Laomenica DOMENICA 4NOVEMBRE 2007 di Repubblica 1857,...

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DOMENICA 4 NOVEMBRE 2007 D omenica La di Repubblica L a promessa sposa era agitata e nervosa. La mattina del matrimonio, durante le prove, Elisabetta aveva fatto cadere la tiara intarsiata di pietre preziose che doveva cingerle il capo; e il gioielliere di corte, convocato d’ur- genza a palazzo reale, era stato costretto a febbrili riparazioni fino all’ultimo minuto. Il padre della sposa, re Giorgio VI, era preoccu- pato che la figlia facesse brutta figura: le aveva offerto, perché si ri- lassasse, un buon drink ad alto contenuto alcolico, ma lei aveva ri- fiutato. La madre della sposa era scontenta. Quel fidanzato di ori- gini tedesche non le era mai piaciuto: in privato, lo chiamava con disprezzo «l’Unno». Quanto a lui, il promesso sposo, Filippo, figlio del principe Andrea di Grecia e Danimarca, discendente del casa- to degli Schleswig-Holstein-Sonderburg-Glucksborg, provava un cocente imbarazzo. A parte sua madre, nata a Windsor da genito- ri che avevano rinunciato ai titoli germanici, nessun membro del- la sua famiglia era stato invitato al matrimonio. (segue nelle pagine successive) cultura Gli scheletri architetti dell’evoluzione Quelli sempre ANTONI GAUDÍ e RUGGERO PIERANTONI l’immagine Hopper pittore della luce e del silenzio PINO CORRIAS e AMBRA SOMASCHINI il fatto Come misurare la felicità VALERIO GUALERZI e GIORGIO RUFFOLO spettacoli Le canzoni inedite di Mogol & Battisti EDMONDO BERSELLI e SILVANA MAZZOCCHI FOTO CECIL BEATON/CAMERAPRESS/GRAZIA NERI ENRICO FRANCESCHINI FRANCESCO MERLO Elisabetta II e il principe Filippo celebrano 60 anni di matrimonio Un’occasione per festeggiare gli “inossidabili”: Carlo Azeglio e Franca, Sandra e Raimondo... la storia 1857, la rivolta dell’ultimo Moghul WILLIAM DALRYMPLE e FEDERICO RAMPINI per « H ai visto com’è bella la mia bella?», ti do- manda all’improvviso Roberto Benigni in- dicando la sua Nicoletta, ed è un dettaglio di monogamia felicemente giullaresca, sul registro esplosivo e non su quello delicato e tenero di Franca Ciam- pi che maternamente mette il cappotto addosso a Carlo e con quel gesto protettivo ne rivendica il possesso. Lo veste del suo affetto e accarezzando quel cappotto leopardianamente «molce il core» a lui, ma lascia storditi nel languore tutti quegli altri che, al contra- rio, pensano di essere stati rovinati delle donne, da una donna. La verità è che una vita di monogamia reale vale sempre e comunque un primato regale. Non è dunque la regalità di Elisabetta e di Filip- po a farci pensare ad Ulisse che si fa legare per non cedere al canto delle sirene, e a Penelope corteggiata per più di dieci anni e mai se- dotta dai Proci, o al Don Giovanni che trova l’amore assoluto non consumandosi nel catalogo ma ancorandosi in un unico porto. (segue nelle pagine successive) Repubblica Nazionale

Transcript of Laomenica DOMENICA 4NOVEMBRE 2007 di Repubblica 1857,...

DOMENICA 4NOVEMBRE 2007

DomenicaLa

di Repubblica

La promessa sposa era agitata e nervosa. La mattina delmatrimonio, durante le prove, Elisabetta aveva fattocadere la tiara intarsiata di pietre preziose che dovevacingerle il capo; e il gioielliere di corte, convocato d’ur-

genza a palazzo reale, era stato costretto a febbrili riparazioni finoall’ultimo minuto. Il padre della sposa, re Giorgio VI, era preoccu-pato che la figlia facesse brutta figura: le aveva offerto, perché si ri-lassasse, un buon drink ad alto contenuto alcolico, ma lei aveva ri-fiutato. La madre della sposa era scontenta. Quel fidanzato di ori-gini tedesche non le era mai piaciuto: in privato, lo chiamava condisprezzo «l’Unno». Quanto a lui, il promesso sposo, Filippo, figliodel principe Andrea di Grecia e Danimarca, discendente del casa-to degli Schleswig-Holstein-Sonderburg-Glucksborg, provava uncocente imbarazzo. A parte sua madre, nata a Windsor da genito-ri che avevano rinunciato ai titoli germanici, nessun membro del-la sua famiglia era stato invitato al matrimonio.

(segue nelle pagine successive)

cultura

Gli scheletri architetti dell’evoluzione

Quellisempre

ANTONI GAUDÍ e RUGGERO PIERANTONI

l’immagine

Hopper pittore della luce e del silenzioPINO CORRIAS e AMBRA SOMASCHINI

il fatto

Come misurare la felicitàVALERIO GUALERZI e GIORGIO RUFFOLO

spettacoli

Le canzoni inedite di Mogol & BattistiEDMONDO BERSELLI e SILVANA MAZZOCCHI

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ENRICO FRANCESCHINI FRANCESCO MERLO

Elisabetta II e il principe Filippocelebrano 60 anni di matrimonioUn’occasione per festeggiaregli “inossidabili”: Carlo Azeglioe Franca, Sandra e Raimondo...

la storia

1857, la rivolta dell’ultimo MoghulWILLIAM DALRYMPLE e FEDERICO RAMPINI

per

«Hai visto com’è bella la mia bella?», ti do-manda all’improvviso Roberto Benigni in-dicando la sua Nicoletta, ed è un dettagliodi monogamia felicemente giullaresca, sul

registro esplosivo e non su quello delicato e tenero di Franca Ciam-pi che maternamente mette il cappotto addosso a Carlo e con quelgesto protettivo ne rivendica il possesso. Lo veste del suo affetto eaccarezzando quel cappotto leopardianamente «molce il core» alui, ma lascia storditi nel languore tutti quegli altri che, al contra-rio, pensano di essere stati rovinati delle donne, da una donna. Laverità è che una vita di monogamia reale vale sempre e comunqueun primato regale. Non è dunque la regalità di Elisabetta e di Filip-po a farci pensare ad Ulisse che si fa legare per non cedere al cantodelle sirene, e a Penelope corteggiata per più di dieci anni e mai se-dotta dai Proci, o al Don Giovanni che trova l’amore assoluto nonconsumandosi nel catalogo ma ancorandosi in un unico porto.

(segue nelle pagine successive)

Repubblica Nazionale

(segue dalla copertina)

Comprensibilmente, bisogna am-mettere: tutte le sue sorelle eranosposate con aristocratici tedeschiche avevano apertamente simpa-tizzato col nazismo. E quel giorno,20 novembre 1947, il ricordo di Hi-

tler e delle bombe del Terzo Reich che cadeva-no su Londra era ancora ben fresco nella me-moria dei sudditi britannici.

Da allora sono trascorsi sessant’anni esatti. Il ri-cordo della guerra è sfumato, comitive di turisti te-deschi fotografano allegramente il cambio dellaguardia ai cancelli di Buckingham Palace, il mon-do non solo è cambiato ma si può dire che è irrico-noscibile, tranne che per quei due: Elisabetta II,regina di Gran Bretagna e Irlanda del Nord, e ilprincipe Filippo, duca di Edim-burgo, suo marito. Tra poco cele-breranno le nozze di diamante,sessant’anni insieme, appunto:evento raro per qualsiasi coppia,poiché per realizzarlo non è suf-ficiente un amore duraturo maserve anche la longevità; eventosenza precedenti per un monar-ca britannico, essendo Elisabet-ta la prima a tagliare il traguardonella millenaria storia del suo re-gno. Lei ci arriva a ottantuno an-ni d’età, lui a ottantasei: portatistraordinariamente bene da tut-ti e due, anche visti da vicino, co-me ho avuto l’opportunità di ve-rificare, spaventosamente a di-sagio in un frac preso a nolo, inoccasione di un ricevimento digala a palazzo, ritrovandomi a fa-re conversazione con entrambi,nel fumoir, dopo il banchetto. Il19 novembre prossimo festegge-ranno l’anniversario insieme aicinquanta membri della famigliareale con una messa nell’abbaziadi Westminster, la stessa in cui sisono sposati, teletrasmessa in di-retta perché tutta la nazione pos-sa parteciparvi. Quindi, il 20 no-vembre, arriveranno in visita pri-vata a Malta, l’isola del Mediter-raneo dove Filippo, ufficiale diMarina, fu assegnato subito do-po il matrimonio, e dove trascor-sero la maggior parte degli annisuccessivi, fino a quando nel feb-braio del 1952 la morte di re Gior-gio richiamò a Londra, per l’inco-ronazione, la principessa e il suoconsorte. Stavolta il soggiornodurerà solo ventiquattro ore, do-podiché la coppia volerà inUganda per il vertice dei capi diStato dei Paesi del Com-monwealth, uno dei tradizionaliappuntamenti a cui sono abitua-ti da sei decenni.

I preparativi per la ricorrenzasono già cominciati, con una mo-stra al castello di Windsor che esibisce memora-bilia dei matrimoni di cinque sovrani britannicidell’ultimo secolo e mezzo; e con la pubblicazio-ne di una nuova foto ufficiale, che adornerà unfrancobollo, in cui sono ritratti in piedi, uno ac-canto all’altro, su un balcone di Buckingham Pa-lace, lei in semplice abito blu, un giro di perle al col-lo, le braccia incrociate sul grembo, lui in impec-cabile abito grigio, il fazzoletto che spunta dal ta-schino, disinvoltamente appoggiato a una colon-na. Non fissano l’obiettivo: marito e moglie siguardano negli occhi, con un reciproco sorriso,che trasmette affetto ma anche soddisfazione, or-goglio, come a dire ce l’abbiamo fatta, siamo an-cora qui, nonostante tutto. Il ritratto è firmato daLord Snowdon, grande fotografo e loro parente,ex-marito della defunta principessa Margaret, so-rella minore di Elisabetta, una birichina che necombinò di cotte e di crude; e padre del visconte

di Linley, il membro della casa reale al centro del-l’ultimo, recentissimo scandalo di corte, ricattatoper una vicenda di sesso orale e cocaina. Le tra-versie familiari che hanno scandito sessant’annidi matrimonio non li hanno dunque abbandona-ti nemmeno nello scatto della foto per le loro noz-ze di diamante: basterebbe questo a sottolinearequante ne hanno passate.

Neppure l’amore tra Elisabetta e Filippo, del re-sto, era stato facile, come si capì dall’agitazione nelgiorno del matrimonio. Lo sposo, che aveva servi-to il Regno Unito con onore e decorazioni al meri-to nella Seconda guerra mondiale, aveva dovutougualmente superare non pochi ostacoli buro-cratici: convertirsi dalla religione greco-ortodos-sa a quella anglicana; essere naturalizzato cittadi-no britannico, adottando il nome di Mountbat-ten, versione anglicizzata del cognome maternoBattenberg; rinunciare ai suoi diritti al trono elle-nico, perso dallo zio Costantino col colpo di Stato

militare del 1922; ricevere da reGiorgio il titolo di duca ma non diprincipe, che gli sarebbe statoassegnato soltanto dieci annidopo; e accettare a vita un ruolodi spalla che per carattere proba-bilmente non gli stava a pennel-lo. Ciononostante, gli sposi nonsi potevano certo definire dueestranei: erano perfino lontaniparenti, cugini di terzo grado,entrambi discendenti dalla regi-na Vittoria.

Il peggio, tuttavia, doveva an-cora venire. Tre dei loro quattrofigli, Carlo, Anna ed Andrea, di-vorziati e coinvolti in una sfilza ditradimenti, scandali, polemi-che, culminati nella morte dellaprincipessa Diana. I nipoti che, acominciare dal futuro re Williame da suo fratello Harry, sembra-no intenzionati a proseguire nel-lo stesso solco, fra scappatelle,spinelli, risse in discoteca. E poi,sullo sfondo, la perdita di privile-gi secolari, l’obbligo di pagare letasse, la rinuncia allo yacht reale,l’invasione della privacy da par-te di una stampa sempre menorispettosa e qualche volta ancheda parte dei sudditi, come il mat-to che riuscì a infilarsi nella ca-mera da letto di Sua Maestà,dandole la sveglia. Filippo, con lasua predilezione per le gaffe disapore razzista, non ha miglio-rato la situazione. Come genito-ri sono apparsi spesso freddi eseveri, a dir poco all’antica: ma inquesto simili a molti della lorogenerazione. Come marito emoglie si sono sforzati di recita-re dignitosamente la parte: ca-vandosela non male, tutto som-mato, rispetto a certi presidentie first lady dei giorni nostri.

Problemi e sofferenze hannofinito per avvicinarli al propriopopolo, e a tutti noi che seguia-mo le vicende della famiglia rea-

le britannica come se fosse l’ultima dinastia da fa-vola rimasta al mondo. Tutte le famiglie felici so-no simili fra loro, insegna Tolstoj, ogni famiglia in-felice è infelice a modo suo. Ma che siano stati fe-lici o infelici, Elisabetta e Filippo, restando insie-me fino alle nozze di diamante hanno in fondoassolto anche un altro compito: farci continuare acredere nella fiaba dell’amore eterno. Se il nostronon può durare sessant’anni, il loro può darci lavoglia di ricominciare ogni volta da capo. La vogliadi provare e riprovare a pronunciare quelle duemagiche parole, così cariche di illusioni e di spe-ranza: per sempre.

la copertinaQuelli per sempre

Elisabetta e Filippomalgrado tuttoENRICO FRANCESCHINI

28 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 4NOVEMBRE 2007

REGALIUn piatto ricevuto in dono di nozze

da Elisabetta e Filipponel lontano 1947

SOUVENIRPiatto-ricordo

della giovane Royal Couplenei primi anni di matrimonio

IN MOSTRAQuesta zuccheriera dono di nozze ,

come i piatti più in alto, è stata messain mostra per le nozze di diamante

SUL TRONOElisabetta II e Filippo d’Edimburgo all’ultimacerimonia dell’apertura del Parlamento,nel 2006. Cinquantatré anni separanoquesta foto da quella in copertina,scattata da Cecil Beaton pocodopo l’incoronazione di Elisabettanel 1953, quando la coppiaera già sposata da sei anni

Repubblica Nazionale

La monogamia, antica prerogativa della regalità,fa destare ancor oggi la nostra ammirazione stupitaper le coppie che non si dividono, lisce o frizzantissimema comunque “fino a che morte non ci separi”E ci sono anche quelle che restano unite fino al passosupremo, come di recente il filosofo Gorz e la moglie Dorine

(segue dalla copertina)

Enon è questione di miracoli poeticie di pensieri roteanti, ma al contra-rio di sgomento: guardate infattiquant’è bella, ma di una bellezzache appunto sgomenta e persinoannichilisce, la coppia Benigni-

Braschi che è coppia ovunque, al cinema e a let-to, a casa e al ristorante, e persino nei sogni, vi-sto che si sognano l’un l’altro. Anche loro comela regina Elisabetta e il principe Filippo sonomarito e moglie «finché morte non ci separi»,anche loro sono molto più che amici e compli-ci. Ma diciamo la verità: noi sempre guardiamocon rispetto inquieto, con ammirazione stupi-ta e con compiacimento diffidente tutte le cop-pie che non si separano, le coppie inossidabilidove ciascuno riempie l’altro di sé ma non lo in-gombra mai.

È vero che monarchia e mo-nogamia hanno in comunel’assolutezza e l’esclusività:uno solo che comanda nelmonos arcòs; un solo coniugenel monos gamos, Ma Franca eCarlo Azeglio Ciampi, che so-no stati la Repubblica, nonfanno pensare ai re innamora-ti raccontati da Shakespeare,ma a Montale che, pur disor-dinato nella vita sentimenta-le, ha scritto la più bella delleodi all’amore coniugale: «Hosceso dandoti il braccio alme-no un milione di scale / e orache non ci sei è il vuoto ad ognigradino…».

Poche settimane fa sullaporta di casa dello scrittoreAndré Gorz, uno dei maîtres àpenser del sessantotto, fu tro-vato un biglietto: «Appelez lagendarmerie». Dentro, sul let-to c’erano i corpi disabitati diGorz e di sua moglie Dorine:«Puliti educati, sembravanofinti / sembravano propriodue santi dipinti». Insiemeerano usciti da questa vita cheinsieme avevano vissuto. An-dré, che a ottantaquattro anniera in buona salute, era salta-to in corsa sulla malattia chestava portando Dorine lonta-no da lui. Insomma, avevanodeciso di partire insieme. Me-no di un anno prima, André leaveva pure scritto una lettera-libro svelando che anche lui,persino lui, non era quel totuspoliticus che conoscevamo:non aveva in testa il sociali-smo l’ecologia e l’esistenziali-smo ma, come tutti, aveva intesta una donna.

E dunque André per tutta lavita aveva fatto il pavone conle penne della politica per se-durre lei, perché da lei era ra-pito, perché è sempre e solo una questione pri-vata: era il partigiano Johnny di Fenoglio, era ilPin del sentiero dei nidi di ragno di Calvino, eraLancillotto che per la coppia tradisce anche ilsuo re. Lo stesso Sartre, che di Gorz era l’autore-vole amico, fu, con la sua Simone, maestro dimonogamia sia pure in versione bizzarra: «Tisarò fedele a modo mio». Capita infatti che lamonogamia tolleri l’apertura della coppia,un’apertura controllata, dichiarata e praticata.Nel caso di Sartre e di Simone la coppia si ali-mentava di affluenti minori, perché il Po, nonsolo rimane il Po, ma si ingrossa ad ogni rivoloche accoglie nel suo letto.

La monogamia può essere liscia o gassata, mamantiene comunque la stessa sostanza «finchémorte non ci separi» anche quando il ménage èfrizzantissimo, come nella vita di Franca Ramee Dario Fo al quale, per dirla tutta, bisognavaforse assegnare il Nobel per la “coppialità” che,nel caso italiano, sembra diventato, a prima vi-sta, un valore di sinistra: Fini si separa, D’Alemano; Casini si sposa e risposa, Veltroni esibisce lastessa moglie modello, vivente monumento delsuo prestigio di marito; Berlusconi “una diecicento”, Prodi è con Flavia per sempre; Bossi è ri-sposato, Bertinotti è iper-mono-ammogliato.Eppure si sa che, per tradizione, a sinistra ci sisposa con mille riserve sul matrimonio, mentrea destra il valore è più rigido e dunque più fragi-le: la sinistra vive di storia e la destra di miti.

Nella destra, però, la coppia più visibile èquella meno visibile: la discrezione del coniu-gio Letta, Gianni e Maddalena. Per l’ufficio rile-vante che da una vita svolge Gianni Letta, l’indi-

screzione può arrivare. E si sa che Letta è il Se-neca di Berlusconi, e dunque è esposto al pette-golezzo, al sospetto, al biasimo. E invece la cop-pia Letta, che è coppia «finché morte non ci se-pari», non è stata mai toccata dalla vox populi,dalla diceria, dal gossip, dal paparazzismo, daDagospia, a differenza di tutte — ma propriotutte — le altre coppie pubbliche italiane. Eb-bene, quanto la signora Maddalena concorre adonorare la sostanza della discrezione, che è l’i-dentità di quella coppia?

