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GABRIELE ROMAGNOLI MAURIZIO RICCI la lettura La metamorfosi delle First lady d’Italia FILIPPO CECCARELLI e CARLOTTA MISMETTI CAPUA il fatto Aviaria, la fobia dell’animale untore MARCO LODOLI e PAOLO RUMIZ la memoria Le foto perdute del burocrate della Shoah ANDREA TARQUINI e GIAMPAOLO VISETTI l’incontro Mister Sudoku, genio del nuovo puzzle STEFANO BARTEZZAGHI cultura Il “Giornalino” che educava i fanciulli MICHELE SERRA G li avevano promesso una vita con le bollicine. Libera e bella e (soprattutto) flessibile. Qualco- sa di trendy, a occuparsi di marketing, fra tradi- zione e new economy. Fin qui ha scoperto che uno dei segreti per campare è l’eliminazione della centrifuga dal programma della lavatrice. Portare le camicie al lavasecco è escluso perché non rientra nel budget. L’asse da stiro non entra nel monolocale. Senza centrifuga escono zuppe, ma non sgualcite. Le infila nella gruccia, le appende nel piatto doccia del minuscolo bagno e voilà: portando la giacca abbottonata domani farà un’ottima figura in ufficio. Ha una laurea in scienza della comunicazio- ne, con una tesi sulla promozione delle mostre d’arte. È di- ventato un esponente dell’arte di arrangiarsi, il rappresen- tante involontario della “low cost generation”. Dal sogno al bisogno passando per lo stage retribuito con i buoni pasto: una camminata sul filo in cui la rete di salvataggio è la carta di credito del papà contadino che vive al Sud. Per rispettare la sua richiesta di privacy lo chiamerò Mario Precario, utilizzando il nome di un personaggio inventato dai graffitari, ospite fisso dei muri intorno alle università, deriva- to dell’ironia che fa da antidoto alla delusione. (segue nelle pagine successive) « A h, questi ragazzi, persi nell’iPod infilato nel- le orecchie». Sbagliato. Quelli che più facil- mente hanno l’iPod nelle orecchie non sono i giovani. Sono i quarantenni. Secondo una ricerca Eurisko fra i consumatori d’élite, ov- vero dotati di un buon reddito, il 49 per cen- to di quelli che hanno appena scavalcato il muro degli “anta” di- spone di un lettore musicale tipo iPod. La percentuale scende con il calare dell’età. E lo stesso, dicono analoghe ricerche, vale per molti altri gadget, elettronici o meno, che marcano le ondate suc- cessive della moderna corsa ai consumi. Oggi, in Italia, non sono i giovani a dettare le mode e a pilotare la domanda di massa. Ov- vero, nel linguaggio dei sociologi come Enrico Finzi, «il baricentro dell’innovazione di consumo si è spostato sulla fascia 35-50 anni», i figli degli anni Sessanta. E il cuore del mercato si allarga in su, in- vece che in giù, dicono gli uomini del marketing: senza l’inesau- sta voglia di vivere e spendere dei baby boomers ormai anziani, il mercato sarebbe strangolato. E i giovani? In questo scenario, le truppe dei precari senza contratto e dei diplomati senza stipendio hanno occupato in massa — e, in parte, creato — il territorio del low cost, inteso non solo come strumento, ad esempio per viag- giare, ma come filosofia di vita e strategia di sopravvivenza. (segue nelle pagine successive) spettacoli Nick Hornby: elogio della musica punk ERNESTO ASSANTE e ENRICO FRANCESCHINI DOMENICA 5 MARZO 2006 D omenica La di Repubblica È quella dei 18-35enni: giovani e precari Ecco i trucchi per farcela nonostante tutto Repubblica Nazionale 29 05/03/2006

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GABRIELE ROMAGNOLI MAURIZIO RICCI

la lettura

La metamorfosi delle First lady d’ItaliaFILIPPO CECCARELLI e CARLOTTA MISMETTI CAPUA

il fatto

Aviaria, la fobia dell’animale untoreMARCO LODOLI e PAOLO RUMIZ

la memoria

Le foto perdute del burocrate della ShoahANDREA TARQUINI e GIAMPAOLO VISETTI

l’incontro

Mister Sudoku, genio del nuovo puzzleSTEFANO BARTEZZAGHI

cultura

Il “Giornalino” che educava i fanciulliMICHELE SERRAG

li avevano promesso una vita con le bollicine.Libera e bella e (soprattutto) flessibile. Qualco-sa di trendy, a occuparsi di marketing, fra tradi-zione e new economy. Fin qui ha scoperto cheuno dei segreti per campare è l’eliminazionedella centrifuga dal programma della lavatrice.

Portare le camicie al lavasecco è escluso perché non rientranel budget. L’asse da stiro non entra nel monolocale. Senzacentrifuga escono zuppe, ma non sgualcite. Le infila nellagruccia, le appende nel piatto doccia del minuscolo bagno evoilà: portando la giacca abbottonata domani farà un’ottimafigura in ufficio. Ha una laurea in scienza della comunicazio-ne, con una tesi sulla promozione delle mostre d’arte. È di-ventato un esponente dell’arte di arrangiarsi, il rappresen-tante involontario della “low cost generation”. Dal sogno albisogno passando per lo stage retribuito con i buoni pasto:una camminata sul filo in cui la rete di salvataggio è la carta dicredito del papà contadino che vive al Sud.

Per rispettare la sua richiesta di privacy lo chiamerò MarioPrecario, utilizzando il nome di un personaggio inventato daigraffitari, ospite fisso dei muri intorno alle università, deriva-to dell’ironia che fa da antidoto alla delusione.

(segue nelle pagine successive)

«Ah, questi ragazzi, persi nell’iPod infilato nel-le orecchie». Sbagliato. Quelli che più facil-mente hanno l’iPod nelle orecchie non sonoi giovani. Sono i quarantenni. Secondo unaricerca Eurisko fra i consumatori d’élite, ov-vero dotati di un buon reddito, il 49 per cen-

to di quelli che hanno appena scavalcato il muro degli “anta” di-spone di un lettore musicale tipo iPod. La percentuale scende conil calare dell’età. E lo stesso, dicono analoghe ricerche, vale permolti altri gadget, elettronici o meno, che marcano le ondate suc-cessive della moderna corsa ai consumi. Oggi, in Italia, non sonoi giovani a dettare le mode e a pilotare la domanda di massa. Ov-vero, nel linguaggio dei sociologi come Enrico Finzi, «il baricentrodell’innovazione di consumo si è spostato sulla fascia 35-50 anni»,i figli degli anni Sessanta. E il cuore del mercato si allarga in su, in-vece che in giù, dicono gli uomini del marketing: senza l’inesau-sta voglia di vivere e spendere dei baby boomers ormai anziani, ilmercato sarebbe strangolato. E i giovani? In questo scenario, letruppe dei precari senza contratto e dei diplomati senza stipendiohanno occupato in massa — e, in parte, creato — il territorio dellow cost, inteso non solo come strumento, ad esempio per viag-giare, ma come filosofia di vita e strategia di sopravvivenza.

(segue nelle pagine successive)

spettacoli

Nick Hornby: elogio della musica punkERNESTO ASSANTE e ENRICO FRANCESCHINI

DOMENICA 5 MARZO 2006

DomenicaLa

di Repubblica

È quella dei 18-35enni:giovani e precari

Ecco i trucchi per farcelanonostante tutto

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30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 5 MARZO 2006

la copertinaGenerazione low cost

Vive e lavora a Roma, viene da un paesino del Sud,ha ventotto anni, si è laureato da tre, guadagna mille euroal mese grazie a un contratto semestrale fin qui prorogatotre volte. Ci ha fatto da guida nella nuova terra creatadal lavoro flessibile, ci ha raccontato come si fa a farcelae a coltivare malgrado tutto progetti e speranze

Il paniere parallelodi “Mario Precario”

(segue dalla copertina)

Ha ventotto anni, si è lau-reato da tre. Viene da unpiccolo paese della Ca-labria dove ha lasciato igenitori, due sorelle eun nonno saggio e dove

torna appena trova, oltre a qualchegiorno di ferie, una buona offerta diTrenitalia. È venuto a Roma per stu-diare, poi ha fatto il servizio civile,appena in tempo per assistere all’a-bolizione della leva obbligatoria. Aquel punto si è affacciato sul merca-to del lavoro e ha visto il vuoto sotto isuoi piedi. Ha chiuso il corso di studicon un onorevole 107 su 110, discus-so una tesi originale, ha una buonacultura generale, interessi non bana-li. È sveglio e (per quel che conta) per-fino gentile. Tutto quel che gli hannoofferto è stato uno stage mal retribui-to di mesi tre. Fuori sede. Ha accetta-to. Dalla Calabria, il padre ha soste-nuto. Poi si è fatta avanti un’altra so-cietà, proponendo altri tre mesi, main prova. Pagato con i buoni pasto.Secondo sì, previa seconda telefona-ta in Calabria. È seguita assunzione,ma a tempo. Contratto semestrale,rinnovabile. Fin qui prorogato trevolte, senza mai ridiscuterele condizioni. Reddito net-to: mille euro al mese. Comecampa Mario Precario? È unproblema aritmetico, maanche psicologico. Questio-ne di cifre e di rimozione deidesideri. Facciamo i conti.

L’affitto si porta via più dimetà delle risorse: 550 europer un monolocale. E puòconsiderarsi fortunato, l’hatrovato appena ristruttura-to e completamente arreda-to (cucina armadio, lettosingolo, scaffali, televisio-ne), grazie alla soffiata di unportiere peruviano. Mancasolo il telefono fisso, ma aquello avrebbe rinunciatocomunque per non soste-nere le spese di attivazione.Tanto c’è il cellulare. Nel bi-lancio di Mario Precariorappresenta la seconda vo-ce costante: cinquanta euroal mese. L’apparecchio è ilpiù semplice in circolazio-ne. La scheda è un vero pez-zo d’antiquariato: una Timrossa. L’ha ereditata dal pa-dre, in commercio non si trova più.Consente un piano tariffario desuetoperché troppo favorevole per il con-sumatore: costi bassi dopo le 20 e 30,infimi dopo le 22 e 30 quando la lineaRoma-Catanzaro si distende. La com-pagnia telefonica gli scrive una letteraal mese cercando di convincerlo amollare l’osso. Gli propone agevola-zioni per passare a una tariffa diversa,ma lui non ci casca, resta fedele allaTim rossa come a un privilegio.

Autobus invece di scooterFatte le telefonate, gli restano quat-trocento euro al mese. La sussistenzal’affronta essenzialmente con i buonipasto. Con ciascuno riesce a fare an-che due pranzi nella rosticceria sottol’ufficio. Questo spiega la persistenzadei problemi dermatologici giovanilinei trentenni. Usa i buoni pure per laspesa al supermercato. Frutta e ver-dura al mercatino rionale, dove costameno. Tra cinquanta e cento euro almese gli bastano. Ha imparato a cuci-nare. Si lava i piatti. Per i trasporti usai mezzi pubblici, sostiene che a Romagli autobus «ci sono sempre e vannodappertutto». Lo scooter è esclusonon tanto dal costo di acquisto, quan-to da quello della manutenzione, assi-curazione in testa. L’abbigliamento

non è un grosso problema. Ha impa-rato a non comprare mai sulla spintadella necessità. Acquista quando vedel’occasione. Se trova un paio di buonescarpe da tennis per 30 euro («oltre icinquanta sarebbe immorale») leprende e le mette da parte: il loro tem-po verrà. Legge tra sei e otto libri l’an-no. Il giornale, dal lunedì al venerdì,nella mazzetta dell’ufficio. Nel finesettimana non sente «il bisogno dicattive notizie». Lo stesso per Inter-net: si collega dal posto di lavoro. Tie-ne una finestra sempre aperta per le e-mail. Durante il giorno è così che co-munica con gli amici e organizza la se-rata. Dopo: via sms.

Quali sono le voci varie ed even-tuali del “paniere di Mario Precario”?Quali le scelte di consumo e di vitache lo identificano? Lui ha una paro-la sola: «Cultura». Va al cinema (ma dimercoledì, quando costa 4 euro inve-ce di 7). A teatro (una volta al mese).Ai concerti, ma «per fortuna» ha gustidi nicchia e al botteghino dei suoipreferiti il biglietto è meno caro. Per-fino alla voce “lussi”, la prima delletre eccezioni alla regola del vivere“low cost” ha a che fare con lo spetta-colo: ha acquistato il dvd con la ver-sione restaurata della Dolce Vita diFellini. Per 32 euro («Pentito?» «no»).La cosa notevole è che il lettore di dvd

l’ha pagato 31 euro, uno in meno. Glialtri due lussi sono collegati alla ne-cessità di «presentarsi in un certomodo al lavoro». Per il vestito in fre-sco di lana ha investito 178 euro,prezzo spuntato grazie ai “due botto-ni” che nessuno voleva più e che han-no spinto un negozio del centro ametterlo in super-saldo. Poi 131 europer le scarpe, quasi quanto l’abito,«ma sono Campanile». Il muro del so-gno sorge lì. Oltre quella barriera sipuò guardare, ma non toccare. Là do-ve Mario Precario non arriva esiste,ad esempio, la telecamera Jvc da 996euro. Non uno di meno. Sa a memo-ria marche e prezzi. Ha un catalogo intesta. La sua vita ha più di un prezzo.

Perfino qualche risparmioMa le voluttà trendy, gli oggetti fetic-cio? Voglio dire: l’I Pod? «No, grazie.Quando cammino, quando prendol’autobus, preferisco ascoltare i di-scorsi della gente, sono una colonnasonora fantastica». E i viaggi all’este-ro con le compagnie low cost? «Unavolta, prenotando con Internet dal-l’ufficio, pagando con i numeri dellaVisa di mio padre».

Ci siamo incontrati alle dieci emezza del mattino. Abbiamo cammi-nato per oltre due ore. Mario Precariomi ha fatto vedere il ristorante di pe-

sce dove mangia primo e se-condo («è sugli antipasti cheti fregano») pagando menoche per pizza & birra, il for-naio che gli tiene da parte ilpane, lo sportello bancomatdove ricarica il cellulare (50euro in una botta unica perridurre l’incidenza delletasse). Qui è venuto fuoriche sul conto riesce anche amettere dei risparmi: fino aduecento euro al mese. Ineffetti, con un caffè abbia-mo fatto sei chilometri. Ètempo di sedersi su unapanchina di villa Torlonia efare il punto. Di archiviare ilpassato e perfino il presen-te. Di chiedersi, come a unconvegno dal titolo pocofantasioso: «Mario Preca-rio: quale futuro?».

Allarga le braccia: «Non èche io non mi dia degliobiettivi. Per esempio, misono detto che il prossimorinnovo del contratto seme-strale sarà l’ultimo. Vedi,quel che mi angoscia non èla questione dei soldi, è

quella delle prospettive. Che carrierapotrei mai avere in questa società,con questa posizione? Temo nessu-na. Ma se torno sul mercato ho già ca-pito che quel che mi tocca ripassare èun altro stage con i buoni pasto e latelefonata a papà. A volte ci mettia-mo intorno a un tavolo, io e quelli chehanno studiato con me. E fantasti-chiamo di metterci in proprio, fonda-re una società di servizi. Poi ci ren-diamo conto che sarebbe un’altradelle illusioni che ci hanno rifilato erinunciamo. Intanto arrivano itrent’anni».

E nessuno mette su famiglia.«No. Che poi non lo so se è perché

uno non se lo può permettere o se conquesto si trova l’alibi. Mio nonno mi-ca ci è stato tanto a pensare. Non ave-va soldi eppure ce l’ha fatta. E mio pa-dre pure. E ha fatto studiare me. E ci èrimasto male quando le mie sorellenon hanno voluto studiare anche lo-ro. Poi non è che quelli della mia ge-nerazione non ne avrebbero voglia.Quelli sono i quarantenni, tutti scop-piati, tutti appresso alle feste comeavessero sempre sedici anni. Noi, se-condo me, avremmo anche desideriodi stabilità, paternità perfino».

Sai quanto costano i pannolini?«Ho visto che c’è un’offerta».

GABRIELE ROMAGNOLI

L’affitto porta via550 euro, altri 50

il telefonino. Pranzoe spesa con i buonipasto. Al cinemasolo il mercoledì,

e poi l’astuziadelle camicie

non centrifugateGli unici lussi

sono per la cultura

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31DOMENICA 5 MARZO 2006

Così il Basso costoè diventatouna filosofia di vita

(segue dalla copertina)

Una pizza e una birra hanno sfondato il muro dei dieci euro al ristorante? Siporta la pizza a casa per dividerla con gli amici. Il cinema a sette euro? Af-fittiamo il dvd e vediamolo in gruppo. Un festival dell’arte di arrangiarsi,

ma anche, a ben vedere, l’applicazione di una strategia di taglio dei costi e uti-lizzo di sinergie ed economie di scala da far invidia agli spietati manager all’a-mericana. In nome di un drammatico imperativo di bilancio: fare il più possibi-le, comprando il meno possibile.

È lo specchio di una società, progressivamente, sempre più vecchia, ma, ugual-mente, dal punto di vista delle teorie del marketing, è il mondo alla rovescia. Al-l’estero, la fascia di età più appetita dai pubblicitari è quella fra i 18 e i 34 anni, in-dividuata da decenni come la leva più potente per muovere gli ingranaggi dellamacchina dei consumi. Sono quelli che partono da zero, che entrano nella vita,che hanno più bisogni e più desideri, più ansia di novità, più voglia di ridefinire re-gole e costumi. In Italia, invece, è una palla sgonfia, che rimbalza appena. «I con-sumi dei giovani — dice Finzi — sono meno dinamici oggi di venti e anche di die-ci anni fa». È la controfaccia di un universo giovanile, in gran parte chiuso nel re-cinto di un precariato che sfugge continuamente di mano e che, contemporanea-mente, sembra non finire mai, negando a ragazzi e ragazze l’ambizione di volarevia dal nido dei genitori e di crescere davvero. Un “complesso di Peter Pan” a livellidi massa, secondo una definizione ormai famosa. Ma non è solo questione di psi-cologia. In termini molto concreti, quella palla sgonfia è un buco nella fisiologicadomanda potenziale del Paese, che rende ancora più faticosa la marcia, già len-tissima, dell’economia nazionale.

«Sono pochi, si sposano tardi, fanno pochi figli, consumano poco» lamenta Um-berto Filotto, segretario generale dell’Assofin, l’associazione che raccoglie le azien-de che fanno credito al consumo. Tutto vero. Si dice spesso che i giovani diminui-scono, ma si pensa sempre al rapporto percentuale con i più anziani. Le cifre asso-lute fanno più impressione. L’Istat ha calcolato che, nel 1991 c’erano quasi 12 mi-lioni di teenager (11-24 anni). Nel 2004, meno di 8 milioni e mezzo: ben oltre un quar-to in meno nel giro di 13 anni. In altre parole, per quanto riguarda quella fatidica fa-scia 18-34 anni, andrà sempre peggio. Ma, soprattutto, è il potere d’acquisto chemanca: i più fortunati fra i giovani, cioè i laureati, racconta una recentissima inda-gine condotta dalle stesse università, guadagnano in media mille euro al mese e, insei casi su dieci, hanno un lavoro “atipico”, ovvero, al meglio, se non a singhiozzo,comunque a termine.

