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il viaggio l’inchiesta Il mondo ai piedi della dea Palla EMANUELA AUDISIO e EMILIO MARRESE DOMENICA 20 NOVEMBRE 2005 D omenica La di Repubblica Giganti e vulcani, le foto di Salgado LUIS SEPÙLVEDA il racconto Quando i dandy andavano alla guerra STEFANO MALATESTA l’incontro Garzón, un giudice e la sua famiglia SILVANA MAZZOCCHI cultura Saluto romano, il rituale fascista NELLO AJELLO e FILIPPO CECCARELLI N ella vita di ogni essere umano, famiglia, co- munità o società, i ricordi sono di fondamen- tale importanza, sono il tessuto stesso dell’i- dentità personale. Coloro che idearono e im- posero l’apartheid in Sudafrica lo sapevano molto bene: al cuore stesso di ogni possibile strumento di oppressione messo a punto dal regime di apartheid c’era la determinazione a reprimere, distorcere, svigorire, persino annientare i ricordi delle persone. Per quanti tra noi trascorsero lunghi anni in prigione, questa of- fensiva ai nostri ricordi era avvertita molto intensamente, in effetti proprio a livello fisico — l’ardente desiderio di acca- rezzare le persone care, di sentire l’odore di casa, di perce- pire la consistenza del maglione preferito. La lotta contro l’apartheid può essere esemplificata come la lotta con i propri ricordi e il rischio di dimenticare. Fu pro- prio nella nostra determinazione a ricordare i nostri ante- nati, le nostre storie, i nostri valori e i nostri sogni che sco- primmo il cameratismo. Come è risaputo ed è tradizione nel nostro paese da molti secoli, i ricordi del singolo hanno le loro premesse nella memoria collettiva. È tenendo in mente questa antica verità popolare che abbiamo inaugu- rato il Nelson Mandela Centre of Memory and Commemora- tion Project. Compito di questo Centro è continuare a far lu- ce sui molti silenzi imposti dal nostro apartheid e dal nostro passato coloniale, è fare spazio ai ricordi liquidati dal regi- me. Abbiamo dato incarico al Centro di identificare, docu- mentare — e facilitarne l’accesso all’opinione pubblica — i molti archivi che riportano tracce della mia vita e di coloro che hanno vissuto con me. Il primo importante progetto del Centro è consistito nell’aprire quello che viene comune- mente chiamato l’Archivio della Prigione. Questo libro (A prisoner in the Garden, ndr) racconta la storia di quel progetto, una storia fatta di molte storie. Chiunque abbia esplorato il mondo degli archivi sa che si tratta di una vera e propria miniera di informazioni, piena di sorprese, di strade che si intersecano, di vicoli ciechi, di do- lorosi ricordi e di domande senza risposta. Molto spesso i ri- cordi conservati negli archivi divergono da quelli che gli in- dividui conservano dentro di sé. Questa è la vera sfida, una sfida affascinante. Lasciarsi coinvolgere dal contenuto di un archivio procura gioia e dolore allo stesso tempo. Per me è stata un’esperienza molto forte e intima prendere visione della mia scheda di prigioniero. (Traduzione di Anna Bissanti) con un servizio di ANAIS GINORI NELSON MANDELA le mie lettere dal carcere MANDELA I brani scritti alla moglie e alle figlie, quelli censurati e i molti appunti: ecco i documenti della prigionia FOTO CORBIS i sapori Tartufo, il gioiello nascosto nella terra GÉRARD DEPARDIEU e LICIA GRANELLO Repubblica Nazionale 29 20/11/2005

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il viaggio

l’inchiesta

Il mondo ai piedi della dea PallaEMANUELA AUDISIO e EMILIO MARRESE

DOMENICA 20 NOVEMBRE 2005

DomenicaLa

di Repubblica

Giganti e vulcani, le foto di SalgadoLUIS SEPÙLVEDA

il racconto

Quando i dandy andavano alla guerraSTEFANO MALATESTA

l’incontro

Garzón, un giudice e la sua famigliaSILVANA MAZZOCCHI

cultura

Saluto romano, il rituale fascistaNELLO AJELLO e FILIPPO CECCARELLI

Nella vita di ogni essere umano, famiglia, co-munità o società, i ricordi sono di fondamen-tale importanza, sono il tessuto stesso dell’i-dentità personale. Coloro che idearono e im-posero l’apartheid in Sudafrica lo sapevanomolto bene: al cuore stesso di ogni possibile

strumento di oppressione messo a punto dal regime diapartheid c’era la determinazione a reprimere, distorcere,svigorire, persino annientare i ricordi delle persone. Perquanti tra noi trascorsero lunghi anni in prigione, questa of-fensiva ai nostri ricordi era avvertita molto intensamente, ineffetti proprio a livello fisico — l’ardente desiderio di acca-rezzare le persone care, di sentire l’odore di casa, di perce-pire la consistenza del maglione preferito.

La lotta contro l’apartheid può essere esemplificata comela lotta con i propri ricordi e il rischio di dimenticare. Fu pro-prio nella nostra determinazione a ricordare i nostri ante-nati, le nostre storie, i nostri valori e i nostri sogni che sco-primmo il cameratismo. Come è risaputo ed è tradizionenel nostro paese da molti secoli, i ricordi del singolo hannole loro premesse nella memoria collettiva. È tenendo inmente questa antica verità popolare che abbiamo inaugu-

rato il Nelson Mandela Centre of Memory and Commemora-tion Project. Compito di questo Centro è continuare a far lu-ce sui molti silenzi imposti dal nostro apartheid e dal nostropassato coloniale, è fare spazio ai ricordi liquidati dal regi-me. Abbiamo dato incarico al Centro di identificare, docu-mentare — e facilitarne l’accesso all’opinione pubblica — imolti archivi che riportano tracce della mia vita e di coloroche hanno vissuto con me. Il primo importante progetto delCentro è consistito nell’aprire quello che viene comune-mente chiamato l’Archivio della Prigione.

Questo libro (A prisoner in the Garden, ndr) racconta lastoria di quel progetto, una storia fatta di molte storie.Chiunque abbia esplorato il mondo degli archivi sa che sitratta di una vera e propria miniera di informazioni, piena disorprese, di strade che si intersecano, di vicoli ciechi, di do-lorosi ricordi e di domande senza risposta. Molto spesso i ri-cordi conservati negli archivi divergono da quelli che gli in-dividui conservano dentro di sé. Questa è la vera sfida, unasfida affascinante. Lasciarsi coinvolgere dal contenuto di unarchivio procura gioia e dolore allo stesso tempo. Per me èstata un’esperienza molto forte e intima prendere visionedella mia scheda di prigioniero.

(Traduzione di Anna Bissanti)con un servizio di ANAIS GINORI

NELSON MANDELA

le mie lettere dal carcere

MANDELA

I brani scritti alla mogliee alle figlie, quelli censuratie i molti appunti: eccoi documenti della prigionia

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Tartufo, il gioiello nascosto nella terraGÉRARD DEPARDIEU e LICIA GRANELLO

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la copertinaDentro l’archivio

Le lettere piene di passione scritte alla moglie Winnie,quelle alle figlie e alla madre. Gli appelli alle autorità,il dialogo con gli avvocati e gli appunti segnatisul calendario: sono i documenti della prigionia di NelsonMandela, che ora vengono pubblicati per la prima volta

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cordando come sei, fisicamente e spiritualmente. Mentre ti scri-vo, la tua bella fotografia è appesa alla parete sopra alla mia spal-la sinistra. La spolvero tutte le sere perché così ho l’impressionedi accarezzarti». Le lettere pubblicate oggi rendono omaggio a unamore vissuto quasi esclusivamente a distanza. Libero, Mande-la accusò Winnie di averlo tradito con una delle sue guardie delcorpo e si separarono.

Gli scritti alla madre, alla sorella e agli amici d’infanzia sono in-tinti di una lancinante nostalgia. Dalla prigione, Mandela non hamai smesso di pensare al Transkei, agli altipiani dove era nato ecresciuto prima di andare a studiare in “città”, a Johannesburg eincontrare la politica. «Cara Sisi, pensare a te e a casa mi fa staremeglio. La maggior parte del tempo questi pensieri regalano unpo’ di gioia. Ricordi quella volta in cui tu mi sgridasti perché ave-vo rubato un po’ di granoturco dal giardino del reverendo Matyo-lo? Mi dicesti: “Vuoi gettarci nella disgrazia rubando a un prete?”».

Quando Nelson Mandela sbarcò nel 1964 su Robben Island, allargo di Città del Capo, condannato all’ergastolo per 193 azionidi sabotaggio durante il cosiddetto processo Rivonia, fu accoltoda un gruppo di guardie afrikaans che gridarono: «Questa è l’Iso-la! Qui morirete!». Era un carcere senza acqua, né luce, che nel-l’Ottocento era stato un lebbrosario e manicomio. I prigionieripolitici passavano le giornate a spaccare le pietre sotto il sole. Ipochi momenti di riposo Mandela li dedicava alla scrittura, lamedicina che gli ha permesso di sopravvivere. Oltre all’autobio-grafia, in gran parte redatta da dentro al carcere ma pubblicatasoltanto nel 1994, ha continuato a perfezionare i suoi studi di Giu-risprudenza e ad elaborare teorie politiche. «Il fatto di poter but-tare giù pensieri e sentimenti mi regala un poco di piacere» spie-ga in una lettera alle figlie Zeni e Zindzi. A loro parla da padre af-fettuoso, preoccupato che le bimbe si sentano abbandonate:«Mamma ed io vogliamo che sappiate che questi alti e bassi han-no rafforzato il nostro amore per voi. Siamo certi che un giorno inostri sogni si avvereranno, potremo vivere insieme e godere ditutte le dolcezze che ci mancano».

Ancora oggi Mandela porta con sé il senso di colpa per aver tra-scurato la sua famiglia in favore della lotta politica. Quando il suoprimogenito Thembekile, detto Thembi, muore in un incidentedi macchina nel 1969, è sotto choc. «Mi sembra impossibile chenon lo rivedrò mai più», scrive a Winnie. «L’ultima volta che ci sia-mo incontrati era un giovinetto diciassettenne che non avrei maiassociato all’idea di morte. Indossava un paio di miei pantaloni,vistosamente troppo grandi. La cosa mi fece riflettere. Thembiaveva molti vestiti, non aveva bisogno di prendere le braghe di suo

Lettera alla moglie Winnie, 1 agosto 1968. «L’altra notteho sognato di stringere il tuo corpo ballando sulle notedi una graziosa melodia hawaiana. Eravamo nella saladel Bantu club. Io me ne stavo da una parte pronto ad ac-coglierti tra le braccia e tu davanti a me volteggiavi in pi-roette sensuali, con quel tuo sorriso così incantevole che

oggi mi manca disperatamente. E’ stato un momento magnifico. Sedovessi ancora sognare, vorrei portarti alle Hawaii». Lettera alla so-

rella Sisi: «La sfida di ogni detenuto, in particolare prigio-niero politico, è di sopravvivere al carcere mantenendo lapropria integrità, di uscire senza aver perso qualcosa di sé,di mantenere ed arricchire i propri ideali». Lettera al pri-mo ministro: «Le scrivo a nome dei miei compagni perchiederle di liberarci e, nell’attesa della sua decisione, diaccordarci il trattamento dovuto ai prigionieri politici».Per la madre Nosekeni Fanny. «Ci sono momenti in cui ilmio cuore quasi smette di battere, rallentato dal peso del-la mancanza. Amerei così tanto fare ancora una volta il ba-gno nelle acque del fiume Umbashe, come usavo fare al-l’inizio del 1935».

Nelson Mandela ha passato oltre un quarto di secoloin prigione, 27 anni e 90 giorni. Per nessun altro leaderpolitico l’angusta cella è diventata tutto come per lui:luogo di elaborazione politica e di introspezione, di ro-mantiche fughe da fermo e di dialogo a distanza con gliaffetti più cari. Leggere i documenti inediti su quegli an-ni, raccolti in un nuovo libro e presentati qui in antepri-

ma per l’Italia, significa ripercorrere il “lungo cammino per la li-bertà” del più famoso prigioniero politico del Novecento. «Io stes-so mi sono emozionato rivedendo alcuni documenti» ha confes-sato Mandela. La collezione di inediti è il frutto della meticolosaricerca del Centro per la Memoria di Johannesburg, creato dallostesso Mandela e gestito da Verne Harris, attraverso archivi stata-li dissecretati, cimeli tenuti da amici e parenti.

Mandela amava molto scrivere. La corrispondenza del dete-nuto 466/64 (la matricola nel penitenziario di Robben Island) èstata prolifica anche se ha subito la censura e molte missive sonostate confiscate dai servizi segreti. «Una lettera è per me un teso-ro prezioso, la pioggia estiva che può far fiorire il deserto» anno-ta in uno dei suoi diari. A Winnie, sposata nel 1958 e madre dellesue due bambine, affiderà fino alla fine della prigionia straordi-nari slanci passionali. «Forse non sai quanto spesso ti pensi, ri-

ANAIS GINORI

LA MOGLIE

“Cara Zami, ho sognatoche ballavamo sulle notedi una graziosa melodiahawaiana”. Inizia cosìuna delle tante lettered’amore scrittedalla prigione alla moglieWinnie, chiamataaffettuosamente “Zami”

LE FIGLIE

“La nostra famigliaè divisa ma non dovetedisperare. Le difficoltàhanno rafforzato il mioamore per voi”.Anche dal carcere sonomolte le raccomandazionie le dimostrazionidi affetto del papà alledue figlie Zeni e Zindzi

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LA CENSURA

“A volte delle lettere chearrivavano nonrimanevano che i saluti”,scrive Mandela. Ognimissiva doveva esserescritta in inglese per esseresottoposta alla censura.Molte buste sono stateconfiscate

I CALENDARI

“In prigione si perde ilsenso del tempo ed è comeperdere il proprioequilibrio mentale”. Suicalendari Mandelaannotava tutti i dettaglidella vita carceraria:dalle visite agli esamimedici, dagli eventipolitici ai compleanni

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“Amore mio, ti scrivoper evadere con il cuore”

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padre. Fui commosso dal fattore emotivo che certamente lo ave-va spinto a indossare quei pantaloni troppo grandi».

In quanto prigioniero politico, definito dal regime segregazio-nista “detenuto di sicurezza”, Mandela era classificato nella cate-goria D, il trattamento più duro. Poteva ricevere una visita e unalettera ogni sei mesi e tutte le sue comunicazioni venivano con-trollate. Era costretto a scrivere in inglese per permettere la cen-sura e le lettere non potevano superare oltre cinquecento parole.I quaderni della prigionia mostrano come, a causa dei limiti di te-sto, Mandela mettesse più volte in bozza le sue lettere. Spesso i se-condini non consegnavano o ritardavano la consegna delle buste.Altre volte venivano confiscate. E’ così che dal 2000, con l’apertu-ra degli archivi dei servizi segreti ai tempi dell’apartheid, sono sta-ti ritrovati molti documenti di cui Mandela aveva addirittura di-menticato l’esistenza.

Nel nuovo libro c’è anche diverso materiale fotografico inedi-to. Alcune immagini provengono dall’album privato della fami-glia Mandela, altre sono state recuperare negli archivi pubblici. Lafotografia di copertina, Nelson Mandela nel cortile della prigionedi Robben Island, è stata scattata durante una visita di giornalistiorganizzata dal regime nel 1977. È una rara testimonianza visivadi quel periodo, Mandela non ha praticamente foto di sé tra il 1964e il 1990. All’epoca il governo cercava di dimostrare che i detenu-ti politici venivano trattati bene, tanto bene che potevano fare“giardinaggio”. Alla foto di Mandela i zelanti promotori del regi-me hanno apposto una didascalia - “Un prigioniero nel giardino”- talmente grottesca che è diventata il titolo del libro. Quel prigio-niero senza nome era già conosciuto in tutto il mondo e intorno alui non c’era nessun giardino, bensì terra secca battuta dal vento.

Non si può capire fino in fondo la straordinaria avventura poli-tica di Mandela senza vedere come, giorno dopo giorno, il ragaz-zo di campagna che sognava di fare il pugile ed era famoso per es-sere uno sciupa-femmine, ha trasformato la vita in carcere in unagigantesca occasione di lotta democratica. Ha raccontato: «Nonho mai considerato seriamente la possibilità di non uscire primao poi di prigione». Lo dimostrano adesso queste lettere, il suo osti-nato corrispondere con la famiglia, gli avvocati, i nemici politici.«Compresi che avrei potuto portare avanti la mia lotta nella roc-caforte stessa del nemico» ha spiegato una volta. Confinandolo inuna cella, il regime segregazionista fece il suo più grande errore.Nelson Mandela entrò in prigione che era un giovane leader poli-tico non troppo noto e che non godeva neanche dell’unanimitànel suo partito. Ne uscì l’11 febbraio 1990 trasformato in un eroemondiale.

“UN PRIGIONIERO NEL GIARDINO”Edito dalla Penguin Books,è la raccolta dei documenti privati e pubblicidella prigionia di Nelson Mandela e appenadissecretati. Il volume, realizzatodalla Fondazione Mandela, sarà presentatogiovedì a Johannesburg all’internodel Centro per la Memoria creatoper documentare la lotta contro l’apartheid

Nella copertina de La Domenicadi Repubblica pubblichiamo un estrattodella prefazione del librofirmata da Nelson Mandela

LE VISITE

Il registro di tutte le visitea Robben Island. Non eranopermessi contatti fisicie le autorità controllavanole conversazioni. Nellaprima fase della prigionia,Mandela potevapassare anche annisenza vederela moglie e i figli

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LE IMMAGINIQui a fianco un ritrattodi Nelson Mandela firmatoda Hans Gedda. Nell’altra pagina,le figlie Zeni e Zindzi in attesa di visitareil padre nel carcere di Robben IslandNella foto sotto a sinistra Mandelacon il figlio Themby,morto in un incidente stradale Sotto, i manifesti dedicatial leader sudafricano

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l’inchiestaSport e leggenda

I portieri si lamentano dei nuovi palloni, che simimetizzano con colori, pesi ed elasticità diverseTra poco verrà scelto quello da usare nei Mondialiin Germania, che sarà super tecnologico. È l’evoluzionedella specie, che da un rimbalzo all’altro, da Varelaa Maradona ha fatto la storia del calcio

Il mondo ai piedi della dea Palla

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L’ultima volta che ha stretto tra le mani il pallone della finale deiMondiali del ‘38 è stata due domeniche fa. Bellissimo, bruno, luci-do che pareva nuovo. Glielo avevano portato perché lo autogra-

fasse, prima di esporlo ad una mostra, ma Pietro Rava, l’unico superstitedi quell’Italia campione del mondo, non c’è riuscito. Troppa, davverotroppa è stata l’emozione per i suoi 90 anni e per quella malattia che lo favivere ora immerso in una nebbia serena, disposta a diradarsi solo ognitanto per riaprirgli fugacemente gli orizzonti della memoria. Chissà checosa ha rivisto dentro quel pallone, una madeleine di quasi mezzo chilo

che lo ha riportato a quel pomeriggio del 19 giugno del 1938 al-lo Stadio Olympique des Colombes di Parigi quando gli azzur-ri sconfissero 4-2 l’Ungheria con doppiette di Piola e Colaussi.

