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GIAMPAOLO VISETTI cultura Il ritorno al fumetto di Lorenzo Mattotti FABIO GAMBARO la memoria Libri proibiti, nostalgia dell’Indice FRANCO CORDERO e FRANCESCO MERLO il fatto Slow Food, i contadini ci salveranno GIANNI MURA e MICHELE SERRA spettacoli La vita femmina di “Volver” PEDRO ALMODÓVAR e CONCITA DE GREGORIO spettacoli Nanni Moretti, autarchico e caimano PAOLO D’AGOSTINI VLADIVOSTOK L e foreste che proteggono il lago Baikal, da cui affiora l’anima silenziosa della Siberia, sono arrossate dai fiori vischiosi dei larici. L’acqua riflette il blu della notte. L’inverno sovietico è finito. Paulo Coelho è ve- nuto qui, in treno, a incontrare la lenta primavera della Russia. L’aria annuncia la dolcezza dell’Oriente. Lui si spoglia e si im- merge. Il termometro, in superficie, segna tre gradi. Abituato al- le nuotate di Copacabana, lo scrittore brasiliano esce senza un brivido e inizia a parlare con un vecchio pescatore di alibut. «Per capire tua madre – dice – devi rientrare in lei. Come una perla nel- l’ostrica». Vent’anni dopo il pellegrinaggio a Santiago di Com- postela, si è messo in viaggio verso Est, sulla Transiberiana. Ha ricordato con Oleg Andrejevich, il capotreno, l’anniversario del- la sua liberazione dal carcere, dopo l’arresto e la tortura ordina- ta dalla dittatura militare: 29 maggio 1974. «Ma questo viaggio – premette – è dedicato ad Aleksandr Solge- nitsyn». Sono passati dodici anni esatti da quando l’autore di Ar- cipelago Gulag è approdato a Vladivostok, reduce dall’esilio negli Usa. Morti i despoti postbellici, ma spenti anche i sogni di demo- crazia, libertà e giustizia, Coelho ha ripreso il cammino per sco- prire cosa sta nascendo sotto le macerie dell’Urss. Solgenitsyn, dopo la sosta nei campi di Magadan, mosse dal Pacifico verso Mo- sca. Lungo i 9289 chilometri della Transiberiana, i deportati so- pravvissuti lo salutavano alzando una rosa. L’autore dell’Alchi- mista, tra il primo e il 30 maggio, ha scelto il percorso inverso. Ad ogni stazione, misteriosamente, gruppi di lettori si sono sporti sui binari sventolando copie dei suoi libri. La voglia personale di felicità, il risarcimento per lunghe soffe- renze, ha sostituito la rassegnata speranza di una dignità collettiva. «Io però non sono venuto in Russia a verificare i miei sogni degli an- ni Settanta – spiega –, o a denunciare il bluff del crollo del comuni- smo. Desideravo vedere cosa mi sarebbe successo attraversando il paese più vasto del mondo, guardandolo con gli occhi del suo po- polo. Il confronto tra Europa e Asia deciderà questo secolo: così ho iniziato dalle terre conosciute per spingermi verso l’ignoto». Il cammino di Santiago, nel 1986, lo percorse per recuperare la fede magica della dimenticata storia occidentale. La Transibe- riana, nel 2006, è l’annuncio simbolico di un futuro misterioso, so- speso sull’enigma orientale. Prima di raggiungere la ferrovia più lunga del pianeta, che ha discretamente deciso le sorti degli ultimi Romanov, di Lenin, di Stalin, e infine di Hitler, per due mesi ha va- gato in Spagna, Marocco, Tunisia, Francia, Italia, Bulgaria, Roma- nia e Ucraina. «La Russia inizia lontano – dice mentre la steppa s’in- fila nella sua carrozza – e la vita non s’accende con l’estremo respi- ro». Vuole dire che ha scelto il grande treno, il “Rossija”, che corre sul sangue di migliaia di schiavi, per un viaggio che attraverso l’u- manità contemporanea lo conducesse nell’abisso di se stesso. (segue nelle pagine successive) la lettura Shanghai, il ghetto in capo al mondo FEDERICO RAMPINI Paulo Coelho La mia Transiberiana Da Mosca a Vladivostok su un treno mitico Dodici anni dopo Solgenitsyn il grande scrittore brasiliano va in cerca della lenta primavera russa DOMENICA 4 GIUGNO 2006 D omenica La di Repubblica FOTO THEO VOLPATTI/CONTRASTO Da Mosca a Vladivostok su un treno mitico Dodici anni dopo Solgenitsyn il grande scrittore brasiliano va in cerca della lenta primavera russa Repubblica Nazionale 31 04/06/2006

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GIAMPAOLO VISETTI cultura

Il ritorno al fumetto di Lorenzo MattottiFABIO GAMBARO

la memoria

Libri proibiti, nostalgia dell’IndiceFRANCO CORDERO e FRANCESCO MERLO

il fatto

Slow Food, i contadini ci salverannoGIANNI MURA e MICHELE SERRA

spettacoli

La vita femmina di “Volver”PEDRO ALMODÓVAR e CONCITA DE GREGORIO

spettacoli

Nanni Moretti, autarchico e caimanoPAOLO D’AGOSTINI

VLADIVOSTOK

Le foreste che proteggono il lago Baikal, da cui affioral’anima silenziosa della Siberia, sono arrossate daifiori vischiosi dei larici. L’acqua riflette il blu dellanotte. L’inverno sovietico è finito. Paulo Coelho è ve-

nuto qui, in treno, a incontrare la lenta primavera della Russia.L’aria annuncia la dolcezza dell’Oriente. Lui si spoglia e si im-merge. Il termometro, in superficie, segna tre gradi. Abituato al-le nuotate di Copacabana, lo scrittore brasiliano esce senza unbrivido e inizia a parlare con un vecchio pescatore di alibut. «Percapire tua madre – dice – devi rientrare in lei. Come una perla nel-l’ostrica». Vent’anni dopo il pellegrinaggio a Santiago di Com-postela, si è messo in viaggio verso Est, sulla Transiberiana. Haricordato con Oleg Andrejevich, il capotreno, l’anniversario del-la sua liberazione dal carcere, dopo l’arresto e la tortura ordina-ta dalla dittatura militare: 29 maggio 1974.

«Ma questo viaggio – premette – è dedicato ad Aleksandr Solge-nitsyn». Sono passati dodici anni esatti da quando l’autore di Ar-cipelago Gulag è approdato a Vladivostok, reduce dall’esilio negliUsa. Morti i despoti postbellici, ma spenti anche i sogni di demo-crazia, libertà e giustizia, Coelho ha ripreso il cammino per sco-prire cosa sta nascendo sotto le macerie dell’Urss. Solgenitsyn,dopo la sosta nei campi di Magadan, mosse dal Pacifico verso Mo-

sca. Lungo i 9289 chilometri della Transiberiana, i deportati so-pravvissuti lo salutavano alzando una rosa. L’autore dell’Alchi-mista, tra il primo e il 30 maggio, ha scelto il percorso inverso. Adogni stazione, misteriosamente, gruppi di lettori si sono sporti suibinari sventolando copie dei suoi libri.

La voglia personale di felicità, il risarcimento per lunghe soffe-renze, ha sostituito la rassegnata speranza di una dignità collettiva.«Io però non sono venuto in Russia a verificare i miei sogni degli an-ni Settanta – spiega –, o a denunciare il bluff del crollo del comuni-smo. Desideravo vedere cosa mi sarebbe successo attraversando ilpaese più vasto del mondo, guardandolo con gli occhi del suo po-polo. Il confronto tra Europa e Asia deciderà questo secolo: così hoiniziato dalle terre conosciute per spingermi verso l’ignoto».

Il cammino di Santiago, nel 1986, lo percorse per recuperarela fede magica della dimenticata storia occidentale. La Transibe-riana, nel 2006, è l’annuncio simbolico di un futuro misterioso, so-speso sull’enigma orientale. Prima di raggiungere la ferrovia piùlunga del pianeta, che ha discretamente deciso le sorti degli ultimiRomanov, di Lenin, di Stalin, e infine di Hitler, per due mesi ha va-gato in Spagna, Marocco, Tunisia, Francia, Italia, Bulgaria, Roma-nia e Ucraina. «La Russia inizia lontano – dice mentre la steppa s’in-fila nella sua carrozza – e la vita non s’accende con l’estremo respi-ro». Vuole dire che ha scelto il grande treno, il “Rossija”, che corresul sangue di migliaia di schiavi, per un viaggio che attraverso l’u-manità contemporanea lo conducesse nell’abisso di se stesso.

(segue nelle pagine successive)

la lettura

Shanghai, il ghetto in capo al mondoFEDERICO RAMPINI

Paulo CoelhoLa mia Transiberiana

Da Mosca a Vladivostok su un treno miticoDodici anni dopo Solgenitsynil grande scrittore brasiliano

va in cerca della lenta primavera russa

DOMENICA 4 GIUGNO 2006

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di Repubblica

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ODa Mosca a Vladivostok su un treno miticoDodici anni dopo Solgenitsynil grande scrittore brasiliano

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(segue dalla copertina)

«Andare da Mosca aVladivostok – spie-ga – resta l’allego-ria dell’esistenza:si parte da un pun-to, che chiamiamo

nascita, e si arriva ad un altro, che defi-niamo morte. In mezzo ci si può limita-re a guardare dal finestrino, oppure sipuò uscire e compiere la propria leg-genda personale. La sola certezza è che,prima o poi, all’oceano si arriva: e quitutto finisce». Accompagnato dal solechiaro che solo la Siberia concede,Coelho concluderà l’esplorazione eu-roasiatica a metà giugno, in Germania,dopo tre mesi di straordinari incontricasuali e quotidiane solitudini.

Nell’ex impero sovietico, a bordo didue vagoni agganciati in fondo al con-voglio, si è fermato a Mosca, Ekaterin-burg, Novosibirsk, Irkutsk (dove si in-crociano Transmongolica e Tran-smanciuriana), Khabarovsk e Vladivo-stok. «È il tragitto dei dannati dello sta-linismo – dice –, un pellegrinaggio nel-l’oscurità delle ideologie per superarela follia politica del Novecento. I conticon il socialismo però li avevo già fatti.Nel 1979, sotto il Muro di Berlino, hoscoperto come il regime umiliasse lepersone. Ero un vecchio hippy suda-mericano, vivevo nel romanticismo so-

cialista: passando a Est sono stato tra-volto dalla menzogna, quella per cuitanti miei amici hanno dato la vita».

Promise allora che un giorno avreb-be visitato il carcere più immenso delpianeta, il cui recinto era lo spazio aper-to. E adesso è qui, nella piazza BortsovRevolutsy affacciata sul Giappone, perreincontrare oggi il fantasma di Solge-nitsyn. «La prigione – racconta – mi è ri-masta dentro per molti anni. La priva-zione della libertà, o la rinuncia perso-nale ad essere liberi, è il tema che ora miassilla. Solgenitsyn è la prova viventeche la denuncia dei soprusi, la testimo-nianza della libertà, sono infine più for-ti di qualsiasi castigo». A Chità, duranteuna commovente sosta sui binari, haparlato a lungo con il figlio di una vitti-ma del gulag: è nella tragedia di tre ge-nerazioni, in cui innocenti e carnefici sisono confusi, che si nasconde l’imper-scrutabilità della Russia di oggi.

Sarebbe però un errore ridurre ilviaggio di Coelho sulla Transiberianaad una tardiva e mesta processione trale tombe sovietiche. Sulle sue due car-rozze, e sui vagoni dei treni a cui di vol-ta in volta si è agganciato, si è molto par-lato e cantato, sonoramente riso, assaibevuto e mangiato, abbondantementeballato. La scorta di libri e il computer,con la scusa dei sussulti causati dai bi-nari, sono stati abbandonati a Vladi-mir, la seconda stazione. L’accoglientecuccetta, incolpando il fragore delleruote, ha trascorso lunghe notti intatta.Questa è la Russia, nonostante tutto,che ti piomba addosso com’è, moltoprima che tu possa accorgerti di lei. «Lasua forza e la sua allegria – spiega il so-

lo scrittore contemporaneo capace divendere 65 milioni di libri in 150 Paesi –sono una lezione morale per l’Occi-dente ricco e disperato. Fa riflettere l’o-stinata serenità, la generosità, con cuiin Sudamerica, in Africa e appunto qui,si affronta un tragico destino. Al lungogelo delle anime sta succedendo un ri-nascimento interiore che agli analistisfugge, ma con cui dobbiamo confron-tarci. Tutti i russi che ho incontrato mihanno lasciato un sorriso: mi ha moltoimpressionato».

È la delicatezza di questa semplicefelicità popolare, esplosa in una sfrena-ta festa siberiana a Ulan Ude, che hacontribuito a relegare sullo sfondo ilneo capitalismo di Stato e l’autoritari-smo di Vladimir Putin. Visti dalle spon-de del fiume Amur, ma già dagli Urali,violazione dei diritti umani e arretra-mento della democrazia appaiono so-fismi per stomaci pieni. Troppa distan-za, troppo isolamento, troppi problemipratici e quotidiani per non soccombe-re. Nessuna informazione. Solo laTransiberiana si ostina a tenere unitauna nazione vasta quanto un quintodelle terre emerse. «La mia immagineoccidentale della Russia – dice Coelho– ancora una volta si è manifestata er-rata. Trent’anni fa solo pronunciare ilsuo nome evocava in me slitte nella ne-ve, cavalli in battaglia e ricevimenti im-periali, Tolstoi, Dostoevskij, Gogol,Checov e Bulgakov, il respiro dell’Otto-cento. La credevo un paradiso ed era ri-dotta ad un inferno: ora mi aspettavoun regime mascherato e ho incontratouna democrazia con problemi nonpeggiori di tutte le altre».

Affermare di detestare chi, non cono-scendo nulla, emana ideologiche con-danne definitive contro interi paesi,può essere (costringendosi all’indul-genza) una fuga diplomatica. Da attivi-sta di Amnesty International ed ex dis-sidente torturato, l’autore-cult dell’e-soterismo religioso confessa invece (al-la vigilia di un brindisi privato al Crem-lino) di essere diventato un fan di Putin.«Ho chiesto a centinaia di persone, inogni città e villaggio, cosa ne pensino diquesto enigmatico presidente. Tutti mihanno detto che è un leader di cui, do-po Gorbaciov ed Eltsin, avevano biso-gno. Sarà politicamente scorretto, maper i russi Putin è servito molto: ha evi-tato che l’umiliazione dell’orgoglio ru-bato facesse esplodere il Paese. La suaRussia, per il mondo, è un contrappesofondamentale all’egemonia Usa. L’op-posizione alla missione in Iraq, il frenotirato assieme alla Cina davanti adun’altra guerra in Iran, contribuisconoa scongiurare una catastrofe umana eculturale. Anche l’Europa, senza Moscae Pechino, sarebbe ormai una osse-quiosa colonia di Washington».

