D Laomenica - la Repubblica

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DOMENICA 20 FEBBRAIO 2005 D omenica La di Repubblica L’ VENERDÌ 4 FEBBRAIO hanno rapita. È successo. È un film, un incubo che avevo nella testa da tempo. Non dico che me l’aspettavo ma quasi. Il televideo che tengo sem- pre acceso dà tre righe: Giuliana Sgrena è stata rapita. Telefono al manifesto, chiedo conferma. Penso alla nostra ultima telefonata. Avevo scherzato sul tempo: «Giuliana, l’hai sfangata, qui a Roma fa freddo, da te ci sono venti gradi...». No, non l’ha sfangata. Adesso chissà dov’è. Si risolverà in poche ore? È sta- to un errore? Chiamo i suoi genitori prima che lo sappiano dal Tg. Antonietta è spaventata. Io le dico che andrà tutto bene, lo ripeto anche a me stesso. Andrà tutto bene. Mi pento di non aver chia- mato Giuliana questa mattina. Di solito lo faccio sempre, ogni giorno. Ma mi aveva detto che sarebbe andata alla moschea, non la disturbo mai mentre lavora. E poi l’avessi anche fatto non sa- rebbe cambiato nulla. L’avrebbero presa lo stesso. Devo scegliere le sue foto dal computer dell’ufficio. Lo faccio fare ai miei collabo- ratori. Entro nella fase nuova della mia vita. Sono un uomo sotto i riflettori. Devo raccontare Giuliana per liberarla. Lei si aspetta 7questo da me. Vengono quelli de La7, poi altre televisioni, la sera vado a Primo Piano. Torno a casa tardi. C’è un silenzio diverso. Non dormo, non riesco a leggere, guardo il soffitto. Sabato 5 febbraio Mi alzo senza aver dormito una sola ora. Devo riorganizzare la mia vita, non so quando tornerà Giuliana. Devo mangiare, darmi un ritmo normale, non posso andare al ristorante ogni sera. Carico la lavatrice di camicie. Vado al supermercato e dal macellaio. Mi chiedono di lei. Non so nulla, so solo che devo mantenere la cal- ma, farmi forza. C’è il congresso dei Ds, mi hanno invitato a un di- battito. Trovo gli amici che trepidano per me e per Giuliana. Mi fer- mo con Fassino, D’Alema e Minniti. Gad Lerner mi dà appunta- mento per la sera quando va in onda l’Infedele. (segue nella pagina successiva) testo raccolto da ALESSANDRA LONGO Da quando è stata rapita, Pier Scolari lotta per salvare la propria compagna. Questo è il diario privato della sua battaglia più difficile I miei giorni senza Giuliana le storie Il mio mondovino da bere con il cuore GIANNI MURA cultura Gulag, la verità sui carnefici R.CONQUEST, A. SOLGENITSYN e G. VISETTI la memoria Quarant’anni fa addio alla messa in latino LUCIO FORTE, MARCO POLITI e FABRIZIO RAVELLI le tecnologie Quando l’uomo inventa l’isola che non c’è ETTORE LIVINI e GABRIELE ROMAGNOLI l’incontro Vasco Rossi: il rock e la famiglia GIUSEPPE VIDETTI FOTO FRANCESCO ZIZOLA PIER SCOLARI

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DOMENICA 20 FEBBRAIO 2005

DomenicaLa

di Repubblica

L’VENERDÌ 4 FEBBRAIO

hanno rapita. È successo. È un film, un incuboche avevo nella testa da tempo. Non dico che mel’aspettavo ma quasi. Il televideo che tengo sem-pre acceso dà tre righe: Giuliana Sgrena è stata

rapita. Telefono al manifesto, chiedo conferma. Penso alla nostraultima telefonata. Avevo scherzato sul tempo: «Giuliana, l’haisfangata, qui a Roma fa freddo, da te ci sono venti gradi...». No, nonl’ha sfangata. Adesso chissà dov’è. Si risolverà in poche ore? È sta-to un errore? Chiamo i suoi genitori prima che lo sappiano dal Tg.Antonietta è spaventata. Io le dico che andrà tutto bene, lo ripetoanche a me stesso. Andrà tutto bene. Mi pento di non aver chia-mato Giuliana questa mattina. Di solito lo faccio sempre, ognigiorno. Ma mi aveva detto che sarebbe andata alla moschea, nonla disturbo mai mentre lavora. E poi l’avessi anche fatto non sa-rebbe cambiato nulla. L’avrebbero presa lo stesso. Devo scegliere

le sue foto dal computer dell’ufficio. Lo faccio fare ai miei collabo-ratori. Entro nella fase nuova della mia vita. Sono un uomo sotto iriflettori. Devo raccontare Giuliana per liberarla. Lei si aspetta7questo da me. Vengono quelli de La7, poi altre televisioni, la seravado a Primo Piano. Torno a casa tardi. C’è un silenzio diverso.Non dormo, non riesco a leggere, guardo il soffitto.

Sabato 5 febbraio

Mi alzo senza aver dormito una sola ora. Devo riorganizzare la miavita, non so quando tornerà Giuliana. Devo mangiare, darmi unritmo normale, non posso andare al ristorante ogni sera. Carico lalavatrice di camicie. Vado al supermercato e dal macellaio. Michiedono di lei. Non so nulla, so solo che devo mantenere la cal-ma, farmi forza. C’è il congresso dei Ds, mi hanno invitato a un di-battito. Trovo gli amici che trepidano per me e per Giuliana. Mi fer-mo con Fassino, D’Alema e Minniti. Gad Lerner mi dà appunta-mento per la sera quando va in onda l’Infedele.

(segue nella pagina successiva)

testo raccolto da ALESSANDRA LONGO

Da quando è stata rapita, Pier Scolari lottaper salvare la propria compagna. Questoè il diario privato della sua battaglia più difficile

I miei giornisenza Giuliana

le storie

Il mio mondovino da bere con il cuoreGIANNI MURA

cultura

Gulag, la verità sui carneficiR.CONQUEST, A. SOLGENITSYN e G. VISETTI

la memoria

Quarant’anni fa addio alla messa in latinoLUCIO FORTE, MARCO POLITI e FABRIZIO RAVELLI

le tecnologie

Quando l’uomo inventa l’isola che non c’èETTORE LIVINI e GABRIELE ROMAGNOLI

l’incontro

Vasco Rossi: il rock e la famigliaGIUSEPPE VIDETTI

FOTO FRANCESCO ZIZOLA

PIER SCOLARI

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la copertinaDiario privato

La notizia del sequestro in Iraq vista su Televideo,lo smarrimento ma anche la consapevolezza di doverlottare “perché Giuliana si aspetta questo”. La pauraper i messaggi Web, l’affetto della gente. Soprattuttola vita quotidiana da continuare: facendo la spesae stirando le camicie

28 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 20 FEBBRAIO 2005

(segue dalla copertina)

Torno a casa, mi faccio una bistecca e va-do al manifesto. Lì mi sento più tranquil-lo. Se arrivano notizie le so in tempo rea-le. Il Consiglio degli Ulema ha lanciatoun appello per la liberazione di Giuliana.Dicono che non è una spia. Mi sorpren-

do a pensare che anche questo è un film già visto.Quando immaginavo lei rapita, pensavo anche cheavrebbero fatto comunicati di questo tipo. Alle 18 c’èla manifestazione in Campidoglio. Ci vado a piedi. Èil primo impatto con la folla e soprattutto con la res-sa dei mass media. In pochi minuti sono circondatodalle televisioni, dai fotografi, dai colleghi di Giulia-na. Veltroni mi ospita nel suo studio. Walter lo cono-sco da una vita, dal ’73. Non riesco a dirgli di no quan-do mi chiede di salire sul palco. Ci sono anche le Si-mone. Giuliana mi parlava sempre di loro. Dicevache quando aveva voglia di una pausa, di un caffè, diricaricare le pile, andava da loro, dalle ragazze. Miconfortano: in prigione non le hanno mai sfiorate,hanno mangiato regolarmente. Il Campidoglio è il-luminato. Srotolano un enorme foto di Giuliana.Starà lì finché lei non torna. Quando vedo il suo vol-to, sento un pugno nello stomaco. È un momentodrammatico. Penso che è tutto vero, l’hanno davve-ro rapita. Vado a casa. Mi guardo tutti i notiziari finoa stordirmi. Riesco a dormire un po’.

Domenica 6 febbraio

Mi sento tutti i giorni con Antonietta e Franco. Dob-biamo tutti insieme arrenderci all’idea che sarà unacosa lunga. Passo la mattinata al telefono. Mi chia-mano, chiamo io. Cerco di capire, sapere. È un mododi non avvertire il silenzio in casa. Il pomeriggio c’è In-ter-Parma. Guardo la partita ma non me ne frega nul-la, nemmeno quando l’Inter pareggia. Mi sento an-che in colpa ad essere davanti alla televisione. Pren-do l’asse da stiro e stiro le camicie. Poi vado al mani-festo. Stanno lavorando all’edizione straordinaria. Lofanno per Giuliana, per tenere alta l’attenzione. Lorotengono i contatti istituzionali, io ho l’incarico di farela “Lecciso”. Devo andare in televisione, rilasciare in-terviste. Non diamo peso ai messaggi Internet che ar-rivano. Giuliana mi ha insegnato con la sua esperien-za a diffidarne, sia quando sono belli, sia quando so-no brutti.

Lunedì 7 febbraio

È iniziata un’altra settimana, è lunedì. Giuliana è sta-ta rapita venerdì. I giorni passano. Aveva un bigliettoaereo per rientrare intorno al 10. Non credo che ce lafarà a usarlo. I tempi si allungano. Mi piacerebbe cre-dere all’ultimo messaggio Internet. Dice che prestosarà libera. Gli esperti non lo considerano autentico.Devo organizzare la mia vita pensando realistica-mente che la soluzione non è vicina. Mi chiedo serientrare o no al lavoro, se rimandare le cose urgentiche ho da fare. Adesso mi devo occupare di Giulianaa tempo pieno per almeno due, tre giorni. E comun-que non ho la testa per fare altro. La sera vado a Un

Ponte per assieme a una decina di persone. Ci fannovedere il video che hanno preparato per far capire agliiracheni chi è Giuliana. Andrà in onda su Al Jazeera esu Al Arabya. Lo trovo straordinario. Mi regalano unamargherita della pace da mettere sul bavero dellagiacca. Come quella delle Simone.

Martedì 8 febbraio

Mi preparo la colazione da solo. Non c’è lei a portar-mela come fa quando è a Roma. Arriva il comunicato“brutto”. Dice che l’hanno giustiziata. Lo so che an-che questo non è autentico, gli esperti lo definisconouna panzana colossale. Però leggere quelle frasi nonè facile. Mi cucino qualcosa, corro al manifesto. Deci-ne di colleghi di Giuliana aspettano di poter vedere ilvideo sulle emittenti arabe. Passano ore, poi ecco il vi-so di Giuliana su Al Jazeera. È un’emozione, è mera-vigliosa! Cazzo! Hanno sbagliato l’età. Le hanno dato57 anni e lei ne ha 56. Ricordo come si arrabbiò conme quando, durante la prima guerra del Golfo, michiesero la sua età per un reportage sulle inviate inprima linea. Dissi 43 ma erano 42. Giuliana se la pre-se, devi stare attento… Mi è difficile esibire le emo-zioni che provo davanti a tutti. È una fatica terribile.

La sera cucino, devo mangiare qualcosa. Sciacquo ipiatti, accendo su Rainews24. Cerco di leggere un li-bro, non ci riesco.

Mercoledì 9 febbraio

Il manifesto lancia l’idea di una manifestazione perGiuliana. La data è il 19 febbraio. Certo se lei tornassesarebbe una festa. La immagino sul palco con la gen-te che applaude. In questi giorni ho avuto paura. Si èparlato di un blitz degli americani. Non sono matto,capisco le ragioni ma capisco anche il pericolo checorre un ostaggio. Magari agli americani non glienefrega niente di una giornalista comunista italiana.Spero solo che, al caso, sia un blitz finto, concordato.Alla fine mi convinco, parlando con chi segue lo svi-luppo della vicenda, che il blitz non lo faranno. Al ma-nifestoarriva Prodi. Parliamo della manifestazione disabato 19, poi di politica. Mi piace parlare di politica.L’ho fatta, l’ho abbandonata deluso ma è sempre ri-masta la mia passione. Ed è la politica che si intreccianella vicenda di Giuliana, nella nostra storia. Se qual-cosa dovesse andar male sarà colpa nostra, vorrà di-re che non siamo stati capaci di sconfiggere la guerra,di far prevalere le ragioni della pace. Giornata lunga.

Arriva anche Casini. Mi dice che ha conosciuto Giu-liana durante un dibattito parlamentare. Poi vado aControcorrente, su Sky.

Giovedì 10 febbraio

Non ho rimesso a posto niente ma faccio venire la Bbca casa mia. C’è il sole, si sta sulla terrazza. Tre ore di in-tervista. Le domande sono in inglese, la risposta la doin italiano. Non sono Giuliana che parla quattro lin-gue perfettamente. Io mi arrangio e qui devo espri-mere concetti troppo complessi per rischiare. Misento abbastanza di buon umore. Ho informazioniche mi fanno pensare che Giuliana sia viva e stia be-ne. Ho dato al portiere il numero del cellulare. Così igiornalisti evitano di stare sotto casa per ore. Penso aquando tornerà Giuliana, al caos che ci sarà. Vorreiche fosse domani. Nel pomeriggio arriva BarbaraSchiavulli. Stava con lei, nella stessa stanza al Palesti-ne. Mi racconta dei bagagli. Già, i bagagli di Giuliana.Non ci avevo pensato. Barbara mi dice che ci ha mes-so un sacco di tempo a piegare le camicie e i golf. Giu-liana ha questa mania di mettere ogni cosa, una peruna, in un cellophane e poi gira con le carte, tante car-te. Adesso i bagagli sono all’ambasciata americana.Non so se li porteranno qui o aspettano di consegnarlia lei. Hanno scassinato anche la cassaforte dell’al-bergo di Bagdad. Io sapevo la combinazione, usiamosempre la stessa da anni, ma non me l’hanno chiesta.Dentro c’erano solo soldi.

Venerdì 11 febbraio

Oggi Walter Veltroni sarà alla moschea di Roma dovel’Imam fa un appello per Giuliana. Voglio che restiuna cosa istituzionale. Non ci andrò, preferisco che civada Gabriele Polo per il manifesto. Nel pomeriggiosono dai Ros che mi vogliono interrogare. Atto dovu-to. Stanno a Villa Ada, dove c’era un’antica casermadei carabinieri a cavallo. Mi accolgono gentilissimi.Mi dice, ridendo, l’ufficiale: «È un posto umido, han-no tolto i cavalli e messo noi». La sera, inviti degli ami-ci, ma non ho voglia. Ho paura che non prenda il cel-lulare ma soprattutto non mi va. Preferisco tornare algiornale. Prima non ci andavo mai, aspettavo Giulia-na sotto, in macchina. Adesso è come se inconscia-mente mi volessi sostituire a lei, stare dove sta leiquando non è in viaggio. L’edizione di domani usciràcon un titolo in arabo che suona «Liberatela». Arriva-no due versioni. Nessuno sa quale scegliere, quale èquella giusta. Trovo la soluzione. Le mando via e-mailall’ex professore di arabo di Giuliana. Lui ci scioglie ildubbio.

Sabato 12 febbraio

La vita va avanti. Devo fare di nuovo la spesa, il buca-to. Cominciano a riconoscermi per strada e nei nego-zi. Mentre peso la verdura sulla bilancia, il direttoredel supermercato si avvicina, mi stringe la mano. Lacassiera mi sorride e mi fa gli auguri. Vado dal macel-laio. Di solito, con Giuliana, lì, nel retrobottega, pren-diamo il caffè. La signora prepara l’espresso con lamoka, io e Giuliana lo vogliamo senza zucchero. Leiodia il coniglio, l’abbacchio e la carne con il grasso. Ioli mangio apposta quando non c’è. Ma non questavolta. Domani sono invitato a Domenica In. Ci andrò

Il giorno dopo mi alzo senza aver dormitouna sola ora. Devo riorganizzarmi, non soquando tornerà. Devo mangiare, darmi un

ritmo normale, non posso andare sempre alristorante. Carico la lavatrice, vado dalmacellaio. Mi chiedono di lei, io non sonulla. Penso solo che mi devo far forza

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L’AFRICA NEL CUOREQui sopra a sinistra, Giuliana con Weldeab Weldemariam,

eroe dell’indipendenza eritrea e intellettuale per 40 anni in esilio.Accanto, un’altra foto scattata nel paese africano

L’INIZIO DELL’INCUBOÈ la tarda mattinata di venerdì4 febbraio. Pier Scolari haappena appreso da Televideoche Giuliana è statasequestrata. Primadi chiamare il manifesto

per chiedere confermaannota sulla sua agenda:«L’hanno rapita»

PIER SCOLARI

“Venerdì 4, l’hanno rapitacomincia la mia battaglia”

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con Barbara Schiavulli. Prima di passare al giornale,ritiro il bucato dal terrazzo condominiale. La sera c’èInter-Roma. Dopo il primo tempo, appare lo striscio-ne «Liberate Giuliana». È una cosa bella, mi fa bene.

Domenica 13 febbraio

Mi avvertono alle 11 e 30. Guarda che a mezzogiorno,all’Angelus, il Papa farà un appello per Giuliana.Chiamo Franco e Antonietta per avvisarli. La vocenon è quella del Papa. Chi legge sottolinea che è «unappello accorato». Un mio amico vaticanista mi spie-ga che è qualcosa di più di un appello, è quasi «un or-dine di servizio»: tutti devono pregare per la libera-zione di Giuliana. Penso a lei, a come questa cosastraordinaria le segnerà la vita. Più di così non si puòfare, più di così non posso fare! Sono ateo, difficile cheil Padreterno intervenga direttamente. Aspetto Bar-bara per andare a Domenica In. Mi sono posto il pro-blema se accettare o meno, se Giuliana apprezzeràuna cosa del genere: io da Mara Venier. Non glieloposso chiedere. Devo decidere da solo. Mara Venierè gentilissima, mi assicura al telefono che avrò tuttolo spazio possibile. Al manifestomi prendono in giro.

Lunedì 14 febbraio

Stasera c’è il concerto all’Olympia di Parigi, per Flo-rence, Hussein e Giuliana. Mi hanno chiesto se vole-vo andare ma io preferisco rimanere a Roma. Giulia-na pensa che Florence sia una donna coraggiosa, l’haconosciuta nei tanti viaggi in giro per il mondo. Di leimi diceva che era capace di andare in giro la notte dasola. Quel che non ha mai convinto Giuliana è il se-questro di Margaret Hassan, l’inglese sposata con uncittadino iracheno. L’hanno uccisa e il suo corpo nonè mai stato trovato. Giuliana voleva andare a parlarecon il marito. Mi ritrovo a pensare che è un altro lu-nedì. Un’altra settimana è passata. Ho lasciato com-pletamente perdere il lavoro ma ci sono cose che van-no fatte, fatture in scadenza, una gara d’appalto di cuiattendo il risultato. I miei collaboratori sono amici,mi fanno da filtro. Vado in ufficio proprio perché soche lì mi proteggono, lì posso rispondere alle telefo-nate, riposarmi un attimo. Cercare di salvare la pro-pria donna e lavorare è difficile. Non ce la faccio a fa-re tutte e due le cose insieme. All’Olympia è andataper noi Luciana Castellina. In Place de la Republiquec’è un enorme manifesto con il volto di Giuliana. Leicosì schiva è dappertutto. Sono sicuro che se potessevedere le foto avrebbe da ridire. Non hai scelto le mi-gliori, mi direbbe.

Martedì 15 febbraio

Aspetto un segnale. È un’attesa difficile, snervante.Tutto fa pensare che in qualche modo la trattativa siastata avviata. Bisogna avere prove che Giuliana è in vi-ta. Un messaggio? Un video? Ci invitano al massimoriserbo. Man mano che passano le ore l’angoscia au-menta, anche al giornale. Mi chiedo che cosa si pos-sa ancora fare per aiutare Giuliana. Cerco di immagi-narla con i suoi rapitori. Avrà stabilito dei rapporti?Sarà in grado di interloquire in arabo? E loro, i rapito-ri, hanno capito davvero chi è, chi hanno preso? Pas-sano i giorni e lei avrà finito le sue tisane. Di sicuro ave-va qualche bustina nella borsa quando l’hanno se-

questrata ma a questo punto le avrà finite. E questoper lei, abituata a prenderle, può essere un problema.

Mercoledì 16 febbraio

«Pier aiutami tu». Giuliana mi chiede di salvarla! Nonmi sarei mai aspettato una cosa simile, mai di veder-la a mani giunte. È arrivato il video dei rapitori: tutti itg aprono con la faccia di Giuliana. È una prova du-rissima. Lei ha i capelli sciolti, non è velata, le hannodato altri vestiti, ha un giubbotto verde. Lo sfondo èbianco, non ci sono armi, non si vedono terroristi. Hala faccia magra, è lucida, mi chiede di salvarla, di mo-strare le foto che aveva scattato in ospedale ai bambi-ni colpiti dalle cluster bomb americane. Questo nonè il film che avevo in testa. Mi prende lo scoramento.Immaginavo un video come quello dei tre bodyguarditaliani. Parlavano pochissimo, mangiavano, sem-bravano abbastanza tranquilli. Questo è un’altra co-sa, è un appello lungo, drammatico. Mi prende lapaura di non farcela, di non riuscire a salvarla. Cercodi rimanere freddo, in mezzo alle telefonate, alle pri-me telecamere che arrivano. Devo calmarmi e pen-sare a che cosa può significare questo video. Vogliodecifrare tutto, le inflessioni della voce, l’espressione

degli occhi, le mani. Voglio vedere queste immaginiche mi fanno male cento, mille volte, per capire. Leimi chiede di salvarla, mi dà questa responsabilitàatroce. Mi verrebbe da dirle: «Perché mi fai questo?Perché un peso così tremendo?». Ma capisco, è giu-sto così. Sono io che la conosco meglio di tutti, io chela posso tirare fuori di lì, Giuliana si sta giocando lapartita della vita. Devo farcela. È una prova, una sfidacon me stesso. Anch’io mi gioco una partita, senza ri-vincita. Mi dico da solo che devo rimanere lucido, cer-care di valutare la situazione come l’ostaggio fosse unestraneo. Non posso piangere, non posso disperar-mi. Devo abbandonare ogni sentimento anche a co-sto di apparire cinico. Al manifesto è pieno di giorna-listi. Skyha una diretta. Rilascio 42 interviste in pocheore. Sono stanco ma devo farmi forza.

Giovedì 17 febbraio

Il video di Giuliana ha turbato tantissima gente. En-tro mio malgrado in una fase di massima esposizio-ne. Tutti devono sapere, a tutti devo raccontare checosa faceva Giuliana, il suo lavoro in Iraq, la sua ricer-ca della verità sul campo. Vado ad Uno Mattina, daMaurizio Costanzo. Anche da Magalli: prima di me

viene l’appuntamento con gli oroscopi. Del Sagitta-rio, il segno di Giuliana, dicono: «Situazione esplosi-va». Sono in diretta, commento: «Per fortuna gli oro-scopi sono delle scemenze». Mi rendo conto di checosa significa il volto di Giuliana a mani giunte, la suarichiesta di aiuto trasmessa ogni ora, pubblicata daigiornali. Cammino per strada e mi fermano, mi strin-gono le mani. È una cosa alla quale sono imprepara-to, mi lascia interdetto. Per una frazione di secondo,penso che si siano sbagliati, che non sono io la perso-na che confortano. Poi realizzo. In tanti mi dicono:«Saremo alla manifestazione di sabato». Il tassistache mi porta al giornale esce dalla macchina e mi ab-braccia. «Coraggio», mi dice. È dura ma ce la devo fa-re per Giuliana, l’ho promesso a me stesso. Domaniarrivano i suoi genitori con il treno. La casa è un disa-stro. Devo mettere un po’ a posto.

Venerdì 18 febbraio

Oggi non ho grinta, mi sento svuotato. Comincio a te-mere che non la vedrò più. In diretta con Rainews,parlando di Giuliana, uso, senza rendermene conto,l’imperfetto. Lei pensava, lei diceva. Mi correggono.Hanno ragione. Lei pensa, lei dice. È solo un cedi-mento. La giornata è lunga, devo andare all’Adnkro-nos dove preparano un video su Giuliana da manda-re alle televisioni arabe. I giornali scrivono che è pos-sibile l’arrivo di un altro segnale. Immagino che sequel primo video è stato letto come un’apertura, no-nostante la disperazione di Giuliana, qualcosa devepur seguire. Alla manifestazione di domani hannoaderito in tanti. Mi telefonano da tutta Italia. I mieiamici di Avanguardia Operaia mi mandano una e-mail: «Ti abbiamo rivisto dopo 25 anni da uno scher-mo televisivo, il dolore negli occhi. Affiorano i ricor-di, molto belli, della nostra storia». So che domani miemozionerà sentire il nome di Giuliana pronunciatodalla gente. Vado a prendere i suoi genitori, ci ab-bracciamo. Li porto al manifesto. Per loro è la primavolta. Franco parla con i giornalisti. È ottimista, sor-preso dall’accoglienza della città, dalla solidarietàche ha incontrato. Il video su Giuliana è venuto bene:la voce è di Mahnaz Bassam, la ragazza che era statarapita con le due Simone. Conosce Giuliana. Mi ab-braccia e mi augura buona fortuna. Sarà anche lei al-la manifestazione.

