Dal nome dell’attrice, nota per il se-no molto abbondante. Si tratta diuna sineddoche che intende un’in-quadratura all’altezza del petto.

MARTINI

L’ultima inquadratura della giorna-ta lavorativa. Chi la pronuncia pre-gusta già l’aperitivo serale. In questocaso, lo slang hollywoodiano utilizzauna metafora e annuncia il momen-to in cui si può finalmente evaderedalla fabbrica dei sogni.

«In che film l’hai visto?» è un modo di dire sensatissimo: esprime lostupore di fronte all’irreale e invita a fare le opportune (ma a voltescomode) distinzioni fra i diversi piani di realtà. Si sa che vedere

un film rende letterale la metafora (anzi l’ossimoro) del sogno ad occhiaperti: con la differenza che il sogno lo produciamo noi mentre il film loproduce il suo produttore, e quindi è meno incertamente dalla parte del-la realtà oggettiva. Forse si potrebbe usare anche un’altra domanda: «Inche film l’hai sentito?». Sì, perché dall’introduzione del sonoro alla fine de-gli anni Venti, il cinema ha donato alla lingua (o ha amplificato nella lin-gua) quantità di espressioni, tormentoni, modi linguistici di atteggiarsi.Per fare solo gli esempi più rimarchevoli, per diffusione o per attualità, lepinzillacchere di Totò e i maccheroni di Alberto Sordi venivano subito ri-petuti e imitati anche alla Bovisasca; e, d’altra parte, recentissime crona-che hanno raccontato come la Gessica di Carlo Verdone, con il suo puredilagante «famolo strano», ha ispirato un sito che organizzava orge che orapreoccupano carabinieri e autorità sanitarie. Quel che il cinema dice, lospettatore acquisisce e ripete.

Subito dopo gli inizi impacciati in cui dallo schermo si parlava con lalingua del teatro contemporaneo (il primo film sonoro italiano, nel 1930,era tratto da Pirandello), il cinema si scontrò con la tenacia dei dialetti ita-liani, osteggiata (senza successo e forse senza troppa convinzione) dal fa-scismo e poi messa a confronto dal neorealismo con l’inglese e i diversiidiomi degli Alleati. Da una parte, dunque, l’italiano prezioso e totalmen-te artificioso dei telefoni bianchi; dall’altra, la sintesi suprema di Sciuscià,dove il dialetto lustra e rivernicia le scarpe alla lingua dello straniero libe-ratore. Il dialetto resterà una risorsa realistica (Olmi), comica o farsesca(da I soliti ignoti ai cinepanettoni con le macchiette regionali), ma ancheonirico-enigmatica, se si pensa all’Amarcorddi Fellini, o persino comico-enigmatica, se consideriamo Massimo Troisi e quel suo arditissimo espe-rimento di idioma stretto e veloce.

I conti, però, il cinema li ha dovuti fare soprattutto con la carenza di unalingua italiana media; se l’è anche costruita quando era il caso, per esem-pio importandola via doppiaggio. Le storie della lingua italiana parlanotutte di quel prezioso «sì...» che abbiamo sostituito a «pronto!» rispon-dendo al telefono, o di invenzioni fortunate (come il «picchiatello», pertradurre pixilated) o sciagurate (come «la città bassa» che vorrebbe ren-dere l’intraducibile downtown). Poi però la macchietta, la voce di gergo,il preziosismo aulico, l’eloquio vano si fanno notare più degli usi medi, chein italiano tendono subito all’affettazione o alla burocrazia. Così fra Totòe l’onorevole Trombetta oggi quello strano sembra il secondo, con i suoi«Permette che mi presenti?» e «Ricordatevi che io sono un onorevole».Embè? È la vecchia storia dell’eterna commedia dell’arte: maschere e ste-reotipi, pierini, brancaleoni e terruncielli, ognuno fornito della sua de-vianza linguistica, hanno diffuso quisquilie, viulenza, craniate pazzeschee «traversate lo cavalcone in fila longobarda». Si può andare per filoni, ilcomico, il romantico, il macho, il disinvolto. Nel filone intellettuale furo-no per tempo segnalate le incongruenze esistenzialiste in Antonioni, cul-minate nel «Mi fanno male i capelli» detto da Monica Vitti (mentre solo direcente Alberto Arbasino ha lamentato «Noi non parlavamo così» a pro-posito della Dolce Vita di Federico Fellini). Qualcosa di analogo si è ri-scontrato anche nel filone movimentista, soprattutto su Maledetti viameròdi Marco Tullio Giordana, ma poi i film di Nanni Moretti hanno im-posto locuzioni che corrispondono anche a un modo di vedere il mondo,da «giro, vedo gente» a «continuiamo così, facciamoci del male».