Proviamo a fare un po’ di conti. Secondo l’ultima indagine della Banca d’Italia sullefamiglie, un single sotto i 30 anni, che abbia messo su casa per conto suo, spende in me-dia 1.700 euro al mese, di cui mille in “spese di gestione” (casa, cibo, sanità). Un bilan-

cio irraggiungibile anche per il neolaureato medio. Il quale, infatti, si guarda bene dal-l’uscire di casa e mettere su famiglia in proprio: il 40 per cento dei giovani sopra i 30

anni (dati Istat) vive ancora con i genitori, anche se i tre quarti di loro un lavoro cel’ha. E vive ancora in famiglia il 17 per cento degli ultra trentacinquenni.

Questo gli lascia in tasca almeno una buona fetta di quei mille euro da spen-dere. E, infatti, non è che i giovani non spendano e non consumino. Anzi,spendono sicuramente, in generale, più del reddito che producono. Grazieal fatto che i giovani sono diventati, tecnicamente, una «risorsa scarsa» (sem-pre per parlare come Finzi), sono il terminale, spesso unico, della prodiga-lità di una rete di genitori, nonni (tutti e quattro, di solito, per fortuna vivi evegeti), zii e cugini anziani. Ma vivere con una sorta di paghetta, sia purerinforzata, vuol dire restar lontani, a parte l’auto, dal tavolo dei grandi con-

sumi a cui siedono i coetanei degli altri paesi: lavatrice, frigo, tv, il divano, l’ar-madio, culla e pannolini. I giovani italiani siedono invece ad un tavolino più

piccolo, a parte, seduti sugli sgabelli. Unicredit, una delle più grandi banche ita-liane, ha mezzo milione di correntisti sotto i 30 anni. Ma sono solo il 15 per cento

dei suoi clienti. Meno del 30 per cento dei titolari di Carta Si, la carta di credito piùdiffusa, è sotto i 36 anni. Meno del 10 per cento dei clienti Findomestic — la più gros-sa finanziaria di acquisti a rate — è sotto i 30.

Negli ultimi anni, la situazione è peggiorata, il tavolino si è ristretto, gli sgabellitraballano. L’indagine Almalaurea dice che, ad un anno dalla fine dell’università,la quota dei laureati con un contratto di lavoro a tempo indeterminato è scesa, frail 2001 e oggi, dal 46 al 39 per cento. Più precari, mentre la crisi economica gene-rale intaccava anche le varie forme di paghetta. Il risultato è che i giovani hannostretto la cinghia. Meno cinema, meno pizze, meno dischi ci dice Eurispes. Per iviaggi, secondo Finzi, i giovani spendono oggi il 16 per cento in meno di dieci an-ni fa. Vuol dire che i giovani fanno meno vacanze, mangiano meno in compagnia,vedono meno film, ascoltano meno musica? Niente affatto. Nella stretta della cri-si congiunturale e del precariato permanente, il mondo giovanile ha elaboratostrategie quotidiane che l’Eurispes definisce «prove tecniche di sopravvivenza» eche il ventaglio delle indagini demoscopiche consente di delineare.

Primo, i consumi. I giovani, dice Finzi, «si concentrano su pochi prodotti ad al-ta visibilità: l’iPod, il cellulare, il jeans alla moda». Secondo, i viaggi. Solo l’8 percento dei giovani, secondo Demoskopea, rinuncia a viaggiare. Il 30 per cento vacomunque all’estero, volando low cost. Il grosso, oltre la metà, va al mare, su unaspiaggia e si ferma lì. In un caso e nell’altro, la metà si organizza da solo, saltandole agenzie di viaggio. E, spesso, anche l’albergo. La vera ancora di salvezza, la de-stinazione più popolare, è la casa di un amico. Terzo, la pizza. Grosso modo il 70per cento dei giovani dichiara ad Eurispes di avere tagliato le uscite fuori casa. Mai tre quarti dei giovani ha aggirato l’ostacolo, sostituendo la pizzeria con la cena ingruppo a casa di un amico. Quarto, il cinema. Tre su quattro risparmiano il bi-glietto del cinema, spartendo con gli amici il costo di noleggio di un dvd. Quinto,la musica. Niente cd, scarichiamola da Internet. E Internet, ancora largamentegratuito, è la grande ciambella di salvataggio, dai videogiochi sulla Rete in giù, chepiù aiuta a galleggiare sulla crisi.

Si può guardare con soddisfazione a questa nuova capacità dei giovani di di-stinguere fra fare e comprare. E ci si può, invece, chiedere, quanto può durare que-sta apnea e quanto pesa. Con, in più, il dubbio che, sospesa in questa sorta di bol-la che prolunga riti e costumi dell’adolescenza, ci sia la parte migliore dei giovani,nel senso, almeno, della più moderna, la più sofisticata, la più preparata. È un dub-bio che viene scorrendo le tabelle dell’indagine sulle famiglie della Banca d’Italia.Internet sarà anche il terreno privilegiato dei giovani e la loro valvola di sfogo. Ma,secondo quelle tabelle, fra i capifamiglia con meno di 30 anni — cioè quelli che cel’hanno fatta, sono andati via di casa — il 50 per cento usa il computer, il 46 per cen-to ne possiede uno, il 39 per cento naviga su Internet. Sono percentuali inferiori aquelle degli ultratrentenni. E pesantemente inferiori, in tutti e tre i casi, a quelledei quarantenni. L’ala marciante del Paese ha il grigio sulle tempie.

MAURIZIO RICCI

I FILM

ANGELI

“La vita sognata

degli angeli”

di Erick Zonca

(Francia 1998)

racconta

le peregrinazioni

di due ragazze

in cerca di lavoro

PRECARI

“Santa Maradona”

di Marco Ponti

(Italia 2001) descrive

traversie

e sentimenti

di un gruppo

di amici che vivono

di mille lavoretti

DAI GENITORI

“Tanguy”

(di Etienne Chatiliez,

Francia 2001)

è un ventottenne

che i genitori

non riescono

a far andare

via da casa

IL SOGNO

“La febbre”

(di Alessandro

D’Alatri, Italia 2005)

è l’entusiasmo

di un giovane

che cerca

di diventare piccolo

imprenditore

CORALE

“Il Vangelo

secondo Precario”

(di Stefano Obino,

Italia 2005), narra

quattro “storie

di ordinaria

flessibilità”

di altrettanti giovani

NIENTE CINEMA SI RESTA A CASAMammoni o meglio senza possibilità di pagare l’affitto:

oltre il 60% dei giovani trentenni (nell’infografica) vivono

a casa dei genitori. Limitano in circa il tre quarti dei casi

le uscite e invece di andare al cinema affittano un dvd

Nell’altra pagina a sinistra: un murales ironico

sul precario-tipo comparso a Bologna

32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 5 MARZO 2006

La gente li rincorreva dal Campidoglioal Tevere, armata di bastoni, e la cittàsi riempiva di ululati agghiaccianti fi-no alle vie consolari. La caccia dura-va un giorno solo, tutto dedicato allosterminio. Alla fine, i cani ammazza-

ti erano trascinati per le strade e ammonticchia-ti. Teste fracassate, sangue, pezzi di ossa, mate-ria cerebrale, escrementi e lamenti. Nessuno do-veva restare vivo. La città intera partecipava aquella barbara battuta, e chi collezionava piùcarcasse era incoronato vincitore. Poi, sui colliscendeva una notte tombale, senza nemmenoun guaito alla Luna.

«Canicola» vuol caldo di mezza estate. Mavuol dire anche ecatombe di cani. È quello il sen-so trasparente. Succedeva nell’antica Roma

ogni 15 agosto. Lo chiamavano«Dies Caniculae», e si svolgeva conla costellazione del Cane allo ze-nith; quella di Sirio, l’astro più lu-minoso del nostro cielo, che già pergli egizi «favoriva la rabbia», malat-tia trasmissibile all’uomo e consi-derata invincibile nell’antichità.Oggi quella strage la chiamerebbe-ro «stamping out», azzeramento dianimali infetti o a rischio. La svolge-rebbero uomini in tute bianche, nelchiuso di allevamenti, con gas oiniezioni al veleno. Abbiamo impa-rato a conoscerli, in questo tempodi pestilenze animali.

Ora lo sappiamo. La paura dell’a-nimale «untore» è vecchia come l’a-gricoltura, avrà ventimila anni al-meno, nasce quando la caccia tra-monta e la popolazione mondialecresce, assieme alla promiscuitàcon le bestie e i loro escrementi. Ne

scrivono Omero, Ippocrate, Aristotele, Ovidio,Virgilio e tanti altri, in un misto di mitologia e co-noscenza empirica. Quattro secoli prima di Cri-sto, Tito Livio ricorda che, sotto i consoli AuloCornelio Coso e Tito Perro, un’epidemia di rognapassò dagli animali ai lavoranti, poi agli schiavi einfine ai liberi, abitanti delle città. Ottocento an-ni dopo, Renato Vegezio cita la «morva», che ar-riva dai cavalli e sfigura la faccia degli umani.Niente di nuovo sotto il sole.

Ma l’archetipo della “zonosi” — così viene chia-mata oggi la malattia umana presa dagli animali— resta la rabbia. Incurabile, ovvia nella diagnosi,quasi soprannaturale e implacabile nei sintomi,

trasformava gli uomini in cani con una violenzatale da essere creduta vendetta divina. Secondo ilprofessor Adriano Mantovani, massimo storicodelle malattie animali trasmissibili, quella perfidamalattia si mette di mezzo tra l’uomo e il cane, suonaturale alleato, fin dall’inizio della storia scritta.«Nel codice di Eshunna, in Mesopotamia diciottosecoli prima di Cristo — osserva — si descrivono isintomi della malattia, con la parola “Segù”, chesignifica “essere matto” e contemporaneamente“diventar rabbioso”». Nell’Iliade, rammenta Eli-sabetta Lasagna, altra esperta del settore, Teucronon esita a rivolgersi ad Achille come a un «canerabido». Nella mitologia greca persino la dea Arte-mide non resta immune, e viene curata dal cac-ciatore Aristeo.

Tutto veniva dalla notte dei tempi. Il massacrodei cani, Roma l’aveva imparato dai greci, chenelle isole dell’Egeo sterminavano annualmente

i branchi vaganti — succede ancoraoggi, con bocconi avvelenati — inun sacro macello denominato «Ky-nophantes». Ma già prima la rabbiaera conosciuta in Mesopotamia,culla della civiltà urbana. Nell’epo-pea di Gilgamesh — il nostro Noè —si narra che prima delle grandi piog-ge estive l’eroe portò nell’Arca tuttigli animali tranne uno: il cane, po-tenzialmente rabido.

Una paura ancestrale. Persino Pa-steur, inventore del vaccino anti-rabbico, avrebbe fondato la sua sco-perta — prima ancora che sulla ri-cerca — sull’angoscia per quellamalattia terribile, che gli avevariempito d’incubi l’infanzia: «Sonosempre stato perseguitato dal ricor-do delle strazianti grida di quegli in-felici che furono morsicati ad Arboisdal lupo rabbioso, quando ero anco-ra ragazzo». Ricordava Pasteur che

dalle sue parti l’impotenza verso il morbo era ta-le, che era invalsa l’usanza di avvelenare, stran-golare o uccidere a fucilate i poveracci solo so-spettati di avere contratto contagio.

«Oggi — spiega Mantovani — ci sembra tuttonuovo, ma molto era noto o per lo meno suppo-sto già tanto tempo fa. Persino la guerra batterio-logica era familiare ai Romani, fu Seneca a scri-verne». Molto è leggibile nei millenni a livello ditabù, poi codificati come religione. Il maiale èconsiderato impuro da ebrei e musulmani per-ché nei paesi caldi infetta l’uomo con un micror-ganismo — la Trichinella Spiralis — che uccidecon dolori spaventosi. Anche la macellazione ko-

Animali untoriventimila annidi grandi stragi

PAOLO RUMIZ

La paura della bestia infetta e capace di trasmettercila sua malattia è vecchia come l’agricolturae come la promiscuità tra la casa dell’uomo e le sue stalleOra ritorna sull’onda del pericolo-aviaria e riportaa galla miti, leggende, fobie e terribili relitti di storia vera

Il gatto, che per gli Egiziera un dio perché liberavadai topi i granai del Nilo,nel medioevo divenneuna creatura di Satana:sacchi pieni di gatti vivivenivano buttati nel fuocoal solstizio d’estate

Succedeva nell’antica Romaogni 15 agosto: la gentebraccava i cani nelle stradee li abbatteva a bastonateAlla fine, chi collezionavapiù carcasse era incoronatovincitore. Una sanguinosaprofilassi anti-rabbia

il fattoAllarme pandemia

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INQUIETUDINELe immagini in alto di queste pagine

sono dell’artista polacco Wieslaw Rosocha,

celebre per i suoi poster e le illustrazioni

dal tratto allusivo e a volte inquietante

Qui sopra, quattro stampe dell’antico bestiario

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 5 MARZO 2006

La poltronae la foresta

MARCO LODOLI

Tanti anni fa frequentavo una ra-gazza di Gorizia ed ero diventa-to amico anche della sua fami-

glia, gente aperta, simpatica, tran-quilla. Il padre faceva il dentista, lamadre seguiva i figli. La sera si sede-vano sul divano davanti la televisio-ne, un po’ guardavano, un po’ chiac-chieravano, come tutti gli italiani. Ep-pure ancora oggi ricordo quel qua-dretto familiare con un brivido di sgo-mento, perché ognuno di loro tenevasul grembo un pollo o una gallina.Erano gli animali di casa, i loro pap-pagallini. Li carezzavano e li chiama-vano con nomignoli affettuosi, Cicci oBriciola. Chissà se ancora oggi, neltempo funesto dell’aviaria, amano iloro polli come allora, o se gli hannotirato il collo, terrorizzati dalle noti-zie, da un coccodé stonato, da un fre-mito di febbre.

Certo, è un caso limite, ma credoche tanta gente ora stia osservandocon preoccupazione i movimenti deipropri cagnetti e gattini: quelle dolcipallette di pelo, sacre divinità dome-stiche, peluche viventi che paiono fi-gli di un cuscino e di una borsa d’ac-qua calda, d’improvviso sono diven-tati i possibili contenitori della malat-tia e della morte. Li abbiamo tenuti inbraccio, sulla poltrona, nel letto, ab-biamo strofinato il nostro naso controil loro muso, li abbiamo nutriti con lacarne migliore, con i biscottini e i dol-cetti, come fossero bambini da coc-colare, e ora scopriamo che la NaturaMaligna li ha raggiunti, richiamando-li all’ordine funesto della distruzione.

È il contrario del richiamo della fo-resta: quegli animaletti adorabili maiavrebbero lasciato la scodella e i boc-concini, le carezze e i termosifoni, mala foresta si è avvicinata nottetempo aloro, forse li sta sfiorando con il suoalito crudele. Loro non ringhiano piùda decenni, non tirano zampate, si so-no serenamente occidentalizzati, so-no il morbido specchio del nostro de-siderio di affetto e di quiete: ma la Na-tura che sbriciola con una scossa igrattacieli, che con un’onda sommer-ge i villaggi turistici, con un soffio puòtrasformare un pupazzetto adorabilein una bestia infetta.

Speriamo che i segnali pestiferi chearrivano dalla carcassa di un gatto ag-gredito dal morbo siano solo falsi al-larmi, telegrammi sbagliati, ma in-tanto una certa ansia rischia di diffon-dersi: già molti gattini infiocchettati egrassocci sono stati abbandonati perle strade italiane. Noi che pensavamola natura come una scatola di ciocco-latini al latte, ora scopriamo che là inmezzo ce ne potrebbe essere qualcu-no avvelenato. Ovviamente non è ilcaso di farsi prendere dal panico, macerto qualcosa sta cambiando nel no-stro rapporto con gli animali di casa.Ora sappiamo che non sono giocatto-li che a comando danno la zampa efanno le capriole, che non sono solodame di compagnia pronte a obbedi-re a ogni nostro capriccio: anche il piùtenero dei Fuffi partecipa al misterodella Natura. La sua zampa può esse-re feroce, il suo morso fatale. Non haperso qualcosa, anzi ha riguadagnatouna dignità. Il suo posto non è tra ilplaid e il vecchio maglione, non deveobbedire come un servo umiliato aogni fischio. Gli spetta un ruolo nelcopione tremendo della vita, e ci ri-corda che, come tutti noi, subisce l’af-fronto della morte, che è sempre sel-vaggia e maleducata.

sher, assieme a quella hallal dell’islam, ha ragio-ni sanitarie precise: nelle alte temperature unanimale non perfettamente dissanguato putrefàpiù in fretta.

Che gli uccelli, celesti creature araldiche, por-tassero contagi non sembrava possibile. L’ideadi migrazione era semisconosciuta. Le rondini —era ancora l’anno Mille — si credeva svernasseronel fango delle lagune. Solo Federico Secondo diSvevia, nel suo trattato sulla falconeria — De Ar-te Venandi cum Avibus — spiegò le rotte migra-torie con criteri validi ancora oggi. Ma per secolinulla si aggiunse alla visione “greca” degli ani-mali celesti. I corvi erano messaggeri. Le lugubricivette, abitatrici di camini, annunciavano sven-ture. Le nottole dell’Odissea portavano con sél’ombra dei Proci uccisi da Ulisse.

Nel Medioevo molto cambiò. La colomba, notoveicolo di germi, fu promossa a cristianissimo

simbolo di puro spirito. Trionfaronogrifoni e sparvieri, o i pavoni simbolidel firmamento. Altri se la viderobrutta. Il gatto — che era un dio pergli egizi perché liberava dai topi i gra-nai del Nilo — divenne creatura pos-seduta da Satana. Sacchi pieni di gat-ti vivi venivano buttati nel fuoco perfesteggiare il solstizio d’estate, prati-ca che continuò in Francia fino al se-colo dei Lumi. Quanto alla già pessi-ma fama del lupo, scannatore di pe-core e portatore di rabbia, crebbequando l’agnello divenne simbolodel sacrificio di Cristo. Fu solo SanFrancesco a redimerne — parzial-mente — il nome.

E venne il tempo dei cieli color san-gue e delle infernali carrette piene dicadaveri. Peste, vaiolo, tubercolosi,malaria, colera e influenza, che si tra-smettevano direttamente da uomo auomo. Pandemie, tutte di origine

animale. Ebbene, proprio allora l’uomo non capì.L’idea di associare animale e pestilenza sarebbevenuta solo col microscopio e la scoperta dei mi-crorganismi. Così si brancolò nel buio, si colpì acaso. Nella peste del 1572 Giovan Filippo Ingras-sia, protomedico di Palermo, ordinò di uccidere icani della città. Questo quando erano i poveri qua-drupedi a bonificare la città divorando i corpi in-sepolti, senza contrarre e diffondere minima-mente contagio.

In Europa la peste gabbava i controlli cavalcan-do le pulci dei ratti, annidate nelle pellicce impor-tate dall’Asia, e immigrando così sulla via della se-ta come su una gigantesca, brulicante autostrada

di microbi. La pandemia era semplicemente la fi-glia del primo commercio globale. E invece simandò al rogo gente innocente con l’accusa didiffondere morte con infernali unguenti. Si incol-parono i miasmi, l’aria mefitica. «Durante un’epi-demia a Roma — ricorda Andrea W. D’Agostino,autore del libro Pestilenze — si arrivò al punto disparare cannonate a salve per cambiare l’aria,considerata mefitica e stagnante». Si cercò persi-no nella carta, considerata «suscettibile», cioè ca-pace di portare maligno contagio. Fino all’Otto-cento continuò la pratica inutile di disinfettare laposta col fumo o l’aceto, e di stampigliarla con ap-positi bolli di disinfezione.