A sinistra invece le coppie-tipo sono Rutelli-Palombelli e Fassino-Serafini, anche loro «fin-ché morte non ci separi». Ma sono più esposte, avolte scoppiate e persino con moglie e maritocontrapposti. Passando da destra a sinistra, lamonogamia diventa infatti flessibile e magarispugnosa, assorbe femminismi, aperture, tolle-ranze, si fa gommosa, forse si impoverisce comevalore anche se, più frequentemente che a de-stra, resiste e col tempo si scopre pure eternità di

coppia, magari troppo tardi,quando appunto la morte li se-para, come nel finale della poe-sia di Montale: «Ho sceso milionidi scale dandoti il braccio / nongià perché con quattr’occhi forsesi vede di più. / Con te le ho sceseperché sapevo che di noi due / lesole vere pupille, sebbene tantooffuscate / erano le tue».

E però ci sono anche amoriomosessuali, ci sono frammentiamorosi come quelli di RolandBarthes, che sono un inno e unmonumento alla coppia, all’a-more di coppia, alla monogamiache rimane «finché morte non cisepari» anche se non è benedettadalla Chiesa perché è appuntomonogamia omosessuale, edunque, secondo la dottrina diPapa Ratzinger, contro natura,come se Dio fosse natura.

E invece la monogamia non èdi genere. L’eterno amore di So-fia Loren con Carlo Ponti è comequello di Elton John con DavidFurnish. La sola differenza, chealla fine non cogli più, è che Sofiae Carlo erano la tradizione dellacoppia, che opera automatica-mente, mentre Elton e David so-no la coppia-scandalo che devetrovare giustificazione anchenella testa dei due coniugi. Gli unicon la tradizione; gli altri controla tradizione. Ma in entrambi ca-si vince uno solo: la coppia.

E infatti Elton John dice: «La miaseconda vita, se mai mi fosse con-cessa, vorrei di nuovo viverla conDavid». E sono parole identiche aquelle che Gorz scrisse alla suaDorine o a quelle che la moglie diSeneca dedicò al marito taglian-dosi anche lei le vene per solida-rietà d’amore certo, ma soprattut-to per imperio di coppia che non èla giustapposizione di due indivi-dui, ma è la produzione di una ter-za individualità, è più di una som-

ma, è una concrezione nuova non disaggregabilenei suoi elementi costitutivi, come la ganga deiminerali, come l’acqua che è fatta di idrogeno e os-sigeno ma non è più idrogeno e ossigeno.

E infatti Nerone, che aveva ordinato a Seneca diuccidersi, impedì alla signora Paolina Seneca dimorire non per pietosa magnanimità, ma perchéinorridito dinanzi al solo delitto che gli sembravaefferato «ac ne glisceret invidia crudelitatis», pernon accrescere la sua malafama di crudeltà. Lamorte di Seneca era la morte del filosofo dissiden-te che era stato il suo maestro, era insomma un at-to fisiologico al potere assoluto. Ma persino il po-tere assoluto ritiene dissacrante e blasfemo l’an-nullamento della coppia. E la mano insanguinatae oltraggiosa di Nerone si fermò solo davanti allacoppia. Uccidere la coppia significava salvare Se-neca, non liberarsi di Seneca; significava infilarse-lo per sempre nella coscienza, come un demone.

D’altra parte la coppia eterna non è solo Senecae Paolina, c’è anche Maria e Giuseppe, che sonoindissolubili persino come ipotesi, e c’è il model-lo quotidiano di Raimondo Vianello e SandraMondaini, con le loro comiche nevrosi, le liti, i sar-casmi, l’amore banale che non è bello se non è li-tigarello, la coppia negativa che è pensiero nega-tivo, la monogamia che non è regale come quelladi Elisabetta e Filippo ma è ancor più reale, èun’acqua benedetta che irrita quando ci si asper-ge, è la coppia che tutti i giorni rischia di sfasciarsie invece, come la Turritopsis Nutricola — la me-dusa del Mediterraneo — tutti i giorni riorganizzale sue cellulle e ringiovanisce, per continuare aemettere umori urticanti e dispettosi «finchémorte non ci separi».

Ulisse e Penelopeun mito da vivereFRANCESCO MERLO

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 29DOMENICA 4NOVEMBRE 2007

ANNIVERSARIOQuesta ciotola di porcellanaè tra gli oggetti celebrativi

dei 60 anni del Royal Marriage

FACCE DI BRONZOMedaglia commemorativa

delle nozze di diamantedi Elisabetta II e del principe Filippo

IN COPPIAQuesta tazza in porcellana

fa parte dello stesso serviziodella ciotola riprodotta più in alto

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Repubblica Nazionale

30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 4NOVEMBRE 2007

il fattoVita in cifre

Sociologi, statistici e governanti sono tutti d’accordo:il Prodotto interno lordo non è più in gradodi rappresentare il benessere delle nazioni. Il problemaè con che cosa sostituirlo. Molti ci riflettono da tempo;adesso un convegno organizzato dalla Ue a Bruxellessembra preparare una svolta anche istituzionale

SERENITÀ

CULT

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ITÀ

La misura della felicitàGIORGIO RUFFOLO

Qualche anno fa la Cina aveva varatoil “Pil verde”, sottraendodal Pil i costi sanitari riconducibiliall’inquinamento di aria e acquae quelli per il risanamento ecologicoL’esperimento però è fallitoper l’impossibilità di monetizzarei danni provocatidalla crescita sfrenata

cina verde

VALERIO GUALERZI

Seppellire il Pill’Europa ci prova

DIV

ERSI

ROMA

Se è risaputo che i soldi non danno la felicità, come abbiamo fattoa pensare per oltre mezzo secolo che per misurarla potesse andare be-ne il Pil? Il Prodotto interno lordo non ha solo il grosso difetto di pren-dere in considerazione esclusivamente i soldi: conteggia anche quellispesi male. A far schizzare verso l’alto i valori dell’indicatore economi-co adottato universalmente come il più affidabile termometro della sa-lute di una nazione, contribuiscono infatti anche il denaro usato percostruire nuove carceri in un Paese piagato dalla criminalità o i quat-trini bruciati in benzina mentre si è incolonnati nel traffico.

Nell’ultimo decennio organizzazioni ambientaliste, centri studieconomici e istituzioni scientifiche hanno lavorato sodo per mettere apunto nuovi indicatori in grado di misurare con maggiore affidabilitàil benessere di popoli e nazioni. Uno sforzo al quale, seppure senza su-scitare grande clamore, si sono dedicate nel tempo anche organizza-zioni istituzionali come l’Ocse. «È dagli anni Settanta», ricorda il capodel servizio statistico Enrico Giovannini, «che lavoriamo per misurareciò che conta davvero, prima i risultati sociali, poi quelli ambientali einfine quelli educativi».

Un lento scavare dalle fondamenta le certezze del Pil che ora sta dan-do risultati. Lo testimonia Beyond Gdp, ovvero “oltre il Pil”, il convegnoconvocato a Bruxelles dall’Unione Europea per il 19 e 20 novembre. Senella lista dei partecipanti non mancano “i soliti noti”, Chief EmekaAnyaoku del Wwf e Ashok Kosla del Club di Roma, i nomi che danno ilsenso del cambiamento sono altri: Manuel Barroso, presidente dellaCommissione europea, Joaquin Almunia, commissario all’Economia,Kristalina Georgieva, direttrice della Banca Mondiale.

I punti fondamentali lasciati irrisolti dal Pil su cui studiosi ed espertihanno dovuto lavorare sono essenzialmente due. Il primo riguarda lasottrazione dei costi ambientali dalla crescita. Il secondo l’aggiunta ditutti i fattori di benessere non monetizzabili, come l’aspettativa di vita,il grado di istruzione, la solidarietà di una società e i servizi su cui que-sta può contare a titolo di volontariato.

Ad interessarsi del primo problema sono stati soprattutto gli ecolo-gisti. «È dal 1994 che il Wwf si occupa di mettere a punto nuovi indica-tori», spiega il direttore scientifico Gianfranco Bologna. A darsi da faresul versante delle addizioni è stato invece in primo luogo l’Onu, che or-mai da anni ha varato il suo Human development index (Hdi), un indi-catore che incrocia i dati dei Pil nazionali con quelli sull’aspettativa divita e il tasso di alfabetizzazione. Con il risultato che il Rapporto 2006dàuna bella rimescolata alle gerarchie mondiali: in testa c’è un terzettoformato nell’ordine da Norvegia, Islanda e Australia; la Cina si ferma alnumero 81, l’India al 126 e gli Stati Uniti al tutto sommato poco lusin-ghiero ottavo posto (l’Italia è al diciassettesimo).

Nella categoria degli esperimenti naif rientra quello del Buthan chedagli anni Ottanta ha adottato il Fil, la Felicità interna lorda. Un para-metro che cerca di misurare il benessere sganciandolo dai consumi, in-troducendo nel conteggio anche dei criteri di valutazione moralequanto meno opinabili e difficilmente esportabili in realtà lontane dalbuddismo. «Ora», afferma Giovannini citando gli importanti progettidi nuovi indicatori in cantiere in Australia e Stati Uniti, «la speranza èche il convegno di Bruxelles possa servire alla Commissione per fareuna raccomandazione formale agli Stati membri, chiedendo di inte-grare il Pil con degli indicatori di benessere». E a quel punto, chissà, l’Al-munia di turno anziché per il deficit ci rimprovererà di non essere ab-bastanza felici.

Noi inseguiamo la felicitàMa la felicità è qui‘‘

Poeta latino (65-8 a.C.)

OrazioLa felicità materialeriposa sempre sulle cifre‘‘

Romanziere francese (1799-1850)

Honoré de Balzac

Il tema della felicità non è nuovonella storia del pensiero econo-mico. Economisti classici comeStuart Mill hanno spiegato comela felicità non consista nell’ab-bondanza delle cose, ma nella

loro qualità. In Italia Antonio Genovesie Pietro Verri definirono alla fine delSettecento l’economia politica come«la scienza della pubblica felicità».

Di recente il tema è stato ripropostopartendo da un dibattito promosso daRichard Easterlin sul «paradosso dellafelicità», e cioè sulla scarsa correlazio-ne tra reddito e felicità, sia nello spazio(all’interno di ogni Paese o tra Paesi) sianel tempo. Contributi particolarmenteseri sono stati offerti da sociologi edeconomisti come Daniel Kahneman eRichard Layard, e in Italia da StefanoZamagni, Luigino Bruni e da altri eco-nomisti della Università della Bicocca

di Milano.A che cosa si deve questa riapparizio-

ne in una disciplina tuttora dominatadall’economicismo ultra? Questo pa-radosso è spiegato in più modi. Conl’aumento delle aspirazioni, che an-nulla l’aumento del piacere (dell’uti-lità, avrebbe detto Bentham). Con l’ef-fetto dell’invidia e della rivalità, che fadipendere la felicità propria da quelladegli altri, in un continuo inseguimen-to.

Mentre questi fattori impedisconoche all’aumento del reddito si accom-pagni un proporzionale aumento dellafelicità, non si dà spazio sufficiente al“consumo” di beni relazionali e cioè aquelli che ci arricchiscono gratuita-mente. Come nello scambio delle idee:se ci scambiamo un dollaro, ciascunoresta con un dollaro; se ci scambiamoun’idea, ciascuno resta con due idee.

Dobbiamo però chiederci anzituttoperché quel tema è per tanto tempo im-

pallidito. Ai suoi primordi la scienzaeconomica si occupava di società checol nostro metro giudicheremmo po-vere e ristagnanti, nelle quali i proble-mi della allocazione e della distribuzio-ne ottimale delle risorse prevalevanosu quelli dello sviluppo. Con la rivolu-zione industriale l’economia dell’Oc-cidente è stata investita da un’onda dicrescita, tranne alcune pause critiche,praticamente continua. Nelle societàcoinvolte dalla crescita quantitativadei beni prodotti sul mercato, dopo se-coli, anzi millenni di ristagno era com-prensibile che il concetto di benesserefosse associato con la quantità di benidisponibili.

Dopo due secoli di crescita quantita-tiva, però, è emersa una specie di nau-sea della crescita. Dappertutto, i son-daggi sul grado di felicità delle personerivelano che la felicità non cresce piùcon l’aumento della produzione. A par-tire grosso modo dagli anni Settanta del

secolo scorso le due curve, quella dellaquantità di beni disponibili, misuratadal Pil (Prodotto interno lordo) e quelladella felicità, misurata da indagini con-dotte sull’umore dei singoli individui, sisono separate. La prima ha continuatoa crescere, la seconda è diventata piat-ta. La ragione sta nella differenziazionedei bisogni, dei costi e dei gusti tipica diuna società complessa, la quale nonpuò essere riflessa in un indice rozza-mente quantitativo che ci dice soltantoquanti beni sono stati prodotti e consu-mati nel mercato.

Detto nei termini più semplici possi-bile, l’ormai famigerato Pil comportatre ordini di gravi difetti. Primo: sommasolo i beni prodotti nel mercato, quindiesclude quelli forniti nelle relazioni gra-tuite tra le persone, nelle famiglie o nel-le comunità, mentre conteggia comebeni i mali che sono prodotti e consu-mati nel mercato (droga, guadagni cri-minali, sfruttamento della prostituzio-

ne, consumo irreversibile dell’ambien-te, inquinamento, effetto serra eccete-ra). Secondo: non dà alcuna importan-za al modo, più o meno equo, col qualei beni sono distribuiti. Nel Pil vige la leg-ge di Trilussa: due polli a me, nessuno ate, dunque un pollo a testa. Terzo: nondà valore ai beni forniti dalla natura, checonsidera dissennatamente gratuiti edei quali fa scempio, distruggendo inpochi mesi risorse accumulate per tremiliardi di anni e trattando (peccatosingolare per un economista) il capita-le naturale come se fosse un reddito.

C’è un quarto “difetto” cui abbiamoaccennato, che però non dipende dacome è costruito il Pil, ma da come si statrasformando l’economia capitalistica.Il mercato è sempre più trascinato dal-la pressione competitiva che investenon solo la produzione ma, attraversola pubblicità, anche i consumi, verso icosiddetti consumi “posizionali” ocompetitivi: quelli che non esprimono

UTILITÀ

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31DOMENICA 4NOVEMBRE 2007

La “Felicità interna lorda” è statasostituita al Pil nel piccolo Statoasiatico del Bhutan. I dati economicivengono valutati insiemea quelli sul rispetto dei valori buddistida parte della societàe anteponendo il benesserespirituale della comunitàa quello materiale e ai consumi

ultima, la Fil

PIACERE

Il 7 settembre il Consigliodei ministri ha varato un disegnodi legge che istituisce la “contabilitàambientale”: se approvata,obbligherà Stato, Regioni,Province e Comuni a integrareil nuovo indicatore in tutti i loro attidi programmazioneeconomico-finanziaria

ambientale

È un indice statistico messo a puntosoprattutto grazie agli sforzi del WwfMisura la pressione umananei confronti della natura, valutandolo sfruttamento delle risorse naturalicon la capacità della Terradi rigenerarle. Nel conteggiosi valuta anche la quantità di rifiutie il costo del loro smaltimento

ecologico

SOLI

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ISTRUZIONE

Si ottiene incrociando i dati relativial Pil con l’aspettativa di vita mediadi una nazione e il suo gradodi alfabetizzazione. Dal 1993 l’Onulo ha adottato nell’ambitodel suo Programma per lo sviluppo(Undp) Stando ai dati più recenti(2006), al primo posto c’è la Norvegia

sviluppo umano

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Un’intera vita di felicità! Nessun uomola sopporterebbe, sarebbe l’inferno in terra!‘‘ Scrittore e drammaturgo inglese (1856-1950)

George Bernard ShawA volte la felicità è una benedizione,ma generalmente è una conquista‘‘ Scrittore brasiliano (1947)

Paulo Coelho

bisogni originali ma bisogni che dipen-dono da quelli altrui. Si tratta di bisogniper loro natura insaziabili, che genera-no infelicità. Un esempio? Lo prendia-mo da una divertente vignetta del fa-moso disegnatore Steinberg pubblica-ta tanto tempo fa dal New Yorker. Eracomposta di scene successive, Nellaprima lui, uscendo di casa in bicicletta,vede il suo vicino uscire dal garage suuna utilitaria. Nella seconda lui escecon una utilitaria, ma il vicino conun’auto poderosa. Nella terza lui escetrionfante, affrontando un traffico con-gestionato, con una ingombrante e co-stosa auto; ma il vicino scorre via sere-no attraverso il traffico su una biciclet-ta, Qui l’impulso mimetico è diretto ecircolarmente frustrante. Se ci si mettela pubblicità, è moltiplicato per mille.

Insomma, man mano che «la crescitacresce», crescono i suoi sprechi e le suemagagne che si riflettono in un Pil bu-giardo come misura della felicità. Que-

ste magagne e questi sprechi emergonoe sono percepiti sempre più diffusa-mente, grazie anche al contributo dieconomisti non ossessionati dalla cre-scita e non contaminati da tendenzeapologetiche verso il potere.

Dobbiamo quindi abbandonare ilPil? Come dice un libro recente, «depi-larci»? (Depiliamoci, di Maurizio Pal-lante, Editori Riuniti). Alcuni autorevo-li economisti, come Amartya Sen, colsuo Indice dello sviluppo umano adot-tato dalle Nazioni Unite e come Her-man Daly con il suo Indice dell’econo-mia sostenibile, si sono provati a “depi-larlo”, depurandolo dalle sue più evi-denti insensatezze. Sforzi meritori chetuttavia incontrano la difficoltà insitanel sostituire, quando i conti del Pil ri-sultano manifestamente infondati, iprezzi del mercato con dei prezzi “im-putati”. L’inconveniente è evidente: iprezzi di mercato sono, con tutte le lorostorture, realtà oggettive. Gli altri sono

giudizi soggettivi, quindi opinabili.E allora? C’è chi propone di sostituire

il Prodotto interno lordo con la Felicitàinterna lorda: il Pil con la Fil. Per esem-pio il re del Bhutan, un piccolo Paeseasiatico dove mancano l’acqua potabi-le e i diritti civili. In quel caso, la felicitàcoincide con quel che ne pensa il re.

C’è poi chi tenta di misurare oggetti-vamente la felicità con metodi artigia-nali (per esempio, infilare la mano del“paziente” nell’acqua calda: pare che ipiù felici resistano di più) oppure concalcoli neurologici e psicologici sofisti-cati che danno luogo a certe graduato-rie, esibite senza vergogna. SecondoAndrei Oswald, per esempio, la fre-quenza dei rapporti sessuali o un matri-monio solido sono “quotati” 100miladollari all’anno, mentre un lutto di fa-miglia “vale” una perdita di 245miladollari. C’è una quotazione per un sor-riso, e un’altra per una preghiera. Così,i prezzi del mercato sono sostituiti dai

prezzi Oswald. Meglio i primi! La lettu-ra di questi testi può essere, in termini difelicità, deprimente. Si rischia di simpa-tizzare con Wilfredo Pareto che respin-geva decisamente ogni confronto tradiverse felicità (lui diceva utilità).

Pure, il problema resta. Come si fa avalutare, diciamo meno enfaticamen-te, il benessere di una società senza in-correre nell’arbitrarietà degli esperti odel re del Bhutan? Secondo me, in duemodi. Primo, rinunciando a una misu-ra unica. Non si può ridurre il benesse-re a un numero. Esso è costituito da unaserie di fattori irriducibili meccanica-mente l’uno all’altro. Bisogna tenere se-parati questi fattori — ambiente, sicu-rezza, salute eccetera, — misurandolicon altrettanti indici specifici, comefanno le Nazioni Unite con il loro Isu.Secondo, affidando la scelta ottimaletra le loro possibili combinazioni, nonagli statistici, ma al giudizio politico de-mocratico.