Perché poi il vero contributo del cinema è quello: suggerisce compor-tamenti, ancor prima che frasi e parole. Certi impermeabili, certe accon-ciature, certi modi di stare seduti allo sgabello di un bar, la camminata agambe larghe che molti spettatori ripetevano all’uscita da un western; epoi le frasi e gli sguardi d’amore, il modo stesso di farlo, l’amore, ormai; lebattute sdrammatizzanti e quelle di litigio; i modi di esultare. Come DonChisciotte viveva in un mondo modellato dai romanzi cavallereschi, cosìdi volta in volta, caso per caso, ci si può trovare a esportare da Hollywood(o Bollywood) a Vimodrone, da Cinecittà a Canicattì (con la spassosa ag-gravante che già Nando Moriconi era un Don Chisciotte, come ogni suosuccessore verdoniano). Il cinema ha influito sul modo di agire, e di «mon-tare» le nostre azioni, sui nostri ritmi e persino sui nostri visi. Lo ha scrittoRoland Barthes, per poi sottolineare che la somiglianza fisica che riscon-triamo fra molti volti che vediamo per strada e quelli dei divi è dovuta alfatto che è dalla strada che viene lo stereotipo cinematografico.

Avrà dunque avuto ragione Gianni Celati a intitolare una sua raccoltadi racconti Cinema naturale. Quello che abbiamo visto e che abbiamosentito al cinema è quel che c’era già da vedere e sentire, ma che nel pas-saggio dallo schermo ha focalizzato la nostra attenzione, modellato i no-stri comportamenti e i nostri corpi, diventando riconoscibile nella sua pa-radossale naturalezza.

Da amarcord a famolo stranoil vocabolario dei film italiani

STEFANO BARTEZZAGHI

MICKEYROONEY

ORSONWELLES

BIANCANEVE

JANERUSSELL

Nella fotograndeuna scenadel filmVialedel tramonto,di Billy Wilderdel 1950

Repubblica Nazionale

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i saporiCapitali del gusto

Dai cinque euro di un pasto pronto, ai trecentodella cena da Jiro, maestro ottantenne che crea per solodieci clienti alla volta, la metropoli giapponese offreuna varietà gastronomica straordinaria.Per questoha ospitato il summit dei più grandi chef del mondo

38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 8MARZO 2009

Allievo di Ezio Santin(Antica Osteriadel Ponte di Cassinetta,Milano), YoshihiroNarisawa gestisce“Les Creationsde Narisawa”Tra i piatti, lo strepitosofiletto avvoltonella cenere vegetale

DOVE COMPRARE

TSUKIJI FISH MARKET5-2 Tsukiji

Chuo-ku

Tel. (+81) 3-3547-8011

CHA CHA NOMA TEA SHOP5-13-14 Jingu-mae,

Omotesando, Shibuya-ku

Tel. (+81) 3-5468-8846

SADAHARU AOKI SWEETSTokyo MidTown Galleria B1, 9-7-4

Akasaka, Minato-ku

Tel. (+81) 3-5413-7112

SHINANOYA LIQUOR STORE1-12-9 Kabukicho

Shinjuku-ku

Tel. (+81) 3-3204-2365

Tokyo«M

a dove sta il divertimento nel-l’andare in un ristorante dovela roba te la devi cucinare tu?!».Un attonito Bill Murray com-menta così con ScarlettJohansson il rituale della cena

shabu-shabu in uno dei dialoghi più divertenti di Lost intranslation, film-culto sul senso di dispersione e inade-guatezza ambientato a Tokyo. Nella città dei ventitré quar-tieri (ku) da oltre mezzo milione di abitanti ciascuno, pen-sare che un solo stile di cucina li identifichi tutti sarebbefolle. Al contrario, in nessun’altra capitale del mondo gliestremi gastronomici sono così distanti. Da una parte, ilmassimo della condivisione fai-da-te, con i ristoranti daitavoli attrezzati per ospitare al centro il fornello con pen-tola di brodo. Dall’altra, l’arte del servizio più raffinata e av-volgente, grazie alle cameriere-geishe che si inginocchia-no sul tatami di fianco al cliente per servire sushi e zuppe.