Ai topi, i veri grandi «untori», non pensava nes-suno. Erano messi sullo stesso piano dei buoi e deicavalli. L’idea di derattizzare era inesistente, almassimo si teneva un gatto a bordo delle navi perproteggere il carico. Con le pulci stesso discorso:

veniva data loro la caccia per il fasti-dio che procuravano, non perché so-spettate di nefasti contagi. Grattarsiera sconveniente, tutto qua. Solo perquesto, fino a un secolo fa, valse l’u-so di sistemare un gatto sulla poltro-na destinata agli ospiti perché col suopelo rastrellasse le pulci presenti.

Nel Settecento scattarono i primiprovvedimenti sensati. Le vaccheimportate da oltremare, per esem-pio, venivano buttate in acqua dallanave a un centinaio di metri dalla ri-va affinché, nuotando, si disinfet-tassero. Dentro i lazzaretti le grana-glie erano pettinate con rastrelliper ripulirle da piume e pelo ani-male. Nelle transumanze le bestiesi lavavano con acqua e aceto. Neimercati si richiedevano certificatidi buona salute per i buoi. Ma du-rante le epidemie si prescriveva an-

che di affiggere nelle stalle «l’immagine diSant’Ignazio» e di «far benedire l’acqua, dovesia stata immersa una di Lui reliquia». Un mix diesorcismo e profilassi.

«Oggi è cambiato poco da allora» ghigna CarloRossi, veterinario del Nordest, baricentro alimen-tare del pianeta Italia. «La fuga dalla razionalità èla stessa di mille anni fa. Anche oggi, in tempi dipeste aviaria e di mucca pazza, si cercano scorcia-toie, capri espiatori, maledizioni bibliche. La gen-te è disorientata, vede che il contagio arriva persi-no attraverso i cigni, il top della bellezza innocen-te. E allora si diventa prede di voci, dove nulla èsmentibile perché nulla è dimostrabile. Vittime diun’ansia che nessuno riesce a controllare».

Venne il tempo dei cielicolor sangue, la pestegabbava i controllicavalcando le pulci dei rattima nessuno capìL’idea di associare animalie pestilenza sarebbe natasoltanto col microscopio

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la memoriaVita nel lager

Karl-Otto Koch, nazista della prima ora, comandante Ssdel campo di concentramento, aveva raccolto in un album500 fotografie che illustravano le attività di tutti i giornidegli aguzzini e delle loro vittime.Alla fine della guerraquel documento sconvolgente finì negli archivi della poliziasegreta sovietica. Oggi la Russia lo restituisce alla Germania

Sachsenhausenil Male quotidiano

BERLINO

L’album del comandan-te di Sachsenhausen,Karl-Otto Koch, èemerso a Mosca quasi

dal nulla, come un antico ricordo fami-liare ritrovato che risveglia la memoria.Cinquecento fotografie in bianco e ne-ro. Con le Leica e le Zeiss Contax, i sol-dati Ss di Koch le scattarono ubbidien-ti e precisi, come si conviene a zelantiesecutori. Accadde tra il 1936 e il 1937:herrKoch volle documentare la costru-zione del “suo” lager. Cinquecento fo-to, le istantanee della banalità dell’or-rore. Dopo la disfatta del Reich, nel1945, l’album finì non si sa come negliarchivi segreti della Nkvd. Ora lo Fsb,l’intelligence della Russia di Putin, losta restituendo alla Gedenkstätte Sach-senhausen, il museo del lager alle por-te di Berlino. In agosto le foto sarannoesposte in una mostra e resteranno rac-colte in un libro-catalogo, perché ilmondo non dimentichi.

«Lo Ss-Standartenführer Karl-OttoKoch era un nazista della prima ora», cispiega il professor Günter Morsch, di-rettore del museo di Sachsenhausen.«Era ansioso, insieme ai suoi camerati,di documentare il momento storico eglorioso dell’èra nazista, il “Nuovo Ordi-ne”, come loro lo stavanovivendo e costruendo.Fieri, orgogliosi ariani,uomini dominatori:guardateli nelle istanta-nee. Ecco la novità terri-bile dell’album: ci mo-stra il loro volto, scavanei loro animi».

Guardiamole, unadopo l’altra, le foto chepubblichiamo. Ecco laprima: un gruppo didetenuti costruisce lebaracche di Sach-senhausen. Ecco unadelegazione di gior-nalisti svedesi ricevu-ti da Koch e dai suoiufficiali: diligenti eaddomesticati, gliscandinavi prendo-no appunti sull’u-manitaria detenzio-ne di sovversivi edelementi antisocia-li. Ecco gli internati,la schiena curva,che trasportano al-beri per le barac-che. Ecco ancoraKoch con il suostaff: Stubaf, Baer,W i c h m a n n ,Roemhild, Maier.Ecco infine l’arrivodei nuovi internati, ilprimo passo decisivo della loro umilia-zione, del loro annichilimento. I nemicidel Reich consegnano i loro abiti civili ericevono l’uniforme da deportato chenon smetteranno più. Lasciate ogni spe-ranza, o voi ch’entrate.

La scoperta dell’album ha un valoredocumentario eccezionale, dice Mor-sch. Gli archivi tedeschi, israeliani e ditutto il mondo sono pieni di foto ag-

ANDREA TARQUINI

Esiste in Russia documentazione fotografica sui lager nazisti, osulle fucilazioni di massa degli ebrei?

«Nemmeno una foto. Il comunismo, a differenza del nazismo,non è crollato alla fine della Seconda guerra mondiale. Sul territoriosovietico non furono mai costruiti lager. I nazisti non avevano biso-gno di nascondere nulla. Le fucilazioni avvenivano sotto gli occhi ditutti. L’Urss ha poi distrutto tutti i documenti compromettenti».

Perché invece si sono salvate le immagini dei gulag?«I gulag non erano finalizzati allo sterminio di un popolo. Erano

campi di prigionia, le persone erano ridotte in schiavitù. Ma eranoessenzialmente luoghi di lavoro. Non è morta il novanta per centodella loro popolazione, come nei lager».

Hitler e Stalin hanno ridotto l’abominio a normalità, a ordinariaoccupazione quotidiana degli aguzzini: come ha potuto verificar-si una tale concomitanza?

«È stato un fenomeno strano, unico nella storia. Non c’è una spie-gazione razionale. La violenza razziale era vissuta come un diritto.Hitler negli anni Trenta studiò i metodi repressivi di Stalin. Li am-mirava e li adottò, rendendoli poi più sofisticati. Stalin, alla fine de-gli anni Trenta, inviò funzionari in Germania a studiare l’organizza-zione dei lager. Sapevano entrambi di essere gli architetti di un’in-

“E Stalin tacqueper nasconderei propri crimini”

I RICORDICinque istantanee della raccolta di Karl-Otto

Koch: un gruppo di detenuti costruisce

le baracche; giornalisti svedesi in visita;

gli internati trasportano legname; Koch

con i suoi luogotenenti; l’arrivo di un internato

MOSCA«Fino all’avvento di Gorbaciov, l’Olocausto fu ignorato inUnione Sovietica. Gli ebrei ammazzati dai nazisti durante l’occupa-zione tedesca venivano citati come russi caduti durante la Guerra diliberazione. Solo ora comincia a prendere corpo un vero e proprioarchivio della Shoah». Alla Gerber è una signora minuta e gentile. Fi-glia di una famiglia ebrea sterminata a Kiev, storica e scrittrice, dis-sidente perseguitata ai tempi dell’Urss, deputata democratica aitempi della perestrojka, leader della difesa dei diritti umani in Rus-sia, ha dedicato la vita a far emergere la verità sul massacro degliebrei russi in Germania e nei Paesi dell’Est. Oggi presiede la Fonda-zione Holocaust di Mosca, l’unica istituzione dell’ex Urss che rac-coglie testimonianze e reperti della Shoah. «Per mezzo secolo», di-ce, «è stato quasi impossibile trovare documenti delle persecuzionisul territorio sovietico. Stalin prima tradì gli ebrei per dimostrareamicizia a Hitler, poi per nascondere i propri pogrom. I comunisti,successivamente, hanno cancellato l’Olocausto per coprire le pro-prie stragi e per non ammettere la diffusa complicità popolare nel-la Shoah. Il Male in Russia fu la normalità, ma poi tutti se ne sono ver-gognati».

GIAMPAOLO VISETTI

L’alto ufficiale nonera soltanto un uomocrudele, responsabiledi violenze bestialiEra anche corrottoe per anni rubòapprofittandodel proprio potereDenunciato dal suosuperiore direttovenne arrestatonel 1942 e impiccatonell’aprile di tre annidopo, un caso forseunico tra i suoi pari

34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 5 MARZO 2006

ghiaccianti sull’Olocausto. Ma rarissi-me sono invece le immagini che ci nar-rano come l’universo concentraziona-rio hitleriano fu costruito. L’orrore vis-suto come quotidiano da chi lo gestivaentusiasta e convinto. «Koch apparte-neva alla prima generazione di militan-ti nazionalsocialisti. Aveva vissuto la di-sfatta nella Prima guerra mondiale, poila guerra civile sotto la Repubblica diWeimar. Era quella la sua memoria: piùche animato dal fanatismo fideista deinazisti più giovani, era carico di un odioda guerra civile contro i nemici del Rei-ch». La prima generazione di nazisti: co-struendo Sachsenhausen, i “veterani”del primo dopoguerra ebbero la loro pri-ma ambita riscossa.

Prima fase del terroreL’odio dei fieri ariani verso i prigionieri ciè tramandato dall’altro lascito di Sach-senhausen: guardate i disegni dei dete-nuti. Nazisti in alta uniforme sevizianoprigionieri inermi, internati ridotti pellee ossa giacciono ormai moribondi. Kochfu tra i più devoti seguaci di TheodorEicke, il primo comandante generaledell’amministrazione dei Lager. «A Ko-ch», mi spiega il professor Morsch,«Eicke affidò non a caso il progetto Sach-senhausen. Fu la fine della prima fase delterrore nazista e l’inizio della fase due».

I primi lager, come Oranienburg, era-no piccoli e provvisori: al massimo ospi-tavano “appena” tremila prigionieri.Comunisti, socialdemocratici, centri-

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sti, religiosi critici. Gente che magari do-po sei mesi o un anno, se non era mortadi stenti, veniva rimandata a casa comeun relitto terrorizzato.

Sachsenhausen no, Sachsenhausenfu il salto di qualità dell’orrore. Fu il pri-mo Lager a dimensioni industriali. Fu illager, spiega Morsch, da dove Eicke e glialtri ufficiali dirigevano l’amministra-zione concentrazionaria in tutto il Rei-ch. A Sachsenhausen nacquero le primeunità Totenkopf (testa di morto) delleSs. A Sachsenhausen partì il progetto delcampo per detenzione prolungata. «Fula prima svolta: internare a lungo nemi-ci d’ogni sorta, le altre razze, gli altri po-poli. Fu il primo luogo in cui le Ss dellavecchia generazione, Koch e camerati,esercitarono la loro crudeltà bestiale».In piena libertà, da fieri ariani. La fase tredel Terrore — la «soluzione finale», laShoah — sarebbe venuta poco dopo.

Testimonianze agghiacciantiLe istantanee dell’album narrano tuttonei dettagli. Guardiamo le pose arro-ganti e fiere di Koch e dei suoi ufficiali,raffrontiamole con le teste basse e gli oc-chi spaventati dei loro prigionieri. «Ko-ch e il suo gruppo erano convinti che ilnazismo fosse un’èra nuova nella storia.Si sentivano protagonisti e testimoni,volevano vivere l’emozione appieno». ASachsenhausen cominciarono gli as-sassini di prigionieri presentati nei ver-bali come «uso legittimo delle armi dafuoco per bloccare un tentativo di fuga».L’ex deportato Harry Naujocks lasciò almondo, con le sue memorie, agghiac-cianti testimonianze su violenze e pe-

staggi quotidiani, sull’umiliazione dichi doveva solo sgobbare curvo, su chiveniva ucciso per caso e per gusto, o per-ché scelto come nemico da eliminare. ASachsenhausen cominciarono a dimi-nuire le razioni di cibo. E con la costru-zione del campo iniziò lo sfruttamentoindustriale della manodopera interna-ta. Le aziende civili collaborarono pron-te. La Kemper und Seeberger di Berlinofu la prima a fornire a Koch materiali eprogetti per le baracche, che gli interna-ti costruirono per se stessi lavorando al-l’aperto anche d’inverno. I forni crema-tori vennero più tardi, dopo il 1939 e il1940. Li fornì la premiata ditta Kori.

Koch fece carriera, come molti altriEickemänner, gli uomini del camerataEicke. Gli toccò comandare Majdanek,poi Buchenwald. Ma lui e gli altriEickemänner, i veterani della prima levanazista, erano corrotti nel fondo, spiegail professor Morsch. Corrotti nella mo-rale, come mostrarono con la loro be-stiale crudeltà contro i prigionieri. Macorrotti anche nelle tasche. Per anni Ko-ch rubò sistematicamente approfittan-do del suo potere. Rubava i denti d’oro, igioielli e altri averi dei detenuti, e forsenon solo. Si sentiva sicuro e forte. Avevasottovalutato il rischio di farsi anche deinemici tra i ranghi del regime. Il princi-pe von Waldeck, un altro ufficiale Ss, erail suo superiore diretto e divenne il suorivale. Lo denunciò a Himmler rivelan-do le sue ruberie. Koch finì male: carrie-ra stroncata con le sue mani, anche sot-to il regime che adorava. Fu arrestato nel1942. Tre anni dopo, nell’aprile del 1945,mentre gli aerei angloamericani domi-navano i cieli e l’Armata rossa puntavasu Berlino, venne condannato a morteda un tribunale delle Ss e impiccato.

Forse fu un caso unicodi ufficiale nazista con-dannato dai nazisti, diceMorsch. Di lui resta soloquell’album, che soldati oufficiali sovietici trovaro-no dopo la fine della guerraa Sachsenhausen. Lo por-tarono a Mosca non si sa co-me. Da lì, nel nuovo mondodel dopo-guerra fredda, l’al-bum è tornato a casa. Gli uo-mini di Koch finirono in Si-beria. Negli anni Cinquantaalcuni vennero rilasciati sot-to Krusciov. In parte quandoKonrad Adenauer, fondatoredella democrazia postbellica,compì il primo viaggio in Urssinondando il Cremlino di cre-diti e alta tecnologia. In cambioriportò a casa decine di migliaiadi prigionieri di guerra. Altri fu-rono “restituiti” alla Ddr. En-trambi gli Stati tedeschi dellaguerra fredda processarono al-meno una quindicina di ex uo-mini di Koch. Proprio a Bonn, nel1957, i veterani di Sachsenhau-sen furono gli imputati del primoimportante processo a criminalinazisti tenuto dalla Repubblicafederale. Al di qua e al di là del Mu-ro, lunghe pene detentive e poivecchiaia in disonore e in miseriachiusero quelle fiere vite ariane.Nessuno di loro è sopravvissuto,solo l’album del comandante Kochresiste al tempo.

dustria della morte, ma il clima era simile a quello che si crea oggiquando una delegazione straniera visita una fabbrica o una centra-le elettrica».

Cosa cambiò per gli ebrei dopo l’invasione tedesca dell’Urss?«Iniziò anche qui lo sterminio sistematico degli ebrei. Stalin di fat-

to li consegnò ai nazisti. Per non incrinare l’amicizia con Hitler, pri-ma del tradimento, la propaganda sovietica dipingeva la Germaniacome la nazione più illuminata e tollerante del mondo. Nessuno im-maginava l’Olocausto. I nazisti furono accolti dagli ebrei, discrimi-nati in Urss, come dei liberatori. Nessuno, avvisato in extremis,fuggì».

Perché le autorità sovietiche non sfruttarono la Shoah per con-vincere milioni di ebrei russi a combattere contro i nazisti?

«Storicamente la Russia è un paese antisemita. Stalin conoscevagli umori profondi del popolo. Lasciò che i tedeschi facessero il la-voro sporco, contando sulla complicità sociale. Tra il 1941 e il 1945,sul territorio sovietico, sono stati uccisi oltre tre milioni di ebrei. Tut-ti fucilati: non è stato necessario costruire nemmeno un carcere».

Come reagiva la gente davanti alle esecuzioni di massa?«Le racconto quanto avvenne a Kiev, alla mia famiglia. Dopo l’in-

vasione, i tedeschi pubblicarono subito un giornale antisemita in lin-

gua russa. Poi iniziarono lo sterminio in un quartiere. Portavano gliebrei sulle rive del Dniepr e li fucilavano. A migliaia. All’inizio non ac-cadde nulla. Dal terzo giorno in poi si riuniva la folla per assistere al-le esecuzioni. Facevano la coda per assistere allo spettacolo, conta-vano i cadaveri, ammirati come fossero bottino di caccia. Nell’Olo-causto troviamo sempre tre categorie: vittime, carnefici e spettatori».

Quale è stato l’atteggiamento dei russi dopo la sconfitta dellaGermania nazista?

«Sotto l’Urss non si è mai parlato dell’Olocausto degli ebrei. Vas-silij Grossman e Ilija Ehrenburg compilarono il libro nero sullo ster-minio, ma non riuscirono a pubblicarlo. Nel 1948 Stalin iniziò acombattere la battaglia persa di Hitler, perseguitando i cosidetti“cosmopoliti”, ossia gli ebrei. Poi li accusò di collaborazionismo coni tedeschi. Alla strage seguì una strage, nell’indifferenza collettiva».

Perché Stalin, nonostante i russi avessero liberato Auschwitz,perseguitò gli ebrei anche dopo il 1945?

«L’Urss era al disastro economico. Montava il malcontento po-polare. Iniziava la Guerra Fredda. L’attenzione della gente andavasviata. La liberazione di Auschwitz fu taciuta. Si puntò sulla presen-za dannosa dei ricchi ebrei, dati in pasto alla rabbia dei poveri russi.Per anni il Kgb assicurò che ogni presunta spia Usa era ebrea».

E dopo la morte di Stalin?«Cambiò poco. La nomenklatura comunista rimase intimamen-

te antisemita. L’Olocausto è stato sempre ignorato, o minimizzato.Non era un argomento ufficialmente proibito, ma si consigliava dievitarlo. L’aria è cambiata con Gorbaciov, ma pure con Eltsin».

Com’è il clima oggi?«Il popolo russo resta povero e deluso, ha ancora bisogno di un

colpevole, di un capro espiatorio. La Russia continua a ignorare laShoah. Non vuole ammettere che milioni di sovietici, in particolarenei Paesi baltici e in Ucraina, eseguirono le stragi di ebrei ordinatedai nazisti. Per questo il terreno per l’antisemitismo resta fertile».

Ritiene che le autorità siano responsabili?«Putin non è antisemita, non c’è un nuovo Hitler russo. Si tolle-

ra però la presenza di decine di gruppi e piccoli partiti che alimen-tano e sfruttano l’odio contro gli ebrei. Negli strati marginali dellapopolazione gli episodi di violenza antisemita si moltiplicano,senza essere contrastati né condannati con la necessaria fermez-za. La voglia di riabilitazione di Stalin porta con sé il recupero di Hi-tler. Per anziani e giovanissimi sono due leader che hanno portatoordine. Così in Russia gli ebrei ormai sono meno di un milione. Echi può se ne va».