Non esiste infatti un optimum di feli-cità eguale per tutti i Paesi, da scoprire.Può invece esistere una combinazionedi fattori di benessere diversa per cia-scun Paese, da scegliere. In tal caso, lamisura del benessere-felicità, diventa,non una constatazione “positiva”, mauna scelta “normativa”. Non un dato,ma un obiettivo. Ogni Paese dovrebbescegliere democraticamente il suo qua-drante di felicità, valido per un certo pe-riodo, costituito da una combinazionedi traguardi che darebbero senso a unadiscussione politica che lo sta perden-do. Il giudizio se stia meglio l’Italia ol’Inghilterra non sarebbe possibile co-me lo è tra squadre in un campionato,secondo un Pil insignificante. Sarebbeesso stesso un giudizio discutibile.Niente però potrebbe impedire a entitàsovranazionali, come l’Unione euro-pea, di mettersi d’accordo su un qua-drante comune. Anzi, questo sarebbe ilmiglior modo di perseguirla.

Repubblica Nazionale

NEW DELHI

Non vi è traccia a Rangoon della tomba diBahadur Shah II detto Zafar, l’ultimo im-peratore di quella dinastia Moghul che se-gnò un’apoteosi della civiltà indiana. Alla

sua morte il 7 novembre 1862 l’ottantasettenne Zafar eb-be una sepoltura frettolosa e anonima, vigilata solo da unplotone di soldati inglesi. Era stato scelto apposta per luiun carcere della Birmania, alla periferia del subcontinen-te indiano governato da Londra, e in una regione buddi-sta distante dalla forza dell’islam. Quel funerale clande-stino suggellava la volontà di cancellare per sempre il ri-cordo di un uomo che aveva fatto tremare l’impero bri-tannico. Zafar era stato il leader della più vasta rivolta con-tro il colonialismo nel Diciannovesimo secolo. The Mu-tiny (“l’ammutinamento”), secondo la sprezzantedefinizione inglese, in realtà fu una vera guerra d’indi-pendenza, centocinquant’anni fa dilagò in tutta l’India efece tremare alle fondamenta il più solido impero del-l’uomo bianco in Asia. Fu una sollevazione militare ini-ziata dai sepoy — i soldati indiani sotto comando britan-nico — che coinvolse élite e popolo, indù e musulmani, fi-no a culminare nella “Stalingrado indiana”, il terribile as-sedio di Delhi che si concluse con la cattura di Zafar e imassacri perpetrati dagli inglesi.

È un capitolo di storia avvolto ancora in parte nell’e-quivoco, per le reticenze ideologiche di molti storici: laversione colonialista era indulgente con i vincitori; tra gliindiani invece il ruolo dell’islam in quella rivolta è statospesso minimizzato dal nazionalismo induista. Eppure lalezione del 1857 ebbe un ruolo decisivo nell’ispirare ses-sant’anni dopo la strategia della resistenza passiva diGandhi e la sua via non violenta per la liberazione. Oggi afare luce su quella vicenda tragica e controversa è l’acutoconoscitore dell’India William Dalrymple, che si è im-merso per anni negli archivi originali della corte Moghulin lingua urdu. Con la consulenza di studiosi indianiDalrymple ha realizzato L’assedio di Delhi (pubblicato initaliano da Rizzoli), un affresco grandioso dello scontro fi-nale consumato fra l’ultima dinastia Moghul e l’imperobritannico.

All’inizio del 1857 nulla sembra destinare Zafar a unruolo importante. Il lontano discendente di Gengis Khane di Tamerlano è ridotto a un’ombra patetica, una figurairrilevante rispetto ai suoi antenati Akbar e Shah Jahanche hanno fatto dell’India la nazione più ricca del piane-ta. Nato nel 1775, quando in India la presenza britannicaè ancora modesta, limitata a tre porti commerciali, nelcorso della sua vita Zafar vede la propria dinastia degra-data e umiliata, mentre gli inglesi usano la forza mercan-tile come grimaldello dell’espansionismo militare. Salitoal trono da anziano, quando è ormai impossibile arresta-re il declino dei Moghul, l’ultimo imperatore è un fantoc-cio, tollerato dai veri padroni dell’India che ancora nonhanno gettato la maschera. Appare rassegnato a inter-pretare quel ruolo con una decorosa dignità. Il giornale dicorte del Forte Rosso di Delhi lo descrive come «un vec-chio benevolo dai modi impeccabili, che ogni giorno si famassaggiare i piedi con olio di oliva, si alza per visitare ungiardino, prende parte a una spedizione di caccia. Le sueserate trascorrono godendo il chiaro di luna, ascoltandomusici o mangiando manghi freschi. L’anziano impera-tore cerca di limitare le infedeltà delle giovani concubine,una delle quali viene messa incinta dal più famoso deimusici di corte». Gli inglesi scambiano la sua mitezza permediocrità, lo credono istupidito dall’ozio. Si sbagliano.«Personalmente», scrive Dalrymple, «era uno degli uo-mini di maggior talento della sua dinastia: abile calligrafo,profondo studioso di sufismo, accorto protettore di mi-niaturisti, ispirato creatore di giardini, nonché architetto

la storiaEpopee

Centocinquant’anni fa, nell’India sottoposta al crescentecontrollo coloniale, divampa la sanguinosa rivoltadei “sepoy”, i soldati indigeni arruolati sotto l’Union JackL’occupante la considera un ammutinamento, in realtàè la prima guerra d’indipendenza. Un grande storicole ha dedicato un libro appassionante come un romanzo

32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 4NOVEMBRE 2007

loro penetrazione in India è stata economicamente spre-giudicata ma culturalmente “soft”. Per tutto il Settecentoe fino al fatidico Mutiny, Londra delega l’espansionismoa una società privata, la East India Company. I suoi diri-genti sono abili affaristi ma subiscono il fascino della ci-viltà indiana: chiamati i “nababbi” o “Moghul bianchi”,sposano donne indiane, adottano usi e costumi locali.Lady Maria Nugent, moglie del comandante in capo del-le forze armate britanniche in India, nel diario che tienedal 1811 al 1815 descrive questi personaggi eccentrici:«Portano lunghe barbe e mustacchi e non mangiano némanzo né maiale, poiché sono indù quanto cristiani, senon di più. Hanno maturato opinioni e pregiudizi che lirendono quasi degli indigeni».

Questa fusione armoniosa nella società locale vienemeno a metà dell’Ottocento. La causa va cercata nell’a-scesa di una nuova religiosità in Gran Bretagna: il cristia-nesimo evangelico, antenato dei cristiani-rinati e dei teo-con nell’America di oggi. Se la East India Company ini-zialmente ha addirittura ostacolato l’attività missionaria,il nuovo movimento vuole salvare i pagani dalla danna-zione. L’Inghilterra si sente investita di una vocazione, ilproselitismo diventa parte integrante della sua presenzain India. L’imposizione aggressiva del cristianesimo è lacausa profonda della rivolta di 131mila sepoy dell’eserci-to del Bengala, la più numerosa armata moderna nell’A-sia di quell’epoca. La prima delegazione di sepoy chegiunge al cospetto di Zafar, l’11 maggio 1857, lo dice chia-ramente: «Ci siamo uniti per proteggere la nostra fede».L’adesione dell’imperatore è fondamentale per dare cre-dibilità alla guerra di religione. Secondo l’iscrizione checompare sul suo ritratto d’incoronazione egli è “Sua Al-tezza Divina, Califfo dell’Era, Colui che è circondato daschiere di Angeli, Ombra di Dio, Rifugio dell’islam”. L’e-sattore fiscale della Gran Bretagna a Mathura, MarkThornhill, intuisce che accade un miracolo. «C’era qual-cosa di strabiliante», scrive nei suoi appunti, «nel fatto chel’Impero Moghul, dopo un sonno di cent’anni, comin-ciasse così una specie di vita fantasma».

Si ripete per un attimo la magia di Akbar, il grande arte-fice del dialogo tra le religioni, regista di una convivenzaarmoniosa tra le comunità. Quando Zafar impugna loscettro della rivolta, indù e musulmani fanno quadrato at-torno a lui. Non solo per gli islamici ma anche per molti in-duisti l’imperatore ha l’aureola di un rappresentante diDio in Terra. L’adesione popolare intorno al vecchio so-vrano coglie impreparati gli inglesi: «Avendo da moltotempo smesso di prenderlo sul serio e perso completa-mente il contatto con l’opinione pubblica indiana, rima-sero stupiti per la reazione dell’Indostan al suo appello».

Ma Zafar non ha più le strutture robuste che ammini-stravano l’impero Moghul al tempo del suo antenato Ak-bar. Non ha attorno a sé una classe dirigente adeguataper tenere unite le tante anime della rivolta. Ben presto levecchie divisioni tornano a galla. Dopo poche settimanea contatto con i sepoy, l’élite benestante di Delhi diventainsofferente verso quei soldati rozzi e invadenti, ex con-tadini che saccheggiano i negozi della capitale e mole-stano le cortigiane. La capitale sotto assedio non vieneamministrata. La riscossa inglese recluta spie e disertoritra la gente di Delhi. Solo il nucleo più motivato dalla fe-de, i fautori della jihad islamica, terranno duro fino al-l’ultimo. Quando l’esercito britannico riprende posses-so di Delhi, è una carneficina. Un’eco lontana di quel-l’orrore risuona nei versi che Zafar compone nella suaprigione birmana:

Un tempo Delhi era un Paradisodove Amore imperava e regnava;ma il suo fascino ora è mortoe restano solo rovine.Non furono sparse lacrime, quando senza sudarioVennero gettati in fosse comuni;le sepolture restano anonime.

1857, l’ultimo Moghulcontro l’Impero britannico

FEDERICO RAMPINIdilettante; era un poeta mistico molto dotato che non so-lo scrisse in urdu e persiano, ma anche in braj basha epanjabi, e fu in parte grazie al suo mecenatismo che si ve-rificò il rinascimento letterario forse più significativo del-la storia indiana moderna».

Non è per natura un trascinatore carismatico, tanto-meno un ribelle. Ma quando la mattina dell’11 maggio1857 trecento sepoys e cavalleggeri entrano a Delhi, mas-sacrano ogni cristiano che trovano in città e lo proclama-no loro capo e imperatore, Zafar accetta la chiamata deldestino: assume il comando, un gesto decisivo nel confe-rire legittimità alla rivolta. È una parabola effimera ma og-gi si può dire che la vera vita di Zafar si consuma in queipochi mesi, tra il sollevamento del suo popolo e l’impla-cabile repressione inglese. In quel breve arco il vecchioMoghul ritrova la fierezza degli antenati, riscatta il diso-nore. La vampata di orgoglio gli vale l’odio eterno degli in-glesi, persecuzioni implacabili, anche quando in fin di vi-ta torna ad essere un povero relitto umano alla deriva. Ilcorrispondente del Times di Londra, William HowardRussell, vedendolo in prigionia stenta a credere che quel-l’uomo ha potuto sfidare la superpotenza inglese: «Era unvecchio sognante dagli occhi velati e vacui, sdentato e conil labbro inferiore debole e cascante. Era davvero lui cheaveva concepito quell’ambizioso progetto di restaura-zione di un grande impero, che aveva fomentato l’am-mutinamento più gigantesco della storia del mondo? Se-deva in silenzio giorno e notte con lo sguardo a terra, spen-to e appannato. Qualcuno lo udì citare versi da lui stessocomposti, mentre scriveva poesie sul muro con un ba-stoncino bruciato».

Sconcertati di fronte alla figura di Zafar, i vincitori tra-discono un’incomprensione profonda delle vere causedegli eventi del 1857. La scintilla che dà fuoco alle fiammeè un episodio in apparenza insignificante. Gli inglesi in-troducono nuovi fucili in dotazione. Si sparge la voce chele cartucce sono unte con grasso di manzo e di maiale. Do-vendole aprire con i denti i sepoy commettono un gravepeccato: gli indù non possono mangiare manzo e il maia-le è vietato ai musulmani. Come può questo incidente cir-coscritto — gli inglesi sostengono che è falso e comunqueritirano le cartucce incriminate — scatenare la rivolta diun continente?

La verità è che l’equilibrio della convivenza tra le fedi re-ligiose è stato sconvolto proprio dagli inglesi. All’inizio la

Anziano, debole, umiliato,l’imperatore Zafar II

accetta di porsialla guida dei ribelliCostretto all’esilio,

con lui finirà la dinastia:dopo i primi rovesci,

la repressione dei generalianglosassoni

è feroce e culminanei massacri di settembre

a New DelhiSOLDATO

Il generale John Nicholson, conquistatore di New Delhi POETA

Zafar II, l’ultimo imperatore Moghul

IN LIBRERIA

L’editore Rizzoli manda in libreriail 7 novembre L’assedio di Delhidi William Dalrymple(600 pagine, 23 euro)Il noto storico e scrittoreanglosassone ricostruiscela vicenda della rivoltadei sepoy del 1857e la successiva ferocerepressione britannicautilizzando per la prima voltanumerosi archivi indianiPer gentile concessionedell’editore, pubblichiamonella pagina accanto un branodel libro sulla figura del generalebritannico John Nicholson

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 4NOVEMBRE 2007

Nel frattempo più a nord-ovest, a Pe-shawar, non appena arrivarono itelegrammi da Delhi la notte

dell’11 maggio due dei funzionari evange-lici più attivi dell’India, Herbert Edwardese John Nicholson, si incontrarono per di-scutere la strategia da adottare. La solu-zione che escogitarono fu la formazione diuna forte colonna mobile di soldati com-posta perlopiù da irregolari, in grado di in-timidire e terrorizzare il Panjab affinché sisottomettesse. [...]

Nicholson aveva anche qualche altraidea più sanguinaria, che non comunicòal superiore, ma fece conoscere a Edwar-des in seguito, quando si vennero a sape-re ulteriori dettagli sui massacri di Delhi.Suggerì che insieme proponessero «unalegge per scuoiare vivi, impalare o brucia-re gli assassini delle donne e dei bambinibritannici di Delhi. L’idea di limitarsi a im-piccare i perpetratori di tali atrocità mi faimpazzire. Non accetterò, se posso evitar-lo, di vedere diavoli di quella fatta cavarse-la con una semplice impiccagione».Quando Edwardes rifiutò di lasciarsi con-vincere dall’idea di Nicholson, questi re-plicò che se Edwardes non l’avesse soste-nuto l’avrebbe proposta da solo. [...]

Nicholson non era un uomo disposto aricevere ordini — e meno ancora critiche— da nessuno. [...] Protestante dell’Ulster,taciturno e riservato, si diceva che mentreera District Commissioner a Rawalpindiavesse decapitato personalmente un ca-po predone locale, tenendone poi la testasulla scrivania come memento. Era inol-tre un uomo di poche parole; una sua tipi-ca annotazione contenuta negli archivi èuna lettera a Lawrence che riportata perintero dichiara: «Signore, ho l’onore diinformarvi che ho appena sparato a unuomo venuto per uccidermi. Con i miglio-ri ossequi, John Nicholson». [...]

Può darsi che Nicholson sia stato, comesosteneva un osservatore, «la vera e pro-pria incarnazione della violenza», tuttaviail suo temperamento quasi psicopatico siadattava a perfezione alla crisi in corso.Cominciò immediatamente a marciareavanti e indietro, disarmando reggimentidi sepoy, soffocando ammutinamenti, poiimpiccandone i capi: rinunciò all’abitudi-ne di sparare gli ammutinati legati allabocca dei cannoni, all’antica manieramoghul, non per pietà, ma perché ritene-va che «la polvere consumata così potreb-be essere impiegata in modo più utile». Lesue azioni diedero ben presto vita a unaleggenda vittoriana. [...] Non prendevaprigionieri. Un ufficiale che faceva partedella sua colonna mobile udì casualmen-te questo scambio di battute: «Jack, il ge-nerale è qui. «

«Come fai a saperlo?»«Guarda là, c’è il suo marchio!»Il «marchio» indicato dal militare era

costituito da un paio di forche, da ognunadelle quali pendevano sei ammutinati,mentre vicino c’erano parecchi carri tira-ti da buoi, tutti zeppi di sepoy che si eranoribellati ed erano in attesa del loro turno.[...] Nicholson tenne ben poche corti mar-ziali. Quando sir John Lawrence gli scrissechiedendogli «un ritorno delle corti mar-ziali cui deferire gli indigeni insorti, conuna lista delle varie punizioni che verran-no inflitte», l’implacabile Nicholson ri-mandò semplicemente indietro il dispac-cio dopo aver scritto sul verso: «La puni-zione per l’ammutinamento è la morte».

In una calda notte di metà maggio, vi-cino a Jalandhar, un gruppo di ufficialibritannici assegnati alla colonna mobiledi Nicholson sedeva, affamato, nella ten-da della mensa in attesa della cena; il ci-bo sarebbe dovuto arrivare un’ora prima,ma un messaggero inviato alle cucinetornò con l’informazione che il pasto sa-rebbe stato servito un po’ in ritardo. Infi-ne, l’alto e rude Nicholson entrò a grandipassi, tossì per attirare l’attenzione deipresenti, e si scusò: «Signori, mi dispiacedi avervi fatto aspettare la cena, ma stavoimpiccando i cuochi».

Tramite le sue spie Nicholson avevascoperto che i cuochi del reggimentoavevano appena avvelenato la zuppa de-gli ufficiali con l’aconito. Dapprima in-vitò i cuochi ad assaggiarla, poi, quandorifiutarono, fece inghiottire a forza il li-quido caldo a una sfortunata scimmia,che dopo essersi contorta per qualcheistante morì. Nel giro di pochi minuti, co-me si espresse uno degli ufficiali presen-ti, «i cuochi del reggimento ornavano unalbero nei pressi».

Traduzione di Lorenza Lanzae Patrizia Vicentini

(© 2006 William Dalrymple© 2007 Rcs Libri Spa)

Nicholsonil Vendicatore

WILLIAM DALRYMPLE

SCIABOLEIconografia della rivoltadei sepoy: La liberazionedi Lucknow ad operadi Sir Henry Havelock,dal volume d’epocaHeroes of History,edito a Londra

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Repubblica Nazionale

In silenzio. «Parlare con lui», disse una volta sua moglieJosephine Nivison, «è come lanciare una pietra nelfondo di un pozzo, la senti andare a fondo». E il suoamico John Dos Passos, l’autore di Manhattan Tran-sfer: «Stava seduto nello studio per ore bevendo tè.Ogni tanto sentivo che era sul punto di dirmi qualco-

sa, ma poi non lo faceva».In silenzio e lentamente. Edward Hop-

per ha guardato l’America e ha visto ilcuore di noi che guardiamo. La luce deisuoi quadri, dilatata e obliqua — che im-mobilizza l’interno notturno di un bar, lacasa isolata sull’oceano, la stazione dibenzina, la stanza di un motel, lo scom-partimento di un treno, uomini e donneche aspettano — racconta l’ombra che ciportiamo dentro. E la vertigine che la cir-conda. Il suo mondo di spazi e silenziosecircostanze ci è familiare anche se nonl’abbiamo mai visto prima. Ha i colorireali e la potenza dei sogni che ci sveglia-no, ma mai di soprassalto. È lo sguardoche abbiamo provato in un addio. È illampo di un ricordo. È la lontananza cherimpiangeremo.