In mezzo, tutto quello che avreste voluto sapere sul ci-bo e non avete mai osato chiedere: non solo e non tanto alivello di bocconi proibiti — e quotidianamente serviti,dalle bistecche di balena al brodo di tartaruga, fino alle in-teriora di pesce-palla — quanto nel mirabolante approc-cio agli alimenti più comuni e apparentemente banali.Non si spiegherebbe altrimenti perché, secondo tutte leguide turistiche di Tokyo, in cima alla top ten dei luoghi im-perdibili da visitare non ci sia un tempio, una strada, unmonumento, ma lo Tsukiji Fish Market, dove ogni giornotransitano quasi tre tonnellate di pesce. Da lì in poi, nellacittà che non dorme mai tutto è possibile, a partire da cin-que euro, il prezzo di un bento (pasto pronto) con riso,zuppa e pesce caldo, serviti con una tazza di tè verde, finoai due-trecento per una cena indimenticabile da Jiro, lostraordinario ottantenne supermaestro di sushi che di-spensa le sue delizie e uno spettacolo fantastico a dieci for-tunati per turno (scandendo perfino la tempistica degli as-saggi per evitare sbalzi nella temperatura di riso e pesce...).Proprio la varietà di offerta mangereccia e la profonda cul-tura alimentare hanno indotto la créme de la créme del-l’alta cucina internazionale a scegliere Tokyo come sededel primo summit mondiale di gastronomia, organizzatoda Yukio Hattori, super-chef responsabile della scuola dicucina più famosa del Giappone, il “Nutrition College”.Così, pochi giorni fa nei saloni dell’International Forum,sono sfilati Joel Robouchon e Ferran Adrià, Nobu e Massi-miliano Alajmo, Grant Achatz e Dong Zhenxiang, HestonBlumenthal e Pierre Gagnaire. Tecniche, ricette, ma so-prattutto la scoperta della felice contaminazione con l’ar-te culinaria occidentale, dal pesce crudo alle cotture croc-canti, passando per il rispetto assoluto di colori e principinutritivi. Ma il fascino del nippo-food in purezza resta in-tatto. Se siete a Tokyo, prima di cominciare a litigare conbacchette e wasabi, rilassatevi al “New York bar”, ultimopiano del Park Hyatt Hotel. Mentre vi godete la vista moz-zafiato e sorseggiate un Sakè-Martini, potreste scoprireScarlett Johansson seduta al tavolo vicino.

DOVE MANGIARE

ISEHIRO (YAKITORI)5-4, 1-chome, Kyobashi, Chuo-ku

Tel. (+81) 3-3281-5864

Chiuso domenica, menù da 12 euro

IPPOH (TEMPURA)4F, Kojun Building, 6-8-7 Ginza

Tel. (+81) 3-3289-5011

Chiuso domenica, menù da 35 euro

SUSHI-KO 6-3-8 Ginza, Hibiya

Tel. (+81) 3-3571-1968

Senza chiusura, menù da 120 euro

YAMADA CHIKARA1-15-2 Minami-Azabu, Minato

Tel. (+81) 3-5492-5817

Chiuso domenica, menù da 150 euro

DOVE DORMIRE

GRAND HYATT TOKYO6-10-3 Roppongi, Minato-Ku

Tel. (+81) 3-4333-1234

Camera doppia da 190 euro

SUMISHO HOTEL 9-4 Nihonbashi-Kobunecho

Tel (+81) 3-3661-4603

Camera doppia da 90 euro

SADACHIYO RYOKAN2-20-1 Asakusa, Taito-ku

Tel. (+81) 3-3842-6431

Camera doppia da 80 euro

GREEN HOTEL OCHANOMIZU2-6, Kanda-Awajicho, Chiyoda-ku

Tel. (+81) 3-3255-4161

Camera doppia da 112 euro

La cucina che non dorme maiLICIA GRANELLO

Manzo di KobeLa carne arriva da bovini

allevati tra musica,

massaggi e dieta a base

di birra. Le finissime

marezzature di grasso

si traducono in consistenza

incredibilmente morbida

Salsa di soiaProdotta dalla

fermentazione dei fagioli

di soia con acqua, farina

e sale, viene usata da sola

o come ingrediente -

nelle varianti chiara e scura

- in moltissime ricette

ToroIl “foie gras di pesce”,

la ventresca di tonno rosso

è considerata un boccone

pregiato, sia nei bocconcini

di sushi e sashimi

(i più costosi),

sia nelle preparazioni tataki

NoodlesI lunghissimi spaghetti,

classificati secondo

la farina (udon, grano,

al sud; e soba, grano

saraceno, nel nord), si

servono in zuppa bollente

con carni e verdure

SakèIl vino ricavato

dalla fermentazione

del riso vanta un’alta

concentrazione alcolica

Diverse le tipologie:

fruttato, secco, frizzante...