I DISEGNINel museo

del Konzentrazionslager, al quale

sono destinate le immagini

rinvenute a Mosca,

si conservano anche gli schizzi

dei detenuti, come quello qui

a fianco. Nella foto grande,

l’ingresso del campo

di concentramento, che era

il più vicino alla capitale

del Reich hitleriano

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«C’è qualcosa di più i m-portante della logi-ca», disse un giornoAlfred Hitchcock,«ed è l’immagina-zione». Quando a

Manchester cent’anni fa, giusto il 15 marzo del1906, due personaggi assai diversi e per nasci-ta e per indole, l’aristocratico Charles StewartRolls, terzo figlio del primo barone Llangat-tock, e il self made man Henry Royce, ultimodei cinque figli di un modesto mugnaio, si re-carono dal notaio per dare un senso societarioal loro sodalizio che durava ormai da quasi dueanni, erano intimamente convinti di stipulareun contratto che avrebbe segnato la storia del-l’automobile. Non era presunzione: era la cer-tezza che la Rolls-Royce Motors Limited avevaconiugato creatività ed innovazione, misce-lando sapientemente il perfezionismo del mi-gliore artigianato con la tecnica produttiva d’a-vanguardia. Tradizione e sperimentazione.

Rolls e Royce sapevano che quella stipulaavrebbe consolidato la loro fama e speravanoin un rapido successo, con questo loro orgo-glioso «mettersi sul mercato» puntando sullaqualità, l’esclusività e la raffinatezza. Ma nonsospettavano che la data del contratto sareb-be invece diventata l’atto di nascita ufficialedella leggenda Rolls-Royce; tantomeno che illoro marchio sarebbe diventato il più presti-gioso del mondo, che avrebbe alimentato ilmito tutto Novecento e molto british dell’autoperfetta: la macchina dei re e dei capi di Stato,delle star e del “celebrity system”, il simbolodel lusso e dell’eccezione.

Quel giorno delle Idi di marzo del 1906, laGran Bretagna era all’apogeo della sua poten-za, l’Intesa Cordiale con la Francia era stata ap-pena siglata, la seconda rivoluzione industria-le le permetteva di dominare il mondo graziealla supremazia militare corroborata da quel-la tecnologica, finanziaria e marittima; ma so-prattutto la società britannica era pervasa daun fervore quasi messianico nel progresso:rappresentato dalla rapidissima evoluzionedell’automobile. Già nel 1895, la rivista ameri-cana Horseless Age, (l’Era senza cavallo) profe-tizzava nel suo primo numero: «Un’industria

LEONARDO COEN

Rolls-Royce, l’auto perfettasenza incidenti o guasti la strada tra CookeStreet e Knutsford, quindici miglia che lo con-vinsero d’aver fatto la scelta giusta. Venne re-gistrata col numero M 612.

Il segreto del successo era la cura maniacaledei dettagli, il lavoro di altissima precisione ela scelta dei materiali migliori disponibili sulmercato: ogni volta che gli mettevano sotto ilnaso un manufatto che gli sembrava difettoso,lo rimandava indietro o lo distruggeva. Il chefaceva lievitare i costi in modo inquietante.Talvolta gli capitava di sentir dire da un suo im-piegato che qualcosa era stato eseguito «abba-stanza bene», allora Royce lo rimproverava:«Nulla è mai abbastanza bene», si deve semprecercare di migliorare ed è questa l’unica stra-da da percorrere. La meticolosa attenzione nelcostruire e nel disporre ciascun componentedel motore fu tale che fin da subito la piccolaRoyce divenne famosa per la sua silenziosità ela sua perfezione meccanica. Per essere sicuroche tutto funzionasse a dovere, Royce triplicòla produzione di ciascun componente dellaprima vettura (la seconda Royce fu consegna-ta al socio A. E. Claremont, la terza a Henry Ed-munds che aveva acquistato un consistentepacchetto di azioni della F. H. Royce and Com-pany, Electricians). La Royce M 612 continuòegregiamente a funzionare per diciannove an-ni, in fin di carriera venne utilizzata per la con-segna della posta aziendale, nello stabilimen-to di Derby (fondato nel 1908 e dismessotrent’anni dopo). Poi, inopinatamente,fu demolita dalla stessa compagnia.

Il destino dell’ingegnereRoyce s’incrocia con quellodel barone Rolls — pilotasfegatato e concessionariodelle lussuose auto france-si Panhard a Londra — nel-la primavera del 1904, il 4maggio. Al Midland Hoteldi Manchester. Para-ninfo dell’incontro tra

36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 5 MARZO 2006

gigante lotta per venire al mondo. Tutti i segniindicano che il veicolo a motore è il seguito ne-cessario dei metodi di locomozione già stabi-liti ed approvati. Il pubblico ci crede». L’autoera già il «solo sogno che ci trasporta».

Sempre più velocemente possibile: il 18 di-cembre del 1898 il pilota Chasseloup-Laubatsorpassò i 63 chilometri l’ora. Jenatzy raggiun-se i 105 sulla sua “Jamais Contente” nel 1899.Nel 1903, a Dublino, proprio il baronetto Char-les Stewart Rolls stabilì il record mondiale con93 miglia (149,668 chilometri all’ora), gui-dando una Mors da 70 cavalli.Ma la velocità non bastava. Oc-correvano auto affidabili, resi-stenti: in quegli anni pionieri, ve-derle ferme ai lati delle strade,coi radiatori fumanti, o con le ba-lestre spaccate, era una scenanormale, quasi scontata. Il prez-zo da pagare: spesso, per colpa dicattivi assemblaggi o di motoripoco collaudati.

Lavoratore leggendarioPiù o meno quando il futuro

amico e socio Charles Rolls fecequel record, l’ingegnere HenryRoyce — geniale costruttore digru motorizzate e vari congegnielettromeccanici — ebbe l’idea diacquistare una piccola vettura francese, la De-cauville, e mal gliene incolse: spese più tempoa ripararla che non a guidarla. Poiché era unuomo caparbio e un leggendario lavoratore,Royce cominciò a capire che quella sganghe-rata automobilina poteva essere migliorata, eresa più decente. Addirittura ridisegnava e ri-costruiva quelle parti del motore che secondolui erano state fatte male, e con lui fecero ap-prendistato due valenti meccanici, Platford eHaldenby. Tuttavia Royce fu deluso dall’espe-rienza a tal punto che decise di fabbricarsiun’auto da solo. Nel giro di poche settimane ciriuscì: il primo aprile del 1904, alla faccia deipesci d’aprile, la sua Royce da dieci cavalli (edue cilindri verticali) fu in grado di percorrere

I FONDATORICharles

Stewart Rolls,

l’aristocratico

inglese nato

nel 1877

Sotto: l’officina

motoristica

in Cooke Steet

a Manchester

In basso,

Henry Royce

Il prezzo in sterline

della prima Rolls-Royce

10hp, venduta nel 1906

395

Il prezzo medio, in euro,

di una Rolls-Royce oggi

(si va dai 250mila ai 390mila)

300mila

Le Rolls-Royce prodotte

in questi cento anni

(esclusa la Phantom 2003)

90.925

1907 1922 1925 1949

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2006

SILVER SHADOWFu il modello

che introdussemaggiori

cambiamentisia tecnici

che stilisticiL’auto restò

in produzionefino al 1980

CORNICHELa Corniche

fu assemblataa Mulliner ParkUna due porteconvertibile

di cui sono statiprodotti

fino al 19874.347 esemplari

SILVER SPURNata

per celebrareil motore numero

100mila ideatoe prodotto

dall’aziendaFu lanciatain edizione

limitata

SILVER SERAPHPresentataal Salone

di Ginevradel 1998la Seraphè l’ultimomodellocostruitoa Crewe

l’aristocratico e l’ingegnere, fu il dinamico epreveggente mister Edmunds. L’ambizionedei due futuri soci era in piena sintonia congli umori del primo Novecento, con la poeti-ca dello «slancio in avanti», con quella chediventerà «l’estetica della velocità» futuri-sta: pulegge, pignoni, cilindri, valvole e ra-diatori sono idolatrati, una nuova bellezzaviene identificata nelle carrozzerie e nei mo-tori delle automobili.

Spirito dell’estasiRoyce ha 41 anni, Rolls 27. Il barone ha gui-

dato una Royce, ne è rimasto entusiasta. S’im-pegna a vendere nella sua concessionaria tut-te le auto che Royce vorrà produrre. Qualchemese dopo il loro incontro, il marchio RollsRoyce è creato: in un rettangolo, al centrocampeggiano due R intrecciate. Sopra, si leggeil cognome Rolls; in basso quello di Royce. I ca-ratteri del logo sono originalmente scritti inrosso (diventeranno neri in segno di lutto perla prematura morte di Rolls, nel 1910). Il primoveicolo, un 2 cilindri da 10 cavalli, è assembla-to poche settimane dopo. In fretta escono dal-l’officina Royce altri modelli da 3, 4 e 6 cilindriche sviluppano rispettivamente 15, 20 e 30 ca-valli. L’obiettivo è presentarli al Salone del-l’Auto di Parigi del 1904. Una scommessa chesi traduce in trionfo.

Un anno e mezzo dopo, ecco i due soci se-dersi davanti al notaio e dettare la ragione

sociale dell’azienda che stanno fon-dando: «Vogliamo costruire la

migliore vettura del mondo,quale che sia il suo costo, evenderla alle persone chesaranno in grado di apprez-zare un prodotto di qualità,avendone i mezzi e il desi-

derio di pagarne il prez-zo». L’arte è ordine e ri-

gore. C’era già tutto, inquelle parole: compre-

so il notissimo detto «se chiedi il prezzo di unaRolls vuol dire che non te la puoi permettere».L’archetipo di un certo snobismo che trasfor-ma la storia industriale (di nicchia) della Rolls-Royce in un capitolo di storia del costume, maanche la ricerca della posterità. La doppia R in-trecciata, assieme alla mascotte del radiatore— The Spirit of Ecstasy, la statuetta d’argentosul tappo del radiatore verrà realizzata dalloscultore Charles Sykes tra la fine di febbraio el’inizio di marzo del 1911 — sarà il passaportoper l’eternità, il primo vero oggetto (del desi-derio) capace di comunicare l’eccellenza diun’automobile su tutte le altre.

E anche di più. Non a caso, quest’anno, laRolls celebra con sobrietà il centenario dellafondazione societaria, ma non trascura i 95 an-ni della «mascotte». Per un motivo molto sem-plice. Basta rileggersi la cartella stampa che fudistribuita allora: «I Direttori della Rolls-Roy-ce erano sconcertati nel notare che qualcheproprietario di automobile Rolls-Royce fissa-va al tappo dell’acqua del radiatore mascottealquanto grottesche, come Gollywoogs, poli-ziotti, e gatti neri... Essi quindi commissiona-rono al signor Charles Sykes la preparazione diun modello che potesse esprimere lo spiritostesso della Rolls-Royce, e quindi la velocitàottenuta nel più grande silenzio, l’assenza divibrazioni, il misterioso dominio dell’energia,ed un meraviglioso organismo vivente qualeuna grande e potente barca a vela.

L’artista spiega che nel disegnare questagraziosa piccola dea egli aveva in mente «lospirito dell’estasi che aveva scelto di viaggiaresulla prua della migliore automobile del mon-do, godendosi la freschezza dell’aria ed il suo-no musicale delle sue vesti fluttuanti. Ellaesprime la sua gioia, con le braccia allargate elo sguardo fisso all’orizzonte». Lo fa da quasiun secolo, bella e voluttuosa “flying lady”. Di-schiude le braccia lasciandosi accarezzare dalvento, sopra l’augusta calandra in forma diPartenone.

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 5 MARZO 2006

“Nuda sulla Silver Ghost d’oro”LONDRA

Evelyn Waugh, grande scrittore-snobdella Belle époque, descrive la supermi-liardaria lady Docker mentre esce, alla gui-da della Silver Ghost che si era fatta co-struire tutta d’oro, dal salone dell’auto lon-dinese di Earls Court: «Norah era nuda espumeggiante». Altri testimoni dell’even-to ridimensionano. «La Rolls era dorata,non d’oro massiccio, e la lady era solo par-zialmente nuda, come quando appariva inuno spettacolo di varietà al Caffè de Paris,vicino a Piccadilly». Ma la leggenda dellamoderna Lady Godiva, quella che monta-va il suo cavallo coperta solo dalle lunghechiome bionde, continua.

Lady Docker è stata una delle protagoni-ste più scandalose degli anni Cinquanta:da Montecarlo l’avevano addiritturaespulsa perché una sera al casinò era tal-mente ebbra da fare a pezzi la bandieramonegasca. Non c’era stata ancora la dol-ce vita. Non c’erano ancora i paparazzi mai cronisti mondani sì e i racconti erano di-vertenti. «La gente non ne poteva più di au-sterity, rinunce, moralismi. In quel mondosi cercava il lusso sfrenato, l’erotismo eogni sorta di piaceri. Di eccessi e di follie cen’erano tanti. E come meglio andarli a sco-prire se non a bordo di una Rolls». Lord Kil-bracken è uno dei testimoni di quello chelo storico Hobsbawne chiama il «secolobreve», ma che lui ritiene essere tra i piùlunghi e più ricchi di imprevisti. Kil-bracken è nato pochi anni dopo la splendi-da vettura che tanto riflette la storia del-l’Inghilterra. Suo padre aveva conosciutobene sia Charles Rolls che Henry Royce, ri-cordava la festa per il lancio della loro glo-riosa automobile. L’accompagnamento

musicale in quell’occasione era stato il Ru-le Britannia, «Britannia rules the waves»:Britannia domina, Britannia domina leonde degli oceani.

John Kilbracken è cresciuto seguendo ilmito Rolls-Royce. Era come se fosse nato abordo. A dieci anni aveva accompagnatosuo padre a Buckingham Palace per assi-stere al conferimento della onorificenza dibaronetto a Sir Henry Royce. A diciotto an-ni aveva iniziato a guidarla, malgrado le re-gole di “noblesse oblige” specifichino chesi deve sempre avere un autista professio-nista al volante. Pilotarsela da soli non èper nulla chic.

Kilbracken ricorda che il ruolo della Rollsriflette gli alti e bassi della storia britannica.Non è confinato alle feste e ai balli di Mon-tecarlo e della Costa Azzurra, o ai saloni do-rati di Mayfair e Belgravia. Lui ha ereditatoalcune ingiallite fotografie del principe diGalles, futuro Edoardo VIII, quello che ab-dicò per amore di Wally Simpson: siamo altempo della Prima guerra mondiale e ilprincipe aveva raggiunto il fronte in Italia abordo di una Rolls. Personalmente Kil-bracken vide nel 1940, ai cancelli di Buckin-gham Palace, in mezzo a una folla che lo ap-plaudiva, Winston Churchill passare in Rol-ls per ricevere da Giorgio VI l’incarico di pri-mo ministro in sostituzione del dimissio-nario Neville Chamberlain. «La passionedello statista era però nota alla Gestapo, chesperava di impallinarlo quando era a bordo.Per confondere i tedeschi, Churchill avevaun buon numero di sosia, spesso seduti alsuo posto sulla Rolls. Anche Elisabetta ado-ra le sue Rolls-Royce. Ne ha più di una doz-zina. La Phantom è la sua favorita: ne fececostruire un esemplare come dono di noz-ze al marito Filippo».

L’EMBLEMA

La statuetta alata è l’emblema della Rolls-Royce dal 1911

Fu creata dallo scultore Charles Sykes su richiesta di Henry

Royce (Charles Rolls era morto l’anno prima). Il nome scelto

originariamente fu “The Spirit of the Speed” ma poi si optò

per “The Spirit of Ecstasy”. La modella che posò

per la scultura si chiamava Eleanor Thornton (nella foto

a sinistra) ed era una segretaria della casa automobilistica

La percentuale di motori

ancora funzionanti

sul totale di quelli prodotti

60%

I concessionari ufficiali

Rolls-Royce attualmente

autorizzati in tutto il mondo

70

Gli esemplari di Rolls-Royce

venduti mediamente

ogni anno in Italia

40

PAOLO FILO DELLA TORRE

1965 1971 1985 1998

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Nella cornice di “Quantestorie”,Festival del libro per bambinie ragazzi, una mostra celebra

il centenario de“Il giornalino della Domenica”, fondatoe diretto da Vamba, alias Luigi Bertelli. Un’occasioneper riflettere sulle strade alla formazione del gusto

38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 5 MARZO 2006

Potrebbe esistere, oggi, ungiornale per ragazzini scrittoda Baricco, Benni, Eco, Ta-maro, Amanniti, Busi, Arba-sino, Lucarelli, Camilleri, edisegnato da Mattotti e Jori,

Perini e Mannelli? È questa la sostan-ziale domanda, leggermente scandalo-sa, che sorge sfogliando le annate delGiornalino della domenica, che Vamba(il giornalista e scrittore fiorentino Lui-gi Bertelli, 1858-1929) fondò e diresse aiprimi del Novecento, avvalendosi diuno stuolo di collaboratori allora all’a-pice della fama letteraria e artistica: Pi-randello, Serao, Salgari, Fucini, Masca-gni, Ojetti, Pascoli, Capuana, Aleramo emolti altri.

La risposta è no. Vamba poteva con-tare sull’idea, allora perfettamente in-tatta, di una pedagogia di eccellenza,che selezionasse per i figli della «buonae operosa borghesia nazionale» il me-glio, o il presunto meglio, della produ-zione artistica dell’epoca. Ma è la stes-sa selettività del progetto, con tutto ilbene e tutto il male che contiene, a nonessere più proponibile. La massifica-zione non ha del tutto abolito il concet-to di qualità, ma lo ha spalmato in lun-go e in largo sull’infinito territorio di unimmaginario ormai sterminato e indi-stinto. Interclassista, multimediale edominato dalla scomparsa dei “gene-ri”, nonché dell’alto e del basso. Tantoche di “formazione culturale della clas-se dirigente”, oggi affidata, almeno quiin Occidente, solo ad alcune eccellentiaccademie tecnocratiche, non c’è arti-sta o intellettuale che osi occuparsene,tanto datata appare la pretesa, un tem-po radicatissima, che questa formazio-ne dovesse partire dallo stile e dal gusto,e dall’educazione allo stile e al gusto. Inuna parola sola, dalla “bellezza” comevia maestra alla coscienza di sé.

In questo senso, tra l’infanzia degliitaliani che crebbero nei Cinquanta eSessanta e quella dei piccoli lettori diVamba, c’è una continuità molto forterispetto alla discontinuità davvero epo-cale che separa i nostri figli da noi stes-si. Il mezzo secolo che va dal Giornalinodi Gian Burrasca (l’opera più celebre diVamba) alla comparsa della televisione

fu assai più breve del mezzo secolo cheva da Giovanna la nonna del corsaronero ai reality show, al wrestling, a M-tv. Come dire che due guerre mondia-li, il fascismo, la rivoluzione russa,hanno potuto incidere sui costumi esulle attitudini dell’Occidente assaimeno di quanto sono riusciti a fare ilconsumismo e la società dello spetta-colo. Vedi alla voce Pasolini.

Azzardando ma non tanto, direi chefu il Linus di Giovanni Gandini (scom-parso da poco, e non abbastanza cele-brato) l’ultimo “giornalino di forma-zione” per l’ultima generazione convoluttà “dirigenti”, e con propensionealla formazione umanistica. Il gustodissacrante, elegante e compattissi-mo del fumetto d’arte degli anni dellacontestazione aveva, pienamente, icrismi di un progetto “pedagogico”,quello libertario e antiautoritario deiSessanta e dei Settanta. E non per casoLinus fu l’ultima rivista a fumetti sullaquale si esercitarono intellettuali escrittori italiani, come era sempre av-venuto, in precedenza, sulle testateper ragazzi più ambiziose e curate.