Hopper nacque e abitò in quella lonta-nanza. Era il suo baricentro e il suo segre-to. Venne su solitario e introverso — ca-rattere di pietra e denti forti, occhi grigioazzurri, grosse labbra a sigillare la timi-dezza — in un paese da nulla, Nyack, trail fiume Hudson e New York City, anno1882, famiglia benestante, padre e madreproprietari di un negozio di tessuti, in-fanzia senza scosse e domeniche allachiesa battista per ringraziare il Signoredei cieli tersi, del pane ben guadagnato,dei destini della bianca America.

Edward sa disegnare. Il padre lo asse-conda. Frequenta la New York School ofArt. I ragazzi dipingono cavalli, grano ap-pena tagliato, paesaggi d’acquerello,epopea della Frontiera. Lui incontra Ro-bert Henry, il pittore, che gli insegna a co-piare dal vero a rendere nitido il disegno,pulito il colore. Quando ha imparato ilnecessario su quello che si vede in super-ficie, parte per Parigi, a caccia di tutto ilresto, quello che vive imprigionato nellaluce. Ci arriva nell’inverno del 1906, ma-linconia da pioggia, e un atelier in rue deLille. Ma senza bohème, senza incontra-re Gertrude Stein o Picasso, senza abita-re le notti di Montmartre con i suoi stra-

scichi di assenzio. Indossa cravatte e non ha amici. Dipingelungo i bordi della Senna e nei parchi. Cammina assorto. Di-segna i ponti. Studia gli interni di Degas, le strade bagnate diSisley, i cieli di Manet. Copia gli impressionisti, ma imparasubito a fare correre altra luce per secretare di più il suo ba-ricentro solitario. «A Parigi», racconterà, «la luce è diversa datutti gli altri posti. Persino le ombre sono luminose». Ci viag-gia dentro un anno intero e poi due altre immersioni, fino al-l’ultimo ritorno nel 1910: da quell’anno in poi mai più Euro-

pa o viaggi in altri mondi. Solo un pezzo di Messico e poi lavastità d’America, che girerà con la sua grossa Buick verde ebianca, in silenzio, con la moglie accanto, fino alla Califor-nia, al bianco abbagliante del Texas, agli abissi disturbantidel Colorado.

Guardare è il suo lavoro più puro, più faticoso. Il suo mo-do di mettersi in viaggio verso il cuore delle cose: «Non di-pingo quello che vedo, ma quello che provo». Detesta l’a-strattismo che dall’Europa sgocciola fino alle tele di Pollock:«È solo un freddo esercizio intellettuale». Non gli interessa ilrealismo, con i suoi troppi dettagli, perché il suo sguardo ve-de di più: «Se potessi esprimerlo con le parole, non ci sareb-be bisogno di dipingerlo».

Negli anni della sua fama celebrata dalle grandi retrospet-tive del Modern Art e del Whitney Museum, la critica si in-chinerà a quello sguardo di eyewitness, di testimone oculare.Alla sua capacità di parlarci di quel colpo di scena che ci ri-guarda: fronteggiare la vita, farsi piegare dalla vita, in un po-meriggio qualunque, inondato di sole, o in una notte al neon.Quando c’è appena il tempo di chiederci: cosa è successo?Cosa sta per succedere?

Ma con Edward Hopper parlare di un prima — e di un do-po-fama non ha molto senso. Quell’implosione del tempoche ci spaventa e che ci attrae nelle sue inquadrature di spec-chio americano, è il maggiore dettaglio della sua lentissimaesistenza, il perimetro che la contiene. Senza mai troppe in-terferenze. Nel 1913 affitta una casa studio all’ultimo pianodel numero tre di Washington Square, cuore del GreenwichVillage, e sarà il suo indirizzo per sempre: settantaquattroscalini per arrivarci, le ampie finestre, la stufa, un grosso ca-valletto che si è disegnato e costruito a mano, pochi mobiliintorno, niente disordine, un quadro da lavorare alla volta.Nel 1924 sposa Josephine e sarà sua moglie per sempre. Lasola donna. La sola compagna di viaggi. La sola modella, de-clinata cento volte, in piedi sulla soglia, intravista da una fi-nestra, nuda o vestita, mentre legge, mentre guarda, mentreaspetta un treno che non parte o qualcuno che non arriverà.Quell’anno vende il suo primo quadro. Smette di disegnareillustrazioni pubblicitarie, velenose per la sua ricorrente de-pressione. Legge Freud e Bergson. Nel 1930 scopre CapeCod, le spiagge, la luce oceanica. Sceglie un rettangolo e den-tro ci costruisce una casa, isolata dal resto del mondo, con leassi, il tetto spiovente, monumentali finestre su ogni lato, pertutte le sue estati a venire, fino alla fine.

Un indirizzo, una donna, una casa nel nulla, una sola au-tomobile. Tutto dentro i confini della propria esistenza. Do-ve concentrare le linee e la luce. Citando a perpetua memo-ria l’insegnamento di Goethe: «Riprodurre il mondo fuori dime, coi mezzi del mondo che è dentro di me». Seguendo latraiettoria di Degas: «Si dipinge solo quello che è necessario».Sbarazzandosi di tutto il superfluo: «Sono l’unica personache mi ha influenzato».

Un’estate viaggia lungo i confini messicani. Prende ap-punti, riflette, ma troverà materiale per un solo quadro, unalocomotiva. «Guardo tutto il tempo per trovare qualcosa chemi suggestioni». Non lo sa mai prima e quando se ne accor-ge non lo sa spiegare: «Non so perché dipingo determinatioggetti». Per esempio Gas, la sua famosa pompa di benzinache sorprese come una rivelazione: «Su Gasnon c’è niente dadire. Avevo in mente di dipingerla da un po’». Nulla è reali-stico anche se lo sembra. E in quel nulla i corpi hanno la stes-sa fissità dei paesaggi e forse la medesima sostanza. Dirà:«Tutto quello che volevo fare è dipingere la luce del sole sullato di una casa». Lo ha fatto per 366 volte in una sessantinad’anni, dipingendo meno di cinque quadri l’anno.

Hopper, il pittoreche catturò la luce

Molto pocoaccadde nella vitadell’autoredi “Nighthawks”

Un indirizzo,una donna,una casa nel nulla,una sola automobile

PINO CORRIAS

34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 4NOVEMBRE 2007

l’immagine

IL LIBROLa copertinadel libro Il teatrodel silenzio,da cui sono trattele illustrazionidi queste pagine

HIGH NOON (1949)Come per tutte le altre opere nella pagina,accanto al quadro i disegni preparatori

SUMMERTIME (1943)Summertime (al centro delle pagine)fu realizzato nel 1943I personaggi femminili dei quadri di Hopperquasi sempre raffigurano la moglie Jo

OFFICE AT NIGHT (1940)“Testimone silenzioso dell’America”:così Hopper fu definito da Time nel 1956

Repubblica Nazionale

Nelle foto che gli scatta Bernice Abbott, a cavallo tra gli an-ni Quaranta e Cinquanta, in cima ai settantaquattro scalini,nella casa studio, sta molto composto sulla poltrona, accan-to alla stufa, con giacca, cravatta, panciotto, lo sguardo drit-to, il vuoto intorno. Ed è più o meno tutto quello che serve adescriverlo, compreso il fatto che manchi Jo, la moglie, tan-to inseparabile da scomparire allo sguardo del mondo. Can-cellazione niente affatto involontaria che generò conflitti si-lenziosi e lunghissimi litigi, ma anche (come accade) abne-gazione al reciproco dolore. Perché poi nel vero mondo a oliodi Hopper lei gli sta sempre accanto, davanti al mare inon-dato di luce, o dentro la notte di Nigthawks, I nottambuli,quadro celebre e celebrato per purezza di notte americana,solitudine e cinema. Inizio di infiniti racconti e suggestioniper consonanza con altri tormentosi incanti che arriveran-no fino all’inchiostro di John Cheever, fino a Raymond Car-ver, fino agli accordi lenti di Miles Davis. E che nessun gio-cattolo dell’imminente pop art saprà rendere con tanta im-mobile efficacia.

La rivista Time nel Natale del 1956 gli dedica la copertina:«Il testimone silenzioso dell’America». L’apoteosi non loscalfisce. Le quotazioni non incidono sulla sua vita spartana.Il suo ultimo quadro, anno 1965, si chiama Two Comedians,ha un palcoscenico in primo piano e sul nero che li circonda,due attori in costume bianco, lui e lei, che si inchinano per ilcongedo. Se ne vanno per davvero due anni dopo, prima lui,il 15 maggio del 1967, poi lei, dieci mesi più tardi. Uno alla vol-ta, però insieme.

Gli importavaguardare,il suo lavoropiù faticoso

Di se stesso disse:“Sono l’unicapersona che miha influenzato”

Così costruiva il suo “teatro del silenzio”AMBRA SOMASCHINI

Scarni, sobri, vuoti, niente dettagli, perché i dettagli suggeri-scono suoni. Hopper dipingeva per sottrazione, toglieva, li-mava, estirpava. Dipingeva i suoi silenzi a olio per gradi. Il tea-

tro del silenzio: l’arte di Edward Hopper (di Walter Wells, PhaidonPress Limited, 69,95 euro, 240 pagine, 220 illustrazioni, in libreriadal 13 novembre in Italia, Spagna e Germania) mette insieme diari,bozzetti, schizzi, taccuini: un’arte preliminare archiviata giorno pergiorno, anno per anno, dalla moglie Jo Nivison. Il libro restituisce ilpensiero del pittore impresso su carta di quaderno, perlopiù a righe.Walter Wells, professore emerito di English and American Studiesalla California State University di Dominguez Hills ci spiega come.

Professor Wells, i journal sketches di Hopper approdano in Ita-lia. Sono conosciuti nel mondo?

«Sono stati esposti al Whitney Museum di New York, riprodottinella biografia di Gail Levin, raccontati da Deborah Lyons (E. Hop-per: a Journal of his Work). The silent Theatre ha saputo condensa-re un po’ tutto, gli schizzi, il pensiero, i disegni preliminari.

Cosa significa per lei silent theatre? «In senso letterale tutti i dipinti sono silenziosi. Ma quelli di Hop-

per sono misteriosamente vuoti, le figure sembrano mute. Sapeva

semplificare, eliminava l’inessenziale, caricava il silenzio di unapalpabile tensione. Un’opera che richiama le emozioni dell’e-spressionismo di Munch, del surrealismo di Magritte. Dal punto divista psicologico qualcosa sta succedendo o sta per succedere... Ve-niamo come trasportati di fronte a una soglia esistenziale».

Come lavorava? «Molti dei suoi acquerelli sono dipinti en plein air. Per gli oli pre-

disponeva schizzi preparatori sulla scena, poi li portava negli studidi Washington Square a New York, di Truro a Cape Cod. Diceva:“Cerco di proiettare sulla tela le mie più intime reazioni al soggettocome mi è apparso nel suo momento migliore... Credo siano i sog-getti il mio miglior medium per una sintesi della mia esperienza”».

Un esempio.«Nighthawks. Tre clienti e un oste in un ristorante aperto di not-

te. Era sul cavalletto il giorno in cui i giapponesi bombardarono laflotta americana a Pearl Harbor. Nighthawks fa emergere il nostrodesiderio di un rifugio illuminato, sicuro nel turbamento della not-te. Racchiude i legami dell’artista con il Caffè di notte di Van Gogh;con A Clean Well-Lighted Placedi Hemingway; con una poesia, Set-tembre 1, 1939 di W.H. Auden».

NIGHTHAWKS (1942)Solitudine notturna: forse l’operapiù famosa e riprodotta di Hopper

TWO COMEDIANS (1965)È l’ultimo quadro di Hopper, che sembrapreludere all’uscita dalla scena della vita

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 4NOVEMBRE 2007

Repubblica Nazionale

Evoluzione

C’è un modo di svelare i misteri estetici celati nei corpidegli animali, le simmetrie e gli elementi della perfezioneanatomica che li caratterizza: sono le fotografie

di Patrick Gries. Attraverso duecento immagini di rara bellezza un nuovo libro,firmato con Jean-Baptiste de Panafieu, ci guida alla scoperta dell’essenzadei vertebraticonservati nei più importanti musei di storia naturale del mondo

CULTURA*

36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 4NOVEMBRE 2007

OTTAWA

Una mitica “striscia” diHart mostrava due “uo-mini delle caverne”sdraiati al sole, mani in-

trecciate dietro la nuca, in perfetta bea-titudine. Ecco il dialogo: «Che bello il so-le! Come è caldo! Mi ci sto proprio scio-gliendo. Anche tu, no?». «Sì, ma anche lefragole: non sono incredibili?». «E le ra-gazze, dove le metti, le ragazze?».

La striscia si intitolava: Evolution. Disicuro, quelle pochissime parole eranomolto più significative e intelligenti ditanti libri sull’evoluzione biologica esulla biologia sociale, specialmente ne-gli anni bui in cui, per lo meno da noi, sidoveva essere anti-darwinisti e astuta-mente filo-lamarckiani perché i “Mae-stri del pensiero” così ci consigliavanodi pensare. Il Francese era più elegante,snello, più philosophe,mentre il poveroInglese, tutto sommato, era un rotondoborghese che aveva avuto, anche, la for-tuna di sposare la Wedgewood e, di con-seguenza, poteva dedicare tutti i pome-riggi ad interessarsi ai piccioni viaggia-tori e ai loro modesti piumaggi. Era l’e-poca dei geni egoisti o generosi, dei ca-si e delle necessità, delle api proletarie edelle formiche naziste. Per fortuna sia-mo sopravvissuti anche a questa cata-strofe culturale e possiamo guardare,quasi con occhi nuovi, a degli innocen-ti ma assai eloquenti scheletri: assai benfotografati. Essi ci appaiono da tutto ri-puliti, dopo un bel lavaggio sia di secoliche di detersivi che ha trascinato via unbel po’ di allegorie, ideologie proletariee borghesi e, a volte, persino il “com-

plesso militare-industriale”. Ben aveva visto Charles Darwin, ap-

punto, quando aveva con impeccabilegentilezza richiesto a Karl Marx che nongli venisse dedicato il Secondo Volumede Il Capitale. L’età, la fatica del leggere,un impegno molto esauriente nel con-trollare le bozze del suo ultimo, insigni-ficante, libro sull’evoluzione umana…tutto si opponeva allo studio dell’im-mensa e meravigliosa opera del Tede-sco, che il suo nome avrebbe dovutoproteggere da attacchi di varia natura.Ma intelligentemente previsti da Marx.Darwin si rimise, con calma, a studiare,con suo figlio, i movimenti millimetricie giornalieri di tre o quattro piante chestavano lì, nelle sue serre. La serra, “dasGlasshaus”, è proprio un oggetto archi-tettonico, in un certo senso, ambiguo. Ilvetro che delimita lo spazio dove lepiante crescono irresistibilmente ri-chiama l’idea di superficie, astratta, pu-ra: mera delimitazione volumetrica.Quando l’architetto Van der Loos teo-rizzava, pensando alla “casa”, alla dico-tomia amichevole tra “pelle” e “schele-tro”, e metteva in poche e assai preciseparole una estremamente complessaindagine secolare. Quella tra l’appariree l’essere, tra l’esser visto e il vivere, trail cosiddetto Esterno e l’altrettanto co-siddetto Interno. Ma, nella dualità teo-rica e concettuale tra ciò che si vede e ciòche si sa, la superficie, la pelle, andavaperdendo, o solo non guadagnava, suf-ficiente significato. Era, la pelle, il limi-te ottico, direttamente fenomenico del-l’organismo dietro a lei celato. Una sor-ta di sipario, di courtain, priva in sé divalore e di intrinseca funzione.

Tutti ricordiamo la meravigliosa me-tafora della “cortina di ferro”. La “corti-

politica, tecnologica e militare della in-visibilità. Reciproca.

Allo stesso modo la pelle, la scorza, lapelliccia, le scaglie, il piumaggio, il ca-rapace, le piastre, le cortecce erano so-lo la cortina fenomenica che impedivalo sguardo entro il disordine sanguino-so, le asimmetrie assurde del corpoprofondo, i condotti convoluti, umidi,irregolari, annodati, i fili follemente in-trecciati in modo delirante e labirinticodove passa il pensiero, il comando e lamemoria. Alla pelle era affidata la con-dizione vitruviana, architettonica, alle-gorica della simmetria dell’atto del vi-vere. Occorrono centinaia di anni diastute riflessioni, di ferite da taglio e daproiettile, di ore e ore di dissezioni più omeno teatrali in teatri più o meno ana-tomici perché la pelle si riveli come unaulteriore e infinitamente intelligenteinterfaccia. Perché si comprenda comein essa, e su di essa e “dopo” di essa,avessero luogo continue battaglie tramolecole e molecole, molecole e fotoni,fotoni contro atomi, tra fluidi in corsa esbarramenti di cellule impenetrabili adogni liquido. Tra radiazioni lasciate ge-nerosamente entrare nel corpo ed altrebrutalmente escluse da buttafuori dicui alcuni lavorano a tempo pieno per laIndustria della Bellezza Perenne.

La metafora della “serra” fa dimenti-care che è proprio a livello del vetro cheavvengono gli atti entropici e termiciche la rendono tale. Lo stesso per la pel-le umana. All’ingresso dell’Istituto didermatologia e malattie veneree del-l’Università di Pisa stava, e quasi di si-curo sta ancora una colonna rivestita dimosaico che porta la scritta: sicut in cu-te et intus. Che, tradotta in italiano, si ri-vela: come sulla pelle così dentro.

La pelle diviene quindi la copertinaassolutamente leggibile del volume an-cora chiuso ma già quasi perfettamen-te intuibile dell’essere che essa avvilup-pa. Ha, forse e perfezionando la me-tafora, la funzione più che della coper-tina, del frontespizio, inteso come lo funel Rinascimento e nel Seicento euro-peo. La densità allegorica e simbolica diqueste pagine intensissime e colme diinformazione in tutti gli angoli è quasiinesauribile. Valgano per tutte le imma-gini dei Trattati di Architettura di Phili-bert Delorme, l’architetto dello Châ-teau d’Anet (1547-1555). In queste im-

na” in sé era il Check Point Charlie, era-no la catena ininterrotta dei posti diblocco tra Germania Est e GermaniaOvest, erano mura e finestre sbarrate diambasciate. Fu il muro cementizio e nu-do dove andò a morire nel 1965 Alec Lea-mas, alias Richard Burton. È così che de-vono morire le “spie che vengono dalfreddo”. Perché esse hanno commessoil peccato mortale di vedere lo scheletrodel Nemico. Di penetrare oltre la pelle,entro le ossa di una misteriosa creaturapolitica, sociale, religiosa che aveva se-guito, di tutti i cammini dell’Evoluzionestorica, uno molto strano, anomalo: ete-rodosso. La Società Comunista stavasviluppandosi lungo una linea non rigo-rosamente darwiniana. I suoi meccani-smi di conquista dell’ambiente stavanoseguendo leggi imprevedibili e tutto eraancora da giocare. Essa si presentava,come un mutante dell’organismo stori-co codificato e trascritto del Gene Bor-ghese. Ma, in sé, la “cortina” non aveva,ancora, struttura. Era solo la condizione

RUGGERO PIERANTONI

Gli scheletri architettinudi alla meta

Nella dualità teoricatra ciò che si vedee ciò che si sa, la pelleera il limite ottico

TARTARUGA DAL GUSCIO MOLLEChitra indica, India, Pakistan, Nepal(43 centimetri)Museo di storia naturale di Parigi© Editions Xavier Barral, Paris 2007

PITONEPython sp., regioni tropicali di Africa,Asia e Australia (230 centimetri)Museo di storia naturale di Parigi© Editions Xavier Barral, Paris 2007

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 4NOVEMBRE 2007

magini l’Architetto cattivo è rappre-sentato come un vero mostro, senzabraccia, deforme, cieco, brancolante.Ci si chiede come possa vivere unacreatura così, come sarà il suo schele-tro? Come funziona la sua fisiologia? Èl’Architetto deforme, simboleggia egliuna sconfitta evolutiva oppure si trattadi una nuova creatura che deformerà ilsuo ambiente sino ad installarsi in esso,con tutti suoi enormi handicap, e do-minarlo una volta per tutte e, finalmen-te, distruggerlo?