Pierone Rava, classe 1916 da Cassine in provincia di Alessan-dria, è l’unico calciatore italiano ad aver conquistato un Mon-diale e un’Olimpiade, quella di Berlino del ‘36. Trenta partite innazionale con una sola sconfitta, terzino sinistro in coppia conFoni a destra. Oltre trecento gare con la maglia della Juventus dal‘35 al ‘50, vincendo uno scudetto solo verso la fine e due coppeItalia. Il primo gol in campionato lo segnò sulla soglia dei 24 an-ni, il giorno di San Silvestro al Venezia. Nel ‘42 si arruolò volon-tario sul fronte russo, sei mesi in Ucraina. Il pallone per lui è sta-to uno solo, quello scuro perché quelli bianchi non esistevanofinché ha giocato, quello di cuoio con la cucitura e i lacci comeuna ferita ricucita, «quello che faceva male quando lo colpivi ditesta ma te ne accorgevi solo dopo la partita, mai durante, quel-lo che quando giocavi nel fango dopo un po’ diventava duro e pe-sante come una pietra, ma era proprio allora che serviva tutta la

mia forza e ce n’erano pochi che riuscissero a calciarlo tanto lontano comeme. Anche venti o trenta metri, che ora sono niente ma con quei palloni lìerano tanti, davvero». Il terzino juventino non ha paura di niente e di nes-suno, scrivevano le cronache sportive dell’epoca. Il più potente terzino delmondo, lo esaltava il ct Vittorio Pozzo. Una roccia, si poteva dire allora pri-ma che diventasse una definizione abusata. Mai un infortunio.

«Non mi ricordo il mio primo pallone perché non ne ho mai avuto uno.Lo portava sempre qualcun altro in piazza Marmolada a Borgo San Paolodove andavamo a giocare da ragazzini o anche in piazza d’Armi, che noi

Palla, pallone, pelota, bola o balon. A prenderla con la ca-poccia faceva venire i bernoccoli. Per come la portavasotto il braccio Obdulio Varela era solo una infante cheaveva fatto la cosa sbagliata. Stretta al corpo del capi-tano dell’Uruguay che l’aveva raccolta in fondo allapropria rete per riportarla a centro, il 16 luglio del 1950,

la faccia marrone era costernata e aveva pensieri confusi sotto lecuciture, mentre tutti intorno festeggiavano la giusta direzioneche le aveva dato Friaca, attaccante brasiliano. Rio de Janeiro, fi-nale della Coppa del Mondo, Brasile-Uruguay. Adolescenza delcalcio e del pallone, ma anche fine del mondo, l’Hiroshima delcalcio. Schiaffino e Ghiggia, 2-1 a undici minuti dal fischio finale.Il balon accoltellò il destino. In maniera debole, storta, micidiale.Certe palle non hanno la faccia giusta per fare la cosa sbagliata. Si-lenzio da cimitero. «A sole tre persone è bastato un gesto per fartacere tutto il Maracanà: Frank Sinatra, papa Paolo Giovanni II eio», Ghiggia anni dopo. Fu vertigine in Svezia nel ‘58 fra le fintestorte di Garrincha, come stare in una porta girevole, ti chiedi incontinuazione quando esco? Lei che a Wembley sapeva di non es-sere entrata in rete, ma non volle darglielo il dispiacere alla Regi-na, era il sessantasei, Beatles e dintorni, yesterday, ma meglio,molto meglio vincere today, con il calcione che gli dette Hurst,tutta un’altra musica, si mise a cantare anche Queen Elisabeth.

Le girò la testa per tutte le volte che andava avanti e indietro conl’Olanda di Cruyff, il figlio della lavandaia, più che entrare in por-ta le piaceva il loro modo di passarsela, precisi come impiegati delcatasto in campo, scanzonati come rock star fuori, gente che sa-peva godersela: la vita, il calcio, il sesso, come se poi non fosserola stessa cosa. Infatti il loro allenatore insisteva perché tutti la trat-

tassero con confidenza, certi passaggi sono manuali di democra-zia. È che quei capelloni avevano imparato a giocare sui marcia-piedi di Amsterdam, a calcolare bene il rimbalzino della strada,mai che la lasciassero libera di sbagliare.

Balon, da tango e dittatura. Corse su un prato che era il cielo delterrore per chi guardava dal basso, nel ‘78 in Argentina, persa frale lunghe gambe di Kempes, che veniva il fiatone a stargli dietro.Rimase sempre colpita dalla rapidità di Paolo Rossi nell’82 a Ma-drid come di chi sa baciare per strada anticipando anche la gioiadi farlo. Al resto ci pensò Tardelli ringranziandola con quell’ur-lo liberatorio, pieno di tenera incredulità. Poi arrivò Diego Ar-mando a trattarla da bambina, madre, amante, compagna di car-nalità. Ma lei non era più di cuoio. Con Maradona lo stupore di-venne normalità, lei seppe prima degli altri che era stata la manoe non la testa, che la vecchia Inghilterra sarebbe stata umiliata.Per questo se ne stette buona buona attaccata ai piedi di Diego co-me un bimbo col padre sull’ottovolante, insieme attraversaronoil campo, il tempo, una guerra e l’oceano, e lei rimase male quan-do la corsa si chiuse, alle spalle della stanca difesa inglese, banal-mente in una porta. Ancora, ancora, aveva voglia di dire a Diego:rotoliamo insieme, nel mondo, perdiamoci.

Si perse lui, però, non lei. Dopo tanta felicità cominciò ad an-noiarsi: Italia, Stati Uniti, due viaggi tediosi, più aspettative che ri-sultati, più immaginazione che realtà, come una coppia consu-mata, lei e il gioco erano stanchi, logorati dalla perdita di fanta-sia. Eppure lei non era vecchia, anzi ci te-neva al look, veloce scivolava fra teste epiedi, felina, ma senza allegria, come an-dare in vespa sotto la pioggia. Un po’ Zi-dane le diede l’ebbrezza del ricordo,un amante stravagante che accorda

su vecchie melodie, fugace storia, breve ebbrezza in quel di Pari-gi ‘98 che non delude mai. Poi la Corea e il Giappone nel 2002, unaminestra riscaldata, qualche palpito brasiliano, un lieve balzo, eforse la rassegnazione, aspettando che il 2006 la rimetta in mezzoal campo.

E che il suo padre ufficiale (l’Adidas dal ‘70) la battezzi il 9 di-cembre a Lipsia in occasione del sorteggio mondiale. Già, i nomi:in Messico si chiamava Telstar, era fatta in cuoio, 32 sezioni cuci-te a mano, 12 pentagoni neri e 20 esagoni bianchi. Il nome vieneda star of television, visto che la Coppa del Mondo per la primavolta è trasmessa in diretta via satellite. La famiglia si allarga conCile, Tango, resistente alle intemperie, Espana, con cuciture wa-terproof, Azteca nell’86, primo sintetico, seguito nel ‘90 da Etru-sco, con substrato di schiuma in poliuretano nero, nel ‘94 Usa c’èQuestra, ammorbidito dal polietilene che più soffice non si può einfatti Baggio lo spara sulla luna. Nel ‘98 arriva Tricolore in omag-gio alla Francia che non se lo fa scappare, ha una schiuma sintat-tica, micro-palloncini riempiti di gas. Nel 2002 si chiama Fever-nova, da una costellazione dorata, ma l’Italia di Trapattoni non losa far brillare. Agli Europei del 2004 esordisce Roteiro, nome deldiario di bordo di Vasco de Gama, famoso esploratore portoghe-se. È il primo pallone “light”, termosaldato, color grigio, fasce ne-re, nessuna cucitura, 440 grammi di peso, 690 millimetri di cir-conferenza, 110 euro di costo e mille polemiche. «Va dove gli pa-re», dicono Buffon, Peruzzi e Totti.

È una vita che il mondo si diverte a prenderlo a calci. Era dicuoio, ripieno di stoppa, quello dei cinesi. Gli egiziani del tempodei faraoni invece lo fecero di paglia o di bucce di grano, e lo av-volsero di tela colorata. I greci e i romani usavano una vescica dibue gonfiata e cucita. Gli europei del medioevo e del rinasci-mento si disputavano una palla ovale, imbottita di crine.

EMANUELA AUDISIO

“Una cosa tondache pesavacome il marmo”EMILIO MARRESE

Parla Pietro Rava, veterano azzurro

LA CUCITURALe strisce erano cucite

con gli aghi e venivano tenuteinsieme per mezzo di una

apposita morsa di legno chiusafra le ginocchia del cucitore,

che così poteva lavorarecon entrambe le mani

LE STRISCEIl cuoio era trattato con una cera impermeabilizzante.

Di norma veniva tagliato in diciotto strisce

IL TAGLIOLe strisce di cuoio venivano tagliate con coltelli specialiAi bordi si praticavano i fori per le successive cuciture

AdidasFevernova,2002

DiadoraIanus Italia,2005

IL FILOPer cucire si usavano fili di rete ritorti insiemee incerati. Alle estremità si inserivano due aghi

LA CAMERA D’ARIAQuando quasitutte le strisceerano cucite,

si rigirava la pallaper il verso giusto.

A questo puntosi inseriva

la camera d’aria

Palloni di ieriIn passato i palloni

venivano

assemblati

con tecniche

artigianali. Ecco

come per decenni

sono state costruite

le tradizionali sfere

di cuoio

Le immagini

sono tratte

dal volume

“Lo sport. Storia,

regole,

equipaggiamento,

tecniche”, edito

dall’Istituto

Geografico

De Agostini

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Campione olimpico nel ’36 edel mondo nel ’38 racconta:“Non ricordo il mio primopallone, perché non ne homai avuto uno: lo portavasempre un altro”

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 20 NOVEMBRE 2005

In America, fatto di caucciù, il pallone si mise molto a saltare. Ilmodello di cuoio, “a stringa”, Hansa Scrum, nasce il 6 maggio ‘33,in Germania, in un laboratorio che produce anche materiale bel-lico. Debutta a Roma, sui piedi di Meazza, Orsi e Combi il 13 mag-gio nell’amichevole Italia-Inghilterra. Il pallone è un protagoni-sta eccellente del libro Splendori e miserie del gioco del calcio diEduardo Galeano. «La camera d’aria di gomma, gonfiata soffian-do e ricoperta di cuoio, nacque a metà del secolo scorso grazie al-l’ingegno di Charles Goodyear, un americano del Connecticut. Egrazie all’invenzione di Tossolini, Valbonesi e Polo, tre argentinidi Cordoba, nacque molto dopo il pallone senza cuciture. Inven-tarono la camera con valvola che si gonfiava per iniezione, e dalmondiale del 1938 fu possibile colpire di testa, senza farsi malecon lo spago che prima teneva insieme il pallone. Ha molti nomi:la sfera di cuoio, l’attrezzo del mestiere, il proiettile. In Brasile, alcontrario, nessuno dubita del fatto che sia femmina. I brasilianila chiamano grassottella, rotondetta, bambina, piccolina, e ledanno nomi propri, come Maricota, Leonor o Margarita. Pelé labaciò al Maracanà quando segno il suo gol numero mille e Di Ste-fano le innalzò un monumento all’ingresso della sua casa, unapalla di bronzo con una targhetta che diceva: grazie, vecchia mia.La palla ha le sue velleità, a volte non entra in porta perché in ariaci ripensa e cambia direzione. Il fatto è che si offende facilmente.

Non sopporta che la prendano a calci, né che lapicchino per vendetta. Esige che la accarez-

zino, che la bacino, che l’addormentinosul petto o sul piede».

Sì lei esige. Da noi bambini che l’ab-biamo aspettata perché stava nellebraccia del suo padrone e toccava a luifare la squadra, ma anche da noi gran-

di che sogniamo di viaggiarci a cavalcioni come il barone di Mun-chausen sulla mongolfiera. L’abbiamo nascosta, recuperata, sal-vata, perdonata, sognata, trafugata. Immortalata nella frase: lapalla è tonda. Tanto che oggi viaggia in altro tipo di rete: chi ri-vuole Santos, Tele o Tango? L’asta su Internet parte da 29 euro, perun spicchio d’infanzia bucato dai rovi. Il pallone una volta s’in-grassava di fango, dimagriva sotto le marmitte delle 127, scom-pariva nel giardino misterioso della villa accanto. Ora quelli deimondiali sono prodotti in Thailandia, le repliche vengono inve-ce dal Pakistan, lavorazione manuale, e dalla Cina, cucitura amacchina. Per testare la sua resistenza all’umidità viene immer-so tremila volte nell’acqua, la Fifa richiede che venga anche spa-rato duemila volte alla velocità di 35 miglia orarie contro un piat-to di acciaio. Quello nuovo si chiama smart ball, palla intelligen-te, ha un microchip all’interno e dialoga con i sensori lungo il ret-tangolo di gioco. È stato provato in Perù, ai mondiali Under 17.Così si potrà sapere se entra veramente in rete o se fa solo finta.Con un segnale la porta farà la spia al satellite che lo comunicherà

all’orologio dell’arbitro. La Fifa deciderà il 4 marzo se usare ilsistema in Germania negli stadi mondiali. Tutto sintetico,

elettronico: palla, calcio e sensibilità. Intanto in Italia iportieri vanno in confusione. Troppi palloni a scacchi, astrisce, griffati. Distraggono, sgusciano, scivolano.Traiettorie irregolari, anarchia difficile da fermare. DaBuffon a Abbiati grande rivolta: «I nuovi palloni com-plicano la vita, hanno colori, pesi, elasticità diversa.Ogni squadra ha il suo, ce ne vorrebbe uno uguale pertutti». Una volta la palla era metafisica impura. Gigi Ra-

dice ti chiedeva: lo senti il fischio che fa la palla quandofa gol? Scura di sudore e di fango, se giocavi in porta, lo

sentivi, eccome.

LA VALVOLADopo aver sistemato la camerad’aria in lattice di gomma,si inseriva la valvola nel foropraticato in una delle striscedel pallone

LA CHIUSURALa cucitura delle ultime due strisce terminava con unnodo puntato all’interno della sfera per evitare asperitàsulla superficie. Il pallone finito pesava 400-450grammi: per completarlo servivano tre ore e mezzo

Qui sotto, un pallonedel 1958.Accanto due pallonidi inizio Novecento

Adidas Telstar,1970

Adidas Tango, 1982 Nike Total Aerow, 2004

Nike TotalAerow

Hi-Vis Ball,2004

Palloni di oggiLe tecniche di realizzazione

dei palloni che si usano

nei principali campionati

di calcio sono diventate

estremamente sofisticate.

Ecco le procedure seguite

per assemblare Roteiro

Adidas, utilizzato durante

gli Europei che si sono

tenuti in Portogallo

nell’estate del 2004

chiamavamo il Polo Nord. Io e altri figli dei ferrovieri che abitavamonelle case della Crocetta. Mio padre era capostazione. Quando diecianni dopo tornammo dalla Francia campioni del mondo, in treno, al-la stazione di Porta Susa c’era lui ad aspettarmi. Poi andammo a Pa-lazzo Venezia da Mussolini ma nella foto ricordo a malapena mi si ve-de, mi nascosi dietro un compagno per timidezza. Il Duce ci regalò unapergamena e ottomila lire, mi comprai una Topolino».

«Lo stadio della Juventus era vicino al nostro Polo Nord. Se ogni tan-to mi sembra ancora di sentire l’eco di un pallone è quello che rimbal-zava su quel terriccio, non sull’erba. Gli osservatori passavano di lì e ognitanto si fermavano a guardarci. Uno di loro, Greppi, mi portò nelle gio-vanili bianconere. Quando sfidavamo la prima squadra Mumo Orsi,che era il mio mito, girava alla larga da me perché aveva paura che gli fa-cessi male. La domenica facevo il raccattapalle: il pallone per me erasempre qualcosa che apparteneva agli altri, lo stringevo un istante trale mani prima di restituirlo ai giocatori, ne respiravo l’odore, ne palpa-vo i bozzi sulla pelle screpolata, sempre più numerosi man mano che lapartita andava avanti. Non ci volle molto però perché mi facesseroprendere il posto di Caligaris, quello dei cinque scudetti di fila in trio conCombi e Rosetta. Ma per me il terzino migliore di tutti era Virgilio Ma-roso del Torino. Non ho mai più visto nessuno come lui, neanche Djal-ma Santos, Cabrini o Maldini. Come non ho mai visto nessuno trattareil pallone, quei palloni, come Giuseppe Meazza, unico ancora adesso.Aveva qualcosa di magnetico addosso, nei piedi come in quello sguar-do che faceva fare la coda alle donne negli alberghi ad aspettarlo, e for-se gli invidiavo più come sapeva colpire loro che il pallone».

Non ci sono palloni, in casa Rava. Neanche in fotografia. «Non homai avuto un pallone neanche dopo. Dopo aver giocato in serie A,aver vinto Olimpiadi e Mondiali. Non ne ho conservato nemmenouno. Non ci pensavo, semplicemente. Neanche che un giorno avreipotuto regalarlo a mio nipote Davide. L’ultima volta che ho dato uncalcio è stato cinque anni fa al mio paese. Dovevo dare il calcio d’i-nizio di una partita di dilettanti. Ero emozionato. Faccio piano, hodetto. L’ho toccato appena, s’è mosso appena. Io che facevo volarequei blocchi di marmo sopra le teste di tutti. Ma era solo una cosatonda, non un pallone».