Sabato 19 febbraio

È il giorno della manifestazione. Sfilerò con i genitoridi Giuliana, con i colleghi del manifesto, con decinedi migliaia di persone arrivate da tutta Italia. Se sololei potesse saperlo.

testo raccolto da ALESSANDRA LONGO

Ho lasciato perdere il mio lavoro, ma ora cisono cose che vanno assolutamente fatte.Vado in ufficio, i miei collaboratori mi

proteggono, lì posso riposarmi un attimo. Provarea salvare la propria donna e lavorare èdifficile, impossibile. Resisto. Giocoanch’io la mia partita. Senza rivincita

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IL VIDEO CON L’APPELLOMercoledì 16 febbraio. Le televisioni di tuttoil mondo mandano in onda le immaginidel video di Giuliana. L’appunto sul diariodel compagno è drammatico: «Pier aiutamitu!! Lei mi chiede di salvarla»

L’IMPEGNO POLITICONella foto qui sopra a sinistra, Giuliana Sgrena con un gruppo

di bambini eritrei. A destra, la giornalista a un convegno con KhalidaMessaoudi, leader del movimento femminista algerino

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EROMA

ra la prima domenica diQuaresima, 7 marzo 1965,quando Paolo VI vestì i para-menti per celebrare la prima

messa in italiano. Con spirito missiona-rio e il gusto intellettuale di chi ama lega-re visivamente le novità ad un simbolo,papa Montini non celebrò il rito in SanPietro, ma scelse una parrocchia sul-l’Appia Nuova, la chiesa di Ognissanti.

«Questa domenica — annunciò du-rante l’omelia — segna una data me-morabile nella storia della Chiesa, per-ché la lingua parlata entra ufficialmen-te nel culto liturgico». La Chiesa, ag-giunse, «ha sacrificato tradizioni di se-coli per arrivare a tutti».

La messa in italiano rappresentò ilprimo, rivoluzionario frutto del concilioVaticano II. Ma fu anche — ricordano iprotagonisti di quella stagione — unaforzatura, incoraggiata sotterranea-mente da Paolo VI. «Un salto della qua-glia! — racconta monsignor GaetanoBonicelli, già segretario aggiunto dellaCei, che a ottant’anni non ha perso il pia-cere del parlar vivace e figurato — Infat-ti il documento del concilio diceva che lamessa era in latino con alcune parti initaliano». L’archivio dà ragione al vesco-vo. La “Sacrosanctum Concilium”, lacostituzione sulla liturgia approvata neldicembre del 1963 (primo documentodel Vaticano II), era molto prudente. «Sipossa concedere nelle messe celebratecon partecipazione di popolo — affer-ma il testo non senza contorsioni — unacongrua parte alla lingua volgare… Siabbia però cura che i fedeli sappiano re-citare e cantare insieme anche in lingualatina le parti dell’Ordinario della messache spettano ad essi».

Eppure già per arrivare a questo pri-mo, parziale obiettivo vi furono aspreresistenze tra i padri conciliari. Il pro-fessor Alberigo, all’epoca accanto aDossetti teologo dell’arcivescovo Ler-caro, impegnatissimo nella riforma li-turgica, racconta di aver incontrato neiprimi mesi del Vaticano II lo stesso Ler-caro affranto per le difficoltà. «Mi rac-contò piangendo che c’era un’opposi-zione durissima, temeva di non riusci-re a superarla». In prima linea a sbarra-re la strada a novità percepite come pe-ricolose stavano i vescovi italiani equelli spagnoli. L’argomento utilizzatodai conservatori era che bisognava sal-vaguardare la tradizione e il mistero deiriti. «Dicevano che il latino racchiude-va più il senso del sacro e del mistero…dicevano che così si capiva la messa daNew York all’Africa!», afferma il gesuitaGiacomo Martina, grande esperto del-la storia della Chiesa italiana.

L’intuizione di papa Montini, una vol-ta approvato il documento conciliare, fudi affidare a Lercaro e ad un altro serioriformatore, padre Bugnini, l’incarico diguidare una commissione per prepara-re il nuovo messale. L’opera fu eseguitacon successo. Nell’arco di un quinquen-nio furono pronti il nuovo messale, ilnuovo calendario, i nuovi riti dei sacra-menti. E intanto aveva cambiato dire-zione anche il celebrante, collocato al-l’altare in modo da guardare i fedeli.

A quarant’anni di distanza resta nel-l’animo di chi visse il passaggio un’e-mozione speciale. «Era un godimentocelebrare così — esclama Bonicelli —perché il bello della lingua parlata era diavvicinare tutti di più ai misteri dell’eu-caristia. I fedeli da spettatori diventa-vano protagonisti». Fu anche un bel-l’aiuto, soggiunge, «per formare reli-giosamente le nuove generazioni. Unfatto provvidenziale. Se oggi non fossecosì, dove saremmo?».

Anche monsignor Antonio Riboldi,che in quegli anni era parroco nel Belicea Santa Ninfa, rievoca quei giorni come«svolta miracolosa». Da un lato la sensa-zione che «la gente capiva cosa dicevi» edall’altro anche l’emozione per il cele-brante: «Dire in italiano alla consacra-zione “Questo è il mio corpo” coinvolge-va ancora di più, proprio per l’enormitàdi quelle parole. Era come una scossa ainterrogarsi: ma cosa sto dicendo?».

Fino a prima della riforma tutto sisvolgeva in un’atmosfera che oggi nonè nemmeno immaginabile. «In Brianzadove sono nato e cresciuto — spiega Ri-boldi — il novanta per cento dei parroc-chiani veniva alla messa, ma per loro illatino era un mistero. Durante il rito lagente pia recitava il rosario e gli uomini,

parlo degli anni Trenta, stavano fuoridella porta attendendo la fine della pre-dica. Poi entravano per l’offertorio, laconsacrazione e la comunione. In Sici-lia, poi, di uomini in chiesa non ne veni-vano tanti. La messa era roba da donne,vecchi e bambini. Non per l’uomo».

La nuova messa portò con sé anchel’accesso dei laici a funzioni mai svoltein precedenza. Uomini e donne comin-ciarono gradualmente a leggere i branibiblici prima del vangelo e a creare i te-sti della “preghiera dei fedeli”. Comin-ciò anche la stagione dei nuovi canti edi nuove musiche. Riboldi non ne ha unbel ricordo: «Arrivarono le batterie, itamburi… roba da far rizzare i capelli.Mentre la gente comune si ritrovava neivecchi canti popolari».

Come in tutte le rivoluzioni anche lariforma liturgica era stata preceduta dauna lenta incubazione. Al Nord, in Fran-cia e in Germania, le lingue nazionali

erano già state inserite parzialmentenella messa per concessione papale sindai tempi di Pio XII e comunque eranogià in uso i messalini bilingui. Certi mo-nasteri, come Maria Laach in Germania,registravano un afflusso eccezionale digiovani la domenica proprio perché il ri-to era capito nella lingua quotidiana. Mal’idea sacrale del latino rimaneva nono-stante tutto fortissima. Padre Martinaconfessa che vedendo un giorno alla te-levisione una messa a Parigi, in cui laconsacrazione veniva detta in francese,esclamò: «Qui si sta esagerando!».

Su questo mito si basò il contrattaccodel vescovo francese Marcel Lefebvre,che definì la riforma liturgica «massimoerrore» del concilio, accusando pratica-mente di eresia i testi conciliari e i papiche li avevano promulgati. L’anticamessa post-tridentina di Pio V, natural-mente in latino, divenne il vessillo delsuo movimento tradizionalista in rot-

tura aperta con il Vaticano. Lefebvrestesso fu scomunicato nel 1988 per averordinato vescovi per il suo movimento.Da allora, sebbene Giovanni Paolo IIabbia accordato il permesso di celebra-re messe anche con il vecchio rito, la rot-tura non si è mai sanata.

Giovanni XXIII, che aveva messo inmoto la valanga del concilio, non potépiù assistere agli enormi cambiamentiche si produssero. Ma Loris Capovilla,il suo antico segretario, ci apre uno spi-raglio sul modo profetico con cui sape-va introdurre delle novità. «Stava inTurchia nel 1936 e pensò che sarebbestato bello dire una preghiera anchenella lingua del posto. Così decise chealla benedizione del santissimo sacra-mento nella cattedrale di Santo Spiritoa Istanbul avrebbe detto “Dio sia bene-detto” in turco. Apriti cielo! Non era unrito, si badi bene, era soltanto una de-vozione. L’ambasciatore francese pro-

testò presso la Santa Sede, dichiarandoche “Roncalli stava sovvertendo la li-turgia”. Una protesta ufficiale».

E come andò a finire? «Dopo un po’Roncalli venne a Roma, chiamato daPio XI, e durante l’udienza aspettavacontinuamente di essere rimproverato.Visto che il papa non affrontava l’argo-mento, disse lui stesso: “Ho sentito cheSua Santità si è lamentata per certe mieiniziative… ma era un pensiero per ilpaese che ci ospita”. Pio XI lo guardò edesclamò in latino: “Qualcuno semina equalcun altro farà la mietitura”. Così».

Andò a finire che Roncalli divennepontefice e, quando il presidente dellaTurchia giunse in visita ufficiale nel1960, Giovanni XXIII ricordò quell’epi-sodio commentando: «Ma Pio XI non fuprofeta. Perché io ho seminato e io fac-cio la mietitura».

È proprio vero, i mulini di Dio maci-nano lenti.

MARCO POLITI

La messa di tutti

la memoriaSvolte d’epoca

Il 7 marzo 1965 papa Montini celebrò in una parrocchiadella periferia romana la prima messa in italiano.“La Chiesa - disse-ha sacrificato tradizioni di secoli per arrivare a tutti”. Ma lo scontrosulla novità voluta da papa Roncalli era stato durissimo e avevaaperto delle ferite che ancora non si sono rimarginate

Un testimone raccontala resistenza di chi volevaconservare il rito in latino:“Il cardinale Lercaromi raccontò piangendoche c’era un’opposizionedurissima, temeva di nonriuscire a superarla”

30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 20 FEBBRAIO 2005

“miracolo” del concilio

Page 5: D Laomenica - la Repubblica

«B ECÔNE

envenuto», sussurra con un soffio divoce l’abbé Lorenzo Biselx, che ha

fatto a passettini veloci il corridoio tirato a lucido.Incrociamo seminaristi altrettanto rapidi e silen-ziosi, che al saluto rispondono solo con un cennodel capo e filano via, come se avessero ruote gom-mate sotto la veste nera. «Sono in silenzio per tregiorni - spiega Lorenzo parlando all’orecchio - Ri-ceveranno gli ordini minori, e la tonsura». Daun’aula vicina arriva velato il suono dell’armo-nium. «Venga, venga che le mostro il seminario».

C’è un vago odore di cera e minestrone, qui nel-la West Point dei lefebvriani, dove si forgiano i sol-dati della tradizione scismatica, nelle aule dove ilConcilio Vaticano II è ripudiato come data fune-sta, i cui influssi di odiato modernismo e conta-minazione sono combattuti con rinnovati segni dicroce e preghiere latine. L’ossequio caparbio allatradizione, che ci immaginavamo esercitato inmisteriose oscurità, all’ombra di decorazioni ba-rocche, fra mobiloni neri spagnoleschi e magicivapori, qui è invece praticato in locali di spoglia eforse deludente modernità, da collegio svizzero.L’abbé Lorenzo ne è orgoglioso: «Tutto è sempli-ce, pulito. Vede?». Mostra il refettorio: le sedie dilegno chiaro, i tavoli con la grande ciotola delmalto, un solo enorme crocifisso di legno scurosopra il posto che era di monsignor Lefebvre. Luiancora sorveglia con occhi aguzzi il pasto degli al-lievi, da una grande foto a colori. «Moderno, tut-to moderno. Qui una voltac’era il pollaio, ora ci man-giano i seminaristi», ridel’abbé, coprendosi la boccacon la mano.

L’edificio una volta erauna casa agricola della con-gregazione di San Bernardo.Ecône è il primo seminariodella “Fraternità sacerdotaleSan Pio X”, la comunità fon-data da monsignor MarcelLefebvre nel 1970 per «conti-nuare quello che la Chiesa hasempre fatto». E cioè per op-porsi alle aperture sancitedal Concilio Vaticano II, perresistere al nuovo. Oggi i le-febvriani hanno 6 seminarisparsi per il mondo, circa 450sacerdoti in 59 paesi, 115suore della fraternità, 68suore oblate, 180 case, circa200 altri luoghi di culto. Qui aEcône ci sono 50 seminaristi,3 frati, 7 suore, 6 sacerdoti, un vescovo.

Morto (nel 1991) il fondatore, la comunità hacontinuato a macinare il suo lavoro senza eccessi-vi exploit: «Noi non facciamo proselitismo - dicecon un sorriso di ferro Benoît de Jorna, francese diRouen, direttore del seminario - Facciamo l’apo-stolato ordinario della Chiesa. Non siamo i testi-moni di Geova, e nemmeno quelli del reverendoMoon». L’edificio originale è del ’300, un rusticocasone di montagna coi pavimenti in pietra e le fi-nestre striminzite. Le altre due ali hanno pochi an-ni di vita: grandi vetrate sulle vigne di Fendant,piastrelle, porte da ufficio, garage, il rifugio antia-tomico usato come deposito di carte. «MonsignorLefebvre voleva che non ci fosse acqua calda - di-ce l’abbé Lorenzo - Gli sembrava un lusso eccessi-vo. L’architetto è riuscito a fargli cambiare idea,per fortuna. Qui da metà dicembre a metà gennaioil sole non arriva».

Dev’essere l’unica volta che il vecchio vescovod’acciaio ha cambiato idea: sull’acqua calda. Lesue stanze sono ancora intatte, custodite comeun sacrario, esattamente com’erano il giorno del-la sua morte. Nello studio, sopra un tavolino, ilsuo orologio da polso, la grande croce d’oro cheportava al collo, lo zucchetto porpora, una foto diPadre Pio: «Erano grandi amici, anche lui ha con-tinuato a dir messa in latino fino alla fine». L’abbéLorenzo saltella qui e là, trepidante: «Tutto, tuttocom’era». L’orologio sulla scrivania è fermo alle19,45 di chissà quando, il calendario segna l’8marzo. Sul letto bianco, minuscolo e spoglio, staadagiata una mozzetta rossa: «La stessa che usa-va san Pio X».

Una foto di Lefebvre in Gabon, col fratello e lasorella: portano tutti il casco coloniale. Nell’ora-torio privato, il motto Et nos credidimus caritati,l’inginocchiatoio di panno blu, la parure da viag-gio per i calici da messa. Anche la grande chiesa sadi nuovo («Non è mai stata finita del tutto»), di le-gno chiaro per il soffitto e le panche («Fabbricateda fedeli tedeschi, dureranno secoli»), con l’altareprovvisorio dove il celebrante dà le spalle ai fede-li. C’è ancora un’impalcatura dove verrà sistema-to il grande organo, che stanno costruendo in Au-stria. Le pareti sono bianche, spoglie, senza qua-dri né decorazioni. La cappella sotterranea ha seialtari laterali: «Noi non concelebriamo mai lamessa». Qui, alle 17,30, se ne celebrano sette tutteinsieme. E poi il chiostro, nuovo pure quello, ilconvento per le suore, la grande statua di San Pio

X nel cortile (somiglia vagamente a Lefebvre), da-vanti alla quale i seminaristi si fanno la foto digruppo dopo l’ordinazione.

Gli arnesi della tradizione sembrano quasi fuo-ri posto, in questo lindore luminoso di intonaci epiastrelle. Nere le talari dei seminaristi, le lunghetonache che da noi portano solo certi vecchi par-roci di campagna e don Baget Bozzo: «Abbiamo ilpermesso di non indossarle solo quando usciamoper fare sport, il mercoledì e la domenica. Ma qua-si tutti la portano lo stesso, anche per sciare e pergiocare a calcio».

Nere le giacche a vento appese nel seminterrato.Oro scuro sul taglio dei vecchi messali dalla coper-tina in cuoio, ordinatamente impilati sopra l’attac-capanni dove stanno appese le cotte bianche.

I seminaristi sono tutti magri, i capelli a spaz-zola, lo sguardo basso dell’umiltà imposta e ac-cettata. C’è fra loro un solo italiano, che viene daCamerino. Sono per lo più francesi. Quand’era vi-vo Lefebvre, ogni sera si schieravano in una sala ariverirlo: piegavano il ginocchio sul pavimento,col rumore sincrono di un plotone militare, poi sigettavano bocconi, la fronte sul pavimento. Luiscrutava quelle schiene immobili davanti alle suescarpe con la fibbia d’argento. Poi alzava appenala mano destra con l’anello d’oro pastorale, e quel-li frullavano via in uno sventolar di tonache, puri-ficati dal rito dell’obbedienza.

Il corpo di monsignor Lefebvre sta in una tombasemplice, insieme a quelli di 5 suore e 7 sacerdoti,tutti dietro identiche lapidi di pietra grigia. Quella

del fondatore ha inciso ilmotto Tradidi quod et accepi,tramandai quel che ho rice-vuto. Si sa che la salma venneimbalsamata: «Forse ungiorno verrà esposta nellacripta». Qui ogni tanto vienequalcuno a porgere omag-gio: «Una volta è arrivato ilcardinale Oddi, e disse: gra-zie monsignore. L’ha dettosolo qui, però, e non in SanPietro». I vecchi oppositoridel Concilio Vaticano II sta-vano dalla sua parte, ma nonfino in fondo. «Anche il cardi-nale Siri lo amava, e ripeteva:Lefebvre è un santo».

Da quel 1988 in cui vennepronunciata la scomunica,dopo che Lefebvre aveva or-dinato quattro vescovi, i rap-porti diplomatici col Vatica-no per tentare una riconci-liazione non si sono mai in-

terrotti. Ma non hanno mai prodotto risultati. «ConRoma la discussione continua - dice l’abbé de Jor-na, il direttore - Ancora l’anno passato c’è stato unoscambio di lettere fra il nostro superiore, monsi-gnor Bernard Fellay, e il cardinale Castrillon Hoyos,prefetto della Congregazione per il clero. Ma perora non c’è accordo possibile. Chiedevamo innan-zitutto che fosse tolta la scomunica, perché la rite-niamo ingiusta e non valida».

Insomma, la distanza con la casa madre resiste:«È un problema di dottrina, di teologia, di verità.Su questo non c’è stato alcun cambiamento. Anzi,forse c’è stato un allontanamento ulteriore daparte di Roma: con le affermazioni sull’ecumeni-smo, con il raduno di Assisi, con la nuova dottrinasulla libertà religiosa». L’abbé de Jorna sorride:«Vede, noi continuiamo a sentirci parte dellaChiesa cattolica. Ci siamo separati solo dalla Chie-sa conciliare, perché era assolutamente necessa-rio. Ma stiamo bene, e siamo sereni». Sorride, malo sguardo è acceso: «Siamo sereni, ma anche rat-tristati dal mondo. L’indifferenza religiosa au-menta, la Chiesa cattolica perde influenza, e arre-tra. Abbiamo un papato forte, ma sono deboli i fe-deli e i vescovi. Deboli nel combattere l’omoses-sualità, la procreazione senza regole. L’ultimaconcessione del cardinale Cotier, che ammettel’uso del preservativo, è scandalosa in senso stret-to. La forza personale del Papa è più da ideologoche da vicario di Cristo. La sua è la strada del per-sonalismo, dell’individualismo».

Non è difficile sentirsi isolati, orgogliosamentediversi e puri, su queste montagne del Vallese si-lenziose e incantate. L’abbé Lorenzo è di un pae-se vicino, qui è stato cresimato bambino. L’abbéde Jorna ha studiato in questo seminario. La tra-dizione è un culto familiare, come il cibo che il vec-chio frate asiatico scodella in tavola ogni giorno.

Laggiù, lontano, c’è un mondo caotico e disor-dinato, di omosessuali e infedeli, di comunisti. Di-ceva monsignor Lefebvre: «Noi siamo per l’ordi-ne, per l’autorità, siamo contro il socialismo e ilcomunismo perché questo ci dice la fede cattoli-ca». Apprezzava Pinochet, amava Franco («Quan-to bene ha fatto alla Spagna»), invitava a votare LePen. E adesso? «La nostra azione è essenzialmen-te soprannaturale, non ci importa se qualcuno ciprende come riferimento politico - sorride sem-pre il direttore - Ma, d’altra parte, non credo chequesto accada. Piuttosto, dica, non vuole assag-giare un mezzo bicchiere del nostro vino?».

FABRIZIO RAVELLI

Nella West Pointdegli eredi di Lefebvre

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31DOMENICA 20 FEBBRAIO 2005

‘‘Consigli al PapaNei primi tempi del

cristianesimo le divineScritture venivano lettenelle chiese in linguaebraica o greca. Era

conveniente infatti chefossero lette tra gli Ebreiin ebraico, tra i Greci in

greco. Ma quando ilnumero dei credenti

cominciò ad aumentaretra i romani e i latini...

i santi Padri compreseroche non avrebbe giovato

nulla che le scritturefossero lette nelle

chiese, senza che ilpopolo le capisse. Perqueste nuove esigenzedei tempi le scritture

furono tradotte in lingualatina, e si cominciò aleggerle in latino nelle

chiese

Vincenzo Querini e TommasoGiustiniani, eremiti camaldolesi

nell’anno 1513

da LIBELLUS AD LEONEM X

IL GIROTONDO DEI PRETINILa foto di pagina è di Mario Giacomelli,appartiene alla serie “Scanno”, datata1961-1963, ed è accompagnata da untitolo: “Io non ho mani che miaccarezzino il volto”, tratto da unapoesia di padre Turoldo

Polemica e curiosità in un articolo del ’65 di Mauro De Mauro

E finì il “requie e schiatta in pace”

«P PALERMO

rima della riforma deliberata dalConcilio Ecumenico, il sacerdote

diceva, nell’aprire il rito: “Introibo ad altareDei” e molti dei fedeli non capivano il signifi-cato di quelle formule astruse. A Napoli, le don-nette in chiesa recitavano l’orazione dei de-funti in latino e interpretavano il “requiescantin pace” — riposino in pace — come requie eschiatta in pace. A Milano ho sentito trasfor-mare il “nunc et in hora mortis nostrae” (ades-so e nell’ora della nostra morte) in incantinoranostra morte. Da domani tutto questo è finito,i feticismi, i riempitivi d’origine medioevalecon cui si era soliti colmare i vuoti che si stabi-livano fra officiante e fedeli durante la celebra-zione della Messa sono banditi dalle chiese.Resta sola e scarna la preghiera di chi crede».

Così Mauro De Mauro, il giornalista corag-gioso che verrà ucciso per il suo lavoro a Paler-mo, annunciava la riforma del rito della Messa.Ed il suo articolo era la strada con cui il giorna-le l’Ora, un quotidiano divenuto sinonimo del-la voce libera di Palermo in quegli anni pesan-

ti, tentava di aprire il dibattito a Palermo.Non a caso, perché proprio Palermo rappre-

sentava una delle roccaforti della resistenza al-le aperture del Papa. De Mauro parlava ai cat-tolici che si aprivano ai “segni dei tempi”, men-tre l’influente cardinale Ernesto Ruffini nonnascondeva i toni anticonciliari. È lo stesso car-dinale che fu accusato di passività nei confron-ti del problema-mafia. De Mauro non può cer-to dimenticarsene. Sceglie di mettere in mo-stra la resistenza su tutti i fronti del cardinale alcambiamento, raccontando con ironia il suointervento su un altro aspetto della riforma:«La nuova liturgia prevede modifiche di strut-tura all’interno di ciascun tempio, che devonoessere approvate da varie Commissioni — scri-ve ancora —. Ma anche per le chiese non sog-gette ad alcun vincolo conservativo il cardina-le Ruffini ha consigliato ai parroci una certaponderatezza nell’affrontare le necessarie tra-sformazioni». E infine, con semplicità all’iniziodell’articolo: «Nel nome del Padre e del Figlio edello Spirito Santo… salirò all’altare di Dio. Co-sì, da domani, diranno i sacerdoti aprendo il ri-to della Messa».

LUCIO FORTE

Monsignor Lefebvre

Page 6: D Laomenica - la Repubblica

le tecnologieArchitettura creativa

Un arcipelago artificiale spuntato sulle acque davantiagli Emirati Arabi destinato a diventare un megaresidence di lusso,una piattaforma alle Maldive per ospitare la popolazione locale“messa in fuga” dal turismo. Sono solo gli ultimi, più clamorosi,esempi della nuova, incredibile sfida: trovare lo spazio dove nonesiste.È il sogno di Peter Pan che si realizza

L’opera di Dubaicosterà 10 miliardidi dollarie nel progetto sonoimpegnati 50 studiprofessionali,al lavoro ci sonooltre 500 operai

32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 20 FEBBRAIO 2005

Seconda stella a destra, poidritto fino al mattino. La stradaper l’isola che non c’è l’hannocercata in tanti. Dall’utopistaTommaso Moro fino a PeterPan. Tutti e due ora avrebbero

meno problemi. L’isola che non c’è, sem-plicemente, oggi c’è: quattro, con forme eoptional per tutti i gusti, stanno spuntan-do dal nulla davanti alle coste degli Emi-rati Arabi. Un’altra, ribattezzata Huluma-le, è affiorata tra le acque cristalline delleMaldive: ci abitano 1.500 persone e sa-ranno 15mila in poco tempo, quandoquesto pezzo di terra appena nato entrerànel Guinness come prima capitale almondo “strappata” al mare.