Perfino gli italiani cresciuti con la te-levisione (la prima Rai monocanale, ti-morata e discreta) vennero in contattocon libri e riviste d’avventura (oggi sidirebbe: fantasy) che proseguivano,senza troppe differenze, il percorsografico e letterario dei primi del Nove-cento. A parte Salgari e Verne e Molnar,spesso donati da genitori e nonni nel-le stesse edizioni sgualcite e polverosedella loro infanzia, c’erano le riduzio-ni romanzesche della Scala d’oro a se-gnare la continuità di una pedagogiaselettiva e virtuosa, quella delle classiborghesi ancora comprese, negli anniCinquanta e Sessanta, nella loro mis-sione dirigente. Poteva ancora capita-re di imbattersi, nelle prefazioni e ne-gli articoli di giornalino, in concetti co-me «l’educazione del fanciullo», il cuistesso suono, oggi, appare infeltrito einverosimile: e non si sa se sia «educa-zione» o «fanciullo» il vocabolo piùanacronistico.

Stesso discorso per le riviste. Ancoraagli albori del fumetto di massa e deicomics americani, giornali come ilCorriere dei piccoli, allora diffusissimonelle case acculturate, erano stretta-

mente apparentabili allo spirito artisti-co che ritroviamo in questo centenarioGiornalino della Domenica. Parecchiedelle illustrazioni e delle avventure chetroviamo nel Giornalinoavrebbero po-tuto essere ripubblicate pari pari sulCorrierino, tanto pre-televisivo è il trat-to, che si rifà alla cultura del libro illu-strato, non ha ancora le rotondità faci-li e infantili del cartoon, e dunque pre-tende che i più piccoli possano formar-si ancora all’interno della stessa esteti-ca elegante ed elitaria dei loro genitoriborghesi. Le didascalie delle illustra-zioni di copertina elogiavano, nel loroautore Brunelleschi, «il fine pittore cheha conquistato le simpatie del nostropubblico», definizione che oggi suone-rebbe perfettamente derisoria o satiri-ca all’allegro e cinico sguardo allenatoalla visione dei Simpson o di Futurama.

E allora, per non cadere nelle tenta-zioni passatiste che il prode Vamba cisuggerisce, proviamo a partire propriodagli attuali punti di forza (i Simpson eFuturama, per esempio) e a sottolinea-re, del vecchio Giornalino, i punti de-boli. L’acume socio-satirico dei Sim-pson, senza neanche il bisogno dienunciarlo, è modernamente pedago-gico. Nel senso che abitua sguardo e in-telletto alla continua decifrazione del“buffo”, ma anche del tragicamentesmarrito, che dilaga nella società dimassa, nei suoi modelli goffi e dozzina-li, nelle sue ambizioni frustrate. Vice-versa, nel pur inquieto e “modernista”Vamba, la retorica edificante, anche sevolta a intenzioni intelligenti come lacritica del paternalismo (vedi GianBurrasca), anche se suggerisce la pio-nieristica intuizione che bisogna met-tersi «dalla parte dei ragazzi», rimanepesantemente retorica, e pesantemen-te edificante. Il cruccio del «vero e delbello» è in fondo, in quegli anni, di stret-ta pertinenza delle classi abbienti, be-ne al riparo dalle tumultuose insidiedella democrazia di massa, del suffra-gio universale (le donne, in Italia, eb-bero il voto solo dopo la caduta del fa-scismo, dunque ieri l’altro), dell’esten-sione dello stesso concetto di buon gu-sto ai «fanciulli» (quasi tutti analfabeti,e contadini) nati nel popolo.

La buona notizia, allora, è la miste-riosa sopravvivenza, nel maremotodella massificazione, di letture e tele-film e prodotti per ragazzi e non, anchelargamente seriali, che contengonoancora “pedagogia”, nel senso che in-dicano, a volte con micidiale precisio-ne, lo stato effettivo della vita quotidia-na, e anche del brutto quotidiano. Ho-mer Simpson, con la sua flaccida ac-quiescenza alla tivù e alla birra, incarnaagli occhi dei ragazzini contemporaneilo stesso desolante, tenero conformi-smo che Vamba indicava ai bambiniitaliani di cento anni fa descrivendo ivizi ridicoli dei loro parenti adulti, del-la famiglia piccolo-borghese di allora.

Allora, forse, esiste una “pedagogia”sommersa, non più dicibile nelle formepedanti di un tempo, che andrebbe col-tivata assieme e per i figli. Che sono al-le prese, a differenza di quando capitòa noi e ai lettori di Vamba, con una talemassa di immagini e parole, comuni-cazione e spettacolo, da avere bisogno,inevitabilmente, di formarsi dei filtri edei criteri di giudizio (cioè: un gusto!)per potersi orientare. Chiunque abbiafigli sa che, con enorme fatica e con ap-parente indifferenza, in realtà questaformazione del gusto avviene ancora,avviene quasi naturalmente, comestrumento individuale o di gruppo cheaiuti a definire la personalità, ad affina-re lo sguardo, e anche a difendersi dal

“troppo”. Il culto dei Simpson (come fu,ai tempi nostri, per i Peanuts) riesce adapparentare — come dire — i ragazzinisvegli, che confrontando il reciprocosense of humour cominciano a crearsiun’estetica collettiva, sicuramente noncorriva, non dimessa, non conformista.

Per questo dobbiamo guardare aVamba, alle sue bellissime pubblica-zioni, senza ripiegare nelle suggestioninostalgiche. Il “bello” di allora, rispettoal “brutto” di adesso, è improponibileperché la griglia sociale e culturale dicento anni fa si faceva forza di una mi-cidiale pre-selezione dei lettori, delleloro famiglie, dei salottini protettivi edecorosi nei quali quelle riviste poggia-vano. Oggi, semmai, l’enorme diffi-coltà è riuscire a individuare il bello,scoprirlo, produrlo, navigando nellosconquassato oceano della cultura dimassa e anche dell’incultura di massa.Una fatica esposta ad ogni genere di in-certezza e smemoratezza e plagio pub-blicitario, e tirannia del marketing: in-somma, la classica magnifica e perico-losa avventura, di quelle che appassio-nano i ragazzini. L’eroe contempora-neo è colui che ancora osa il rischio del-la scelta e del giudizio. E i nostri figli,anche se non ce lo dicono, lo sanno be-nissimo.

Fu “Linus”l’ultimo“giornalinodi formazione”per l’ultimagenerazionecon voluttàdirigenti:il suo progettoera quellolibertarioe antiautoritariodei Sessantae Settanta

L’“educazione dei fanciulli”da Gian Burrasca ai Simpson

MICHELE SERRA

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2006

UGO FINOZZIÈ considerato uno dei massimi

disegnatori italiani

del primo Novecento

Firma storica del “Giornalino”

ANTONIO RUBINOComincia a collaborare

al “Giornalino” nel 1907:

alla fine del 1908 passa

al “Corriere dei Piccoli”

IL FESTIVALLa mostra sui cento anni

de “Il Giornalino della

Domenica” (curata da Pico

Floridi, in collaborazione con

gli Archivi Arti Applicate

Italiane del XX Secolo)

è in programma nell’ambito

di “Quantestorie”, festival

del libro per bambini e ragazzi

che si terrà a Milano

da domani al 12 marzo

presso la Casa dell’Energia

Aem (in piazza Po, 3)

e a Sesto San Giovanni

nello Spazio Arte, in via Maestri

del Lavoro. Il festival

è organizzato dall’Associazione

culturale Nautilus

FILIBERTO SCARPELLIGiornalista, disegnatore

satirico, artista

d’avanguardia: in seguito

aderirà al futurismo

‘‘Giovanni PascoliErano due donne di monte,

una sposa giovane, una vedovavecchia; e questa non aveva piùnessuno e quella stava per avere

il suo primo. Erano, si può dire, vicine;ma dall’una casa non si vedeva l’altra:c’era di mezzo un colle. Dietro il colle

alla sposa nasceva, alla vedova morivail giorno. A mezza via tra le due case

era una polla, e le due donne viandavano all’acqua, e qualche volta

s’incontravano. E un giorno d’estate lagiovane aspettò la vecchia alla fonte.

[...]E la vecchia comparve con la secchia

in capo. E andò alla fonte, e posela secchia sotto il tegolo muffito,

e si voltò verso la sposa.«Salvo vi sia con l’aiuto di Maria!»

disse, e poi soggiunse [...]«Dite una cosa... Quella cunella...

di faggio, coi crulli... l’avete sempre?».«Di certo che la devo avere». La

sposetta aspettò un pocoche la vecchia seguitasse. Alla fine

disse: «La vendereste?...».E la fonte, tra le due donne [...]

si mise a cantare dolcemente dentro lasecchia di rame. Tra la giovane sposa e

la vecchia vedova la fonte perennecantava così:

[...]Io canto come due campane,

un doppio che non ha mai posa,campane quanto mai lontane,

un doppio non si sa per cosa;al sole, al lume della luna,eterno, e non si sa che sia;se il doppio d’una festa,

o una Avemaria...[...]

La vecchia [...] riprese: «Tra poveri cis’intende sempre. Quanto mi date?».«Due lire?». «Me ne darete quattro».

Il fatto è che s’intesero a questobel modo. [...]

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 5 MARZO 2006

Da LA CUNELLA, “Il giornalino

della Domenica” del 2 dicembre 1906

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la letturaSignore del Palazzo

Luigi Einaudi, appena entrato al Quirinale, chieseai collaboratori quale ruolo spettasse a donna IdaNei fatti, essa fu solo la sposa del primo magistratodello Stato. Oggi Franca Ciampi, con i suoi interventispontanei, incarna un cambiamento inesorabile

40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 5 MARZO 2006

LAURA E ANTONIOUna coppia molto unita,

eppure lei non seppe mai

dal leggendario e spericolato

autista Isonzo Crescimbeni

l’itinerario dell’auto presidenziale

CARLA E GIOVANNILei era più alta del marito e in

pubblico, durante le cerimonie

ufficiali, doveva stargli a distanza,

con le scarpe basse, per evitare

di farlo sfigurare

VITTORIA E GIOVANNI“Per me”, diceva il marito,

“le donne sono la cosa più bella

che ci sia in circolazione”

Lei fu vittima di calunnie

e maldicenze a mezzo stampa

FILIPPO CECCARELLI I guai di Fanfani,la gratitudine di Bossi

il maschilista

lista della scena italiana si è consegna-to, con l’efficacia che solo il silenzio rie-sce a garantire, nella mani di una mo-glie. Un’altra moglie, anzi due, Veroni-ca Lario e Barbara Palombelli, si sonosignificativamente differenziate dai ri-spettivi mariti in occasione del referen-dum sulla fecondazione assi-stita. Nel senso che sono an-date a votare. E si deve a unaterza moglie, che poi a benvedere è la prima della Re-pubblica, cioè Franca Ciam-pi, una serie di interventispontanei e dentro l’attua-lità, dai giudizi sulla «tv defi-ciente» alla condanna dei pe-staggi polizieschi al G8 di Ge-nova; interventi calorosi checertamente hanno avuto unaloro funzione in quella che isemiologi definiscono la «co-struzione del senso».

Perché ormai le mogli deipotenti incitano, moderano,riequilibrano, umanizzano.Ma in questo modo, per vieche appaiono tanto più ade-guate quanto più indirette,accendono la fantasia, riem-piono l’immaginario, evocano simboli,offrono modelli. Da queste nuove, maantiche figure arriva cioè qualcosa chesta a monte della politica e in buona so-stanza la determina — ma che con sem-pre maggiore difficoltà il potere tradi-zionale e istituzionale riesce a governa-re. Di qui ad assumere le first lady, tutteinsieme, come nuovi soggetti politicidella post-modernità ovviamente ce necorre. Ma certo la funzione appare ine-sorabilmente mutata, lontana com’èdai sorrisi e dai segreti di un passatonemmeno troppo remoto.

Chissà in quale archivio saranno fini-te — o se esistono, addirittura — le rela-zioni che Luigi Einaudi, appena entra-to al Quirinale, si preoccupò di richie-dere ai suoi collaboratori sul ruolo chespettava a donna Ida. Ma certo il ver-detto apparve chiaro nei fatti: lungi dal-l’essere una presidentessa, la mogliedel presidente della Repubblica nonaveva alcuna rilevanza giuridica e nelleoccasioni ufficiali andava semplice-mente considerata come la consortedel primo magistrato dello Stato. Pun-to e basta.

Donna Ida, la contessa Pellegrini,era un personaggio a suo modo straor-dinario. Tutte le sere faceva i conti einformava il marito anche sul numerodi uova delle sue galline. Molto religio-sa e intelligente, accettò con rassegna-zione la «gabbia dorata» del Quirinale,

così la chiamava, ma a suomodo riuscì a pilotare il suocompito sulle iniziative bene-fiche: d’estate ospitandocommossa i mutilatini a Ca-stel Porziano («Ida», cercò diconsolarla Luigi, «non è belloche ti mostri così turbata...»);d’inverno raccogliendo e or-ganizzando fondi per acqui-stare protesi, carrozzelle, oro-logi per ciechi. Una volta si fe-ce fotografare mentre, con iferri da maglia in mano, face-va delle calze per i detenuti.Ma poi il rotocalco pubblicòla foto nel quadro di un servi-zio sui doni di Natale, lascian-do immaginare che si trattavadi un regalo per il marito, equel che è peggio ritraendolanella stessa pagina con la Lol-

lobrigida, Elsa Morante e per-fino con la madre di un popolare uxo-ricida. Donna Ida ci rimase così maleche la sua naturale ritrosia, tutta pie-montese, divenne assoluta.

Ora, nell’era di Lady Mastella, chedalla ricetta dei «cicatellini» è arrivataa presiedere il Consiglio regionale del-la Campania, il trattamento riservatoalle consorti di Stato può sembrareuna assurda crudeltà: ma in pubblicodonna Carla Bissatini in Gronchi, cheera più alta del marito presidente, ve-niva costretta a seguirlo con le scarpebasse e a un metro e mezzo di distan-

Solo tre parole: «Non lo voto».Solo tre parole, con l’aria chetira, basterebbero verosi-milmente a Veronica Larioper pregiudicare la vittoriadi suo marito, Silvio Berlu-

sconi. Altre tre ne ha dette invece, la fir-st lady più enigmatica della storia re-pubblicana: «Vinca il migliore». Eppu-re, anche questa formula così distacca-ta vale a solennizzare l’ambiguo e sfol-gorante potere che la vita pubblica affi-da oggi alle mogli dei leader.

Vicenda lunga, ormai. Ma l’impres-sione è che tutto — ruoli, compiti, im-maginario — abbia cominciato a girarevorticosamente. Qualche mese fa, nelgiorno in cui il Parlamento ha licenzia-to il nuovo testo della Costituzione,Umberto Bossi, presente con la fami-glia a Palazzo Madama, ha così volutocongedarsi da Marcello Pera: «La mo-glie è importante», ha detto. «Trattalabene». Non c’è alcuna ragione di pen-sare che Marcello Pera si comporti ma-le con la propria consorte. E tuttavia,sull’«importanza» della moglie, fino aqualche anno fa lo stesso Bossi aveva la-sciato trasparire una concezione quan-tomeno limitata, concludendo un di-scorso congressuale con una specie diringraziamento «per la Manuela, che infondo una zuppa calda me l’ha semprefatta trovare». Ecco: a partire dal marzodel 2004 Manuela Marrone in Bossi nonsolo ha gestito la malattia di Umberto,ma in qualche modo ha anche riempitoil vuoto di leadership e d’immagine del-la Lega; ed è plausibile che in futuro ab-bia voce sulla successione, magari in fa-miglia.

Insomma: il movimento più maschi-

za, per non farlo sfigurare. È lei, in fon-do, presidentessa del comitato femmi-nile della Croce rossa, a testimoniarecon la maggiore intensità il modelloeroico e sacrificale delle mogli del pote-re. Ombre devote, appendici invisibili espesso sofferenti.

In un duro viaggio in SudamericaCarla perse otto chili; e più tardi, am-messa al ricevimento per la visita di Eli-sabetta II, fu sul punto di svenire: «Don-na Carla pareva evanescente», l’ha de-scritta Flora Antonioni. «L’abito di mer-letto azzurro vestiva una figurina diafa-na, le mani avevano una magrezza chedava, da sola, il senso della sua fatica».Non di rado, oltretutto, Gronchi la feri-va con le sue distrazioni sentimentali.Né allora si poteva pensare che su quel-lo scivoloso terreno Carla se la potessecavare come Anna Craxi quarant’annidopo: «La moglie di un politico non puòpermettersi il lusso di essere gelosa».

Al contrario del suo predecessore,Segni era un uomo molto fedele e anchepio. Ma a donna Laura l’autista del ma-rito, il leggendario e spericolato IsonzoCrescimbeni, non rivelava neanche l’i-tinerario per giungere da casa al Colle.Dolce e gentile, lei era anche una dellepiù ricche proprietarie terriere dellaSardegna, cui per giunta la riformaagraria firmata dal marito aveva sot-tratto centinaia di ettari. Suonava il pia-no, offriva il tè, si occupava dei figli e deinipoti. Fu definita «l’angelo del Quiri-nale», ma a Palazzo non saliva quasimai e per gli italiani restò un’altra pre-senza impercettibile.

Curioso paradosso: nel paese del fa-milismo lo sfondo coniugale era comerimosso. O peggio. Nel dicembre del1965 Fanfani ebbe i suoi problemi poli-tici con la sua pur amatissima Bianca-

IDA E LUIGI“Non è bello che ti mostri così

turbata”, le disse lui una volta

che lei si era commossa

ospitando i mutilatini nella tenuta

presidenziale di Castel Porziano

IDAEINAUDINata contessa

Pellegrini,

donna Ida

accettò con

rassegnazione

la “gabbia

dorata”

del Quirinale

dedicandosi

soprattutto

alle opere

benefiche

VITTORIALEONEBella, giovane

elegante

e molto

apprezzata

all’estero,

portò

al Quirinale

un nuovo stile

femminile

Più giovane

del coniuge

di vent’anni

CARLAGRONCHIPresidentessa

del comitato

femminile

della Croce

Rossa italiana

Alta e fragile,

è rimasta

il modello

della moglie

invisibile

e spesso

sofferente

LAURASEGNIProprietaria

terriera

in Sardegna,

suonava

il piano

e si occupava

di figli e nipoti

Fu chiamata

“l’angelo

del Quirinale”

ma a Palazzo

non saliva mai

DIETRO LO SCHERMO DELLA DISCREZIONEIl ritratto di Livia Andreotti, consorte di Giulio, fa parte del

progetto “Le Donne della Repubblica” e sarà in mostra con gli

altri alla Reggia di Caserta. La fotografia è di Francesca Cambi

Tutte le first lady d’Italia,

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 5 MARZO 2006

CARLA E SANDROAlla domenica lui scendeva

dal Quirinale e andava a trovarla

nell’appartamento vicino

alla Fontana di Trevi che lei

non aveva mai voluto lasciare

FLAVIA E ROMANOLa loro coppia si è formata

sui banchi dell’università. Marito

e moglie hanno scritto di recente

un libro a quattro mani

dal titolo significativo: “Insieme”

VERONICA E SILVIO“Vinca il migliore”, ha detto

la sposa del capo del governo

riferendosi alle elezioni

del 9 aprile, confermando così

la sua fama di donna enigmatica

FRANCA E CARLO AZEGLIOIl capo dello Stato

accoglie sempre con il sorriso

le sortite fuori programma

e soprattutto fuori

protocollo della moglie

IN MOSTRAClio, moglie di Giorgio

Napolitano, e, a destra,

Maria Pia Fanfani.