IL GONFIAGGIO DELLA STRUTTURAServe per avere una prima idea

delle dimensioni e della forma del pallone

IL CONFEZIONAMENTOSuperati tutti i test, i palloni vengono

confezionati e imballati

LA PESATURAGli elementi della struttura sono pesati

uno per uno. Poi si sceglie la camera d’aria

I CONTROLLISi misura prima il peso (che dovrà essere 440grammi) poi la circonferenza (685-695 mm)

LA MODELLATURACon un macchinario ad hoc le 32 sezioniesagonali e la struttura sono assemblate

LA COLATA DI LATTICELa struttura viene coperta con due strati di

lattice naturale e messa nel forno ad asciugare

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il raccontoMiti bellici

L’ultimo è stato l’italiano Amedeo Guillet, comandantein Africa Orientale, inseparabile dalla sua pregiatascimitarra. Ma per secoli la cavalleria è stata dominatada uomini con un culto dell’eleganzache diventavaspesso vanità. Come nel caso di Lord Cardigan, passatoalla storia più per il suo maglione che per le gesta militari

Secondo la leggenda, Amedeo Guillet, “cummundar-as-shei-tan”, il comandante diavolo che in Africa Orientale condus-se una sorta di guerra privata contro gli inglesi, al posto del-la sciabola portava una scimitarra legata al polso da una fet-tuccia di pelle. Ed ora che il film sulle sue incredibili avven-ture è in lavorazione, come si dice, dopo anni di rinvii, sono

curioso di vedere che uso gli sceneggiatori hanno fatto di quest’armapericolosamente salgariana.

Non era il tipo da rotearla sopra la sua testa, sarebbe stato Rodomon-te. E non la tirava fuori in occasioni di parate: non era uomo da circo e

non si sentiva Sandokan.Questa scimitarra diventò la sua arma preferita quando le for-

ze italiane stavano chiudendo malamente la loro storia colo-niale nell’Africa orientale, come se la sua sciabola di ordinanza

appartenesse ad un passato e ad una gloria ormai perdute. Abbia-mo alcune fotografie che lo ritraggono mentre su uno stallone

bianco, chiamato Sandor, passa in rassegna i suoi Amhara a ca-vallo, nome generico per indicare nord africani mercenari, suda-nesi, eritrei e anche yemeniti, che dimostrarono un non comuneattaccamento, se non alla bandiera italiana, al loro comandante.Guillet era uno dei pochi in Italia a aver letto edassimilato le tecniche di guerriglia praticatevent’anni prima da Lawrence e dal capitanoShakespear in Arabia e riviste da Basil Liddell-

Hart — celebrato e sofisticato storico inglese,da noi conosciuto per un libro dal titolo stra-

biliante: Greater than Napoleon, più gran-de di Napoleone e stava parlando di Sci-

pione l’Africano — e dal generale tedescovon Lettow-Vorbeck in Tanganyka.

Terminata la guerra si era gettato al-la macchia, per ricomparirecome un fantasma, nell’albagelida e nebbiosa dell’alto-piano etiopico, con azioniimprovvise, a sorpresa, con-tro distaccamenti anglo-in-

diani. Ma non c’era nessun fo-tografo, come successe per Law-rence, che lo potesse rendere fa-moso mentre dava il segnale dellacarica con un gesto supremo didandysmo militare, facendo oscil-lare con fare annoiato la scimitarra nella direzione vo-luta. Nei libri di storia inglese della seconda guerramondiale i riferimenti ai soldati italiani sono in genereimprontati al sarcasmo. Solo due nomi vengono salva-ti dal disastro generale e sono gli autori di azioni indivi-

duali, almeno nel progetto: Durand de la Penne, che fe-ce saltare una corazzata nel porto di Alessandria e il co-

mandante diavolo.Da uno stretto punto di vista militare (ma anche da uno

più ampio) quelle cariche, come sapeva benissimo Guillet,non avevano nessun peso. Ed erano anacronistiche, come al-

tre azioni simili della seconda guerra mondiale (i cavalieri po-lacchi all’attacco dei panzer di Guderian è la più classica di que-

ste eroiche cariche suicide. Ma qualche storico ha posto dubbisulla loro reale consistenza...).

Quella che veniva chiamata “la pompa della guerra” era quasisparita all’inizio del secolo: lo sfilare intimidatorio al rullo del pas de

charge della fanteria, il caracollare della cavalleria con gli squadroniche facevano la ruota davanti al nemico, tutto quel trovarobato — ca-

sacche, fusciacche, gualdrappe e poi alamari, filettature, spalline mo-strine e stivali, cappelli fuori ordinanza, pennacchi, insegne, aquile,

stendardi, trombe e trombette e tamburi e grancasse e ussari con la scia-bola sguainata e lancieri con le lance in resta e corazzieri con le armaturescintillanti sotto il sole — era solo un ricordo del passato.

Mentre era rimasto invariato o quasi quel sentimento di orgoglio mili-tare che loro chiamavano onore e che era sostanzialmente la vanità del

coraggio. In assenza della rutilante messa in scena durata secoli, nella ca-valleria l’onore veniva interpretato in un codice che seguiva il principiodell’antiretorica, il più elegante e il più appropriato. Distacco totale dalcontingente, fingere assoluta noncuranza per i pericoli che li attendeva-no, compiere i gesti futili come se si andasse ad una passeggiata. Soprav-vissuto alle sue cariche Guillet dirà di aver cavalcato alla testa degli Amha-ra con la stessa leggerezza e felicità di quando partecipava alla caccia al-la volpe nella sua amata Irlanda.

L’icona del damerino

Ora date un’occhiata alla stampa acquerellata, eseguita quasi sicura-mente durante gli anni Venti del secolo XX per il modo di disegnare lelabbra a cuore, che raffigura un ufficiale di Federico II di Prussia al tem-po della Guerra dei Sette anni. L’uso aristocratico di incipriare il viso siestendeva anche alla parrucca, ma qui il trucco sembra essere eccessi-vo con le labbra dipinte di carminio, anche per i gusti dell’epoca. Co-munque non è il maquillage che rende il personaggio ritratto un dame-rino spinto da una vanità incontrollabile, ma lo scatto quasi femmineocon cui mentre posa la sinistra sul fianco come una sciantosa, con la de-stra lancia in aria un piccolo oggetto, come per liberarsene. Questo pic-colo oggetto non si distingue facilmente, ma se osservato con la lenteappare come una piccola pipa probabilmente in avorio che il cavaliere

doveva aver fumato fino a quel momento e ora logettava via con un gesto di impazienza come fossechiamato all’improvviso ad un’altra attività, diver-sa e di livello superiore.

Qui siamo ad una finzione sopraffina, all’uso sar-castico dell’antiretorica: dietro l’ufficiale, che sichiama Fridrich Wilhelm von Seydlitz, ed è statouno dei più grandi comandanti di cavalleria di tuttii tempi, si intravedono schierati su una linea glisquadroni più temibili d’Europa, i corazzieri di Fe-derico II che stanno per spazzare via in una sola ca-rica durata meno di un’ora l’esercito francese gui-dato incautamente dal principe di Soubise senza bi-sogno che la fanteria prussiana intervenga.

La sera stessa di questa battaglia chiamata di Ros-sbach, l’elegantissimo Seydlitz, che allora avevatrentasei anni, famoso per le sete e i lustrini con cui sivestiva e per la sua abitudine di allenarsi passando algaloppo tra le pale di un mulino rotante, venne insi-gnito con l’ordine dell’aquila nera da Federico II.Non so se Guillet conoscesse le imprese di Seydlitz,ma ammirava stranamente Lannes, uno dei mare-scialli di Napoleone più stimati dall’Imperatore ma

non un soldato per cui un giovane potesse fare follie. Se mai, il personag-gio di riferimento era naturalmente Gioacchino Murat, poi re di Napoli,nella versione splendidamente pittorica data da Horace Vernet primadella battaglia di Jena: un giovanottone multicolore in giacca damascatae bordata di pelliccia annodata alla vita da una sciarpa di seta d’oro, cal-zoni di velluto rossi infilati in stivali di camoscio beige e la gualdrappa sulbaio che è fatta con la pelle di tigre, non di leopardo come un qualsiasimaharaja. Mentre Napoleone davanti a lui mantiene pienamente il con-trollo di se stesso e mostra la tranquillità nei momenti decisivi dei grandie il suo vestito è come al solito sobrio e grigio perché non ha bisogno di lu-strini, l’irrequieto Murat trattiene a stento il suo magnifico stallone, chesi è completamente girato, per fare ammirare la meravigliosa gualdrap-pa di pelle di tigre e i suoi abiti rispondono pienamente all’idea che ci si èfatto su di lui. C’era molto di animalesco nella furia di Murat che sembra-va rispondere ad un solo riflesso pavloviano: quello della carica a tutti icosti, dello scatto subitaneo, perché il successo di una carica stava nellasorpresa e nell’impeto e il futuro re di Napoli sapeva come realizzare l’u-na e trovare l’altro. Durante l’epoca napoleonica c’erano state altre fa-mose cariche di cavalleria: quella di Kellermann a Marengo, quella diRapp ad Austerlitz. Ma nessun altro più di Murat aveva come concentra-ta in sé la vanità aggressiva che nei napoleonidi aveva sostituito il fanati-smo religioso dei conquistadores spagnoli come fattore determinanteper la vittoria. Nel mito solo un cavaliere può stargli alla pari o lo sorpas-sa per ragioni morali: il tolstojano Peter Ivanovich Bagration, principegeorgiano simbolo della resistenza russa all’invasore, morto nella batta-glia di Borodino, che ritroviamo in Guerra e Pace. I grandi romanzi sono

STEFANO MALATESTA

34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 20 NOVEMBRE 2005

I dandy, alla guerraIn Crimea

combattevaanche Lord

Raglan, capospedizione

ma soprattuttoinventore

della manicaomonima

NAPOLEONE E MURATQui sopra, NapoleoneBonaparte con il fedele

Gioacchino Muratin un quadro di Horace

Vernet. Le altre foto in paginasono tratte dal volume

“Uniformi napoleoniche”di Carle Vernet

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 20 NOVEMBRE 2005

affollati di cariche di cavalleria, quasi sempre raccontate magnificamen-te, ma in maniera poco fedele. Ne I Miserabili a Waterloo la carica dellacavalleria francese contro i quadrati delle giubbe rosse inglesi fallisce per-ché la cavalleria francese precipita in un fossato non segnato nelle carte.Questo fossato stava solo nella fantasia del grande Hugo.

Contrariamente all’apparenza non è stato il Settecento il secolo in cuisi dispiegata con più fasto la vanità della cavalleria, ma il duro, severo, fer-reo Ottocento. Imbustati i bravi borghesi nella funerea redingot che noncambierà forma e colore per molto tempo, solo ai militari era permessoaddobbarsi con tutti i colori come tanti pappagalli. Entrando in una li-breria londinese, se vi dirigete verso la sezione “war”, troverete i tavoli in-gombri da gigantesche pubblicazioni, le Ackermann Military Prints sul-le divise dell’impero inglese, nei suoi momenti più gloriosi, da Waterlooalla spedizione di Kitchner nel Sudan per vendicare Gordon. Non credoche ci sia stata una sfilata di moda di Dior e di Balenciaga o qualsiasi altrodi questi grandi sarti, con modelli che abbiano potuto superare il lusso, lavanità e la stravaganza delle divise della cavalleria imperiale, che rag-giunse il suo massimo fulgore nel periodo vittoriano.

Esentati dai più rudi lavori ed esercizi come tutti i militari, in continuaesibizione nelle sfilate, i cavalieri avevano conservato l’arroganza primi-tiva dell’uomo che va a cavallo mentre gli altri camminano verso la bat-taglia in mezzo alla polvere e al fango.

La superiorità della cavalleria era una dottrina acqui-sita come una verità assoluta dalle autorità militari. Ep-pure lo stesso Wellington aveva ripetuto innumerevolivolte che gli squadroni degli altri eserciti europei ave-vano vinto qualche battaglia per i loro comandanti,mentre i cavalieri inglesi le avevano perse. Questi affet-tati signorini, ufficiali che avevano comprato il loro gra-do, quasi tutti aristocratici, si comportavano da elegan-toni annoiati e parlavano con un birignao inverosimile,pronunciavano la “r” come “v”, quindi sorry diventavasovvy e interrompevano la frase ad ogni piè sospintocon un hohoofintamente pensoso, e lasciavano cresce-re i favoriti in modo da dare al viso uno stomachevoledisegno arabescato, e conversavano con tono languidofumando giganteschi sigari, avevano una sola passio-ne: i cavalli. Per il resto erano e rimanevano degli igno-ranti, di rara incompetenza soprattutto riguardo allaguerra che erano stati chiamati a combattere. E il casovolle che alcuni tra i più imbecilli s’incontrassero nellafatale Balaclava, durante la guerra in Crimea. La cele-berrima carica della Light Brigade, in italiano la Caricadei Seicento, è un fulgido esempio di come la farsa puòfinire in tragedia. E come la stupidità, quando è am-mantata dall’eleganza, affiancata dallo snobismo e protetta dalla com-plicità di casta possa prevalere a dispetto di tutto.

Ufficiali da sartoria

E per cominciare dai nomi, sembra di essere in sartoria e non in am-bienti militari perché alla testa della spedizione è stato nominato LordRaglan, inventore della manica a raglan e l’uomo che sta per lanciare ilfatale attacco si chiama James Thomas Brudenell, 7mo Lord Cardigan,inventore della maglia da uomo aperta sul davanti. Allevato da genito-ri affetti chiaramente dal “vice anglais” e cioè dal sadismo, che gli im-pedirono di diventare militare professionista fin da giovane, l’unicacosa che lo interessava, era bellissimo, violento e assolutamente con-vinto che un uomo della sua classe e che portava il suo nome potessepermettersi qualsiasi cosa. Nel passato, in famiglia, il personaggio piùin vista era stata una donna, Anna Maria, contessa di Shrewsbury, fi-glia del secondo conte di Cardigan, bella, insolente, sprezzante e su-perba, così infatuata del duca di Buckingham da spingere il marito asfidarlo e da travestirsi da paggio per accompagnare l’amante al luogodel duello. Quando il duca trafisse il marito, la gentile signora s’impa-dronì della sua camicia ancora bagnata di sangue e con questa indos-so, si spera per poco tempo, passò la notte con il duca.

Dopo la morte dei genitori, Cardigan comprò la patente di colonnelloe il reggimento annesso, l’11mo Ussari, uno dei più brillanti di tutto il Re-gno Unito e da quel momento i poveretti che vi facevano parte entraro-no in un tunnel di sevizie, fino ad essere frustati pubblicamente. Dotatodi una psicologia infantile, era diventato famoso per aver fatto arrestare

un ufficiale del reggimento che non aveva messo una pregiata bottiglia divino a decantare, servendola subito alla tavola comune e per altri episo-di che in altri paesi l’avrebbero escluso dalla comunità.

Invece, scoppiata la guerra con la Russia, gli venne ordinato di portareil suo reggimento in Crimea, che lui raggiunse con comodo dopo un’ob-bligatoria visita a Parigi per qualche banchetto, imbarcandosi successi-vamente sul suo yacht a Marsiglia e raggiungendo il teatro di guerra sem-pre via mare, come fosse in crociera.

Nell’autunno del 1854, dalle parti di Sebastopoli, una carica improvvi-sa della cavalleria pesante inglese, guidata dal brigadier generale J. Y.Scarlet, contrariamente a tutte le aspettative era riuscita a respingere e in-fine costringere alla rotta un’imponente formazione di cavalleria russa.

Era stato solo per l’estrema violenza dell’attacco che i russi erano sta-ti sconfitti, ma non annientati. E a sbarrare il passo agli inglesi c’era an-cora una robusta postazione difensiva in fondo ad unavallata con un fondo invitante, come in un maneggio,presidiata da cannoni puntati a alzo zero. Una sorta di culde sacche poteva essere preso solo con l’aiuto dell’artiglie-ria e dalla fanteria, e la Light Brigade comandata da Cardi-gan si trovava proprio all’imboccatura, attendendo ordini.Questi vennero, sotto la forma di quattro messaggi differen-ti inviati da Raglan, che nell’ultimo ordinavano di attaccare

immediatamente e frontalmente la lineadei cannoni russi.

Raglan prevedeva l’impiego della artiglieria,senza dirlo in chiaro, essendo cosa talmenteovvia, ma Cardigan non andò oltre il significatoletterale: era venuto in Crimea per combattere e l’a-vrebbe fatto a suo modo, senza sforzi cerebrali, senzatattiche complicate e senza aspettare l’artiglieria...Non chiese spiegazioni, come avrebbe dovuto, ac-cennando solo al più prossimo tra i suoi ufficiali che irussi avevano batterie anche sui due lati della vallata,pronte al tiro incrociato. E quello rispose, con una bat-tuta degna dei fratelli De Rege: «Lo sappiamo».

Allora Cardigan girò il cavallo verso l’imboccatu-ra della valle e con voce chiara: «La Brigata deveavanzare, avanti al passo, al trotto». Fu così che iSeicento si mossero in un ordine perfetto, Cardiganin testa, il busto eretto, perfettamente consapevo-le di quello che stava facendo.

Indossava la divisa dell’11th Hussars, la più spetta-colare delle spettacolari divise di cavalleria inglese, ilpennacchio bianco sul colbacco, il dollman ripiegatosulla spalla sinistra e tutti i ricami oro su velluto rosso,

e i calzoni rosa che sembravano usciti in quel momento dalla stireria, comein effetti erano, perché Cardigan viveva nello yacht e non in tenda come qua-si tutti. Per un uomo di cinquantasette anni aveva ancora la figura del ra-gazzo. E quelli che lo videro avanzare in testa alla brigata, quattro o cinquemetri prima di chiunque altro, dissero poi che la visione era così fantasticae commovente che qualcuno si mise a piangere. Montava un cavallo su-perbo color castagna, Ronald e quando i cannoni russi cominciarono a spa-rare, quasi subito, Cardigan non si rivoltò indietro nemmeno una volta, néall’inizio né alla fine: un comandante di cavalleria che guarda indietro dàl’impressione di non essere sicuro. Continuava ad accelerare il trotto, poipassò al galoppo e tutto quanto si perse nell’ebbrezza della velocità. Nonfu una carica, fu un massacro e verso la fine qualcuno tra i cannonieri rus-si, disgustato, smise di sparare. Un generale francese che aveva seguitol’azione dall’alto di una collina, lasciò ai posteri un commento diventatocelebre. «C’est magnifique, mais c’est pas la guerre».

Di 673 cavalieri che parteciparono alla carica, durata diciotto mi-nuti, 247 morirono sul terreno, numerosi altri il giorno dopo e qua-si tutti rimasero feriti. Incredibilmente, Lord Cardigan, che avevaraggiunto la fila dei cannonieri russi, venne riconosciuto dalprincipe Radzwill che lo aveva incontrato in qualche ballo aLondra durante la stagione e i cosacchi che erano su di lui lolasciarono andare. Quando ritornò in Inghilterra, qualchemese più tardi, sbarcando a Dover, era l’uomo più fa-moso del paese. Come scese dal pontile qualcuno dis-se di salutarlo come si doveva e una folla strabocchevoleurlò per tre volte «Urrah»...