Alla vigilia del contestato G8 di SanPietroburgo, il guru dell’Occidente chedifende il Cremlino, impegnato nellasfida estrema per l’energia, è stato con-testato solo a Kazan. Nella capitale delTatarstan, dove le moschee superanole chiese ortodosse e i musulmani sonomaggioranza, seguita a soffiare il ventodell’Asia centrale. Una donna cecena,che ha perso due figlie e tre figli nellaguerra dichiarata da Putin sette anni fa,gli ha chiesto perché il «grande viaggia-tore» non avesse allungato il pellegri-

GIAMPAOLO VISETTI Solgenitsyn, reducedall’esilio Usa,

viaggiò dal Pacificoa Mosca. Sui binarii deportati superstiti

lo salutavanoalzando una rosa

‘‘Bisogna farla, farla oraZAR ALESSANDRO III, 1886riferendosi alla costruzione della ferrovia ‘‘

È più come un transatlantico di qualsiasialtro treno che io conosco:il viaggio regolare, l’uniformità della vedutaPAUL THEROUX, 1988 ‘‘

Ho visto i treni neri che tornavanodall’Oriente come fantasmi. E il mioocchio corre ancora dietro quei treniBLAISE CENDRAS, 1913

la copertinaViaggi di scoperta

Vestito di nero, davanti all’oceano grigio di Vladivostok,Paulo Coelho sembra un mago dei suoi romanzi. E spiegacome, “per non lasciare la mia nave ferma in porto”,ha passato un mese sulla Transiberiana tentandodi capire cosa sta nascendo sotto le macerie dell’Urss

L’AUTORENato a Rio de Janeiro nel ’47, Paulo

Coelho è stato commediografo e popstar. Poi, dopo un pellegrinaggio

a Santiago nell’86, ha deciso di scrivereDa allora ha venduto 65 milioni di libri

MOSCALa stazione Jaroslawsky a Mosca dove si ferma

la Transiberiana in arrivo da San Pietroburgo

32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 4 GIUGNO 2006

Coelho all’ultimo Esttra i mille fantasmi russi

IL GRANDE LAGOLa Transiberiana costeggia il Lago Baikal, la “gemma

della Siberia”, il più grande e profondo del mondo

IN MONGOLIAA Erlian, città di confine della Mongolia, i ragazzini

giocano ai bordi della ferroviaRep

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naggio fino alle rovine di Grozny. Ri-sponde qui a Vladivostok, «signorad’Oriente», dopo giorni di meditazio-ne. «Esistono scelte – dice Coelho – chenon possono essere rinviate per sem-pre. La Cecenia ricorda l’Irlanda delNord, o i Paesi Baschi. Le autorità russehanno il dovere di trovare una soluzio-ne diversa da terrore e cannonate. Ètempo di sedersi a discutere».

Silenzio invece sulla deportazione diMikhail Khodorkovskij. A Chita, dovenel 1827 furono esiliati e sterminati idecabristi insorti contro lo zar, pocolontano da dove oggi langue in carcerel’oligarca che ha osato contendere aPutin gas e petrolio, riemerge però ilproblema della libertà. È un intagliato-re di scatole in betulla, a interrogare «ilbrasiliano che non naviga in internet,ma prende su e va a vedere». Peggio ibusinessman-sciacalli degli anni No-vanta, che si sono appropriati delle ric-chezze nazionali, o i burocrati corrottidel Duemila, che se le riprendono nelnome dello Stato? «Il potere che ignorai diritti e la povera gente, che coltiva lavendetta per alimentare i propri inte-ressi – sibila Coelho dal cuore della Si-beria – è il cancro di una politica igno-rante e priva di memoria. Il potere eser-citato per sé domina in Russia, ma pu-re in Brasile, in Italia, ovunque. Tutto ilmondo ha bisogno di nuovi dissidenti:senza di loro non c’è movimento, ilcambiamento diventa impossibile, lalibertà è finzione».

Più dei giudizi, ottant’anni dopo ilViaggio in Russia di Joseph Roth, nel-l’ex bambino rinchiuso per tre volte inmanicomio dai genitori («perché da

grande volevo fare lo scrittore»), haprevalso però l’ascolto. Nel 1926 l’in-viato della Frankfurter Zeitunga WalterBenjamin confessò di «essere partitobolscevico e tornato monarchico». Ilmaestro dei bestseller sull’esosità del-l’amore e sul coraggio di realizzare ipropri sogni assicura invece oggi chesolo tra una decina di mesi potrà capi-re il senso del suo viaggio «nell’ultimoEst del pianeta». La nota dominante,anticipa, sarà la sorpresa. È questa chel’ha investito, mentre percorreva su egiù centinaia di volte gli scomparti-menti della Transiberiana, frutto dellaprima e più colossale deportazione dimassa dell’età moderna. Solo su «que-sta luna distesa sulla terra» resta possi-bile un autentico stupore. Rapisce tut-ti, la concezione del tempo si smarri-sce. Gli orologi, fino al Pacifico, segna-no sempre l’ora di Mosca. Un metro piùin là, sulle pensiline, scorrono invece isette fusi orari e l’imbrunire che si fa au-rora. Giorni e notti non vengono scan-diti da pasti, veglia e sonno. Solo la na-tura selvaggia, alternata ai disastri am-bientali, trasmette la sensazione diprocedere. Attese e certezze si dissol-vono, davanti agli imprevisti. In un vil-laggio della taiga, nella penisola dell’A-mur, per la prima volta Coelho ha vistouna comunità che ancora attinge l’ac-qua da un pozzo del Settecento.

Sotto il Cremlino di Tobolsk, l’anticacapitale della Siberia da cui lo sguardonon basta per raggiungere l’orizzonte,gli scultori d’avorio di mammuth glihanno spiegato come lavorino mesi perpochi rubli. A Nizhny Novgorod, sulVolga della Russia centrale, i decrepiti

reparti di un ospedale-cimitero gli han-no rivelato cosa si nasconde dietro la re-torica presidenziale sulla «nuova superpotenza post atomica». Al di là delle be-tulle, nelle foreste abbattute dai com-mercianti cinesi di legname, ha scoper-to che aratro e cavallo rimangono la spi-na dorsale di un’agricoltura medievale.Oltre a questo, la follia esibizionista del-la Mosca miliardaria, dove 270 gratta-cieli di cristallo stanno crescendo neiquartieri di una massa di miserabili, do-ve si spendono 500 dollari a testa per unpasto (davanti a medici che ne guada-gnano meno di 200 al mese) e dove gliHummer blindati impediscono di avvi-cinarsi agli oltre 400 sfavillanti casinò.Un’apparenza alla Potemkin. «Solo aquattromila chilometri dall’arrivo –sorride Coelho – ho scoperto perché ladoccia era inagibile. La “provodnitsa”,conduttrice e despota di ogni vagone,l’aveva stipata di vodka e sigarette davendere negli Altai e alle comunità deiTuva. Un viaggiatore ha protestato: sce-so a fumare, è stato abbandonato in pi-giama nella stazione di Tayshet».

Il tracotante “Paese-Yukos”, orfanodel comunismo ma non riscattato dalsuo pubblico squallore, visto dalla solavia che dal 1896 lo percorre tutto, restaquesto: «Un inferno dove l’umanità èsopravvissuta perché fedele all’ironia,alla leggerezza paradossale del paradi-so». Paulo Coelho l’ha incontrato per-ché con la primavera ha scelto di varca-re i saloni zaristi della stazione Yaroslavl,confuso tra i bevitori di alcol denatura-to. Sono loro gli spettri della dissoluzio-ne, di una nazione dove i maschi muoio-no a cinquantasette anni e le donne ri-

fiutano di essere madri. «Ma andare aOriente – dice – oggi significa comunquepurificarsi. Disfarsi del superfluo. Fidar-si della gente. Aver bisogno di poco.Semplificare la propria vita. Ascoltarelingue antiche. Anteporre le domandealle risposte. È lo scopo del mio viaggioin Russia, una via per rientrare in mestesso, da solo dopo tanti anni: cercarela capacità di guardare il mondo con gliocchi di un bambino, senza ingenuitàma con la sua innocenza». Così è venu-to in Siberia, senza aspettarsi né preten-dere qualcosa, solo «per non lasciare lamia nave ferma nel porto».

A Vladivostok, prima di «tornare nelmondo», Coelho rimane l’ultimo po-meriggio seduto davanti all’oceanogrigio. Nel suo vestito nero, immobi-le, ricorda i maghi dei suoi romanzi.Ora volta le spalle all’ex Urss, ma pureall’Europa e all’America. Il suo primopellegrinaggio ai confini della crisi delDuemila termina nel vuoto, comel’ultimo cammino nello sfacelo delNovecento. Ad una ragazza, che sullaspiaggia gli chiede se è normale, ri-sponde: «Perché è normale che ledonne innamorate fuggano dal loroprincipe azzurro? Che la gente si per-da in sogni su soldi e potere, invece dipensare all’amore? Che uomini e don-ne vendano il proprio tempo, senzapoterlo riacquistare? Eppure, tuttociò accade». Anche ai confini dellaRussia, dove la primavera non è mairiuscita a diventare estate.

“Ho visto un infernodove la gente

sopravvive perchéfedele all’ironia,alla paradossale

leggerezzadel paradiso”

‘‘L’assoluta immobilità di questopaesaggio: come se il treno non simuovesse ma fosse parte della regione RYSZARD KAPUSCINSKI, 1958 ‘‘

Il treno che aveva portato la famigliaZivago era ancora sui binari,ma il legame con Mosca si era spezzato BORIS PASTERNAK, 1957 ‘‘

Lavorare nella ferrovia voleva direrealizzarci, avere un destino e dareassenso a un comandamento misteriosoCARLO SGORLON, 1983

SIBERIALa stazione di Irkutsk, la città che un tempo

venne chiamata la “Parigi della Siberia”

BALLANDO A NOVOSIBIRSKTappa a Novosibirsk. Il vecchio ponte ferroviario sul fiume Ob

ha funzionato per 110 anni. Ora è un monumento

FINO ALL’ALTRO IMPEROLa Transiberiana, dopo aver attraversato l’estremo est

dell’ex Urss entra in Cina e si spinge fino a Pechino

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 4 GIUGNO 2006

IL LIBROIl libro più recente di Paulo Coelho,“Sono come il fiume che scorre-Pensieri e riflessioni 1998-2005”,

di cui sopra è riprodotta la copertina,è pubblicato in Italia da Bompiani

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34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 4 GIUGNO 2006

la memoriaSvolte storiche

Nostalgia dell’“Indice”guida ai libri del diavolo

FRANCESCO MERLO

Aquarant’anni dalla sua abolizione, l’Index dei libri “dia-bolici” è un biblioteca vivissima, e non solo perché la pa-rola “diabolici”, persino per chi crede nel diavolo, signi-fica anche “affascinanti”. La verità è che, usato all’in-contrario, l’Index Librorum Prohibitorumè ancora oggiil più completo catalogo, in ordine alfabetico, da Alfieri

Vittorio a Zola Émile, dei libri che bisogna leggere, uno straordinarioCentro di Orientamento, la fonte battesimale di chiunque tenti di ca-pire il mondo attraverso i libri.

All’Indice, per esempio, finì, con il Talmüd e il Corano, anche la Bib-bia, ammessa solo in una versione «autorizzata e corredata da oppor-tune annotazioni desunte dai Padri e approvate con l’autorità della Se-de Apostolica». La Bibbia, infatti, è uno dei testi più “diabolici”, eccitantied avvincenti che esistano, al punto che ancora oggi la Chiesa ne ha fis-sato una «corretta» interpretazione ecclesiastica alla quale gli studiosicattolici sono obbligati ad attenersi. Composta in lingue diverse e inepoche diverse e modificata nei secoli dagli amanuensi trascrittori e ri-scrittori, è il libro della Weltanschauung protestante ed ebraica moltopiù che cattolica, ed è noto che per secoli quando si voleva lodare o adu-lare un Papa lo si chiamava «persequitor de’ giudei, riformator di quel-li e grande cacciator di libri eretici e malsani».

Insomma, anche la Bibbia può essere letta contro la Chiesa e persi-no come un manifesto dell’ateismo, come un libro di fantastiche av-venture, violento e morboso come una pulp fic-tion, con tutte le sue montagne, gli incendi e i dilu-vi, e ancora faraoni e cavallette, e popoli contro po-poli, padri contro figli, e i filistei, e Sodoma e Go-morra, e le acque che si aprono... Altro che Taran-tino! Con la Bibbia ci si può perdere in un eposdell’orrore e delle meraviglie, come, per esempio,nella Storia del declino e della caduta dell’ImperoRomanodi Edward Gibbon, anch’egli ovviamenteall’Indice con altri grandissimi storici come JulesMichelet, Edgar Quinet e Michele Amari. E si puòammirare nella Bibbia il monumento letterario,come fosse un antico Victor Hugo, anch’egli all’In-dice. E si può naufragare nel pessimismo storicodella Bibbia, come nell’Infinito di Giacomo Leo-pardi, messo all’Indice a metà Ottocento, «astutiadi Satanasso, fedele suo servitore per espugnare glianimi oziosi, cattivo spirito che sparge i suoi dia-bolici semi, lupo che minaccia le nostre pecore».

Eliminare una specie animale non è facile, mal’uomo, con il tempo e con l’impegno, ci riesce. I lu-pi, per esempio, sono stati combattuti e vinti in In-ghilterra all’inizio dell’età moderna, per protegge-re gli allevamenti delle pecore. Secondo Keith Tho-mas, che ha dedicato un bel libro alla storia del rap-porto tra l’uomo e la natura (Einaudi), è grazie allascomparsa del lupo che ancora adesso in Inghil-terra il pastore segue il suo gregge, mentre in Fran-cia e in Italia lo precede, accompagnato da due ca-ni da guardia; e il pensiero corre subito ai Domeni-cani, ai cani del Signore. Ma se per difendere la pe-cora gli inglesi sono riusciti a sterminare i lupi, nes-suno è mai riuscito a sterminare una razza di libri.E se volete la sicura prova di quanto sia controproducente la guerra ailibri, sfogliatelo dunque quell’Index che la Chiesa tenne in piedi dal1549 al 1966, concependolo come un’arma di distruzione di massa, so-prattutto nella cattolicissima Italia, dove anche I Promessi sposi, già alprimo loro apparire, sebbene «esauriti in un lampo», erano stati con-dannati dal Vaticano, al punto che, raccontò Titta Rosa, «tra l’estate el’autunno di quel lontano 1827, che il romanzo del Manzoni fosse sta-to messo all’Indice corse come una notizia sicura». Eppure, qualche de-cennio dopo la morte di Manzoni, lo stesso Osservatore romano pro-pose autorevolmente di farlo santo, e di farlo in fretta: «Santo subito».

Ma intanto, a riprova che i libri sono una materia difficile da gover-nare, stavano all’Indice, per citare solo alcuni tra gli italiani, Dante, Pe-trarca, Boccaccio, Ariosto, Boiardo, Vincenzo Monti, Cesare Beccariae Pietro Verri, Foscolo e quasi tutti gli eroi del Risorgimento, da Pellicoa Maroncelli, ma anche i cattolicissimi Niccolò Tommaseo, Gioberti eRosmini, e Settembrini, e poi Ada Negri, poetessa del proletariato ita-liano; e ancora Fogazzaro, D’Annunzio, Malaparte, Benedetto Croce eGiovanni Gentile, e Aldo Capitini, e poi Moravia e persino il misuratis-simo giornalista Mario Missiroli, che dal 1952 al 1961 diresse un Cor-riere della Sera molto cauto, centrista e filodemocristiano, inventoredella famosa formula giornalistica che tanto successo ha ancora in Ita-lia: «Meglio un buco che uno scoop».