Si serve freddo o caldo

Sushi & sashimiIl piatto-simbolo –

con e senza riso

nelle due dizioni – prevede

pesce freschissimo,

wasabi, aceto di riso,

zenzero marinato dolce,

salsa di soia

Teppanyaki Di origine nippo-

californiana, la piastra

di ferro (teppan) inserita

all’interno del tavolo,

su cui il cuoco salta (yaki)

sottili porzioni di pesce,

carne e verdure

Shabu-shabuMezzo secolo di vita

per la cottura fai-da-te:

la parola shabu definisce

il rumore della fettina

di carne intinta

nella pentola di brodo

bollente in mezzo al tavolo

YakitoriGli spiedini grigliati, anche

in versioni diverse

dalla tradizione (polpa

e fegatini di pollo), sono

spennellati con una salsa

a base di sakè, salsa

di soia, mirin e zucchero

TempuraPesce, frutti di mare

e verdure per la frittura

croccante. La pastella

è preparata al momento

con rosso d’uovo, farina

e acqua ghiacciata,

che non fa assorbire l’olio

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 8MARZO 2009

Nutrirsi di opere d’arte, mangiare colori, un pasto non ordinato intorno alla centralità di una portata ma fram-mentato in piccole bellezze, questa la particolarità della cucina giapponese autentica, prima delle contamina-zioni. Paziente e frugale sublimazione della foglia di lattuga, della prugna, del pesciolino, della fettina di zucca

per creare piccoli capolavori, cibo che non si presenta come preda, quindi bandito il coltello assassino, la forchetta den-tata. Basta una lieve presa delle bacchette e questo cibo, che è puro nella sostanza ed elaborato soltanto in omaggio al-la vista, si poggia sulle labbra, morbidamente inghiottito. Come se niente fosse.

È ancora cibo? O è invece, come diceva Roland Barthes, un ornamento? Bello, bellissimo, da mangiare con gli occhi.Come la nostra pasticceria, l’alta pasticceria, i pasticcini, così perfetti ed elaborati. Un vero ristorante giapponese, maanche e forse soprattutto il banco di un negozio di alimentari, sembra far riferimento a schemi di presentazione e di se-duzione che da noi vengono rispettati unicamente per i cibi superflui, i dolci per l’appunto, il lusso del di più che ci siconcede dopo la sazietà. La pasta è la pasta, la bistecca è la bistecca, il pollo è ancora lì con le sue forme animali, ha ad-dirittura le cosce. Ma un pasticcino, cosa è mai?

A Tokyo è come se tutti vivessero di pasticcini, si nutrissero con sublime aristocratico distacco, con un sospiro. O unamadeleine. Sin da bambini, non si mangiano cibi ma pensieri, suggestioni. Ci pensa la mamma che prepara lo o-bento,che sarebbe — chi se lo ricorda? — pressappoco il cestino del pranzo dei nostri scolari di un tempo, quelli con il grem-biulino e il fiocco al collo. Nello o-bento, una scatola a scomparti, le mamme mettono colori, minute porzioni del loroamore, elaborano cibi in forma di Topolino, o dell’eroe dei manga del momento. Oppure crisantemi di riso, giardinet-ti di alghe. Anche a teatro, ti servono cibi in un o-bento, microscopiche porzioni di bellezza commestibile. Anche nelloShinkasen, il treno a alta velocità giapponese, si vendono pasti nello o-bento. O-bento più o meno cari, più o meno raf-finati, ma che delizia è lo o-bento, questa scatola di lacca o di legno o di plastica con dentro un variegato pranzo “bon-sai”. Anche a tavola, a casa o al ristorante, mangiare significa prima di tutto vagare con lo sguardo su un’esposizione diframmenti presentati tutti assieme artisticamente, seguendo un itinerario dettato dal desiderio, prelevando ora un co-lore, ora un altro, senza rispettare la rigidità di un menu. Il pasto si presenta completo su di un vassoio, ordinato minu-ziosamente dentro piattini e ciotole, stoviglie decorate con motivi che cambiano a seconda della stagione e hanno for-me e colori in armonia con il clima, con le fioriture, con le sfumature di verde dell’erba, del giallo delle foglie. Mai fioridi ciliegio in autunno, mai castagne d’estate, l’errore sarebbe imperdonabile, esteticamente scorretto. Nutrirsi è per igiapponesi un atto supremamente formale ma loro hanno le loro forme, niente a che vedere con le nostre maniere detable, con i nostri orari canonici, le fatidiche ore dei pasti: si spilluzzica bellezza, si vive di pasticcini.

Nel paese dove si spilluzzica bellezzae non si mangiano cibi ma suggestioni

RENATA PISU

gli abitantidella prefettura

13 milioni

gli abitantidell’area

35 milioni

i ristorantinel territorio

200 mila

i ristoranti premiaticon stelle Michelin

173

L’APPUNTAMENTO

È magica la primavera a Tokyo. Tutto merito dei cherryblossoms, i boccioli dei ciliegi, che colorano di bianco-rosa la città . Nelle due settimane a cavallotra fine marzo e inizio aprile, la “hanami season”sarà punteggiata di percorsi guidati e sakè-partynegli angoli più suggestivi dove ammirare le fioriture, dallo Shinjyuku Gyoen Garden a Ueno& Sumida parks,fino alle romantiche mini-crociere davanti alla baia e lungo le rive erbose del castello di Chidorigafuchi