LORD RAGLAN

Il comandante

della spedizione

inglese nella

guerra di Crimea

è passato alla

storia per aver

creato la manica

alla raglan

LORD CARDIGAN

James Thomas

Brudenell

guidava l’11mo

reggimento

Ussari: inventò

e diede il nome

al maglione

aperto sul davanti

come ad una sfilataCardigancondusse

i suoi uominial massacro

Si salvò perchéfu riconosciutoda un ufficiale

russo incontratoa un ballo

VON SEYDLITZQui sopra, Fridrich Wilhelm

von Seydlitz,uno dei massimi comandanti

della cavalleria di tuttii tempi. L’immagine è trattada una stampa acquarellata

che risale all’iniziodel Novecento

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 20 NOVEMBRE 2005

le storie

anche l’Avanti trasloca da Parigi a Zurigo. Ildirettore si chiama Pietro Bianchi ed è un mu-ratore analfabeta. Ma ha la cittadinanza sviz-zera, e può fare il prestanome.

Finisce la guerra e negli anni Cinquanta eSessanta Zurigo torna ad essere Lamerica de-gli italiani con la valigia di cartone. Renzo Bal-nelli, svizzero con nonni di Casalmaggiore,

Cremona, è stato direttoredei telegiornali della Tvsvizzera di lingua italiana.«Da giovane lavoravo an-che qui, al Coopi, all’Av-venire dei lavoratori. Era-no anni davvero duri,perché c’era chi volevacacciare gli italiani. L’e-ditore James Schwar-zenbach organizzavale campagne xenofo-be. Sul giornale fa-cemmo una contro-campagna contro“gli usurai del son-no”. C’era un pa-lazzo diroccato,vicino alla stazio-

ne centrale. Scoprimmoche veniva affittato agli immi-grati con turni di otto ore al gior-no: l’usuraio del sonno ricevevatre affitti per lo stesso materasso.Pubblicammo le foto, ci fu unoscandalo».

Adesso, sotto il ritratto di Marx,vengono a mangiare anche gliagenti della “Boerse”, la borsa diZurigo, che è accanto alla Werd-platz dove, d’estate, il Coopi met-te i tavoli sotto gli alberi. Ci sono isindacalisti e gli avvocati di sini-stra dell’Anwaltskollektiv, che ri-ducono le parcelle ai clienti pove-ri. «Fino a fine anno — dice An-drea Ermano — faremo conferen-ze e celebrazioni del centenario. Amarzo è arrivato da noi l’allorapresidente della Confederazionesvizzera, Leuenberger. Ci ha rin-graziato per i minestroni mangia-ti gratis quando era studente».

Il Coopi è un rifugio anche per iglobetrotter della sinistra. FrancoFacchini, 53 anni, poeta bologne-

se, due anni fa ha trovato lavoro qui come“consulente per la gastronomia”. «Mi af-fascina questa città che, al primo impatto,sembra solo un’esposizione di banche egioiellerie. Poi sali piano piano la Spiegel-gasse, il vicolo dello specchio, e scopri cheall’inizio c’era il cabaret Voltaire, dove ènato il dadaismo. Subito dopo la casa do-ve ha abitato Wolfgang Goethe. In cima, alnumero 14, l’abitazione di Lenin». Leninera arrivato in Svizzera nel 1914 e a Zurigonel febbraio 1916. Qui finisce di scrivereL’imperialismo come fase suprema del ca-pitalismo. «Zurigo — scrive alla madre —mi piace tanto. Il lago è magnifico». Due

stanze in subaffitto, a 24 franchi al mese. Me-no felice la moglie Nadja Krupskaja. «La Spie-gelgasse puzza. Nel cortile c’è un tremendoodore che proviene da una fabbrica di salsic-ce. Possiamo aprir le finestre solo di notte».

I bellissimi quadri di Mario Comensoli, coni suoi Operai in blu, trasformano il ristorantein un pezzo di museo. Al primo piano c’è unagrande sala, che viene concessa gratis achiunque voglia fare una riunione. Stasera c’èun incontro del Partei der Arbeit, il partito dellavoro. «Sono i comunisti svizzeri — spiegaErmano — che hanno un nome diverso per-ché, per legge, nessun gruppo può dichiarar-si comunista». Dopo, ai tavoli rossi, le ragaz-ze ed i ragazzi del Partei der Arbeit continua-no a discutere di linea e di strategia. Karl Marxosserva, forse lusingato.

ZURIGO

Anche il minestrone, qui, è unpezzo di storia. Lo mangiava-no, gratis, gli immigrati appenaarrivati dall’Italia. Piaceva an-

che a Benito Mussolini, quando era socialista,non aveva un soldo in tasca ed era innamora-to di Angelica Balabanoff. Mine-strone e politica, maccheroni egiornali antifascisti. Ecco, il Coopiè stato ed è tutto questo. VladimirIlic Ulianov, detto Lenin — sì, pro-prio lui — preferiva invece i cap-pelletti. Li preparava Erminia Cel-li, la moglie del figlio di nonna Ade-le, che era arrivata da Scandiano,Reggio Emilia. Dicono che li hamangiati anche poco prima diprendere il treno per la Russia, lasera del 9 aprile 1917.

Al ristorante della Società coo-perativa italiana Zurigo, in Stras-sburgstrasse 5, i tavoli sono rossi esui muri ci sono i ritratti di CarloMarx e Giacomo Matteotti. Su unripiano, il busto di Filippo Turati.«Qui — dice Andrea Ermano, cheinsegna filosofia all’università ed èpresidente della cooperativa — èpassata la storia italiana. Il Coopi (aZurigo tutti lo chiamano così) è sta-to il primo rifugio degli immigratiche scappavano dalla miseriaitaliana e poi il punto d’incon-tro degli antifascisti. IgnazioSilone era il direttore de L’Av-venire dei Lavoratori, Giu-seppe Saragat, Sandro Per-tini e Pietro Nenni manda-vano qui i loro articolicontro il Duce. I fratelliRosselli erano di casa,prima di essere am-mazzati dai fascisti».

Il ritratto di CarloMarx sembra sorve-gliare attentamen-te ogni angolo del-la grande sala. «Ungiorno è arrivato quiBertolt Brecht e si è arrabbia-to perché, accanto al ritratto diMarx, non c’erano anche quelli di Lenine di Stalin. “I dittatori — gli risposero —noi non li vogliamo nemmeno appesi aimuri”». Inviati dell’Ovra sorvegliavano ilristorante e pagavano 50 franchi ogniinformazione uscita da qui.

Ci sono ancora i primi menù del Coo-pi, aperto cento anni fa, il 18 marzo1905.L’idea era quella di «fornire agli operaiun cibo sano e nutriente a un prezzoequo». Un minestrone costava 20 cente-simi di franco, una trippa al sugo 40 cen-tesimi, un mezzo pollo 1 franco, “carneal lesso” 50 centesimi, minestra di trippaa 20 centesimi. «Nello statuto, ancora valido— dice Andrea Ermano — c’è scritto che biso-gna dare sostegno ai connazionali di passag-gio. È un modo elegante per dire, senza umi-liare nessuno, che se hai fame e non hai soldiin tasca qui al Coopi puoi avere un piatto diminestra gratis».

Qui si organizzano i primi scioperi degli ita-liani che stanno costruendo mezza Zurigo e larepressione è forte. Milleduecento muratori,nel 1911, vengono caricati su un treno specia-le e rispediti in Italia. Ma c’è bisogno di brac-cia. A scavare i tunnel sotto le Alpi arrivano icalabresi ed i siciliani, perché in galleria conle macchine a vapore in azione si arriva a 50gradi e solo loro riescono a resistere. Emilia-ni, veneti e friulani lavorano nell’edilizia. Ilcomizio del 1° maggio 1913 viene tenuto dal

Menu politicoQui ha mangiato il giovane Benito Mussolini quando erasocialista e corteggiava Angelica Balabanoff, qui Lenin ha gustatoun piatto di cappelletti prima di salire sul treno per la Russiail 9 aprile del 1917. E poi Matteotti, i volontari della guerradi Spagna, gli antifascisti: tutti seduti al Coopi di Zurigo,il ristorante-istituzione che sta festeggiando i suoi cent’anni

JENNER MELETTI

tevi dai vostri merletti». La prima sede, nellaZwinglistrasse, viene lasciata nel 1912. Il nuo-vo Cooperativo trasloca al numero 36 dellaMilitarstrasse, nel quartiere popolare di Zuri-go, chiamato “Kreis Chaib”, il quartiere caro-gna.

Durante il fascismo il numero 36 della Mi-litarstrasse diventa l’indirizzo più conosciutoper i fuoriusciti italiani. Arriva anche Giaco-mo Matteotti, che scrive per l’Avvenire dei la-voratori. Si organizzano qui le partenze per laguerra di Spagna. La trafila passava da Basileae Ginevra, poi attraversata la Francia si vali-cavano i Pirenei. La stampa clandestina vienenascosta nel doppiofondo delle valigie emandata in Italia. Leo Valiani viene arrestatomentre porta a Roma una di queste valigie.Quando la Francia viene occupata dai nazisti,

Dove la rivoluzionesi serve in tavola

IERI E OGGINella foto grande,

il Coopinegli anni ’70

Qui sopra,da sinistra alcunidei frequentatori

più illustri:Benito Mussolini,

GiacomoMatteotti, BertoltBrecht e Lenin

socialista Benito Mussolini. A Zurigo ha co-nosciuto Angelica Balabanoff, la giornalistarussa che è venuta a studiare qui perché l’u-niversità è aperta alle donne. Lo spiantato Be-nito si innamora e, alla ricerca di uno stipen-dio, contesta la linea politica de L’Avvenire deilavoratori e convoca un’assemblea per di-ventarne il direttore. Viene sconfitto e tornain Italia.

Scoppia la prima guerra mondiale e il Coo-pi diventa il “covo” dei pacifisti. «Venite fuo-ri», questo un titolo dell’Avvenire dei lavora-tori del 1° Maggio 1916. «Lavoratori dei cam-pi e delle officine, fermate i ferrei bracci vostri,immobilizzate le vostre macchine e venitefuori, fuori con noi sulla strada. Bimbi e fan-ciulle impallidite, che la fabbrica vi uccideràprecocemente, lasciate i vostri aghi, separa-

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il viaggioGenesi

Il salto all’indietro nel tempo di Salgado alla ricerca delle originidel mondo: gli scatti in bianco e nero immortalano i gorilla gigantiall’ombra dei vulcani nel parco di Virunga, nel cuore dell’AfricaImmagini che, come racconta lo scrittore Luis Sepùlveda,ci restituiscono il senso di appartenenza alla grande famigliaumana e naturale e che ci fanno sperare in un mondo migliore

Non ricordo con esattezza quando ho posato per la pri-ma volta gli occhi su una fotografia di Sebastião Salga-do, il fotografo brasiliano che ci insegna a vedere l’u-manità in nome dell’umanità. Quello che ricordo conassoluta precisione sono i giorni che ho passato a guar-dare le sue fotografie dedicate ai lavori dell’uomo, la se-

rie in cui ritraeva l’attività umana a ogni confine della terra e con cui ri-scattava le occupazioni più umili conferendo loro carattere di epopea.Era sufficiente una sola fotografia di Sebastião Salgado, quella che pre-sentava nella maniera più esplicita l’assassinio della selva amazzoni-ca mostrando la spettrale desolazione dei garimpeiros in mezzo a unpaesaggio irreale, forse lunare, per emozionarsi con la stessa intensitàcon cui un condannato alla pena capitale ascolta le parole del giudice.

Le fotografie di Salgado, fotografie perfette, talmente belle da risul-tare strazianti, hanno per me una sola possibile lettura: la neutralitànon esiste davanti alla distruzione del patrimonio di tutti perpetrata

da pochi, la neutralità non esiste davanti alla fragilità della vita plane-taria la cui sopravvivenza è affidata a ognuno di noi, la neutralità nonesiste davanti al sacrificio della bellezza collettiva, dell’ingenuità e del-l’infanzia. Le fotografie di Sebastião Salgado ci costringono a prende-re posizione e coprono di vergogna qualunque desiderio di neutralità,quell’odioso eufemismo con cui si mascherano le peggiori grettezze ei peggiori egoismi.

Ora, a sessantadue anni, Sebastião Salgado mette mano a un pro-getto decennale che mostrerà il 46% del pianeta ancora in salvo dallavoracità delle multinazionali, dalla distruzione in nome di un pro-gresso che beneficia solo un’infima parte degli abitanti del mondo.

In Genesi, Salgado ritrarrà la sopravvivenza dei grandi deserti, la so-lenne solitudine dell’Antartico, i freddi boschi millenari ai limiti delpianeta, le montagne vergini, gli ultimi spazi del Congo o della PapuaNuova Guinea, e molti altri spazi che saranno visti dal suo sguardo, cheè lo sguardo dell’uomo sensibile del ventunesimo secolo, e forse l’ul-timo sguardo che li vedrà.

(segue nelle pagine successive)

38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 20 NOVEMBRE 2005

LUIS SEPÙLVEDA

Lo sguardo sensibilesull’ultimo Paradiso

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IL GRANDE CAPODELLA FORESTAQui a fianco, Kukira,

il capo della famiglia

dei gorilla dalla schiena

d’argento conosciuta

come Susa, che vive

sul fianco del vulcano

Karisimbi in Ruanda

A centro pagina,

alcuni gorilla

della famiglia

di Amahoro. Questo

gruppo vive nella fitta

foresta sul fianco

del monte Bisoke

in Ruanda

IL PROGETTO:

LA SECONDA PUNTATA

Alla scoperta delle originidel mondo. Scatti in biancoe nero che sono un saltoall’indietro nello spazioe nel tempo alla ricercadella nostra preistoria,dove i luoghi e la naturasono incontaminati, doveci sono le radici della civiltàQuesto è il progetto Genesiche Sebastião Salgadoha iniziato nel 2003e che lo vedrà impegnatoper otto anni. Il lavoro saràdiviso in quattro capitoli:“La creazione”; “L’Arcadi Noè”, “I primi uomini”e “Le prime società”Questa seconda puntataè dedicata ai gorillae ai vulcani che si trovanonel parco africano di Virunga(la prima puntataè uscita su La domenicadi Repubblica del 16 ottobre)Le didascalie sonodi Sebastião Salgado

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I VULCANI TRA LE NUVOLEQui a destra, una panoramica di tre vulcani del parco

di Virunga: il Muhabura, il Gahinga e il Sabyinyo. Questa

fotografia è stata scattata dalla zona di Mwiko, vicino

al lago Burera in Ruanda. E da qui sono evidenti

le distese di campi coltivati di questa parte del Ruanda

Sotto, un’altra veduta dei vulcani del parco,

che per gran parte del tempo è avvolto dalle nuvole

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40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 20 NOVEMBRE 2005

Genesiil viaggio

IN ESCLUSIVA SU REPUBBLICA E D

La Domenica di Repubblica e D-La Repubblica delle donnecontinueranno a pubblicare in esclusiva per l’Italia il progettoGenesi di Salgado. La divulgazione dell’opera del fotografobrasiliano in Italia, che avviene attraverso mostre e libri,è a cura di Contrasto, suo editore ed agenteSebastião Ribeiro Salgado è nato in Brasile l’8 febbraiodel 1944: ha realizzato reportage sugli Indios, i contadinidell’America Latina, e sulla carestia in Africa, che sono statiraccolti nei suoi primi libri. Poi, tra il 1986 e il 2001 si è dedicatoa documentare la fine della manodopera industrialee il mondo dei migranti, l’umanità in movimento

(segue dalla pagina precedente)

Ho avuto l’immenso onore di conoscere fotografi come Cartier-Bres-son e Daniel Mordzinski. Ho, inoltre, avuto l’onore di ricevere alcuni li-bri con dediche di Sebastião Salgado, che sono parte del mio patrimo-nio più prezioso, perché le loro pagine mostrano le impronte di tutti gliocchi e di tutte le mani che vi sono passate.

Salgado dice che questo potrebbe essere il suo ultimo progetto, datoche quando lo porterà a termine, nel 2010 o nel 2012, forse non avrà piùla forza di iniziare una nuova impresa per il suo sguardo, per lo sguar-do dell’uomo. Che gli uomini e le donne di buona volontà, che tutti co-loro che amano la vita e credono in lei, lo accompagnino e ne condivi-dano il peso, che restino in silenzio mentre Salgado mette a fuoco ilmondo e il suo sguardo, lo sguardo dell’uomo, compila l’ultimo inven-tario del Paradiso.

Il ventesimo e il ventunesimo secolo possono ben vergognarsi del-l’infinita lista di canaglie che si sono appropriate della storia, ma noiabitanti del nostro unico pianeta, del nostro unico irrinunciabile patri-monio, dell’unica eredità che lasceremo alle nuove generazioni, dob-biamo sentire il grande orgoglio di poter contare su artisti del valoreumano di Sebastião Salgado, il cui sguardo, lo sguardo dell’uomo, ci re-stituisce il senso di appartenenza alla grande famiglia umana e natura-le, ci insegna la tenera violenza della vita, l’armonico caos della naturache si difende dall’ordine criminale del mercato, e con le sue fotografieci dice che un altro mondo migliore è possibile.

LUIS SEPÙLVEDA(Traduzione di Ilide Carmignani)

LA LAVA CHE DISTRUGGEQui a fianco due immagini del vulcano

Nyamulagira. Nella prima si vede

il punto da cui esce la lava,

che si affaccia in superficie attraverso

una rottura sotterranea, 400 metri

più in basso del cratere. Nella seconda

una veduta aerea dell’eruzione

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 20 NOVEMBRE 2005

IL REGNO DI AGASHYANella foto qui sopra, il gorilla dalla schiena

d’argento (silverback) Agashya

capo della famiglia chiamata dai ricercatori

“Gruppo 13”. L’immagine è stata scattata

nella foresta che si trova alle pendici

del monte Sabyinyo, in territorio ruandese,

dove è abitualmente stanziato il clan di gorilla

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IL GIARDINO DEI GIGANTINella foto grande della pagina accanto, le pendici

del vulcano Muhabur, ricoperte di enormi piante

di Lobelia e Senecio. Sullo sfondo, il lago Mutanda,

in Uganda. Sotto, il giovane gorilla Rukina

(“colui che scimmiotta”) con suo figlio Kabandiize

(“primogenito”). Foto scattata nella Foresta

Impenetrabile di Bwiindi, area di Ruhija, in UgandaRep

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Il 27 novembre del 1925, ottant’anni fa, un decreto governativolo rese obbligatorioe da quel giorno il gesto entrò nella vitadegli italiani sotto la dittatura fascista. Il primo ad averlo

codificato fu Gabriele D’Annunzio che lo aveva lanciato durantel’avventura di Fiume, culla delle future liturgie di massa del regimeIl Duce lo fece suo per importare la mitologia dell’antico impero dei Cesari

LE OCCASIONIQui sopra, Orson Welles in “Giulio Cesare”

del 1938, e a destra, la statuadell’imperatore Augusto custodita

ai Musei Vaticani. A centro pagina: ciclistischierati salutano il Duce in una parata

fascista del 1923. Nella pagina accanto:(sopra da sinistra a destra) il saluto romano

di Chaplin (in “Il Grande Dittatore”),Alberto Sordi e Eduardo De Filippo,

Giorgio Almirante e il calciatore PaoloDi Canio, e in basso, Benito Mussolini

ti marciavano al passo dell’oca e torna-to a Roma volle copiarlo. Si ebbe così, siapure brevemente, anche il “passo roma-no”. Il re, irritato, provò a resistere a que-st’ultima invenzione; gli stati maggiorifremevano di rabbia; la gente cominciòa ridere. «È il passo fermo — insisteva lui— sicuro, inesorabile delle legioni ro-mane per le quali ogni marcia era unaconquista». Si è vista poi, la conquista.