Eccezioni? No, ormai quasi la regola.Lo spazio non è l’unica frontiera della co-lonizzazione umana. Dal Mediterraneoall’Oceano Indiano tanti Paesi stannoiniziando a cercare sull’acqua gli spazivitali che non trovano più sulla terrafer-ma. E progettano isole artificiali. Perospitare aeroporti, creare nuove città,persino per risolvere il conflitto israelo-palestinese. Oppure, in qualche caso,solo per stupire il resto del pianeta. L’e-sempio più clamoroso è «l’ottava mera-viglia del mondo» — almeno così la chia-mano da quelle parti — che sta sorgendodal mare di fronte agli Emirati arabi: sichiama The Palm, un poker di arcipela-ghi artificiali, naturalmente i più grandimai costruiti, destinati a diventareun’oasi del turismo d’élite. Tre sono iso-le a forma di palma (la più grande lunga14 chilometri e larga 8). L’altro è un grup-po di 300 atollini che ricostruisce sull’ac-qua la forma del planisfero. A lavori ter-minati sarà l’unico manufatto umano vi-sibile dallo spazio a occhio nudo oltre al-la Muraglia Cinese.

Il copyright del faraonico progetto èdi sua altezza lo sceicco Moahmed BinRasheed Al Makthoum, principe re-gnante del Dubai impegnato in un pia-no per ridurre la dipendenza degli emi-rati dal petrolio. Missione già abbon-dantemente compiuta (ormai solo il 6per cento del Pil nazionale è generatodal business dell’oro nero) ma corona-ta ora da questa opera “imperitura”.

Le isole dello sceicco sono un concen-trato di numeri da record. Sono da capo-giro le spese: almeno 10 miliardi di dolla-ri secondo le stime più prudenti. Impo-nente anche lo sforzo per la costruzione:sul progetto sono mobilitati 50 studi pro-fessionali tra architetti, geologi, ambien-talisti, 42 superconsulenti per lo più ma-de in Usa. La parte più dura — i turni este-nuanti per strappare fisicamente le isoleal mare sotto il sole cocente degli Emira-ti — è affidata come accade spesso daqueste parti ai 500 operai reclutati nellaforza lavoro a basso costo importata daFilippine e India. Da 16 cave in giro per gliEmirati arriveranno 7 milioni di metricubi di rocce e nei vivai locali stanno cre-scendo le 12mila palme che proverannoa nascondere con un tocco di verde (manon sarà facile) le decine di edifici di que-sto paradiso per ricchi.

I risultati di questa macchina organiz-zativa si cominciano già a intravedere.Dalle acque del Dubai sono spuntati untronco e diverse fronde della prima pal-ma, mentre le draghe stanno “sparando”la sabbia e le rocce che faranno da fonda-menta per le altre isole. Nel 2010, quandoil mega-cantiere marino dovrebbe chiu-dere i battenti, lo sceicco Al Makthoumavrà regalato al suo emirato 120 chilome-tri di costa in più, oltre a 4mila apparta-menti esclusivi per isola, 60 alberghi dilusso, 60 residenze vip e 6 palazzi realinuovi di zecca. Un’opera ciclopica corre-

data anche da qualche firma italiana: laPaghera, tra gli altri, ha vinto un contrat-to da 80 milioni per pianificare verde e ur-banizzazione di The Palm mentre la Ro-driquez (cantieri navali) è in corsa conprogetti avveniristici per un contrattoper la fornitura delle circa 100 imbarca-zioni (dai traghetti superveloci da 450persone fino ai taxi-catamarani) per i tra-sporti interni del neonato arcipelago.

Sistemazioni e costi sono adeguati al-le ambizioni del progetto: c’è la villa instile arabico con annesso eliporto, quel-la mediterranea e il bianchissimo mo-dello greco. Per gli americani è a disposi-zione la casa Santa Fe, clonata dalle lineearchitettoniche della città del New Mexi-co senza badare troppo al fatto che le co-struzioni originali negli Usa sono studia-te per una località a duemila metri d’al-tezza. I prezzi? Si viaggia, secondo indi-screzioni, dai 5mila dollari al metro qua-dro per le soluzioni più economiche, ai25mila degli sconfinati palazzi reali.Prezzi che servono a selezionare i clientidal loro portafoglio: tra i primi ad aver giàprenotato, non a caso, ci sono già calcia-tori come David Beckham, MichaelOwen e Christian Panucci.

L’altra faccia di questa storia di isoleartificiali è Hulumale. Quasi 3 chilome-tri quadrati di terra spuntata dal mare afianco di Male, capitale delle Maldive.La prima differenza che salta all’occhioè il prezzo. Il governo dell’arcipelago hastanziato per l’operazione partita nel ‘97poco più di 66 milioni di dollari. Unagoccia rispetto al mare di petroldollariinvestiti per il loro sogno dagli emiri ara-bi. Non è solo una questione di econo-mie di scala. Più semplicemente Hulu-male non sarà un paradiso dorato perturisti ma l’opposto: diventerà una spe-cie di “riserva” per i maldiviani che oggiabitano atolli sperduti, destinati a ospi-

tare in futuro solo visitatori stranieri. Lanuova isola farà così da polmone di sfo-go per le necessità di pianificazione tu-ristico-urbanistiche di un Paese costret-to a importare manodopera che poi nonsa più dove sistemare. Hulumale — cheper il 50 per cento è completata — ha su-perato senza troppi danni la prova Tsu-nami (con l’unico spiacevole ricordo diun lago salato che per qualche tempo hacoperto la zona più centrale) ma ha sca-tenato un vivace dibattito politico: trachi sostiene il progetto come un passoavanti della democrazia, sottolineandocome gli atolli più lontani (e più influen-zabili) fossero le aree dove si potevanocomprare le elezioni; e chi lo bolla comeuna deportazione coatta di intere popo-lazioni per inseguire i portafogli dei tu-risti di tutto il mondo.

Quasi nessuna di queste isole “emer-genti” (in tutti i sensi) è sfuggita alle po-lemiche. La pioniera nel campo, adesempio, è quella su cui è sorto l’aero-porto di Osaka. Progetto avveniristicodel ’94 firmato da Renzo Piano, che perprevenire il fenomeno del “compatta-mento strutturale”, come dicono i tecni-ci, ha sospeso questi 1,7 chilometri distrutture aeroportuali galleggianti sul-l’acqua su oltre diecimila martinetti, icugini marini degli ammortizzatori.Questo stratagemma è bastato a far pas-sare indenne all’aeroporto il drammati-co terremoto di Kobe ma per alcuni nonsarà sufficiente in futuro a contenere losprofondamento dell’isola, già “affon-data” di undici metri in sei anni.

Politica, sovrappopolazione e turi-smo si intrecciano anche nel dibattitoisraeliano sulle isole che non ci sono: cin-que di loro dovrebbero sorgere di frontea Tel Aviv al modico prezzo previsto di 3miliardi di dollari. La prima per ospitarel’aeroporto internazionale, le altre nel-

IN FUGA DAI TURISTI La costruzione dell’isola artificialedi Hulumale alle Maldive:qui troveranno spazio i locali“cacciati” dagli altri arcipelaghiper far posto ai turisti

ETTORE LIVINI

Quando l’uomo invental’isola che non c’è

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 20 FEBBRAIO 2005

l’ambito di un progetto di valorizzazioneturistica che fa gridare allo scandalo i pu-risti dell’equilibrio ambientale. Storie,dicono i fautori della colonizzazione del-le acque del Mediterraneo: le nuove co-struzioni, spiegano, combatteranno ilfenomeno dell’erosione delle spiagge,motivo del resto per cui a Malacca han-no già strappato 90 ettari di terra al maretrasformandoli in una sorta di Disney-land delle vacanze.

Il progetto di Tel Aviv ha però avutouno sviluppo “diplomatico” inatteso: lostudio — per ora solo a livello accademi-co — di isole artificiali di fronte alla Stri-scia di Gaza. Nuovi territori rubati all’ac-qua da “regalare” ai palestinesi in cam-bio magari della sopravvivenza di qual-che insediamento di coloni. Qualcosa dipiù di una suggestione: l’idea è arrivatada un documento israelo-olandese ma èfinita sul tavolo di una Commissioneparlamentare, con la benedizione delJaffee Center for strategic studies.

In una terra contesa, dove ogni fazzo-letto di sabbia vale, politicamente par-lando, oro sia per i palestinesi che per gliisraeliani, dicono i sostenitori di questasoluzione, un po’ di isole artificiali po-trebbero far uscire tutti dall’impasse diquesto gioco a somma zero sulle preteseterritoriali. Semplicemente aggiungen-do chilometri quadrati di nuovi spazi do-ve si possono recuperare senza urtare lesuscettibilità di nessuno: sul mare. So-gnare come Peter Pan, in fondo, è lecito.Ancor di più in questo caso. Se alla finel’uomo è riuscito a creare dal nulla unacopia (forse non così felice come quelleletterarie) di isola che non c’è, non è det-to che un domani anche la pace che ogginon c’è possa spuntare a sorpresa. Ma-gari da un pezzo di terra rubato, per unavolta a fin di bene, alle vecchie acque delMar Mediterraneo.

«Artificiale». Chi va a Dubai, da occidente co-me da oriente, emette di solito questo giudi-zio un po’ sprezzante, come se si trovasse di

fronte al plastico davanzale di Anna Nicole Smith inve-ce che in mezzo alle involontariamente (ma quanto)ironiche Dubai Silicon Oasis. Artificiale, certo, ma nonnel senso in cui lo è un naso rimodellato dal chirurgo.Artificiale come un pace-maker: non esiste in natura,ma permette all’organismo di sopravvivere. Poi, va dasé, gli occidentali orientalisti preferiscono il cuore ara-bo autentico, quello malato. Vogliono vederselo da-vanti così, aperto e sanguinolento, le arterie occluse, ilbattito impazzito che rimanda al monitor segnali sen-za speranza. Vogliono incantevole miseria e sublimearretratezza che profumano di passato: vicoli maleo-doranti d’Egitto, affollati suk yemeniti, delabrè enclavesiriane, in cui sia possibile acquistare a basso prezzo(previa lunga contrattazione come consiglia la LonelyPlanet) monili, stoffe e tappeti “autentici”, altroché. Enel menù gradiscono anche un genuino regime oligar-chico a cui sia possibile comparare con sollievo le ma-late democrazie dell’ovest e un pizzico (non troppo) diIslam tradizionalista che renda piacevole il ritorno a re-ligioni così permissive che nessun fedele ne conoscepiù i comandamenti. Quel pace-maker che è Dubai nonpiace neppure agli arabi. Che poi “arabi” sono quellinati a Dubai, semmai. Non gli egiziani, loro sono “fa-raoni”. Non i libanesi, loro sono“fenici”. E se per sbaglio lo diciagli iraniani ti fanno causa(davvero: la intentano a chichiama “arabo” il golfo “persi-co”). Per tutti questi Dubai è unposto dove il sole batte troppoforte e alla gente (a «quegli ara-bi», dicono con sussiego) ven-gono, di conseguenza, ideestravaganti. Infatti loro, i farao-ni, i fenici e gli altri, hanno fi-nanze disastrose e leggi liberti-cide, mentre l’economia di Du-bai è cresciuta dell’80per cento in dieci anni, l’ingressoè libero, la vita pure. Lo ammettessero, aveva ragione ilmai troppo rimpianto Bill Clinton quando diceva: «Du-bai è una straordinaria business story che nessuno haancora raccontato».

Una storia impossibile

È la storia di come ti salvi la vita quando nasci con un cuo-re malato, di che cosa pensi di fare quando lo ripari e, perdi più, vinci la lotteria e, infine, di quel che escogiti quan-do anche il pace-maker s’inceppa e la cassa si svuota. Èuna storia impossibile, fatta di alberghi costruiti sott’ac-qua, di montagne di neve dentro una bolla nel deserto,di buone idee, cattivo gusto, esiti assurdi. Ma, va detto,era assurdo il punto di partenza. I norvegesi quando con-siderano le isole Lofoten, centinaia di spezzoni di rocciasparpagliati in un mare gelido, dicono che «Dio era in-cazzato quando le creò». Se gli arabi si permettessero dicriticare il creatore dovrebbero ammettere che, quandofece Dubai, gli Emirati e l’intero Golfo (arabo o persico)era stanco e distratto: aveva finito le idee e i materiali, mi-se sabbia e nient’altro, poi se ne andò senza spegnere ilgas. Da un presupposto del genere non era facile ottene-re qualcosa di buono. Di certo non con quel che c’era adisposizione. Artificiale finché si vuole, Dubai è il mi-gliore dei mondi (arabi) possibili. Non è esagerato il giu-dizio, semmai adesso è a Dubai che stanno esagerandoe bisogna fermarli prima che sia tardi.

Breve, sennò, la storia felice di Dubai. E altrettantoparadossale. Comincia nel 1833, con i primi insedia-menti di coltivatori di perle, il petrolio dell’Ottocento.Le loro case sono state ristrutturate (ma c’è chi dice leabbiano ricostruite di sana pianta simili alle originali)per mostrare almeno un quartiere che abbia la maggio-re età. La cuccagna durò un secolo scarso. La troncò ilcrollo di Wall Street e un’idea dei giapponesi, che sa divendetta preventiva del destino: crearono le perle “ar-tificiali”. Dubai dovette aspettare il 1966 per la mannasuccessiva: la scoperta dell’oro nero. A quel punto eraun lembo di terra divisa da una lingua d’acqua che po-teva scegliere di diventare qualunque cosa, come sfo-gliare un catalogo e scegliersi la faccia. Votò per la Flo-rida. Eresse grattacieli e ponti, costruì mall e grandi (ssi-mi) alberghi. Attirò banche, scali in un aeroporto lunapark e investimenti nella terra di nessuno. Non puntò,come dire, allo spessore, né si fece troppi scrupoli. La

brochure sull’emirato che segnala i momenti storiciculminanti contiene passaggi del genere: 1983, apertu-ra del duty free all’aeroporto (su consulenza del gover-no irlandese); 1988, primo campionato di golf del Golfo;1991, scoppia la prima guerra all’Iraq e Dubai ne ap-profitta per diventare stazione di rifornimento, siespande e raddoppia in cinque anni. Ma proprio quelpicco di crescita, il 1996, è decisivo, e non solo perché siinaugurò il primo grande festival, quello dello shop-ping (dura un mese, ma stanchi di sentirsi dire che san-no solo comprarsi roba, ora hanno anche il festival delcinema). In quell’anno gli studiosi che compilano ilPiano Strategico per Dubai consegnarono allo sceiccoregnante, non senza timore, uno studio che annuncia-va la fine della seconda cuccagna. Misero una data perl’ultima goccia di petrolio: 2010. A quel punto bisogna-va inventarsi la sopravvivenza oltre la morte. È qui cheDubai ha esagerato, nel bene e nel male.

Le tre fortune

Ha aperto le sue porte, più di qualsiasi altro luogo nellazona: «Siamo sicuri di essere in un Paese arabo?», do-mandò incredulo un funzionario della Banca Mondialearrivando al summit del Fondo Monetario Internazio-nale nel 2002. All’aeroporto davano visti senza controlli,ai finestrini della sua limousine scorreva una Miami po-polata, più che da uomini in bianco e tuniche in nero, da

filippini, cingalesi, pachistani (ilavoratori che compongono lamaggior parte della popolazio-ne), europei e americani. Ognu-no vestiva come voleva. C’era-no, perfino nel suk, templi hin-du. C’erano, anche fuori daglialberghi, banconi di bar che ser-vivano alcolici e ad ognuno tro-vavi compagnia nel giro di unminuto, a qualunque ora, balle-rine russe o ginnaste cinesi inservizio permanente. La suasorpresa crebbe quando

guardò i dati che aveva nella cartella: negli Anni ’90 Du-bai era una delle tre città al mondo, con Dublino e Vegas,che aveva registrato il più alto tasso di crescita economi-ca. Il reddito pro capite era pari a quello della Spagna (manon c’era scritto che gli immigrati guadagnano 200 dol-lari e non hanno assistenza sociale, che un operaio in-diano si è suicidato perché l’azienda non lo pagava dacinque mesi e gli rifiutava i 13 dollari necessari per unavisita medica). L’iniziativa privata era incoraggiata, an-che quella femminile. E l’amministrazione pubblicasvolgeva ogni pratica via Internet. «Quale è il vostro se-greto?», chiese a un collega locale. Quello rispose: «Ab-biamo avuto tre fortune: le perle, il petrolio e vicini inca-paci». Le prime due risorse destinate a sparire, la terza no.Gli altri Paesi arabi vengono a Dubai, ammirano, pren-dono appunti, firmano accordi di cooperazione, poi tor-nano a casa e risprofondano nelle loro meraviglie auten-tiche e mal conservate, nel loro capitalismo a numerochiuso, nel vizio di sentirsi grandi guardando indietro,anziché fragili mirando avanti.

L’estrema risorsa

Dubai lo sa: mancano cinque anni alla fine delle bat-terie. Prova energie alternative. Con l’artificio, certo. Sele avessero dato in sorte le piramidi, i monasteri cristia-ni, i grattacieli di fango o la Mecca potrebbe vivere direndita. Così, le tocca lavorare. Su una terra dove noncresce nulla di naturale, occorre inventarsi il raccolto.E restare all’altezza della reputazione: “quegli arabi”fanno solo cose pazzesche. Ammettiamolo: se Dubaicostruisse un porto, chi ne parlerebbe? Ma loro stannopreparando il porto più grande del mondo, «più diManhattan», annunciano. E un qualsiasi parco diverti-menti che attrazione sarebbe se ne esistono già centi-naia d’altri? Ma “Dubailand” (apertura 2006, visitatoriprevisti 200mila al giorno) è il parco dei parchi, la som-ma di tutti quelli possibili. Al suo centro, la montagnainnevata, sotto una calotta di vetro, dove sciare guar-dando, all’orizzonte, il deserto. E poi l’arcipelago artifi-ciale (un’isola in regalo a Beckam, calciatore artificiale)che compone la mappa del mondo e l’albergo sotto ilmare. E il media center che attira stampa e tv di Paesisenza libertà promettendo un’oasi. Poco importa se alsilicone. C’è una clessidra che scorre, per Dubai e pertutta la regione: o si rompe il vetro o, alla fine come inprincipio, resterà soltanto sabbia.

La fantastica lotta di Dubaiper regalarsi una nuova vita

LE PIÙ FAMOSE

UN SALTO

NEL FUTURO

Qui a fianco e sotto,il progetto di quellache è destinataad essere “l’ottavameraviglia delmondo”, l’arcipelagoartificiale di frontea Dubai: chiamatoThe Palm

THE PALM

L’“ottava meraviglia delmondo” sta sorgendo dal mare di fronte agliEmirati arabi: è un poker diarcipelaghi artificialidestinati a diventare l’oasidel turismo d’élite

HULUMALE

Quasi 3 km quadrati di terraspuntata dal mare a fianco di Male, capitaledelle Maldive: diventerà unaspecie di riserva per i maldiviani che abitano gliatolli meta dei turisti

OSAKA

La pioniera: è quella su cuiè sorto l’aeroporto di Osaka.Il progetto del ’94 è di RenzoPiano: quasi 1,7 chilometridi strutture aeroportualigalleggianti sull’acqua

MAR GIALLO

Nel Mar Giallo, a 50 km daSeul, è stato realizzatol’Incheon internationalairport, che nel primo annodi attività ha visto un trafficodi 27 milioni di passeggeri

MONTREAL

L’isola artificiale di NotreDame, costruita tra il fiume San Lorenzo el’omonimo canale comesede dell’esposizioneuniversale del ’67, ospita ilcircuito di Formula Uno

VENEZIA

Nell’ambito del sistema delMose, per difendere Veneziadall’acqua alta, è prevista larealizzazione, nella laguna,di un’isola artificiale di circa7 ettari, a 10 km dal litorale

GABRIELE ROMAGNOLI

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34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 20 FEBBRAIO 2005

Bavcar vi mette una mano in testa, vitocca il mento, poi si allontana e scatta.Vi chiede anche com’è il tempo, cosa ve-dete, cosa sentite. «Grazie, per non averchiesto. È una vita che mi tormentanocon la domanda: come fai? Ma chiede-temi: perché lo fai? Visione, cecità, invi-sibilità. Scoprire il piacere di possederequalcosa che gli occhi non hanno in-quadrato, ma la mente sì. Non conside-ro la fotografia un pezzo di realtà, sonopiù vicino a Man Ray. La cecità fisica nonpuò essere simbolica, c’è la capacità divedere e il desiderio di vedere. Scatto inrapporto ai rumori, ai profumi e soprat-tutto in relazione alla mia esperienzadella luce. Quando scatto, dico sempre:

io non ti vedo, ma tifaccio vedere agli al-tri... Poi scelgo le fotofacendomi consiglia-re da amici con losguardo libero e damia nipote Veronica.L’ha scritto anche La-can: amare è darequalcosa che non siha a qualcuno chenon lo vuole. Io lavo-ro con l’autofocus econ gli infrarossi, per-ché il buio è lo spaziodella mia esistenza,un’altra forma dellaluce. La mia primamacchina è stata unaZorki sei, una Leicacomunista, regalo dimia sorella. Mi sareb-be piaciuto ritrarreBrigitte Bardot, l’a-vrei baciata sulla boc-ca, Marlon Brando eLiz Taylor. Davanti aVittorio Gassman hosentito la forza delsuo spirito».

Le foto sono stra-ne, magiche, giochidi contorni lumine-scenti contro sfondiscuri. Un’atmosferasurreale un po’ allaZavattini. Sembranodire: così vedono iciechi, nel modo incui si sfiora un fiore.O forse siamo sem-pre lì: abbiamo fattodell’arte di vedere ilmestiere della nostravita, ma la realtà cisfugge, e i sentimenti

rendono più confusa la nostra visione.Saramago, nel suo romanzo Cecitàscri-ve di un’epidemia che fa sprofondarenelle tenebre la popolazione di un pae-se immaginario, e proprio nel mondodelle ombre i protagonisti scopronoaspetti sconosciuti di se stessi e delmondo che credevano di conoscere.Bavcar insiste: «Impedire a me di foto-grafare perché sono cieco significhe-rebbe affermare che le immagini le fa lamacchina, e non la materializzazione diun’idea, di un desiderio. Un giorno ildestino mi ha portato una donna, unamico mi ha chiesto di descriverla. Hotoccato i suoi capelli e ho pensato: è co-me un’arpa sostenuta dal vento. Ho ac-carezzato il suo volto: un orologio, ro-tondo, preciso, perfetto. Ho sfiorato lasua bocca, una ciliegia nel mese di mag-gio». Nessuno di noi vede mai tutto.

Bavcar è stato anche in un altro tipodi buio, disperato e infernale. «Nell’an-niversario della liberazione dei campidi concentramento sono andato conun mio amico, invalido di guerra, BorisPakor, 91 anni, scrittore, a Struthof inAlsazia. Toccare il forno, per me è statoterribile. Lui mi ha sussurrato: io qui hoportato i cadaveri. In quel momento luimi ha dato un’autorizzazione etica a fo-tografare. Sono tornato al campo dinotte, ma le due ragazze che mi accom-pagnavano non ce l’hanno fatta, sonoscappate. È dai lati più oscuri della ter-ra che bisogna cercare la luce. Perchécomunque anche se debole e fragileuna luce c’è sempre. Di mattina mihanno portato a pranzo, lì vicino. “Nonposso”, ho detto.

Si sogna ad occhi chiusi. Si ritorna neiluoghi visti, senza poterli più vedere.Bavcar guarda e ti guarda. Occhi azzur-ri. La vita è carogna, come la nostalgia.Allora capisci: la luce si perde, ma nonsi dimentica. Evgen, per favore, scatta.

OPARIGI

cchi azzurri. Dice: «Atten-zione al gradino». Cap-pello nero. Indica: «Il barè dell’altra parte della

strada». Sciarpa rossa. Invita: «Questo èun bel posto per sedersi». Sembra il ri-tratto di Aristide Bruant nel quadro di-pinto da Toulouse-Lautrec. Camminaspedito anche sulle scale. Si scusa: «Ilmio appartamento è grande come unarmadio». Una stanza piena di cartelle,di buste, di libri. Alle pareti piccolispecchi. Una confu-sione, ma ordinata.«Si sposti, le devo farvedere una cosa sulsecondo scaffale».Tocca e trova, lui. Ev-gen Bavcar ha 59 an-ni, è un fotografod’arte famoso. Ha ri-tratto le attrici Han-na Schygulla, KristinScott-Thomas, loscrittore UmbertoEco, ma si è anchededicato ai paesaggi.Parla benissimo e inmaniera colta un mi-sto di lingue. «Sononato a Lokavec, inSlovenia, a 27 chilo-metri da Gorizia. Imiei genitori, au-striaci, nel ’18 sonodiventati italiani enel ’45 jugoslavi. Miopadre è morto, solda-to a Kiev, avevo setteanni. Mi sono laurea-to in filosofia a Lubia-na, e ho un dottoratoottenuto alla Sorbo-na con una tesi sul-l’estetica in Adorno eBloch. Ho studiato eparlo tedesco, croa-to, francese, italiano,spagnolo e da auto-didatta il portoghe-se. Il mio sogno è an-dare a Napoli, foto-grafare ragazze stu-pende, mettermi i lo-ro ritratti in borsa epasseggiare davantial museo di Capodi-monte in attesa di es-sere scippato. L’idea che la bellezzavenga rubata e acquisita la trovo unaperformance artistica notevole».