Insomma, basta un’occhiata distratta per accorgersi che sono i mi-gliori quei libri che era obbligatorio consegnare all’Inquisitore o al con-fessore ottenendo in cambio uno sconto di pena nell’Aldilà. Si va da Bal-zac a Voltaire, da Copernico a Stendhal a Sartre, da Cartesio a Bergson,da Locke a Spinoza, da Kant a Galileo, da Gide a Flaubert, da Hume aMontaigne, passando ovviamente per Machiavelli, il cui Principe«scritto con il dito del diavolo, è un nemico del genere umano...».

Botteghe di veleni e diavoli dello spirito, i libri all’Indice venivano re-golarmente incendiati «nelle città che più ne erano infette». Per secolila cerimonia del rogo, a partire dai dodicimila volumi dati alle fiammeda Papa Sisto V in piazza San Marco a Venezia, divenne parte integran-te della liturgia pasquale ed evocò una simbologia di morte-resurre-zione: la cultura corrotta andava in cenere per risorgere purificata, mo-

riva il vecchio Adamo per far risorgere il nuovo Cristo.C’è persino tra gli autori idolatri dediti a pratiche magiche il nunzio di

Venezia Giovanni Della Casa che per primo il 7 maggio del 1549 ebbe lazelante idea di dare alle stampe l’Indice, e poi finì all’Indice. E ben gli sta,verrebbe da dire, nonostante il suo famoso Galateosia passato alla sto-ria come l’elogio delle buone maniere e della misura. Della Casa com-pilò quel primo Indice in odio ad un altro teologo che poi si sarebbe ven-dicato. E questa rivalità tra teologi, l’un contro l’altro all’Indice, ha forseispirato la novella di Borges su due teologi nemici appunto, dove l’unoriesce a mandare al rogo l’altro, ma finisce a sua volta bruciato da un ful-mine. E, ritrovandosi poi nell’Aldilà, entrambi si accorgono con stupo-re che Dio li considera «l’ortodosso e l’eretico, l’aborritore e l’aborrito,l’accusatore e la vittima, una sola persona». Ed è questa, chiosava Leo-nardo Sciascia, «la più alta e perfetta parabola sul fanatismo, sull’inimi-cizia dei fanatici come fattore speculare, dell’animale che allo specchionon si riconosce e dunque aggredisce la propria immagine».

L’Indice, nel quale finirono anche imperatori e re, come James I e Fe-derico II, e santi come Francesco di Paola, segue la storia della Chiesa,vale a dire della censura, che poi diventa la storia d’Italia. Sopravvive al-l’Inquisizione, accompagna i repentini rovesciamenti delle diverse for-tune militari, con fasi liberaleggianti di “persecuzioni moderate” cheprivilegiano l’espurgazione mediante cancellatura, e fasi più severe,con ispezioni, torture, esecuzioni e stragi, sempre con l’idea che la gram-matica è nemica della Chiesa, che la lettura è tentazione e vanitas per-ché «in Cristo è compendiata tutta la Scrittura e dunque non c’è bisogno

di leggere». Insomma, l’ispirazione rimase semprequella della buonanima del Santo Padre Paolo II:«Se Dio mi dà vita io prenderò una doppia serie diprovvedimenti: dapprima proibirò lo studio dellesciocche storie e poesie perché piene di eresie e dibestemmie, poi interdirò l’insegnamento e l’eser-cizio dell’astrologia giacché di qui provengono tan-ti errori. I figliuoli hanno appena dieci anni e già co-noscono, anche senza andare alla scuola, millebricconate. Possiamo già immaginarci di quanti al-tri vizi saranno ripieni più tardi quando leggerannoGiovenale, Terenzio, Plauto e Ovidio. Giovenale, èvero, fa mostra di biasimare il vizio, ma intanto in-troduce il lettore a farne la conoscenza».

L’Indice non impedì a preti e vescovi di coltivarsicome nessun altro, per naturale disposizione, pertempesta di sentimenti o per gusto di libertà, masempre grazie ai privilegi “venduti” dal Vaticano,perché con una dispensa papale ci si poteva libera-re di una moglie o si poteva acquistare il diritto dipossedere e persino di stampare libri proibiti. Il pri-vilegio del resto era anche una straordinaria arma diricatto, perché bastava poco a trasformarlo in undelitto e dunque a snidare dagli scaffali di questi“delinquenti altolocati” «la lue dei libri», com’èchiamata appunto l’infezione nella lapide muratanella cattedrale di Palermo alla fine del Settecentoin lode di monsignor Lopez y Rojo, il quale, funzio-nando anche da viceré, la lue dei libri combatté fa-cendoli pubblicamente bruciare per mano del boia.

Nessuno può negare che la Chiesa abbia com-battuto e insieme coltivato la cultura, come dimo-stra del resto l’attuale Papa tedesco, il quale ha scrit-

to un centinaio di libri, anche se a sfogliarli ti viene il sospetto che si trat-ti sempre dello stesso libro. Certo, l’Indice fu progressivamente ridi-mensionato, ma solo quarant’anni fa la Chiesa capì che quanto più unlibro è proibito tanto più viene letto e che quel catalogo di libri diaboliciera a sua volta diabolico perché tutti li condannava... al successo.

E tuttavia, quando l’Indice era stato già abolito, nel 1967 la Sacra Con-gregazione per la Dottrina della Fede processò il filosofo italiano Ema-nuele Severino sentenziando l’incompatibilità dei suoi libri con la dot-trina cristiana, e costringendolo quindi a lasciare l’Università Cattoli-ca di Milano dove Severino insegnava Filosofia Morale. Oggi Severinoè giustamente considerato il più autorevole filosofo italiano, e quel pro-cesso, che durò otto anni, e che egli ha raccontato nel libro Il mio scon-tro con la Chiesa, non ha certo nuociuto alla sua fama.

Possiamo dunque dire che l’Indice fu il più efficace strumento di pro-mozione alla lettura che mai sia stato immaginato da mente umana,prodotto di un’intelligenza eccellente che evidentemente capiva i libri.C’era insomma un complicità di intelligenza e una solidarietà straordi-naria, un gemellaggio reale tra il censore e il lettore trasgressivo. Perciòa noi che oggi ci sentiamo molto confusi, quell’Indice in fondo manca.Da un lato infatti la sua soppressione non ha mitigato il furore, come di-mostrano le battaglie (perse) contro Il Codice da Vinci. Ma dall’altro nonsappiamo più che cosa leggere. È vero che ci pensano gli islamici a dar-ci una mano perseguitando e dunque segnalando i libri, ma questa èun’altra storia sebbene sinistramente somigli alla nostra storia.

Di sicuro noi occidentali siamo ormai troppo rincitrulliti dal sistemadell’editoria di massa e assistita, dei premi letterari e delle recensioniche, specie in Italia, sono quasi tutte “truccate”, al contrario del rigoro-so Indice, dove non si entrava se non eri un grande. Oggi che la promo-zione dei libri è una colossale industria delle patacche, scientificamen-te organizzata dagli editori e dagli amici degli amici perché, come dice-va Flaiano, «quando si recensisce il libro di un amico è un dovere para-gonarlo a Hegel», oggi insomma noi quasi quasi vorremmo che la Chie-sa ci restituisse l’Indice, magari su iniziativa degli zelantissimi atei de-voti, per non fare davvero scomparire gli amatissimi lupi, per nonritrovarci in un mondo popolato solo da pecore.

EDIZIONI ANTICHE

Qui sopra: la copertina

di un antico “Index”. Nei riquadri

a destra: un altro “Index”,

il “Dialogo” di Galileo Galilei

e una pagina del “Novellino”

Quarant’anni fa, il 14 giugno 1966, il Vaticano abolisce l’Indexlibrorum prohibitorum, in vigore dal 1559. Uno strumento di censurae intolleranza, ma anche una raffinata mappa dei titoli da non perdere

GALILEO GALILEI

Nel 1632 viene proibito

il suo “Dialogo

sui massimi sistemi”

NICCOLÒ MACHIAVELLI

Accusato di immoralità,

“Il Principe” è bandito

dalla Chiesa nel 1559

VOLTAIRE

Tra le sue opere iscritte

nell’Index anche le “Lettres

philosophiques” del 1734

NICCOLÒ COPERNICO

Il suo “De revolutionibus

orbium caelestium”

è messo all’Indice nel 1616

L’arte del pensare costa fatica e implica dei rischi. In ma-teria ho sperimentato varie cose meritevoli d’un cen-no perché smentiscono dei luoghi comuni: ad esem-

pio, che il passato cattolico imponga chiavarde alle idee; efuori spirino atmosfere laiche (a parte cittadelle illo temporemarxiste dove gli ecclesiocrati pontificano ancora). La miacattedra alla Cattolica data dall’Ognissanti 1960: procedurapenale, materia tecnica se ve n’è una; sono forestiero; nessu-no m’ha chiesto professioni di fede, meno che mai giura-menti; e tutto seguiterebbe de plano se due anni dopo la Fa-coltà non m’affibbiasse anche la filosofia del diritto, menoneutrale. Nessuno s’aspetta filastrocche edificanti: il clou delmio corso è una teoria generale del diritto; gli scolari studia-no Hans Kelsen, efferato anti-ideologo; e leggono un lieve di-versivo storico sull’idea del diritto naturale. Buona scelta di-dattica, ma le antipatie pulsano persino tra gli apostoli o in-torno alla Tavola Rotonda, figurarsi nelle Facoltà universita-rie: due o tre colleghi impugnano l’arnese confessionale; bi-sbigli santimoniosi deplorano il taglio profano delle lezioni.Allora passo alla scrittura pescando nella magnifica bibliote-ca: non vi manca niente, inclusi i testi sulfurei, fuori d’ognicautela censoria; e nascono Gli osservanti, 679 pagine, unatraversata nel «dover essere»; esploro lessico, grammatica,sintassi, storie d’idee, proiezioni teoretiche, fondi viscerali,nemmeno sfiorato dal sospetto d’essere caduto nell’infan-dum (cose da non dire); va detto tutto; chi dissente spieghidove ho sbagliato e come. Vigono regole del pensiero o no?

Due esperienze mi disilludono. Estate 1967, cerco l’edito-re. Il dominus della saggistica d’una Casa apparentementelaica loda «autorità stilistica», idee interessanti et cetera: pec-cato che il padrone non voglia (motivi d’economia, natural-mente); e indica tre vie possibili. La migliore conduce al la-boratorio nei cui famosi mercoledì ha voce consulente unmio collega senior, papa della materia. Vado da lui, ospital-mente accolto: «Abbiamo due collane adatte»; lascio mano-scritto e indirizzo d’una villeggiatura alpina. Nel referto epi-stolare mi ringrazia d’avere contribuito alla filosofia del di-ritto con un saggio che gli ricorda Pareto: non è compli-mento da poco, ma vorrei che lo dicesse alla Casa, avallan-domi; sul qual punto riparlandone lo sento evasivo. Forsealiquid obstat, perciò vado dall’editore della Procedurapenale. Il libro appare verso Natale, sotto una copertinaillustrata da Hieronymus Bosch, Trittico del fieno. Ne de-dico una copia all’archimandrita laico, stupito: non sel’aspettava così presto; «bello». Ovvio che ne parli alpubblico. Nossignori, silenzio arcigno, condiviso daicultori della materia e affini. Nell’Università circolatranquillamente, l’anno dopo diventa testo ufficiale.Quei due o tre soffiano nel fuoco.

Libro vissuto, Gli osservanti incubavano un lungodiscorso (sia detto en passant, Nino Aragno li ripre-senterà in autunno). Lo scandiscono ventidue tito-li: il primo è un malinconico e freddo scherzo nar-rativo, «Genus», dove racconto quel che avverrà,confidando nell’effetto esorcistico, ancora illuso,perché siamo automi regolati come pendole. Ifuochisti agiscono, tali e quali li avevo dipinti: unvescovo presidente dell’Istituto finanziatore,incauto, s’è fatto coinvolgere; dopo due anni micomunica un piccolo anatema; il lettore «intel-ligente non so come [possa] conservare la fedecattolica o almeno» schivare «gravi difficoltà»,contro le quali non fornisco soccorsi. Tocca ame fornirli? Nasce da lì Risposta a Monsigno-re. La filosofia del diritto passa in mani pie eio insegno procedura penale, finché la com-petente Congregazione vaticana revoca il

nulla osta. Causa al Consiglio di Stato: interlo-quisce la Consulta, nel senso che abbiano vincoli dottri-

nali i docenti delle università confessionali riconosciute dal-lo Stato; uno dei giudici, impavido, le paragona alle scuole deipartiti (uomo d’umori ondivaghi, ormai reazionario arrab-biato, veniva da Pnf e Pci). Sono inamovibile dalla cattedrama non tengo lezione, un’afasia quadriennale. Finita la cau-sa, mi chiama Torino. Due anni dopo, la Sapienza, dove nonapproderei se pesassero avvertimenti negativi d’oltre Teve-

re, mentre sparisce dalla ribalta monsignore vescovo, «teo-logo del papa».

È divertente speculare sui futuribili(Padre Luis Molina S. J. lo fa nella Con-cordia liberi arbitrii cum gratiae do-

nis). Fingiamo che quei due o tre pro-fessori s’occupino dei fatti loro, così di-

stanti dalla specola filosofica: Gli osser-vanti vanno pacificamente in giro; gli

studenti v’imparano l’arte del guardarenelle formule cavando i sensi occulti do-

ve ve ne siano, senza riguardi alle vescicheverbali; l’autore chiude la carriera accade-

mica in piazza Sant’Ambrogio trentaseianni dopo, avendo scritto varia roba; nien-

te da spartire, suppongo, con i ventidue tito-li posteriori al libro galeotto. Il mondo sareb-

be diverso nella parte infinitesima che mi toc-ca. Sarei meno informato d’una cosa, quanto

poco rendano i discorsi disinteressati, diritti,brevi, chiari: è già tanto che, avendoli tenuti, re-

stiamo incolumi, ma le apparenti verità dog-matiche sono un falso scopo; i giochi corrono a

livelli profondi. Gl’integrati fiutano l’argomentoda non toccare: siccome l’esercizio del pensiero

irrita gli eminenti e affatica i consumatori, diconopoco con tante parole gonfie, sonore, equivoche,

fumiganti.Ricapitolando i vissuti, direi che il mondo catto-

lico apra larghi spazi ai discorsi liberi e la griglia ini-bitoria sia struttura sommersa del metabolismo bio-

psichico: oltre ai pochi superstiti campioni d’orto-dossie, la condividono reazionari, progressisti, ever-

sori, bigotti atei, versipelle intenti alla carriera; a mansalva l’adoperano santoni d’un sedicente spirito laico.

Nell’età degli stereotipi consumati in massa non c’è bi-sogno d’inquisitori, basta la noia, spegnitoio inesorabile.Spirano arie logofobe: i gesti prendono il posto dei concetti;l’Arcadia ha partorito gerghi farfallini; l’interessante non stanel detto, semmai traspare dalla mimica. Stiamo regredendoall’astuzia degl’istinti.