Gran cerimoniere della post-roma-nità fu insediato Achille Starace, altrobel soggetto. A lui si devono le più fanta-stiche, complesse e meticolose disposi-zioni di saluto al duce e ai gerarchi, contanto di comando di attenti, squilli ditromba, scambi di domande e risposteche culminavano in “a noi!” e “alalà!”.Ma è nella vita quotidiana che mossodall’esigenza di uno stile guerriero e an-ti-borghese, lo “staracismo acuto”, co-me lo definivano i suoi avversari all’in-terno dello stesso regime, si applicò constraniante energia. Ne fecero le spese usie costumi secolari: la stretta di mano,prima di tutti, da inserire nelle note ca-ratteristiche negative degli impiegati,ma anche “la riverenza”, “la scappella-ta” e un misterioso (oggi) convenevoledefinito nei fogli d’ordine del Pnf “il sa-luto del gagà”.

Intanto Mussolini allungava il braccioa tutto spiano: alla tribuna, alla finestra,ai matrimoni, a cavallo, in aeroplano,con i guanti. C’è anche da dire che quelgesto gli aveva come minimo portatofortuna, come racconta Claudio Rendi-na nel suo recente Storie della città di Ro-ma(Newton & Compton). Era l’aprile del1926 e reduce da un convegno di chirur-ghi, bombetta in testa e passo ardito, ilduce stava scendendo dal Campidoglioquando una signora irlandese un po’pazzerella, Violet Gibson, gli si paròavanti e gli sparò. Il caso volle che proprioin quell’istante Mussolini si voltasse persalutare romanamente un gruppo digiovani che intonava “Giovinezza”. Di-retto alla tempia, il proiettile gli sbucciòla cartilagine del naso. Al che il duce fecedietro-front: «Signori — disse ai chirur-ghi — vengo a mettermi sotto le vostrecure professionali».

Ora. È anche possibile che quel suobraccio alzato contribuisse a esercitareuna certa carica, una inconfessabile ma-lia, un contatto a suo modo ipnotico, unaqualche forma di transfert. In Eros e Pria-po, da furore a cenere (Garzanti, 1968)Carlo Emilio Gadda fa rientrare questofluido in una «iper erotia narcissica», do-vutamente esibizionista. Il saluto roma-no come quanto di più simile a una ere-

pi manipolo, i consoli della milizia, gliarchi di trionfo, figurarsi, e i concertid’arpa, perfino.

Dagli e dagli, sebbene astutissimo, ilduce finì per cadere nella trappola dellesue stesse suggestioni di miti, simboli,spettacoli e corpi in movimento. Perciòa Berlino — dove pure aveva esportato ilsaluto a braccio teso — vide che i solda-

mito di Roma poteva tornargli utile el’agguantò pure a costo di farne pac-cottiglia in carton gesso, o di scaderenell’imperial trash di una romanità chesin dall’inizio apparve peggio che arti-ficiale: carnevalesca. Con il che al salu-to romano vennero ad aggiungersi leaquile, il natale di Roma, i colli fatali, ifigli della lupa, le quadrate legioni, i ca-

turiero. Per cui è nell’avventura di Fiume(1919), appunto, in quel festoso magmaribollente di poeti e legionari, che si ac-cende la straordinaria fucina delle litur-gie di massa — e si mettono le basi di queldecreto che di lì a sei anni avrebbe impo-sto agli italiani di alzare il braccio per sa-lutarsi.

D’istinto Mussolini comprese che il

“Eia, eia, alalà”, il rito collettivonell’Italia delle braccia tese

Quando quell’idea prendecorpo, letteralmente, dimuscoli se ne muovonouna trentina: e fra slancideltoidi e leve bicipitali,scatti palmari ed estensioni

cubitali si ha appunto il saluto romano.Roma antica, in realtà, c’entra e non

c’entra. «Il saluto fatto alzando e pro-tendendo il braccio destro aveva valorereverenziale» si legge su una vecchiaEnciclopedia Treccani. Ne parlano Sve-tonio e Marziale, oltre a darne testimo-nianza un rilievo di Treviri, in cui si ve-de un bimbo che saluta il maestro, e unaltro delle recinzioni traianee del Fororomano che ritrae alcuni cittadini colbraccio alzato verso l’imperatore.

Meraviglia degli anacronismi. E unpo’ anche degli anniversari, perché il 27novembre del 1925, ottant’anni orsono,un decreto governativo rese obbligato-rio il saluto romano all’interno delle am-ministrazioni civili del Regno. E da allo-ra, si può dire, quel gesto entrò nella vitadegli italiani. «A noi!» si poteva gridare;come pure, meglio se nelle cerimonie,«Eia eia alalà!». Dunque, oplà, in alto conil braccio, oltre la testa possibilmente, lamano appena un po’ piegata all’insù, ledita chiuse, il pollice non s’è mai capitobene dove metterlo. E comunque: «Ilpalmo è disteso, a indicare che l’amicoviene incontro all’amico con il cuoreaperto — spiegava Vanna Piccini, esper-ta di buone maniere, su Mani di fata —il cuore dischiuso a ogni senso genero-so, ché una mano aperta offre semprecon lealtà, con generosità... ».

Non sempre, veramente. La più vastae fotografica iconografia restituisce sa-luti romani minacciosi, pagliacceschi eil più delle volte teatrali. Squadristi inposa, dapprima, ma poi anche scolare-sche, donne ai bagni, bersaglieri in bici-cletta, campeggiatori, famiglie prolifi-che, crocerossine, campioni olimpioni-ci, ascari e altre truppe di colore, sposifelici, bambini nudi col fez e perfinobamboline.

E tuttavia, ripensandoci con l’indul-genza del presente, la maggior parte deisaluti romani del ventennio, quelliscambiati negli uffici e per strada, quel-li veri, quelli senza fotografi, dovevanoessere soprattutto dimessi e contraddit-tori, proprio perché obbligatori; fatti re-standosene seduti, senza togliersi nem-meno il berretto; saluti romani pigri, di-stratti, frettolosi o perfino vergognosi.Più che saluti romani, in realtà, ombre,indizi, accenni di saluti romani, moven-ze da indovinare, come chi furtivamen-te taglia l’aria a man rovescio per scac-ciare via una mosca.

Il regime fascista, invece, adorava lepose scultoree pur ignorando le sottili espesso malefiche risorse dell’antropo-logia culturale. Ma le intuiva, non c’èdubbio. Più di ogni altro uomo politicol’autodidatta Mussolini sfruttò la po-tenza incantatrice dei rituali collettivi espersonalizzanti; a suo uso e consumo limise in scena per governarli dal balco-ne; e gradualmente li rivestì di passatoremoto e di futuro indistinto, per radi-carli più profondamente nell’immagi-nario e poter meglio scatenare mario-nette inermi legate al filo della loro stes-sa irrazionalità.

«Il mito di Roma fu la credenza mito-logica più pervasiva di tutto l’universosimbolico fascista» ha scritto lo storicoEmilio Gentile. Alla mostra per il decen-nale della rivoluzione fascista, nella saladedicata alla marcia su Roma, un ma-stodontico fotomosaico dal titolo “Adu-nate” offriva allo sguardo una selva dimani protese. Eppure il saluto romanonon era mussoliniano, e a rigore neppu-re fascista. Fu uno scippo, piuttosto, o sesi vuole un furto compiuto con destrez-za alle infuocate ispirazioni degli arditi,all’impazienza artistica dei futuristi, masoprattutto fu una campagna rubata aGabriele D’Annunzio che quel gestoaveva lanciato sul mercato politico, sidirebbe oggi, grazie alla notissima suaabilità promozionale.

In pratica “il Vate” aveva elaborato daun pezzo lo strategic planning del salutoromano, completo di brief, claim, for-mat, frame, visual e pay-off. Dopo tutto,oltre che un magnifico creativo, D’An-nunzio era anche un soldato e un avven-

42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 20 NOVEMBRE 2005

Salutoromano

FILIPPO CECCARELLI

Spiega Vanna Piccinisu “Mani di fata”:il palmo è disteso

a indicareche l’amico viene

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Ora sopravvive in pratica solonei funeralidei nostalgici o dentrogli stadi, dove si tornanoa celebrare le cerimonie di massa

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 20 NOVEMBRE 2005

zione: «Giunse a far credere a codesteosannanti di esser lui il solo genitale-eretto disponibile sulla piazza». La piaz-za e il duce «ritto, impennacchiato, im-priapito». Teso a congiungersi con la fol-la: «Ecco ecco ecco eja eja eja il glorioso e‘l virile concitarsi (...) Ed Alpe e Penninoecheggiarlo, hì-hà, hì-hà, hì-hà, riecheg-giarlo infinitamente, hè-jà, hè-jà, hè-jà,per infinito cammino delle valli... ».

Coito o non coito, a noi o non a noi, Ro-ma o non Roma, comunque finì comedoveva finire: malamente, con il dolore ela vergogna dei vinti. Sentimenti espres-si dall’ultimo indimenticabile saluto ro-mano di quella stagione: due grandi ma-schere italiane, Eduardo e Alberto Sordiche alzano il braccio in Tutti a casa. Madesolatamente disfatti, laceri, affamati,mesti e pronti a consegnarsi a chiunquepur di farla finita con quella vita, con laguerra.

Da quel fotogramma in poi, per alme-no mezzo secolo, il saluto romano so-pravvive in pratica solo nei funerali deinostalgici del neofascismo e negli obli-qui fraintendimenti di una politica dive-nuta “pop”. A lungo si pensò che LucioBattisti fosse fascista perché immortala-to una volta con il braccio teso. In realtà,

come si è scoperto solo di recente, inquella foto sta dando il via ai violini per ilpezzo Giardini di marzo. Un altro gior-no, altra foto, su di un palco beccano LaRussa, in flagrante saluto romano: «Mano — dice lui — stavo solo ballando quel-la canzone di Celentano che fa: “E dal pu-gno chiuso una carezza nascerà”... ».(bada-ba-dà). Esclude d’altra parte,donna Assunta Almirante, che il suoGiorgio l’abbia mai fatto: «Alzava la ma-no così, come se fosse un semplice ciaociao». E tuttavia riconosce che il salutoromano «È igienico: personalmente nonsopporto le mani sudate».

Ma questa è storia di ieri. Per sentirel’eco di quella ben più risonante e conci-tata dell’altro ieri, bisogna forse tenderel’orecchio al boato degli stadi, là dovecon maggiore evidenza tornano oggi acelebrarsi le cerimonie di massa. E dun-que, gennaio 2005, alla fine del vittorio-so derby ecco Paolo di Canio che, senzala maglia della Lazio, esulta sotto le gra-dinate ardenti della curva nord. E quan-do l’idea prende corpo, come s’è detto al-l’inizio, vibrano quei soliti muscoli e par-te il braccio. E vabbè. Ma quale più idea,oggi? E quale mai demone andranno a ri-svegliare quei muscoli?

L’ossessionemarziale

NELLO AJELLO

Tic politici, tabù estetici, regole di comportamentobizzarre e coercitive: ne sono piene le cronachedel ventennio littorio. In generale, i nostri conna-

zionali d’epoca vengono invitati ad assumere, nei mo-di e nel vestiario, un aspetto secco, marziale, coriaceo.«Pancia in dentro, petto in fuori», è il motto che risuonanelle adunate del sabato fascista. «Vivere pericolosa-mente»» è l’ukase rituale. La consegna è di aborrire «lavita comoda». Nell’anatomia ideologica del regime,l’organo più deriso è il cuore (e non parliamo del “buoncuore”). Sul crinale fra gli anni Trenta e Quaranta, l’e-saltazione “muscolare” imposta dall’alto s’avvia a di-ventare un supplizio iperbolico: e la cosa non sfugge aun elegante periodico satirico, Il Bertoldo, cui — per di-sattenzione o per scarsa professionalità dei censori —si consentono margini di libertà inconsueti. AncheCappuccetto rosso, secondo il giornale, «un giorno ol’altro» adotterà il truce contegno dell’Italia imperiale.«Andando a portare da mangiare alla nonnina», preve-de una nota redazionale, «non la troverà malata e a let-to (roba da nonne d’altri tempi) bensì virilmente drittain piedi e a torso nudo: si esercita con le clave. E, venu-to il lupo, credete che Cappuccetto rosso ne fosse divo-rata? Lo divorò, traendo enorme giovamento da quelsano cibo. Morale: ragazzi, mangiate i lupi». Ormai lelettere, anche di natura privata, devo chiudersi con laformula “saluti fascisti”: pallido richiamo a quell’HeilHitler che è la clausola in uso nel III Reich.

A parte questi ricalchi, è di rito la massima autarchia lin-guistica. Si apre la caccia al sinonimo nostrano di prover-biali espressioni straniere. A water closet subentra came-rino, Saint Vincent è ribattezzata San Vincenzo, WandaOsiris si trasforma in Wanda Osiride, Renato Rascel in Re-nato Rasceli, i cotillons in cotiglioni, i gol (o, peggio, i goal)in reti. I filobus dovranno chiamarsi vetture filotramvia-rie. Sempre Il Bertoldo immagina che un anziano perso-naggio venga giustiziato perché ha detto bazar. Espri-miamoci, si legge sotto la vignetta, «con schietta, sana,leale, robusta pronuncia nostrana, a torso nudo, col tora-ce rivolto verso i frutteti, tenendo in mano erpici e badili».

L’Italiano è alto. Il 16 agosto 1938 ai giornali viene or-dinato di «dare con rilievo e commentare il comunicatosull’aumento della statura», dimostrando come esso «siail risultato di sedici anni di politica razziale». Alti, certo.Ma non snelli. Specie le signore e signorine. Quella ita-liana deve diventare la “donna anticrisi” per eccellenza,dopo aver bandito dai suoi sogni la cosiddetta “vita di ve-spa”. Le fasciste militanti, cioè tutti quegli esseri femmi-nili che Giancarlo Fusco chiamerà “le rose del venten-nio”, sono oggetto di viva attenzione soprattutto esteti-ca (o forse anti-estetica). Il ministro dell’Educazione na-zionale, Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon, proibi-sce alle maestre di truccarsi: «austere nella moralità, si-gnorili nel contegno», esse vestiranno di scuro. Nel 1942il podestà di Genova vieterà alle impiegate vesti succintee smalto sulle unghie.

Ogni pretesa del sesso gentile viene d’altronde con-culcata fin dal 1933, quando si stabilì che «il femminismoesagerato nient’altro è che del chiaro e preciso antifasci-smo». E alle femministe si rivolgono epiteti per nulla ga-lanti: «Bruttissime, sudice, sterili, chiassose, pettegole,sfaccendate, maligne e pazzerelle». In breve, la «pestebubbonica della società». Scoperta sui giornali una pub-blicità che invitava le donne a iscriversi a un circolo ae-ronautico, Mussolini reagì con una battuta: «Nell’Italiafascista, la cosa più fascista che le donne possono com-piere è quella di pilotare molti figli».

La politica detta dell’imperialismo demografico ri-chiederebbe un lungo capitolo a sé. Un rilievo simbolicopari quasi a quello del saluto romano assunsero altri dueprovvedimenti simbolici della pedagogia staraciana: l’i-stituzione del passo anch’esso «romano» e l’abolizionedel «lei». Quella pomposa andatura venne adottata nel-le sfilate a partire dal 1936: si effettuava «portando inavanti la gamba e il braccio opposto tesi in posizione oriz-zontale». Un calvario. Nel suo Dizionario moderno(1923) uno scrittore assai noto, Alfredo Panzini, l’avevaprecocemente preso in giro, osservando che «il passostecchito e rigido delle milizie tedesche», di cui quello no-strano era un’imitazione, «fu detto per dileggio “passod’oca”». Fu un altro scrittore, Bruno Cicognani, a lancia-re, nel 1938, sul Corriere della sera la proposta di abolireil “lei”, a favore del “voi”, ma soprattutto del “tu”, espres-sione “dell’universale romano e cristiano”. Sul tema di-vampò subito un dibattito frenetico (e di livello dispe-rante). La proposta fu accolta, dopo che il “le” era stato vi-tuperato con larga messe di aggettivi: “femmineo,sgrammaticato, straniero, servile”. Un settimanale, Lei,cambiò titolo diventando Annabella. Certe sotterraneecronache d’epoca sostengono che simili provvedimentierano oggetto di burla. Ci fu chi propose di trasformare lastorica torre del Mangia in “torre del Mangiate” e di cor-reggere le generalità di Galileo Galilei in “Galivoio Gali-voi”. Scarsa inventiva? Forse. Ma l’Italia intera era unafreddura. Penosa.

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PARIGI

Le mani di Marianne Faith-full sfogliano un book di fo-to inedite di Robert Map-plethorpe. Commenta, con

una voce roca che fa pensare più a LotteLenya che a una cantante pop. Le imma-gini, che non mostrano mai il volto del-l’artista, le ha girate Hedi Slimane, foto-grafo e stilista di Dior Homme. Nelloschermo accanto, un filmato bianco enero, realizzato da Mapplethorpe in per-sona durante le session fotografiche perl’album Wave di Patti Smith, anno 1979.All’epoca Slimane aveva poco più di die-ci anni, stava per ricevere in dono unamacchina fotografica da cui non si sa-rebbe più separato, non sapeva nulla diMapplethorpe, ma era già morbosa-mente attratto dalla retorica rock. Tantoè bastato perché il gallerista ThaddaeusRopac lo scegliesse come curatore di unamostra dedicata al fotografo morto diAids nel 1989. «Quando si è trattato ditrovare un testimone, ho subito pensatoa un nome della moda, perché Parigi è lacapitale della moda. Ma volevo uno stili-sta il cui lavoro fosse strettamente con-nesso alla fotografia. A quel punto la scel-ta di Slimane è stata quasi obbligatoria»,spiega Ropac, mentre stringe la manoagli ospiti eccellenti che si aggirano traautoritratti e ritratti di William Burrou-ghs e Lisa Lyon: Jeanne Moreau, la topmodel Mariacarla, un nutrito contin-gente di stilisti trendy capitanato da Ric-cardo Tisci, rapito all’Italia dalla maisonGivenchy.