Repubblica Nazionale

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le tendenzeIrrinunciabili

Era il 1959 quando l’americano Allen Grant seniorrealizzò il primo paio. Poi l’avvento della minigonnali rese indispensabili. Oggi l’Italia è il produttoreleader dell’accessorio più amato dalle donne(ma detestato dagli uomini), ormai sofisticato e hi-tech

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 8MARZO 2009

Il collant compie cinquant’anni, in-dumento funzionale e in fin dei con-ti prosaico, antipatizzato dagli uo-mini per la sua carica antierotica,sempre più popolare fra le donne perla sua dirompente praticità. Correva

l’anno 1959 quando Allen Grant sr, dellaGlen Raven Mills, fabbrica di tessuti delNord Carolina, ideò e realizzò il primo col-lant, usando il nylon, «delicato come una ra-gnatela, resistente come l’acciaio». Il 1959 èanche l’anno in cui viene inventata la Lycra,fibra elastica hi-tech che un giorno avrebberivoluzionato il mondo dell’intimo, dei co-stumi da bagno e ovviamente anche dei col-lant. Passò ancora qualche anno prima chele calze lunghe fino alla vita, guardate all’i-nizio con diffidenza, diventassero un indu-mento di massa. Fu l’avvento della mini-gonna a renderlo indispensabile, adottatoprima dalle più giovani e dalle più temera-rie, ma diventato rapidamente un accesso-rio cui nessuna donna avrebbe rinunciato.Era una strada senza ritorno, a cambiare co-stumi e consumi, gusti, riferimenti, abitudi-ni. In fondo il collant aveva antenati celebrigià negli anni Cinquanta: per esempio la cal-zamaglia censoria e supercoprente con cuifurono rivestite le gemelle Kessler. Porta uncollant abbinato solo a un maxi pulloverMarilyn Monroe nel film Facciamo l’amore,ma siamo già nel ‘60. Ne sfoggia uno ancheSophia Loren mentre balla uno scatenatorock and roll per Clark Gable ne La Baia diNapoli, stesso anno. Ma sono sostanzial-mente calzamaglie simili a quelle che si in-dossavano sotto la tuta da sci, total black sti-le Amleto, o da paggio, pesantissime e grin-zose. Il collant invece fu rivoluzionario per ilsuo effetto nudo, perché era una secondapelle, ma anche perché liberava la donnadalla schiavitù del reggicalze e dei gancetti,scomoda calamita di erotismo. Accompa-gnava signore & ragazze nella marcia versola libertà, la comodità, l’emancipazione.Era l’indumento del futuro, indosso a unaspaziale Jane Fonda nei panni stellari di Bar-barella (1968) con stivali super sexy e sguar-do aggressivo.

Apprezzatissimo dall’universo femmini-le, fu sempre (e lo è ancora) osteggiato dagliuomini, che lo hanno vissuto come un de-fraudante sopruso. Non a caso dall’ultimaimportante ricerca di mercato commissio-nata proprio da Lycra, intitolata “Gli uomi-ni preferiscono le gonne”, risulta che la cal-za autoreggente, e non certo lo sterilizzatocollant, sia di gran lunga (nell’ottanta percento dei casi) la calza preferita dagli uomi-ni di tutte le età, regina indiscussa dell’im-maginario maschile.

Mezzo secolo di storia. Nella sua banalità

il collant è ormai una certezza, un punto fer-mo. E l’Italia è il primo produttore mondia-le. Maculati, operati, tatuati, i collant non so-no più un semplice accessorio, bensì un ca-po d’abbigliamento, anzi “il” capo d’abbi-gliamento che secondo gli esperti di moda fala differenza. Sono un prolungamento del-l’abito, una parte essenziale. Sofisticatissi-mi, ricercati, spruzzati di lurex o tempestatidi paillettes, trafitti da oblò, decorati con ap-plicazioni di ogni tipo, pitonati, leoparda-ti, mimetici, tribali, a spina di pesce, op-tical, scozzesi, gessati, di pizzo o broc-cato. Belli o pacchiani, chic oppuretroppo vistosi. Ma soprattutto hi-tech, dotati di effetti speciali untempo insospettabili: c’è ilcollant anti varici, il collantanti statico, anti fatica,anti zanzara, anti cel-lulite, anti batterico,il collant che mas-saggia, quello cheidrata, quello chedepila, quello dotato di push-up con effettolievitante sui glutei, quello che abbronza,quello che cambia profumo a seconda del-l’ora del giorno o della sera, quello che leni-sce il jet lag.