Abbiamo chiesto a Franco Cordero, scrittore,saggista e docente universitario, autore di unfamoso manuale di procedura penale, di ricordaree commentare una vicenda di quarant’anni fa chelo ha coinvolto: nel 1967 scrisse “Gli osservanti”;quel libro gli costò la cattedra alla Cattolica

La Chiesa e la censura, un testimone racconta

FRANCO CORDERO

Il Prof, il Monsignoree la condanna all’afasia

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 4 GIUGNO 2006

ROGHI

Il dipinto (XV secolo) mostraSan Domenico che assiste

a un rogo di libri “diabolici”.L’“Indice” sarà creato

un secolo più tardi

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2006

il fattoCompleanni

Sono passati vent’anni. In quell’estate ’86 un gruppodi amici fondò il primo nucleo di un movimentoche fu accusato di elitarismo ma che oggi ha messo radiciin 106 paesi. E che scommette su un futuro del pianetadove a dettare l’agenda della produzione e dello svilupposaranno i pescatori, i pastori, i lavoratori della terra

“Fu una fisimaUna fisimada langaroli...”Comincia cosìl’intervista-raccontodi Carlo Petrinisu bilanci e progetti

36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 4 GIUGNO 2006

la, che fa viaggiare merci alimentari con-sumando smisuratamente energia, che habisogno di un uso massiccio, insano e an-tieconomico di conservanti per far viag-giare il cibo senza deteriorarlo. Consuma-re prevalentemente il cibo che si producenel proprio territorio significa lavorare perla salvezza del pianeta e contemporanea-mente mettersi al riparo dalla fame».

In che senso?«Nel senso che mi ha spiegato così bene,

a Terra Madre, un contadino africano. Nelsuo comprensorio il governo aveva incen-tivato la coltivazione intensiva del caffè, ascapito di tutte le altre produzioni locali. Ilpadre aveva accettato, convertendo tutti isuoi campi a caffè. Ma la nonna non si fi-dava, e mantenne il suo pezzo di orto, contutti i prodotti tradizionali. Due o tre annidopo il Vietnam entrò nel mercato delcaffè a prezzi stracciati, rovinando moltiproduttori africani. La capanna del mioamico contadino era stracolma di caffè in-venduto, e non avevano più niente damangiare. Il caffè non si mangia: si vende ebasta. Si salvarono perché la nonna potésfamare tutta la famiglia con il suo orto».

Gli orti di tutte le nonne del mondo pos-sono sfamarci tutti?

«Ovvio che no. È inevitabile e giusto chealcuni prodotti continuino a viaggiare, operché non è possibile produrli ovunqueoppure per la sacrosanta curiosità di co-noscere i prodotti altrui. Solo che il rap-porto tra consumo di prodotti locali e diprodotti globalizzati andrebbe esatta-mente invertito. Specialmente se riuscis-simo ad assumere, finalmente, il punto divista del Sud del mondo: perché piegareeconomie di decorosa sussistenza a unalogica produttivistica che li priva, alla lun-ga, anche del decoro? Perché questa pira-teria genetica che espianta colture e cultu-re, le cancella, e costringe interi popoli a di-pendere dai sussulti del mercato globale,come con la storia del caffè vietnamita? Permantenere all’ingrasso un miliardo e set-tecento milioni di obesi, quasi tutti delmondo ricco? È logico tutto questo? È mo-rale? E soprattutto, è produttivo? Io credoproprio di no».

La politica, almeno in Occidente, nonsembra attentissima a queste logiche.

«La politica, quasi tutta, ignora che mol-te delle avanguardie intellettuali, nel mon-do, oggi provengono dalla terra, dal mon-do contadino. I grandi movimenti conta-dini sono i soggetti più irrequieti e più fe-condi della politica planetaria. Ci siamogià dimenticati che il movimento di Seat-tle è partito da contadini. Per esempio icontadini sanno che la produzione massi-va, la logica dell’agroindustria, ha espulsoa milioni, a centinaia di milioni, le donnedal processo produttivo. Bisognerebbeche si capisse, una volta per tutte, che i pro-dotti della terra non sono come le altremerci. A differenza dei manufatti indu-striali, il cibo è parte intrinseca del territo-rio che lo genera, dell’economia, della cul-tura, del paesaggio. Un paese che perde lesue biodiversità è un paese che si sta im-miserendo da tutti i punti di vista, econo-mico ed estetico. Anche se apparente-mente, in un primo momento, la conver-

sione al mercato globale sembraportare vantaggi e denaro,

alla lunga si paga il con-to, ed è un conto du-

rissimo. Basti dire

Slow Food, il mondo

EventiUna miriade di appuntamenti

su cui spiccano il Salone biennale

del Gusto, che quest’anno celebra

il decennale, e Cheese (le forme

del latte), con cadenza biennale,

alternata al primo. Più recenti,

lo Slow Fish e soprattutto Terra

Madre, che a novembre porterà

a Torino 1.200 comunità del cibo

del mondo e mille grandi cuochi

EsteroUn’associazione da subito senza

confini: il congresso di fondazione

del Movimento Internazionale Slow

Food fu organizzato (1989) a Parigi

Un’attività, riconosciuta dalla Fao,

che oggi ha sedi in tutto il mondo

Altri punti-cardine, i presìdi

del mondo e il premio per la

biodiversità. Nel 2004 Time ha eletto

Petrini “Eroe europeo dell’anno”

EditoriaSettantacinque titoli, tutti costruiti

intorno al cibo come elemento

di conoscenza, etica, qualità

All’inizio fu solo un supplemento

a “il manifesto” col nome

di “Gambero Rosso”, marchio

rimasto ai partner di un tempo

con i quali viene pubblicata

ogni anno la celebre guida dei vini

Tra i successi, “Osterie d’Italia”

MICHELE SERRA

TERRA MADREDalla foto qui sopra,in senso orario: Carlo Petrinia Terra Madre e duranteuna premiazione; le primetessere con la Chiocciolina;due momenti di Terra Madree l’Università di PollenzoA centro pagina, Petrinicon Francesco Guccini

proverarti nonostante il successo mon-diale di Slow Food e delle sue condotte,nonostante le migliaia di contadini chearrivano da ogni angolo del mondo a To-rino per partecipare al raduno di TerraMadre.

«Ah già, la faccenda che siamo elitari…che ci occupiamo di questioni lussuose emarginali, come la salvezza di prodotti dinicchia, magari anche costosi… i maniacidel lardo di Colonnata… beh, guarda, ti ri-spondo così: quando, nel ‘96, cioè sola-mente dieci anni fa, facemmo a Torino ilprimo Salone del Gusto, ci dissero “sietepazzi”, un manipolo di utopisti o peggio disnob. I bene informati ci spiegarono che ilfuturo dell’alimentazione era Cibus, la fie-ra dell’industria agroalimentare a Parma,che contavano la quantità, la produzioneintensiva, i grandi numeri, che bisognavasfamare il mondo, altro che lardo di Co-lonnata. Beh, in dieci anni la situazione siè esattamente ribaltata. La politica ali-mentare dell’Unione europea ha fatto pie-namente propria l’idea che sia la qualità adover prevalere. Si tende a valorizzareovunque la biodiversità, si tutela la fagioli-na del Carso, addirittura si esagera nel sot-tolineare il valore identitario delle produ-zioni agricole locali. Questo significa che,culturalmente parlando, Slow Food hasemplicemente stravinto. Sarà anche sta-ta un’élite, ma ha dato la lista delle prioritàanche a buona parte del mondo politico».

L’agricoltura, del resto, non per caso sichiamava e si chiama settore “primario”.

«Appunto. Altro che nicchia, altro chesnobismo: il cinquanta per cento della po-polazione mondiale è fatta di contadini, eaggiungendo pescatori, pastori, trasfor-matori e ristoratori si arriva a più del ses-santa per cento degli umani viventi che la-vorano nel cibo. Noi italiani, con il nostroquattro per cento di occupati in agricoltu-ra, non ce ne rendiamo conto, gli america-ni men che meno, da loro i contadini sonosolo il due per cento. Ma è un punto di vi-sta provinciale e minoritario, il nostro, difronte alla realtà di un pianeta ancoraprofondamente contadino».

Però è opinione molto diffusa che solol’agricoltura massiva sia in grado di sfa-mare il mondo. Che le piccole colture nonpossono essere all’altezza della sfida del-la sovrappopolazione.

«Nego nella maniera più assoluta. L’e-conomia di piccola scala non è solo piùestetica o più poetica. È più produttiva. Èpiù economica. Consente un gigantescorisparmio energetico, eliminaquelle che gli economistichiamano “esternalitànegative” dell’eco-nomia di larga sca-

«Fu una fisima. Una fisi-

ma da langaroli…».Vent’anni dopo, quel-la «fisima» è diventataun fenomeno mon-diale. Fondata con il

nome di Arcigola nel luglio dell’86, rige-nerata in Slow Food tre anni più tardi, hamesso radici in centosei nazioni del pia-neta Terra. Soltanto negli Stati Uniti, lecondotte di Slow Food sono 173, e gliiscritti molte migliaia.

«Chiamarle “condotte” — racconta oraCarlo Petrini — fu quasi un vezzo, ci siamoispirati alle condotte veterinarie, al medi-co condotto, per indicare il radicamento aun territorio preciso. Si tratta di piccoligruppi di produttori e consumatori, unitinella tutela di un particolare cibo, di unmodo di produzione, di una maniera di vi-vere. Gli americani li chiamano “convi-vium”. E se mi avessero detto, quando ab-biamo cominciato, che un giorno avrem-mo avuto una condotta anche in Uzbechi-stan, avrei pensato a uno scherzo…».

Torniamo alle origini. Al punto zero.C’era una volta un piccolo organizzatoreculturale di Bra, provincia di Cuneo…

«Erano gli anni di ArciGay e di Legambiente, il pe-riodo più fecondo per l’as-sociazionismo italiano. Senasci in Langa, è quasi fisio-logico pensare alla terra, alvino, alla gastronomia co-me a un terreno fertile perragionare insieme ad altrepersone. Avevamo già fattoqualcosa di locale, gli Amicidel Barolo e cose del genere,ma il nostro modello di rife-rimento era la Francia, cheaveva da tempo imposto lasua gastronomia nazionalecome un formidabile fatto-

re culturale e identitario. Trentenne, an-davo in Borgogna e a Bordeaux per segui-re corsi di enologia, per imparare a tratta-re una materia così ricca. Noi volevamo fa-re come i francesi ma a differenza dei fran-cesi non avevamo avuto uno Stato centra-le così forte e cosciente da imporre unacultura nazionale del cibo, una CucinaFrancese con tutti i suoi crismi. Non esisteuna cucina italiana, esistono le cucine re-gionali e locali. Tante, e disperse. E proprioda lì siamo partiti. Dal nostro ombelico.Ma per guardare più in là possibile».

C’era, nell’Italia degli anni Ottanta, uncerto fermento intellettuale attorno al te-ma, allora considerato molto specialisti-co, della gastronomia.

«Direi che tutto o quasi, anche SlowFood, prese l’avvio dalla rivista La Gola. Lostesso nome Arcigola viene da lì, da quellaindimenticabile testata. La facevano Al-berto Capatti, che oggi è rettore dell’Uni-versità di Pollenzo, Gianni Sassi, FolcoPortinari, Massimo Montanari, AntonioPorta… Io ero appena il ragazzo di botte-ga, andavo a Milano a respirare quell’aria,leggevo tutto avidamente, mi abituavo atrattare le questioni della gastronomia edell’alimentazione come fatti culturali epolitici. La Golafu, per il nostro mondo, unmodello internazionale, neanche i france-si avevano qualcosa di paragonabile».

Partenza decisamente di élite, comun-que. Intellettuali di sinistra che ragiona-no sulla tavola e sul bicchiere. Ed è, in fon-do, quello che qualcuno continua a rim-

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 4 GIUGNO 2006

che i principali danni all’ecosistema, se-condo uno studio commissionato dalleNazioni Unite a 1.400 scienziati, dipendo-no dalle nuove forme di produzione del ci-bo. L’agroindustria inquina e danneggial’ambiente più dell’industria…».

Eppure, nella percezione “progressi-sta” del futuro, la battaglia anti-globale, ladifesa a oltranza delle biodiversità, l’ar-roccamento attorno alle identità locali,sono in odore di essere vagamente rea-zionari… sto pensando a Bové, per esem-pio, e alla sua identificazione quasi spiri-tuale con il terroir, con la tradizione…

«José Bové è un terzomondista di sini-stra, altro che storie. Io sono stato e sono disinistra. Ma è fuori dubbio che questo di-battito incroci anche modelli e istanze chedi sinistra certamente non sono. Non è unmistero per nessuno che io mi sia trovatobene con il ministro Alemanno, con il qua-le c’è stata una notevole sintonia proget-tuale. Ed è altrettanto vero che molti, a sini-stra, pensano che io sia o uno che fa dellapoesia su questioni secondarie, o addirit-tura un reazionario che insegue una speciedi spiritualismo contadino… Ma per fortu-na non tutta la sinistra è così. Per fortuna lasostenibilità dello sviluppo è un concettoche comincia a farsi strada. E per fortuna sista prendendo coscienza, anche in paesiindustriali e post-industrialicome il nostro, che le questionidella terra sono strutturali, de-cisive, e stracariche di signifi-cati politici».

E, politicamente parlando,Carlo Petrini da Bra ama mol-to raccontare il suo più recen-te successo, una laurea hono-ris causa in “Human Letters”nel New Hampshire.

«Commosso fino alle lacri-me. Perché alla cerimonia c’e-rano diciottomila persone, eperché il rettore, leggendo lemotivazioni della mia laurea,ha detto che il sottoscritto haonorato la lezione di Antonio Gramsci: te-nere insieme politica e cultura popolare.Ma pensa un po’: bisogna andare negli Sta-ti Uniti, ormai, per sentire parlare bene diGramsci. Qui da noi comunista è diventatauna parola spregevole».

Il futuro di Slow Food?«Il futuro di Slow Food è legato a quello

di Terra Madre, la nostra “internazionalecontadina”. Nella prossima edizioneospiteremo 1.500 comunità contadineche arrivano da 152 paesi. Chi pensa a unmondo residuale, non ha capito niente.Lo rimando diritto al cinquanta per centodella popolazione mondiale che lavora laterra. E lo rimando alla lettura di VandanaShiva, ai nuovi economisti, alla vitalità in-tellettuale e politica del mondo contadinodi tutti i continenti. Prima o poi cantere-

mo anche noi We shall overcome. Ènato come inno antisegregazioni-

sta, poi del femminismo, poi delpacifismo, adesso la frontiera

del cambiamento passa at-traverso i campi coltivati…Io ci credo».

UniversitàDove una volta c’era la fiorente

agenzia agricola di Pollenzo,

oggi sorge la prima Università

di Scienze Gastronomiche,

con studenti da tutto il mondo,

grazie alle borse di studio dei soci

sostenitori. Nello stesso complesso

sono ospitati la Banca del Vino,

un albergo con piscina e “Guido”,

uno dei migliori ristoranti italiani

PresìdiIl progetto di salvaguardia

e promozione delle piccole

produzioni di qualità si richiama

al Manifesto dell’Arca, pubblicato

nel ’97. Pochi mesi dopo si passò

ai Presìdi, veri e propri supporti

tecnico-economici in grado

di cambiare il destino di aree

agroalimentari condannate a morte

I Presìdi italiani sono quasi 200

Master“Buono, pulito e giusto”,

il manifesto della nuova

gastronomia di Carlo Petrini

è la fonte di ispirazione dei corsi

e dei laboratori organizzati in tutto

il mondo sulla cultura del cibo

Progetto sfociato nei venti corsi

tematici di “Master of Food”,

che spaziano dal pane alle spezie,

dalla birra al vino

salvato dai contadiniIl ricordo di un tesserato della prima ora

“Ho arruolato Platinitra i pionieri

della Chiocciolina”

Caro Carlin, mon lecteurhypocrite, mon sembla-ble, mon frère, essendo

uno di quelli della prima ora edelle prime tessere non ritengoopportuno dilungarmi in salutie smancerie. Sarà sufficientel’inchino e il bacio dell’anello,atto dovuto a quel po’ di ieraticoche porti addosso con noncu-ranza, ma soprattutto alle tantecose realizzate, alla tanta stradapercorsa. Ti ho conosciuto in undopo-Tenco, Paolo Conte alletastiere e tu intonavi «È mortoun bischero»con Azio, Gio-vanni, quelli diBra e l’imman-cabile Guccini.Le persone se-rie si riconosco-no al volo, comegli angeli al pri-mo batter dipiume (direbbeil nostro amico-apripista Vero-nelli).