Se il mondo della moda cercava unagiustificazione culturale al monotonosuccedersi di collezioni autunno-inver-no/primavera-estate, in Slimane ha tro-vato l’uomo ideale. Trentasette anni, pa-dre tunisino e mamma italiana, dopo unbreve apprendistato da Louis Vuitton ac-cessori, un rapido passaggio da YvesSaint-Laurent, un’offerta rifiutata da JilSander, sbarca nel 2001 da Dior per rilan-ciare la linea maschile (John Galliano è ilresponsabile di quella femminile). Im-presa titanica: “l’uomo” è stata sempreun’appendice più o meno irrilevante,spesso trascurata e noiosa, nella storia

delle grandi case di moda. Slimane ribal-ta il concetto: parte da una prospettivacompletamente nuova, inventa “l’uomoDior” e in tre anni fa crescere il fatturatodel quaranta per cento. L’Observerconiail verbo to dior for. Hollywood e il mondodel rock sono ai suoi piedi. «Non pensomolto a come mi vesto, mi fido di Hedi Sli-mane, tutto quel che indosso arriva daDior. Sono fortunato, ci sono sempre sta-ti stilisti pronti a darmi vestiti (PaulSmith, Yohji Yamamoto, ndr). L’ultimodella lista è Slimane. L’ho conosciuto pri-ma che andasse da Dior, mi inviò unamanciata di fotografie attraverso un ami-co comune. Erano immagini ispirate alfilm L’uomo che cadde sulla terra,silhouette molto esili e scure, quello chesarebbe diventato il suo stile. Oggi dise-gna anche gli abiti dei Killers e Franz Fer-dinand. Slimane sta cambiando il lookdel rock and roll», dice David Bowie, l’ar-tista che inconsapevolmente è respon-sabile di un fenomeno.

«Scoprii David Bowie perché mi rega-larono un suo disco a una festa di com-pleanno», dice lo stilista, il volto affilato,gli enormi occhi azzurri che parlano piùdella bocca. «Avevo sei anni. Lo so, non èun regalo adatto a un bambino, ma a vol-te i ragazzi più grandi, gli adolescenti,non si rendono conto che esistono altrimondi al di là di quello in cui loro orbita-no. Così mi ritrovai tra le mani questo Lp,e subito compresi che la relazione tramoda è rock è strettissima». Il disco cheaccese la scintilla fu David Live, registra-to al Tower Theatre di Philadelphia nel1974. «Lo adoro, e Bowie è divino in quelcompleto bianco, illuminato dai neon.Nessuno ha avuto su di me un impattocosì forte, a parte Paul Simonon, il bassi-sta dei Clash. Quando ho cominciato afare lo stilista, avevo già una certa espe-rienza del mondo dello spettacolo chemi ero fatto proprio studiando le coper-tine dei dischi. Per questo mi ha sempredivertito di più vestire le star del rock chele stelle di Hollywood. Ho creato abiti perMick Jagger e Justin Hawkins dei Dark-ness, ho vestito Franz Ferdinand e Liber-tines. Quando mi chiedono chi sono imiei idoli, io non cito mai stilisti famosi,ma sempre e solo David Bowie e Paul Si-monon, che ora fa il pittore ed è final-mente un mio amico».

Di solito gli stilisti nascono con il ca-priccio della moda in testa, già in teneraetà fanno miracoli con pezzi di stoffa, agoe filo. Inventano, creano, montano esmontano. Sbirciano ossessivamenteVogue e Harper’s Bazaar. Il giovane Sli-mane aveva aspettative diverse. «Volevofare il giornalista. Ero affascinato dallapolitica estera. Bussai anche alla porta diLe Monde. A 11 anni facevo il fotografo, a

venti ero sicuro che avrei fatto il fotore-porter. Poi cominciai a collaborare condegli amici che lavoravano nel mondodella moda. La moda è stata l’ultima del-le tentazioni e quella in cui sono rimastointrappolato. Ma mi ostino ancora a fareil fotografo a tempo pieno. Il libro Berlin(2003) è il diario per immagini dei miei treanni in Germania. Stage(2004) il frutto diun attacco violento di feticismo rock. Ero

proprio a Berlino quando cominciai a di-segnare i primi abiti di scena per gli arti-sti: Jack White prima ancora che fondas-se i White Stripes, Bryan Ferry, Bowie,Jagger. Poi cominciarono ad arrivare tut-ti gli altri: magicamente musica e perfor-mance tornavano a camminare di paripasso, come all’epoca di Ziggy Stardust.La mia passione per il rock va a ondate.Da ragazzino ero attratto dal punk, ma lascena degli anni Ottanta e Novanta, conl’eccezione di Kurt Cobain e Nirvana, miha lasciato del tutto indifferente. A me ilrock interessa solo quando diventa un la-boratorio di idee».

Ora ci risiamo, dice Slimane, il rock statornando a colpire nel segno. Per questoha dedicato il suo ultimo libro fotografi-co, London: Birth of a Cult(Ed. Steidl, 208pagg. 22,50 euro), al nuovo eroe della sce-na londinese, Pete Doherty, ex Liberti-nes, cantante dei Babyshambles, fidan-zato (o ex?) di Kate Moss, la top model cheè stata incastrata proprio da una fotoscattata nello studio di registrazione delrocker mentre sniffava cocaina.

La prima cosa che mi ha attratto di Pe-te Doherty è stata la musica», spiega Sli-mane. «Quando iniziai a lavorare al pro-getto London: Birth of a cultnon c’era an-cora tutta questa attenzione mediaticasu di lui, Kate Moss non era ancora all’o-rizzonte. All’epoca Doherty, che si era ap-pena separato dai Libertines, suonava inclub piccolissimi dove non c’erano négiornalisti né discografici. Con questo li-bro ho voluto documentare la nascita diun’icona rock, prima ancora che la vocefinisse su cd o l’immagine sui giornali.Doherty mi è sembrato il soggetto idealeperché ogni singolo istante della sua vitaè spontaneamente e non deliberata-mente regolato da quella che noi chia-miamo “retorica rock”. Questo non sa-rebbe bastato se non fossi stato sedottodalle sue poesie e dal carisma che emanasul palco. So che Pete è considerato ilprincipe dell’eccesso, ma per me lavora-re con lui è stato facilissimo. Per un annoe mezzo, prima ancora che ci fossero del-le date programmate e pubblicizzate, hoseguito Pete nei suoi concerti improvvi-sati, a casa sua, nei locali che frequenta-va. Per me Pete è l’immagine forte di que-sta Britishnessche sta dando al mondo l’i-

“Mi fido di lui:sta cambiandoil modo di appariredegli artisti di oggi”,dice David Bowie

GIUSEPPE VIDETTI

Le grandi star si sono sempre affidate agli stilisti. Il più richiestodel momento è Hedi Slimane, firma di Dior homme e talento poliedrico:ha interessi che vanno dall’architettura ai profumi, disegna gli abiti

di mostri sacri come Mick Jagger e Bryan Ferry ma anche di astri nascenti come i FranzFerdinand e Pete Doherty, per il quale nutre una predilezione. Che lo ha portato a riscoprirela passione per l’obiettivo e a pubblicare un libro con le foto che vedete in queste pagine

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Musicamoda

I vestiti che hanno inventato il rock

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ni?», ha risposto indignato, alludendo aipallidi, glabri, efebici modelli, stretti injeans da 350 euro dai quali spuntavanostivaletti dorati.

C’è anche chi per indossare un jeansDior è dimagrito sei taglie, come Karl La-gerfeld, lo stilista col ventaglio, disegna-tore di Fendi e Chanel. «Spero sia unoscherzo», minimizza Slimane. Ma nelsuo libro Diet, scritto insieme al dottorJean-Claude Houdret, Lagerfeld scrive:«Una mattina mi sono svegliato e ho de-ciso che non mi sentivo più a mio agiocon la mia mole. Volevo vestirmi in mo-do diverso, indossare i capi disegnati daSlimane per ragazzi molto più giovani dime. Ci ho messo tredici mesi, ma ci sonoriuscito».

Slimane è il Brian Eno della moda.L’antica passione per il giornalismo nonè ancora sopita. Il sei maggio scorso ha“rivisitato” graficamente un numero delquotidiano francese Liberation. Dise-gna collezioni, inventa fragranze (Colo-gne Blanche, Eau Noire, Bois d’Argent),studia mobili in ebano e metallo per ilconcept store di Comme des Garçons inDover Street, a Londra, cura mostre e in-stallazioni multimediali, si avventura inprogetti architettonici, sempre a Lon-dra, «di cui è prematuro parlare», i suoi li-bri fotografici diventano di volta in voltapiù ricercati (Stage ha lo strano formato37x21, London: Birth of a Cult è fermatocon un simil-laccio emostatico e rac-chiuso in un box di cartone insieme a pa-gine sparse di Books of Albion, il diario diPete Doherty, «dove molte parole, com-presa Kate, sono scritte col suo stessosangue»). A Hollywood, per allestire lanuova boutique che aprirà a Rodeo Dri-ve (la prima Dior Homme è stata quelladi Milano), alloggia allo Chateau Mar-mont, rifugio delle rockstar. Beck, BradPitt, Orlando Bloom e Ewan McGregorsono suoi clienti. Nicole Kidman e SarahJessica Parker indossano le sue giaccheda uomo («Ci sarà una linea donna, pri-ma o poi»). La capitale della moda ormaigli va stretta. «Parigi è noiosa. Puoi star-tene in un caffè a parlare con gli amici perore, cosa che a Londra, ad esempio, nonfarei mai. Londra è rinata, t’invita a usci-re la sera, vibra di nuovo rock. Le cittàhanno i loro cicli e i loro esaurimenti ner-vosi. Parigi, ora, è in terapia col Prozac».

Il potere del lookda Elvis a Madonna

Sotto il vestito? Tutto, o quasi. Parlandodi rock, il vecchio pregiudizio sulla fu-tilità della moda va completamente

rovesciato. Senza il linguaggio fiorito degliindumenti, il rock sarebbe stato molto piùsilenzioso. O perlomeno non avrebbe con-dizionato gesti e comportamenti, nonavrebbe prodotto così tanti segnali di iden-tificazione giovanile sparsi per il globo. Segiriamo per le strade troveremo ovunqueragazzini vestiti da rapper, pantaloni chedebordano verso il basso, cappellini a visie-ra, scarpe da ginnastica dall’aria vagamen-te robotica. Altra cosa è chiedersi cosa que-sti abiti abbiano realmente a che fare colrap. La verità è che le mode del rock parto-no in un modo, saldamente attaccate allaradice originaria, poi qualche volta traci-mano, diventano moda tout court, se neperde completamente la ragione iniziale.Può capitare che certi ragazzi si vestano inun certo modo senza sapere perché. Ma ineri dei ghetti lo sapevano bene. Come le ri-cette delle cucine povere, anche lo stile delvestiario può essere un riciclo di elementi aportata di mano: maglie da basket, pantalo-ni sformati, scarponi militari. A quelli che cela fanno viene consentito di esibire simbolidi ricchezza. Al nostro gusto suonerebbecafone, ma i neri possono osare, ostentanocatenone d’oro sul petto e va tutto bene.

A volte le mode musicali non vorrebberoneanche essere tali. Gli hippies, per esem-pio. La loro era una non moda, una nega-zione radicale, l’abolizione dei “vestiti” inquanto tali. Al loro posto stracci, teli, sanda-li primitivi. Un’antitesi subito assimilata,tanto che, annusato il pericolo, i veri hippiesdecisero di scomparire subito, di eliminar-si. Ma il meccanismo è stato implacabile,una scia che ancora oggi sostiene un clichéindistruttibile. Gli hippies non ci sono piùma i loro “non vestiti” sì.

Altre volte il segno è forte, assoluto, impe-rativo. Il popolo dark ha scelto il nero, e i fa-natici vestono di nero anche le unghie, comedistacco totale dal mondo, come nicchia alriparo da bugie e finzioni, uno schermo cheabolisce le immagini, un segno di lutto inonore della morte di tutte le illusioni. Primaancora il punk, dal quale il mondo dark deri-va come un figlio rigoroso e incorruttibile. Ipunk nacquero a Londra tra club e boutiquealternative dove alcuni stilisti stabilirono unnuovo codice: vestiti strappati, spille che la-ceravano la pelle, acconciature sgargianti,pennacchi insultanti. Anche questa era ap-parentemente una “non moda”, ma creatada gente che nella moda ci sguazzava. Era ilmomento del gran rifiuto, tutto andava cal-pestato, rivisto, bisognava farsi male o quan-tomeno rappresentare il farsi male. Solo unelemento è sopravvissuto indenne tra tantiavvicendamenti generazionali: il giubbottodi pelle, fin dall’inizio simbolo di ribelle spa-valderia. Lo indossava Marlon Brando, lo in-dossava Elvis Presley, fu poi accantonato dalflower power degli anni Sessanta, ma già LouReed lo rilanciò ad uso e consumo del futuroche stava arrivando. I giovani inglesi, irocker, lo sbandieravano come un vessillo dacombattimento, contrapposto alle giac-chette strette, l’eskimo e i pantaloni a tubodei Mod. Il giubbotto di pelle si intonava conla moto, l’eleganza working class dei Mod sisposava con le Vespe e le Lambrette. Lì la mo-da era ben altro. L’abito faceva il monaco, eraun rigido codice di appartenenza a una tribù.Il cappello doveva essere a tese strette, into-nato su quelli del Rat Pack di Frank Sinatra, icapelli corti e ordinati. I rocker invece scar-migliati, scomposti. Ma una volta di fronte sele davano di santa ragione.

Il mondo pop è stato un carosello di mode:gli abitini rococò di Prince, gli abiti da giulla-re di Dylan quando tradì il folk per imbrac-ciare la chitarra elettrica, i vestiti da maghiceltici dei Led Zeppelin, i corpetti di Madon-na, il guanto bianco di Michael Jackson, legiacche imperlinate di Elvis (debitamenteesposte nel museo di Graceland), i travesti-menti spaziali di David Bowie, gli stivalettidei Beatles, e ancora divise fosforescenti,guaine di plastica, pantaloni di pelle, giacchesfrangiate, un tourbillon di segni che se po-tessero parlare racconterebbero gli inconte-nibili vezzi della più eccentrica razza di arti-sti apparsa negli ultimi cinquant’anni.

GINO CASTALDO

LA MODA

ROCK & ROLL

A partire dal 1968, BillBelew diventa lo stilistadi Elvis: disegna tutti i vestiti che il Re indossain televisione e nei suoiconcerti fino al 1977

HEAVY METAL

È all’heavy metal (pellenera e cinture borchiate)che si ispirano le primecollezioni disegnatedallo stilista texano TomFord per Gucci

GRUNGE

Camicie di flanella,Levi’s usati e T-shirtmalconce. Allo stiledei Nirvana Perry Ellisdedica nel ’92una collezione

HIP HOP

Insieme allo stilistaMarc Ecko, il rapper 50Cent ha lanciatouna sua personalelinea d’abbigliamento“G Unit Clothing Co”

IL FIDANZATODI KATE MOSSPete Doherty,cantante deiBabyshamblesfotografato daHedi Slimanenel libro“London: Birthof a cult”.A sinistra: duedéfilé DiorhommeNella paginaaccanto,ancora PeteDoherty e,sotto, Slimane

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45DOMENICA 20 NOVEMBRE 2005

PUNK

La stilista dei SexPistols è VivienneWestwood, checon Malcolm McLarenha inventato lo stilepunk

dea di una Londra rinata, come al tempodei Sex Pistols. I tabloid hanno in parteneutralizzato e banalizzato questo po-tenziale, ma sono sicuro che l’influenzadi Doherty durerà per molte stagioni a ve-nire. Sfortunatamente, o fortunatamen-te, il mondo ci mette sempre un po’ a ren-dersi conto dei fenomeni».

Sid Vicious e Kurt Cobain avrebberoindossato abiti firmati, se avessero avutoil loro Slimane. E non è un caso che unamaison blasonata come Dior abbia datofiducia al segno rock di Hedi per resusci-tare l’entusiasmo dei tempi in cui Chri-stian, il fondatore, affidava all’ambiguaDovima (la modella con gli elefanti foto-grafata da Avedon) l’immagine del suoprestigioso atelier. Dior, uomo e donna,è tornato a fare tendenza, e il rock fa par-te del menu: è stata una delle poche casea non aver cancellato il contratto a KateMoss dopo il linciaggio. Slimane, anzi,parte dal rock: una collezione è intera-mente ispirata allo ska di Madness e Spe-cials; i pantaloni a sigaro di Simonon so-no diventati un marchio di fabbrica; legiacche sono sagomatissime, le asole siaggrappano con difficoltà ai bottoni, icolli sono stretti, le cravatte sottili, il bian-co e nero quasi dominante, eccezion fat-ta per qualche bizzarria scippata a SgtPepper. Sulle t-shirt sono stampati a ca-ratteri cubitali i versi di Doherty. Tutto ri-gorosamente slim, come le prime quat-tro lettere del suo cognome. Una tenden-za che ha cancellato con un colpo di spu-gna la cultura hip hop dell’extra large.