Questi ritratti, opera

della fotografa Francesca

Cambi, sono tra quelli

in mostra dall’8 marzo

alla Reggia di Caserta

Carla Pertinie “Peppa” Cossigalontane dal Colle

Si parla tanto di donne questo anno. Le donne so-no di nuovo nelle piazze, nelle leggi e nella politi-ca, per cui se ne parla sulle prime pagine dei gior-

nali. I titoli raccontano di quote rosa, odiose ma neces-sarie per molte, di classifiche con l’Italia sempre ultimanelle graduatorie dei paesi europei sulle presenze inParlamento (il 52% dell’elettorato produce il 10,8%delle parlamentari). Ottimi e abbondanti invece i rap-porti tra la politica e le donne altrove. La conservatriceAngela Merkel é diventata cancelliere in Germania edè il solo premier donna in carica in Europa. Sono gui-dati da donne i governi della Nuova Zelanda, del Ban-gladesh, del Mozambico, e sono capi di Stato Gloria Ar-royo eletta nelle Filippine, Tarja Halonen presidentedella repubblica finlandese, l’irlandese Mary McAlee-se, la lettone Vaira Vike-Freiberga e Ellen Johnson Sir-leaf, prima capo di Stato africana.

In Italia invece del pubblico pare sia il privato a pre-valere, anche se le first-lady appaiono sempre più ne-cessarie alla politica e consone ai tempi. Così le pre-senta la mostra fotografica Le donne della Repubblica,che si apre l’8 marzo alla Reggia di Caserta, e che rac-conta la vita di dieci donne che non fanno politica mache con la politica convivono. Fotografate nella loro

case e intervistate si raccontano Livia Andreotti — chedelinea la vita di una moglie del secolo scorso, gli studid’archeologia, la guerra, il primo voto, la discrezione aschermo totale — Anna Maria De Mita, Maria Pia Fan-fani, Eugenia Goria, Clio Napolitano, Carla Pertini, chemai mise piede al Quirinale, Flavia Prodi, che a modosuo è la più impegnata delle mogli dei premier, e anco-ra Giulia Violante e Linda D’Alema. E seguiranno —molto attese dalla curatrice Paola Severini — le inter-viste a Vittoria Leone (l’unica insieme alla signoraCiampi ad aver avuto l’appellativo di “Donna”) e a Ve-ronica Lario.

Le “first ladies” fotografate da Francesca Cambi so-no donne di cui si sa abbastanza poco: non rilascianointerviste, non vanno in tv, lavorano, allevano figli, sidedicano allo studio, ai salotti, all’impegno civile. Percui mentre nelle interviste raccontano qualcosa dellaloro vita privata — e anche dell’amore e dei compro-messi di tanti lunghi matrimoni — nelle foto compaio-no circondate di libri o di magnifici quadri. Questo pro-getto, curato da Paola Severini e Pino Nazio (e pensatoper girare l’Italia a tappe) è destinato agli archivi dell’I-stituto Luce. Ma esce anche un libro d’interviste (adaprile per Baldini e Castoldi Dalai: 320 pagine, 16 euro).

La Reggia di Caserta per le mogli eccellentiUna mostra fotografica, dieci interviste e un libro: è l’8 marzo delle “Donne della Repubblica”

CARLOTTA MISMETTI CAPUA

rosa che aveva invitato a casa Giorgio LaPira e la giornalista del BorgheseGiannaPreda. Questa ne ricavò una clamorosae compromettente intervista a due vocie il ministro degli Esteri dovette dimet-tersi deplorando, in un indimenticabi-le comunicato, «l’improvvida iniziativadi un familiare». Fu quella una lezioneper tutte le altre: stare al loro posto, a ca-sa; la politica restava un campo ma-schile.

Eppure, con donna Vittoria Leone, laRepubblica ebbe forse per la prima vol-ta una first lady. Lei era davvero moltobella, giovane, elegante e apprezzataall’estero. I tempi sembravano maturiper un nuovo stile femminile. Non cheGiovanni Leone, di vent’anni più anzia-no, si potesse considerare un uomo co-sì disponibile alle suggestioni della pa-rità: «Per me», gli scappavano frasi diquesto tipo, «le donne sono la cosa piùbella che ci sia in circolazione». E a que-sto proposito, giusto per segnalare lemodificazioni del costume, vale la penadi accostare la tenera e goffa sentenzaleoniana all’allegra superiorità con cuiDonatella Zingone Dini, emblema eprototipo delle super-mogli anni No-vanta, definì pubblicamente suo mari-to Lamberto, allora premier: «Il megliofico del bigoncio».

Ma alla metà degli anni Settanta, evi-dentemente, quegli stessi tempi cheparevano evolversi si erano in realtà an-che drammaticamente incanagliti: econtro Vittoria, che davvero nulla di ri-provevole aveva fatto nella sua vita, siscatenò una velenosa e ingiusta seque-la di calunnie e maldicenze a mezzostampa. Fino all’abbandono e al ritiro avita privata di Leone, accolto come unaautentica liberazione.

L’Italia sembrava dunque destinata a

restare in bilico tra infelici Penelopi eancora più immaginarie Lady Mac-beth. La pura funzione accessoria eraentrata in crisi, ma all’orizzonte nullas’intravedeva che potesse sostituirla. Inquesto contesto si colloca la svolta de-cisionista di Carla Voltolina in Pertini,

la sua autonoma e perfino imperiosaauto-sottrazione. Era lei, per la primavolta, a chiamarsi fuori promettendo almarito che mai e poi mai si sarebbe fat-ta vedere al Quirinale; tanto meno, vol-le specificare, «bardata come una Ma-donna». Pertini accettò: non poteva al-

trimenti. Con il che questa donna indi-pendente che in gioventù era stata par-tigiana, aveva un carattere generoso,quasi spavaldo, e amava moltissimo ilsuo lavoro di psicologa, si tenne i suoiscialli, le sue salopette e i suoi zoccoli; ein buona sostanza continuò a fare tran-quillamente la sua vita, così deponen-do una pietra miliare sulla strada che dilì a poco avrebbero percorso, sia puretra mille contraddizioni, le prossime edimminenti first lady. In altre parole:senza quel potente rifiuto — così diver-so, ma al tempo stesso così uguale aquello di “Peppa” Sigurani Cossiga, fi-gura destinata ad essere conosciuta inun’unica fotografia presa con il teleo-biettivo, mentre faceva la spesa — l’a-nonimato femminile all’italiana sareb-be continuato chissà quanto.

Poi, sì, certo: tutto comincia a corre-re e diventa più complesso. Entra in cri-si il patriarcato, una cosetta da nulla. Sierodono i confini tra sfera pubblica eprivata. E le vie delle mogli s’incrocia-no, si biforcano, talvolta si disperdonopure, nel grande disordine, ma semprea partire dalle scelte individuali. Ci so-no i baci fotografici a Capalbio della se-natrice Aureliana Alberici in Occhetto ela crostata di Maddalena Letta; c’è Lin-da D’Alema, ottima archivista che i sen-si di colpa del marito-presidente pro-clamano «vedova bianca», e c’è FlaviaProdi che all’inizio dice «io non esisto»,ma poi finisce in tv da Fazio. C’è LellaBertinotti, «la mia politologa preferita»,e c’è Daniela Fini che fa il tifo e va al po-ligono a sparare. C’è Azzurra che parto-risce e c’è la Serafini che non molla. C’èMarina Ripa di Meana. E così sia: «Vin-ca il migliore», come dice Veronica, chepoi si chiama Miriam, ma per chi le vuolbene è sempre stata Lella.

FRANCACIAMPIFirst lady

molto amata

dagli italiani,

donna Franca

è più volte

intervenuta

su temi

sociali

e culturali

Quasi sempre

accanto

al marito

FLAVIAPRODICattolica,

docente

universitaria,

presenza

discreta

a fianco

del marito,

non si sottrae

agli inviti in tv

per sostenerlo

in campagna

elettorale

CARLAPERTINIEx partigiana,

donna schiva

e riservata

rifiutò

di trasferirsi

al Quirinale

con il marito

Continuò

a fare la sua

vita e il suo

amato lavoro

di psicologa

VERONICABERLUSCONIEx attrice

di teatro,

Veronica

ha rinunciato

al suo ruolo

di first lady

prendendo

anche

posizioni

dissonanti

rispetto

al coniuge

da consorti a primedonne

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ro avrebbe potuto suonare a Londranel 1975, e alcuni avevano già fatto illoro tempo allora. Ci siamo di nuovoinsabbiati, a quanto pare. Quello chemi fa nostalgia di quell’epoca è la ful-minea esplosione di cose nuove —nuovi abiti, nuovi scrittori, nuoveidee e naturalmente nuovi gruppimusicali. I Clash, i Sex Pistols, i Jam,Elvis Costello, Ian Dury, i Buzz-cocks e così via diventarono tut-ti famosi nel giro di dodici mesi,e sono continuati a rimanere fa-mosi per i successivi trent’anni.Non è esagerato dire che in queigiorni qualcosa di nuovo, di buo-no, di importante e di divertenteaccadeva praticamente ogni set-timana. Ecco di cosa ho nostalgia».

Quali definiresti i momenti piùgrandi dell’epoca punk?

«La collisione del punk con il Giu-bileo d’Argento della regina nel 1977fu un momento mica male. La Bbcri-toccò le vendite di God Save theQueen dei Sex Pistols, in quel giugno,perché non fosse in testa all’hit pa-rade in coincidenza col Giubileo.Altri grandi momenti: il primo al-bum dei Clash, sebbene il mioalbum preferito dei Clash fuLondon calling, uscito inrealtà quando i grandi gior-ni del punk erano passati. Ei concerti Rock Against Ra-cism. Ma non ci furono tan-ti singoli grandi momenti.Fu un unico, lungo, grandemomento».

E i momenti peggiori?«La morte di Sid e Nancy fu

una faccenda sordida e depri-mente. Sid era sempre sem-brato un tipo divertente, unaparodia ironica della percezio-ne che l’establishment avevadel punk — e di colpo capim-mo che invece faceva sul serio,era stupido e incasinato quan-to sembrava. E un altro momen-to davvero basso furono i flirt conle svastiche, sempre imbarazzantiper quelli tra noi pronti a difenderequalsiasi cosa collegata al punk».

Ma a te la musica punk piace an-cora?

«Danny Baker, che fondò il primogiornale punk e diventò un famosodisc-jockey, ha detto recentemente:“L’era punk è stata la più bella dellamia vita, e sono grato per ogni mo-mento che ho vissuto di quei giorni.Ma adesso potrei non sentire mai piùuna nota punk e non me ne freghe-rebbe niente”. Anch’io la penso unpo’ così. Qualche volta ascolto Lon-don calling, ma non credo che la mu-sica punk nel suo complesso abbiaresistito alla prova del tempo. A par-te la versione americana del punk,che suona ancora fantastica alle mieorecchie — Patti Smith, Television, iRamones. Forse perché aveva radiciin ogni sorta di cose, mentre in In-ghilterra il punto fondamentale delpunk era che il 1976 era l’anno zero».

Il look punk, però, si vede ancora ingiro: qui a Londra basta fare una pas-seggiata a Camden la sera e sembra diessere ancora a fine anni Settanta.

«Ma quella è una moda da turisti,niente di più. Un mucchio di giovanieuropei in maschera, con i capelli co-lorati e l’orecchino nel naso. Non si-gnifica niente».

Cosa significa, invece, il fenome-no punk trent’anni dopo?

«Penso che abbia cambiato certecose per sempre. Per cominciare,l’Inghilterra diventò meno affettata,meno facilmente scioccabile: quan-do i Sex Pistols dissero oscenità intivù, nel 1976, fu uno scandalo nazio-nale da prima pagina, ed è difficileimmaginarlo oggi. E penso che da al-lora non sia più tramontata l’idea chechiunque può fondare una band, o

un gior-nale, o pub-blicare un libro, oincidere un album. La nuovatecnologia ci ha aiutati in un cer-to modo a preservare lo spirito punk,perché ora è molto più facile farequalsiasi cosa. Ma la mia generazio-ne, a quei tempi, imparò dal punkuna cosa fondamentale: che era pos-sibile fare di più di quanto avessimomai immaginato».

Umberto Eco scrive nel Nome del-

la Rosache alla fine, quando una co-sa scompare, di essa rimane soltan-to il nome. E la parola “punk”, in ef-fetti, è rimasta, anche se il suo signi-ficato varia nel tempo (alla letteravuol dire “persona insignificante”,ma il senso più usato, nello slang in-glese, è “teppista”). A te che effettofa, ora, quando la senti?

«Mi va bene che sia usata a pro-posito di qualsiasi cosa, tranne cheper la musica. Mi piacerebbe legge-re un romanzo punk, vedere un filmpunk, guardare qualcosa di punk ateatro. Ma musica punk significasempre quegli stessi tre accordi,quei pantaloni di pelle nera sado-maso, quegli sputi. Lasciamo per-dere, quella cosa lì è finita».

Trent’anni fa, mentre il rock entra nei salotti borghesi, una manciatadi ruvide band inglesi inventa un nuovo modo di suonare: crudo, trasgressivoe carico di energia. Dei Sex Pistols, dei Clash e dei loro seguaci ci parla

un testimone d’eccezione, l’autore di “Alta fedeltà”: “Ero al primo anno di università, volevogioia, velocità e il massimo del volume. Il punk fu una fantastica educazione culturale”

“Comprai ognidisco su cui potessimettere le maniStava succedendoqualcosae dovevi scegliereda che parte stare”

LONDRA

«Il mio negozio si chiamaChampionship Vynil.Vendo dischi di musicapunk». E non solo di

quella: anche di blues, soul, R&B,qualcosina delle Antille, alcuni popanni Sessanta, «tutto per il serio col-lezionista di dischi», come dice lascritta sulla vetrina. Alta fedeltà, il ro-manzo che rese celebre Nick Hornby,comincia praticamente così, se siesclude il prologo con la classificadelle “fregature” sentimentali delprotagonista. Una storia sostanzial-mente autobiografica, dal punto divista amoroso e forse ancora di più daquello musicale. Perché il punk, al-l’autore, piaceva parecchio; e gli pia-ce ancora, in un certo senso, raccon-ta Hornby a trent’anni di distanza.

Il punk e i punk, Nick: come ricor-di la nascita di questo fenomenomusicale, sociale, culturale, la na-scita di un’ennesima “moda” ingle-se che poi conquistò il mondo?

«Il 1976 era l’anno in cui cominciaia fare l’università, e la CambridgeUniversity, di tutti i posti dell’Inghil-terra, era possibilmente il meno ap-propriato per fare conoscenza con ilpunk. Per che cosa potevamo esserearrabbiati, lì a Cambridge? D’altrocanto, però, avevo diciannove anni,non avevo niente da fare tutto il gior-no e l’autunno del 1976 sembravatremendamente eccitante. Compraiogni disco di punk su cui potessi met-tere le mani, e non ce n’erano poi co-sì tanti nei primi due o tre mesi. All’e-poca esistevano forse quaranta o cin-quanta punk in tutta l’Inghilterra, maera assolutamente chiaro che stavasuccedendo qualcosa, e che doveviscegliere da che parte stare. Poteviscegliere la vecchia guardia, le gran-di, noiose, ripetitive rock band comegli Stones o i Led Zeppelin o RodStewart, o potevi scegliere questi tipiche in verità non sapevano suonarema che avevano una straordinariaenergia e attitudine. Puoi capire dal-la mia scelta di aggettivi da che partemi schierai io».

Cosa aveva di così straordinario,il punk?

«La sua grandezza è che, nei diecianni precedenti, la musica rock ave-va cominciato a essere presa seria-mente, in modo piuttosto pomposo,e che il punk distrusse questa pom-

posa serietà. C’era un terribile criticomusicale sul Sunday Times, peresempio, che amava gli Yes e i PinkFloyd, sostenendo che quella eramusica autentica, seria e complessacome la musica classica. E personecome lui stavano uccidendo il rock,pensavo io, perché cercava di ven-derlo ai miei genitori e a tutti i tipi digente che non avrebbe dovuto esse-re in grado di capirlo o di apprezzar-lo. E a questo punto, improvvisa-mente, arrivano dei tizi che conosco-no solo tre accordi, che sono crudi esemplici quanto lo si può essere, equello per me era, e rimane, il punto.Io non cercavo una moderna musicaclassica, o la complessità, o la serietà.Io volevo gioia, velocità, e il massimodel volume. La musica punk, a ripen-sarci ora, mi fece ragionare molto, suun sacco di cose. Fu una fantasticaeducazione culturale».

Com’era Londra, in quegli anni?Provi nostalgia di qualcosa?

«L’ultima rivista musicale che hoin bagno, datata febbraio 2006, con-tiene pubblicità per concerti diSparks, Joan Baez, Judy Collins, BonJovi, Bonnie Raitt, gli Eagles e i Santa-na, per citarne alcuni. Ognuno di lo-

42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 5 MARZO 2006

PunkPunkPunk“Io, Nick Hornby, ve lo racconto”ENRICO FRANCESCHINI

le pietre miliari

Never Mind the BollocksPubblicato nel 1977 (ma

il singolo “Anarchy in the UK”

era uscito l’anno precedente)

è l’unico album registrato

in studio dai Sex Pistols.

Ma soprattutto il disco che

segna la nascita del punk

The ClashL’album di esordio del gruppo

omonimo, guidato da Joe

Strummer, esce in due diverse

versioni: inglese nel ’77

e americana nel ’79. Si delinea,

sin dall’inizio, la connotazione

politica del punk della band

The RamonesEsce il 23 aprile ’76 ed è il disco

con cui i Ramones si affermano

nel panorama statunitense.

La rivista americana “Rolling

Stone” lo ha collocato al

33esimo posto nella classifica

dei migliori album di tutti i tempi

Nick Hornby

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L’EVOLUZIONENell’infografica di queste pagine,

la galassia punk: dalle origini

alla diramazione nelle due scuole

musicali, quella inglese e quella

americana. Oggi le due tendenze

si sono ricongiunte nel neo punk

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 5 MARZO 2006

LA STORIA

LA NASCITA

È il 1976 quando i Sex

Pistols pubblicano il loro

primo singolo “Anarchy

in the UK”. L’anno dopo

arriva il grande successo

“La mia generazioneimparò in quegli anniuna cosa cruciale:era possibile fare piùdi quanto avessimomai immaginato”

LA MORTE DI VICIOUS

Bassista dei Sex Pistols,

accusato dell’omicidio

della fidanzata Nancy,

Sid Vicious si uccide

con l’eroina il 2 febbraio ’79

L’ASCESA DEI NIRVANA

Con il gruppo di Kurt

Cobain, anche lui morto

suicida nel 1994, si afferma

il “grunge”, derivazione

del punk

IL RITORNO

Il genere punk è rinato

negli ultimi anni

grazie a gruppi

come i Green Day,

gli Offspring e i Blink 182

SEX PISTOLSLa band fu attiva dal ’75 al ‘78

RAMONESSono considerati fra i fondatori del genere

GREEN DAYCaliforniani, sono gli eredi del punk

CLASHPartiti dal punk, hanno

spaziato anche in altri generi

PATTI SMITHIl suo rock ruvido è stato

spesso accomunato al punk

Se non fosse stato per il punk, che trent’anni fa arrivavarumorosamente sulle scene, il rock sarebbe un genereormai morto e defunto, una reliquia del passato. Se non

fosse stato per il punk, con le sue spille da balia, i capelli co-lorati, le magliette strappate, nessuno si sarebbe accorto, nelpieno dell’esplosione della disco music, che esisteva ancorauna musica ribelle. Se non fosse stato per il punk il vecchioproverbio dei Rolling Stones, «che altro può fare un ragazzose non suonare in una rock’n’roll band», sarebbe diventatopoco più di un epitaffio. Brutti, sporchi, cattivi ma straordi-nariamente forti, energici, appassionati, i punk sono statil’ultima generazione dei romantici eroi del rock, privi di buo-ne maniere, di abilità musicali, di prospettive per il futuro(«No future» era il loro programmatico manifesto esisten-ziale), ma carichi di una clamorosa fiducia nella musica, nel-la sua capacità di cambiare la vita e il mondo.