Talmente se-rie da presentare il manifesto diSlow Food all’Opéra Comiquedi Parigi, mica in una piola diDronero. Non mi piaceva solol’uso dell’inglese per un’inizia-tiva partita dall’Italia, ma misbagliavo. E comunque mi èservito per giocarci nell’ambitodella professione (Fast Foot peril frenetico calcio-tonnara) edintorni (Nefast Food, ShowFood).

Ricordo bene la tua telefona-ta: servono proseliti importanti,

hai sottomano qualcuno? In ef-fetti, siccome Slow Food ancoradoveva ufficialmente nascere,nessuno sapeva cosa fosse, toltiquei carbonari che avevano let-to il manifesto-battesimo-pro-gramma. Mi bastarono cinqueminuti ad arruolare Platini. Inquel periodo, aveva in mente diaprire a Torino un bar à huitres,sotto l’ovvia insegna di ChezMichel, alla fornitura avrebbeprovveduto la famiglia di Ro-cheteau (allevamenti nella zo-na di Arcachon). Non se ne fece

nulla perchéBoniperti miseil veto, gli sem-brava disdice-vole che un cal-ciatore della Ju-ve mettesse suun bistrot (co-me passa il tem-po). Peccato,avevo già pre-parato la cartadei vini italiani(a quelli france-si aveva provve-

duto Platini). Ora che l’utopias’è rivelata preveggenza e SlowFood ha messo radici nel mon-do, ben oltre il cappone di Mo-rozzo e il caciocavallo podolico,ora che si parla di terra e Terra,di ecosistemi sostenibili, tra ipiedi, come sempre, ci ritrovia-mo le ingorde multinazionali.Lunga vita alla Chiocciolina, ilpiù è da fare, ma intanto ti ab-braccio con la sinistra e con ladestra alzo un calice di Barolo,Monforte o Serralunga scegli tu.

GIANNI MURA

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Quattro storie sul trascorrere del tempo, la solitudine, il misterodel viaggio reale e mentale: uno tra i più celebri autori italianidi “bandes dessinées” ha realizzato per Einaudi un nuovo libro,

ricco di tavole smaglianti “Questa forma di racconto per immagini - dicenel suo luminoso atelier parigino - è una scatola magica al cui interno è possibileliberare il fantastico, lo strano e l’imprevedibile”

38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 4 GIUGNO 2006

degli uomini, il mistero di viaggi reali ementali. Un libro in cui, come sempre,l’estroso illustratore catapulta il letto-re in un universo dai colori cangianti,dove le visioni surreali e le proiezionifuturibili si sovrappongono alla fragi-lità dei sentimenti e alle incertezze de-gli uomini: «Il lettore che entra nellemie storie deve essere pronto a colla-borare con il testo, riempiendo gli spa-zi tra un’immagine e l’altra. Deve esse-re attivo e liberare la sua fantasia, uti-lizzando la sua esperienza. Se doman-do quest’intensa partecipazione men-

tale e emotiva, èperché non m’in-teressa proporrestorie scontate eprevedibili, chescivolano su chilegge senza lascia-re traccia». Esigen-te con se stesso,ma anche con glialtri. Anche se poic’è chi gli rimpro-vera di fare fumet-ti eccessivamentedifficili e elitari. «Ame però non sem-bra», risponde,«anzi, ho l’impres-sione di aver fattomolti sforzi persemplificare e ren-dere più compren-sibile il mio discor-so».

Nel suo ampio eluminoso atelier parigino, Mattotti di-segna manifesti e illustrazioni per com-mittenti di tutto il mondo, progetta car-toni animati, dipinge quadri e preparamostre. Un’attività continua che gli la-scia poco tempo. Il fumetto però restasempre il primo amore. L’attività a cui

tiene di più, ma anche quella che con-sidera più difficile. Quella che lo co-stringe sempre ad interrogarsi, spin-gendolo a sperimentare nuove formu-le capaci di esprimere pienamente ilsuo mondo nutrito di citazioni pittori-che e letterarie, cinematografiche emusicali. Un mondo indissociabiledallo stile unico e visionario, forgiato inquasi trent’anni di attività, all’insegnadi un’idea di fumetto inteso come lin-guaggio creativo aperto a tutte le in-quietudini e affrancato da ogni tradi-

zione. Oggi, quando ripensa ai suoi inizi nel

cuore degli anni Settanta, l’autore delSignor Spartaco e di Caboto ricorda lefrenetiche ricerche a tutto campo, maanche l’incomprensione che lo circon-dava: «Dicevano che nelle mie tavolenon si capiva nulla e che avevo uno sti-le eccessivamente inquietante e sballa-to. In effetti, i miei disegni potevanosembrare confusi, lontani da ciò che ilettori si aspettavano da un fumetto tra-dizionale. La violenza delle mie tavole,ad esempio, era grottesca, assoluta-mente diversa dalla violenza glamourche andava di moda». Proprio le diffi-coltà degli esordi lo hanno però abitua-to a rimettere in discussione il suo lavo-ro: «Se tutto fosse stato facile, probabil-mente mi sarei adagiato nella ripetiti-vità. Così, invece, ho imparato a riflet-tere e a rinnovarmi, senza dare mai nul-la per scontato». Oltretutto nelcrogiuolo culturale degli anni Settantaera possibile radicalizzare ogni tipo diricerca, in nome della liberazione deilinguaggi artistici: «Per me, il fumettoera come la musica rock, un linguaggioche apparteneva completamente allamia generazione, con il quale poteva-mo esprimere liberamente le nostrefollie e le nostre rabbie. Forse ho inizia-to a disegnare fumetti proprio perchénon sapevo suonare. Il fumetto aveva lastessa dignità degli altri generi artistici.Il suo linguaggio senza limiti era pienodi potenzialità. Poteva diventare poe-sia o farsi astratto, senza essere più pri-gioniero di una storia».

Nacquero così Alice brum brum eTram tram rock, le prime storie di ungiovane e silenzioso disegnatore che,dopo aver iniziato a pubblicare su Eu-reka o Re Nudo, fu chiamato da OresteDel Buono a collaborare a Linus. In se-guito verranno Incidenti e Labirinti,

MattottiLorenzo

FABIO GAMBARO

PARIGI

Immagini. Colori. Forme. Sogni,incubi, emozioni. Favole e av-venture. L’universo creativo diLorenzo Mattotti sorprende e af-

fascina. Sempre. Ogni pagina del piùcelebre rappresentante del fumettod’autore italiano spiazza il lettore, con-ducendolo lungo sentieri imprevedibi-li. Dove la maestria del disegno mate-rializza emozioni e spazi mentali incontinuo movi-mento. Dove la ri-cerca si fa sperico-lata e l’avventura siaffranca da ognitradizione, tra-sformandosi inpoesia pura, irre-quieta e fantastica.«Del fumetto, ciòche m’interessa èla forza visionaria,la radicalità delleimmagini che pos-sono essere com-pletamente auto-sufficienti», spiegaMattotti, che hacinquantadue an-ni e da quindici vi-ve a Parigi, dove lesue opere hannosempre trovato unpubblico attento ecompetente. DaFuochi a Doctor Nefasto, da Caboto aStigmate.

Opere a cui ora sta per aggiungersiLettere da un tempo lontano (Einaudi,62 pagine, 15,80 euro), una raccolta diquattro storie malinconiche e poetichesul trascorrere del tempo, la solitudine

“Chiedo al miolettore di entrarenelle storie,collaborare al testo,riempire gli spazi traun disegno e l’altro”

“Torno al fumetto, da un tempo lontano”

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no il fantastico, lo strano e l’imprevedi-bile. D’altra parte, tutte le volte che hotentato la strada del realismo, mi sonosempre annoiato moltissimo. Per me,raccontare significa creare una conca-tenazione di eventi e d’immagini capa-ci d’evocare stati d’animo. L’attualità,la cronaca, i temi sociali li lascio a chi lisa fare meglio di me, anche se ciò nonsignifica che nelle mie storie non ci siala realtà. C’è, ma è presente in manieraindiretta, magari attraverso le notiziedi un giornale o qualche altro detta-glio».

Oggi però l’au-tore della Zona fa-tua si prepara an-cora una volta astupire i suoi letto-ri, pensando a sce-nari molto lontanidalla realtà di tutti igiorni: «Vorrei tor-nare all’alba delfumetto con unastoria in bianco enero di animalistrani, una storiapoetica e leggera,ma anche capace

di dire cose importanti. Oppure mi pia-cerebbe inventare un mondo arcaico,aperto al mistero, ai numi e ai rituali. Hovoglia di disegnare guerrieri, templi,sacrifici. Per questo, sto pensando auna Sibilla, attorno a cui intrecciare i te-mi del mistero e dell’amore».

Una storia che potrebbe essere pen-sata anche per un quotidiano, come ègià accaduto in passato con la Frank-furter Allgemeine Zeitung, dove Mat-totti ha pubblicato a puntate il Rumo-re della brina. Tornando sulle paginedei giornali, infatti, il fumetto potreb-be recuperare lo spirito e l’energia del-le origini: «Il fumetto è nato come stri-

sionario, l’altro più essenziale. A me in-teressano entrambi, anche perché ognilibro che faccio è una storia a sé, per laquale ripenso ogni volta le forme, i co-lori, l’impaginazione, le relazioni tra leimmagini e il testo... A volte trovo subi-to la soluzione, altre volte invece mi oc-corre molto tempo. Ho sempre milledubbi, ma quando sento di aver trova-to ciò che cercavo, vado fino in fondo,senza preoccuparmi di ciò che pense-ranno i lettori o il mercato. Se una sto-ria mi sembra necessaria, nulla mi puòfermare». Il problema caso mai è quel-lo del tempo, vistoche le sue operehanno tempi direalizzazione mol-to lunghi: «Il fu-metto è un lin-guaggio complica-to, che ha bisognodi molta concen-trazione. Per farlocome lo faccio ioserve continuità euna certa tensionecreativa. Occorresentirsi in un fiu-me narrativo chenon può essere continuamente inter-rotto da altri impegni. Per questo, lasciopassare parecchio tempo tra un fumet-to e l’altro».

Come in tutte le opere di Mattotti,anche in Lettere da un tempo lontano lafrontiera tra mondo oggettivo e visionesoggettiva si fa labile e confusa. Allarealtà concreta si sovrappone la realtàmentale dei personaggi, le coordinatespazio temporali si dilatano, i piani siconfondono in un continuo alternarsid’immagini sorprendenti: «Il fumetto»,dice, «è una scatola magica al cui inter-no è possibile liberare l’immaginario,motivo per cui nelle mie storie domina-

opere che registrano la voglia di faresplodere le coordinate tradizionali delracconto a fumetti, stratificando le ci-tazioni colte e le aperture oniriche,spezzando il ritmo, sovrapponendopersonaggi e identità. Esempi di unavoglia di libertà e sperimentazione og-gi in netto arretramento: «Il fumetto èdiventato un’industria. Certo, per unautore ci sono più opportunità, il mer-cato è più ricco e la produzione più am-pia, ma globalmente assistiamo a un in-discutibile appiattimento delle propo-ste. Le grandi case editrici sono indu-strie che funziona-no con griglie pre-cise in cui idisegnatori devo-no solo adattarsi.Tutto deve diven-tare redditizio im-mediatamente eper la ricerca ci so-no meno spazi chein passato. La se-rialità produce ri-petizione e livella-mento dei risulta-ti».

Mattotti, invece,in nome di una concezione artigianalee certosina del fumetto, non arretra difronte a nulla ed è persino pronto ad im-boccare direzioni apparentemente an-titetiche. Così, Lettere da un tempo lon-tano, in cui l’esplosione strepitosa deicolori dispiega prospettive vertiginose(«sono ancora uno dei pochi che fa i co-lori con le matite, ormai li fanno tutti alcomputer»), segue di poco Chimera(Coconino Press, 32 pagine, 8 euro), unlibro tutto in bianco e nero, senza paro-le, fatto di libere associazioni e scartiimprovvisi, tra incubo e poesia: «Il fu-metto in bianco e nero e il fumetto a co-lori sono due mondi diversi, uno più vi-

DISEGNI PER GRANDISi intitola “Lettere da un tempolontano” (Einaudi, 62 pagine,15,80 euro) il nuovo librodi Lorenzo MattottiPer l’illustratore è un ritornoal suo primo amore, il fumettoMa è anche un ritornoal colore dopo il suo recentelavoro in bianco e nero,“Chimera”. Ma nientecomputer, i colori sono stesiancora a mano con le matite

DISEGNI PER BAMBINIDi Lorenzo Mattottiesce anche “Eugenio”,scritto insieme a MarianneCockenpot (Gallucci,24 pagine, 15 euro)È la storia di un bambinoabbandonato in un circodai genitori poverissimiDiventerà un bravissimoclown, ma un giorno perderàl’allegria. Sarà un altrobambino a salvarlo

“Voglio riscoprirel’alba di questogenere, vogliocostruire la storiain bianco e nerodi un mondo arcaico”

LUCE E MATITALe immaginidi queste paginesono trattedal nuovo librodi LorenzoMattotti “Lettereda un tempolontano”

scia quotidiana sulla stampa. Oggi igiornali dovrebbero favorire nuoveesperienze di questo tipo, spingendo idisegnatori a porsi il problema di comeutilizzare la potenza narrativa del fu-metto su un mezzo di comunicazioneche raggiunge ogni giorno moltissimilettori. Trovare le immagini e i linguag-gi adeguati a un nuovo tipo di narra-zione rivolta al grande pubblico è unasfida che il fumetto non può eludere».Una sfida che Mattotti sarebbe felice diraccogliere di nuovo, se solo se ne pre-sentasse l’occasione.

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la letturaFuga dall’Olocausto

cuochi parigini, concorsiippici che sfidano Ascot eLongchamp, casinò e bor-

delli per tutte le tasche e tut-ti i gusti, compresa una fiorente

comunità gay. A differenza di NewYork e delle capitali europee, Shanghai

è passata indenne attraverso il crac del1929 e la Grande Depressione, il suoboom non si è interrotto, la vita nottur-na è sfrenata. «Non ci sono limiti ai pia-ceri che il denaro può comprare», è ilmotto della città.