«L’idea era quella di dare alla modamaschile la stessa dignità e lo stesso pe-so di quella femminile, senza limiti o re-strizioni, e soprattutto senza tabù», dice.«Quando si intacca il comune senso divirilità, si va sempre incontro a un saccodi guai. Senza impelagarmi in paranoiepsicologiche, ho cominciato a pensareall’uomo che vestivo come a una creatu-ra transgender, con fantasia, portandoanche nel quotidiano degli elementi cheusavo per gli abiti di scena, con il risulta-to che le reazioni a volte sono state ancheun po’ violente». Ha reagito con vee-menza anche Alain Delon, attore e ma-schio di Francia. Un giornalista di An-tenne 2 ha cercato di strappargli un com-mento sulle immagini di una sfilata DiorHomme. «A voi quelli sembrano uomi-

LA MUSICA

MICK JAGGER

Il fondatore, insieme a Keith Richards, dei Rolling Stones è una delle star del rockper cui Hedi Slimane hacreato vestiti da concerto

BRYAN FERRY

Insieme a Bowie e JackWhite, Bryan Ferry èstato uno dei primi artistiper cui Slimane hacominciato a disegnaregli abiti di scena

BABYSHAMBLES

Al cantante Pete Doherty è dedicato l’ultimo librofotografico di Hedi: “London:Birth of a Cult”

DAVID BOWIE

È stato un modellodi eleganza sinda quando Slimaneera bambino. E orasi veste con gli abitidisegnati da lui

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FRANZ FERDINAND

Sempre di Slimanegli abiti dei 4 ragazziscozzesi che in pochianni sono passatidall’anonimato allavetta delle classifiche

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i saporiRarità in tavola

Cercato, desiderato, pagato a caro prezzo in tutto il mondoil tubero più pregiato viene oggi degustato e celebratoa San Giovanni d’Asso nel cuore delle Crete Senesi, dopo averavuto il suo momento di gloria in Piemonte e nelle MarcheE mentre cresce la rivalità tra regioni sul primatodell’eccellenza, si apre la caccia “all’acquisto possibile”

46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 20 NOVEMBRE 2005

Da terrae tufer, escrescenza della terra, a tartufo di pace, la storiadel tubero più pregiato e goloso del pianeta è lunga almeno due-mila anni. All’inizio fu nero, al massimo qualche “bianchetto”(tartufo marzolino, lontano parente del magnatum picum) a rav-vivare il colpo d’occhio del vassoio. Cercato, desiderato e ancheun poco temuto, se è vero che veniva considerato cibo degli Dei

(non avevano tutti i torti). I suoi poteri afrodisiaci rendevano irresistibile l’ar-dente Giove, ma il suo status misterioso — nessuna classificazione, nessun si-mile a cui confrontarlo — inducevano il popolo a non consumarlo crudo. Trapaura e tentazione, si sceglieva la via di mezzo, consumandolo dopo averlo cot-to sotto la cenere e cosparso di miele. Lo stesso trattamento riservato ai funghi(di cui il tartufo è fratello sotterraneo).

Nel Medioevo andò anche peggio, con il mirabile tubero spesso scacciato co-me un cibo indemoniato. Solo negli ultimi duecento anni, i grandi cuochi di cor-te l’hanno riabilitato, anche per merito della cucina contadina, che considera-va l’insalata di tartufo una prelibatezza a poco prezzo.

Facile adesso, che costa quanto il volante di una Porsche, identificarlo con unalimento prezioso e benemerito. Ben lo sanno gli organizzatori del “Tartufo perla pace”, in programma oggi a San Giovanni d’Asso, nel cuore delle Crete Sene-si, terra benedetta per la caccia al tartufo bianco. Dopo aver annusato, toccato

e degustato il tartufo, gli applausi andranno alla redazione del Tg3, con men-zione a Giuliana Sgrena, premiati in scia ai vincitori delle passate edizio-

ni — da Don Ciotti a Emergency — per l’impegno sui temi della pace. Né sono stati da meno a Grinzane Cavour, Piemonte, e Cafag-

giolo, Toscana, sedi tradizionali dell’asta internazionale che

ogni anno assegna i tartufi più sontuosi ai grandi ristoranti del mondo, con tan-to di battitori collegati via satellite. Nei giorni scorsi, tra Hong Kong e Londra so-no state spese centinaia di migliaia di euro a scopo benefico, con il picco (mairaggiunto prima) di 95.000 euro, pagati per un tartufo grande quanto una pa-gnotta di oltre un chilo.

Certo, anno dopo anno, la stucchevole querelle sulle produzioni più pregia-te continua e si allarga. Oltre alla rivalità storica tra Piemonte e Toscana, mu-tuata dal vino, a cui vanno aggiunte le Marche, centro di smistamento per ec-cellenza di tutte le varietà di tartufo, va registrata la new entry della zona carsi-ca, iscritta di diritto nel novero delle zone “calde” per il ritrovamento degli esem-plari più profumati.

Ma al di là dell’infantile (e falso) “il mio è migliore del tuo”, difficile immagi-nare una situazione più allegra e pacifica di una tavola imbandita con un piat-to di tajarin fumanti e una pepita di “oro delle Langhe” pronta a essere sacrifi-cata con l’affilato tagliatartufi.

Come altrettanto allegri e pacifici sono i cani specializzati nel ritrovamento.Rigorosamente figli d’arte, quasi sempre — al di là del mitico Lagotto — fruttodi incroci tra razze da caccia e allevati come piccoli prìncipi. I cuccioli vengonocresciuti ungendo di olio al tartufo le mammelle delle madri e nascondendoframmenti odorosi nei prati vicino a casa. Di lì in poi la ricerca è un gioco e il ri-trovamento coincide con un premio.

Cani e non solo. Scriveva Platina: «Mirabile è il fiuto della scrofa, la quale sariconoscere i luoghi dove nascono e inoltre li lascia intatti, quali li ha trovati, nonappena il contadino le accarezzi l’orecchio». Oggi, il maiale è ancora usato inUmbria (a volte) e nel Perigord francese. A noi, preme soprattutto il risultato.Meglio se accompagnato da un vino rosso di valore. La regione, sceglietela voi:meglio evitare nuove discussioni tra le grandi rivali del gusto.

LICIA GRANELLO

Tuber magnatum pico Il tartufo bianco pregiato

(da non confondere

con il Bianchetto) si identifica

con Alba, ma si trova anche

in altre aree, dal Carso

alle Crete senesi. Globoso,

profumatissimo vive

in simbiosi con querce,

tigli e salici

LE VARIETÀ

Tuber melanosporumIl “nero” per eccellenza,

associato spesso a Norcia

(l’Umbria è una delle regioni

dove prospera) è diffuso

e apprezzato anche

in Francia e Spagna

Ambienti ideali, i boschi

di tigli, lecci e noccioli,

fino a inizio primavera

Scorzone Non comparabile per pregio

e finezza al tuber magnatum

e al melanosporum,

ha il vantaggio di maturare

nei mesi estivi sotto querce,

faggi, pioppi, quando le altre

produzioni sono assenti

Di scorza scura e interno

chiaro, si trova in tutta Italia

TartufiIl gioiello nascostonella madre terra

Page 19: D Laomenica - La Repubblica.itdownload.repubblica.it/pdf/domenica/2005/20112005.pdf · Indossava un paio di miei pantaloni, vistosamente troppo grandi. La cosa mi fece riflettere.

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47DOMENICA 20 NOVEMBRE 2005

itinerariNel ristorante“Da Guido”all’internodell’Agenziadi Pollenzo,sede dell’Universitàdi Scienze

Gastronomiche,Ugo Alciati continuala vocazione gourmanddi famiglia proponendopiatti piemontesi, doveil tartufo bianco è sovrano

Città “delle centotorri” (ne resistonouna ventina),capitale del tartufobianco, è ricca,bella, amatissimadai turisti stranieri (soprattutto

tedeschi) che affollano i negozi della Strada Maestra

DOVE DORMIRESAN LORENZOPiazza Rossetti 6Tel. 0173-362406Camera doppia da 80 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREPIAZZA DUOMO Piazza Risorgimento 4Tel. 0173-366167Chiuso lunedì, menù da 60 euro

DOVE COMPRAREGASTRONOMIA RATTIVia Vittorio Emanuele II 18Tel. 0173-440540

Impreziositada affreschie abbazie romaniche,è la sede del piùgrande mercatodi tartufi d’ItaliaAppuntamento con cercatori e

commercianti: tutti i fine settimana da ottobre a marzo

DOVE DORMIRELA LOCANDA DELL’ABBAZIAVia Pianacce 67Tel. 0721-700016 Camera doppia da 90 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREIL VICOLO Corso Roma 39Tel. 0721-797145Chiuso martedì sera e mercoledì, menù da 35 euro

DOVE COMPRAREMARINI AZZOLINI TARTUFIViale Risorgimento 26Tel. 0721-798629

Acqualagna (Pu)A metà stradafra Pisa e Firenze,nei suoi palazzihanno dimorato papie imperatoriIl tartufo biancoè re delle colline,i tartufai espongono

i loro gioielli nelle piazze le domeniche di novembre

DOVE DORMIREAZIENDA AGRITURISTICA MARRUCOLA Via Calenzano 42Tel. 0571-418306Camera doppia da 60 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIARE OSTERIA DEL VICARIO Via Rivellino 3, Certaldo AltoTel. 0571-668228Chiuso domenica, menù da 50 euro

DOVE COMPRARELA CREDENZA DI FEDERIGO Via Augusto Conti 15Tel. 0571-418344

Una poesia di aromi che salta fuori dalla terra, ecco cos’è per me il tartufo. Uno straor-dinario, forse il più prezioso, miracolo della natura. L’ho scoperto proprio in Italia,quasi trent’anni fa, quando Marco Ferreri me ne regalò uno sul set. Era la mia pri-

ma volta e da quel giorno si è accesa in me la passione, tanto che ancora oggi mi capita diperdere delle ore anche solo ad annusare i tartufi bianchi che l’amico trifolao Stelvio miporta dal Roero e che a mio giudizio sono i più buoni del mondo.

Ho provato perfino a imparare qualche trucco del suo mestiere, co-me quando mi ha portato in giro per boschi nelle sue zone, ma mi so-no reso conto che cercare tartufi non è un’impresa alla portata di tut-ti. E che i segreti restano segreti. Così, quando ho la fortuna di trovar-mene qualcuno fra le mani, mi consolo davanti a un piatto fumante ditajarin in bianco, che col tartufo si sposano a meraviglia. Perché l’ab-binamento ideale è sempre con i piatti semplici, quelli della culturacontadina e del territorio. Io per esempio adoro mettere il tartufo so-pra la carne cruda oppure su un uovo all’occhio di bue, che sono ap-punto piatti poveri, non elaborati, ma in cui l’aroma del tartufo bian-co si sprigiona in modo unico, incredibile. E in fondo questo gioco dicontrasti lo ritrovo nel tartufo stesso, che pur essendo pregiato e quin-di carissimo, rimane comunque un frutto della terra, con il suo odoreselvaggio, di bosco, di radici. È elegante ma povero, superbo ma sem-plice, un prodotto molto ricercato ma che si trova in quantità limitatae solo in alcune fortunate zone dove cresce. Per questa ragione, primadi qualunque altra, mi fa impazzire.

Due anni fa è stato per me un onore essere nominato «Re del tartufobianco d’Alba», che è un po’ come dire l’ambasciatore nel mondo. Dovunque vada non mistanco mai di lodare questi gioielli della terra. Anche a Parigi, non appena mi arrivano i tar-tufi, li propongo subito ai clienti del mio ristorante La Fontaine Gaillon, ma non a tutti. Èuna questione d’istinto, di pelle. Li servo solo a chi mi piace, a chi mi colpisce, perché untartufo bisogna meritarselo e soprattutto bisogna saperlo gustare. Quello che cerco di farcapire alle persone è che non si tratta solo di un tubero di rara bontà, è una poesia. E il mo-do migliore per avvicinarsi sarebbe prendere l’aereo e raggiungere Alba, le Langhe, il Roe-ro, conoscere di persona i contadini, i trifolao, il loro lavoro e vedere da vicino quei boschidi querce e larici dove i tartufi crescono quasi come i funghi. Per quel che mi riguarda, è unviaggio che faccio sempre molto volentieri, quando mi è possibile. Sto pensando fra l’altrodi ritornarci nelle prossime settimane, perché è già troppo tempo che non incontro il mioamico Stelvio Casetta, il presidente della Fiera del Tartufo Alberto Cirio e tanti altri grandiamici che lì mi aspettano per un abbraccio e un pranzo insieme. Ma il mio sogno questa vol-ta sarebbe fare un bel carico di tartufi, una scorta che mi basti per tutta la vita.

Testo raccolto da Guido Andruetto

La prima volta che l’ho annusatosi è accesa in me la passione

L’attore francese nominato “Re del tartufo bianco d’Alba”

GÉRARD DEPARDIEU

Con l’uovo In cocotte (a bagnomaria

e poi un attimo nel forno),

al tegamino (rapprendere

il bianco nel tegamino

imburrato, appoggiare

il rosso e cuocere pochi

secondi) o strapazzato

(sbattuto a freddo, cotto

a fuoco lieve). E poi...

tartufo a volontà

LE PREPARAZIONI

Con i tagliolini Nelle langhe, i tajarin sono

sottili pochi millimetri,

porosi, sodi

(in alcune ricette si arriva

a impastare con 30 tuorli

per kg di farina). Si

servono cotti al dente,

caldissimi, irrorati

di burro di malga fuso

e ricoperti di tartufo

Con la fonduta La Fontina dop, tagliata

a listarelle e lasciata

ammorbidire coperta

di latte fuori dal frigo,

si cuoce a bagnomaria,

aggiungendo burro

e tuorli (uno ogni etto

di formaggio) senza

mai far bollire. Servire

con crostini e tartufo

È il prezzo (in euro) di 100grammi di tartufo bianco

325

Gli euro pagati all’astaper un tartufo d’Alba

95mila

Il peso del tartufo biancopiù grande dell’anno

1kg 200 gr.

LA CONSERVAZIONE

Da tubero selvaggio qual è, non ama esserené pulito né lavato. Appena comprato,va riposto nella parte meno fredda del frigo,avvolto in una carta porosa, (tipo carta paglia)da sostituire tutti i giorni, per evitareche la troppa umidità lo alteri. Guai, viceversa,a coprirlo di riso crudo che lo disidraterebbe.Chiuderlo in un vasetto di vetro evita che tutto,in frigo, prenda il suo profumo, ma l’idealesarebbe lasciarlo “respirare”. Si conservanon più di una dozzina di giorni. Quandoil tartufo perde compattezza, è al limitemassimo di consumo. Qualche ora primadi utilizzarlo, si pulisce con uno spazzolinoumido e un pennellino, lo si strofina pianocon un panno-carta e lo si lascia tornarea temperatura ambiente

Bianco o nerofino a 200 annifa era consideratoun cibo povero

Senza l’aiutodi cani espertiil ritrovamentoè difficilissimo

San Miniato (Pi)Alba (Cn)

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le tendenzeStili che tornano

COPIATI DALLE COWGIRLSMetà camoscio e metà cuoioper il modello da cowgirl rivisitato,con punta allungata. Di Geox

48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 20 NOVEMBRE 2005

Tacco alto, basso, a spillo o magari in gommaModelli in cuoio grasso, tessuto o camoscio:le calzature più trendydella stagione hannoconquistato tutte nonostante il clima miteUn’attrazione irresistibile che ormai contaminaanche il look più classico delle signore

PASSI QUOTIDIANIIdeali da indossare di giorno, magaricon la gonna, in camoscio marrone,con cinturino. Fratelli Rossetti

UN BAGNO NELL’OROTacco a rocchetto e cuoio colororo: sono le trovate glamourdello storico Salvatore Ferragamo

EFFETTO GAUCHOSCome quelli amati dai gauchosargentini, gli stivali marroni con taccobasso disegnati da Trussardi

BARBARELLAL’attriceJane Fondain “Barbarella”film del 1968di Roger VadimLeggendarii suoi stivali

TUTTE A CAVALLORiprende la linea degli antichi stivalida equitazione bicolori la versionein cuoio nero e cuoio firmata Tod’s

SEXY MA AGGRESSIVAA Giorgio Armani piace il looksexy-aggressivo: pelle nerae tacco rigorosamente a spillo

RAGAZZE METROPOLITANEDesign aerodinamico e suolain gomma: è la nuova propostadi Pirelli. Per amazzoni metropolitane

RICAMI SPECIALIUn’idea per una serata speciale?Il pizzo arabescato firmatodagli artigiani di casa Caovilla

Perfetti per ognioccasionepermettono da solidi rinnovareil guardaroba

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Il primo segnale è arrivato un paio di stagioni fa.Quando degli improbabili stivali australiani dallaforma arrotondata, camoscio fuori e pelo dentro,disponibili in una varietà di colori pastello, sonosbarcati senza preavviso per le strade di Los An-geles. E, nel giro di pochi mesi, hanno fatto la loro

comparsa ai piedi delle star più alla moda del globo: dal-l’attrice Gwyneth Paltrow alla top-model Kate Moss.Che, incuranti del sole californiano, li indossavano aqualsiasi ora del giorno. Si trattava degli ormai celebriUgg che da allora hanno fatto il giro del mondo e oggi so-no venduti, ma soprattutto copiati, in ogni angolo delpianeta, da Hong Kong a New York, da Rio a Roma. Die-tro al successo del marchio australiano, c’è un fenome-no molto più ampio: per la prima volta da decenni gli sti-vali sono riusciti a cambiare la loro immagine. E, da ac-cessori associati ai climi più freddi, sono diventati unmust per qualsiasi stagione. «Non consideriamo più glistivali come un’accessorio legato al tempo, ma solo co-me un vezzo che dà alle donne sicurezza», spiega Tama-ra Mellon proprietaria della linea luxury Jimmy Choo.

Strano ma vero, dunque, nell’inverno fino ad ora piùcaldo mai registrato da tempo, le scarpe create in origi-ne per i cavalieri inglesi, sono diventati il massimo og-getto del desiderio femminile. «Era solo questione ditempo prima che accadesse», teorizza l’imprenditricePaola Caovilla, i cui modelli ultra-glamorous ricoperti distrass e arabeschi, adornano le gambe delle più famoseattrici di Hollywood. E aggiunge: «Se adeguatamentedecorati, sono le calzature che garantiscono il più altovalore aggiunto e soprattutto sono il simbolo di un nuo-va sessualità aggressiva che piace alle donne di oggi».

Che gli accessori siano ormai da tempo il vero motoredell’economia della moda è un fatto risaputo. Sono queltocco in più. Che riesce a farti cambiare look senza doverper forza rinnovare l’intero guardaroba. Fino a pocotempo fa però le attenzioni delle grandi case come deipiccoli designer si concentravano principalmente suborse, scarpe e cappelli. Così, per diversi anni, gli stivalierano rimasti in disparte. Bastava possederne un paio, almassimo due da alternare. Poi, improvvisamente, tuttoè cambiato. E, come negli anni Settanta, quando le don-ne li portavano con la minigonna come simbolo diemancipazione, sono tornati al centro della scena. Ri-spetto all’epoca di Barbarella però c’è una sostanzialedifferenza di attitudine. «I nostri modelli sono trasversa-li, si indossano a qualsiasi ora del giorno», spiegano neilaboratori di Salvatore Ferravamo. Gli stivali di nuova ge-nerazione, dunque, sono decisamente più diffusi dei lo-ro antenati sessantottini. Basta trovare il modello giusto.