Questa figura orrenda e solitaria eforse solo molto infelice perché le è ne-gato il dono rinascimentale dell’equili-brio, della simmetria e della bellezza facontrasto con i contemporanei bellis-simi scheletri dei trattati di anatomia.Forse non esistono creature grafichepiù di queste nostalgiche della vita, piùdesiderose di un narcisismo interno,privatissimo, più elegantemente ma-linconiche. Ma non nel senso düreria-no del termine. Dove la melanconia siaggira in un ambiente oscuro, domina-to dal volo di un pipistrello dalle ali qua-si stracciate, da un arcobaleno lirico malivido. Se Narciso si appagava, moren-do, del proprio viso, della propria pelleriflessa nell’acqua tranquilla, ma mol-to profonda, essi, gli scheletri anatomi-ci, gli scheletri architetti, si compiac-ciono di mostrare come siano elegan-temente svestiti, di come i muscoli af-fusolati si abbandonino tra le loro ditasensibili, di come l’anca, anche se nu-da, riveli tutta la sensualità di quella vi-va, piena e calda. Eppure, lo scheletroevocato in queste immagini non è soloopzione grafica, emozione sensuale eforse malata, è anche atlante, dimo-strazione scientifica, misura del corpo,sistema proporzionale, testo arido ditecnologia strutturale. È: fotografia.Con dentro tutta la latitudine culturaledel termine. Riscontro scientifico,quantitativo, analitico e soprattutto“obbiettivo”. Ma, al tempo stesso ma-linconia e pensiero fisso, lunga poesiacon ampie rime corporee in bianco enero. E, invito al piacere e alla memoriadi esso. La fotografia può di più: moltodi più. Non è il caso di rievocare i conti-nui sobbalzi di opinione circa questomezzo di rappresentazione. Dall’ado-razione acritica, al profondo disprezzo,dalla pragmatica implementazione

nell’illusionismo didattico, dall’usoperfettamente mondano nelle opera-zioni alle procedure meramente tecni-che della replicazione infinita di imma-gini e, con il tempo, di oggetti.

Mi pare di rammentare che una dellemassime tragedie editoriali sia stato uncostosissimo atlante anatomico uma-no costituito esclusivamente da foto-grafie. Erano esse numerosissime, im-peccabili, e purtroppo correttamente“colorate”. L’Atlante risultò un com-pleto fallimento: ovviamente. È una an-

tichissima scoperta che ogni forma dirappresentazione coincide con un pro-cesso di esclusione. Il produttore di im-magini è conscio, o dovrebbe esserlo,che non tutto è “rappresentabile”. De-ve quindi in assoluta e feroce conti-nuità agire sotto una censura internache gli fa eliminare progressivamentequell’ombra, e quel riflesso, e quellaparte dell’oggetto che non può esser vi-sibile. E, magari, rappresentare proprioquello che non si può o non si deve “ve-dere”.

Le strutture ossee raffigurate nel volumenon danno solo emozione sensuale: dannoanche un riscontro scientifico, analitico,quantitativo e soprattutto obbiettivo

ZAMPE PERDUTEScinco gigante (Macroscincus coctei), Capo Verde

(55 centimetri); Luscengola (Chalcides chalcides), Europasudoccidentale, Africa del nord (55 centimetri); Tiflope (Typhlops

reticulatus), America del sud (92 centimetri)Museo di storia naturale di Parigi

© Editions Xavier Barral, Paris 2007

DRAGO VOLANTEDraco Volans, Sud-est asiatico(17 centimetri)Museo di storia naturaledi Parigi© Editions Xavier Barral, Paris 2007

In questi scheletri mirabilmente fo-tografati contro un fondo assoluto,perfettamente nero, solo linguistico enon fenomenico, il processo di esclu-sione ha già avuto luogo. Per alcuni, daqualche milione di anni, per altri soloda pochi decenni o secoli di evoluzio-ne museale. Tutte le illusioni della vi-ta, il colore, gli odori, il frustare dellacoda, la flessione della mandibola, ilrapido balzo millimetrico nel portarela morte o la vita in un’altra creatura,tutto questo è stato accuratamente la-

vato via. Ogni corpo, tramontata la in-dividualità visiva, l’illusione della uni-cità, l’incubo dell’esistere in solitudi-ne in quel modo particolare si presen-ta all’obbiettivo reso finalmente pla-tonico nel suo essere. Non è più il tem-po degli aggettivi, delle rime, delle me-tafore è il tempo assoluto della formaresa perfettamente inutile. Di tutti imezzi rappresentativi solo la fotogra-fia, e questa fotografia in particolare,poteva competere trionfalmente conla morte relegandola in un spazio con-sumato ormai da tanto tempo da averperso di tempo e nome e funzione.Ogni atto grafico, manuale, ogni so-prassalto delle dita e del bulino o delpennello o della matita avrebbe conti-nuato a compromettere questa tantomeritata eternità.

La fine meravigliosa del film diMaximilian Schell Der Fussganger(1974, Il Pedone) contiene una sorta dianticipazione a questo Evolution. Nel-la camera dove dorme un bambino,ricchissimo e tedesco ed erede di unaimmensa fortuna, dorme anche unaenorme vertebra di dinosauro. Moltianni prima, il nonno potente ma forseassassino di innocenti bambini grecine fece un dono esclusivo al piccolissi-mo nipote. Un misterioso tentativo dicancellare la memoria della strage? Lamacchina da ripresa accarezza il bam-bino nel sonno poi si solleva nell’aria e,in perfetto assoluto silenzio, senzaninnenanne consolatrici o grida divendetta e «pianto ed inni e delle Par-che il canto», entra nella vertebra e viscompare.

E, quindi, siano essi stati celacanto,narvalo, piraña, pinguino di Magella-no, corallo pocillopora, cesto di Vene-re o drago volante, essi sono adessonull’altro che una distribuzione dipixel candidi spersi entro un deserto dipixel neri. Sono stati resi perfetti da unquasi perfetto oblio.

Me ne stavo tornando “a casa”, quiin Ottawa, quando mi sono reso contoche alla porta della “mia” “School ofArchitecture” stava sospeso e dondo-landosi nel vento a zero gradi un gran-de scheletro di plastica cartone e ges-so. Faceva gesti graziosi, invitanti ver-so di me. Chissà perché. Solo sul bus,un po’ tardi, ho capito: oggi è ancheHalloween.

Il grande libro, sempre aperto e che convienesforzarsi di leggere, è quello della Natura; glialtri libri sono tratti da questo e contengono

gli errori e le interpretazioni degli uomini. Ci so-no due rivelazioni: una dottrinaria della Morale edella Religione, e l’altra che ci guida attraverso ifatti, che è quella del grande libro della Natura.

Gli aerei sono fatti in modo simile agli insettidalle ali piatte non pieghevoli, e questi volano datanti secoli con una totale perfezione. La costru-zione ha per oggetto liberarci dal sole e dallapioggia; imita l’albero, che prende su di sé il solee la pioggia.

L’imitazione arriva fino agli elementi, infatti lecolonne all’inizio erano alberi; e poi vediamo icapitelli ornarsi di foglie. Questa è un’ulterioregiustificazione della struttura della Sagrada Fa-milia. [...]

Tutto proviene dal grande libro della natura; leopere degli uomini sono già un libro stampato. Learchitetture del “rinascimento”, come quella gre-ca e quella romana, fanno uno zoccolo, sono unaroccia isolata; nel Rinascimento si ammucchianogli zoccoli (attici e di ordini monumentali). Il Par-tenone e il tempio di Phile sono zoccoli. Tutti glistili sono organismi imparentati con la natura; gliuni sono una roccia isolata come quelli greci equelli romani, altri sono come profili di monti e divette, come quelli indiani. Tutti consistono nel-l’appoggio minimo che è ciò che ha carattere, ov-vero la colonna e le parti orizzontali sostenute;nell’insieme è l’albero; e le sue proporzioni sonoquelle della figura umana, cosicché non è l’albe-ro-albero (dato che un edificio ha altre funzioni ri-spetto a un bosco), ma l’albero-uomo. E questocomprende e spiega tutti gli stili; l’albero-uomo

egizio, greco, bizantino, gotico, eccetera. [...]Dio non ha fatto nessuna legge sterile, vale a di-

re che tutte hanno la loro applicazione: l’osser-vanza di queste leggi e di queste applicazioni è larivelazione della fisica della Divinità. Le invenzio-ni sono imitazioni di quelle applicazioni (aereo,imitazione di un insetto, sottomarino, di un pe-sce). Per questo, quando un’invenzione non è inarmonia con le leggi naturali non è percorribile.

Al mondo, non si è inventato nulla. La fortunadi un’invenzione consiste nel vedere ciò che Diomette davanti agli occhi di tutta l’umanità; guar-da se non sono migliaia di anni che le mosche vo-lano, eppure solo adesso noi uomini ce ne siamoaccorti e abbiamo costruito gli aeroplani.

Traduzione di Luis E. Moriones(Tratto da “El pensament de Gaudí”

a cura di Isidre Puig-Boada, Editorial Dux, 2004)

“Non si inventa nulla, solo si imita la Natura”Le riflessioni del genio che progettò la Sagrada Familia

ANTONI GAUDÍ

IN LIBRERIA

Le immagini di queste pagine sonotratte dal libro Evoluzione (Equatore,288 pagine, 70 euro). Un viaggioattraverso le 200 immagini di PatrickGries e i testi di Jean-Baptistede Panafieu alla scopertadegli scheletri degli animalivertebrati conservatinei più importanti musei di storianaturale del mondo. Serpenti,lucertole, testuggini che,oltre a rimandare alla teoriadarwiniana dell’evoluzionedella specie, offrono suggestionidi natura architettonicaCome se quei corpi ridottialla loro essenza meccanicarivelassero leggi di armoniae di proporzione universalida sempre seguite dai più grandiarchitetti della storiaIl volume (formato 29x29)sarà in libreria il 7 novembre

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20 Ottobre 2007 | 4 Maggio 2008

GENGIS KHANE IL TESORO DEI MONGOLI

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Chinese Academy of International CultureComune di Treviso - Fondazione Italia CinaTouring Club Italiano

Organizzazione: Sigillum

Repubblica Nazionale

38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 4NOVEMBRE 2007

la letturaPamphlet

cosa che fanno già da tempo — ma an-che difese morali per gli imprenditoripiù furbi. Descrivono il cervello d’ac-ciaio e il cuore d’oro del capitalista inun modo che un tempo gli inglesi riser-vavano a figure romantiche come Gari-baldi o Gordon.

In un’eccellente rivista il signor T. P.O’Connor, che, quando vuole, sa scrive-re come un uomo di lettere, ha tessuto lelodi più sperticate di Sir Joseph Lyons, ilproprietario dei negozi di tè, inserendoun delizioso brano sulle anime bellepossedute da Salmon e Gluckstein. Ilmio passaggio preferito è quello in cuiracconta che Lyons possedeva, fra le al-tre sue brillanti doti sociali, uno specia-le talento nell’«imitare gli ebrei». L’arti-colo è accompagnato da un grande ri-

“Come tutti i profeti sani di mente, posso fare profeziesolo quando sono infuriato”. Scrittore, giornalista,polemista fertilissimo nell’Inghilterra post-vittoriana,l’inventore del prete-detective Padre Brown torna oggicon l’inedito “L’utopia degli usurai”, un’invettiva sul latooscuro del capitalismo di cui anticipiamo un capitolo

Come tutti i profeti sani dimente, sacri e profani,posso fare delle profeziesolo quando sono infuria-to e penso che tutti sianod’accordo sul fatto che ci

troviamo di fronte a una brutta situazio-ne. E come tutti i profeti sani di mente,profetizzo nella speranza che la miaprofezia non si avveri. Perché la predi-zione del vero indovino è come l’avver-timento dato da un buon medico. Il ve-ro trionfo, per un medico, è quando ilpaziente da lui condannato a morte vie-ne restituito alla vita. La minaccia è giu-stificata nello stesso momento in cui sidimostra falsa. Ora, ho detto e ridetto (econtinuerò a dirlo e ridirlo in tutte le oc-casioni meno appropriate) che dobbia-mo colpire il Capitalismo, e colpirlo du-ramente, per la semplice e precisa ra-gione che il Capitalismo si va facendosempre più forte. La maggioranza dellescuse dietro cui si mascherano i capita-listi sono, naturalmente, ipocrite. I capi-talisti mentono quando pretendono diessere dei filantropi; non provano infat-ti per gli uomini più amore di quanto neprovasse Albu per i cinesi.

E mentono quando affermano diavere raggiunto la loro posizione grazieall’abilità organizzativa. In genere de-vono pagare qualcuno che si occupidell’organizzazione della miniera, pro-prio come pagano quelli che devonoandare là sotto. Spesso mentono sullaloro attuale ricchezza, così come in ge-nere mentono sulla passata povertà.

Ma quando dicono che stanno lavo-rando a una “politica sociale costrutti-va”, allora non mentono. Stanno dav-vero lavorando a una politica socialecostruttiva. E noi dobbiamo lavorare auna politica sociale altrettanto distrut-tiva; e distruggere, mentre è ancora infase di costruzione, quella dannata co-sa che loro costruiscono.

L’esempio delle arti

Prendiamo ora in esame, uno dopo l’al-tro, alcuni aspetti e settori della vitamoderna, per descrivere la fisionomiache secondo me assumeranno in que-sto paradiso di plutocrati, in questaUtopia d’oro e ottone verso la qualesembra indirizzarsi la storia d’Inghil-terra. Scopriremo così che cosa i nostrinuovi padroni, ossia i milionari, faran-no di certi interessi e istituzioni umane,come l’Arte, la Scienza, la Giurispru-denza o la Religione, a meno che noninterveniamo abbastanza in fretta perimpedirlo. E, per amore del tema, pren-derò l’esempio delle arti.

Molti di voi hanno certamente vistola réclame di una decantata marca di

GILBERT KEITH CHESTERTONsapone che sfrutta l’immagine di un di-pinto intitolato Bollicine, al cui internoè stata inserita una saponetta. Chiun-que sia un po’ portato per la grafica (ilcaricaturista del Daily Herald, adesempio), indovinerà che all’origine lasaponetta non faceva parte dell’imma-gine. E noterà che essa è anzi deleteriaper l’immagine; proprio come se fossestata usata per strofinare via il colore.Per quanto piccola, quella saponettaspezza e confonde l’intero equilibriodegli oggetti della composizione. Nondo alcun giudizio sulla parte svolta daMillais in questa faccenda; in realtànon so nemmeno quale sia stata. Ilpunto importante è che l’immaginenon è stata dipinta per il sapone, è il sa-pone che è stato aggiunto all’immagi-ne. E qui si coglie più chiaramente lospirito del nefasto cambiamento che ciha separato dall’epoca vittoriana: per-ché l’atmosfera vittoriana, pur con tut-te le sue pecche, non permetteva di ac-cettare come scontato questo genere dimecenatismo.

Michelangelo può essere stato orgo-glioso di servire un imperatore o un pa-pa; forse più orgoglioso di quanto lofossero loro di servirsi di lui. Non credoperò che Sir John Millais sia stato orgo-glioso di avere contribuito alla pubbli-cità di una saponetta. Non dico chepensasse fosse una cosa sbagliata, manon ne era orgoglioso. E questo indicaesattamente ciò che differenzia la suaepoca da quella attuale. I nostri mer-canti hanno adottato lo stile tipico deiprincipi mercanti.

Hanno cominciato a dominare aper-tamente la civiltà dello Stato, come gliimperatori e i papi dominavano aper-tamente in Italia. All’epoca di Millais sisupponeva che arte volesse dire buonaarte; la pubblicità era ritenuta un’arteinferiore. La testa di un uomo di colore,dipinta per pubblicizzare il lucido perscarpe nero di Tizio o Caio, poteva es-sere un simbolo approssimativo, comel’insegna di una locanda. Bastava chel’uomo di colore fosse sufficientemen-te nero. Un artista che esponeva l’im-magine di un uomo di colore doveva in-vece sapere che un uomo nero non ècosì nero come viene dipinto. Dovevarendere un migliaio di gradazioni digrigio, marrone e violetto: difatti, l’uo-mo nero non esiste, proprio come nonesiste l’uomo bianco. Una linea abba-stanza netta separava la pubblicità dal-l’arte. [...]

Aureole per i datori di lavoro

Oggi sta accadendo qualcosa di moltosimile: il datore di lavoro facoltoso stacominciando ad avere non solo il pote-re ma anche un po’ di gloria. Di recen-te, in molte riviste — e tutte di prim’or-dine — ho notato la comparsa di unnuovo genere di articoli. I letterati ven-gono ingaggiati per cantare le lodi di ungrande uomo d’affari, così come unavolta si usava tessere le lodi del re. I let-terati non solo trovano ragioni politi-che nelle loro imprese commerciali —

ATTACCO FINALE AL CAPITALISMO ALL’ITALIANALe critiche di Algebris contro le Generali rappresentano solo l’inizio di uno sconvolgimento. Ma l’assalto non arriva solo dal mercato, ma anche dalParlamento e dalle Authority

GM E FIAT TRE ANNI DOPO IL DIVORZIOCelebrata la separazione è cominciato il recupero, Marchionne ha portato Torino fuori dal guado e Wagoner ha riconquistato la leadership mondialesuperando Toyota

IL SOGNO GIAPPONESE DELLE MACCHINE PENSANTIDopo aver sviluppato i robot industriali ora tutti gli investimenti sono concentrati su quelli umanoidi con l’obiettivo di renderli sempre più simili agli esseri umani

LA RETE SI FA BELLAMicrosoft ha appreso dall’esperienza del suo “nemico” Mac e dal successo di iPod e iPhone che deve curare di più l’aspettosensoriale-emotivo dei suoi programmi

Nel numero in edicola domani con

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 4NOVEMBRE 2007

tratto di Lyons, con l’aria un po’ ammic-cante, il che rende ancora più stupefa-cente il suo vezzo salottiero. Un altro let-terato, che dovrebbe saperla più lunga,ha espresso la propria esagerata ammi-razione per il signor Selfridge.

Non c’è dubbio che la moda si diffon-derà, e l’arte delle parole così come èstata affinata da Ruskin o Meredith,verrà ulteriormente perfezionata peresplorare il cuore labirintico di Harrod,o per mettere a confronto il semplicestoicismo di Marshall con il santo fasci-no di Snelgrove.

Qualsiasi uomo può essere lodato, ea ragione. Anche solo stando in piedi sudue gambe fa qualcosa che una muccanon sa fare. Se un ricco riesce a stare sudue gambe per un tempo ragionevole,si parla di autocontrollo.

Se ha solo una gamba, si parla (conqualche verità) di autosacrificio. Potreiscrivere qualcosa di gentile (e di vero) suogni uomo che mi è capitato d’incontra-re nella vita. Non dubito che anch’io po-trei trovare qualcosa di gentile da dire suLyons o Selfridge. Ma non lo farò. Il por-talettere o il vetturino più vicini mi forni-ranno esattamente lo stesso cervellod’acciaio e lo stesso cuore d’oro di questisfortunati uomini fortunati. Mi dà peròparecchio fastidio il genere di patronatomesso in auge da questi assurdi mecena-ti; e che i poeti diventino poeti di corte,sotto re che non hanno prestato alcungiuramento e non ci hanno guidati innessuna battaglia.