Il buio poco a poco

Bavcar è un ossimoro. Fotografa, ma ècieco. Vede, ma vive nel buio. «Ho per-so definitivamente la vista a 12 anni,dopo due incidenti. Prima mi ha feritoun ramo d’albero, poi un detonatoreabbandonato. Da bambini giocavamocon fucili e armi, il fronte dell’Isonzo,della prima guerra mondiale, è stato ilnostro campo giochi. La tragedia del-l’Europa centrale è sotto i nostri piedi, icimiteri sono la comunità europea sot-to la terra». Il buio non è arrivato all’im-provviso, ma poco a poco, la luce si èspenta lentamente, e tutto è stato piùstruggente. Non c’è nulla come il tra-monto per capire come il tempo portavia le cose. «L’ultima cosa che ho visto èstata la gonna rossa di un ragazza e lastella sul berretto dei soldati, forse perquesto mi piace tanto il rosso». Tirafuori la stella dalla tasca, il suo lecca-lecca, gusto nostalgia. Dice, senza so-spirare: «Per me la pittura ha gli occhichiusi». Racconta una favola: «In un vil-laggio di ciechi arriva un elefante. Allasera, di fronte al fuoco ognuno descrivel’elefante. Chi ha toccato il naso dice: ècome un lungo tubo. Chi ha toccato leorecchie: è come un tappeto. Chi hatoccato una gamba: è una colonna.Ognuno ha una versione diversa perquello che ha toccato. Anche noi siamocosì: tutti ciechi di fronte all’universo.Quanti veramente vedono?». Una suamostra si intitolava Il terzo occhio.Quello interiore: l’occhio del cervello,dell’immaginario, dello spirito. «Alcu-ne donne, prima di essere fotografate,mi chiedono: sono bella? Io porgo loroquesto specchietto e rispondo: guarda-ti. La gente vive con i fantasmi. La notte

è il luogo della nascita della luce: Eros ePsiche hanno vissuto nel buio, poi Psi-che cercando la luce ha tradito. Io sonoin quel buio arcaico e originale».

Molte immagini di Bavcar sono pae-saggi notturni: una strada che si perdenel bosco, una città anonima, di notte,dall’alto, un cancello nel quale unostormo di rondini è bloccato dalle in-ferriate. «Quand’ero bimbo associavola luce del giorno con il volo delle ron-dini». Ci vuole astuzia contro il mondo,se sei cieco. «Se non avessi una culturafilosofica e psicanalitica non potrei di-fendermi. I ciechi nel mondo sono fra-gili, non hanno diritto all’immagine.Quando fotografo devo ricordarmi dipulire sempre il vetro dell’obiettivo,nessuna macchina è fatta per i ciechi,ho messo delle tacche, bisogna trovaree darsi dei riferimenti che aiutino asconfiggere il buio. E ora ho una causain Slovenia per un documentario con ilmio nome, che io non ho autorizzato».Al buio si perde la memoria di cosa vuoldire correre: «Me ne sarei dimenticatose alcuni bambini non mi avessero do-mandato un giorno perché camminocosì lentamente». Poi si perde lo spazio:«Si è ristretto, devo toccarlo per cono-scerlo o sottrarlo al suo rumore». Poi laspontaneità: «Vado sempre negli stessiposti, precisi come luoghi geometrici,mentre ho spesso la voglia di perdermiin una foresta di cui non conoscerei isentieri». Poi si smarrisce la musica: «Laamo e la detesto. Quando penso chehanno voluto farla passare per la solafelicità dei ciechi, mentre era in realtà laloro unica possibilità di esistenza so-ciale. Ci hanno dato una cosa, che giàavevamo». Quella che non si perde è larabbia: «I cristiani hanno duemila annidi storia, eppure non mi risulta abbia-no mai nominato un parroco cieco, ibuddisti devono ringraziare una signo-ra tedesca che è andata a Lhasa e ha tra-dotto in braille il sanscrito. Io non criti-co la religione, a me interessa il divino.Ma devo parlare con un teologo per af-frontare il tema dell’handicap. Io credoche quando Dio ha fatto il mondo era

tutto troppo perfetto e ha dovuto crea-re la morte. L’handicap la ricorda. Lamorte inevitabile dello sguardo fisico èil cieco. Il protestantesimo si è evolutoe ha le donne pastore, spero che un cie-co un giorno sarà rabbino».

Toccare per capire

Chiama nomi di donna: Isabel, Chan-tal, ma c’è anche Pascal. Sono i nomiche ha dato alla tecnologia che lo assi-ste: la macchinetta che traduce i colori,la bilancia che parla, l’orologio che di-ce l’ora, il termometro che avvisa dellatemperatura, il computer che legge imessaggi. «L’astronomia mi interessaperché è una materia dove ogni veden-te è cieco e ogni cieco è un po’ vedente.Queste macchine che vanno sui piane-ti sono moderni bastoni da ciechi,mandano segnali più perfezionati, maanche loro devono toccare per capire.L’immagine alla fine ci viene dal buiodell’ignoto. Una volta se lo schiavoguardava verso l’alto veniva ucciso,tutti abbiamo bisogno dell’invisibile».

Chiede: posso fare una foto? Sicuro,c’è bisogno di spogliarsi? «No, andiamo

in terrazza». Un suo librosi intitola Le voyeur Abso-lu. Bel doppio senso, per-ché «voyeur» significa«guardone», anche e so-prattutto in francese.Bavcar fotografa nudi,ma solo di donne. «E nonmi piacciono quelle con icapelli corti, perché as-somigliano ai militari.Niente uomini, non ce lafaccio. Gli uomini fannola guerra, gli uomini mihanno fatto male. In Ger-mania quando un rabbi-no ha saputo che ritraevodonne nude mi ha detto:

“Questo è grave”. Ma non sono foto al-la Cicciolina, guardi qui sul computer,questa mia amica brasiliana». Evgen,ma che corpo ha la sua amica? «Oddio,magari l’immagine è capovolta». Sì, al-lora torna.

le storie/1Artisti di frontiera

È nato in Slovenia 59 anni fa, parla sei lingue, vive a Parigi.Evgen Bavcar è un famoso fotografo d’arte ma ha persodefinitivamente la vista quando aveva dodici anni. “Nonchiedetemi come faccio ma perché lo faccio... le immagini nonle fa la macchina, sono la materializzazione di un’idea, di undesiderio... l’immagine alla fine ci viene dal buio dell’ignoto”

Il terzo occhio del fotografo ciecoEMANUELA AUDISIO

RITRATTITre foto scattate da EvgenBavcar: dall’alto, un ritrattodell’attrice tedesca HannaSchygulla, un nudofemminile e un autoritratto

Amore rossoL’ultima cosa che hovisto è stata la gonna

rossa di una ragazza e lastella sul berretto dei

soldati. Mi piace il rosso

Arpa nel ventoHo toccato i capelli di

una donna: come un’arpasostenuta dal vento. Ho

sfiorato la sua bocca: unaciliegia a maggio‘‘

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 20 FEBBRAIO 2005

le storie/2Sideways e dintorni

Cresce l’interesse per la bevanda più antica: con ilturismo, i film che diventano subito un culto e i corsidi degustazione. Ma non è tutto buono quello che luccica.Questo è un viaggio tra libri, personaggi e osteriecon la guida di uno che non ha paura di dire: “Confessoche ho bevuto”

Vino, vin, wine, wein. Unaparola breve, suona uni-versale come sport. La co-noscono anche i cinesi,l’ultimo mercato da con-quistare, già invaso da un

sacco di robaccia ma anche da bottigliedecenti. Non fa parte della loro tradizio-ne? Impareranno. Neanche le Ferrarifanno parte della loro tradizione. Daqualche parte dovrà pur finire il vino chesi continua a produrre, anche se i con-sumi sono in calo e i magazzini sono pie-ni, dal Piemonte al Medoc. Ci sono duefilm sul vino in circolazione, uno con pa-recchie nomination all’Oscar. Sidewayssolo in apparenza è un film sul vino (lastoria reggerebbe anche se i due compa-ri fossero filatelici). È un road-moviedolceamaro con molto vino dentro,questo non si può negare. Ed è bella lascena in cui Miles racconta se stesso at-traverso il Pinot nero. Odia il Merlot checonsidera facile, piacione, probabil-mente non ha mai bevuto un Masseto, oil Merlot di Miani, di Radikon, ma in Si-deways i vini sono tutti americani, tran-ne un prestigioso Cheval blanc ’61 cheMiles beve da solo e di nascosto in un fa-st-food, versandolo in un bicchiere ina-deguato. Scena straziante, il buon bevi-tore non beve mai da solo e, già che ci sia-mo, il buon bevitore non è quello che be-ve tanto ma quello che capisce cosa be-ve, che sa stabilire un rapporto col vino.Se non ci riesce, beva pure CocaCola.

La cultura del vino sta crescendo: li-bri, riviste specializzate, guide, canalitematici, degustazioni guidate daesperti, vecchie e nuove osterie, winebar sul modello anglosassone, bistrotsà vin, la moda dell’happy hour che soloa chiamarla come suona, eppiaur,s’ammoscerebbe. In sostanza, bevidue e paghi uno, e intanto sostituisci lacena con tanti piattini di pizza, focac-cia, olive, salumi, formaggi, noccioline,che spero siano di buona qualità, manon sempre lo sono. Non mi pare ilmassimo della vita ma capisco chequando si è giovani e magari con pochieuro in tasca bisogna anche arrangiar-si. Con l’eppiaur mi hanno beccato unavolta a Roma, e una basta. Che ci faccioio qui? Appunto.

Il primo bicchiere

Se l’uomo è ciò che mangia (lo stracita-to Fuerbach) è anche ciò che beve (G.Mura). Il mio primo bere era bere congli occhi. Non le piscine, come scrivevadal Tour Mario Fossati, ma quelli chebevevano. I vecchi, che poi quasi tuttierano vecchi agli occhi di un bambino.Quelli che bevevano giocando a bocce.Quelli che bevevano giocando a carte. Iloro gesti lenti, nel bere. Chi beve infretta, chi beve d’un fiato è un poverac-cio, un coglione che ha visto troppi filmin cui si trangugia il whisky o la vodka,tutte robe industriali a cui non importanulla del caldo, del freddo, della piog-gia, della grandine. Il vino è una cosapiù nobile, il vino ha un’anima che rias-sume la vigna e il vignaiolo. Meglio: ilcielo, la terra e l’uomo. Diceva Veronel-li che il vino è il canto d’amore della ter-ra verso il cielo. Pure, presto arriverà unSirchia o un Porchia e ordinerà di scri-vere «L’alcol uccide» sulle bottiglie divino. Il governo francese l’aveva già fat-to, manifesti con su scritto «L’alcol tuelentement» e sotto qualcuno aveva ag-giunto col pennarello «On s’en fout, onn’est pas pressés». Questa me l’ha rac-contata Enzo Biagi, mentre la scritta suun muro di Tolmezzo “Meno Internet,più Cabernet” l’ho vista coi miei occhi.

Ma l’alcol, poi, uccide soprattutto chinon lo conosce, come il mare. Chi lo co-nosce lo ama, chi lo ama lo rispetta, chilo rispetta non gli chiede quello chenon può dare. L’ubriacone sta al buonbevitore come lo stupratore sta all’a-more. I giovani hanno fretta, saltano lecaselle intermedie. Fanno più male lebevande alla frutta addizionate di li-quore, fanno più male i cocktail di unbicchiere di vino. La fretta è semprecattiva consigliera. Se i giovani rallen-tano, è bello vederli rallentare. In unadelle mie osterie (possono anche esse-re trattorie o ristoranti, conta l’atmo-sfera e conta che poi balli la carta, o sipossa far tardi senza paura) c’era un ta-volo con quattro ragazzi assorti davan-ti a una bottiglia di Gaja. «Hanno ri-sparmiato per potersela permettere. Etanto alla fine gliela offro io», ha detto

l’oste Angelo. L’oste Luigi procede persottrazione. Ha un fiuto infallibile coiclienti, se non gli sono simpatici e chie-dono una bottiglia che gli è cara (il Ba-rolo di Bartolo Mascarello per esem-pio) lui si scusa e dice che purtroppol’ultima è stata bevuta il giorno prima eche sta aspettando i nuovi arrivi. Inve-ce ne ha, «ma non possono capire quelBarolo, non lo meritano».

Ho conosciuto Gianni Brera nel1965, Luigi Veronelli nel 1972. Mi han-no insegnato molto sul bere, e non so-lo. Brera era più cinghialesco e campa-nilista, solo il Barbaresco e i vini del-l’Oltrepò erano graditi. Veronelli più li-rico e anarchico, non divideva i vini trabuoni e cattivi ma tra quelli che dannogioia oppure no. È stato il primo a scri-vere di Picolit, di Sassicaia (nel ’64), aperlustrare le vigne d’Yquem, a parlaredi cru. Un piccolo vino può dare gioia:un Muscadet dopo una tappa calda e

polverosa del Tour, ma anche un rossoe profumato Gamay, purché fresco. Ungrande vino può dare una piccola gioia,una lucina flebile: mi è capitato con Ro-manée Conti (a Miles sarebbe piaciuto,è il massimo del Pinot nero), con Krug,con Pétrus e altri bordolesi. Molto di-pende dalle aspettative. C’è chi beve so-lo griffes. Con quello che costano, certebottiglie sono diventate status symbol.Di recente ho visto bere Ornellaia sugliscampi bolliti. Erano russi, probabil-mente mafiosi (a giudicare dall’abbi-gliamento stile Padrino e dai catenonid’oro), sicuramente ricchi. Il somme-lier non ha fatto una piega. Sono torna-to a molti anni indietro, a quando avevochiesto un rosso leggero su una zuppadi pesce, a Ischia. Il cameriere mi avevaaffettato e calpestato con uno sguardoda cefalo imbufalito. E poi: guardi chesul pesce noi beviamo il bianco. Se l’eracercata: e allora bevetevelo voi.

Ho fatto un giretto su Google: vino ha4.610.000 citazioni, Dio 4.620.000. Giàche c’ero ho cliccato amore(10.200.000), morte (8.650.000), sesso(11.900.000). E poi Barolo (723.000).Champagne (255.000), Chianti(239.000). E poi pace (15.500.000) eguerra (19.100.000) e poi ho smessoperché mi sono ricordato del mio primobicchiere di vino. Con quattro anni dianticipo su Veronelli, lui rosso il giornodella prima Comunione, io bianco, maandavo all’asilo. Un gutéin al fiuléin,disse Ida Isolani (che Dio l’abbia in glo-ria) il giorno di Natale del 1949. Ma è unbambino, protestò mia madre. SantaMaria della Versa, il mio Far West. In-tanto il vino era sceso, schiumoso, e ioficcavo il naso nel bicchiere per cattura-re quel profumo dolce e così diverso da-gli altri dolci (panettone, ciambella, ca-ramelle, budino). Il dolce, prima, perme era solo un sapore, non un profumo.Poi in quella miniera di dolce aggiunse-ro un’abbondante dose d’acqua. Cosìnon gli fa male, stia tranquilla. Infatti mifece benissimo. Mi insegnò che bisognafare un gradino alla volta.

Il vino non serve per dimenticare, civuol altro. Il vino serve a ricordare che ciaccompagna da millenni, e se propriofacesse così male Gesù alle nozze di Ca-na non avrebbe cambiato l’acqua in vi-no. So che è sempre più sviluppato il tu-rismo del vino e mi fa piacere. Si vedonotanti bei posti, in genere dove c’è vignac’è una natura non stravolta e chi fa vi-no è una bella persona. Poi ci sono can-tine da fantascienza e piccoli produtto-ri come Flavio Roddolo. Quando intui-sce che il vino nella botte ha freddo, av-vicina due stufette elettriche. Fa tutto (ebene) da solo, chiama qualcuno soloper la raccolta delle uve. Vorrei saperdescrivere i vigneti a picco in Val d’Ao-sta, in Valtellina, in Alto Adige, nelleCinque Terre, a Ischia, perché si capis-se quanta fatica ancora costi, e quantoattaccamento alla terra ci voglia, per fa-re vino in condizioni estreme.

Letteratura e bottiglie

Questo vino che c’inzuppa da piccoli egrandi schermi, edicole, librerie secon-do me porta a qualche degenerazione,oppure sono sfortunato io che non vadopiù al cinema. Se c’è qualcuno che parlaal telefonino e mangia popcorn, è sem-pre nel raggio di due metri. Se vado al ri-storante o in osteria, al tavolo vicino par-lano di Guyot speronato, di marne mio-ceniche, di degustazione orizzontali,verticali, cieche, di soggiorno del mostosulla feccia, che dibattono a lungo sullapresenza o meno d’un 5 per cento di Sy-rah. Per me, gli uomini conoscono i vinicome i cani gli uomini, annusandoli. Epoi assaggiandoli. Il vino entra in noiperché lo beviamo, ma siamo noi a do-ver entrare in lui per capirlo, per dargliun volto o una musica. Una Bonarda ouna Freisa mossa sono la fisarmonicasull’aia, un Amarone un canto gregoria-no da riempire il duomo di Colonia. Sipuò fare anche con la letteratura: unChianti giovane ha l’aggressiva ironia diCecco Angiolieri, un Gragnano la canta-bilità di Alfonso Gatto, un Barolo vec-chio stile è Alfieri, o Berchet. Fenoglio èDolcetto di Dogliani. E ancora: c’è il vi-no-Beatrice e il vino puttanone, il vinoche sorride e il vino che graffia, il vinoavaro e quello generoso.

Per questo non rispondo mai alla do-manda: qual è il tuo vino preferito? Nonc’è, o sono tantissimi, dipende dagli sta-ti d’animo, dai luoghi, dalla compagnia.In questo il vino è come una musica, èuna musica. Non bevo per sete (perquella c’è l’acqua) né per vizio, ma perpiacere. Confesso che ho bevuto. Tantoe a tutti i livelli. Giunto abbastanza feli-cemente alla soglia dei 60 ho deciso difare tabula rasa, di non unirmi al croc-chio degli analisti, dei sotutto, dei peri-ti autoptici. Al piacere della conoscenzaanteporrò la conoscenza del piacere. Equindi: sarò più d’istinto che distinto,più libero che libro, più folto che colto,più impregnato che impegnato, piùbocca che bacca, più carnale che cana-le, più fanale che banale, più sostanzache costanza, più tralcio che stralcio,più palato che pelato, più uomo cheduomo, più acino che acido, più miteche mito, più passito che passato, piùstoria che scoria, più riso che roso, piùnaso che raso, più caldo che saldo, piùcarezza che cavezza, più rose che pose,più gola che gala, più festa che testa.Detto in poche parole, naturalmente.

GIANNI MURA

sul grande schermoDopo “Mondovino”, il documentarioUsa di Jonathan Nossiter (presentea Cannes 2004) che accompagna lospettatore per tre continenti lungo la

“via del vino”, arriva ora nelle sale“Sideways” (qui sopra nella foto) il road-

movie alcolico di Alexander Payne

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Il mio mondovinoda bere con il cuore

Page 10: D Laomenica - la Repubblica

«HBRADENTON(Florida)

a appena undici an-ni, quattro mesi fasapeva a malapenatenere in mano una

racchetta. Che ne dici?». Nick Bollettie-ri sorride. La tennista-bambina rispon-de colpo su colpo all’allenatore comeuna consumata professionista mentrelui, il “maestro”, la punzecchia per er-rori di cui noi, comuni mortali, nean-che ci accorgiamo.

Benvenuti a Bradenton, cittadinadella Florida e sede delle “Img Acade-mies”, la scuola di sport più popolared’America (e del mondo) dove ragaz-zine e ragazzini imparano a diventarecampioni nello sport (i più capaci efortunati) e nella vita (quasi tutti). Si-tuate in un’area incantevole, le spiag-ge bianche che affacciano sul Golfo delMessico e un clima da far invidia ai re-sort dei Caraibi, le “Academies” sono ilsogno di ogni bambino che ama losport, una sorta di Eden per crescerefelici inseguendo la fama e diverten-dosi. Un sogno che quasi trenta anni faè diventato realtà.

«È vero, qui costruiamo campionima pensare alla nostra scuola solo co-me all’anticamera del professionismoè sbagliato». Ted Meekma è il direttoredelle “Img Academies”, un uomo tra iquaranta e i cinquanta dall’aspetto diragazzo che quando racconta come «ènato il sogno» ha gli occhi che si illumi-nano: «È cominciato tutto da una “vi-sione” di Nick, senza di lui questo postonon sarebbe mai esistito. Io l’ho cono-sciuto quando avevo sedici anni, vive-vo in Wisconsin in una cittadina dovemio padre faceva lo sceriffo. Quando haaperto la scuola mi ha chiesto di fare ilcuoco. E così sono venuto qui».

Ted oggi è un businnesman di gran-de successo, le “Academies” stannoespandendo il loro modello in altri con-tinenti — «in India è già tutto pronto,per l’Europa vedremo in futuro» — manon ha perso lo spirito degli inizi«quando facevo da mangiare per deci-ne di ragazzini, io che certo non sonoun gran cuoco». La «visione» me la spie-ga lo stesso Nick mentre, seduto nel suopiccolo ufficio — alle pareti decine difoto di campioni da far impazzire fans ecollezionisti — attende che arrivi l’oradelle lezioni pomeridiane. Perenne-mente in tuta e scarpette datennis («in questa stanzaci sto il meno possibi-le») l’uomo che ha“creato”, tra i tan-ti, talenti comeAndre Agassi,Monica Seles,Jim Courier,Anna Kour-nikova, le so-rel le Wil-liams e BorisBecker, ri-corda connostalgia gliinizi di trentaanni fa, quando— oscuro inse-gnante di tennis aPortorico per turistiricchi — diede il via allasua epopea: «Era il 1975, ini-ziammo a fare corsi in un piccolo hotelqui vicino, il “Colony Beach”, aveva-mo dieci studenti». L’anno dopo era-no diventati venti, nel 1978, data difondazione ufficiale della “Tennis

Academy” gli studenti erano 35, «poinel 1980 comprammo un motel e 21campi da gioco».

Da allora non è stato che un successo,e un campione, dietro l’altro. La scuoladi tennis si è sposata nel 1987 con la“Img”, il gigante del marketing sportivocon sede a Cleveland, e una dopo l’altrasono nate le altre “academies” che han-

no dato spazio agli sport più popola-ri (in America): baseball, golf,

soccer (il nostro calcio),basket. Nuovi campi si

sono aggiunti ai vec-chi, nuove sofistica-

te attrezzaturehanno sostituitoquelle artigianalidei primi tempi,gli studenti (e i

profitti) so-

no cresciuti a vi-sta d’occhio fino a fare

diventare le “Academies”quelle che sono oggi: una for-

midabile macchina organizzativaal servizio dello sport.

Girando per le “Academies” la primasensazione è quella di trovarsi dentroun telefilm. Tutto sembra perfetto lun-go i 190 acri della “scuola dei campio-ni”: dalle decine di campi da gioco al-

l’aperto, alle palestre fino alle mini-vil-lette, ultimo orgoglio delle “Acade-mies” e piccolo suburb dentro il cam-pus. «Tutte vendute, le famiglie si tra-sferiscono qui, così seguono da vici-no i loro figli e stanno anche in unposto piacevole, vicino al mare».

È mezzogiorno, Mike ha sedicianni e aspetta il suo turno nell’an-golo di un campo che è la copiaesatta di quello degli “Open d’Au-stralia”. «Se non dovrei essere ascuola? Ci vado nel pomeriggio efaccio sport la mattina». La scuola èla Pandleton, una high school cometante, con i suoi bus gialli agli ingressi,ragazzi con lo zainetto sulle spalle e lecuffiette dell’Mp3 per sentire la musi-ca. «Una scuola uguale alle altre, anziforse sono ancora più severi», dice unaragazzina che è arrivata qui un anno fa,trasferita con tutta la famiglia (compre-so un fratello piccolo) da uno Stato del-l’Ovest. Il padre ha lasciato il lavoro e ne

ha trovato un altro da queste parti, lamadre «fa la casalinga e mi segue

passo passo». Vivono in unadelle mini-villette all’in-

terno del campus, do-ve le famiglie so-

cializzano, sifanno bar-

becue eparty coinvol-gendo anche i ra-gazzi che vivono dasoli nei dormitori.