Al vertice della piramide sociale inquella Shanghai ci sono ricche famiglieebree che si prodigano per aiutare gliesuli in fuga dalla Germania nazista: ledinastie sefardite degli Abraham, Ezra,Hardoon, Kadoorie, Sassoon, Sha-moon, quasi tutte originarie di Bagdad.Silas Hardoon, morto nel 1931 lascian-do un’eredità di 150 milioni di dollari diquei tempi, è stato il businessman stra-niero più potente di tutto l’EstremoOriente. Elly Kadoorie ha fatto fortunanelle merchant bank e nel commercio dicaucciù, possiede il Jewish CountryClub, la catena alberghiera degliHongkong and Shanghai Hotels, e nellasua villa Marble Hall c’è la più grande sa-la da ballo della città, dove le note deltango e del fox-trot risuonano fino alleprime luci dell’alba.

A dominare la scena sopra tutti è Vic-tor Elice Sassoon, “sir Victor”, discen-dente di una famiglia di ebrei iracheniche sono stati i banchieri del califfo diBagdad, poi si sono trasferiti in Estremo

Oriente per sfuggire al crescente antise-mitismo del mondo arabo. In Cina la lo-ro fortuna si moltiplica col commerciodelle due materie prime che sono l’ani-ma dell’impero britannico: il cotone el’oppio. Padrone di un conglomerato fi-nanziario con sedi a Shanghai e Bom-bay, sir Victor ha passaporto inglese ed èstato un eroe della Prima guerra mon-diale come pilota della Royal Air Force.Nella metropoli cinese Sassoon fa co-struire l’albergo più lussuoso dei suoitempi, il Cathay, con la monumentalehall di marmo rosa, gli affreschi liberty, imobili di mogano in stile Tudor, 214 sui-te alimentate di acqua pura dalla sor-gente naturale Bubbling Wells Springs.È il primo hotel del mondo ad avere il te-lefono e l’aria condizionata in tutte le ca-mere. Mecenate, organizzatore di partysfarzosi che rivaleggiano con quelli diWilliam Randolph Hearst a Hollywood,Victor Sassoon riempie le cronachemondane con le sue avventure senti-mentali, compresa una tempestosa re-lazione con la giornalista e scrittriceamericana Emily Hahn.

Se l’aiuto umanitario della comunitàsefardita locale è decisivo per mettere insalvo ventimila perseguitati dal nazi-smo, la Shanghai che accoglie i profughiebrei è ben diversa dai quartieri alti, dal-la città viziata e sublime degli occiden-tali ricchi. I giapponesi, che occupanoquasi tutta la Cina ma fino a quel mo-mento rispettano Shanghai come una“città aperta”, nel 1938 accettano diospitare gli ebrei tedeschi in un quartie-

SHANGHAI

«Per primi arrivarono itedeschi e gli au-striaci, poi i polac-chi. Quasi tutti si

erano imbarcati a Genova sulle navi delLloyd Triestino. Avevano fatto scalo aPort Said, Aden, Bombay, Ceylon, Sin-gapore, Manila e Hong Kong, ma senzapoter mai scendere a terra finché nonraggiungevano la meta finale, cioèShanghai. Viaggiavano sotto un’afatorrida indossando pesanti cappotti dilana, gli unici vestiti che avevano. Nonerano preparati alla vita in una metro-poli dell’Estremo Oriente. Erano senzasoldi, perché i nazisti li avevano lascia-ti partire solo a condizione di abban-donare i loro beni e mettersi in viaggiocon venti marchi e una valigia a testa.Come se non bastasse gli armatori ita-liani approfittavano di loro e facevanopagare il doppio della tariffa per il viag-gio in nave».

Così la scrittrice di origine cinese Stel-la Dong nel suo libro Shanghai, the riseand fall of a decadent city ricorda unadelle più strane pagine di storia del Ven-tesimo secolo: la fuga di ventimila ebreieuropei che scamparono alle persecu-zioni di Hitler solo perché nel 1938 tro-varono rifugio nel “ghetto di Shan-ghai”. Lì vissero fino alla fine dellaSeconda guerra mondiale, sotto lasorprendente protezione di unGiappone alleato dei tedeschi.Una vicenda incredibile e an-cora poco nota, ricostruita nel-le memorie degli ultimi so-pravvissuti: come UrsulaBlomberg, che fuggì da Brati-slava con i suoi genitori quandoaveva undici anni e solo sessan-tacinque anni dopo ha consegna-to i ricordi di quell’epoca nel suoShanghai Diary.

«Il resto del mondo — ricorda laBlomberg, che oggi vive negli Stati Uni-ti — aveva chiuso gli occhi di fronte agliorrori della Germania nazista, avevachiuso le orecchie di fronte alle grida diaiuto, aveva chiuso le porte in faccia achi cercava di scappare dall’orrendo in-cubo del genocidio. L’America, il Messi-co, il Canada, il Sud America, l’Australia,il Sudafrica, per non parlare delle nazio-ni europee e delle loro colonie: tutti re-spingevano i rifugiati. A Singapore, co-lonia britannica, gli ebrei non potevanoneppure scendere dalla nave durante loscalo. In tutto il mondo soltanto unacittà ci aprì le braccia. Shanghai, l’in-stancabile metropoli cinese popolata diavventurieri e cacciatori di fortuna, lacapitale del piacere e del peccato, tennele sue porte spalancate e offrì asilo a noiebrei disperati in fuga dall’Europa».

La Shanghai degli anni Trenta, defini-ta a seconda dei gusti «la Parigi d’Orien-te» o «il bordello dell’Asia», è una metro-poli fantastica e repellente, raffinata ecaotica, eccitante e viziosa. Con una po-polazione di due milioni di cinesi e diduecentomila stranieri — russi, indiani,giapponesi, inglesi, francesi e tedeschi— è la città più cosmopolita del pianeta.Le concessioni ottenute dalle potenzeimperialiste ai danni della Cina dopo laguerra dei Boxer (nel 1900) hanno con-sentito la costruzione dei quartieri colo-niali francese, inglese, tedesco, di cui tut-tora possiamo ammirare le vestigia ur-banistiche sul Bund, il lungofiume dovesi alternano palazzi in stile neoclassico,fin de siècle o Art Déco che potrebberoessere a Londra, Berlino, Vienna e Parigi.

Principale porto dell’Asia, tra le dueguerre mondiali, Shanghai unisce lepunte estreme della miseria nei suoibassifondi e nel proletariato delle fab-briche, insieme con l’opulenza sfaccia-ta delle élite cinesi e della grande bor-ghesia mercantile venuta dall’Occiden-te. La sua industria cinematografica ri-valeggia con Hollywood, l’attrice cineseRuan Ling-yu è la Greta Garbo d’Orien-te. Ci sono ristoranti diretti da grandi

Shanghai, il ghettoalla fine del mondoFEDERICO RAMPINI

Nel 1938 ventimila scampatialle persecuzioni naziste trovaronorifugio nella metropoli asiaticaUna storia straordinariache adesso ritorna nelle memoriedegli ultimi sopravvissuti

NELLE STRADE DI HONGKEWNelle foto sopra: il ghetto di Shanghai,nel quartiere di Hongkew,alla fine della guerra, nel 1946;si leggono gli elenchi dei nomidei sopravvissuti dei campi di sterminionazisti, forniti dai liberatoriNella foto grande: Nanjing Road,la principale arteria commercialedi Shanghai, nel 1936. In basso, bambinidel ghetto festeggiano Hanukah

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quartetti di musica da camera che suo-nano arie di Mozart e Beethoven.

L’unico incubo che tormenta il ghet-to di Shanghai sono le notizie semprepiù allarmanti che filtrano dai campi diconcentramento tedeschi. Insieme conquelle rivelazioni cresce il timore che lapersecuzione nazista riesca a riagguan-tare anche i ventimila ebrei che hannotrovato scampo nella Cina occupatadalle truppe nipponiche. Il regime nazi-sta, pentito di averli lasciati partire esempre più determinato a estenderel’Olocausto in ogni angolo del mondo, ciprova a più riprese. In uno di questi ten-tativi Heinrich Himmler, capo supremodella Gestapo, manda come suo emis-sario personale a Tokyo Josef Meisinger,il “macellaio di Varsavia” che ha stermi-nato centomila ebrei polacchi nel 1939,per convincere i giapponesi a consegna-re i profughi di Shanghai.

Per ragioni che sono rimaste in parteavvolte nel mistero, l’impero del Sol Le-vante respinge questa richiesta dell’al-leato tedesco. Forse il Giappone con-serva gratitudine per i prestiti della fi-nanza ebraica newyorchese che ha fi-nanziato la sua guerra contro la Russiazarista nel 1904. Forse i vari Sassoon eKadoorie pagano a loro volta un riscat-to segreto per salvare i rifugiati di Shan-ghai. E forse i giapponesi anche in pie-na guerra mondiale continuano a sen-tire il fascino degli ebrei, che ammiranoda tempi antichi descrivendoli come unpopolo superiore, dotato per la mate-matica e per la musica. Sta di fatto che il

dre crea una ditta per dipingere case etra i suoi clienti annovera anche alcunicelebri bordelli, quell’antico universodelle cortigiane cinesi che incuriosiscel’adolescente Ursula. La ragazza trovalavoro a sua volta come maestra d’ingle-se per tre concubine di un generale ci-nese, entrando così in contatto con ladecadente élite di Shanghai.

Intanto, in una città già seducente perla sua antica varietà multietnica, l’inne-sto improvviso di tanti ebrei mitteleuro-pei genera un’altra meraviglia: tra i pro-fughi ci sono artisti, attori di teatro e dicabaret, che riproducono a diecimilachilometri da casa la vivacità culturaledi Berlino e Vienna prima del nazismo.Nel quartiere cinese di Hongkew fiori-scono pasticcerie austriache, ristorantidi goulash ungherese, teatri di operetta,

re sotto il loro diretto controllo, il popo-lare distretto di Hongkew. Con l’arrivodella marea di profughi che si mescola-no agli abitanti cinesi, il nome diHongkew diventa sinonimo del ghettoebraico di Shanghai, un insediamentounico e senza precedenti sotto quelle la-titudini esotiche.

Ursula Blomberg ricorda lo shock del-l’impatto con la Cina. «Nulla assomigliaalle immagini stereotipate dell’Asia cheabbiamo ricevuto nella nostra infanzia,cioè giardini profumati, signore fasciatedi sete eleganti, farfalle e fiori delicati.Shanghai è avvolta nel tanfo di escre-menti umani e di urina. I coolies (facchi-ni) in mutande, madidi di sudore, tra-sportano carichi pesantissimi che don-dolano dalle canne di bambù sulle lorospalle ossute. Orde di ciclisti, eserciti ditiratori di risciò si accalcano agli incrociinsieme con i venditori ambulanti chestrillano per offrire le loro merci. I men-dicanti sono dappertutto, uomini edonne seminudi e pieni di piaghe puru-lente. Le condizioni igieniche sono spa-ventose, nel caldo soffocante e umido glialimenti marciscono in pochi giorni evengono divorati dai vermi. Non esisto-no fognature, i bambini malati di diar-rea girano con delle “code” di cotone frale natiche per arrestare lo scolo, nei vi-coli si inciampa nei topi morti, nelle car-casse di ogni sorta di animali in decom-posizione, perfino nei cadaveri di neo-nati abbandonati».

Nonostante gli stenti la famigliaBlomberg si adatta rapidamente. Il pa-

destino degli ebrei in Cina, pur confina-ti nel ghetto di Hongkew, è molto mi-gliore di quello che attende gli altri occi-dentali. Subito dopo l’attacco a tradi-mento di Pearl Harbor nel dicembre del1941, non appena i giapponesi entranoin guerra contro gli Stati Uniti e la GranBretagna, i cittadini inglesi e americaniancora residenti in Cina subiscono unasorte terribile: catturati, deportati a mi-gliaia, rinchiusi nei campi di lavoro del-l’esercito nipponico, saranno decimatidalla fame, dalle malattie, dall’uso si-stematico della tortura da parte dei lorocarcerieri. Per gli ebrei del ghetto diShanghai la guerra si fa sempre più vici-na, le privazioni materiali aumentano,lo spettro di una disfatta delle potenzealleate fa temere il peggio. Ma la sor-prendente incolumità garantita dalGiappone resiste fino all’ultimo.

«Un giorno — ricorda Ursula Blom-berg — la guerra improvvisamente finì,e allora scoprimmo tutta la verità sullasorte di sei milioni di ebrei. Nomi comeTreblinka, Auschwitz, Bergen-Belsen,Dachau, Buchenwald rimasero impres-si per sempre nelle nostre anime. Di col-po le nostre piccole miserie nel ghetto diShanghai impallidirono in confronto al-l’orrore dei campi della morte di Hitler.A me e a tutti quelli come me, eterna-mente grati, Shanghai rivelò di esserestata il paradiso dei sopravvissuti».

Il quartiere ebraicodella città godetteper l’intera guerradella sorprendenteprotezionedel Giappone,potenza occupantee alleatodella Germaniahitleriana

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Con “Volver” il regista spagnolo ritrova le sue originiOra nella sceneggiatura pubblicata da Einaudi si confessa in brani ineditiIn queste pagine ne anticipiamo tre. Si parla di ansia, fantasmi,

insoddisfazione e dell’idea insopportabile della morte. Ma anche di nuovi equilibriraggiunti come sempre a fatica, di mondi del passato che danno forza, di macchine da presainnamorate di un volto e di un immenso, smisurato amore per il cinema

42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 4 GIUGNO 2006

CONCITA DE GREGORIO

C’èstato un tempo non così lontano in cui PedroAlmodóvar spiegava l’equazione per stabilire,in concorso, l’eccellenza del sesso maschile:non lunghezza, che atroce banalità, caso mailunghezza per circonferenza. Una fila di uomi-ni in piedi e un giurato col centimetro a molti-

plicare. Ottantasette, applausi. Novantadue, entusiasmo. Cen-todieci, boato del pubblico. Da quella memorabile scena di Pepi,Luci, Bom e le altre ragazze del mucchio(ma in spagnolo fa rima efa ridere: Bom con otras chicas del montón, che peccato tradurre,quanta leggerezza si perde) sono passativentisei anni e lui questo continua a fare: a di-re quello che le donne non sanno, non pos-sono o non riescono a dire di sé. A celebrarlemeglio di chiunque altro, qualunque cosafacciano, perché le donne — le madri, le vec-chie zie, le donne nate uomini, i travestiti, leamanti e le puttane — hanno sempre ragio-ne: la vita è a volte nella loro pancia e semprenelle loro mani, nei ricordi e nell’ostinazio-ne, nella capacità di andare avanti quandotutto si ferma e torna indietro. Di ridere nelpianto come in una canzone, di portare leborse della spesa, di crescere i figli nati per er-rore, di ballare accudire e risolvere, di sop-portare l’assenza, di parlare con le piante del patio e coi morti chenon muoiono mai. La vita è femmina perché sa coniugare l’in-nocenza e il delitto, il candore e la perversione: sa affettare i pe-peroni dopo aver chiuso nel frigorifero il cadavere dell’uomo inu-tile — in quanto uomo sempre un po’ in ritardo, sempre al traino— poi apparecchiare per cento, mangiare e cantare Volver.

Provate a rivedere la scena in cui Raimunda canta il tangodi Estrella Morente tre, cinque, dodici volte: fa piangere sem-pre, e sempre allieta. È la leggerezza il suo segreto: l’assenzadi moralismo. Tutto è ammesso senza che ci sia un tribuna-le permanente che stabilisce cosa è giusto e cosa no. Tutto èaccolto perché la vita va dove vuole lei, non sei tu che decidi.La vita ti porta.