Efficienza inefficiente

Le favole che hanno raccontato a noitutti, come la storia che ci hanno inse-gnato, non consistono interamente dibugie. Certe parti del Gatto con gli sti-vali o di Jack e i fagioli magici possonorisultare un po’ improbabili e fuori del-la norma a un occhio realistico, ma

contengono verità molto solide e mol-to pratiche. Ad esempio, si può rilevareche sia nel Gatto con gli stivali che inJack e i fagioli magici, se ricordo bene,l’orco non era soltanto un orco ma an-che un mago. D’altra parte, in tutti que-sti racconti popolari il re, se è un re mal-vagio, è in genere uno stregone. In que-sto fatto è racchiusa una verità umanamolto importante.

Il malgoverno, come il buon gover-no, è una cosa spirituale. Neanche il ti-ranno governa mai con la sola forza, an-zi, governa soprattutto con le favole. Lostesso accade con il tiranno moderno,il grande datore di lavoro. La vista di unmilionario raramente ci lascia incanta-ti, tuttavia a modo suo il milionario è unincantatore. Come dicono negli sdolci-nati articoli che gli dedicano i giornali,è una personalità affascinante. Ancheun serpente lo è. Perlomeno è affasci-nante per i conigli, come lo è il miliona-rio per quella gente con il cervello daconiglio che donne e uomini hanno ac-cettato di diventare. Il milionario gettaun incantesimo, come quello che im-prigionava principi e principesse nellesembianze di falchi o cervi. Ha trasfor-mato gli uomini in pecore, così comeCirce li tramutava in porci.

Ora, il punto clou delle favole con cuiil nostro milionario si conquista questagloria e questo glamour è una nebulosaassociazione che egli è riuscito a stabi-lire fra l’idea della grandezza e l’ideadella praticità. Loro malgrado, e nono-stante la loro esperienza, un buon nu-mero di donne e uomini dal cervello diconiglio sono convinti che se un nego-zio ha centinaia di porte e una quantitàdi reparti sotterranei torridi e malsani(devono essere torridi, è un must), e sedispone di un numero esagerato di per-sone — più di quante sarebbero neces-sarie per una nave da guerra o per una

cattedrale affollata — per dire: «Daquesta parte, signora», e «l’articolo se-guente, signore», ne deriva che le mer-ci sono di qualità.

In breve, sostengono che le grandiimprese commerciali sono efficienti.Ma non è così. Qualsiasi massaia chesia sincera, vale a dire qualsiasi massaiache sia di cattivo umore, vi dirà che nonè così. Anche le massaie sono peròumane, e dunque incoerenti e com-plesse, e non sempre si attengono allasincerità e al cattivo umore. Anche lorosoffrono di questa bizzarra idolatriaper l’enorme e l’elaborato; e non pos-sono fare a meno di pensare che qual-cosa di così complicato debba funzio-nare come un orologio. Ma la comples-sità non è garanzia di accuratezza —negli orologi come in qualsiasi altra co-sa. Un orologio può funzionare malequanto una testa umana; e può fermar-si, improvvisamente, come il cuoreumano. Comunque, questo strano fa-scino della plutocrazia sfida qualsiasibuonsenso. Mettiamo che scriviate auno dei grandi magazzini londinesichiedendo, diciamo, un ombrello. Unmese o due dopo ricevete un pacco dal-la confezione elaborata, con dentro unombrello rotto. Siete proprio contenti.Gratificati dal pensiero di quanti com-messi e impiegati hanno cooperato perrompere quell’ombrello.

Vi crogiolate nel ricordo di tutti queigrandi ambienti e reparti e vi chiedetein quale di essi sia stato rotto l’ombrel-lo che non avete mai ordinato. Oppurevorreste un elefantino giocattolo da re-galare a vostro figlio per Natale; i bam-bini, si sa, come tutte le persone carinee sane, sono molto rituali. Un po’ dopol’Epifania, settimana più settimanameno, avete il piacere di togliere trestrati di cartone, cinque strati di cartada pacchi e quindici di carta velina e di

scoprire i frammenti di un coc-codrillino. Sorridete con spi-rito aperto. Sentite che la vo-stra anima è stata arricchitadalla visione di un’incom-petenza applicata su cosìvasta scala. Ammirate anco-

ra di più il colossale e onni-presente Cervello dell’Orga-

nizzatore dell’Industria che,pur impegnato nei suoi numero-

sissimi compiti, non ha dimenticato ildovere di fare a pezzi persino il più pic-colo giocattolo per il più piccolo bam-bino. O magari supponiamo che gli ab-biate domandato di spedirvi due rotolidi stuoia di cocco, e supponiamo che(dopo la debita pausa riflessiva) vi con-segni puntualmente cinque rotoli di re-te metallica. Vi beate nella considera-zione di un mistero che delle menti roz-ze avrebbero potuto scambiare per unerrore. Vi consola sapere quanto siagrande quella ditta, e che numero esor-bitante di persone sia stato necessarioper compiere un simile errore.

È questo che ci viene propinato, nel-la letteratura e nell’arte, a proposito de-gli enormi negozi che essi si sono com-prati e che saranno presto indistingui-bili dalle loro réclame. La letteratura ècommerciale; e il commercio è spessoletterario. Non è una fantasia romanti-ca, è solo ciarpame.

Le grandi imprese commerciali dioggi sono eccezionalmente incompe-tenti. Saranno ancora più incompeten-ti quando saranno onnipotenti. Diròanzi che è questo, ed è sempre statoquesto, il nocciolo del monopolio, ilvecchio e solido argomento contro ilmonopolio. È solo perché è incompe-tente che dev’essere onnipotente.Quando un grande magazzino occupal’intero lato di una strada (o a volte en-trambi) il suo scopo è che le personesiano messe nell’impossibilità di otte-nere ciò che vogliono; e possano esserecostrette a comprare ciò che non vo-gliono. Che il regno del Capitalismo, ilcui avvento si approssima rapidamen-te, rovinerà l’arte e le lettere l’ho già det-to. Adesso aggiungo che, nell’unicosenso che può essere chiamato umano,rovinerà anche il commercio.

Anche se scrivo per un foglio rivolu-zionario necessariamente indirizzato amolti che non condividono le mie sim-patie religiose, non lascerò passare ilNatale senza fare appello a tali simpa-tie. Conosco un uomo che aveva ordi-nato un presepe a un grande negozio dilusso. Il presepe arrivò in frantumi.Penso che sia proprio quello che oggihanno il buon senso di fare tutti quegliuomini d’affari.

Traduzione di Doriana Comerlati(© excelsior 1881)

Il milionario-stregonee i suoi incantesimi

IL LIBRO

Si intitola L’utopiadegli usurai. Una collezionesulle forme di parassitismoil libro di Gilbert KeithChesterton da cui abbiamotratto i brani di questepagine. Inedito in Europa, è un profetico atto d’accusacontro le storturedel capitalismo scrittocon lo stile corrosivodi uno dei maggiori scrittoriinglesi del Ventesimosecolo. Pubblicato in Italiada Excelsior 1881(264 pagine, 15,50 euro),sarà in libreria il 5 novembre

IL DISEGNOIl disegno di queste pagineè di Giuseppe Scalarini (1873-1948),uno dei maggiori caricaturistie disegnatori satirici italiani. Lavoròper storiche testate socialistee venne perseguitato dal fascismo

Repubblica Nazionale

“Lo incontrai all’inizio dei Sessanta. Me lo portòun’amica francese: lui mi fece ascoltare delle cose

che non mi piacquero, mi sembrarono modeste e glielospiegai.Con umiltà si disse d’accordo. E mi conquistò”

40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 4NOVEMBRE 2007

TOSCOLANO (Terni)

Mogol, il poeta, come lo chiamavaLucio Battisti, vive nel cuore del-la campagna umbra, in unagrande casa immersa tra le

querce, accanto alla sede del Cet, il Centro euro-peo di Toscolano, il laboratorio culturale di cui èstato il creatore e dove da anni s’incrociano suonie musica d’eccellenza. Dinanzi a un camino ac-ceso che addolcisce i primi rigori dell’autunno,parla delle «emozioni fortissime» provate guar-dando le immagini del nuovo dvd in uscita il 9 no-vembre, Battisti Mogol, Il nostro canto libero, checelebra il connubio che ha cambiato la storia delpop italiano, con due inediti del ‘72.

Giulio Rapetti, in arte Mogol, settantuno anni esmalto inossidabile, è una miniera di successi, di ri-cordi e di progetti. In mezzo secolo ha scritto milio-ni di parole e almeno millecinquecento canzoni,successi da giro del mondo e da valanghe di copie.Eppure paroliere è un termine che rifiuta. «Non cisono i musichieri, ma solo musicisti e noi siamo au-tori, non parolieri». Ha vinto quattro volte il Festivaldi Sanremo, la prima nel ‘61, a ventiquattro anni,con Al di là. E ha acceso luci e provocato ombre, hascoperto talenti e formato artisti, ma soprattutto haesaltato le parole. A modo suo. «Le parole sono le-gate all’anima. Sono dentro la musica, nell’animadella musica. Ma non bisogna avere né pudori, nériserve. La sincerità, la verità sono il fluido dell’arte.E un autore è sempre un autore, un pioniere. Io, nel-la mia vita, ho avuto sempre un destino esagerata-mente benevolo». Con Battisti da volano, perun’avventura che continua ancora oggi.

«L’ho incontrato all’inizio degli anni Sessanta.Accadde per caso: a Milano avevo un’amica, una ra-gazza francese, Cristine, che rappresentava le edi-zioni Les Copains e aveva l’ambizione di scoprirenuovi autori. Fu lei a portarmi Lucio. Venne da mee mi fece ascoltare due canzoni, che per la verità nonmi piacquero, mi sembrarono modeste e glielo dis-si. Con umiltà si disse d’accordo. E mi conquistò.Aveva un sorriso spontaneo, comunicativo e decisidi lavorare con lui per simpatia. Gli proposi di scri-vere insieme qualcosa, senza impegno, liberamen-te. «Provammo con una prima canzone, Dolce digiorno, poi con una seconda, Per una lira. Con la ter-za, 29 settembre, arrivò ilmiracolo. Dalle prime due,mai e poi mai si sarebbe potuta prevedere una can-zone come 29 settembre, anomala, forte, senza tem-po. Il seguito è stato un ascensore in salita: aveva-mo pronta una canzone e la davamo all’Equipe 84,un’altra e la davamo ai Dick Dick. Fin quando gli hodetto: «Devi assolutamente cantare tu».

A Battisti l’idea di cantare non piaceva. Dicevadi sentirsi un autore e basta. «Ma io non mollai. Miaveva spesso portato i suoi provini, con i testi can-tati da lui. Che quasi sempre erano più forti e piùbelli dei dischi che poi uscivano interpretati daqualcun altro. Lui era straordinario, ma la Rai l’a-veva bocciato e, per questo, la Ricordi non lo vo-leva come cantante, tanto che arrivai a minaccia-re di andarmene, con Lucio, se avessero insistitonel rifiuto. Comunque, alla fine, convincerlo nonfu difficilissimo.

La “Numero Uno”, l’etichetta che accompa-gnerà il loro comune cammino, nasce nel ‘69. «Ilrapporto con Battisti è stato eccezionale, diverso, li-bero e completo. Lucio suonava la chitarra in ma-niera eccelsa, e faceva dei provini che erano già qua-si dei dischi. Poi si avvaleva di grandi arrangiatori.Incise Vendo casa con il solo accompagnamentodella chitarra, in una stanzetta minuscola. E lo fecein modo estemporaneo. Eppure, quando il pezzo èuscito, qualche anno fa, ha suscitato emozionienormi ed stato un enorme successo. Lucio suona-va con una forza e un’energia straordinarie».

Il sodalizio Battisti Mogol va avanti senza ombrefino a Una giornata uggiosa.«Il nostro rapporto nonsi è interrotto perché era esaurito. Non ci fu un even-to scatenante, ma io gli avevo detto che avrei volutolavorare con condizioni di maggiore equità e che,(eravamo nel 1980), non potevo più accettare diprendere ancora una percentuale inferiore alla sua.Era una questione di principio, volevo un tratta-mento paritario. Lui però non mi rispose, né allorané mai. Forse fu mal consigliato, non lo so. Della

questione riparlammo solo molto tempo dopo e luifece qualche ammissione, niente di più. Fino alla fi-ne ho sperato di tornare a lavorare con lui; so che an-che Lucio ha sofferto molto e sono convinto che, senon fosse morto, prima o poi tutto si sarebbe risol-to. Un rapporto così, dopo, non l’ho più avuto connessuno; anzi forse solo con Gianni Bella, un amicoe un personaggio di livello internazionale».

Diventa autore quasi per caso Mogol, «ormai unavita fa». Il padre, Mariano, era dirigente alla Ricordie non gli piaceva l’idea che suo figlio scrivesse testiun po’ per tutti. «Gli amministratori dell’azienda gliavevano detto che quelle mie libertà non erano op-portune. Io lo riferii a mia madre e lei mi consigliòdi porre a mio padre un semplice quesito, del tipo“preferisci che continui a scrivere o che lasci la Ri-cordi?”. Funzionò. Servivo all’azienda, ero il capodella promozione, e continuai a scrivere per tutti».

È l’inizio del ‘61. «Andai a parlare con Carlo Do-nida Labate, musicista di grande successo, un ge-nio della musica. Avevo appena scritto Al di là. Do-nida la mandò a Sanremo, ma arrivò ventunesimae venne esclusa dalla rosa delle venti canzoni pre-scelte. Accadde però che qualcuno, credo l’autoredella ventiduesima canzone, ebbe da ridire. Fu co-sì che ne vennero recuperate ventiquattro e noi, au-tomaticamente, ci ritrovammo a Sanremo. Il pezzovenne affidato a Luciano Tajoli, una scelta che ci la-sciò interdetti, era un cantante già allora conside-rato di un’altra epoca. Tajoli, invece, ci venne a tro-vare calmo e felice: “Ragazzi”, ci disse, “so che nonsiete contenti. Ma secondo me avete scritto unacanzone che merita di vincere il Festival. Dunque,se non ce la fa, è solo colpa mia”. Mi ero appena spo-sato e dovevo partire per Barcellona, in viaggio dinozze. Prima però decisi di passare per Sanremo.Papà mi aveva avvertito che, alle prove, Al di làcan-tata da Tajoli aveva fatto venire i brividi a tutti e io vi-di con i miei occhi la gente che si alzava in piedi adapplaudire. La canzone vinse, fu ripresa da EmilioPericoli e arrivò in ventisei paesi del mondo.

Allora, Giulio Rapetti era già Mogol. «Il nomed’arte me lo diede la Siai. Mi chiesero un elenco dipseudonimi, gliene mandai trenta. Non ne appro-varono neanche uno, allora ne inventai centoven-ti, e tra quelli c’era Mogol. Fu scelto, non capii maiperché, a me sembrava cinese. Volgeva l’anno1959. Adesso Mogol è entrato a far parte del mio no-me vero: ho appena ottenuto dal ministero dell’In-terno il permesso di adottarlo e presto mi chiameròGiulio Rapetti Mogol».

Sorseggia l’ennesimo caffè e passa a parlare delCet, il laboratorio di musica e di cultura che da die-ci anni funziona come organismo no profit. «Sonoconvinto che tutti possano accedere al sesto senso,come a uno stato di grazia. Però bisogna conqui-starsi la capacità di recepirlo. Non ci sono gli elettie, anche se hai capacità creative, bisogna lavoraresu se stessi con autocritica, umiltà e passione». Pro-getti? «Un convegno sulla ricerca per combattere lemalattie autoimmuni. Poi stiamo cercando di or-ganizzare istituzioni consultive, comitati scientifi-ci, e mi voglio anche dedicare a trovare punti di ri-ferimento per il paese, organismi credibili. E poi c’èla difesa dell’ambiente che, se non è buono, pro-voca morte e distruzione».

Mogol vive con la giovane moglie Daniela, amamolto i suoi nipoti e i quattro figli. Uno è un bravopittore e dei suoi quadri è piena la casa; il secondo,Francesco, «è un autore straordinario, e lo dico sen-za alcun nepotismo, ha appena terminato il suo se-condo disco, Robot, un ragazzo che sta sempre alcomputer e si accorge che sta cominciando a di-ventare d’acciaio». Il terzo è un manager di succes-so, mentre la figlia Carolina lavora nella pubblicità.

Quanto a lui, Mogol conserva intatto l’entusia-smo giovanile. È appena uscito il nuovo disco conAdriano Celentano, «con il brano Mi hai bucato la vi-ta, che ha un finale di speranza che vale tutto il re-sto». E poi gli LMC, il gruppo Libera Musica da Con-certo, formato da ex allievi del Cet divenuti docentie creatori. «Li ho coltivati io, mentre il genio è loro.Suonano un misto di musica classica, operistica,sinfonica, jazz, rock e rap. Ed è pronto il loro primodisco». Infine, Gianni Morandi. «Tornerò a lavorarecon lui. È un amico: faceva parte della nazionale dicalcio cantanti. Io sono ancora uno sportivo, ieri hogiocato tre partite di seguito. Dopo ero di legno, mafelice. Il fatto è che mi sento ancora giovane: mi han-no dato cinquantacinque anni biologici, ma io misento uguale a quando di anni ne avevo venti».

SILVANA MAZZOCCHI

&MogolBattisti

Esce “Il nostro canto libero”, un cofanettocon il dvd delle interpretazioni tv e due cdcon i maggiori successi, compresi due brani

mai sentiti, di una coppia artistica straordinaria.Nell’occasione GiulioRapetti Mogol - definito da Lucio il “poeta” - racconta i due decennidi amicizia e collaborazione che hanno cambiato il pop italiano

SPETTACOLI

DVD E CD

Battisti Mogol - Il nostro canto liberoè un cofanetto (in uscita nei prossimigiorni) che si compone di un dvde due cd, a cura della Sony Bmge di Rai Trade. Nel dvd (regiadi Maria Laura Giulietti) sonocontenute molte canzoni interpretateda Lucio Battisti in diversetrasmissioni televisive tra il 1968e il ’72. I cd contengono ventottosuccessi di Mogol-Battisti incisitra il ’68 e l’80, più due inediti del ’71,Perché dovrei e Il mio bambino

CELENTANO FOTOGRAFO Mogol ritratto da Adriano Celentano. Foto tratta dal nuovo cofanetto Battisti Mogol

SU REPUBBLICA.ITDa oggi su Repubblica.itsi possono ascoltarei due inediti - Perché dovreie Il mio bambino - di LucioBattisti, e l’audiogalleriadell’intervista di SilvanaMazzocchi a MogolI servizi multimediali,curati da Alessio Balbi,sono una produzioneRepubblica.it,Repubblica Tve la Domenica di Repubblica

Canzoni inedite, chiamale emozioni...

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 4NOVEMBRE 2007

Aogni inedito di Lucio Battisti la tribù degli idolatri avverte un brivido. Qualcosa riemerge dalla superficie opa-ca del tempo. In passato sono circolate registrazioni non autorizzate e reperti provenienti dagli studi disco-grafici. Ogni volta, risentire la voce del “maestro solitario” offriva la sensazione impagabile di assistere allo

svolgersi del processo creativo, a quel lavoro artigianale che Battisti curava con uno scrupolo ai limiti della mania.Sicché, quando uscirono le versioni discografiche ufficiali di sessioni in studio e di “demo” per i tecnici del suo-

no, l’impatto emotivo fu fortissimo. Lo stesso Mogol rivelò di essere rimasto «squassato» nel risentire Vendo casa,un discreto hit dei Dik Dik, nell’interpretazione di Lucio, accompagnato solo da una chitarra acustica (ma gli in-tenditori sostengono che sullo sfondo si sente anche il tocco del plettro di Maurizio Vandelli, il leader dell’Equipe84: tanto per dire fin dove si spinge l’esercizio ermeneutico degli appassionati).