Del resto il termine “punk” in inglese-americano designamateriale di qualità scadente ed è l’epiteto con il quale si indi-ca un giovane propenso ad attività criminale, mentre “punke”era già stato utilizzato da Shakespeare per prostituta o ancheper feccia. Associata alla musica la qualifica “punk” compareper la prima volta nei primi anni Settanta e serve a definire unpugno di “garage band” come Sonics, Count Five, Standells,che si fecero notare per il loro approccio selvaggio, energico eminimale alla materia del rock’n’roll. Ma le radici musicali sipossono trovare nei Velvet Underground, negli MC5 e negliStooges, attivi almeno un decennio prima, nonché nell’attitu-dine distruttiva e iconoclasta degli inglesi Who, e nel minima-lismo dei Modern Lovers di Jonathan Richman.

Quando le prime avvisaglie del punk scossero l’America eparallelamente l’Inghilterra per una affascinante comunanzadi intenti artistici, il mercato discografico viveva un momentodi intenso riflusso e il rock aveva perso la sua componente vi-tale e ribelle. Definitivamente archiviata l’epoca della contro-cultura hippie, la disco music si apprestava a conquistare conil suo innocuo invito al ballo ampie fasce di pubblico di tutte leetà. Il rock progressivo di band come Yes, Genesis e Emerson,Lake & Palmer aveva raggiunto il punto di non ritorno di un vir-tuosistico autocompiacimento e sembrava avere sacrificato lavia del rock per una ricerca formale più prossima alla musicacolta. La musica era lontana dai ragazzi, era immagine e indu-stria, rockstar miliardarie e lustrini, nulla a che vedere con la vi-ta vera, niente a che fare con il rock.

I ragazzi scesero nelle cantine, presero in braccio chitarrea basso costo, affollarono i pub e i locali, smisero di sentire lamusica dei loro fratelli e iniziarono a suonare. Era una musi-ca ruvida e sporca, sostenuta da piccolissimi giornali auto-prodotti, le fanzine. La prima e più celebre fu Who put thebomp, di Greg Shaw, seguita da Punk Magazine che pro-grammaticamente annunciava nel suo primo numero:«Mezzeseghe, attenzione! Troverete questo giornale noioso,offensivo, forse anche oltraggioso. E a noi va bene così. Stan-no nascendo le legioni con cui noi rocker marceremo prestoper seppellire le vostre pile di dischi di James Taylor, Cat Ste-vens, Grateful Dead e Moody Blues».

L’esplosione del punk, la sua definizione come genere, co-me stile di vita, come moda, avvenne in Inghilterra, nel 1976,quando Mark Perry fece uscire i primi numeri della fanzineSniffin’Glue, nacque un’etichetta indipendente come la Rou-gh Trade e si diffuse in tutto il territorio inglese una nuova ge-nerazione di band che suonavano deliberatamente male, ave-vano un atteggiamento rigorosamente nichilista e ribelle, pro-vocavano risse e incidenti nei club, si dipingevano i capelli concolori sgargianti, si conficcavano nelle guance spille da balia,vestivano magliette stracciate e pantaloni strappati. Da qui alsuccesso il passo fu breve: con l’accorta regia di MalcolmMcLaren, i Sex Pistols di Johnny Rotten e Sid Vicious bruciaro-no le tappe e divennero, con il loro primo e unico album, NeverMind the Bollocks, gli alfieri del punk in tutto il mondo. Dopo diloro arrivarono i Clash (che esordirono nel 1977 con l’omoni-mo The Clash), gli Stranglers (Rattus Norvegicus, 1977), i Dam-ned (Damned Damned Damned del 1977), Siouxie and TheBanshees (The Scream, 1978), che diedero inizio a una rivolu-zione sonora i cui effetti si ascoltano ancora oggi.

Fin dai suoi albori il punk si pone come movimento di nettarottura nei confronti del perbenismo musicale, insofferente aimeccanismi irregimentati della vita quotidiana e naturalmen-te refrattario alle politiche conservatrici, intriso di volta in vol-ta di atteggiamenti situazionisti, dadaisti e genericamenteanarchici. Il gusto della provocazione, l’oltraggio alla decenzapubblica, la ricerca di un’estetica scioccante nell’abbiglia-mento e nelle acconciature ottengono come risposta la ripro-vazione della società benpensante. Inizialmente respinto dal-le multinazionali discografiche, il punk adotta giocoforza l’eti-ca dell’autoproduzione e dell’autopromozione, creando unmercato svincolato dalle logiche dell’industria musicale.

Negli Stati Uniti la scena è assai eterogenea, come dimostral’affollata comunità avant-garde newyorkese tra il 1975 e il1977. Patti Smith, poetessa, erede punk della tradizione delGreenwich Village che fece grande Bob Dylan, esordisce conHorses (1975); mentre i Ramones, quartetto del Queens, rin-verdiscono i fasti delle garage band con un’iniezione di velo-cità e di rabbia testimoniata dal debutto omonimo nel 1977.Più astratti e dissonanti, gruppi come Television (MarqueeMoon, 1978) e Richard Hell and the Voidoids (Blank Genera-tion, 1977) optano per canzoni ritmicamente più strutturate.In California il punk raggiunge velocità parossistiche conGerms (GI, 1979) e Dead Kennedys (Fresh Fruit For Rotting Ve-getables, 1980) e si fa politico in contrapposizione al nascenteestablishment conservatore.

Esaurita la propulsione iniziale, il punk sembra seguire duestrade all’inizio degli anni Ottanta, quella del compromessocon suoni più accessibili (new wave) e quella della radicalizza-zione (hardcore punk). È il grunge, in America, con i Nirvana ei Pearl Jam a portare il punk nuovamente in auge, e a traghet-tarlo verso il nuovo millennio, con l’arrivo delle band neo-punkdei nostri giorni, come i Green Day e gli Offspring, punk nel-l’attitudine ma non nel suono, distante mille miglia dalla elet-trica ribellione della fine degli anni Settanta.

ERNESTO ASSANTE

L’urlo di rabbiadei senza futuro

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Nero, verde, al latteun alleatoda mattina a sera

i saporiProfumi in tazza

L’arbusto sempreverde - originario di Cina, Tibet e India del nord -dopo aver cambiato tre secoli fa le abitudini degli inglesi, ha datovita in tutto il mondo all’infuso più apprezzato dell’inverno.Beneficoe dall’apporto calorico nullo, oggi viene riscoperto per le sue infinitevarianti aromatiche e le indubbie virtù terapeutiche. Una teiera di EarlGrey riscalda perfino il pomeriggio più freddo, provare per credere

44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 5 MARZO 2006

«Ha ben piccole foglie / la pianta del tè», cantavaIvano Fossati simbolizzando il sofferto percor-so del viaggio interiore. Dalla pianta alla tazza,l’intera storia del tè è ricca di travagli coloniali einarrestabili successi: che si sorseggi un magi-co verdegiapponese o un vigoroso neroaffumi-

cato, ogni teiera racchiude un piccolo mondo di aromi complessi edevocativi. Ben lo sapeva il commerciante Thomas Twinings, quandonel 1706 — esattamente tre secoli fa — aprì il primo negozio intera-mente dedicato al tè in Europa, riconvertendo una delle più importan-ti coffee house cittadine, tanto in voga all’epoca, in pieno Strand, cuoredi Londra. Tre secoli dopo, gli eredi Twining sono ancora i fornitori uf-ficiali di casa reale.

A goderne, allora, erano soprat-tutto i reali e i ricchi: una confezio-ne costava quanto la paga settima-nale di un operaio: colpa di una su-per tassa imposta da Carlo II chegravava anche su caffè e cioccola-to. Ma l’irresistibile fascino dellenuove infusioni fu più forte deiprezzi folli. La diffusione fu tale dafare del tè — è così ancora oggi — labevanda più consumata nel mon-do dopo l’acqua.

Oltre oceano, le vicende legatealla Camellia Sinensis assunseroaltri significati. Nel 1767 il Parla-mento britannico impose alle co-lonie americane una tassa sul tè.La reazione fu immediata e furi-bonda: il Boston Tea Party, unabanda di uomini travestiti da pelli-rosse svuotò la stiva del “Dart-mouth” buttando a mare centi-naia di casse di tè. Gli inglesi chiu-sero il porto e invasero la città. Ful’inizio della guerra d’indipendenza e la fine del tè in America.

Potere di una pianta. Arbusto sempreverde, punteggiato di piccoliboccioli bianchi che sembrano roselline, originario di Cina, Tibet e In-dia del nord, il tè è capace di crescere ad altezze imprevedibili coloran-do di verde argento le prime falde dell’Himalaya o di lasciarsi model-lare in morbidi cespugli nei giardini giapponesi, inesausto nel regalar-ci da millenni fragranze, profumi e sostanze benemerite per la salute.Ma guai a fare di tutte le foglie un fascio…

Si fa presto a dire tè, come se tutte le tazze fossero uguali. Errore. Com-plice la nostra ignoranza genetica in materia, tendiamo a catalogare i tèsecondo poche, sommarie divisioni. Scuri e verdi, forti e leggeri, con osenza correzioni (latte, crema di latte, limone, rum per i più arditi). Inrealtà, da ognuna delle principali categorie si diramano infinite varian-ti, che arrivano a identificare quel determinato giardino, da cui arriva-no foglie particolarmente preziose e aromatiche, come i cru francesi oi nomi delle nostre migliori vigne. E come per i vini esistono uvaggi ecuvée, ogni maestro del tè può vantare dei blend originali e segreti.

Ma rispetto al vino, il tè ha un paio di vantaggi: non ingrassa — anzi,il tè verde, aumentando la termogenesi, aiuta a bruciare le calorie — esi può bere in qualsiasi ora del giorno, pur con un occhio alla teina, al-caloide in tutto sovrapponibile alla caffeina, e quindi discretamenteeccitante. Ci possiamo sbizzarrire, seguendo l’esempio degli inglesi —dall’English Breakfast all’Afternoon Tea, fino all’High Tea, ovvero il tècon stuzzichini del tardo pomeriggio assimilabile alla nostra happyhour — o inventandoci una crono-degustazione tutta nostra, senz’al-tri limiti della curiosità gourmand. Mai abbinato un “affumicato” conun boccone di taleggio? Provare per credere. Chiudete gli occhi e man-date a memoria l’antico proverbio che recita: «Meglio tre giorni senzacibo che uno senza tè». Saggio e dimagrante. Basta crederci.

LICIA GRANELLO

Tè verdeNon fermentato,

è considerato un verosupporto di lunga vita

Proprietà antiossidanti,diuretiche, antisettiche,

energetiche Vanta la capacità

di aumentare il metabolismo

Tè biancoDella provincia cinese

del Fujian, è trai più preziosi e ricercati

Si raccolgono i germogliprima che si schiudanoe si lasciano essiccare

Le foglie argentee dannoun infuso dorato,

profumato

English BreakfastIl tè nero di Ceylon ingentilisce

la forza di quello indiano. Miscela

dal carattere deciso, ideale

per la prima colazione

con alternanza di dolce e salato,

all’inglese. Può sostituire il caffè

LA RICETTA

Scegliere foglie di tè

di qualità e il più possibile fresche

(aspetto lucido)

Il bollitore dev’essere

in ferro smaltato, acciaio inox

o vetro da fuoco

Usare un’acqua leggera

Perfetta l’oligominerale non gasata

La temperatura può variare dai 70

gradi dei tè verdi ai 90 di quelli neri

Materiali per la teiera, da riscaldare

in anticipo,: porcellana, ceramica,

vetro, terracotta, argento, ghisa

giapponese

Tempi di infusione:

2’ per il té verde, 3 per il nero,

7 minuti per l’oolong

Le misceleEarl Grey

Uno dei classici profumati

da servire nel pomeriggio, fu

creato nel 1830 dall’inglese Earl

Grey. La base di tè neri cinesi

e indiani viene aromatizzata

con il bergamotto

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45DOMENICA 5 MARZO 2006

MILANOL’ARTE DI OFFRIRE IL THÉ

Via Melloni 35

Tel.02-715442

FIRENZELA VIA DEL TÈ

Piazza Ghiberti 22/23

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Dove comprare

In ItaliaEcco una serie di indirizzi dove gustare al meglio, e acquistare,

e diverse tipologie di tè puri e le miscele che arrivano nel nostro Paese

Se la «pianta di civiltà» (secondo ladefinizione di F. Braudel) par ex-cellencedell’area sinica è il riso, il tè

viene di sicuro buon secondo. Identifi-chiamo i cinesi come mangiatori di riso,bevitori di tè, e nemici del latte e dei lat-ticini. La prima è una generalizzazioneche non si applica a tutta l’estensionegeografica della Cina (in cui distinguia-mo invece una fascia del riso a sud e unafascia del grano a nord, con relativi con-sumi prevalenti), mentre la suppostaavversione al latte è una questione di-battuta (la querelle dei lactofili e dei lac-tofobi resa celebre dall’antropologoMarvin Harris) e smentita dal recenteaumento di consumo di latticini.

È invece innegabile che la pratica dibere il tè ha accomunato tutti i cinesi al-meno a partire dalla dinastia Tang(618-906 dopo Cristo). La stessa piantadel tè, Camellia Sinensis, è originariadel sud della Cina, un dato che, pur semesso in discussione sovente da unpunto di vista storico-botanico, costi-tuisce uno dei capisaldi della percezio-ne della “cinesità”. Il primo riferimen-to letterario certo a un uso voluttuariodella bevanda di tè compare nel San-guo zhi (Memorie dei tre regni) di ChenShou (233-297 dopo Cristo), e risale al270 dopo Cristo circa. Tutti i riferimen-ti contenuti in fonti precedenti sono fi-lologicamente poco affidabili, o riguar-dano un diverso consumo delle fogliedi tè (generalmente come vegetalecommestibile o come medicinale).

Solo a partire dalla pubblicazionedel Chajing (il Canone del tè), il più an-tico trattato sul tè al mondo, compostoda Lu Yu fra il 758 e il 760, la pratica dibere il tè è testimoniata in tutta la Cinae a tutti i livelli sociali. A questa diffu-sione ha contribuito non poco il bud-dismo Chan (Zen). I monaci zen usava-no infatti il tè come stimolante per re-stare vigili durante le pratiche medita-tive, e portavano sempre con sé l’oc-corrente per preparare la bevanda du-rante i loro peregrinaggi per il paese. Ildiscorso sul tè in Cina (e al mondo), co-mincia proprio col Chajing, e investeagricoltura e economia, ma anche let-teratura (soprattutto poesia), arti figu-rative e applicate (ceramiche, con l’in-venzione della teiera), pratiche quoti-diane e sociali (la casa da tè come luo-go d’intrattenimento e scambio intel-lettuale). Dalla dinastia Tang fino alladinastia Qing (1644-1911) vengonopubblicati più di cento trattati dedica-ti al tè in tutti i suoi aspetti, e una partedi essi si concentra addirittura sullascienza di far bollire l’acqua per il tè.

La storia del tè in Cina si può suddivi-dere, a seconda del metodo di prepara-zione prevalente, in tre fasi, coincidenticon diversi periodi storici: il tè bollito (di-nastia Tang), il tè frullato (dinastia Song960-1280) e il tè infuso (dalla dinastiaMing, 1368-1644, fino ai giorni nostri).Ciascuna di queste tre tecniche, che in al-cuni periodi sono presenti contempora-neamente, prevede utensili diversi edutilizza tè trattati in modo differente (ri-spettivamente: in pani, in polvere e in fo-glie). Il tè bollito consisteva in una zuppadi tè non filtrata, spesso aromatizzatacon altri ingredienti. Il tè frullato in unasospensione di polvere finissima di tè,ottenuta frullando la polvere in acquabollente con uno speciale frullino dibambù; da questa pratica ha avuto origi-ne il tè matchagiapponese. Il tè ottenutoper infusione è la pratica prevalente algiorno d’oggi, ove le foglie sono messe ininfusione o in un recipiente, dal qualepoi direttamente si beve (la tazza col co-perchio), o in una teiera.

Recita Lu Yu: «Tutte le creature viven-ti hanno bisogno di bere e di mangiare.Le circostanze nelle quali si beve hannomotivi profondi! Per placare la sete si be-ve acqua, per dare conforto alla melan-conia si beve vino, per scacciare il torpo-re e la sonnolenza si beve il tè».

La bevanda magicadei monaci zen

MARCO CERESA

Tè neroProdotto in India

e nei paesi africani ,ha sapore forte, ricco

di teina. Fermentazionee ossidazione

“bruciano” granparte delle sostanze

terapeutiche del tè verde

PressatoTè che ha subito

cottura, pressaturaed essiccazione, in forma di mattonelle, nidi, pallineIl più famoso, tè Pu'erh,

ha proprietà curativeIn Italia

si trova con il nomeTuncha

OolongDal cinese Wu Long

(Drago nero), includedue tipologie – Oolonge Bohea – fermentate in percentuali diverseSfumature di coloredifferenti (in Francia

li chiamano bleu-verts)e più corpo dei tè verdi

SenchaIl tè giapponese per eccellenza

(rigorosamente verde) viene

lavorato a vapore. I piccoli aghi

profumano di erba appena tagliata,

con un sapore intenso, fresco.

Infuso anche a freddo

CeylonLa maggior parte dei tè dello Sry

Lanka si distingue per aromaticità

e leggerezza, anche grazie

all’altitudine (oltre i 1200 m)

di quasi metà della produzione

Va gustato senza aggiunte

DarjeelingLo Champagne dei tè si coltiva nel

Darjeeling indiano esteso

sui primi contrafforti dell’Himalaya

I germogli, nati dopo l’inverno

e raccolti manualmente, danno

un aroma delicato ma persistente

Gli anni attribuiti al tè

dagli storici

5000

L’anno in cui il tè sbarcò

per la prima volta in Europa

1632

I quintali di tè prodotti

nel mondo ogni anno

30milioni

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Una modella strabiliante su stilettoManolo Blahnik 12 centimetri in-ciampa in uno scienziato la cui bel-lezza è da scovare nel pensiero. Il piùimpavido dei bookmaker non ciavrebbe scommesso, troppo diversi i

due. Quelli invece si giurano amore (al momento)eterno. È lo spot, che passa in questi giorni sulle tvamericane, di una nuova lava-asciugatrice dellaGeneral Electric, modello ad alte prestazioni tecno-logiche e design così sexy che ti viene voglia di met-terla in salotto.

Lei bella e lui intelligente, stereotipo vecchio e an-tipatico, ma va tradotto nel lin-guaggio della nuova genera-zione di elettrodomestici: nonpiù macchine funzionali e ba-sta, spesso così brutte che devinasconderle. Pezzi invece daesporre perché sono mobili,opere, arredi firmati. Mica sta-tuine, deliziose e inutili. Qui siparla di frigoriferi, lavatrici, la-vastoviglie, cucine che la vitanon la illudono con la bellezza,ma la semplificano e la descri-vono sapendo che cosa è cam-biato: le famiglie diventate disingle o allargate; gli spazi ri-dotti e il tempo contratto; laquotidianità fitta di incom-benze e impegni che vuole essere risarcita con og-getti compensatori, che facciano status e che peròsappiano fare le cose.