Il bilancio del settore fino a qualche mesefa era positivo. «Abbiamo vissuto una sta-gione molto favorevole, grazie anche agli sti-listi che, dopo tante collezioni di gambe nu-de e dopo tanti pantaloni, hanno rilanciatoalla grande il collant sulle passerelle; e graziealle giovanissime, che hanno comprato so-prattutto collant ad alto contenuto-modada abbinare alle minigonne», afferma Gio-vanni Fabiani, presidente del Centro ServiziCalza di Castelgoffredo Mantova. Un com-parto che, con le sue 250 aziende, da soloproduce il settanta per cento delle calze ven-dute nell’intera Europa, con un fatturato an-nuo di un miliardo e mezzo di euro. Una ve-ra eccellenza del made in Italy. Poi, con la cri-si globale, negli ultimi mesi c’è stato un calodelle vendite al consumo pari a un cinque-sei per cento, e un crollo verticale degli ordi-ni all’industria, che a gennaio sono diminui-ti del cinquanta per cento.

Un tempo, prima dell’avvento della Ly-cra, i collant duravano meno, si sfilavanoprima: avevano un costo più contenuto mafinivano prima nel cestino. Quindi se nevendevano molti di più. Negli ultimi diecianni il consumo si è addirittura dimezzato,come numero di paia pro capite, ma noncerto come valore di spesa. Ogni italiana og-gi compra in media fra le tredici e le quattor-dici paia di calze l’anno (la cifra include col-lant, autoreggenti, parigine, gambaletti, leg-gings, calze riposanti). Il sessanta per centodi quello che spende viene speso in collant.Poco sexy forse, ma indispensabili.

FANTASIA RAMAGEFantasia ramagelungo le gambecon maglietta abbinataper il collant viola50 denari di Bombana

EFFETTO PIZZOFantasia effetto pizzocon motivo di fioriper il collant firmatoPhilippe Matignonper Goldenpoint

FLOREALEÈ trasparentema non rinunciaall’effetto primaveradelle stampe a fioriil collant Just Cavalli

A POISFondo nero con pois

color glicine

per il collant estroso

ed elegante

di Emporio Armani

DAMASCATOÈ con disegnojacquard damascatoil collant Melitabicoloredi Pierre Mantoux

A VITA BASSACollant velato-coprente vitabassa con effettofinto gambalettoe ricamo per Omsa

TARTANClassico motivo tartan,ma rivisto in nuovenuances di coloreÈ il modelloVivienne di Oroblu

LAURA LAURENZI

Collant50

annidi

A RETECollant a rete senzacuciture con raffinatomotivo a cerchi:è il modello Londradi La Perla

L’ANNIVERSARIOCalzedonia celebrail compleannodei collantcon Anniversary,modello specialea tiratura limitatadisponibile dal 30marzo. Effetto nudoe alta tecnologiale sue caratteristiche

La calza rivoluzionariache inventò le gambe

Repubblica Nazionale

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l’incontro

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Sempreverdi

42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 8MARZO 2009

Le attrici comicheora sono impegnate:stanno attaccateall’attualità,parlano di politica...Ma così si perdedi vista la vitadella gente: la societàoggi non esiste più

Ha ottantotto anni, la pelle di pescae la frangetta da ragazzaSta alla ribalta da prima della guerra,in teatro è ancora una leonessa

e adesso ha scritto un libro,“Di tanti palpiti”,sulla lirica e le sue donneMa è raccontandole donne di tutti i giorniche ha fatto rideregli italiani. “La mia satira

non si accanisce ma non è bonariaE guardando le donne nuove, constatoche le vecchie sono le più nuove”

Franca Valeri

ROMA

Itempi non sono cambiati. Fran-ca Valeri nella sua casa di Roma,nascosta dai pini e per niente incentro, ha ancora una portiera.

Viene con piccoli passi invisibili a chiu-dere le persiane, è quasi ora di cena. Itempi sono cambiati: la portiera è unagiovane donna indiana, con i capelli co-lor lava, e porta odore di gelsomino.«Ecco la portiera», la annuncia quandola vede entrare in casa, e batte anche lemani. Come la chiamasse in scena.«Quando qui si è ventilato di eliminarela portiera ho chiamato l’amministra-tore: ditemelo subito, che io cambio ca-sa. È assurdo, la vita è già così difficile».

La portiera forse è il punto di vista cheha scelto per guardare le vite degli altri.Con distacco, dal basso verso l’alto: lagente che scende, la gente che sale. Fer-ma nello stesso punto, a osservare gliesseri umani, e un po’ l’Italia e le donne,e a scriverne ininterrottamente per laradio, il teatro, la tv, il cinema, e di nuo-vo la tv, e ora di nuovo il teatro, per oltresessant’anni.