Non è qualcosa che si

possano permettere tutti abbandona-re città e lavoro, magari a migliaia dichilometri di distanza, e venire qui so-lo «per il bene dei figli». Ted non na-sconde che «certo alcuni sono ricchi epossono vivere di rendita», come IvanLendl che si è trasferito qui con le quat-tro figlie, che però hanno deciso di nonseguire le orme del padre e si sono da-te tutte al golf. «Ma c’è anche chi fa sa-crifici enormi, chi ipoteca la casa, chi èdisposto a lavori più umili pur di por-tare qui i propri figli». E poi, come intutti i college che si rispettino ci sonole borse di studio per chi è meno fortu-nato nella nascita ma merita un aiutosenza il quale non potrebbe mai per-mettersi una retta che costa circa40mila dollari annui: come Harvard o

Stanford. Le “Academies” sono organizzate

come un college, solo che qui vengononon gli universitari ma ragazzi che ini-ziano dalle medie e continuano fino al-l’ultimo anno di high school. La giorna-ta tipo inizia molto presto, alle sei emezza del mattino la maggioranza deiragazzi è già in piedi. Poi — a secondadei turni — si va a scuola o ad allenarsi.Oltre alla Pandleton si possono seguirealtre due scuole nelle vicinanze. C’è chitrova «più comodo stare qui, così non

devo prendere l’autobus» e chi inve-ce preferisce «andare fuori, alme-

no vedo altra gente, conoscoragazzi e ragazze che non

saranno campionisportivi ma se la di-

vertono». Quelche conta è il

profitto, ascuola biso-gna studiare. Nonsi transige neanchesugli allenamenti: quat-tro ore ogni giorno, ma c’èchi ne fa anche di più, chi se neva in palestra alle sei di mattina echi resta su un campo da golf fino altramonto.

Quattro ore a provare dritti e rovesci,uno schema di calcio, una battuta conla mazza da baseball o un colpo al ca-nestro. Quattro ore tutti i giorni più lepartitine, i tornei, le sfide nel tempo li-bero. «Tra noi c’è molta competizione,è inevitabile, ma si diventa anche ami-

il raccontoScuole di sport

Viaggio in Florida, a Bradenton, dentro i segreti dellacelebre “Img Academies”. Qui l’italo-americano NickBollettieri ha allevato tennisti come Agassi, Courier, Becker,Monica Seles, Anna Kournikova e le sorelle Williams.E sempre qui adesso progetta di sfornare i futuri numeri unodei campi da baseball, basket, golf e soccer

ALBERTO FLORES D’ARCAIS

36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 20 FEBBRAIO 2005

La fabbrica dei bimbi campioni

LE STAR

BORIS BECKER

Nato a Leimen,vicino Heidelberg, il 22novembre del 1967. Soprannominato “Boomboom”, ha vinto 49 tornei,il primo a 8 anni e Wimbledon a 17. Oggi gioca i tornei AtpMasters

ANDRE AGASSI

È nato a Las Vegas il 29aprile del 1970. A 14 annisi trasferisce in Florida allascuola di Nick Bollettieri.Ha vinto 59 tornei,tra cui 8 Slam.Sposato con Steffi Graf e padre di due bambini,è ancora in attività

MONICA SELES

Nata il 2 dicembre 1973a Novi Sad. Ha esorditocome professionista nel1989 e ha vinto 53 titoli, ma la sua carriera è statafermata, nel 1993,dall’aggressione subitada Gunther Parche ad Amburgo

JIM COURIER

Nato il 17 agostodel 1970 a Sanford inFlorida. Il suo sogno era diventare un bravogiocatore di baseball. Ha vinto 23 tornei, di cui 4 dello Slam.Come Becker gioca i tornei Masters

Page 11: D Laomenica - la Repubblica

sione è un’altra. Vogliamo creare uomi-ni che sappiano come cavarsela nella vi-ta, e lo sport è una grande lezione. Daognuno di questi ragazzini cerchiamo diottenere il massimo, ma non gli andia-mo a raccontare bugie. Se uno non ha ta-lento meglio che lo sappia subito. Per noiva benissimo se resta qui, siamo orgo-gliosi di tutti i nostri allievi. Qual-che problema ce lo crea-no invece i geni-tori, tut-

ti vorrebbero averedei figli campioni».

«Gli italiani nel tennis non han-no la mentalità giusta, quando hannotalento pensano che tutto gli sia do-vuto. Non capiscono che qui siviene per lavorare, lavoraresodo. No, il nome dellabambina non te loposso dire, la pri-vacy va rispetta-

ta, e neanche tidirò se diventerà

una campionessa.Certo che in vita mia ne

ho viste poche che a quel-la età erano già così brave.

Guarda lì nell’altro campo, lavedi quella bimba? Èla sorella ed

è ancora più piccola».Nick Bollettieri saluta con ampi

gesti della mano: «Però mi raccoman-do, lo scriva. Io amo l’Italia, sono fierodi essere italiano».

ci facilmente». Le “Academies” vannofiere dell’ambiente internazionale emultietnico, i ragazzi oltre allo sportimparano la tolleranza e «a sapere ac-cettare la sconfitta, che è sempre ungrande insegnamento». Hanno i lorosvaghi, la mensa dove «puoi mangiarela pasta come in Italia», le serate neidormitori a scherzare e sognare la glo-ria futura, e qualche inevitabile flirt traadolescenti, anche se i controlli neidormitori sono piuttosto rigidi.

I “campi estivi” sono per tutte le età.Arrivano da ogni parte d’America e delmondo chi per una settimana, chi perdue o per tre, qualcuno anche per unmese. Una vacanza-studio (ci sonoanche corsi di inglese) con tanta atti-vità sportiva, allenati dagli allenatoridei campioni e con l’illusione di esser-lo, campione, almeno per qualchegiorno. Lo spirito imprenditoriale diTed e Nick non si è fermato soloai “campi estivi”. L’altragrande invenzione —quella che ha lancia-to definit iva-mente le“Acade-

mies” nelmondo del lo

sport professionisti-co — è stata quella di

aprire le porte ai campionigià affermati. Che ovviamente

non vanno a scuola, ma vengo-no qui per rigenerarsi, per un

periodo di riabilitazione

dopo traumi o incidenti, o che sempli-cemente decidono di fare un paio disettimane preparatorie ai ritiri pre-campionato con le proprie squadre.

Campioni affermati che vengono quida soli, in gruppo e in alcuni casi addirit-tura pagati dalle loro società, pronti a ri-mettersi in discussione e a frequentarel’“International Performance Institu-te”, la grande palestra dove ragazzini diquindici anni possono ritrovarsi a farepesi accanto alle stelle della Nba e agliidoli del baseball. Nomi famosi come icestisti Kevin Garnett, Chauncey Bil-lups, Vince Carter e KobeBryant; come i quarte-back Chad Pen-nington edEli Man-

ning, speranzadei Giants di New York;

o come Freddy Adu, il feno-meno sedicenne del soccer made

in Usa. «Italiani? Non se ne vedono, l’u-nico che gioca in Italia e che viene quicon una certa regolarità è Nakata».

L’ufficio di Ken Boleck, il direttore del-la “Baseball Academy”, è in una specie diroulotte ai bordi di uno dei “diamanti”dove i futuri campioncini si allenanolanciando la palla contro una rete.«Parliamoci chiaro, li vede questi ra-gazzini? Non tutti diventerannocampioni, anzi solo una picco-la parte giocherà tra i profes-sionisti. Ma la nostra mis-

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 20 FEBBRAIO 2005

Non esiste ormai trasmissione televisiva di un match ditennis in cui quel genio del regista non ci mostri unignoto personaggio, in un angolo della tribuna, o in un

palchetto di proscenio.Il personaggio si trova, per solito, in un preoccupante sta-

to di agitazione psicomotoria, saltella, mostra il pugno, e sul-le sue labbra si leggono esclamazioni che, fortunatamente,non raggiungono i microfoni.

Ascoltando il ben informato telecronista, si verrà presto asapere che l’esagitato è il padre di una qualche campionessa.

Esempio preclaro è Yuri Sharapov, il padre della incredi-bilmente bella Maria, presto numero uno mondiale.

Sharapov non sa di rappresentare un cliché tanto ribaditoda regredire ormai a luogo comune.

Non sembra esistere tennis-star, al contempo giovane e at-traente, che faccia a meno di un Papà Pigmalione, uno chenon si è limitato a servirsi di una fattrice, ma, subito dopo l’al-lattamento, l’ha sostituita in tutte le tradizionali mansionieducative, impossessandosi della piccola in modo totalequanto vampiresco.

Saremmo davvero troppo ingenui nell’immaginare che la vi-cenda si risolva in un successo interposta filia in grado di offrireal genitore altritempi frustrato l’affermazione invano sognata.

É questa, probabilmente, una componente del fenomenodilagante, ma non ne rappresenta la sola causa.

La ragione principale è il denaro.Le recenti campionesse di tennis condividono quasi sem-

pre un’umile origine con le native doti atletiche. Non esiste al mondo altro sport in cui si possano ammas-

sare in poco tempo cifre superiori ai trenta milioni di dollari,come sta accadendo alle due Williams, Serena e Venus, ven-titré e ventiquattr’anni.

Il più geniale dei padri padroni, Richard Williams, ha spes-so ripetuto che l’idea di avviare le sue piccine al tennis gli ba-lenò nel corso di un pomeriggio in cui, facendo zapping, videuna tennista che issava la gigantografia di un vittorioso pre-mio di centomila dollari.

Richard Williams viveva, allora, in un ghetto, tanto poco fre-quentabile che una delle sorellastre di Venus e Serena, Ya-tunde, sarebbe stata vittima di un colpo di pistola.

Figurarsi un poveraccio come Yuri Shara-pov, che la vita aveva addirittura co-stretto in un remoto villaggio degliUrali, sfamatodalla

nonna di Maria. Come non comprendere l’eccita-

zione, la presupponenza, il grossolanocomportamento, di tipi simili?

Ultimi, solo cronologicamente, di una schierache allinea infiniti altri papà papponi, da Peter Graf a

Jim Pierce, a quelli felicemente abbandonati della Henin odella Dokic.

Insieme a queste storie di straordinario successo, ve nesono purtroppo centinaia d’altre in cui la soap opera nonè andata in scena.

I court delle più o meno famose Academy, come quelladi Bollettieri, sono lastricati di teneri ossicini, bambinetroppo presto avviate a uno sport che, in tenerissima età,è certamente nocivo ad una crescita normale.

Le reti di protezione che cingono i campi assumono leconnotazioni di un minilager, il maestro diviene un aguz-zino, mentre il mondo normale, asilo e scuole elementari,non sono accessibili, se non per corrispondenza, nel mi-gliore dei casi.

Tanto accorate per sfruttamento dei minori, o pedofilia,le autorità preposte non sembrano minimamente occu-parsi di simili vicende, non meno disumane, non meno no-cive. Il miglior coach italiano, Riccardo Piatti, mi diceval’altro giorno: «Non rimane altro che metterle in campo adue anni, se si vuole che abbiano successo».

Quei padri-vampirie il miraggio dei dollari

Campionesse ragazzine, l’altra faccia del successo

GIANNI CLERICI

ANNA KOURNIKOVA

Nata a Mosca il 7 giugnodel 1981. La primaracchetta l’ha ricevutain regalo dai genitoria 5 anni. Non ha mai vintoun torneo in singolare.Assente da tempo,è fidanzata con EnriqueIglesias

SERENA WILLIAMS

Nata il 26 settembre 1981a Saginaw nel Michigan.Ha vinto 26 tornei, tra cui 6 Slam. Disegnai suoi completini evorrebbe darsi al cinema,lavorando al fiancodi Sean Connery e Anthony Hopkins

VENUS WILLIAMS

Nata a Lynwood inCalifornia il 17 giugno1980, ha scopertoil tennis a quattro annie mezzo con suo padre.Sono 31 le sue vittorienel circuito Wta, 4 quelledello Slam. Ha un fidanzatoitaliano

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IL CAMPUSNella foto a sinistra, il muro di cinta

della Img Academies. A destra, Nick Bollettierie ancora a fianco la piscina interna

della scuola

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38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 20 FEBBRAIO 2005

DMOSCA

a oggi la Russia e il mondooccidentale devono fare iconti con una verità nuo-va e spaventosa sui Gulag

staliniani: la storia di un massacro diStato raccontata non dalle vittime, madai rapporti d’ufficio dei carnefici.Un’opera monumentale riscrive mezzosecolo di vita dell’Urss e del comuni-smo. Dopo oltre cinquant’anni e un re-gime disintegrato, l’orrore rimasto nel-l’ombra, evitato nel timore di ricono-scere errori politici e responsabilità mo-rali, riemerge alla luce. I racconti e le vo-ci acquistano la forza delle prove. Sottoaccusa, oltre alla dittatura sanguinariagenerata dalla rivoluzione bolscevica,anche l’indifferenza e la compiacenzadi partiti e cancellerie europee nella pri-ma metà del Novecento.

Spazzando via decenni di reticenze,infranti solo dalle denunce dei soprav-vissuti e dalle opere letterarie dei dissi-denti sovietici, arriva nelle librerie la pri-ma enciclopedia dei Gulag. Sette volumi,cinquemila pagine con oltre millecin-quecento documenti originali finora se-greti, declassificati e attinti dall’archiviofederale russo e da quello centrale delKgb, un pool di venticinque storici russi,americani e francesi che per cinque annihanno coordinato centinaia di archivistie studiosi: il risultato è la Storia del Gulagstaliniano, un progetto scientifico inter-nazionale con sede a Mosca e che si av-vale della collaborazione dell’universitàdi Standford. Esso riordina, grazie a fattifinora sconosciuti e sconvolgenti, il mas-sacro lucidamente pianificato e compiu-to tra il 1920 e il 1953. Ogni volume af-fronta un tema: le repressioni di massanell’Urss, la struttura e i quadri del siste-ma punitivo, l’economia dei Gulag, la po-polazione e le sue condizioni di tratta-mento, i coloni speciali nell’Unione So-vietica, le insurrezioni e gli scioperi deidetenuti. Il settimo volume, pronto entrol’estate, sarà infine la prima guida com-pleta agli archivi e ai documenti sui lagercomunisti custoditi in tutto il mondo.

L’enciclopedia, appena uscita tra l’in-differenza generale in Russia, sarà pre-sentata a metà marzo al Salone del librodi Parigi e all’Università di Harvard. No-nostante sia destinata a essere ciò che peril XX secolo è stato Arcipelago Gulag diAlexandr Solgenitsyn, una luce chesquarcia l’oscurità e fa vergognare, non èprevista la sua traduzione. Troppo alti icosti per l’editrice Rosspen, una Utet rus-sa che da dieci anni ricostruisce la storiadel paese secondo criteri scientifici: pres-soché nullo l’interesse manifestato daimercati editoriali stranieri. Tra storici e

slavisti però, anche grazie alle prefazionidello stesso Solgenitsyn e di Robert Con-quest, l’interesse è già enorme. Il sistemadei Gulag, fino ad oggi descritto dalle vo-ci dei deportati, approda alla visione in-discutibile dei suoi promotori. Un saltodi qualità decisivo che segna anche unpassaggio generazionale nella ricostru-zione degli eventi: dagli storici coinvoltinella dissidenza e nella Guerra Fredda aquelli che hanno vissuto da ragazzi il crol-lo dell’Urss, dalle approssimative rico-struzioni a caldo alla realtà fotografata inprospettiva. Il risultato è agghiacciante.In base ai documenti riservati di servizisegreti e ministeri degli Interni dell’epo-ca, si precisa l’intero sistema comunistadegli arresti, delle deportazioni di massae delle condanne ai lavori forzati e allamorte. Per la prima volta acquista il sigil-lo dell’ufficialità anche il numero dellevittime dei Gulag e delle deportazioni: cir-ca venti milioni di persone. Nel febbraiodel 1929 i prigionieri erano 80.000;685.000 nel 1934, un milione e 289.000 nel1939, 2 milioni e 300.000 nel 1941, 6 milio-

ni e mezzo nel 1944. L’intera Urss fu inva-sa da 512 lager, trasformandosi in un soloe immenso campo di prigionia, di lavoroforzato e di sterminio. Nei primi anni Cin-quanta, i detenuti arrivarono a 8 milioni emezzo. Il tasso di mortalità, nei campi do-ve «scontavano la pena» anche donne ebambini, toccò il 25 per cento. Si morivadi stanchezza, di sporcizia, di freddo, difame e di sfinimento: ma nel solo 1938 ol-tre un milione di persone vennero fucila-te, senza un’accusa e senza un processo,prima ancora di finire su una tradotta ver-so la Siberia o l’Asia centrale. Emerge co-sì dai documenti un’altra verità fino adoggi solo intuita: i mandanti e gli strateghidel genocidio furono Stalin e i dirigentidel Politburo del Pcus in prima persona. Ildittatore e i vertici del partito comunistanon si limitarono a fissare obiettivi e stru-menti: migliaia di atti, autografi, ordina-no il numero delle persone da reprimeree da uccidere, mese per mese.

Lo staff di storici che ha realizzato l’o-pera definisce lo stalinismo «utopia stra-gista al potere». All’origine dei Gulag non

ci fu solo il desiderio di Stalin di elimina-re i nemici politici, la classe dominanteprerivoluzionaria e ogni mente libera: irapporti politici segreti provano ora chela repressione divenne il pretesto percreare un esercito di milioni di schiavi,obbligati a realizzare opere grandioseche celavano il fallimento dell’Urss e del-lo stalinismo. «Ciò che abbiamo docu-mentato — spiega Andrei Sorokin, diret-tore generale della Rosspen e coordina-tore dell’enciclopedia — è la tragica fina-lità pubblica del sistema dei Gulag. Leriforme economiche e agricole, le sco-perte scientifiche, le gigantesche infra-strutture sorte in pochi anni nell’Urss, lacorsa agli armamenti e successivamentequella allo spazio e al nucleare, non sa-rebbero state possibili senza il sacrificiodi milioni di schiavi. La finzione del pro-gresso dell’Unione Sovietica, l’ambizio-ne a diventare una superpotenza, furonofondate sulle stragi e sulle deportazioni».

I documenti riemersi e raccolti sonochiari. Ogni metodo, anche il più crimi-nale, sotto Stalin fu considerato lecito serivolto a costruire una «società nuova».Le purghe e il grande terrore colpironoprima gli oppositori attivi del regime: mapoi, secondo le opportunità di Stato, de-portarono e decimarono classi sociali,categorie, popoli ed etnie, fedeli di tuttele confessioni. In trent’anni la società so-

vietica fu sconvolta da carestie pianifica-te e migrazioni coatte. Nuovi documentiprovano gli ordini stragisti di Stalin: dalgulag per 100.000 schiavi, accanto al can-tiere del mai usato canale tra il Mar Bian-co e il Baltico, fino alla distruzione dell’a-gricoltura ucraina e alle «deportazionirieducative» di tedeschi, ucraini occi-dentali, polacchi, tartari della Crimea, in-gusci, ceceni, caracevi e calmucchi. Tremilioni di persone spedite in luoghi de-serti e gelati, abbandonate e condannatea morte. L’ideologia naufragò nella follia.La Russia, precisa l’enciclopedia, ha pa-gato con 60 milioni di morti i settant’an-ni di dittatura staliniana e comunista: 12milioni per la Rivoluzione d’Ottobre, 20milioni per le repressioni e le deportazio-ni nei Gulag, 28 milioni per la spartizionedell’Europa tra Hitler e Stalin sfociata nelconflitto mondiale. «Sono mancate le ca-mere a gas — dice Sorokin — l’antisemi-tismo e le riprese cinematografiche al-leate, la liberazione del dopoguerra: mala dimensione globale dei Gulag, che s’ècercato di far dimenticare e ancora si pre-ferisce ignorare, fu un inferno se possibi-le peggiore di quello dei Lager».

Il genocidio secondo i carnefici si fon-da su migliaia di rapporti burocratici, diverbali, di lettere e di ordini impartiticon il linguaggio semplice altrimentiusato per regolare un incrocio stradale.

GIAMPAOLO VISETTI

GulagLa verità sui carnefici

Ogni metodo, anche il più criminalee crudele, fu considerato lecito da Stalinse rivolto a costruire una società nuova

La monumentale storia di un massacro di Stato raccontata per la primavolta dai rapporti degli aguzzini. Cinquemila pagine con oltremillecinquecento documenti originali finora segreti. Una enciclopedia

dell’orrore, che narra la storia dei venti milioni di vittime delle deportazioni:un immenso esercito di schiavi obbligati a realizzare le grandiose opere del regime.La tragedia viene ora alla luce, ma la reazione prevalente in Russia è di indifferenza

Page 13: D Laomenica - la Repubblica

Così i contadinifurono sterminati

ALEXANDR SOLGENITSYN

La Storia del Gulag stalinianorappre-senta un grande e decisivo passonella ricostruzione sistematica del-

la storia delle repressioni comuniste inUrss. Ma l’opera è anche un contributofondamentale per la comprensione dellastoria generale dell’Urss. Essa riesce a illu-minare e delimitare un quadro storico chefinora è stato in ombra, soprattutto perquel che riguarda la distruzione della clas-se contadina. E logicamente si occupa an-che dell’ondata delle carestie che erano

state preparate in un quadro di violen-ze nel periodo sovietico (e quin-di, in prospettiva, anche dellagrande carestia del 1921).

Le conclusioni tratte dai ricer-catori sono basate su un numeroenorme di documenti, di caratte-re vario e di diverso significato: gra-zie a questa solida base documen-tale ci viene offerta una piena infor-mazione sul fenomeno dei Gulag, lapiù ampia possibile al giorno d’og-gi. L’evento sarà indubbiamente ac-colto con soddisfazione e vivo inte-resse dai lettori di tutto il mondo.

Nel primo volume viene descrittocon chiarezza l’andamento periodicodelle repressioni in Urss e vengonosottolineate le differenze tra le varie ca-tegorie prese di mira. Ogni periodo èesaminato sotto tutti i profili. Grandeattenzione viene prestata al tentativo distabilire il vero numero di vittime, perquanto sia oggi possibile. Tutto l’insiemedocumenta un’importantissima partedella storia dell’Unione Sovietica.

Il secondo volume, dedicato a Il siste-ma punitivo: la struttura e i quadri, con-ferisce dignità di studio alle valide e ric-che pubblicazioni degli ultimi anni suquesto tema.

Il terzo volume esplora in mo-do profondo i fini economici delGulag e il suo ruolo nell’econo-mia generale dell’Urss — ele-mento essenziale per compren-dere il problema del Gulag nellasua complessità. L’opera va asoppesare il doppio approccioadottato nell’affrontare il proble-ma dell’efficienza e dello sfrutta-mento del lavoro dei detenuti.

Il tema del quarto volume, de-dicato a La popolazione e la vitaquotidiana del Gulag, è statoforse il più difficile da risolverein una ricerca scientifica: nonpuò infatti essere riflesso in pie-no dai soli documenti. Ma inquesto caso si concede una pa-rentesi all’uso dei documenti,che contenevano indubbia-mente sia deformazioni preme-ditate nell’interesse della diri-genza dei lager, sia possibili di-fetti e comprensibili “peccatistatistici” conseguenti.

Il quinto volume, intitolato Co-loni speciali, è estremamente ric-co per l’inedita presentazionecronologica dei materiali —quelli che sono sopravvissuti an-che se immaginiamo quanti nesiano andati perduti — sulla “de-contadinizzazione” del paese. Questoprocesso è stato seguito in tutte le sue fasi:durante il caos degli anni 1930-1931, finoai successivi periodi meno esplorati (laguerra e il dopoguerra). Viene presentatal’evoluzione dello status dei coloni specia-li, ossia dei prigionieri deportati in massa:con la stessa sistematicità, e perfino conuna minuziosità ancora più scrupolosa,viene presentato anche il susseguirsi dellepulizie etniche impartite a partire dai co-reani dell’Estremo Oriente (1937), fino aipolacchi (1939), agli inghermanlandtsi(etnia di origine finlandese che abitava sulBaltico e in alcune zone della regione di Le-ningrado, ndr), ai tedeschi (1941) e infineagli altri casi noti delle deportazioni di in-teri popoli o di singoli gruppi etnici.

Vengono illustrate anche le misureoperative ed «antievasive» messe in attodall’Nkvd (il ministero degli Interni so-vietico ndr) e viene descritto il caso par-ticolare dell’«esercito di lavoro», nonchéla distribuzione geografica e i successivitrasferimenti dei coloni speciali. Infine sidescrive nei dettagli l’aggravarsi dellacrisi nella gestione delle colonie speciali:crisi accompagnata dalla moltiplicazio-ne delle strutture di sicurezza, da istru-zioni e rendiconti sempre più complica-ti, fino al collasso e all’abolizione com-pleta dell’intero sistema nel 1955.

Fa molta impressione ed è molto det-tagliato anche il sesto volume, Insurre-zioni, ribellioni e scioperi dei detenuti.Qui, con metodo convincente, si segue lanascita e la crescita della resistenza all’in-terno dei lager: le varie forme di protesta, iconflitti provocati dall’introduzione neilager di gruppi di delinquenti o di nuovigruppi etnici, le clamorose ribellioni deglianni Cinquanta che fecero fallire l’interosistema del Gulag. Questa evoluzione èstata presentata come un flusso di eventicoerente. É chiaro però che non tutti gli ar-chivi, soprattutto quelli locali, sono statiesaminati a fondo (e non tutti sono anco-ra accessibili). Questo vuol dire che c’è daattendere la continuazione e lo sviluppodel lavoro cominciato.

Il politburo fissava addirittura le misererazioni di cibo, sceglieva i tessuti per gliindumenti dei reclusi, decideva i luoghidei Gulag, fissava i numeri di vittimequotidiane, poneva gli obiettivi delleimprese collettive, assegnava le puni-zioni.