Pedro Almodóvar è stato un bambino poverissimo dellaMancia, uno studente con la divisa grigia nel collegio dei preti,un ragazzotto oltraggioso coi basettoni anni Ottanta nella mo-vida di Madrid, un uomo fiero della sua omosessualità raccon-

tata ed esibita come un fiore, un talent scout formidabile — An-tonio Banderas e Penélope Cruz consegnati a Hollywood — unregista di film a volte sublimi altre volte pesanti, alcuni brutti mamai dimenticabili, altri da Oscar. Adesso è un divo cinquanten-ne, malinconico e grassoccio, sempre più somigliante a unospettinato cane randagio per quanto in abito Armani. Volver,scritto a sei anni dalla morte di sua madre «in preda a continuecrisi di panico», è talmente impermeabile al sopracciglio alzatodella critica da avergli consegnato finalmente il premio più am-bito: l’applauso della Spagna.

Noi resto d’Europa, insieme agli americani e ai cinefili d’O-riente, abbiamo pensato per quasi trent’anni che Almodóvar

fosse la quintessenza dell’animo spagnolo,la foto esatta del paese in spettacolare, pi-rotecnica trasformazione: le sue madonnein processione e il suo gazpacho, i travestitie la siesta, le portinaie impiccione e i vecchifranchisti a passeggio col cane, la strada e lafesta, le tette e la notte, quel caldo, sempre,quel vento, quel moto perpetuo tragico e vi-tale, torere in coma e transessuali infetti,bambine col vestito a fiori e vecchie sulla se-dia fuori dalla casa bianca. Noi l’abbiamopensato, gli spagnoli no.

Ha avuto sempre una cerchia stretta diadoratori e una moltitudine di indifferentiinfastiditi, le accademie ostili, la borghesia

imbarazzata, i giornali divisi. Ora che lo acclamano per strada(donne, soprattutto), ora che si protendono dalle transenne sen-za riuscire a toccarlo, lui ringrazia commosso e triste. Ha, nellefoto, lo sguardo di chi cerca per terra qualcosa che ha perso.

«L’esperienza non è un vantaggio: è una perdita, se solo unpoco ti distrai». L’esperienza offusca il talento se inneschi il pi-lota automatico e ti dimentichi la vita cos’è. Tornare, dunque.Tornare nella Mancia delle strade bianche e deserte dove i bam-bini crudeli giocano qualunque efferatezza in riva al fiume,mentre il resto della famiglia dorme narcotizzato dal caldo. Tor-nare all’innocenza capace di qualsiasi delitto. Al filo che lega chic’era e chi c’è. Alle donne. Queste donne di Spagna così intrepi-de, divertenti, folli, sagge, capaci di appiccare un incendio, diuccidere e poi tornare a casa a cucinare per tutti. Al tango can-tato come una ninna nanna. Alla ninna nanna di tua madre, chequando ancora non capivi ti addormentava dicendoti l’unicacosa che è davvero importante imparare: volver.

La vita è femmina ma le donne non lo sanno

AlmodóvarPedro

Bambinopoverissimo,

studente dai preti,fiero omosessualee più cane randagio

che divo

DIETRO IL FILML’ultimo film di Pedro Almodóvar, “Volver”,è stato presentato in concorso al Festivaldi Cannes ed è già nelle sale italianeAdesso l’editore Einaudi manda in libreria,nella collana Stile Libero, un volumedallo stesso titolo (pagine 145, euro 11)Il libro contiene la sceneggiatura, firmatadal regista spagnolo, e alcuni scritti inediti,tra cui quelli che pubblichiamo

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 4 GIUGNO 2006

LA MADRE

Il film di tutti i miei ritorni

LA MUSA

Penélope Cruz, forte e fragile

Volverè un titolo che include vari ritorni, per me. Sono tornato, un poco, alla commedia. Sonotornato all’universo femminile, alla Mancia (è senz’altro il mio film più strettamente mance-go: il linguaggio, le abitudini, i cortili, la sobrietà delle facciate, le strade lastricate), sono tor-

nato a lavorare con Carmen Maura (non lo facevamo da diciassette anni), con Penélope Cruz, LolaDueñas e Chus Lampreave. Sono tornato alla maternità, come origine della vita e della finzione. E,naturalmente, sono tornato a mia madre. Tornare alla Mancia è come tornare al seno materno. Du-rante la stesura del copione e le riprese, mia madre è sempre stata presente e molto vicina. Non sose sia un buon film (non sono io a doverlo dire), ma sono sicuro che mi abbia fatto molto bene farlo.

Ho l’impressione, e spero non sia un sentimento passeggero, di essere riuscito a incastrare unpezzo (la cui mancanza, durante la mia vita, mi ha causato dolore e angoscia, direi addirittura chenegli ultimi anni aveva deteriorato la mia esistenza, drammatizzandola più del necessario). Il pez-zo a cui mi riferisco è “la morte” (non solo la mia e quella dei miei cari)ma la scomparsa implaca-bile di tutto ciò che è vivo. Non l’ho mai accettato, né l’ho mai capito. E questo ti mette in una si-tuazione d’angoscia davanti allo scorrere sempre più rapido del tempo.

Il ritorno principale di Volver è quello del fantasma di una madre che appare alle proprie figlie.Nel mio paese queste cose accadono (sono cresciuto ascoltando storie di apparizioni), tuttavia alleapparizioni non ci credo. Solo quando accadono agli altri, o quando accadono nella finzione. E que-sta finzione, quella del mio film (e qui viene la mia confessione), ha provocato in me una serenitàche non avvertivo da tempo (davvero, serenità è un termine il cui significato per me è un mistero).

Negli anni che ho vissuto, non sono mai stato una persona serena (né mi è mai minimamenteimportato), la mia innata inquietudine, insieme a una galoppante insoddisfazione, mi sono ser-vite generalmente da stimolo. È stato negli ultimi anni che la mia vita è andata deteriorandosi,consumata da una terribile ansia. E questo non era buono né per vivere né per lavorare. Per diri-gere un film è più importante avere pazienza che talento. E io, da tempo, avevo perso tutta la pa-zienza, specialmente per le cose banali che sono quelle che richiedono più pazienza. Questo nonvuol dire che sia diventato meno perfezionista o più compiacente, niente affatto. Ma credo conVolver di aver recuperato parte della “pazienza”, parola che naturalmente comprende molte al-tre cose. Ho l’impressione, attraverso questo film, di aver elaborato un lutto di cui avevo bisogno,un lutto indolore (come quello del personaggio di Agustina). [...]

Malgrado la mia condizione di non credente, ho cercato di portare il personaggio (CarmenMaura) dall’aldilà. E l’ho fatta parlare del cielo, dell’inferno e del purgatorio. E, non sono il primoa scoprirlo, l’aldilà è qui. L’aldilà si trova nell’aldiqua. L’inferno, il cielo o il purgatorio siamo noi,sono dentro di noi, e lo ha già detto Sartre molto meglio di me.

© 2006 Giulio Einaudi editore

Ela sua bellezza. Penélope è al massimo del suo splendore, è una frase fatta ma nel suo caso èvero. (Quegli occhi, il collo, le spalle, il seno! Penélope possiede uno dei décolleté più spetta-colari del cinema mondiale). Guardarla è stato uno dei grandi piaceri di queste riprese. Mal-

grado negli ultimi anni si sia stilizzata, Penélope ha dimostrato (dai suoi esordi in Prosciutto, pro-sciutto) di avere più mordente nei personaggi popolari che in quelli raffinati. Sette o otto anni fa, inCarne tremula, interpretava una puttanella zoticona che partorisce in un autobus. Erano i primiotto minuti del film e Penélope divorava letteralmente lo schermo.

La sua Raimunda di Volver appartiene alla stessa stirpe del personaggio di Carmen Maura inChe ho fatto io per meritare questo?!, una forza della natura che non arretra davanti a nulla. Quan-do recita, Penélope possiede quell’energia contagiosa, ma Raimunda è anche una donna fragi-le, molto fragile. Può (e deve, per esigenze di copione) essere furibonda e in un attimo crollarecome una bambina indifesa. Questa disarmante vulnerabilità è ciò che più mi ha sorpreso del-la Penélope-attrice, e la rapidità con cui si connette con essa. Non c’è spettacolo più impressio-nante che osservare nella stessa inquadratura occhi asciutti e minacciosi iniziare improvvisa-mente a riempirsi di lacrime, lacrime che a volte fuoriescono dalle palpebre come un torrente o,come in alcune sequenze, le inondano soltanto senza fuoriuscire mai. Essere testimone di que-sto equilibrio nello squilibrio è stato appassionante. Penélope Cruz è un’attrice che rompe e graf-fia, ma è l’insieme di questa emotività fulminante a renderla insostituibile in Volver.

È stato un piacere vestire, pettinare e truccare il personaggio e la persona. Il corpo di Pené-lope nobilita tutto ciò che indossa. Abbiamo optato per gonne strette e golfini che sono indu-menti classici, molto femminili e popolari in qualsiasi decade, dagli anni Cinquanta al Due-mila. E, bisogna dirlo, perché ci ricordavano Sophia Loren, nei suoi esordi da pescivendola na-poletana. Per le meravigliose pettinature dobbiamo ringraziare il parrucchiere Massimo Gat-tabrusi e per il trucco Ana Lozano. La riga sull’occhio è stata un’idea. C’è solo un elemento fal-so nel corpo di Raimunda, il sedere. Questi personaggi sono sempre donne culone e Penélo-pe è troppo stilizzata. Il resto è tutto cuore, emozione, talento, verità, e un volto che lamacchina da presa adora. Come me.

© 2006 Giulio Einaudi editore

IL RICORDO

Il fiume dell’infanziaI

ricordi più allegri della mia infanzia sono legati al fiume. Miamadre mi portava con lei quando andava a lavare perché eromolto piccolo e non aveva con chi lasciarmi. C’erano sempre

tante donne che lavavano o stendevano il bucato sull’erba. Io sta-vo vicino a mia madre e infilavo la mano nell’acqua cercando di ac-carezzare i pesci che accorrevano alla chiamata del casualmenteecologico sapone che usavano le donne dell’epoca, fabbricato daloro stesse.

Il fiume, i fiumi, erano sempre una festa. Fu sempre nelle acque di unfiume che scoprii qualche anno più tardi la sensualità.

Senz’altro, il fiume è ciò che più mi manca della mia infanzia e pu-bertà.

Mentre lavavano, le donne cantavano. Mi sono sempre piaciuti i co-ri femminili. Mia madre cantava una canzone di alcune mietitrici cheaspettavano l’alba lavorando nei campi e cantando come allegri uccel-lini. Ne cantai i frammenti che ricordavo al musicista di Volver, il mio fe-dele Alberto Iglesias e lui scoprì che era un tema della zarzuela La rosadel azafrán. Nella mia ignoranza, non avevo mai immaginato che quel-la musica celestiale fosse una zarzuela. Così, il tema è diventato la mu-sica che accompagna i primi titoli di testa.

In Volver Raimunda cerca un luogo per sotterrare suo marito e deci-de di farlo in riva a un fiume dove si erano conosciuti da bambini.

Il fiume, come i grafici di qualsiasi mezzo di trasporto, come i tunnelo i corridoi interminabili, è una delle tante metafore del tempo.

© 2006 Giulio Einaudi editore

PEDRO ALMODÓVAR

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matici: chi di noi non ha brindato, dicono, altale atto di violenza politica. No, io no. E nonho mai, dico mai, sottoscritto slogan orribilicome “uccidere un fascista non è reato”.Non ho fatto a botte neanche in vent’anni dipallanuoto. Se mi chiede quali sono le tappeimportanti rispondo tre cose. I 55 giorni diMoro. I primi pentimenti dei terroristi rossiche mi fecero capire la loro derivazione dal-la storia della sinistra. E il funerale di Berlin-guer che non volli filmare come mi propose-ro ma preferii “vivere”».

In realtà fino a un certo punto la politicanon è stata così centrale nei suoi film. Poi,dentro e fuori dal set, qualcosa è cambiato.Palombella rossa, Il portaborse, La Cosa,Piazza Navona e i Girotondi, Il Caimano.Ha dimostrato, oltre che passione civile, dicredere nella funzione civile del cinema?

«Mi pare un’affermazione troppo netta.Per esempio l’assurdo dibattito del nostroceto politico-giornalistico prima dell’uscitadel Caimano: non so di chi parlassero dicen-do che avevo fatto un film di propaganda.Casomai ho sempre, soprattutto, preso in gi-ro me stesso e la sinistra. Palombella rossaconciliava il mio desiderio di mettere la pal-lanuoto in un film con quello di parlare dellacrisi del Partito comunista attraverso il rap-porto con il passato e la memoria, con l’i-dentità. Il protagonista ha un’amnesia e nonricorda più chi è. Ricordo con piacere, sì, l’a-ver preceduto di alcuni mesi la caduta delMuro e la proposta di Occhetto, così come Ilportaborse precederà di molti mesi il primoarresto di Tangentopoli. Il Caimano: misembrava incredibile avere il privilegio diquesto mezzo espressivo e non raccontarequello che ci è successo in questi anni».

Soddisfatto di come ha gestito l’uscitadel Caimano? È diventato, di fatto, un ele-mento della campagna elettorale.

«Assolutamente sì, volevo che uscisse inquel periodo». (E qui Moretti si getta sull’a-genda del ‘76).

Che consigli dà ai giovani aspiranti ci-neasti?

«Di formare un gruppo affiatato. E dicoche servono almeno due di queste tre cose:determinazione, fortuna, capacità».

È cresciuta la convinzione che lei sia unoscaltro gestore della sua immagine. Chel’avarizia nel concedersi ai media abbiafatto di lei un oggetto appetibile.

«Non ho pensato mai a “gestire” assolu-tamente niente. Come spettatore mi piacescoprire i film quando li vado a vedere e ra-giono nello stesso modo da regista».

Sta di fatto che si è verificata la tradu-zione in marketing della narcisistica bat-tuta di Ecce Bombo “mi si nota di più sevengo e me ne sto in disparte o se nonvengo per niente?”.

«Non è vero che io “scompaio”. Partecipoa moltissimi dibattiti con il pubblico. Non miimporta di fare cose, partecipare a trasmis-sioni che vedrebbe molta più gente, che misarebbero utili ma che non mi piace fare. Perla promozione del Caimanonon ho accetta-to l’invito di molti programmi politici».

Perché è sempre stato tanto diffidenteverso la stampa, che l’ha sempre coccolata?

«Lei, come lettore, non vorrebbe giornalifatti meglio?».

Hanno fatto epoca indicazioni morali ointolleranze espresse dai suoi personaggi.Su fedeltà coniugale o educazione dei figli.È diventato più comprensivo verso debo-lezze e incoerenze?

«Io sapevo benissimo che quando la pa-ternità fosse capitata a me sarei andatomolto oltre nel viziare mio figlio di quantostigmatizzavo nell’episodio di Caro diario.E penso che la mia rissosità fosse il segno diuna mia debolezza. Ma non so più se que-st’interpretazione è farina del mio sacco ose l’ho rubata a qualche commentatore».

Fuori registrazione gli chiedo se gli sia sta-to mai offerto un incarico politico. Nessunocrederebbe alla risposta, dice. Che è no.