La sua casa è come un bjioux, pienazeppa di libri, statuine di porcellana, ri-cordi di Giuseppe Verdi. Ci sono deicentrini e un divano con i cuscini di vel-luto e per terra le ciotole dei suoi amaticani, sulle mensole le loro fotografie in-corniciate d’argento. È un po’ antica eun po’ vanesia, questa casa, non le so-miglia molto: lei sempre così sobria, co-sì moderna, per sempre giovane nellamente, e più bella e più giovane quasiquasi ora che ha ottantotto anni, ma lapelle come pesca e la frangetta da ra-gazza. Solo la voce trema ma in teatrono, in teatro le viene una forza da leone.

«I medici dicono che è l’adrenalina. Iodico che è la postura e che sono felice».

Franca Valeri parla poco e breve-mente, così come ha sempre scritto isuoi sketch: quei monologhi femminiliche sono soliloqui, a guardarli da vici-no. Le piace la brevità, signora Valeri?«Non è la brevità, è l’essenzialità. Nonmi piace andare oltre l’effetto: specienel teatro comico, si prolunga un effet-to che si è già ottenuto». Fu breve ancheil messaggio con cui annunciò alla fa-miglia (milanesi, borghesi, ambiziosi)che aveva deciso di prendere un’altrastrada. «Non avendo il coraggio, nonc’era molta confidenza, scrissi un bi-glietto e glielo misi sullo specchio delbagno: “Ho deciso che faccio l’attrice”,brevissimo».

La vita che racconta non cominciacon la sua carriera; che poi cominciòcon una bocciatura all’Accademia Sil-vio d’Amico, compagni d’esame NinoManfredi e Rossella Falk. La vita cheracconta comincia con la musica, chein questa stanza è presente dappertut-to, come nel suo ultimo libro, Di tantipalpiti, piccole note sulle donne dellalirica e sulla musica (Baldini CastoldiDalai-La Tartaruga, curato da PatriziaZappa Mulas). «Mi portavano già all’o-pera quando avevo sei anni: un amico dimio padre, Paolo Buzzi, che faceva par-te del gruppo dei Futuristi, aveva unpalco alla Scala, proprio sopra l’orche-stra. Giuravo che mi sarei svegliata lamattina dopo per andare a scuola, e imiei mi mandavano. Buzzi era affasci-nato da questa bambina melomane,che in casa canticchiava le opere. Mi ve-stivo con dei vestiti bambineschi, perqueste serate, ma che io consideravovestiti da gran sera. Tra cui uno di geor-gette fragola, con un nastro di vellutoche mi scendeva dalla spalla. Me lo ave-va portato mio padre da Parigi».

Andava a scuola a via della Spiga que-sta bambina affascinata dalle stoffe chefanno rumore. Poi a diciotto anni avevaletto tutto Proust: «In francese, regolar-mente», precisa, «era un ambiente unpo’ snob». «Poi venne la guerra, le leggirazziali, mio padre era ebreo, andò conmio fratello in Svizzera. Con mia madrerimanemmo a Milano, clandestine. Maio andavo in giro lo stesso: lo facevo conun senso di ribellione. Pensavo che ibenpensanti avrebbero vinto, a ripen-sarci ora ero terribilmente incauta. Ri-cordo che piangemmo la sera che la ra-dio clandestina annunciò che i nazi era-no entrati a Parigi».

Ora la ascolta la radio? «Poco, anchela tv quasi non la vedo: per fortuna la se-ra lavoro. Le attrici comiche oggi sonoimpegnate, stanno attaccate all’attua-

lità, parlano di politica. Ma i commentiall’attualità sono inevitabilmente qua-lunquisti». Il tg? «Se non posso evitarlo.La vita sociale del Paese sembra che nonfaccia più parte della realtà, e degli indi-vidui. La società oggi non esiste».

La bocciatura all’Accademia fu la suafortuna, non disse niente ai genitori,una zia la coprì per tre anni, studiò, in-contrò degli amici: «Allora i giovani ave-vano idee, e i grandi li guardavano conbenevolenza, erano attenti a quello chefacevano. Ora tutto questo è abolito».Non dice scomparso, dice abolito. I gio-vani che incontrò erano Vittorio Ca-prioli e Alberto Bonucci, con cui fondòil teatro dei Gobbi che era talmenteavanti che debuttarono in Francia. Fi-nito lo spettacolo delle undici, se ne an-dava alla Cave Saint German, dove can-tava anche Juliette Greco, sola, col tubi-no nero di Capucci, a fare i suoi mono-loghi in francese; e il critico di le Mondela recensiva. I grandi che erano attenti,allora e non ora, si chiamavano Totò, DeSica, Ennio Flaiano, Federico Fellini,René Clair.