E dunque: il frigorifero che si scompone in cas-setti da sistemare liberamente perché posto non cen’è (Ariston). La spesa non si fa tutti i giorni, allora ilfrigo che conserva a lungo il cibo (Indesit) e non lospreca. Quello con temperature differenti per vini espumanti (Aeg) perché se sei single e non cucinimagari inviti amici a bere. Per i piatti da pizza la la-vastoviglie con cestello grande, ma anche quella perpentole tipo wok perché i gusti sono diversi, un’al-tra per soli due coperti da appendere o mettere nel-l’armadio (Rex) così non ingombra, e ancora quella

con porta trasparente perché è cool. Il forno meglioa parete come una tv al plasma (Smeg) e comunqueeasy cook, moderno mantra, chi ci sta più dietro aifornelli: vedi quello (Sangiorgio) che riconosce dalpeso il cibo e lo cucina come si deve.

Ma è forse nelle lavatrici che centrifuga lo spiritodel tempo: belle bellissime, linee retrò, anni Cin-quanta quando la casa era un focolare, ma anche av-veniristiche, spaziali, che ti fanno un bucato da lau-rea in ingegneria: contro i batteri e i germi perché nesiamo ossessionati, igieniche e antiallergiche perchéle malattie si evolvono pure loro, cicli delicati cheimitano il movimento delle mani per cachemire, la-vaggi speciali per piumini, giacche tecniche e perscarpe da ginnastica che ormai si mettono anche in

ufficio. Silenziose, tasto nottur-no, si torna tardi a casa. Ti invi-to per un buon bucato, a Parigiè trendy, attorno alla lavatriceserate come davanti al jubebox,lo stile di vita adesso è un altro.

Elettrodomestici, termome-tro sociale e culturale, propriocome lo furono quando irrup-pero sulla scena domesticacambiando ruoli umani ed eco-nomici. Negli Usa negli anniQuaranta più della metà dellagente aveva una lavatrice e unfrigorifero, e questo contò mol-to quando i soldati tornaronodalla Seconda guerra mondialee grazie alla tecnica che glielo

permise si sposarono producendo la boom genera-tion, la più consistente fetta di popolazione mai esi-stita. L’Italia nei Sessanta aprì la porta di casa, buon-giorno modernità.

Solo il premier russo Nikita Krusciov non ci cre-deva allora che una lavapiatti avrebbe cambiato gliequilibri del mondo. All’esibizione nazionale ame-ricana organizzata a Mosca nel luglio del ‘59 per farincontrare i due blocchi attraverso le arti e i mestie-ri, il vicepresidente Richard Nixon indicò al collegauna lavastoviglie per dire guarda come siamo bravi.Krusciov lo liquidò svelto: «Interessanti, ma inutiligadget». Che i piatti sporchi oggi si lavano in salot-to no, non l’aveva previsto.

le tendenzeForme mutanti

Sempre più intelligenti ma anche sempre più belliLa nuova generazione di elettrodomesticisi adegua alla rivoluzione in corso nelle famiglie,nell’organizzazione delle case, negli stili di vita urbanaEd ecco frigoriferi, lavapiatti, forni che incrocianograndi prestazioni tecnologiche e una linea accattivante

Vieni da me per il bucatola lavatrice è da salottoALESSANDRA RETICO

46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 5 MARZO 2006

Elettrodesign

Questi oggetti sonotornati termometro

socio-culturale, comequando irruppero

sulla scena domesticacambiando ruoli

economici e sociali

IN NOTTURNACestello grande

e più inclinato

dei modelli

classici per

l’Aqualtis, Ariston

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soli 4 tasti

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ALTE TEMPERATUREManiglia importante e apertura a bandiera per il forno

da incasso Bosch. Cottura multifunzione. 879 euro

FREDDO POLAREIl combinato

Sangiorgio

“Antilia” prolunga

la conservazione

del cibo

e le sue proprietà

nutritive

fino a 5 volte

di più

1.099 euro

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Nella nostra cultura dell’abitare, la cucina si è affer-mata come il locale forse più importante della casa;è l’elemento centrale che si relaziona con tutti gli al-

tri ambienti. La “cucina di Francoforte” tanto cara agli ar-chitetti razionalisti negli anni Venti, insieme al concetto di“existenz minimum”, ha perso oggi il suo radicale signifi-cato, ma c’è ancora molto da ragionare in tal senso.

Per quanto riguarda la mia attività in questo campo, hocominciato a lavorare con la ditta Schiffini dalla metà de-gli anni Sessanta. Ero stato chiamato professionalmen-te, in quanto architetto conosciuto anche per il mio la-voro esposto dalla Triennale di Milano, dalla madre de-gli attuali proprietari dell’azienda; un’ottima personache non dimenticherò mai. Avevano già un’industria,erano partiti da quello che a quei tempi era il mito dellacucina americana, una cucina realizzata con molto me-tallo, tanti armadietti, l’attrezzatura disposta in vista sul-le pareti, con pochi elettrodomestici.

Disegnai per loro il primo mobiletto che aveva una fa-scia di plastica con sezione a “s”dove si poteva infilare undito e aprirlo, senza nessuna maniglia. Non ricordo diavere mai disegnato in studio, le cose nascevano parlan-do insieme nelle loro officine, vedendo le necessità delmercato e chiarendo insieme i concetti produttivi. Se ildesign italiano ha avuto una certa risonanza è dovutoproprio al fatto che è nato da un rapporto strettissimocon la produzione.

Ora mi sembra che non sia più così. Sono intervenutinel corso del tempo diversi fattori che hanno modificatoil progetto e la produzione: i nuovi materiali, le nuovetecnologie, lo sviluppo degli elettrodomestici, ma so-prattutto funzioni e concetti nuovi.

Devo dire che non ho quasi mai progettato dei singolielettrodomestici. In un progetto recente per due alber-ghi ristrutturati presso il Forte di Bard in Val D’Aosta, hoconsigliato di utilizzare delle semplici cucine industria-li, senza troppi abbellimenti e sofisticazioni; ma proget-tare una cucina domestica è un’altra cosa.

Come concetto preferisco che l’elettrodomestico ri-manga senza anta di copertura, che si veda, perché le mac-chine sono macchine; sarebbe come mettere un bel tessu-to costoso e raffinato sopra un’automobile, perché così èmolto più elegante. Probabilmente se dovessi progettareoggi un elettrodomestico non farei un progetto di “styling”,seguendo le attuali tendenze; ma in questo momento so-no più concentrato verso una nuova idea di cucina.

Un concetto che abbiamo sviluppato insieme con Schif-fini da qualche anno è stato quello di passare da un tradi-zionale armadietto con le antine basse, a basi più alte congrandissimi cassettoni scorrevoli ed estraibili, che non ticostringono a piegarti. È un concetto molto semplice cheha avuto molto successo, diventando quasi di tendenza.

In questo periodo sento la richiesta, da parte di chiun-que abiti regolarmente una cucina, di mobili piùprofondi dove ci sia più spazio per maneggiare e riporrei vari utensili senza dovere spostarsi in continuazione.Io sarei dell’idea di avere delle cucine più aperte, congrandi e profonde mensole in alto e carrelli in basso: èquesta probabilmente la direzione verso la quale cimuoveremo in futuro.

Bisogna fare in modo che tutto sia infinitamente co-modo e accessibile. Gli oggetti pensili in vista, in generesono belli da vedere. Per la semplicità e la bellezza del-l’ambiente cucina conta molto non seguire una tecnolo-gia esasperata, il miraggio di una perfezione assoluta chein realtà non esiste. Io ho una certa avversione per le cu-cine totalmente “meccaniche”, non mi interessano. Sa-rebbe giusto ridurre tutto al minimo e utilizzare anchevecchi mobili, dei trumeau ad esempio, per rendere lacucina più umana.

Le macchine meglio nudenon copritele con sportelli

Il designer Magistretti e l’evoluzione della cucina

VICO MAGISTRETTI

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47DOMENICA 5 MARZO 2006

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48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 5 MARZO 2006

l’incontroMaestri del quiz

Chi scopre una nuova spe-cie di farfalle ha diritto adarle il nome, ma l’Ameri-ca prende nome da Ve-spucci e non da Colombo.Nel caso del sudoku, il ge-

niale rompicapo che da un anno appa-re sui giornali di tutto il mondo, chi l’hainventato non gli ha dato il nome, e chigli ha dato il nome non lo ha portato alsuccesso. Nella sua versione standard ilsudoku è una griglia quadrata di novecaselle per nove, divisa in nove settori.Tenuto conto di alcuni numeri giàstampati nella griglia, il solutore deveriempirla in modo che in ogni riga, inogni colonna e in ogni settore compaia-no tutti i numeri da uno a nove, senza ri-petizioni. Un bel puzzle, come in ingle-se si chiamano tutti i rompicapo (dalcruciverba ai quiz matematici, fino algioco delle tessere che in italiano detie-ne l’esclusiva del nome di puzzle).

È un rompicapo la stessa vicenda delsudoku. Sembra immaginata dal ro-manziere e grande appassionato di gio-chi Georges Perec: coinvolge la storiadella matematica, giornali ed enigmistidi quattro continenti ma ha la sua scenaculminante quando un magistratoneozelandese in pensione, già appas-sionato di cruciverba a trabocchetto(come quelli appunto di Perec), di crit-tologia militare e di programmazione dicomputer entra in una libreria a Tokyo.Ama i libri, non conosce il giapponese,acquista l’unico libro che contiene po-chi ideogrammi e molti numeri: per ilsudoku, praticamente, era fatta.

Questo notevole personaggio si chia-ma Wayne Gould, e sta per arrivare inItalia in occasione del primo campio-nato mondiale di Sudoku (che si terrà aLucca dal 10 al 12 marzo) e per promuo-vere i suoi libri (tutti pubblicati da Fan-dango Libri, compreso l’ultimo: Lagrande sfida del Fandango Sudoku,pagg. 150, 7 euro): «Sono nato in NuovaZelanda, nel 1945. Ho studiato legge, hofatto il tirocinio di avvocato, ho pratica-

portare il mio programma a un soddi-sfacente livello di perfezione. Però cel’ho fatta, e ancora oggi il mio program-ma è il più affidabile di tutti». Ma nonc’è differenza tra un sudoku preparatoda un autore e uno composto da uncomputer? Il punto è molto controver-so fra gli esperti, ma l’opinione di Gouldè netta: «No, non c’è nessuna differen-za. La casa giapponese Nikoli producesudoku fatti “a mano” di alta qualità.Ma quando si afferma che i sudoku fat-ti a mano sono migliori di quelli fatti alcomputer è solo per ragioni di marke-ting. Casomai la differenza è che con unsudoku composto da un computerpuoi essere davvero certo che soddisfigli standard di qualità. Per un periodola Pepsi Cola aveva organizzato la fa-mosa Pepsi challenge, una sfida al con-sumatore per dimostrare che la Pepsiera meglio della Coca Cola. Io ho lan-ciato una Pepsi challenge sul sudoku:dare a dieci solutori dieci sudoku miei edieci sudoku artigianali, e vedere seerano in grado di distinguere quelli fat-ti al computer. Sono sicuro che sia im-possibile notare differenze». Qualcunoha mai raccolto la sfida? «No nessuno».

Quando il sudoku è arrivato in Italia,autori e solutori hanno discusso su su-

to in uno studio di Matamata, in NuovaZelanda, per tredici anni. Nel 1982 misono trasferito ad Hong Kong, dove hofatto il magistrato, fino a diventare capodel distretto giudiziario nel 1993. Hosmesso di celebrare processi a cinquan-tun anni, nel 1997, subito prima del ri-torno di Hong Kong alla sovranità cine-se. Da quel momento, beatamente di-soccupato, mi sono messo a fare quelche mi piaceva: fra l’altro a inventareprogrammi per computer, per mio di-vertimento ma a volte anche con qual-che profitto economico».

Essendo sposato con una linguistache insegna in un’università america-na, nel New Hampshire, e avendo unafiglia che lavora in televisione a Londrae un figlio che progetta e gestisce sitiInternet in Nuova Zelanda, WayneGould non passa molto tempo nellasua casa di Hong Kong. È un uomo for-tunato: «Per le vacanze abbiamo unacasa in Thailandia: il 26 dicembre del2004 siamo partiti di lì cinque ore pri-ma dello tsunami».

È sempre stato un appassionato digiochi? «Giochi e rompicapo mi sonosempre piaciuti. In particolare la va-riante inglese e criptica del cruciverba.Da studente ho composto qualche cru-civerba all’inglese, e me lo hanno an-che pagato». Qui bisogna sapere che ilcruciverba in Inghilterra non è maidavvero attecchito finché un enigmistache avrebbe sintomaticamente sceltolo pseudonimo di Torquemada non hainventato le cryptic clue, definizionicriptiche, a trabocchetto, che in italia-no non usano molto e di cui l’esempiopreclaro resta: “Un’importante città inCecoslovacchia”, soluzione Oslo (poi-ché Oslo si legge nella parola CecO-SLOvacchia). Un esempio proprio diGeorges Perec è: “È sempre tra due fuo-chi”. Soluzione: orange (il giallo dei se-mafori: le luci dei semafori in francesesi chiamano infatti “fuochi”). «Amomolto», riprende Gould, «anche la crit-tologia, più come rompicapo che comearte militare».

Queste propensioni enigmistiche e ildettaglio sulla crittologia servono perspiegare bene cosa è successo in quellalibreria: «Potevo acquistare solo quel li-bro, non so il giapponese: e così ho vi-sto e risolto il mio primo sudoku».Gould non poteva leggere le didascaliegiapponesi con la spiegazione del gio-co, e quindi per risolvere quel primo su-doku ha dovuto indovinare, prima del-la soluzione, le regole stesse del gioco.Non deve essere stato uno scherzo, maappunto l’inclinazione per l’enigmisti-ca, la crittoanalisi e la logica dei com-puter avrà aiutato, spingendo poiGould a porsi un altro problema.

Chi si diletta di informatica è semprein cerca di occasioni per far fare al com-puter qualcosa di nuovo, e il magistra-to in pensione sfidò se stesso a costrui-re un software per produrre sudoku. Cisono voluti sette anni di tentativi e ap-prossimazioni: «È stato molto difficile

doku “aperti” e “chiusi”. Un sudoku“aperto” ammette più di una soluzio-ne, e impone al solutore di tirare a in-dovinare senza poter procedere solosulla base della logica. La maggior par-te degli esperti considera legittimi soloi sudoku “chiusi”, che hanno una solasoluzione possibile. Anche in questocaso Gould non ha esitazioni: «Un su-doku deve avere una e una sola soluzio-ne. Il mio programma assicura che lasoluzione sia unica e che ogni puzzlepossa essere risolto facendo ricorso so-lo alla logica. Non devi mai tirare a in-dovinare, con i miei sudoku: se vuoi,però, puoi farlo».

Prima che Gould lo scoprisse, il su-doku aveva vivacchiato. Remota con-seguenza delle riflessioni che il mate-matico svizzero Eulero aveva condottonel Settecento sui “quadrati magici”(noti sin dall’antichità, in Cina), il su-doku prese una forma abbastanza si-mile all’attuale attorno al 1975 in unarivista di puzzle di New York, con il no-me di Number place. Restò una curio-sità per appassionati, e poi ricomparvein Giappone, dove Nobuhiko Kanamo-to, dell’editrice Nikoli, lo reinventò, loperfezionò, lo brevettò (ahilui, solo peril Giappone) e lo propose al pubblicodall’aprile del 1984 con il nome di Sûjiwa dokushin ni kagiru, che con un ra-gionevole sfrondamento di sillabe è poidiventato sudoku («i numeri devonocomparire una sola volta», concettoespresso con un ideogramma che si-gnifica “celibi”).

Cosa ci ha messo Gould? L’idea difar comporre i sudoku dal computer,idea che definisce “pionieristica”(malgrado tutti gli stereotipi sui giap-ponesi, a Tokyo non l’avevano ancoraavuta): «Con il metodo artigianale nonc’era modo di fare avere al sudoku ladiffusione che merita». Messo a puntoil software Gould è andato a Londra,alla sede del Times. Era l’autunno del2004. La leggenda dice che a Gould fuconcesso un minuto per spiegare il su-doku, e che nel giro di mezza giornataricevette un’e-mail con la sentenzadel giornale: incominciamo la pubbli-cazione fra due settimane. «A decide-re li ha aiutati il fatto che io fornisco isudoku gratis, come conviene a me, aigiornali e ai lettori: a tutti». Gratis? «Sì,gratis. I soldi li faccio vendendo il mioprogramma e con i diritti d’autore deimiei libri».

Un neozelandese scopre in Giappo-ne un gioco di origini americane e lopropone a un quotidiano inglese.L’imprinting globale è chiaro. Coeren-temente il sudoku ha successo sul Ti-mes, ha successo sugli altri giornali in-glesi che lo copiano, ha successo negliStati Uniti e in tutta Europa, e con la suadiffusione stimola i riflessi tipici diun’etologia molto standard: i solutoriche si appassionano, i modaioli che sientusiasmano, gli intellettuali che siincuriosiscono, gli snob che snobba-no, le edicole che tracimano, i televisi-

vi che ciurlano, i diffidenti che diffida-no, le tirature che parlano chiaro. «Og-gi i miei sudoku sono stampati su quat-trocento giornali, in cinquantotto na-zioni diverse. I miei libri escono in ven-tinove lingue diverse». Quindi per lei ilsudoku non ha finito la sua corsa... «Ilsudoku si sta espandendo tuttora. Co-me è ovvio la mania passa. Deve passa-re! Non può andare avanti molto a lun-go! Negli anni Venti e Trenta c’è stataun’analoga mania per il cruciverba,poi è passata ma il cruciverba è ancoraqui. Io penso che il sudoku resterà quia lungo. Probabilmente per sempre.Sudoku e cruciverba coesisteranno intutti i giornali seri».

L’analogia con il cruciverba vieneimmediata. Il grande esperto america-no Will Shortz definisce il sudoku comewordless crossword «parole crociatesenza parole». Tutta logica, niente se-mantica. Gould precisa: «Il cruciverbaè un test su quel che sai, il sudoku è untest su come pensi. Da questo punto divista è più “puro” del cruciverba: il su-doku non richiede di conoscere molteparole, o dare un’occhiata a un dizio-nario, o ricorrere a scaffali colmi di ope-re di consultazione. Ci sei solo tu e lagriglia del puzzle».

Oggi il sudoku compare su quotidia-ni, libri, riviste enigmistiche e su Inter-net. Qual è il suo medium migliore, se-condo lei? «Ma naturalmente il mio si-to, www. sudoku. com! È il sito origi-nale, e nel forum dei giocatori si trova-no tutte le ultime teorie e le scopertepiù aggiornate sul sudoku. Si possonorisolvere i sudoku direttamente sulcomputer o stamparli per risolverli sucarta. Io preferisco la prima strada. Ciònon vuol dire che faccio risolvere il su-doku al computer: io mi concentrosulla soluzione e lascio al computer icompiti logistici».

Il sudoku è un fenomeno unico o è ilprimo di una serie di giochi? «Come ilcruciverba ha spinto al successo altrigiochi con le parole, sono convinto cheil sudoku sia il primo frutto di una sta-gione di nuovi rompicapo logici».

Il cruciverba è un testsu quel che sai,il sudoku è un testsu come pensiPer questo versoè più “puro”del cruciverba:ci sei solo tue la griglia del puzzle

Il rompicapo del momento è natoin America e vivacchiava in Giapponeprima che un giudice neozelandesein pensione lo scovasse, inventasseun software in grado di moltiplicarlo

all’infinito e lo lanciasse diventando riccocon i suoi librie con il suo programmaper computer. OraWayne Gould vienein Italia per il primocampionato mondiale

di questo puzzle logico che - ci dice -resterà a lungo, anche quandola mania planetaria si sarà consumata

STEFANO BARTEZZAGHI

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