Compito non troppo difficile. Visto che, per meritodi una nuova generazione di creativi effervescenti, og-gi c’è solo l’imbarazzo della scelta. Qualche esempio?L’americano Marc Jacobs riproduce le classiche galo-che di gomma con il tacco. Sergio Rossi rilancia il ca-vallino animalier. Hogan rivisita i modelli da caccia.Prada abbonda con i ricami. Mentre la spagnola AgataRuiz de la Prada clona le stampe optical in versionebaby. E così via. In una serie infinita di declinazioni.Con il tacco a spillo, la zeppa, la suola di gomma. Colo-ratissimi o nelle sfumature del cuoio. Ricamati, stam-pati, leopardati o giraffati. Di pelle, di gomma, di seta odi velluto. E ancora: lunghi a metà coscia, ridotti al gi-nocchio, altezza caviglia. Da indossare al mattino perportare i bimbi a scuola o per la campagna. Ma pure peruna serata speciale, per fare sport o per la moto. In ven-dita a volte a poche decine di euro. In altri casi cari finoall’inverosimile. Ma sempre indispensabili.

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 49DOMENICA 20 NOVEMBRE 2005

JACARANDA CARACCIOLO FALCK

Stivali

L’ODOREDEL CUOIOVanno a rubanelle boutiquePradai modelliin pelle altifino a metàcosciaRigorosiin cuoioinvecchiatoe bicoloreMolto chic

EPOCAVITTORIANAAllacciaturafrontale,comesi usavain epocavittoriana,per il guizzoin coccodrillonero,con fibbiaChristianDior

ISPIRAZIONEDARKIspirazionedarkper lo stivalealto propostoda Gucciche osaconginocchierain coccodrillo,punta aguzzae taccovertiginoso

Le amazzonialla campagna

d’autunno

‘‘Fëdor DostoevskijTutto l’equivoco dipende dal fatto che non si sapiù che cosa sia più bello: Shakespeare o un paio

di stivali, Raffaello o il petrolio?

Da I DEMONI

Un caotico avanspettacolodell’immaginario erotico

NATALIA ASPESI

Gli uomini di gusti tradizionali hanno un’immagine vec-chiotta degli stivali per signora (talvolta per signori): ar-riva alla porta una sconosciuta (sconosciuto) in imper-

meabile, lo spalanca e sotto è nuda (nudo) ma con alti stivali ne-ri luccicanti: la frusta è nella borsetta. Non si sa per quali labi-rinti della fantasia un oggetto di rudezza maschile, fatto permarciare sui campi di battaglia tra il rombare dei cannoni, nel-le praterie tra mandrie di bufali e pecore, su ghiacci, montagne,steppe, paludi, deserti, per andare a caccia e cavalcare, con unasua storia che parte dalla preistoria, tutta impregnata di odorivirili e di coraggio, sangue, avventura, potere, imperio, tiranni-de, sia diventato negli ultimi decenni ancora più osè delle giar-rettiere, un utensile piccante della femminilità intraprendentese non addirittura sporcacciona. Tanto che persino gli uominiin via di femminilizzazione per imposizioni mercantili, hannoricominciato a calzarli col doppiopetto menageriale, non perfare la guerra e neppure l’amore, ma per intrufolarsi in quellafolla ambosessi cui i tempi leggeri e ansiosi impongono di esse-re carina, decorativa, alla moda e sexy all’acqua di rose.

Si potrebbe pensare che l’accesso delle signore agli stivali sianato con l’emancipazione, ma non è così perché infatti quandole povere seguaci della signora Amelia Bloomer, a metà Otto-cento, osarono indossare i bloomers, mutandoni-pantalone al-la caviglia sotto le gonne accorciate, furono oltraggiate, ridico-lizzate, in alcuni casi messe in prigione con l’accusa di volersitravestire da uomo per usurparne i ruoli. Invece lo stivale, più omeno negli stessi anni, ridotto a stivaletto con allettanti file dibottoncini o labirinto di stringhe, non fu visto come un’inge-renza delle donne negli affari maschili, perché solleticava i cat-tivi pensieri degli uomini cui piace tuttora, almeno come idea,trafficare col corpo femminile e suoi addobbi; poco dopo glistessi scarponcini trionfavano sulle caviglie delle peccaminoseballerine di can-can, provocando bancarotte di industriali esuicidi di aristocratici.

Per Quirino Conti, autore del best seller Mai il mondo saprà,conversazioni sulla moda (Feltrinelli), gli stivali, come qualsia-si capo di abbigliamento, nascono per essere utili, diventanodecorazione e infine spettacolo. Calzatura per secoli solo ma-schile, fu inventata soprattutto a protezione dal fango e dai li-quami delle strade cittadine, per assumere poi una funzione euna simbologia guerriera e aggressiva; nei ritratti del periodonapoleonico i gentiluomini negli aderenti pantaloni di nappascamosciata, portavano stivali alti al ginocchio, raffinati, già de-corativi, mentre dall’Inghilterra era arrivata la moda degli sti-vali da cavallo, di massima eleganza non belligerante. SecondoConti, gli stivali entrano di imperio nel guardaroba femminilesolo negli anni ‘30 del secolo scorso, quando le donne comin-ciano a darsi allo sport: e pare che tra le prime cavallerizze se-dute non all’amazzone, ci fosse la giovane Coco Chanel che cal-zava stivali maschili piatti di cuoio. Però è solo nel 1962 che glistivali per signore salgono le passerelle dell’alta moda, e il pri-mo a lanciarli è Balenciaga. Con la minigonna e l’invenzionedella moda giovane, gli stivali arrivano sopra il ginocchio e par-tecipano a quella liberalizzazione del corpo, dei gesti, del mododi camminare, che precede di poco le chiacchiere, più che lapratica, della libertà sessuale.

L’era degli stivali-spettacolo nasce allora ed è adesso che rag-giunge il suo apice: accessori per eccellenza, cioè inutili, nonpiù oggetti d’uso ma pezzi marginali fine a se stessi, non più par-te di una totalità di gusto e di immagine. L’industria li proponeoggi in contrapposizione ai sandalini degli anni scorsi e nel nor-male avvicendarsi delle mode, le donne si avventano su di loronell’inseguimento sempre più affannoso di consolazione, esi-bizione, sessualizzazione: piatti o con tacchi medi o altissimi,alle caviglie, al polpaccio, al ginocchio, alla coscia, ricamati,strappati, borchiati, cinghiati, arricciati, bucati, sfrangiati, dipelliccia, di cuoio, di velluto, di raso, di coccodrillo. Tutto lo sci-bile dello stivale, anche il più demente, anche a prezzi insultan-ti: in un accumulo eclettico di stili, moda come avanspettacolo,spesso caricatura feticista di una strumento che per sovrab-bondanza e caos ha perso ogni segno di immaginario erotismo,se mai l’ha avuto.

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50 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 20 NOVEMBRE 2005

l’incontroUomini simbolo

ROMA

Gli piace citare lo scrittoreisraeliano Amos Ozquando dice «non è miaintenzione sopportare la

crudeltà, la pazzia, la menzogna e lesofferenze che le persone l’un l’altras’infliggono». Baltasar Garzón, natocinquant’anni fa nell’Andalusia conta-dina, è il giudice, anzi il super giudicenoto in tutto il mondo per aver fatto ar-restare a Londra, nell’ottobre 1998, l’exdittatore cileno Augusto Pinochet e peraver combattuto senza cedimenti ilnarcotraffico, la corruzione, il terrori-smo e l’arroganza dei potenti. In Spa-gna, e non solo. Ha indagato sul terro-rismo dell’Eta, su quello dei genocidicileni e argentini implicati della cosid-detta soluzione finale degli anni Set-tanta, e dall’11 marzo del 2004, il gior-no degli attentati di Madrid, si è dedi-cato alla lotta contro il terrorismo in-ternazionale. «Io, abituato a guardarela morte, ammetto di non aver mai vi-sto tanto orrore come quel giorno».Garzón fa parte dell’Audencia natio-nal, la massima istanza giudiziaria spa-gnola, l’organismo che raccoglie unamezza dozzina di magistrati chiamati“giudici stella”. Dice: «Il terrorismo in-tegralista oggi è il pericolo più grandecon cui le società moderne devono farei conti». E, per cercare insieme con imagistrati e gli investigatori di ogniparte del pianeta, «un terreno comunefatto di idee, dati e soluzioni allo scopodi prevenire il terrorismo», Garzón èandato a vivere per qualche tempo conla famiglia a New York. Per tentare diopporre “la forza della ragione” alla fol-lia evocata dalle parole di Oz.

Garzón è di passaggio a Roma dovepresenta il suo libro Un mondo senzapaura, Un mundo sin miedo, best seller

ge dalle lettere ai figli, che parla dellasua vocazione, di come gli nacque den-tro quando, ragazzino, ascoltava le pa-role di suo zio Gabriel, il fratello mag-giore di sua madre, che gli raccontava lenefandezze della guerra civile spagno-la e le ingiustizie della dittatura fran-chista. Fu proprio lui, un conservatoreche viveva la contraddizione di assi-stere alle violazioni della legalità pro-venienti da un ambiente che non con-trastava con la sua ideologia, a tra-smettergli la voglia di giustizia e il de-siderio di mettersi al suo servizio. «Eromolto piccolo e da allora decisi cheavrei fatto di tutto perché quelle atro-cità non si ripetessero».

Baltasar conserva un ricordo “agro-dolce” del periodo in cui, adolescente,va a vivere in seminario. Ha quattro fra-telli e in casa non si nuota nell’oro. Malui è risoluto: vuole studiare diritto. E,anche se in famiglia non c’è alcun pa-rente che abbia intrapreso una profes-sione nel settore, lui non arretra. Si be-ve le parole di un magistrato, padre di

in Spagna e ora edito in Italia da Baldi-ni e Castoldi. È la sua storia raccontatasotto forma di lettere ai figli. Baltasar, ilpiù grande che si chiama come lui e cheadesso studia diritto, Maria la figlia piùfragile e la minore, Aurora, appenaquindicenne. Guardato a vista da unascorta che lo conosce bene, apparetranquillo. «Alla vita blindata ho fattol’abitudine». Il libro? Lettere vere quel-le scritte ai figli a partire dagli anni no-vanta. «Ero spesso fuori casa e non li ve-devo mai. Era l’unico modo per comu-nicare ai miei ragazzi i valori in cui cre-do, la giustizia, la lealtà, la necessità didifendere i più deboli. Scrivere consen-te più attenzione, più riflessione. Ancheloro mi rispondevano con delle lettere».

Valori e ideali. Come quello di mette-re il cuore nel mestiere di giudice. «Hosempre inteso il mio lavoro come unavocazione», ripete e non pensa nean-che per un attimo che il termine possacontrastare con la figura del magistra-to freddo e obiettivo che la regola vor-rebbe. «Non penso che il giudice debbaessere solo un funzionario che percepi-sce lo stipendio dallo Stato. È qualcunoche difende i diritti dei cittadini, un giu-dice del popolo».

Garzón corregge l’immagine del-l’uomo tutto di un pezzo, senza distra-zioni. Lui è ironico, e gli piace la satira.Ha un debole per lo sport (è stato por-tiere in una squadra di calcio). E anda-va a sciare e frequentava palestre, al-meno finché spazio e tempo glielo han-no consentito. Ama la musica «l’operasoprattutto, ma ho anche una stermi-nata collezione di pezzi musicali arabiche mi fanno da colonna sonora men-tre lavoro». Va al cinema, ogni volta chepuó. E adora leggere. «Ho una passioneper i romanzi di tipo storico e mi piacela poesia, anche se non quella moder-na». È molto legato a sua moglie Rosa-rio, Yayo, donna forte e riservata. Si so-no innamorati giovanissimi e chi li co-nosce bene giura che, dietro alla carrie-ra del “giudice-stella”, ci sia proprio lei,con il suo equilibrio, la sua presenza di-screta e la sua costanza nell’educare i fi-gli e sostenere il marito.

Garzón racconta Garzón. Il perso-naggio pubblico, che ha condotto in-chieste serrate sui finanziamenti poli-tici nel suo paese, che ha svolto indagi-ni sui potenti e sul nostro presidentedel consiglio, Silvio Berlusconi. L’uo-mo Garzón che fin dall’inizio ha criti-cato Bush per la guerra in Iraq, inutile e“ingiusta”. Che ha espresso duri giudi-zi sulle torture consumate dai soldatiamericani nel carcere iracheno di AbuGraib e su quelle compiute sui prigio-nieri nel campo di Guantanamo. Il giu-dice che ha messo in ginocchio i narco-trafficanti, ma che anche condannacon vigore la «gratuità della pena dimorte, mai una soluzione reale percombattere la violenza» e che invece è«soltanto grave manifestazione di ven-detta e impotenza».

E il Garzón privato. Quello che emer-

un suo compagno di scuola. E il deside-rio di diventare giudice, nato dai rac-conti dello zio Gabriel, diventa per luiun obiettivo irrinunciabile. LasciaJean, il piccolo centro andaluso dove ènato e cresciuto, e va a frequentare l’u-niversità di Siviglia, facoltà di diritto.Studia e lavora, fa il cameriere, il mura-tore, aiuta il padre che intanto si è tra-sferito in città dove ha aperto un distri-butore di benzina. Taglia il traguardo ediventa un uomo di legge.

«Ho raccontato tutto questo ai mieifigli non certo perché sapessi già allorache ne sarebbe nato un libro. Volevo so-lo che loro ricevessero le mie parole. Lemie idee, quelle che avevano respiratoin casa, fin da piccoli».

Per anni combatte il terrorismo in-terno, si fa nemici tra i militanti baschiche lo attaccano. Lo accusano di farsi“paladino dei diritti umani” e proporsicome giudice onesto e indipendente,ma di non alzare un dito per difenderei diritti umani dei loro compagni arre-stati. «Non è vero», protesta lui «il siste-ma di garanzie spagnolo è tra i miglioridel mondo e, se i miei detrattori mi ca-lunniano, è solo perché io sono statointransigente nei loro confronti. E nonè vero che non ho indagato sulle pre-sunte torture che li riguardano. L’hofatto ogni volta che è stato necessario.Da garantista quale sono, anche se so-no contrario all’abuso di garantismo».

Uomo di ferro? Non è così il Garzón.Sul divano della suite che occupa nel-l’albergo romano che lo ospita, confer-ma quanto già raccontato in Un mondosenza paura: «Mi è capitato di piange-re». È accaduto più di una volta; il 12 set-tembre 1989, quando venne assassina-ta Carmen Tagle, «Una mia amica, unacollega con cui spesso lavoravo e allaquale ero molto affezionato». E ancoralacrime, quando a Madrid l’11 marzo2004, un giovedì, va nei luoghi dove lebombe terroriste hanno ucciso tantevittime innocenti e si trova davanti i re-sti martoriati di decine e decine di mor-ti. «Nei miei ventiquattro anni di espe-rienza giudiziaria non mi ero mai con-frontato con l’irrazionalità allo statopuro come in quel momento». Quelgiorno arriva alla stazione di Atocha enon riesce a trattenere le lacrime «Di-nanzi alle lamiere contorte, ai corpiumani incastrati...alle mani tagliate....Non stavo indagando su quei massa-cri», si giustifica «e anche quando è sta-ta uccisa Carmen non dovevo seguire leindagini, lei era solo una mia cara ami-ca». Vuole ricomporre la sua immaginedi magistrato di ghiaccio, che controllaimpulsi e emozioni. «Prima dell’11marzo mi ero occupato di terrorismointernazionale integralista . E sarei tor-nato a occuparmene successivamente.In quel momento non avevo in manol’inchiesta, altrimenti non mi sarei la-sciato andare. Io sono un freddo, so ri-manere freddo. Metto passione e cuo-re in quello che faccio, ma agisco nelpieno controllo delle mie emozioni».

Amici, collaboratori, colleghi con cuicondividere lavoro, esperienze, idee. Ela lotta all’illegalità. In una lettera allafiglia Maria ricorda Giovanni Falcone ela strage di Capaci. «Falcone è una per-sona che ho molto ammirato e con cui,purtroppo, ho avuto modo di lavoraresolo qualche volta». Cita John O’Neil,un agente dell’Fbi di origine irlandeseche si occupava di terrorismo islamico.«Lo sentii più volte, avremmo dovutoincontrarci presto». Ma caso vuole chea O’Neil, nell’agosto del 2001, venga af-fidato l’incarico di capo della sorve-glianza alle Torri Gemelle. Muore l’11settembre, mentre coordina una squa-dra di salvataggio composta da agentidell’Fbi e della polizia».

Rapporti di lavoro, di stima e di am-mirazione. Ma gli affetti, quelli veri,Garzon li conta tra le gente comune. «Imagistrati sono i miei compagni dicammino, ma i miei amici più cari sonoun ristoratore, un giocatore di calcio,un assicuratore, un meccanico, qual-che poeta, qualche scrittore». Sorride.Non rimpiange nulla del suo passato:«Errori» dice, «se ne fanno tanti e ogniinchiesta lascia un’esperienza. Ma for-se c’è una cosa che non rifarei. Non piùcandiderei più, come invece accaddenel 1993 quando mi presentai nelle li-ste del partito socialista». Aggiusta il ti-ro: «Le motivazioni che allora mi spin-sero a farlo sono oggi le stesse di allora.Ma non prenderei un’altra volta quellastrada, non mi interessa più. Ho capitoche i politici decidono quasi semprequello che fa loro più comodo, nonquello che serve davvero ai cittadini.Anche se adesso qualcosa sta final-mente cambiando. Il diritto riguada-gna terreno e per i politici, perfino peri governi, non è più così facile ignorar-lo. Finora abbiamo imparato a cono-scere la forza della ragion di Stato e delpotere. Adesso è ora di scoprire la for-za della ragione».

Lo zio conservatoregli raccontava,quando lui erapiccolo, le ingiustiziedel franchismo:“Decisi allorache avrei fattodi tutto perchénon si ripetessero”

Gli piace dire che “il giudice non devesolo essere un funzionario,ma è qualcuno che difende i dirittidei cittadini: è un giudice del popolo”.Ha fatto arrestare l’ex dittatore cileno

Pinochet, ha combattutocontro l’Eta e adessoaffronta il terrorismoislamico. Ama lo sport,la poesia, i romanzistorici, la musicaclassica, quella araba,e odia l’arroganza deipotenti. Ora ha raccolto

in un libro le lettere scritte ai figli: “Pertrasmettergli i valori con cui crescere”

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Baltasar Garzón

SILVANA MAZZOCCHI

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