Facciamo un salto nel presente. I gio-vani in tv, questo esercito di aspirantiartisti dello spettacolo, li vede? «Rifan-no ancora Saranno famosi, che è un filmdel 1980. Ma vi venga un’altra idea... Inquesto paese non si vede niente datrent’anni. La spudoratezza di questiragazzi? Che noia. Hanno una piccolabravura, ma il talento è una cosa moltomisteriosa. Il più brillante, quello che sinota di più, spesso è il peggiore. Il talen-to è timido».

E pieno di segreti, come il suo. «In-vento sulla realtà», dice. «Non scrivo maiuna frase che sento, non prendo appun-ti su una persona reale, le imitazioni so-no caduche. Sono silenziosa, parlo po-co, osservo molto». Come creava l’effet-to di far ridere raccontando le donne,dopo tanti anni ancora non si vede: lacomicità è una questione delicata. Sare-mo vaghi allora: fanno ancora tanto ri-dere, sono malinconiche, sono piene didifetti, parlano sempre degli uomini, ohqueste donne, li compatiscono, li giusti-ficano, ne restano deluse, li sognano, liaspettano; e gli uomini non si vedonomai. Questo si vede nei suoi sketch, chequalcuno ha definito feroci. «Ci tengonotanto le donne agli uomini, e vivono inuna società maschilista. La mia satiranon può né peggiorare né migliorarequesta cosa, è un fatto».

Si è mai offeso nessuno per i suoi per-sonaggi? «No mai, una volta Mina, mafu un equivoco. Che sciocchezza questadella ferocia: io ho grande fiducia nel-l’umorismo e nell’intelligenza delledonne». Di donne ne ha raccontantetante: le adolescenti esistenzialiste, lecesire, le signorine snob, le sciure, le te-lefoniste, le mogli dolenti, le innamora-te croniche, le venete solidali, le emilia-ne leggere, le romane raffazzonate, lemilanesi permalose, le modaiole, lemondane, e le portiere appunto. Aguardare su You Tube i filmati, centi-naia e centinaia — o a leggere i testi rac-colti, pochissimi (resta trovabile unToh, quante donne! Di Lindau), mentrepurtroppo i dischi della Fonit Cetra nonsono mai stati ristampati — ci si stupi-sce delle date. La signorina snob è del1949, e parla così: «Ho comprato un’i-sola vendendo alcuni fronzoli. Costavapochissimo, e in più c’era l’annuncio suun giornale inglese, come per una do-mestica a mezzo servizio. Divertentis-simo. Sperdutissima, non è riportataneanche sui mappamondi, di un sel-vaggiume orrendo, che se anche cipianti la lattuga non ci cresce. Siamotutti eccitatissimi».

Parigi o cara, il suo capolavoro, a ri-vederlo pare che l’abbia girato Almodo-var. Nei suoi Carnet de Notes, che anco-

ra porta in giro, compaiono in fondosempre e solo esseri umani: anche se ilcommendatore, l’augusta genitrice, lamamma petulante, la figlia mammona,la scostumata, la ragazza da marito, so-no tipi che sembrano socialmentescomparsi. Il “capoufficio” non lo dicepiù nessuno. Ma tra tutte le frasi, la piùlontana, quella che ora un personaggionon direbbe proprio più è: «Ma che vol-garità». «Non la dicono, ma molti lapensano. È talmente dilagante che sia-mo come impietriti, non si mette più inconto nemmeno di sottolinearla».

Ha cominciato a scrivere che c’era ilDuce, poi è venuta la lavatrice, poi il di-vorzio, il tinello è scomparso, è apparsoil loft e il lettino dello psicanalista. Unacerta morale di facciata, certi matrimonisaranno diversi? Diversi i rapporti nellecoppie giovani, diverse anche le donne?O anche l’emancipazione è presunta, eforse un po’ presuntuosa oggi? «Certedonne lavorano tanto per lavorare».Punto e a capo: «Non lo so se le giovanicoppie siano diverse da quelle che rac-contavo sessanta o trenta anni fa. Moltevivono con i sintomi di quella libertà mo-rale che reciprocamente si concedono.Ma l’uomo e la donna sono sempreuguali, che siano giovani o vecchi, chesiano legalmente sposati o no: è un fattodi genere. È sul genere che ho scritto. Orache ne faccio di donne nuove, constatoche le vecchie sono le più nuove».

Ci ha osservato a lungo a noi donne,ma il suo sguardo resta segreto, comeun trucco del mestiere. Signora Valeri, èbenevolo il suo sguardo o no? «Non miaccanisco. Ma bonaria, benevola, no.Precisa». Franca Valeri scrive, recita, faancora ridere... e parla, e poi saluta sul-la porta, sempre con affetto e con ele-ganza. E, a cercare di essere precisi, c’èdella compassione nel suo sguardo.

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CARLOTTA MISMETTI CAPUA

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Repubblica Nazionale