Il fatto è che il “Battisti segreto” risulta ancora più rivelatore del suo talento di quanto ormai non siano le suecanzoni più classiche. È nelle opere minori, infatti, che si possono sentire quegli irrigidimenti nella struttura com-positiva, quei manierismi, quei vezzi che alla fine rivelano la tessitura di uno stile, cioè di una sintesi creativa.

Anche i due inediti battistiani presenti in questa nuova raccolta hanno a loro volta il senso di una rivelazione: Ilmio bambinoera stata cantata senza grande fortuna commerciale da Iva Zanicchi nel 1972 («sono l’unica cantanteche ha avuto la fortuna di ricevere il dono di una canzone da Battisti senza andare in classifica»), e Perché dovreiera conosciuta da pochi eletti nell’esecuzione di Donatella Moretti, Carmen Villani, Marcella e una dimenticatis-sima Sara, che la incise per prima nel 1970. Eppure, con la voce di Battisti quei brani acquistano un riverbero par-ticolare, un sapore di verità artistica e umana che rinnova ancora una volta l’emozione (come apparve subito evi-dente quando furono trasmesse in un Dossier del Tg2 curato da Michele Bovi).

D’altronde, non è necessario andare a caccia di reliquie disperse per riassaporare il gusto dell’invenzione bat-tistiana. Come per tutti gli artisti più famosi e amati, esiste un “canone” battistiano che comprende le canzoni piùnote, quelle che tutti conoscono e che ancora adesso passano per radio. Ma nascosti negli album esistono nume-rosi “gioielli discreti” (qualcuno magari imperfetto, non completamente riuscito), che continuano a testimonia-re la carica innovativa di Battisti, e la sua voglia di unire la ricerca musicale a una dimensione autenticamente po-polare. Valga per tutti l’esempio di Anima latina, sfortunato ed enigmatico capolavoro mancato.

Succede insomma anche per Battisti ciò che accade per i Beatles e altri protagonisti della musica degli ultimicinquant’anni. Del quartetto di Liverpool sono restate più o meno una ventina di canzoni, mentre alcuni capola-vori giacciono inascoltati fra le tracce del vecchio vinile e dei cd. È un peccato: ma nel caso di “Lucio” è anche l’e-strema risorsa degli adoratori, che di tanto in tanto possono riascoltare la sua voce come se fosse ancora nuova,capace sempre di produrre una sorpresa, e anche un inedito innamorarsi ancora.

Innamorarsi ancora di LucioEDMONDO BERSELLI

SCATTI SEGRETI Le foto di Lucio Battisti pubblicate in questa pagina sono state scattate da Cesare Monti Montalbetti e sono tratte dal cofanetto Battisti Mogol - Il nostro canto libero

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42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 4NOVEMBRE 2007

Avederle, sembra che danzino. Protese verso iltavolo, impastano e modellano senza sforzoapparente. I fianchi seguono e assecondanoil lavoro delle braccia, gli occhi sono attenti, imovimenti primitivi e sapienti, il silenzio rot-to solo dal suono della pasta che balzella sul-

la spianatoia, in uno sfarfallio di farina. Sono le rezdore (reggitrici) che hanno fatto la storia della

cucina di casa in Emilia-Romagna, immortalate da una ri-cerca-documentario (Storie di terra e di rezdore, ideata dal-la Provincia di Modena e realizzata da SlowFood) insieme a pastori, agricoltori, allevatori,casari, mondine, pescatori, raccoglitori, artigia-ni. Perché, se esiste un’ideale passerella di testi-moni del tempo agricolo, le sfogline ne rappre-sentano la parte più creativa e spettacolare, co-me ben sanno gli organizzatori della nuova edi-zione del Baccanaledi Imola, che le promuoveràa protagoniste assolute.

La magia della sfoglia ha resistito all’usura deltempo e alla dittatura della dieta. Per questo, ilfascino delle rezdore va ben oltre la difesa del-l’ennesimo panda gastronomico in via d’estin-zione. Certo, la figura arcaica della “reggitrice deldesco familiare”, massaia-governante-cuocache gestiva l’organizzazione e amministravacon oculatezza le risorse alimentari e finanziariedi casa, è tramontata per sempre. Ma il piaceredi un piatto di tagliolini ben fatti resta un privilegio vero: nes-suna moda alimentare, nessun tempo impiccato può giu-stificare una rinuncia tanto straziante. Il compromesso,esattamente come per il pane, passa dall’utilizzo di scorcia-toie tecnologiche. Così, negli anni, il mattarello è stato so-stituito dalla macchina con rulli e manovella, a sua voltaesautorata dalle nuove impastatrici tuttofare. E pazienza seil confronto con la tagliatella certificata è forzatamente in-

generoso.A confortare i refrattari al fai-da-te casalingo, per fortuna,

vi sono ristoranti e trattorie della buona sfoglia, fiore all’oc-chiello delle cucine più avvertite, pur con tutti i distinguo delcaso (impastatrici dozzinali e materie prime mediocri sonosempre in agguato). Le varianti sono infinite, figlie di farinediverse e diverse interpretazioni, dalle sfoglie colorate — er-bette, mirtilli, carote… — a quelle arricchite con vino, olio,caffè. Argomento a parte e controverso, quello delle uova.Niente del tutto, solo tuorlo, bianco&rosso insieme, e so-

prattutto quante? Le ricette rispecchiano lescuole di pensiero: si va dalle tre dozzine di ros-si per chilo di farina, rivendicate da certe sfogli-neoltranziste langarole, allo chef milanese Car-lo Cracco che ha eliminato del tutto il cerealegrazie a un ricercato processo di marinatura del-l’uovo. Risultato: una sfoglia particolare, sapo-ritissima, con il contenuto di un tuorlo scarso aporzione, adorata dai celiaci.

Altra preparazione mirabolante, la pasta fre-sca di ceci inventata da Fulvio Pierangelini in-sieme con Davide Cassi, docente di fisica con lapassione per la cucina. La farina di ceci, infor-nata per un paio d’ore a ottanta gradi acquisisceuna consistenza diversa (il processo si chiamadenaturazione proteica) che permette di impa-starla usando acqua e un filo d’olio e garantisceuna meravigliosa cottura al dente. Pierangelini

la traduce in strepitosi ravioli farciti con gamberi rossi. Se a mancarvi è la manualità, chiedete udienza al mode-

nese Massimo Bottura, allievo prediletto di Lidia Cristoni, laregina delle rezdoremodenesi. Se poi il movimento del pol-so non è perfetto, e la sfoglia — state pur certi — ne risentirà,lasciate perdere e ordinate un piatto di tortellini del dito mi-gnolo in crema di parmigiano: il paradiso dei gourmet vispalancherà le sue porte golose.

i sapori

strumenti

tipologie

Menù italiano

La rassegnaI patiti di sfoglie e affini non manchino

il Baccanale di Imola, quest’anno dedicatoalle forme della pasta. Recital, dibattiti,

cene, degustazioni, letturenei primi tre week end di novembre

Le lezioni di “mani in pasta”insegnano i segreti della sfoglia

tirata a mano

La magia del “fattoin casa” ha resistitoall’usura del tempo

e alla dittatura delle dieteE si è arricchita delle trovate

dei nuovi tecno-chef

SfoglieLICIA GRANELLO

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TirasfogliaLa macchina per la pastarappresenta un buoncompromessofra la tradizionedel mattarello e la sfogliaconfezionata. Dopo averfatto l’impasto, lo si tagliaa pezzi, passandolo nei rullicon ingranaggi riduttori,per ottenere sfoglie sottili

SfogliaLa madre di tutte le paste

fresche è un impastosapiente di farina e uovaLa ricetta base (un uovoper cento grammi) muta

da regione a regione,fino alla super sfogliadei tajarin piemontesida abbinare al tartufo

bianco, che vanta ancheventi tuorli per chilo

MattarelloSimbolo delle casalinghearrabbiate (come la mogliedi Andy Capp), è in realtàlo strumento più caroalle sfogline. Può esserepiù o meno grosso,con o senza maniciLa cannella da lasagnaè lunga oltre un metro e sottile (5 cm di diametro)

Joseph RothNei piatti vagava

un caldo bagliore dorato:era la minestra, pastain brodo. Una pasta

trasparente, a grani tenerie attorti, piccoli e dorati

Da LA MARCIA DI RADETZKY

RipienaUna buona sfoglia elastica può accoglierele farciture più svariate,dai tradizionali arrostial pomodoro confitLe rezdore emilianegareggiano in abilità per rendere la pasta dei tortellini sottilissima,mentre al Sud la tradizionevuole impasti più rustici

Con le mani in pasta

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 4NOVEMBRE 2007

La pasta è un prodotto a vocazione industriale.Lo è già nel Dodicesimo secolo, quando unacronaca ci informa che un pastificio (il primo di

cui abbiamo storicamente notizia) è installato a Tra-bia, nella Sicilia di tradizione araba, e «vi si fabbricatanta pasta che se ne esporta in tutte le parti, nella Ca-labria e in altri paesi musulmani e cristiani; e se nespediscono moltissimi carichi di navi». Poi le mani-fatture si sviluppano in Liguria e già sul finire del Me-dioevo l’Italia è riconosciuta come principale centroeuropeo di commercio della pasta. In età moderna ilcuore della produzione si sposterà a Na-poli, dove, nel corso del Seicento, im-portanti innovazioni tecnologiche (tor-chio e trafile meccaniche) consentiran-no di abbassare i costi di fabbricazionefacendo diventare la pasta secca un ci-bo veramente “popolare”.

Ma la pasta era anche, da secoli, unaproduzione di famiglia. La pasta fresca,destinata al consumo domestico, nelMedioevo e nel Rinascimento si diffon-de progressivamente e conosce unastraordinaria moltiplicazione dei for-mati. I libri di cucina ci parlano di lasa-gne, maccheroni «pertusati» (forati),corzetti, «bindelle, ovvero stringhe»(fettuccine) e di tutte le paste ripiene, itortelli, tortellini e tortelletti, di grasso e di magro, cheda soli fanno un grande capitolo della nostra storiagastronomica: «E ve ne sono di mille altre guise»,commenterà un testo seicentesco.

È proprio la cultura della forma ad apparentare inmodo stretto le “due” filiere di produzione della pa-sta, quella industriale e quella domestica, per altriversi così lontane nel senso economico e sociale: l’u-na è il rapporto col mercato, l’altra è l’autosufficien-

za familiare. Ma in qualche modo, la varietà delle tra-file traduce in termini meccanici la sapienza manua-le delle sfogline, e le trafile più apprezzate restanoquelle in bronzo, che restituiscono in maniera più fe-dele la porosità della pasta tirata a mano, che “sente”meglio il sugo, lo attrae e lo trattiene. La macchinaimita le mani, anche se non riuscirà mai a riprodurrela varietà infinita di forme, di spessori, di larghezze edi lunghezze dettate dall’esperienza, dall’abitudine,dal caso, dall’intuizione del momento.

La pasta sembra fatta apposta per significare, inmetafora, l’unità e la varietà degli stilialimentari italiani. La pasta è una, masi declina in decine, addirittura centi-naia di forme, destinate ciascuna a unuso particolare, a uno specifico ac-compagnamento di salse e sughi. Lapasta è una e può significare la condi-visione di una cultura gastronomica,che gli italiani seppero valorizzare almassimo mettendo a frutto l’inven-zione araba e facendone un segno del-la loro identità. Ma la pasta è anche unmodo per dire le differenze, per affer-mare quell’identità in mille modi di-versi, per mostrare che un’identità ga-stronomica può essere al tempo stes-so multipla e unica. È questo il segreto

e il fascino della pasta. Il Baccanale di Imola, che in questi giorni festeggia

Le forme della pasta, invita a riflettere sull’importan-za (appunto) delle forme, che sono anche sostanza,perché al cambiar della forma non cambia solo l’i-dentità del piatto, ma anche il sapore che si offre al pa-lato: masticare uno spaghetto sottile non è come ma-sticarne uno grosso, e un maccherone liscio non ha ilsapore di un maccherone rigato. La forma è gusto.

Mille formeper sposaremille sughi

MASSIMO MONTANARI

Sarà il Baccanale di Imolaa recuperarne la tradizione

preziosa, mettendo al centrodelle sue giornate l’arte

e la sapienza sempre più raredi “rezdore” e “sfogline”

ImpastatriceMutuata dagli apparecchiindustriali, sveltiscee semplifica al massimo la lavorazione della pastafresca. Si può scegliere tra il robot con gancio da impasto, a cui collegarel’accessorio-rullo, e il compatto con tanto di trafila per i maccheroni

SpianatoiaL’ alter ego al piano di marmo (con mattarelloe porta mattarello inclusi nel tavolo) è un grande assedi legno perfettamente liscio,da custodire lontanodall’umidità. I comandamentieuropei dell’Hccp lo hannobocciato in favoredei taglieri di plastica

Senza uovaLa pasta povera

per eccellenza – farina,acqua e un pizzico

di sale – si traduce in formatimolto gustosi,

dalle orecchiettealle trofie. Oltre al grano

tenero, si utilizzano semola,farro, castagne e saraceno

Un cucchiaio d’oliomigliora l’elasticità

AromatizzataColorare la pastanon è solo un fattocromatico. Arricchendola farina con spinaci,pomodoro, zafferano, zucca,funghi, formaggi, è più facileabbinare condimentiparticolariTra le più creativequelle al cacao,al nero di seppia e al caffè

itinerariRosangela Gennaridirige con il fratelloPaolo il caseificiodi famiglia,a CollecchioLei, “casara”esperta e gran cuoca,

seleziona le formedi parmigiano da destinareal ripienodi tortellini e anolini:la sfoglia è tiratacon la “cannella”

La cittadina nataledi Cesare Pavese(con casae centro studivisitabili), patriadel Moscato d’Asti,è ai marginidelle Langhe

Gli agnolotti del plin (pizzicotto) preparati da LidiaAlciati, vedova di Guido, da soli valgono il viaggio

DOVE DORMIREIL CRUTINVia Veroglio 3Tel. 0141-840559Camera doppia da 60 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREGUIDO DA COSTIGLIOLE (con camere)Relais San Maurizio, località San Maurizio 39Tel. 0141-841900Chiuso martedì e merc. a pranzo, menù da 40 euro

DOVE COMPRAREPASTIFICIO VALLEBELBOVia Stazione 46Tel. 0141-843784

La “città bianca”,nel cuore dell’AltoSalento,prospera in collina,davanti all’AdriaticoNelle cucinedelle masseriele orecchiette

si fanno ancora strascinando i tocchetti d’impasto con la punta arrotondata del coltello

DOVE DORMIREMASSERIA LA RASCINASp19 Rosamarina-Ostuni km 4Tel. 338-4331573Camera doppia da 90 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREMASSERIA LAMIOLA PICCOLA (con camere)Contrada Lamiola PiccolaTel. 0831-359972Chiuso lunedì, menù da 30 euro

DOVE COMPRAREMANINPASTA Via Monsignor Tamborrino 9Tel. 0831-301544

Tagliata dal torrenteTiepido, famosoper le tepidae aquae,sorge nell’altapianura modenese,ai piedi delle collined’AppenninoNella patria

del maiale (con statua dedicata), le sorelle Vandellicucinano tortellini strepitosi per sfoglia e ripieno

DOVE DORMIRELA BALUGOLA B&BVia Balugola 33Tel. 059-536584Camera doppia da 70 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREZOELLO (con camere)Via per Modena-Settecani 181, località CastelvetroTel. 059-702635Chiuso venerdì, menù da 25 euro

DOVE COMPRAREL’ANGOLO DELLA PASTAStrada Nazionale Giardini 215, ModenaTel. 059-210373

S. Stefano Belbo (Cn) Castelnuovo Rangone (Mo) Ostuni (Br)

Repubblica Nazionale

Alcune cose hanno il privilegiato de-stino che non si concede agli uma-ni: rinascere o ricevere il dono diuna seconda vita. Un destino cheper gli oggetti inanimati non richie-de i miracoli dello spirito, ma si av-

vera con due semplici, umili parole magiche: rici-clo e riuso. Due dimensioni, due possibilità mol-to diverse, che hanno il medesimo risultato: ri-sparmiare risorse. La diversità è davvero grande.Il riciclo è un processo industriale con cui un ma-teriale viene riportato per quanto possibile allostato originario per essere usato di nuovo. Perquanto possibile, perché non tutti i materiali so-no ugualmente riciclabili. La carta del giornale

le tendenzeDesign etico

Relitti di vecchi arredi assemblati per farne di nuovi,materiali ecocompatibili, oggetti nati da scartidi alluminio, legno o acciaio: l’industria e i designerreinventano il futuro delle cose che ingombranole nostre case e che pesano sempre di piùsull’ambiente. Un fiorire di idee “belle e possibili”

seconda vita

AURELIO MAGISTÀ

44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 4NOVEMBRE 2007

che state leggendo, per esempio, diventa semprepiù scadente dopo ogni processo di riciclo, fino aquando non è più recuperabile. L’alluminio inve-ce, metallo nobile e bello, può essere riciclato pra-ticamente all’infinito. In ogni caso, il riciclo, an-che se è virtuoso, non è innocuo per l’ambiente: ri-chiede energia, può avere procedimenti inqui-nanti, e prevede la raccolta differenziata dei ma-teriali, che ha un prezzo ecologico. Un bene, dun-que, ma relativo, di compromesso.

Il riuso è la declinazione attuale dell’antico mo-dello di vita contadino o comunque antecedenteil boom industriale che ha eletto la praticità del-l’usa e getta a modello di vita. Quando un oggettonon è più buono per la funzione per cui è stato fat-to, oppure, come succede più spesso, desideria-mo cambiare, possiamo inventargli usi diversi,magari facendolo a pezzi. Il riuso ha possibilità li-mitate, dipende molto dall’oggetto, ma proprioper questo premia creatività e fantasia, e rappre-senta in fondo una filosofia di vita: passare in que-sto mondo in punta di piedi, senza fare troppidanni. Piccoli bisogni, piccoli consumi, capacitàdi far durare le cose. In sintesi: l’unico futuro so-stenibile. Il riuso ha un alto tasso di artigianalità espesso produce pochi esemplari o addiritturapezzi unici.

Nell’arredamento riciclo e riuso sono semprepiù diffusi. Intanto, per quanto riguarda il riciclo,occorre sottolineare un’ulteriore distinzione. Cisono i mobili riciclabili, fatti di materiali che pos-sono essere recuperati, come le plastiche, l’ac-ciaio, l’alluminio, il legno. E ci sono mobili ricicla-ti, i cui componenti hanno già avuto una vita pre-cedente. Maggiore è il numero di materiali di cuiun mobile è composto, e minore è il suo coeffi-ciente di riciclabilità, perché riciclarlo richiederàpiù operazioni, quindi più fatica e più energia. Untempo i mobili e in generale gli oggetti riciclatiavevano un’aria povera, dimessa, alternativa e va-gamente hippy. Oggi che l’ecocompatibilità è unamoda, oltre che un autentico imperativo catego-rico per la sopravvivenza del pianeta, è frequenta-ta dai più grandi marchi del design. Per esempio ladivertente famiglia di tre sgabelli in sughero natu-rale disegnati da Jasper Morrison per Vitra,griffe dell’impero dell’arredamento.