«La Storia del Gulag staliniano», diceYuri Afanassiev, curatore di uno dei volu-mi, «pone la pietra tombale dei fatti sopra

L’economiadello sfruttamento

ROBERT CONQUEST

In Russia e nel mondo la parola Gu-lag è diventata simbolo delle atro-cità disumane dell’Unione Sovieti-

ca staliniana. E anche se noi sappiamoche la parola Gulag (Direzione genera-le dei lager) nel suo significato inizialesi riferisce solo ai lager, i curatori diquesta opera storica sono riusciti a do-cumentare in modo chiaro e pienotutto il sistema punitivo dell’Urss. Nehanno studiato sotto ogni profilo i di-versi elementi: non solo i lager, ma an-che le colonie per i lavori forzati, i vil-laggi speciali e le prigioni controllatedagli organi del ministero degli Inter-ni. Nel senso più largo hanno studiatoil terrore nella sua dimensione totale,includendo nei volumi di documenti imateriali che si riferiscono sia alla re-clusione, che alla pena capitale (nel1937-1938, per esempio, sono stategiustiziate per canali ufficiali 700milapersone circa. E bastava un reato insi-gnificante per finire in prigione).

Il Gulag e le altre istituzioni del gene-re erano destinati a conseguire dueobiettivi principali: isolare in carcere levittime del terrore, utilizzare il lavoroergastolano nei cantieri dell’economiasovietica. Nessuno di questi scopi fumai perso di vista, ma in diversi perio-di l’equilibrio tra i due obiettivi oscillòora dall’una ora dall’altra parte. É ov-vio, per esempio, che le fucilazioni chesterminavano prevalentemente ma-schi adulti, molti dei quali lavoratorispecializzati, vennero effettuate in as-senza di calcoli economici razionali.

Il primo libro di quest’opera a più vo-lumi fa vedere che l’Nkvd, secondo leistruzioni di Stalin, selezionava le vitti-me per ammazzarle o per mandarle neilager. I documenti rivelano in modo in-

contestabile le intenzioni delregime: l’annientamento deiceti che avevano collaboratocon il vecchio regime, gli exmembri di altri partiti politici,i fedeli dei movimenti religio-si, gli ex rappresentanti delleclassi non sovietiche, personeattive in campi economici nonsocialisti. Per esempio: unodei primi importanti decretiche scatenarono il terrore (lalegge del 7 agosto 1932) eramirato contro i contadini eprevedeva la punizione per ilfurto della proprietà sociali-sta. Ma quelle erano le pro-prietà dei contadini, espro-priate dallo Stato.

Accanto ai «delinquenti»,condannati per i crimini con-tro il nuovo ordine con prete-sti economici, oppure per laloro appartenenza di classe odi religione, alla fine degli an-ni Trenta furono perseguitatii gruppi etnici che venivanogiudicati potenziali avversa-ri: polacchi, tedeschi, lituani,eccetera. Alla fine degli anniQuaranta a questi furono ag-giunti anche i rappresentantidi molte altre nazionalità ed

etnie, che abitavano i territori annessigrazie al patto tra l’Urss e la Germanianazista. Infine, nel corso della guerra,furono perseguitate anche le piccoleetnie che popolavano il Caucaso.

Una vera rivelazione di quest’ope-ra sono i diversi decreti contro le mo-gli e i figli dei «nemici del popolo». Glistudiosi sono riusciti a documentarediversi aspetti del terrore di Stato: peresempio il sequestro del grano e di al-tre derrate agricole alla maggioranzadei contadini, che portò alla carestiaorganizzata dallo Stato e a un ulterio-re gradino del terrore. Le autorità,cercando a qualunque costo di dimo-strare il trionfo dei loro piani econo-mici, erano decise a trarne vantaggio.Si creò così un enorme serbatoio dimanodopera riempito con la forza,che poteva essere usato secondo i finidello Stato e che richiedeva il minimodelle spese per far sopravvivere i la-voratori.

Così possiamo seguire l’evoluzionedi progetti giganteschi, cui gli econo-misti moscoviti si opposero finchénon furono annientati nel corso delle«pulizie». Questa «gigantomania»durò fino alla morte di Stalin: poi deci-ne di questi progetti furono abbando-nati perché irrealizzabili.

Il primo grande progetto, lanciatograzie al ricorso ai detenuti-schiavi, èla costruzione del canale tra il MarBianco e il Baltico, che non fu poi maiusato. E qui, oltre ai fini punitivi edeconomici, si scopre un altro aspettoimportante del problema: investi-menti considerevoli per falsificare lastoria. Lo testimoniano i documentisegreti pubblicati nell’opera. Anchenei casi in cui le autorità locali tenta-vano di evitare rendiconti produttivifalsi, raramente riuscivano ad imma-ginare il quadro di totale falsità gene-rale: ora possiamo sapere molto, gra-zie a quanto si racconta apertamentenei documenti e alla ricostruzione de-gli episodi a cui questi alludono.

LE TESTIMONIANZENella foto sopra,lo scrittore russoAlexandr Solgenitsyn.Qui sotto, lo storicoRobert Conquest

I DISSIDENTI Nelle immagini inquesta pagina, lefoto tessera diprigionieri mortinei Gulag: dall’altoVasily Zhurid,AleksandrPetlosy, GrigoriMaifet, ArnoldKarro, ValentinaOrlova. Nella paginaaccanto, la foto diun Gulag nelleisole Solovki.Immagini trattedal libro "Gulag,storia dei campi diconcentramentosovietici" di AnneApplebaum,edizioniMondadori

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Martin Amis

da KOBA IL TERRIBILE

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 20 FEBBRAIO 2005

i malintesi del comunismo, nell’ex Urss eall’estero: ma se la risposta è ancora il si-lenzio, significa che le dittature e il pote-re inteso come costrizione dei cittadini aeseguire ordini restano un’opzione allapari con altre». Poche parole, sottoscrittedagli storici russi che hanno ricostruito ilsistema dei Gulag, chiuderanno l’ultimovolume: «Questo è il prezzo ingiustifica-bile che abbiamo pagato per essere ciòche siamo, per vivere nel paese che simuove sotto i nostri occhi ancora chiusi».

L’agonia epicaLe scarpe: brandelli

di pneumaticitenuti insieme confil di ferro o cavoelettrico. Fatta digrano la zuppa ...Tre settimane di

lavoro rovinavanoper sempre la salute

di un uomo

Page 14: D Laomenica - la Repubblica

Cambia la mappa del culto dei Fab Four: dopo la chiusura del parcoorfanotrofio di Strawberry Fields, ora tocca agli studi di registrazione,che invece saranno finalmente visitabili dal pubblico e per l’occasione

diventeranno la sede di un festival celebrativo. In questa strada sono nate le più bellecanzoni di Lennon e McCartney ma ci sono passati anche i “rivali” Rolling Stone,i Pink Floyd e le più importanti band dell’era del rock

40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 20 FEBBRAIO 2005

Cambia la mappa dei luoghibeatlesiani. I pellegrini so-no stati già avvisati. Del par-co-orfanotrofio di Straw-berry Fields (reso immorta-le da John Lennon con

Strawberry Fields Forever) è stata annun-ciata la chiusura un mese fa: adesso ilcancello rosso che per quarant’anni è ri-masto uguale è dotato di un grosso luc-chetto marrone che smentisce quel “fo-rever” che Lennon aveva romantica-mente aggiunto per dare al titolo dellacanzone il senso dell’eternità. In com-penso, a marzo apriranno al pubblico glistudi di registrazione di Abbey Road, do-ve i Beatles lavorarono a lungo e ai qualidedicarono un disco, Abbey Road, ap-punto, che sarebbe stato anche l’ultimoinciso dai quattro musicisti insieme.

Per due settimane, a partire dal 19marzo, gli studi ospiteranno un festivalcinematografico in cui verranno proiet-tati esclusivamente film con colonne so-nore registrate ad Abbey Road. Si comin-cerà con I predatori dell’arca perduta, siproseguirà con il James Bond di Vivi e la-scia morire (musiche di Paul McCart-ney), L’ultimo imperatore di BernardoBertolucci, The Walldi Alan Parker (e deiPink Floyd), Notting Hill, Il paziente in-glese, per terminare con un inevitabiletrittico beatlesiano: A Hard Day’s Night,Yellow Submarine e Backbeat.

Non certo rarità, ma il contesto in cuiverranno raccolti li trasforma in piccolieventi. Qualche fan ha però storto il na-so. Dicono: le sale storiche (soprattuttola più grande) verranno smantellate perl’occasione, le console saranno rimossetemporaneamente, i microfoni e i pan-nelli insonorizzanti finiranno in cantinaper qualche mese, forse di più. Legittime

perplessità. A cui il direttore degli studiha replicato così: «Dopotutto il festival diAbbey Road è la celebrazione più impor-tante e pubblica degli studi più famosidel rock dall’uscita del disco in cui i Bea-tles attraversavano quella strada sullestrisce pedonali».

L’obiettivo è trasformare il Festival inuna visita. Sarà come andare al museo.Rimarranno infatti al loro posto tutti i“memorabilia” di cui gli studi sono ric-chi, a prescindere dagli stessi Beatles. Esoprattutto basterà armar-si di fantasia per provare arespirare ancora l’aria chegià si respirava nel ’62,quando i Beatles non eranoancora niente e pochiavrebbero puntato su di lo-ro. Entrarono per la primavolta negli studi di AbbeyRoad il 6 giugno di quel-l’anno. Ce li aveva portati illoro manager BrianEpstein. «Le canzoni diquel primo giorno non fu-rono mai utilizzate», ricor-da George Martin che li mi-se sotto contratto per laParlophone senza averlimai visti suonare. Alla bat-teria non c’era ancora Ringo Starr ma Pe-te Best. L’ultima volta dei Beatles a AbbeyRoad fu il 20 agosto del ’69, per conclu-dere la canzone I Want You.

In quelle stanze si celebrò anche ilcontatto fra Beatles e Rolling Stones.Due opposti solo apparenti forse. La leg-genda della loro inimicizia si fonda sulfatto che non ci fu mai un vero e propriosegnale di amicizia. Ma l’8 giugno del ’67Brian Jones, chitarrista e in quel mo-mento leader dei Rolling Stones, varcò lasoglia degli studi di Abbey Road per par-tecipare alle registrazione di un disco dei

Beatles. Paul McCartney racconta nellasua autobiografia Many Years From Now(in Italia edito da Rizzoli): «Arrivò infa-gottato nel suo mantello afgano. [...] Erasempre molto nervoso, ma quella sera loera di più perché stava per unirsi ai Bea-tles. Brian mi era sempre piaciuto mol-tissimo. [...] Pensavo che sarebbe statodivertente averlo con noi in studio e na-turalmente pensavo che avrebbe porta-to una chitarra [...] invece con nostragrande sorpresa vedemmo che si era

portato appresso un sassofono. Avem-mo tutti caldo improvvisamente».

Raro che faccia caldo ad Abbey Road.D’estate si può ancora avere la sensazio-ne di ripiombare negli anni Sessanta. Lemacchine parcheggiano comodamen-te e i negozi, nascosti dagli alberi, fini-scono per somigliarsi un po’ tutti, cosìcome i loro gestori, quasi tutti indiani.Abbey Road è una strada lunga che vadal nord all’estremo nord di Londra,quartiere St. John’s Wood, effettuando

una curva che si percepisce soltanto sul-la cartina. Tanti anni fa, il 12 novembredel 1931, in uno dei primi edifici dellastrada (non dove i Beatles si fecero foto-grafare per la copertina del loro disco) laGramaphone Company Limited inau-gurò i suoi studi di registrazione con unaperformance della London SymphonyOrchestra diretta da Sir Edward Elgar.L’anno successivo il grande musicistastupì i dipendenti dell’azienda facendoeseguire il suo Concerto per violino e or-

ENRICO SISTI

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Abbey Road

Page 15: D Laomenica - la Repubblica

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 20 FEBBRAIO 2005

LE METE

STRAWBERRY FIELDS

L’orfanotrofio diLiverpool, a pochi passidalla casa natale di JohnLennon, ispirò il grandesuccesso del 1967: un mesefa ne è stata annunciata lachiusura ma resta un luogodel cuore

GRACELAND

La casa-santuario di ElvisPresley, che ospita i suoimemorabilia, a Memphisnel Tennessee: l’edificioè circondato da un parcoe la strada che porta alla villaè stata ribattezzata ElvisPresley Boulevard

PÉRE LACHAISE

La tomba di Jim Morrisonnel cimitero parigino PéreLachaise è diventata oggiun monumento nazionalee viene visitata da una mediadi cento fan al giorno cheportano doni e fiori escattano fotografie

WOODSTOCK

A Woodstock nel 1969si svolse il megaconcertoa cui parteciparono le maggiori rockstar deltempo e 650mila giovaniaccampati intornoal palco: tra gli artistiJimi Hendrix

Ora a Liverpool c’è anche un piccolo museo beatlesia-no, e volendo visitare i luoghi sacri ci si può prenotareper un tour guidato, con tanto di cicerone. Ma fino a

qualche anno fa i luoghi del mito bisognava cercarseli da so-li, non c’erano cartelli e a fatica si trovava un taxi che sapesseportarti fino allo striminzito ma incantato cancello rosso del-lo Strawberry Field, il piccolo parco dell’orfanotrofio doveLennon giocava da bambino e che immortalò nella stupefa-cente Strawberry fields forever. Ora lo stanno chiudendo eper la verità nel 2000 qualcuno ha pensato bene di rubare lostorico cancello. Anche il celebre “barber shop” della canzo-ne Penny Lane non è più quello di prima, ora è un salone uni-sex, ma la strada è ancora lì, quasi intatta.

Penny Lane e Strawberry fields forever pubblicati comelato A e B di quello che è stato definito il più bel 45 giridella storia della musica, sono in realtà quello che ri-mase di un progetto di un album tutto dedicato a Liver-pool e alla memoria dei luoghi dell’infanzia dei quattroBeatles. Non se ne fece niente e al posto di quell’idea,come un fungo luminoso, spuntò fuori Sg.t Pepper.Nessuno come i Beatles ha fissato tanti luoghi di pelle-grinaggio. Sempre a Liverpool c’è la strada dove untempo sorgeva il Cavern club (oggi un supermercato),c’è la casa di Menlove Avenue dove il piccolo John vive-va con la zia Mimì, oggi anche questa visitabile grazie aYoko Ono che l’ha comprata e messa a disposizione delpubblico, e a Londra in Saville Row c’è sempre qualcu-no che alza lo sguardo per sbirciare il tetto del palazzodove aveva sede la Apple e dove i quattro organizzaro-no a sorpresa il loro concerto d’addio con Lennon chesalutò l’avventura Beatles dicendo: «Spero che abbia-mo superato l’audizione».

Anche l’America è piena di luoghi sacri. Ogni anno inagosto una frotta di tardo fricchettoni raggiunge l’im-mensa spianata nella fattoria di Max Yasgur dove nel 1969si svolse la tre giorni di pace, amore e musica di Wood-stock, altri nostalgici vanno all’incrocio di Haight-Ash-bury a San Francisco sperando di ritrovare qualche palli-da traccia della favola libertaria della controcultura hip-pie, ma nulla è lontanamente paragonabile al culto lega-to ai luoghi di Elvis Presley. La sua storia, quella del pove-ro ragazzo ex camionista diventato la più potente iconaplanetaria del rock, ha toccato così profondamente il sen-timento americano da diventare l’emblema del riscatto,il paradigma della terra promessa. Il luogo è Memphis do-ve è possibile visitare il minuscolo studio, lasciato pres-socché intatto, della etichetta Sun records, quella che sco-prì il giovane talento e dove Elvis ha mosso i primi passi.Nel negozietto attiguo si possono comprare le incisionioriginali della Sun, i classici 45 giri con l’etichetta giallache hanno fatto la storia del rock’n’roll. Sempre aMemphis, in quella che è diventata una specie di citta-della a parte, sorge il tempio massimo della mitologiarock: Graceland, la reggia del re che gli americani nonhanno mai avuto, la villa in cui Presley ha passato moltianni della sua vita, il suo esclusivo rifugio, la casa delle fa-vole, una sontuosa residenza con una facciata neoclassi-ca circondata da un parco e annunciata da un cancello dimetallo disegnato come un pentagramma con le note.Ogni anno arrivano in pellegrinaggio centinaia di mi-

gliaia di persone. Parte dellacasa è visitabile, ma per en-trare bisogna obbligatoria-mente salire su un piccolobus che compie i cento metriche separano gli edifici natiintorno alla casa, con mostre,negozi, l’aereo privato di El-vis, le sue automobili, dal pa-tio della residenza. A girareper le stanze si ha l’impressio-ne di un irreale viaggio in unaabitazione congelata al tem-po della morte di Elvis, il sa-lotto, la cucina, c’è perfino iltelevisore con lo schermo bu-cato da un proiettile che Elvissparò per gioco. Il suo corporiposa nel giardino antistante

alla villa a fianco a quello del gemello morto alla nascita ea quella della amatissima madre.

Quello delle tombe è un tema a parte della mitologiadel rock. Il fatto che molti dei grandi eroi del rock sianomorti giovani ha portato a una santificazione delle lorovite e a un conseguente morboso culto delle loro sepol-ture. La tomba di Bob Marley è un bianco mausoleo eret-to a Nine Mile, la cittadina dove Marley era nato nel 1944,e ogni anno nel giorno del suo compleanno, il 6 febbraio,il luogo diventa teatro di una grande manifestazionemusicale. Jimi Hendrix riposa in un piccolo mausoleonel Greenwood memorial park a Renton e ci troveretesempre fiori freschi, come succede alla tomba di JimMorrison al Père Lachaise di Parigi. Nel caso di Morrisoni fan sono andati molto oltre. La lapide è scomparsa datempo, rubata da qualche maniaco, e sulla terra frescac’è un cumulo di oggetti, messaggi, ricordi ammucchia-ti dai visitatori, una spontanea scultura pop che si rin-nova nel tempo. C’è anche un piccolo busto e una voltaci è capitato di vedere una “canna” infilata tra le labbradella statua. Alla morbosità dei fan non c’è limite. In tan-ti hanno fatto carte false per poter dormire alla stanzanumero 100 del Chelsea Hotel a New York, quella in cuiSid Vicious ha ammazzato la sua fidanzata Nancy Spun-gen, quello stesso hotel peraltro dove per anni sono pas-sati artisti di ogni generazione, dai poeti beat a Janis Jo-plin e Leonard Cohen.

I luoghi mitoda Liverpoola Graceland

chestra al 15enne violinista Yehudi Me-nuhin, scomparso sei anni fa.

L’edificio che ancora oggi accoglie glistudi della Emi era stato costruito nel1830. Il primo inquilino fu un certo Ri-chard Cook, un ciabattino arricchitoche avrebbe potuto far gola a Dickens:l’uomo rimase al numero due di AbbeyRoad (che divenne misteriosamente 3nel 1872) per 24 anni.

Nel 1915, dopo essere passata per va-rie mani, la casa fu convertita in un con-dominio di tredici appartamenti. Il pri-mo ad andare ad abitarci fu un gentiluo-mo scozzese completamente sordo, fat-to questo che non lasciava certo presagi-re il futuro “sonoro” che il destino avreb-be riservato alla “desirable property”che l’immobiliare aveva smembrato estava cercando di vendere. Inoltre s’eragià sparsa la voce che i locali fossero visi-tati con una certa regolarità dal fantasmadi una certa Edith Rosse, morta in circo-stanze misteriose in una stanza da ba-gno del secondo piano. L’indiscrezionearrivò fino a John Lennon e non ci vollemolto perché, un giorno, il musicista ar-rivasse trafelato dicendo: «Chiudete leporte! Anzi no! Tanto il fantasma che hoincontrato in ascensore passa anche at-traverso i muri. Si salvi chi può!». Non glicredette nessuno.

Prima di arrivare ai Beatles, gli studiAbbey Road avevano comunque giàavuto momenti di gloria musicale. Fa-mose furono le “sessions” del 16 settem-bre del 1944 durante le quali Glenn Mil-ler, poco prima di morire in volo sopra laManica, registrò alcuni brani con la can-tante Dinah Shore. Da ricordare anche il1950: nel febbraio di quell’anno il giova-ne George Martin (lo stesso che avrebbemesso sotto contratto i Beatles e arran-giato molte delle loro canzoni) iniziò a la-vorare con l’allora capo dell’etichetta

Parlophone. Nel ’52 un motivo registra-to ad Abbey Road arrivò per la prima vol-ta nelle classifiche inglesi: fu il brano diMax Bygraves (che poi non ebbe altrisuccessi) intitolato Cowpunchers Can-tata. L’apoteosi commerciale si celebrònel ’63, con ben quindici singoli dellaTop 20 inglese registrati in quella che erastata la casa di Cook.

L’acquisto di più sofisticate attrezza-ture portò alla realizzazione di un cele-bre disco dei Pink Floyd: The Piper at theGates of Dawn. Disse il tecnico del suonoNorman Smith: «Lavoravo ad AbbeyRoad e quello che imparai lì dentro mipermise di ottenere, fuori dagli studi, undisco come quello». Il patrimonio tecno-logico degli studi era all’avanguardia e,alla fine degli anni Sessanta, stava diven-tando un modello di modernizzazionedelle tecniche d’incisione.

Capitolo armadi. Negli uffici di AbbeyRoad si possono ancora trovare incisio-ni stravecchie. Nel ’97 sono usciti cinquedischi carichi di memorie musicali del-l’era del beat. Erano i giorni in cui neglistudi, oltre ai Beatles, passavano Sha-dows, Hollies, Gerry & The Pacemakers ealtre decine di band meno famose. Maanche loro hanno lasciato segni indele-bili. Il libro Abbey Roaddi Brian Southall,Peter Vince e Allan Rouse, uscito semprenel ’97, racconta la vicenda di un luogounico nella storia della musica moderna.Con una festa, il 12 novembre del 1981vennero celebrati i 50 anni di AbbeyRoad. C’era anche un signore di 64 anniche non rivolgeva la parola a nessunoperché nessuno sembrava sapere chifosse. Era Yehudi Menuhin, il 15enneche 49 anni prima era apparso col suoviolino dietro il mantello del maestro El-gar. Il piccolo fiammiferaio di AbbeyRoad che solo Paul McCartney seppe ri-conoscere. Guarda caso.

IERI E OGGISopra, le celebristrisce pedonalidi Abbey Roadfotografate oggie (in alto) nel 1969,per la copertinadell’album omonimo.A destra, i Beatlesnello studio diregistrazione. Sotto,l’ingresso dell’edificiocom’è oggi conun gruppo di fan

GINO CASTALDO

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Apre la “casa” dei Beatles

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spettacoliFestival di Berlino

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 20 FEBBRAIO 2005

I PREMI ASSEGNATI

U Carmen Ekhayelitsha di Mark

Dornford-May ha vinto l’Orso

d’oro come miglior film (nella foto

Lungelwa Blou). Argento all’attore

Lou Taylor Pucci per Thumbsucker

di Mike Mills, argento all’attrice

Julia Jentsch per Sophie Scholl di

Marc Rothemund, a sua volta

argento per la regia

LA ROSA BIANCA

L’Istituto Luce si è assicurato la

distribuzione del film tedesco

Sophie Scholl di Marc

Rothemund (Orso d’argento

all’attrice e al regista), storia degli

ultimi sei giorni della fondatrice

del gruppo della Rosa Bianca,

unico caso di resistenza al regime

nazista, giustiziata nel 1943

LBERLINO

iam Neeson è l’ultima star del55mo festival di Berlino, cheha scelto come film di chiusu-ra Kinsey, in cui l’attore irlan-

dese interpreta lo scienziato che negli an-ni ‘50 sconvolse l’America con le sue ri-cerche sul comportamento sessuale diuomini e donne. Il film di Bill Condon, ba-sato sulla dettagliata documentazione la-sciata dallo stesso Alfred Kinsey — mortonel ’56 a 62 anni — è anche un’indaginenella vita intima dello scienziato e nelprofondo legame con la moglie (LauraLinney), che ne accettò la bisessualità.

Negli Usa Kinsey ha provocato una fu-riosa reazione dei gruppi conservatori etentativi di boicottaggio con l’accusa diesaltare il «fondatore del movimentoomosessuale», mentre l’associazione«per la castità e l’astinenza» ha paragona-to Kinsey a Hilter e a Saddam Hussein.

Se il regista cerca il lato positivo, LiamNeeson ne parla con stupore: «Non miaspettavo tanta violenza, è come se l’A-merica stesse tornando indietro, al climaoscurantista degli anni Cinquanta, dellaguerra fredda. Sono tempi molto strani.C’è una bizzarra schizofrenia, da una par-te l’enfasi sulle libertà individuali, dall’al-tra la resistenza ostinata del puritanesimopiù integralista. Ma forse non dovrei sor-prendermi pensando alla campagna elet-torale di Bush, che ha avuto tra i punti for-ti la supremazia della famiglia tradiziona-le, il rifiuto dei matrimoni gay e alle con-quiste dei movimenti per i diritti civili. Og-gi l’America è davvero divisa in due, dauna parte c’è la ricerca scientifica che pro-gredisce, dall’altra il governo e le istituzio-ni che combattono il “nuovo” e la sessua-lità in genere».