La tendenza è incoraggiata dai con-corsi di design, come Remade in Italy,promosso dal ministero dell’Am-biente, dalla Regione Lombardia edal Matrec (Material recycling). Iconsorzi dei principali materiali ri-ciclabili, a loro volta consorziati nelConai, stanno facendo molto perpromuovere un design di riciclo eriuso. Al Salone del Mobile di Milanosi ammirano, edizione dopo edizione,curiosità e meraviglie a volte molto di-vertenti ma non sempre pratiche e davverorealizzabili su larga scala.

BASSO IMPATTOTrono, sedia impilabilein policarbonato, e a bassoimpatto ambientaleDisegnata dallo StudioSottsass per Segis

SEDUTI SUGLI STRACCISi chiama Rag Chairla sedia-poltroncinadisegnata dall’olandeseTejo Remy. Eccouna comoda sedutafatta di straccimulticolori

NOMI TRIBALIDisegnati da MatteoThun per Magis,lo sgabello e il tavolinodalle linee morbide TamTam sono interamentein polietilene. Per internie esterni, in diversi colori

ESSENZE DIVERSEUn tavolo costruito con diverse essenzedi legno (in parte riciclato) firmatodal designer olandese Piet Hein EeekIl creativo realizza le sue collezioniin pochissimi esemplari

ANIMA D’ACCIAIOFerro 3 è un coffee table realizzatoin tondino d’acciaio curvato e verniciato,riciclabile. Progettato in due versioni:una bassa con piano di 65 cm e l’altrapiù alta, lato divano. Di SpHaus

Riciclo e riusola nuovafrontiera

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45DOMENICA 4NOVEMBRE 2007

OPERA UNICAÈ un’opera unica la sfera contenitore creata dal designer Tejo Remy con vecchicassetti di mobili da ufficio e per la casa. Tenuta insieme da una semplicestringa, l’invenzione d’arredo diventa emblema del riciclaggio creativo

FAMILY LIFELa Cork Family,composta da tresedute-sgabellitutte in sughero,è stata disegnata

da JasperMorrison per Vitra

ISPIRAZIONENATURA

Un’alta colonnain lamiera

di acciaio spessa1,5 millimetri

è arrotolata su sestessa per dar vita

a Cactus,portariviste

riciclabiledi Sintesi

Nasce ingegnere, per questo gli piace il designutile. Alberto Meda ha vinto due “Compassid’oro” (nel 1989 e nel 1994 per le lampade Lo-

la e per la serie Metropoli, entrambe di Luceplan) enumerosi altri premi. Ha lavorato per marchi cele-bri, Alfa Romeo Auto, Alessi, Philips, Kartell. La suaSolar bottle, disegnata insieme al giovane argentinoFrancisco Gomez Paz, ha vinto l’Index Award 2007nella categoria “casa”.

Purifica l’acqua, la rende disponibile, ed è purebella. La sua “bottiglia solare” sembra segnare uncambiamento di rotta nella sua produzione. È così?

«Il design non è solo mettere in forma un’idea, macreare oggetti che stabiliscano relazioni umane: una“tensione” che mi è sempre piaciuta. Questa botti-glia forse la rappresenta nella maniera più estrema,e anche poetica. È banale in sé, è appunto una botti-glia e in pvc, però sintetizza molti discorsi impor-tanti: tecnologia, estetica, utilità e sostenibilità.Esposta al sole, purifica l’acqua contaminata e larende potabile con un sistema brevettato da una dit-ta svizzera, Sodis (Solar Water Disinfection). Il con-tenitore ha una doppia faccia: una trasparente cheraccoglie i raggi Uva e l’altra riflettente metallica persfruttare i raggi del sole. La forma piatta l’abbiamopensata per il trasporto e anche lo stoccaggio. C’èuna maniglia per portarla, ma che può anche diven-tare base angolare per migliorare l’esposizione. In

sei ore i quattro litri diacqua dentro vengonopuliti dagli agenti pato-geni che causano diar-rea, epatite A, dissente-ria, colera».

Un creativo che parlacome un medico, stra-no.

«Un sesto del mondonon ha accesso a acquapotabile, è uno dei mol-ti problemi che ci ri-guardano oggi, che do-vrebbero essere presen-ti a chiunque agisca inquesta realtà. Aziende edesigner non possonofare altro che muoversiin maniera integrata inuna società che diventasempre più complessa.E piena di limiti nel pa-radosso della sua ab-bondanza: ma questi li-miti possono essere de-clinati in vantaggi. È il

nostro contesto questo, è la consapevolezza cui nonpossiamo rinunciare: progettare è una competenzache richiede responsabilità e doveri. Una macchinafotografica con un angolo più ampio. Nel dopoguer-ra, in un’epoca di ottimismo e di ricostruzione, ilprogettista era chiamato a rispondere insieme a deidesideri e a dei bisogni. La Vespa, la 500, le lampadee le sedie di Castiglioni, la Bic, i post-it sono state di-mostrazioni pratiche di un sentire molto forte e mol-to coeso: innovazione, tecnica, utilità. Poi nellasbornia dei decenni successivi, purtroppo si è inmolti casi persa quell’aspirazione originaria del de-sign che pensava a risolvere i problemi, guardava al-la funzione e al rapporto degli oggetti con l’uomo.Nella perdita dello scopo, la nascita di opere chehanno soddisfatto più il narcisismo degli artisti chei bisogni della vita. Credo che adesso le cose stianocambiando, l’industria stessa si attrezza per crearesoluzioni utili, etiche, vere».

Che possono diventare nuovi modelli di busi-ness.

«La crescita non si misura più solo in termini diprodotto, ma di valori sociali e relazionali. Ma que-sto non significa arrestare lo sviluppo. Il bel libro del-l’architetto americano William McDonough e delchimico tedesco Michael Braungart ci suggerisceun’altra strada: un albero produce migliaia di semiper garantirsi la riproduzione e questa sovrabbon-danza non rappresenta uno spreco, ma un’oppor-tunità perché rende disponibili materia ed energiaper altri organismi viventi. Dalla Culla alla cullaè unbel titolo anche per i designer: costruire oggetti chesiano nutrimento».

“La bottiglia solaremix di utile e bello”

Parla il designer Alberto Meda

ALESSANDRA RETICO

PROGETTO PER IL TERZO MONDOSolar Bottle è un contenitore destinato ai Paesi del Terzo

mondo che depura l’acqua contaminata sfruttando i raggiUva. Progetto di Alberto Meda e Francisco Gomez Paz

SEGNI ILLUMINANTISi chiama Wide Shadeed è una delle lampade

create da Birch & Willowutilizzando materiali

di recupero. In questocaso si tratta di ramie legno non trattatoI paralumi vengono

realizzati in carta riciclata

ACCESSORIO NECESSARIOIl bracciale di Ecoist è stato realizzatoriutilizzando carte di caramellee incarti di alimenti e ha la certificazionedi commercio equo e solidale. Per ognipezzo venduto viene piantato un albero

PIÙ SOSTENIBILELa wok, padella tipica della cucinaorientale usata per cuocere

le verdure, è stata prodottada Fonpresmetalcon alluminio

riciclato per il 92per cento

Sostenibile anchel’imballaggio:

è in cartone riciclatoal cento per cento

LOOK ESSENZIALETutto improntato all’essenzialitàil porta cd di A4 Design: si chiamaCd box ed è in cartone alveolarericiclato componibile ad incastroSe posto in verticale, contiene dvd o vhs

INNO ALLA DUTTILITÀIl piccolo vaso

di Zanotta in gomma,è del tutto riciclabile

Può contenere33 millilitri di acqua

e ha il bordoche si ripiega

Repubblica Nazionale

l’incontro46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 4NOVEMBRE 2007

‘‘

‘‘Metamorfosi

MADRID

Sulla fotografia di copertinadel nuovo disco, Miguel Bo-sé si piace moltissimo. È atorso nudo, coperto di ta-

tuaggi (fatti al computer). Attorno al-l’ombelico porta scritto il titolo del di-sco, Papito. A lettere gotiche. Come iveri tatuaggi delle violentissime “gan-gas” latino-americane. Per chi ha se-guito Bosé nei suoi trent’anni di carrie-ra, quella foto è sorprendente. Nel rude“Papito”, stempiato e baffuto, lividocome in una foto segnaletica della po-lizia, non c’è traccia del bellissimo gio-vane che cantava Bravi ragazzi e SuperSuperman, o del delicato travestito inTacchi a spillo di Almodovar.

È un errore, però, cercare in qualcu-no l’uomo che fu: soltanto il giovanecinquantenne che ci è seduto davanti è,oggi, il vero Miguel Bosé. «Quello di in-vecchiare è un problema femminile»,dice. «È il rimpianto che vi frega. Perchénon capite che le rughe della vita sonobellissime anche in una donna». Saquel che dice. Sin dalla nascita MiguelBosé ha respirato bellezza. Sua madreLucia è stata una delle attrici più belledella sua generazione e a suo padre LuisDominguin, torero leggendario, non èmai mancato il fascino. Belle anche lesue sorelle, Lucia e Paola, e immensa-mente affascinanti le persone che lohanno cresciuto: dal suo padrino Lu-chino Visconti, fino a Picasso, He-mingway e tutto quel mondo di artisti epoeti che negli anni Cinquanta e Ses-santa girava attorno al cinema e ai tori.

Ma di questo non si parla. Il rischio èche si alzi e se ne vada, come ha già fat-to durante un’intervista in una radioitaliana. Miguel Bosé è molto educato.Può anche essere distante e formale, sela situazione lo richiede. Un modo perproteggersi, ma anche un fatto di pu-

dore, di discrezione, di buone maniere.Si potrebbe dire che quelle tutine attil-late in gioventù (quando aveva studia-to a Londra con Lindsay Kemp e avevamolto osservato David Bowie), i movi-menti provocatori, quella sessualitàambigua (irresistibile per donne e uo-mini) siano stati segni di una ribellioneportata avanti sempre con una certaclasse.

Negli incontri professionali è impre-vedibile. A seconda dell’umore, puòdare risposte divertenti, perfino pic-canti. Raccontare aneddoti preziosi.Ma ci sono giorni in cui gli va di esserepiù serio. Questo è uno di quelli. Traqualche ora Miguel Bosé salirà sul pal-co allestito nella Plaza de Toros. Ora sisarà abituato, ma la prima volta deveessergli sembrato strano cantare e bal-lare dove suo padre aveva tanto “mata-do”. Chissà che non sia stata una sfida,la sua: far battere cuori senza versareuna goccia di sangue. Lacrime sì, manon sangue. Che cosa ha pensato la pri-ma volta che ha cantato in una Plaza deToros? «Sempre a parlare della fami-glia, voi italiani», taglia corto ma perfortuna non se ne va. Ha ragione. Sa-rebbe più opportuno parlare di musi-ca, perché notizie ce ne sono, e molte.Uscito in maggio, Papitoha venduto fi-nora più di un milione e mezzo di copienel mondo ed è stato per tredici setti-mane al primo posto nelle classifichespagnole. Per mesi, in Italia, non si èmosso dai primi posti e oggi è alla cifrarecord di centosessantamila copievendute (Paul McCartney, per esem-pio, è a venticinquemila). Bosé ha trenomination ai Latin Grammy (la con-segna l’8 novembre a Las Vegas) e allafine di settembre ha terminato un tourspagnolo di più di novanta concertitutti esauriti. Il 5 dicembre canterà adAssago, per la prima volta dopo tredicianni di assenza dall’Italia.

«Non per colpa mia», dice senza iro-nia. «Dopo Bravi ragazzi, all’inizio de-gli anni Ottanta, decisi di prendere inmano la mia carriera. Decisi di scriver-mi da solo le canzoni che cantavo. Que-sto ai discografici italiani non piacque.Ogni volta che proponevo un disconuovo, che già aveva avuto successo inSpagna e negli altri paesi latini, mi ri-spondevano che “non c’era il pezzo”.Strano paese, l’Italia. Basti pensare adAlberto Sordi: il più grande successo diSordi è stato quello di fare Sordi. E la Lo-ren faceva la Loren, Manfredi facevaManfredi e così via. Sordi è stato un at-tore drammatico straordinario, manon ha avuto il successo del comico. Ilpubblico italiano è così: quando sco-pre un personaggio lo vuole uguale ineterno. Il pubblico latino invece vuolesempre essere sorpreso. È molto auda-ce. Una cultura che si reinventa co-stantemente». Per questo se ne andòdall’Italia? «Persi il mercato e fui co-stretto a cambiare aria. Non è assurdoche un brano come Si tu no vuelves,canzone già famosissima, una melodia

zione. Ha incontrato i suoi compagniuno a uno. Tutti, tranne Mina (con laquale canta Agua y sal). «Da tempoavevamo voglia di cantare insieme. Maquando lei era libera non lo ero io, e vi-ceversa». Che cosa è la sua musica? «Èun pop europeo e contemporaneo.Sempre melodico e con una storia daraccontare. Questo, nella musica ame-ricana, spesso non esiste. Da ragazziascoltavamo dischi in inglese senza ca-pire una parola. Meglio così, in fondo.Il rhythm’n’blues era fantastico, mache cosa c’era da capire in “I want youmy babe… She is my baby… My babyhere… My baby there”?

Le storie da raccontare sono per luitalmente importanti che il prossimoanno Miguel Bosé pubblicherà un ro-manzo. «Sono stato un lettore compul-sivo, un bambino in continuo e segretorapporto con la letteratura. Leggevo dinascosto, perché le cose hanno piùsenso se le fai e nessuno lo sa. Scrivotutti i giorni da quando avevo sette an-ni. E ogni anno, il 23 giugno, mandotutto a fuoco nelle pire della “noche deSan Juan”. In tutte le città spagnole nel-la notte di San Giovanni si brucia quelche è vecchio. Ma nel giugno scorso, incasa mia, un amico editore ha messo ilnaso dove non avrebbe dovuto: nelletrecento pagine scritte di mio pugno.“Queste non le bruci”, mi ha detto: “Lepubblico io”. Mi sono infuriato per lasua impertinenza, ma non sono riusci-to a fargli cambiare idea». Un romanzosu che cosa? «È una storia di compas-sione, parola che detesto perché spes-so ipocrita. Ma se usata in un contestodi estrema urgenza e di grande amorediventa una parola eroica. E questa è lastoria».

Il suo primo successo, nel ’77, è conLinda, versione spagnola di una canzo-ne dei Pooh. Non esattamente I wantyou my babe… Bisogna considerare unpaio di cose. La prima: sono stato ado-lescente durante la dittatura di Franco.Il rock era musica vietata, clandestina.La fortuna mia e delle mie sorelle è sta-ta quella di frequentare il liceo france-se, una scuola laica, libera, una speciedi isola. Lì ho cominciato ad ascoltareDoors, Steppenwolf, King Crimson,ma anche Moustaki e Françoise Hardy.La seconda cosa è legata alla mia fami-glia. In casa c’erano due colonne sono-re: una era l’opera italiana, Verdi, Puc-cini, Donizetti, passione di mia madre.Ascoltava anche Ella Fitzgerald, SarahVaughan, ma soprattutto la classica.L’altra musica che volava per le stanzeera il flamenco, passione di mio padre.Ma, quando tornava dalle sue “tempo-radas”, dalle corride in America Latina,portava dischi di cumbia, merengue,vallenato, bolero. Questa è stata la miaformazione musicale».

Perché lei è nato a Panama? «Mio pa-dre voleva che nascessi a Medellin, do-ve lui aveva vissuto da bambino con igenitori fuggiti dalla Spagna dellaguerra civile. Mio padre sentiva la Co-

bestiale, fu rifiutata dai discograficiitaliani dicendo che era una ballata eche le radio non l’avrebbero passata?».Assurdo se si pensa che il suo nuovo di-sco, campione di vendite 2007 in Italia,ripropone quasi tutti quei brani rifiu-tati. «Per me resta un mistero», dice Bo-sé.

Papito è un disco avventuroso.Quando gli proposero di ricantare isuoi hit in coppia con le star spagnole elatine, Bosé rifiutò. «C’erano i trent’an-ni di carriera, d’accordo, e c’erano imiei cinquanta. Ma una autocelebra-zione mi sembrò assurda. Poi, parlan-do con Shakira, con Juanes, con RickyMartin, cresciuti con le mie canzoni,ho capito quanto potesse essere im-portante dare una nuova veste al miolavoro del passato. E allora mi sono im-barcato in una avventura molto fatico-sa, anche fisicamente». Sedici duetti, enon come si fa di solito: si manda lacanzone completa al duettante pre-scelto; lui, da solo in studio, aggiunge lasua voce e la rispedisce al mittente. Bo-sé, invece, è andato in otto città diffe-renti, in diciannove studi di registra-

lombia come una patria. Ma in quelmomento era a Panama, si riposavadopo una cornata e, con Lucia, non riu-scirono a raggiungere in tempo la Co-lombia. Nel ‘56 non c’erano aerei tutti igiorni. Così sono nato lì». Miguel Boséha tre anni quando la Spagna sta con ilfiato sospeso davanti alla leggendariarivalità tra Dominguin e Ordóñez. Unaprimavera epocale nella storia dellatauromachia. Cognati nella vita, torerisplendidi per fascino personale e permovimenti di “muleta”, i due furono,nel ‘59, protagonisti di una vera guerra(come Coppi e Bartali, ma immensa-mente più glamour) che produrrà fiu-mi di sangue e di inchiostro. Ispirato daloro, Hemingway scriverà Un’estatepericolosa. Per Miguel il personaggioDominguin sarà (in modo più o menoinconscio) il mito da distruggere. Quelpadre così maschio, marziale, impla-cabile. Quel padre che lo avrebbe volu-to torero e che, impedendogli di essereTadzio nella Morte a Veneziadi Viscon-ti, non riuscì però a impedirgli una car-riera cinematografica.

Dal ‘73 al ‘98 Bosé ha girato una tren-tina di film: Tessari e Dario Argento,Prandino Visconti (Oedipus Orca) eNegrin, Almodovar e Patrice Chérau(La regina Margot), fino a Detras del di-nero, nel ‘95, il film di debutto di Gon-zalez Iñárritu. Ma la morte di Domin-guin (nel ‘96) cambiò le carte in tavola.«Me la annunciarono in Francia, men-tre stavo girando un film. Arrivai subitoa Cadice, dove lo avevano portato, equando entrai nella stanza tutti queglisguardi su di me decisero chi sarebbestato il nuovo capofamiglia». Non lesembrò strano quel ruolo? «Io credonella tradizione. È la tradizione che tidà le radici. Non si può pretendere di fa-re avanguardia senza conoscere il clas-sicismo. Mio padre era morto e il figliomaggiore diventava il capo. Normale,matematico. Che noia però, voi italia-ni. Sempre a parlare della famiglia».

Quello di invecchiareè un problemafemminileÈ il rimpiantoche frega le donne,perché non capisconoche le rughe della vitasono bellissimeper maschi e femmine

“Quando ero bambino, in casac’erano due colonne sonore:una era l’opera italiana, passionedi mia madre; l’altra il flamenco,passione di mio padre”. Lui,

doppio figlio d’arte,a cinquant’anniè al culmine del successoe sta per tornare in Italiadopo tredici annidi incomprensioni“Siete uno strano Paesequando scoprite

un personaggio poi volete che restisempre uguale e invece io credoche bisogna sempre reinventarsi”

LAURA PUTTI

Miguel Bosé

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Repubblica Nazionale