Cosa sapeva di Kinsey prima del film?«Pochissimo, sono cresciuto negli anni

Cinquanta nel nord dell’Irlanda, dove an-che la parola sesso era tabù, non se ne par-lava a scuola, figuriamoci in famiglia, soloil pensiero era considerato peccato. Incompenso il clima di repressione vissutonell’infanzia e nell’adolescenza mi haaiutato a capire l’ostilità dell’ambiente incui ha operato Kinsey e le difficoltà che haincontrato per tutta la vita».

Cosa l’ha colpita della sua personalità?«L’energia e la passione che ha messo in

tutto il suo lavoro, oltre al coraggio incre-dibile per cui nessun ostacolo è riuscito afermarlo. Era un bambino gracile ed erastato un ragazzo molto malato, penso chese non avesse avuto una vitalità così fortenon sarebbe arrivato fino a 62 anni. Libe-rare la gente dai tabù del sesso è stata la sua

missione, insieme a quella di aiutare chisubiva i danni della repressione sessuale.In questo senso Kinsey è importantequanto Galilei o Newton».

Quali sono state le sequenze più impe-gnative?

«L’incontro con il padre che gli confes-sa la violenza della repressione subita dabambino, le punizioni feroci per la ma-sturbazione».

Si è chiesto perché le offrono tanti per-sonaggi storici?

«Forse perché i personaggi della vitareale come Michael Collins o Schindlersono quelli più popolari. E, forse perchésono alto e robusto, mi offrono ruoli epicio eroici, i miei due ultimi film sono Thekingdom of heavendi Ridley Scott sui cro-ciati e Batman beginsdi Chstistopher No-lan. E farò Lincoln per Spielberg».

Liam Neeson.Il mio Kinseyun genio come Galileo

Il film di BillCondonsul celebresessuologoè statopresentatoin chiusuraalla Berlinale

Ma i migliorirestano al palo

Un verdetto controverso

PAOLO D’AGOSTINI

S BERLINO

tupore per il verdetto della giuriapresieduta da Roland Emmerich. Tral’anima artistica e sperimentatrice equella contenutistica e terzomondista,fittamente rappresentata, non hannoscelto, attribuendo l’Orso d’oro a UCarmen Ekhayelitsha di MarkDornford-May che è un film sudafrica-no ma anche un’innocua rivisitazionedella Carmen: più che altro una coreo-grafia. Al palo le due opere di maggiorspessore formale (e nonsolo) e più audaci: Il soledel russo AleksandrSokurov e la conturban-te riflessione sul sesso Lanuvola capricciosa deltaiwanese Tsai Ming-Liang. Al terzo titolo dinotevole interesse, ilfrancese De battre moncoeur s’est arrete di Jac-ques Audiard, è andatoun riconoscimento allamusica. Soluzione dinon indegno compro-messo per il secondo po-sto, gran premio dellagiuria, al cinese Il pavonedi Gu Changwei, carrel-lata minimalista e neo-realista tra anni 70 e 80 attraverso la tra-gicommedia quotidiana di una famigliaproletaria. Si poteva fare di meglio per ilmiglior attore che laureare il pur validoragazzo americano Lou Taylor Puccidell’amara commedia Thumbsucker.Consenso netto, con il bis di miglior re-gia e migliore attrice (Marc Rothemunde Julia Jentsch), a Sophie Scholl, vibran-te omaggio agli eroi ragazzi della RosaBianca che si opposero a Hitler.

I VINCITORIJulia Jentsch,interprete diSophie Scholl.A sinistra, LiamNeeson

MARIA PIA FUSCO

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Page 18: D Laomenica - la Repubblica

i saporiRiti mattutini

Quattro italiani su cinque dedicano al primo pastodella giornata non più di dieci minuti: un espressoe una brioche e poi di corsa a lavoro. Ma i nutrizionisticontinuano a ripetere che il breakfast dovrebbe essereuna abitudine alimentare abbondantemagari da condividere con la famiglia

44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 20 FEBBRAIO 2005

L’immagine è sempre lastessa, da una generazio-ne all’altra, trasversale acenso, età, lavoro: mam-ma e papà (o almeno unodei due) con un paio di

marmocchi allegramente vocianti emasticanti davanti a tazze che fumanoe vassoi che traboccano dolcezze. Co-sì illustrano la colazione i pubblicitari,da mezzo secolo in qua.

Non vi ci riconoscete? Normale. Per-ché il vero lusso del terzo millennio nonè il denaro, ma il tempo. Anche a cola-zione. Abbiamo le materie prime piùbuone del mondo (almeno sulla carta):caffè tostato alla perfezione, frutta pertutte le stagioni, latticini golosi, pani diogni tipo. E in quanto a pasticcini e bi-scotti, vantiamo oltre duemila anni dipratica (nel De AgricolturaMarco Cato-ne dà la ricetta dei Suavillum, a base difarina, uova, miele e semi di papavero).

Insomma, la “famigliola-MulinoBianco” dovrebbe essere lo specchiofedele dei nostri risvegli quotidiani. Ep-

pure, più che la brioche, poté la fretta.L’ultima ricerca dell’Eurisko, infatti, ri-vela che il 92 per cento degli italiani co-mincia la giornata facendo colazione.Ma di questi, quasi l’80 per cento le de-dica non più di undici minuti: un caffèe poco d’altro. «Più o meno, è comemettere le dita nella presa della corren-te per svegliarsi», commenta rassegna-to il nutrizionista milanese Vanni Zac-chi. Che spiega come il primo pasto del-la giornata dovrebbe essere ricco, va-rio, digeribile, e soprattutto consuma-to con tranquillità, per evitare di parti-re con il piede sbagliato (e stressato).

Da dove cominciamo? Dal cappuc-cino, stolto assemblaggio di grassi e al-caloidi, che affatica stomaco e fegato,o dalla brioche farcita, ovvero farinaraffinata, burro (quando va bene) ecrema/marmellata ben zuccherata?La colazione più amata al bar è un di-sastro annunciato.

Non che a casa le cose vadano moltomeglio. Perché sul tavolo frettolosa-mente apparecchiato in cucina, i due

alimenti a cui è più comune attingere so-no la biscottiera e la scatola dei cornflakes, appena messi sotto accusa daimedici inglesi perché super raffinati eiperzuccherati. E come se non bastasse,più di mezza Italia rinuncia alla colazio-ne familiare, sostituendo il rito colletti-vo con una frettolosa pratica solitaria.

E dire che quando andiamo all’esterosiamo bravissimi: scopriamo la sanapratica alimentare del musli con lo yo-gurt, oppure ci lasciamo tentare dalla viadel sale: uova strapazzate, pancettacroccante, pane nero. Sarà che il viaggioci fa sentire cittadini del mondo, o sem-plicemente che smettiamo per qualchegiorno l’abito di homo sedentarius.

Ma la piccola rivoluzione del break-fast si esaurisce regolarmente al rien-tro: caffè e biscotti hanno di nuovo il so-pravvento, anche perché le colazionisalutiste ci vengono raccontate comenoiose e per nulla goderecce. A menoche…. «A meno che impariamo a va-riarle», suggerisce il dottor Zacchi, con-vinto com’è di dover insegnare ai pa-

zienti soprattutto la qualità degli ali-menti, più del conteggio calorico.

E allora, via libera al formaggio fre-sco, al pane ai cereali perfino con unpoco di burro e marmellata (ce n’è distrepitose con risicatissime aggiunte dizucchero, chiedere referenze ai cultoridelle confetture Agrimontana e CaffèSicilia), oppure lo yogurt frullato insie-me a un frutto e arricchito di semi misti,dal lino alla zucca. I più arditi non si ne-gheranno un paio di fette di bresaolaaddentate a mo’ di sandwich con il pa-ne nero spalmato di formaggio caprinofresco, accompagnate da una spremu-ta “corretta limone”, che è un alcaliniz-zante a dispetto delle apparenze, equindi bilancia l’acidità dell’arancia.

Ma soprattutto, il segreto è goderse-la, la colazione. Anche a costo di alzar-si un quarto d’ora in anticipo sull’ora-rio abituale. Tanto, nessuno control-lerà l’eleganza della tavola, né vi obbli-gherà a sorridere mentre precipitate letazze nell’acquaio impugnando lospazzolino da denti.

itinerari

LICIA GRANELLO

ColazioneGuida allo spuntino perfetto

A Merano, la tradizione dellacolazione di montagna, rustica e sostanziosa, unita alla profondapassione per i cibi sani, fanno del risveglio uno dei momenti cloudella giornata. Burro, marmellatebiologiche, pane scuro, lattefreschissimo, yogurt naturale,strudel, krapfen, musli nonzuccherato e ricco di cerealiintegrali. Alla parte dolce, èsempre affiancato anche un cotèsalato di tutto rispetto, con uova,speck e salsicce. Il caffè è lungo,in tazza grande, la frutta quasisempre rappresentata dallestraordinarie mele della zona

DOVE DORMIRE

VILLA TIVOLI, via Verdi 72tel. 0473- 446282. Camera doppiaa 140 euro, colazione inclusa

DOVE COMPRARE

ERB BROT, via Scuderie 83tel. 0473-230655

IL BREAKFAST

KONIG, corso Libertà 168tel. 0473-237162

Alto Adige

La preparazione della “pizza diPasqua”, una pasta cresciuta conpecorino tagliato a dadini,parmigiano grattugiato, uovaed extravergine, ha finito perestendersi a tutto l’anno, versionesalata della colazione, daconsumare insieme alla spremutao al succo di frutta. Ma a Perugia,non sottraetevi al rito dellacioccolata calda in tazza con unafetta delle torte supertradizionali,come il brustengolo, il torciglione,la ciaramicola. Immancabile lacrostata con farina di farro,cereale-principe della regione

DOVE DORMIRE

GIO’ARTE E VINIvia R. D'Andreotto 19tel. 075-5731100. Camera doppiaa 100 euro, colazione inclusa

DOVE COMPRARE

ALUNNNI, via della Scuola 11tel. 075-397127

IL BREAKFAST

IL CAFFÈ DI PERUGIAvia Mazzini 10, tel. 075-5731863

Umbria

Non esiste città al mondo dovebere un caffè (espresso o moka)migliore che a Napoli. Gli espertiattribuiscono grande importanzaall’acqua di preparazione. I cultoriaggiungono qualche cristallo disale per temperare l’acidità.Tradizione vuole che i più agiatipaghino una “tazzulella” in più, a vantaggio degli avventorisquattrinati. Insieme al caffè, chesi consuma bollente, cortissimo e poco o nulla zuccherato, siaddenta una brioche ripiena dicioccolato o una fetta di pastiera

DOVE DORMIRE

CHIAJA HOTEL DE CHARMEvia Chiaia 216, tel. 081-415555Camera doppia da 140 euro,colazione inclusa

DOVE COMPRARE

SCATURCHIOp.zza San Domenico Maggiore 19tel. 081- 5516944. Sempre aperto

IL BREAKFAST

LA TERRAZZA, via Petrarca 48tel. 081-5752598. Sempre aperto

Campania

Il napoletano Giovanni Assante produce una delle pasteartigianali più ricercate dall’alta gastronomia, la “Gerardodi Nola”. Vanta due lauree, una passione profonda per la culturaalimentare e l’impossibilità di cominciare la giornata senza una“tazzulella’e cafè” fatta come Dio comanda

LA CIOCCOLATA

E chi nongodrebbe divedersi servirealla primacolazione... unatazza di cioccolatainvece del solitotè o caffè, una veracioccolata...

‘‘DA I BUDDENBROK

Thomas Mann

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45DOMENICA 20 FEBBRAIO 2005

Sono i litridi latteprocapitebevuti inItalia ogni anno

57 litriI cereali nonci conquistano:solo 500 gra testa l’annoil consumo

500grIl caffèè la nostrapassione neconsumiamo6,2 kg l’anno

6,2kgÈ la quantitàdi biscottiche ogni annomangiamoa colazione

12,5kgÈ il consumoprocapitedi yogurtsia biancoche alla frutta

6,5kg

CALORIEper 100grdi pane

integrale

240=

CALORIEcon 2

cucchiainidi zucchero

40=

CALORIEper 100grdi yogurt

intero

65=

CALORIE141=

CALORIEper 100g

400=

IL BAMBINO

La colazione ideale per i più piccoli è subase glucidica, con carboidrati a lentoassorbimento. La tazza di latte scremato(più digeribile), può essere arricchita daqualche cucchiaio di musli o da una fettadi pane integrale con marmellata bio senzazucchero, e un frutto. In questo modo, si haanche un apporto equilibrato di proteinedigeribili, sali, vitamina B e fibre

L’ANZIANO

In assenza di patologie specifiche, occorreprivilegiare proteine e zuccheri. Come unatazza di latte (mai però con l’aggiunta di caffè,che lo rende indigesto, a meno di usare lattedi soia o magari di riso) o dello yogurt insiemea una fetta di pane ai cereali, un poco dimarmellata senza zucchero, un frutto. Acolazione meglio evitare cracker e in generegli alimenti salati

LA DONNA INCINTA

Va benissimo una buona tazza di yogurtnaturale arricchito con semi (lino, sesamo,etc…) e musli, da consumare insieme a unpaio di fette biscottate integrali conmarmellata. Il miele (soprattutto quellobiologico) è un alimento sano, ma vaconsiderata la sua quota zuccherina.Bevanda a scelta: il caffè d’orzo,il tè, o in alternativa una tazza di latte

LO STRESSATO

Con la fine dell’inverno, è utile cominciare la giornata aiutando il fegato a eliminare letossine, per esempio sostituendo unabevanda nervina come l’espresso con uncaffè d’orzo, da consumare insieme a unfrutto e a mezzo cubetto di lievito di birrafresco, sciolto in acqua o in un succo. Ilfruttosio (anche nella versione liquida) vacomunque preferito allo zucchero

L’origine della parola

Un’astuziada monaci

In chiesa, nasce la colazione. Oquantomeno in convento. Dal-la fatica dell’intelligenza. Curvi

sulle pergamene recuperate, i mo-naci confrontavano il lavoro deicopisti, degli amanuensi. Control-lavano che quel versetto del Van-gelo o — perché no? — di Virgilio edi Orazio fosse ripetuto giusto, conle desinenze esatte da un foglio al-l’altro. Questo paragonare, al qua-le occorrevano sveltezza d’occhioe solidità di mente, era detto, in la-tino collatio. A risarcire un eserci-zio psicofisico così complesso oc-correvano cibi abbastanza nu-trienti da sostenere lo sforzo maabbastanza leggeri da non appe-santire la testa. Non un pranzo,quindi, né una cena con implicitepennichelle, ma una colazione.Voilà.

Leggerezza e raffinatezza (i mo-naci di solito non se la passavanomale) contraddistinguevano unpasto ben presto vocato alla pre-senza femminile. Luigi XIV, dopoavere stracenato alle dieci di sera,non faticava a raggiungere l’una ole due pomeridiane per il pranzo.Saltava dunque questo piccolo in-termezzo gustativo, salvo a chia-mare colazione il pranzo ridottissi-mo cui era talvolta costretto dal ca-lendario religioso. Ma amava offri-re una colazione alle sue dame: lerighe di Saint-Simon baluginanodi erbe e di boschetti quando ac-cennano agli inviti del gran re. Nelquadro dell’olandese Metsu pro-tagonista della colazione è una si-gnora: a cui viene porto un calice,non un piatto. E Rousseau nellaNouvelle Héloïse, ambientata inuna Svizzera tanto rustica quantosignorile, ha addirittura lasciato ilmenù di queste ghiottonerie fem-minili: latticini e biscotti.

Per rompere il digiuno notturnola gente non aveva però aspettatoche i monaci inventassero la cola-zione. I latini questo primo impat-to dei denti lo chiamavano ienta-culum, una parola che contiene laradice di ieiunum, e dunque di di-giuno: uno sdigiunamento dove leconfusioni tra prime e seconde co-lazioni la dicono lunga su una ne-cessità divenuta virtù, su una fameche non accettava l’armistizio delsonno. Anche in italiano l’ormaidesueto termine asciolvere desi-gnò a lungo la fine della insolvenzamandibolare, la ripresa mattutinadella masticazione. E in che consi-stesse poi lo ientaculum ce lo diceMarziale: un boccone di pane più omeno condito, talvolta accompa-gnato da una fetta di formaggioabruzzese. Questo a voler esserevegetariani. Pezzi di carne veniva-no certamente addentati negli ien-taculadell’imperatore Vitellio, do-ve già si celebravano — secondoSvetonio — i riti gastronomici dinoi borghesi: prima colazione,pranzo e cena, eventualmente se-guita da qualche festino. Il popolose la cavava come poteva: a granfette di lardo, se ci riusciva, mentreil nostro re Umberto I appena alza-to faceva fuori un fagiano arrosto.

Certo, a questa avventura mat-tutina della lingua si è sempre chie-sto qualcosa di stimolante. Oggi c’èil caffè. Ma gli antichi greci, chenormalmente diluivano il vino inlitri e litri d’acqua, se ne consenti-vano a inizio giornata un goccettopurissimo, col pane intriso. Era lascossa necessaria a iniziare l’ope-ra. Quella che le classiche donninefriulane del mercato delle erbe cer-cavano nel grappino e i loro bam-bini in una bella tazza di pane eclinton che lasciava loro, anche ascuola, una compatta striscia dibaffi neri sopra alle labbra.

(L’autore è presidente dell’Istitutonazionale di sociologia rurale)

CORRADO BARBERIS

CALORIEper 100gr

368=

LO SPORTIVO

La scelta per chi svolge attività fisica è di tipoprotidico-lipidica (proteine e grassi), quinditè o caffè, insieme a pane integrale con unpoco di burro e marmellata; oppure un uovoo una fetta di prosciutto e una spremutadi arancia con aggiunta di limone (percorreggere l’acidità). Consumare un fruttoprima di fare sport serve a renderegli zuccheri subito disponibili

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47DOMENICA 20 FEBBRAIO 2005

il corpoScienza e bellezza

I capelli salvati dalle staminaliVERA SCHIAVAZZI

Sigmund Freud ne era ossessio-nato e sorbiva ogni giorno im-probabili pozioni per rinfor-zarli. Prima di lui, Napoleonesi limitava ad un più banale “ri-porto” per mascherarne la

scarsità, mentre Petrarca amava a tal pun-to le bionde da dedicare a loro i suoi versipiù belli. Secoli più tardi, i capelli, lechiome femminili e la loro bel-lezza da un lato, ma anche,per i maschi, il rischio diperderli — ereditàinconscia del mi-to di Sansone eDalila —r a p p r e -sentanouno dei

più importanti filoni della ricerca scienti-fica e del business cosmetico.

Dei capelli, ormai, sappiamo quasi tut-to, ma l’ultimo segreto, come farli ricre-scere, pur assediato da vicino non è anco-ra stato svelato del tutto. Così, soltanto unpaio di molecole tra quelle scoperte negliultimi vent’anni si sono rivelate effettiva-mente efficaci nell’evitare la caduta o nel

rinforzare capelli fragili: minoxidil e fina-steride, tuttora alla base della maggiorparte dei prodotti. Un gruppo di ricerca-tori americani della newyorchese Rock-feller University, da tempo all’avanguar-dia nella scoperta del “segreto dei segre-ti”, ha da poco annunciato di aver com-preso appieno come e da dove arriva l’im-pulso della crescita: le cellule staminalidel cuoio capelluto devono ricevere duesegnali precisi dalle loro vicine per poter-si trasformare in un bulbo pilifero. Que-

ste comunicazioni abbassano il livel-lo della proteina E-caderina e

modificano la forma dellagiunzione che separa le

cellule tra loro, con-sentendo la nascita

di un piccolo spa-zio che si tra-

sforma in

bulbo. Definita «importantissima» nelcampo della ricerca sulle staminali — sitratta infatti di un esempio tipico del mo-do nel quale le cellule si “specializzano” —la scoperta, per ora, non consente di “or-dinare” l’infoltimento dei capelli.

I capelli sono (anche) al centro di una si-gnificativa mutazione dell’aspetto: le per-sone bionde sono e saranno sempre piùrare. Nonostante uno studio attribuito al-l’Oms che ne prevedeva la scomparsa en-tro qualche decennio sia stato smentito,ricercatori italiani della Sapienza ammet-tono la diminuzione percentuale. E sicco-me “raro è bello”, le case pro-duttrici investono su prodot-ti sempre meno aggressiviper schiarire lechiome e le ven-dite aumenta-no. Qua-

Le ultime ricercheaprono nuoveprospettivein un segmentodi mercatoricchissimo

CURARLI CON LE ERBE

Burro di karité e soia sono due tra

gli ingredienti naturali più utilizzati

negli olii e nelle maschere curative

in vendita dagli erboristi. Seguono

la camomilla (per ravvivare il biondo),

l’aceto (per capelli lucidi) e l’olio

di oliva per quelli stanchi e stressati.

La papaya è un’antietà anche

per la chioma

L’ENZIMA DEL BIANCO

È un enzima, il Trp 2,il responsabile

dei capelli bianchi. Lo hanno

individuato i ricercatori dell’Oréal,

pubblicando il loro lavoro sul “British

Journal of Dermatology”: i melanoliti,

infatti, scompaiono dai capelli

e non dalla pelle, che resta sempre

dello stesso colore, perché non

c’è il Trp 2 a fermarli

si l’80 per cento delle donne italiane indi-ca lo shampoo tra i primi 3 prodotti ai qua-li “prestare attenzione”, quasi il 25 percento adopera anche il balsamo, quasi il40 per cento utilizza un prodotto per lostyling, dalla lacca al gel passando per inuovissimi “modellatori” fibrosi e resi-stenti che consentono di modificare piùvolte l’acconciatura senza ripassare dalvia, cioè dal lavaggio.

E intorno alla bellezza (o bruttezza) deicapelli sono nati perfino fenomeni cultu-rali: «La chioma è ormai considerata co-me uno specchio — dice Marco Vecchia,docente di Teoria della Comunicazioneall’Università di Milano — se sono folti elucidi è perché “si è fortunati”, se opachi eradi esiste invece una “colpa sociale”, adesempio l’inquinamento o il cibo poco sa-no, o lo stress. O perfino dei genitori che cihanno trattato male da piccoli».

TRATTAMENTO ANTI-ROTTURAImpedire la rottura del capello,ravvivarne il colore, rendere piùlisci e pettinabili, le chiome ribelli:dopo lo shampoo può aiutareapplicare una delle tre nuovemaschere Elvive dell’Oréal

PAUSA DI BENESSEREPer trasformare lo shampooin un momento di relax: lalinea Hair Re.Source diBiotherm - shampoo, cremariparatrice, latte rivitalizzante -promette di donare vitalitàe vigore ai capelli intossicati

PROBLEMI DI VOLUMEArricchita dal complessoAmino Pro-V Complex chepenetra nel capello e aiutaa rifornire gli aminoacidi,la linea Volume di Panteneè adatta per chi ha capellipiatti e poco corposi

RICERCA DI LUCEA chi ha capelli secchi,sfibrati, fragili e opachi laceramide A2, l’olio di semi dilino e il burro di karité delloSpeciale Capelli PerfettiCollistar, promettononutrimento e luminosità

DIFESE NATURALIQuattro settimane per ridare forza

e luminosità a capelli secchie danneggiati: il siero Nutri-Riparatoredi Lancôme, da usare due volte l’anno,

aiuta a ripristinare le difese naturali.Il resto lo fanno la maschera protettiva

extra nutriente e lo spray rinforzante

RICCIOLI IN FORMAPotrebbe essere la soluzione

ideale da consigliare a chi ha i capellimossi: tenuta morbida e naturale

per tutta la giornata, effetto flessibile,è la mousse ravvivaricci della gamma

Taft Testanera. Per i più esigenti c’èquella ultra modellante

Page 22: D Laomenica - la Repubblica

le tendenzeVita all’aperto

Gli spazi esterni sono sempre di più parte integrante delle casedegli italiani. Non fa differenza che si abbia a disposizione una grande areaverde, una veranda o un semplice balcone. L’essenziale è trovarela formula giusta di arredamento, mescolare e confondere il dentrocol fuori per vivere meglio e ricevere gli amici

48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 20 FEBBRAIO 2005

Giardini

Ci sono voluti secoli all’uomo per ri-conciliarsi con l’esterno. Protettonelle sue robuste case in pietra e mu-ratura, dopo aver abitato grotte e ca-panne, era riuscito a chiudere final-mente fuori le belve, i nemici, il fred-

do, il caldo, la pioggia, ma gliene era rimasta lapaura. Un’ansia ancestrale che ha prodotto pe-riodicamente nei secoli case-rifugio e case-for-tezza. Edifici addossati uno sull’al-tro, entro le sicure mura delle no-stre città medioevali poste sul limi-tare delle grandi foreste che signo-reggiavano in tutta Europa. Edificicon piccole finestre che, mentretrattenevano il calore e protegge-vano da eventuali assedianti, non

lasciavano entrare la luce. Case senza balconi ocon balconi minuscoli, di stretto servizio, perchéogni elemento aggettante rispetto al corpo dell’e-dificio rappresentava un pericolo, un possibileaccesso attraverso il quale i mali e gli avversari cheaspettavano fuori avrebbero potuto far irruzione.

Tra gli spaventi impliciti in quelle abitazioni el’arditezza della casa sulla cascata di Frank LloydWright c’è tutta la parabola di una pacificazione,grazie alla quale il «dentro» si è lentamente aperto,alla lettera e in metafora, per diventare spazio dia-

lettico con il «fuori» fino a in-corporarlo. È stata l’Inghil-terra la maestra di questoaprirsi, forse anche perchépiù protetta dal suo essereisola, più tranquilla nellaforza del suo essere unagrande potenza e un impe-

ro. Parchi e giardini innanzi tutto, così artefatti dasembrare casuali per simulare la natura, ma ancheserre e giardini d’inverno, bow window e grandivetrate per invitare dentro il verde e la luce.

In Italia, che ha avuto storia, geografia e cittàmolto diverse, ci troviamo da qualche anno a in-seguire una particolare relazione con l’esterno,anche per istanze ambientaliste. Desiderio chein provincia si esprime di nuovo soprattutto at-traverso giardini, verande e porticati, e nellecittà più grandi diventa un brulicare di balconichiusi da vetrate, terrazze e ter-razzine o perfino finestre che si-lenziosamente diventano più lar-ghe e più alte, con la complice eper una volta non insensata tolle-ranza di burocrazie municipaliperaltro spesso assai distratteverso ben altri abusivismi.

In questa riconciliazione tra il dentro e il fuoric’è tanta voglia di verde, di terra, di cielo, di amici;si intuiscono mattine luminose accolte da porte efinestre spalancate; si leggono aperitivi e cene al-l’aperto, compagnia e parole. Gli arredi assecon-dano, imparano ad adattarsi tra interno ed ester-no, con materiali come il policarbonato e il ferrobattuto, la plastica e il legno massello, e prolifera-no innaffiatoi e attrezzi da giardinaggio, perchéchi non ha il parco avrà di certo la pianta in vaso.Mentre il dentro e il fuori si mescolano fino a

confondersi, formandouno spazio ibrido, una terradi nessuno dove il pavi-mento è anche suolo, il mu-ro arbusto o albero, e final-mente sembra compiuto ilsogno di Gino Paoli del«cielo in una stanza».

Un fiore solo coltivato fino a farneindigestione, rose, peonie, ro-dodendri, crochi. Scegliete voi.

Ma se volete uscire dall’anonimatodelle migliaia di pollici verdi che pas-sano la domenica a coltivare il giardi-no, puntate su una varietà, trovate tut-te le possibili varianti, mettetele in ter-ra con un po’ di criterio, evitando l’ef-fetto vivaio, e avrete creato un giardinoalla moda. «La curiosità dei visitatori ètutta per lui, il giardino monomania-cale». Alessandro Viscogliosi, docentedi Storia dell’architettura alla facoltà diValle Giulia a Roma, non ha dubbi. Sedi moda si può parlare, questo è iltrend. Verdetto lapidario.

Ma come lo avranno motivato, dalmomento che non esistono classifichesu un tema così vasto? Il dubbio è legit-timo, ma se ci seguite capirete come Vi-scogliosi ci sia arrivato. Infaticabile esofisticata guida dal 1987 del più esi-gente (e ricco) gruppo di viaggiatorid’arte, i 200 soci sostenitori del Fai,Fondo per l’ambiente italiano, il pro-fessore, che a tempo perso ha scopertocome i romani per arte topiaria inten-dessero non la potatura geometricadegli alberi, ma l’arte di ricreare luoghideputati dell’Odissea o del romanzod’amore, è partito da una osservazio-ne: «Il successo di pubblico di fronte al

sentiero dei rododendri dell’Oasi Ze-gna a Trivero mi colpisce sempre. Fos-simo in Inghilterra dove i rododendri litrovi ovunque, nessuno si emozione-rebbe, ma da noi lo spettacolo toglie ilfiato. Del resto dietro tanta scena nonc’è uno qualunque, ma Piero Porcinai,l’architetto fiorentino che negli anniCinquanta ha ridato vita alla nostra mi-gliore tradizione giardinesca».

Ma i giardini monotematici nonhanno il grande inconveniente di du-rare poco, fioriscono più o meno insie-me e sfioriscono di conseguenza?

«È questo che piace e li rende alla mo-da. Perché recuperano il senso di effi-mero, proprio di ogni giardino. Gli an-tichi non si sono mai sognati di creare lospettacolo continuo. I giochi d’acquadel Rinascimento si aprivano all’im-provviso, “per gioco”, inzuppavano ilvisitatore e poi finivano. Le “broderie”alla francese del Settecento, inseritenegli arabeschi di bosso, non solo dura-vano poco, ma a camminarci vicinoneanche si vedevano. Dovevi passareper le gallerie dei piani nobili per accor-gerti, guardando fuori, di quel trionfo dicolori dentro a una cornice verde. Fini-to il percorso, finito lo spettacolo. E nonparliamo del Palladio, che non facevagiardini, ma sistemazione agraria. Da-vanti alla villa veneta partiva con un via-le che si inseriva in chilometri di colti-vazione a granoturco».

e terrazze

INNAFFIARE A COLORIVariopinti innaffiatoi Sileacon puntale alla base:così possono esserefissati anche sui terrenipiù accidentati

L’ARTE DEL RODODENDRONon deve esserepiantato troppo inprofondità, non gradiscela piena luce (soprattuttonelle zone molto calde)

COPPIA AL FRESCOPer conservare le bottiglie in fresco anche en plein air,Byobag è un portabottiglie per una o due bottiglie,realizzato in neoprene, lo stesso delle mute da sub, equindi isolante e antiurto. Di Moroni gomma

CESTO FULL OPTIONALDavvero full optional, il cesto da giardinaggio di MaiUguali. Moltocomodo per portare tutto con sé e non perdere niente,compreso lo spago in fibre naturali, in giardino come in terrazza

UN BRINDISIALLA ROBUSTEZZAPer essere adatti in terrazzao in giardino, i bicchieridevono essere robusti.Se poi sono anchevivacemente colorati,meglio. Come questi caliciper acqua e vino di D-Cube,dal solido stelo,in quattro colori

Come costruirsi il cielo in una stanzaAURELIO MAGISTÀ

ROSSELLA SLEITER

L’architetto Viscogliosi: il grande successo dei parchi a tema

“Una fiammata di sole roseva di moda la monomanìa”

IL TEMPO DELLE ROSELa messa a dimora deveavvenire tra novembree marzo ma evitandoterreni ancora gelati ozuppi d’acqua

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 49DOMENICA 20 FEBBRAIO 2005

D’accordo, il monomaniacale pia-ce. Ve ne sono altri oltre quello del-l’Oasi di Zegna?

«Vogliamo dire del successo del Ro-seto di Roma, quando a maggio è in pie-na fioritura? Mi commuove l’idea che cisiano migliaia di persone che escono dicasa solo per vedere lo spettacolo dellerose. Neanche fosse Villa d’Este a Tivo-li, sul cui stato ci sarebbero tante cose dacommentare. O il successo delle peoniedel Centro Moutan di Viterbo. La fiori-tura dura un mese, ma per quattroweekend lo spettacolo è paradisiaco».

Chi volesse seguire la moda dovreb-be passare dal suo giardino dove colti-va di tutto un po’ (la famosa «insalata»del celebre Burle Marx) a uno mono-maniacale?

«Non credo che questo succederàmai. La pergola sotto cui mangiare, ilprato verde su cui sdraiarsi, la siepe cheprotegge anche dalle brutture intorno,la piscina per rinfrescarsi, questi sono iquattro punti di forza dei milioni di giar-dini sparsi per l’Italia. Ve ne sono di mol-to gradevoli, nati dall’amore del padro-ne di casa per una Natura che non esisteallo stato naturale, ma che ognuno pen-sa di salvare a suo modo. “Sol per sfoga-re il core” diceva Vicino Orsini a Bomar-zo nel Cinquecento per giustificare lacreazione del suo “prelibato boschet-to”. Oggi ci si sfoga ritagliando un pez-zetto di campagna addomesticata tra il

cancello e la porta di casa».Dal mensile “Garden Illu-

strated”, bibbia del buon gustoinglese, è partito un allarme.Hanno scritto: «Basta con la dit-tatura anglosassone in fatto digiardini. Gli spagnoli, ispiratidalla tradizione araba, sì chesanno come farli». Con un po’ diritardo adotteremo anche noi lamoda arabo-spagnola?

«Se saremo saggi, la eviteremocon cura. In Spagna lo stile “mu-dejar” è quello nazionale, si rifàalla tradizione, quando gli Arabioccupavano il Sud, Granada,Cordoba, Malaga. Gli architettispagnoli ricreano oggi quell’effet-to esotico, magari grazie a un prato sol-cato da tanti canaletti d’acqua che dinotte creano un bell’effetto musicale.Ma non oso immaginare una festa d’e-state, la magia della luna, il vino chescorre e decine di signore che impre-cano perché il tacco del sandalo, al lu-me di candela, è finito nel canaletto. Igiardini, nella pratica, sono fatti peressere vissuti. Se devono essere un so-gno, un desiderio di stagione, alloraoggi come oggi, insisto, quello che pia-ce è l’effimero spettacolo di una Natu-ra paradisiaca, ricca e dolce, che si ri-copre di una specie come in una fiam-mata. E poi più nulla, fino alla prossi-ma puntata».

il ricordoMarella Agnelli è una grandeappassionata ed espertadi giardini. Ecco il raccontodelle tre oasi di verde che hannosegnato la sua vita, dalla primainfanzia fino a oggi

IL GIARDINO DI NINFA

Sono ritornata a fotografare ilgiardino di Ninfa l’anno scorso. Laprima volta era stato nel 1985 per ilmio libro Giardini italiani. Era questo,però, un giardino che conoscevo già dalla mia infanzia, loconoscevo nei minimi particolari dai racconti dei miei genitori:mia madre era americana come Marguerite Caetani ed eranoamiche [...]. Eravamo seduti vicino al fiume: grandi gunneremanicate sfioravano l’acqua chiara con le loro foglie immense.Ricordo il fruscio leggero delle foglie sull’acqua, i profumi intensidella sera, la trasparenza del tramonto sui meli ancora in fiore, gliiris acquatici e soprattutto sulle prime rose quandoimprovvisamente, nella tranquillità di quel crepuscolo, sono stataafferrata da ciò che l’amico Lauro definisce «lo spirito di Ninfa»,lo spirito del giardino.(da Il giardino di Ninfa, Allemandi editore, 2004)

Latina

I CANCELLI

Il giardino della mia infanzia avevasiepi di bosso e di alloro, un viale dicipressi ma anche prati, rose canine.Era un giardino in parte all’italiana ein parte all’inglese, secondo il gusto della piccola coloniaanglo-americana di cui mia nonna materna faceva parte.Colonia che si era installata in quel tempo nelle ville sulla collinaintorno a Firenze. «Ragazzi! Andatemi a chiamare Gino, semprein fondo all’orto, e che venga invece ad annaffiare questepovere rose». Questa frase ricorrente di nostra madre nascevadalla diversità di concepire il giardino fra lei, che avevapassione e lo disponeva, e Gino Guarnieri il giardiniere [...].Così che, per me, l’idea di giardino si è venuta formandodalla somma di quei due modi di vedere diversi.(da Giardini italiani, Fabbri editore, 1987)

Firenze

VILLAR PEROSA

All’ora del tramonto, in una giornataparticolarmente mite di finesettembre, dopo una lungapasseggiata nel parco ciaffacciammo al balcone al primo piano della villa perammirare le forme familiari del giardino prima che si facessescuro. Un senso di pace e di silenzio pervadeva ogni cosa.Il prato perfettamente uniforme si stendeva di fronte a noicome una grande onda verde e, al suo centro, da una largavasca rotonda si poteva percepire il ritmo delicatodell’acqua zampillante. Scorgevamo le forme immensedegli alberi, antichi ed eretti come statue: un gruppo di tigli,una sequoia, una araucaria enorme e una più piccolapoco distante. (da Il giardino segreto, Rizzoli, 1998)

Torino

COMODAMENTE RASSICURANTELa panca a due posti in legno con cuscini imbottiti, è semprerassicurante, un classico dell’arredo con infinite varianti. Di Sia

UN’IDEA INSINUANTENel vassoio Drink tray di Ligne Rosetsi insinuano appositi spazi per le cinquedita che dovranno sostenerlo

LA VANITÀAL LAVOROPer giardinierevanitose, oppureaccortamenteironiche, i guantida lavorodi Taffetà, grigima decoraticon grandi roseoppure altri fioria scelta

MICROSTORIE TRA GAZEBO E VERANDAIn ferro battuto, il gazebo Tibisco di Unopiù con copertura in cotone naturale si accorda con case coloniche, tra grandi vasi

di Impruneta, limoni, cipressi. Sotto, più elegante, con vezzo romantico, la tavola Marchetti in legno massello mette in scenauna microstoria, con lei che legge, in veranda, aspettando che qualcuno appaia dall’orizzonte marino. E finalmente si mangi

LA SORPRESAÈ SERVITAIl portacocomeriin acciaio zincatocon manicopieghevole è idealeper sorprenderegli amici

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l’incontroMiti del rock

GIUSEPPE VIDETTI

LBOLOGNA

unedì 7 febbraio Vasco Ros-si ha compiuto 53 anni.Mercoledì 9 il 53 è uscitosulla ruota di Venezia, man-

cava da 182 estrazioni. Per i fan del Bla-sco la coincidenza era scontata. In mol-ti hanno giocato. Anche chi di solitonon spende un centesimo al lotto. An-cora oggi arrivano e-mail: «Grazie, hovinto 5000 euro». «Non vorrei diventa-re come la Madonna», bofonchia Va-sco. «Dopo gli avvistamenti ora anche imiracoli. Hanno scritto che ero a Corti-na, dove non vado mai». Nel mondo delrock sogni, leggende e realtà vivonosullo stesso piano. Ma in quello di Va-sco in più c’è anche un tangibile affet-to. Glielo fanno arrivare in ogni modo.Pacchetti infiocchettati, lettere, mes-saggini scribacchiati su pezzi di carta.Tutto arriva qui, nel quartier generaledi Area, una villetta rossa sulla via cheda Bologna porta al mare. Ovunque isegni dei grandi numeri e dei primati;all’ingresso una gigantografia in bian-co e nero della platea di Imola ’98 (Va-sco ci torna quest’anno, il 10 giugno),su una parete i dischi di platino accu-mulati con le vendite milionarie degliultimi tre dischi, Stupido Hotel, Trackse Buoni o cattivi, lungo le scale scenedel bagno di folla a San Siro, nel 2003.

Vasco è disteso, in forma, trangugiacaffè americano e acqua minerale. Gliocchiali da cattivo non riescono a ma-scherare gli occhi azzurri dell’emilianomite. Unico vezzo, l’orologio Submari-ner da collezione con la ghiera verde.Gli resta il vizio del fumo, e se lo tienestretto. Cosa resta a un rocker se gli to-gli anche la sigaretta? «Quello che nonmi piace è l’aspetto di nuova religioneche questa legge ha assunto, il credodella salute a tutti i costi. Si cura la salu-te come una volta si curava l’anima. Èun nuovo tipo di teologia. E poi, via, nei

dieci comandamenti c’è scritto di nonrubare, mica di non fumare».

Vasco è un maudit e un privilegiato. Ipostumi della vita spericolata gli garan-tiscono lo zoccolo duro, e in Italia comerocker non ha concorrenti agguerriti. Isuoi cd vendono oggi come ieri, la crisidel disco gli fa un baffo, ai suoi concertivanno in centomila, ma anche in quat-trocentomila, quando canta gratis a Ca-tanzaro. Ne fa una dozzina ogni anno, gliresta molto tempo libero. «Ma faccio unsacco di altre cose» protesta. «Butto giùidee per i nuovi album. Sto completandoun volume con tutti i miei testi che laMondadori pubblicherà in primavera. Ein collaborazione con l’Università del ci-nema di Roma e il regista Stefano Salva-ti sto mettendo a punto un dvd con tuttele canzoni di Buoni o cattivi: ci vogliamocucire intorno una storia, una sorta difilm. Si chiamerà È solo un rock’n’rollshow. Al soggetto ha lavorato anche Car-lo Lucarelli. È un progetto che sta an-dando avanti da anni, costruito con la di-namica di un giallo. Mi toglierò anchequalche sassolino dalla scarpa. Ma nonvoglio anticipare troppo, altrimenti ad-dio suspense. Il finale è a sorpresa...».

«E poi — dice — ho anche una vitaprivata che mi serve a ricaricare le pile.Quella vita lì ha tutto un altro ritmo,non riesci a starci dentro se prima nonstacchi la spina. Una volta erano 365giorni all’anno, 24 ore al giorno in fissacon il rock. Vivevo alla giornata. Sononato in una famiglia modesta, che si ac-contentava di poco. Mio padre faceva ilcamionista, non c’era da scialare.Quando lui è morto, nel 1979, ero conun piede sul palco e l’altro all’univer-sità, fuori corso. È stato un momentoterribile. Da lì sono scaturite la rabbia,la cattiveria, la grinta che hanno ali-mentato il mio talento. E la creatività,che a me viene solo quando sono con lespalle al muro».

Se l’artista perde il bambino che hadentro ha chiuso, diceva Jacques Brel.Se diventa adulto è fottuto. «Io fino a 35anni di anni ne ho avuti 15. A 40 ero ap-pena maggiorenne e incominciavo a ri-svegliarmi dal sogno, perché il sognomi aveva preso completamente. Oradalle nuvole sono sceso, eccome se so-no sceso. Ma ogni tanto ci ritorno. Mipiace frequentare le emozioni border-line, sono uno che ha una grande vitainteriore, più intensa di quella reale. Hotanti pensieri, e non sempre lieti. Il vi-vere normale non è molto stimolante.Non vado mai al cinema, ma leggo mol-to. Per il piacere di colmare delle lacu-ne che la scuola che ho fatto, la ragio-neria, mi ha lasciato. Un libro ha il po-tere di trasportarti in mondi sconosciu-ti. Per questo ora mi è venuto il pallinodei classici, Leggendoli ho l’impressio-ne di vivere in quel periodo, mi trovodentro la storia anziché studiarla.Adesso sono alle prese con La recher-che. Una lettura impegnativa, corag-giosa. Da ragazzo non ci avrei capitoniente. Anche la filosofia, a vent’anni

uniti. Col tempo loro due sono diventa-ti un buon motivo per tornare la sera.Vedere mio figlio crescere bene con unpadre e una madre accanto è stato unincentivo a perseverare. La mia fami-glia è il patto che ho fatto con una don-na, al di là dell’amore che non è maieterno, al di là della passione che con glianni scema. Noi abbiamo fatto un pat-to e cerchiamo di difenderlo. Da chi?Soprattutto da me, che sono quello piùinstabile». Già, un patto, ma di matri-monio non se ne parla. «Non mi sonosposato perché non mi piace il rito, nonci credo, ma il nostro è un matrimonioa tutti gli effetti. Ora poi diventerebbeuno spettacolo kitsch: “Vasco Rossi sisposa”, che pacchianata. Magari a LasVegas. Sarebbe comodo, poi lo convali-diamo in Italia. Qui invece bisognaesporre le partecipazioni, lo saprebbe-ro tutti, finiremmo come Ronaldo».

Le prestazioni sessuali olimpionicheche fanno parte della leggenda di Vascosono acqua passata, almeno fuori casa.L’artista ha riconosciuto due figli cheoggi hanno 18 anni, Davide a Roma eLorenzo a Ferrara, concepiti lo stessoanno con due donne diverse. Un fan gliscrisse: «Ma con le Lucky Strike nondanno il preservativo?». E adesso che leacque si erano calmate ci si è messaBarbara D’Urso a rivangare una stagio-ne di amore torrido con quel giovanot-to 27enne dagli occhi azzurri che le fe-ce perdere la testa. «Ricordo poco più diun flirt», minimizza lui. «Secondo meha un po’ esagerato». E giura che oggicol sesso è sceso a più miti consigli. «Sec’è un vantaggio nell’invecchiare, èquello di cominciare a prendere un cer-to distacco da quell’animale che haidentro, a cercare di tenerlo sotto con-trollo. A non essere troppo succubedella... sì insomma, di quella cosa lì».

Quando l’altro Vasco, il rocker, entrain scena, per Luca e Laura resta pocotempo. Rossi non è un tipo che prima disalire sul palco chiama a casa per sape-re come sta il bambino. «Ormai contrat-to con loro i miei spazi creativi», spiega,«ma in quei momenti devo star solo».Entra in una dimensione parallela, gliocchi acquistano una luce ancora diver-sa, come se non fosse presente a se stes-so, come se si preparasse a un eventostraordinario. E in effetti non c’è nientedi ordinario in quel che succede sul pal-co e in platea, quando scaturisce quel-l’alchimia misteriosa e un po’ miracolo-sa che si stabilisce tra centomila e il mi-to. «Senza musica, mi sentirei minusco-lo, schiacciato, spaventato. La musicami rende un gigante, riesco a trascinaretutti nella stessa emozione, m’improv-viso timoniere di un’immensa, affolla-tissima scialuppa. È un momento incre-dibile, che dà forti emozioni. E io sonofelice di farne parte, perché quando toc-chi il cuore alla gente sei ripagato con unaffetto immenso. Che nel mio caso è an-che esagerato. Così grande che a un cer-to punto mi viene da dire: ragazzi, sepa-riamo le cose, la canzone è la canzone,

l’avrei rifiutata, ora invece la storia delpensiero m’intriga».

C’è anche una mamma, a Zocca, cheancora si chiede perché «quei ragazzivengono a scrivere sui muri di casa». «Ilpaese ha molti meno sensi d’inferioritàdi una volta», dice Vasco. «È un posto dimontagna, ma pieno di individui viva-ci. Ci sono menti sopraffine a Zocca: l’a-stronauta Maurizio Cheli e gli scrittoriMarco Santagata e Gianni Monduzzi.Siamo noi le famose teste di zocca». Poic’è una famiglia Rossi a Bologna, pocolontano da qui. Con una compagna,Laura, e un figlio, Luca di 13 anni, cheora incomincia a apprezzare le canzonidi papà e adora gli Offspring e l’heavymetal. «Per carità, mi preoccupereimoltissimo se sentissi la mia voce usci-re dalla sua stanza», dice, con una lucenegli occhi che pochi fan gli conoscono.«Io non sono uno che crede nella fami-glia come istituzione. Non la volevo,non volevo figli. Già avevo me a cui ba-dare, era più che abbastanza. Poi, arri-vato a un certo punto, stanco della vitaspericolata, degli eccessi, ho incontra-to una ragazza che voleva metter su ca-sa e mi sono lasciato andare. È lei chetiene in piedi la convivenza, che ci tiene

straordinaria, fantastica, perfetta. Ma lapersona che l’ha fatta no».

È il potere immenso del grande co-municatore che farebbe gola a qualsia-si politico. Ma Vasco non cede alle lu-singhe né alle proposte indecenti. «Nonho mai avuto ideologie. Sono rimastoagli anni Settanta: qui a Bologna dopo il’68 c’erano Lotta Continua, Potere Ope-raio e noi, gli anarchici, gli indiani me-tropolitani, facevamo teatro in strada,non pensavamo certo a sovvertire l’or-dine pubblico con la rivoluzione. Ero esono un individualista, un anarchicocon una cotta per Bakunin. Poi crescen-do mi sono buttato nella musica e hoscaricato tutto lì. Ma sono iscritto davent’anni al Partito Radicale. Sono unodi sinistra, perché penso che i principifondamentali della convivenza sianomeglio rappresentati dalla sinistra. Enon vorrei che la sinistra perdesse il pa-trimonio dei radicali solo perché la de-stra ha bisogno di sdoganarsi cultural-mente. Stimo Prodi, credo che sia l’ulti-ma speranza per la sinistra, e mi dispia-ce che non dia udienza ai radicali. Tan-to per non parlar di politica, il mio mes-saggio è: Prodi ricevi Pannella».

Ma della politica Vasco si stufa pre-sto: «Non mi sono invece mai stancatodel rock. C’è stato un momento in cuinon mi venivano più le canzoni, quellosì. Un brutto periodo, dal 1986 al 1988.Venivo dal rutilante periodo ’80-’84 incui avevo esagerato un po’ con tutte lesostanze, poi di colpo smisi e finii in de-pressione. Mi sono sbloccato, cercan-do di smitizzare il processo creativo ebuttando giù quello che mi veniva, sen-za necessariamente dover scrivere del-le vite spericolate. Fare musica è unpiacere, quando poi ti pagano per farlaè un piacere al quadrato. Per me è di-ventato un modo di comunicare. Ionon sono un cantante, sono un provo-catore. Questa è la vera droga di tutta lastoria, quella della quale non potrei fa-re a meno. Poi magari fra un po’ dovròanch’io ritirarmi. O magari muoio sulpalco. Azz che bella morte».

Non mi sono sposatoperché non mi piaceil rito. Ora poidiventerebbe unospettacolo kitsch,una pacchianata.Rischierei di farela fine di Ronaldo

‘‘

‘‘Il cantante italiano più anarchicoe “maudit”, a 53 anni appenacompiuti, racconta i suoi amorie i suoi eccessi. E l’ultima drogadi cui è schiavo: quando sale sul palco,

scatta la corrente concentomila fan in plateae lui si sente “ungigante”. Ma raccontaanche del figlio cheascolta la musica deglialtri, di una compagnacon cui ha stretto un

patto di vita, di una cosa cheassomiglia all’elogio della famigliae da cui alla sera è bello tornare

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