ROMA

Nanni Moretti mi dà appunta-mento in un baretto sotto ca-sa sua, appartato e familiare.Lo trattano con riguardo, con

affetto. È lo specchio di uno stile, il suo, cheha sempre coltivato un maniacale attacca-mento alla dimensione artigianale e familia-re appunto, un po’ rétro, rassicurante. Si èportato la sua agenda del 1976, infatti faccia-mo quest’intervista perché durante il finesettimana il piccolo ma tosto festival di Bel-laria festeggia i suoi trent’anni di carriera: nel‘76 fu girato e uscì Io sono un autarchico («Iltitolo si riferiva alla solitudine sessuale delprotagonista. Ero lontano dall’immaginare

che avrebbe assun-to un altro e più no-bile significato,quello dell’indi-pendenza espressi-va»). L’agenda ha lasua importanzanello svolgersi del-l’intervista. Ognivolta che piazzouna domanda chegli pare poco perti-nente sfoglia e leg-ge a voce alta l’a-genda un po’ comelo “Smemorato” diFiorello diventaimprovvisamentedebole di udito seBaldini gli fa do-mande sgradite.

Visto che lospunto sono itrent’anni dal suoprimo film, e che ilsuo cinema è per-cepito come esten-sione del suo carat-tere, dei suoi umo-ri, le chiedo: come ècambiato lei inquesti tre decenni?

«Dovrebbero dir-lo le poche perso-ne che mi cono-scevano allora e miconoscono comesono adesso. Misembrano intattedue cose. Una è lavoglia di fare i mieifilm, l’altra è la cu-riosità di vedere ifilm degli altri. Uncambiamento lodichiara Il Caima-no, per la primavolta non sono il

protagonista. Prima mi sembrava natura-le fare tutto io. Da quando nel ‘72, dopo lamaturità, decisi di fare film».

Io sono un autarchico fu un fatto margi-nale dal punto di vista industriale, ma da lìnacquero una stagione e una generazione.Le è pesata questa responsabilità?

«Sono stato sempre impermeabile ai di-scorsi sulla “crisi” ma molti un po’ demago-gicamente dissero che la mia era la rispostagiusta alla crisi. Io non sentivo di avere que-sto compito né che la mia fosse la soluzione,so però che segnò per molti la scoperta cheil cinema si poteva fare anche così. Non miposi altro problema, con Io sono un autar-chico e subito dopo con Ecce Bombo, chequello di fare i miei film. Meno che mai ilproblema di quale fosse il mio pubblico, sed’élite o meno. E non faccio il finto tonto».

Ricorda la sua riluttanza ad accettare lecategorie generazionali, ad essere acco-munato ad altri?

«È vero, scalpitavo. Voglio dire una cosa.

44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 4 GIUGNO 2006

spettacoliBilanci

Ho conosciuto molti registi, simpatici e antipa-tici, bravi o pippe atroci, e l’unico tra tutti noinon presuntuoso è stato Massimo Troisi».

Lei compreso, tra i presuntuosi?«Naturalmente».E continua ad avere una cattiva opinione

dei colleghi italiani?«Ne ho messi tanti dentro al Caimano. Ora ho

rapporti meno duri, di alcuni sono amico, e poil’essere diventato anche produttore mi ha

cambiato».Meno selettivo?«Non sono cambiati i gusti, è cambiato l’at-

teggiamento. Per fortuna».Trent’anni di percorso anche politico. Co-

me molti della sua età si è formato nel climadell’estremismo di sinistra dei primi anniSettanta. Poi?

«In molti c’è il compiacimento, una specie divoluttà, di ricordarci tutti uguali, violenti e dog-

Sono passati trent’anni da quando firmò il suo filmd’esordio. Adesso tira le somme e racconta di quel poco

che è cambiato e del molto che è rimasto uguale

Nanni Moretti“Io, autarchicoe un po’caimano”

PAOLO D’AGOSTINI

PRIMO

FILM

Accanto,

Nanni

Moretti oggi

Nella foto

piccola

a sinistra,

Moretti

in una scena

del film

“Io sono un

autarchico”,

girato

trent’anni fa

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Rapporto Puglia

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LO SVILUPPO POSSIBILE

analisi e prospettive

dell’economia regionale

Dati, ricerche e interviste

sulle strategie

per affrontare il futuro

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Ai giovaniche vogliono

diventare cineasticonsigliodi formareun gruppoaffiatato

E dico che servonoalmeno due

di queste tre cose:determinazione,fortuna, capacità

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spettacoliGrandi concerti

L’ex leaderdei Pink Floydapre a Lisbonail tour mondialee arriva in ItaliaParola d’ordine:show totaleper abbattereBush e “Tony”

CARLO MORETTImultimediale da un fumetto, che il pubblicopuò leggere mentre sul palco i musicisti ese-guono la canzone e che diventa un possibilekaraoke quando il testo del fumetto si sovrap-pone al cantato dell’ex Pink Floyd. A Bush,Waters domanda quali guasti abbia prodottola sua educazione cattolica laggiù nel Texas, a«Tony» invece si rivolge per chiedere se trovidavvero giusto ripagare con le bombe le gen-tilezze e il rispetto sacrale nei confronti degliospiti che gli arabi da sempre nutrono.

La follia della guerra trova il punto di massi-ma esplicitazione in Perfect Sense, unico bra-no da Amused To Death: lo sguardo sulla terrada un satellite compie uno zoom fin dentrouno stadio stracolmo di pubblico urlante, maal posto del prato verde c’è un’immensa pisci-na solcata da un sottomarino: saranno i suoimissili a “fare gol” distruggendo un ostacolo,e il fungo atomico che si alza minaccioso vie-ne accolto dal tripudio della folla moltiplicatodalla quadrifonia.

La parte più inquietante e amara dello showpassa invece attraverso i brani di The Final Cut:«I had a dream», canta Waters in The Gunner’sDream mentre una pioggia di papaveri rossigetta un po’ di colore sul grigio inquietante dipaesaggi devastati dalla guerra, e quando poicanta con la voce spezzata e straziante «nessu-no uccida più i bambini», un urlo disumanoproveniente dal fondo dell’arena squarcia l’a-ria mentre tutti si girano a guardare, in un sus-sulto generale di terrore e sorpresa.

Ancora portaerei ed elicotteri su Southamp-ton Dockmentre in mezzo alla distruzione e al-la desolazione di The Fletcher Memorial Home,luogo di riposo e di cura per militari che hannoperso il senno, su un muro compaiono a sor-presa le foto ingiallite di Bin Laden, di Bush, diBlair, di Reagan, di Saddam Hussein.

I Pink Floyd hanno sempre curato l’aspettovisivo dei loro show, Waters con questo con-certo può anche non aver inventato nulla,neanche per l’esplosione sui due finali di fuo-chi d’artificio e per i cannoni lanciafiammeche si alzano altissimi sul fronte del palco. Lanotizia è semmai che Waters è tornato dentroal sogno visionario dei Pink Floyd, compreso ilmaialino in volo tra le ciminiere come sulla co-pertina di Animals, immagine che in concertoaccompagna l’amara Sheep, critica sul popolopecorone, come sempre schiavo dei porci e deicani che orwellianamente guidano e control-lano il mondo. Un ritorno allo “show totale”come mai aveva fatto in precedenza, compre-si i tour visti in Italia cinque o sei anni fa.

«Anything is possible», ha scritto sul suo si-to ufficiale Waters sotto la foto che lo ritrae conDavid Gilmour, Nick Mason e Richard Wrightper la reunion dello scorso anno al Live 8. For-se davvero tutto è possibile, anche sognare iPink Floyd di nuovo insieme, almeno qui a Li-sbona, e a notte fonda, mentre gli aerei solca-no il cielo e ci sembra quasi di poterli toccare.

LISBONA

L’ossessione di Roger Watersper l’insensatezza e la cru-deltà della guerra ha segnatotutta la sua carriera artistica,

dentro e fuori dai Pink Floyd. Ma la cronaca diquesti ultimi decenni ha continuamente ali-mentato il trauma che l’artista di Cambridge,oggi 61enne, ha vissuto da bambino, quando ilpadre morì durante il secondo conflitto mon-diale. L’autobiografia s’è fatta largo in mododrammatico tra le canzoni di The Wall, la criti-ca politica contro la Thatcher e la guerra delleFalkland ha guidato la mano per i testi di The Fi-nal Cut, il senso di sconforto per l’umanità ac-cecata dall’odio ha segnato i brani di AmusedTo Death. Oggi che nuovi eroi negativi cercanogloria e potere uccidendo il prossimo, Watersrealizza con il suo concerto un atto d’accusadurissimo contro la guerra in Iraq di Bush eBlair recuperando dal suo passato proprioquesti tre album. Il tour mondiale partito da Li-sbona lo porterà stasera e domani all’Arena diVerona, poi in Europa e, nel mezzo, di nuovo inItalia, il 16 giugno a Roma e il 12 luglio a Lucca.In autunno Waters arriverà negli Stati Uniti,dove il consenso per Bush già vacilla di suo.

Non è un vero e proprio concerto, è piutto-sto un’esperienza sensoriale. E non solo per lacura maniacale del suono e per gli effetti inquadrifonia in cui si ritrovano i semi lanciatidal produttore storico dei Pink Floyd Alan Par-sons. Ogni brano è accompagnato nello showdalle immagini di un piccolo film: ci sono fotoche improvvisamente si animano e scopronoil mondo di Waters, i suoi incubi, le sue osses-sioni; ma c’è anche il privato in bianco e nerocon i Pink Floyd sulla spiaggia di Brighton o inun campo di grano, il tributo a Syd Barrett checon Waters fondò il gruppo per poi perdersinell’acido lisergico. È un atto d’amore quelloper Barrett che percorre come un filo rossotutto lo show e che nella prima parte è sottoli-neato dai brani di Wish You Were Here mentrenella seconda, quando a Lisbona sono già ledue del mattino, Waters affida all’esecuzioneper intero (come fosse una partitura) di TheDark Side Of The Moon, di fronte agli ottanta-mila spettatori del festival Rock in Rio-Lisbon.

La riflessione sulla guerra in Iraq non ha an-cora prodotto un disco, anche perché negli ul-timi anni Waters si è dedicato alla scrittura eall’esecuzione dell’opera lirica sulla rivolu-zione francese Ça Ira. Ma per rivolgersi diret-tamente a Bush e, in modo tanto confidenzia-le quanto ironico, a «Tony» (Blair) nel 2004Waters ha scritto un brano che presenta in an-teprima per l’Europa in questo tour. Si intito-la Leaving Beirut, racconta di un suo viaggio adiciassette anni nei paesi arabi ed è accompa-gnato per l’ennesima esplosione di creatività

Schermi in movimento,girandole di fuoco

Un’esperienza sensoriale

L’omaggio a Syd Barrettsembra un messaggio:la band tornerà a riunirsi

Roger WatersAtto d’accusa contro la guerra

PINK FLOYD LIVEPOMPEI 1972La band suonatra le rovinedel sito archeologicoIl concertodiventerà un filmcon effetti specialiche riproduconola lava del vulcano

VENEZIA 1989David Gilmourguida il gruppoPiazza San Marcoè collegatacon tutto il mondoper uno showda 100 milionidi spettatori

BERLINO 1990Roger Watersdedicaalla caduta del muroil disco più celebree controverso“The Wall”viene riadattatoall’evento

IN ITALIARoger Waterssarà all’Arenadi Veronaquesta serae domani seraIl 16 giugno a Romaallo Stadio Olimpicoe il 12 luglio a Lucca

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45DOMENICA 4 GIUGNO 2006

itinerariMichel Brasè uno dei piùgrandi cuochidel mondoNel suo eremosull’altopianofrancese

dell’Aubrac, a Laguiole,si occupa personalmentedell’orto botanico, in cuicrescono erbe e fioriper il suo piatto-culto,il “Gargouillou”di verdure

La capitaledel mondo valdesegode del climadi mezza montagnae della bella distesadi prati e pascolidella val PelliceLe fioritureprimaverili ed estive

sono declinate in molte ricette della cucina locale,dalle minestre alle salse per accompagnare le carni

DOVE DORMIREFLIPOT (con cucina)Corso Gramsci 17Tel. 0121.953465Camera doppia da 80 euro

DOVE MANGIAREIL CIABOT Via Costa 7, Roletto Tel. 0121.542132Chiuso domenica sera e lunedì, menù da 25 euro

DOVE COMPRARECASCINA MUSTONVia Inverso Colletto 16 Tel. 0121.933379

Torre Pellice (To)La “nobile cittàdi pietra”di D’Annunzioè adagiatasu una dorsaledella Majella,tra le colline argillosetagliate dai calanchiTra le risorse,

il peperoncino, la cicoria e il prezioso zafferano (fioriseccati di Crocus) tipico dell’altopiano di Navelli

DOVE DORMIREVILLA MAIELLA (con cucina) Via Sette Dolori 30Tel. 0871.809319Camera doppia da 90 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREPARCO DELLA MAJELLAVia Colle Luna 2 Tel. 0871.83354 Chiuso mercoledì, menù da 25 euro

DOVE COMPRAREEMPORIO NATURAVia del Giardino 74Tel. 0871.800842

Guardiagrele (Ch)Il bel borgoaltoatesino,incastonatotra le vette dei parchialpini di Pueze Fanes,in primavera esponeun vero trionfo di fiori– oltre 600 varietà –

che entrano nei menù delle vecchie “stube”, doveprosperano gli odori e i sapori della cucina ladina

DOVE DORMIREALPENROSEStrada Agà 20Tel. 0471.836240 Camera doppia da 60 euro

DOVE MANGIARELA STÜA DE MICHIL (con camere) Strada Col Alt 105Tel. 0471.831000Chiuso lunedì a pranzo, menù da 60 euro

DOVE COMPRAREALIMENTARI SEPPIStrada Col Alt 85Tel. 0471.836863

Corvara (Bz)

46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 4 GIUGNO 2006

i saporiColore in tavola

Ricchi di vitamine, disintossicanti, tonificanti. E soprattutto trendyLa cucina a base di petali di bocca di leone, grappoli di glicine,boccioli di nasturzio, radici di primula sta conquistando chef e gourmet

FioriLICIA GRANELLO

Roserosse per te. Simbolo di amore appassionato e imperituro. Ma anche ap-petitose e stuzzicanti: dipende se ne regalate una dozzina o se friggete i deli-cati petali in pastella. La cucina del sole ha bisogno di colori, per aiutare cor-po e psiche a ritrovare smalto ed energia azzerati dal freddo e dalla poca lucedell’inverno. La cromoterapia floreale corrisponde esattamente a ciò di cuiabbiamo bisogno: vitamine e flavonoidi, disintossicanti e tonificanti. Tutti

uniti appassionatamente sulla corolla di una primula, nel suadente grappolo di glicini, suipetali vellutati di una pansè. Nulla di nuovo per botanici ed erboristi: unire l’utile al dilet-tevole è la dolcissima condanna dei cosiddetti “fiori eduli”, nati per rallegrare le tavole rac-colti in un vaso o affondati in una ciotola d’insalata, pieni di profumi, morbidezze e virtù.

Racconta Igles Corelli, principe della cucina floreale nell’oasi florofaunistica di Ostel-lato, Ferrara: «I fiori hanno un loro sapore molto delicato, che però sa caratterizzare i piat-ti. I boccioli del nasturzio sostituiscono i capperi per il loro gusto fresco e piccantino, per-fetto con il pesce crudo. Il fiore di sambuco regala un grande gelato, il fiore di rosmarinoera già conosciuto nell’Ottocento come compagno ideale del cioccolato, mentre le radi-ci di primula mantecate con la salsa mou, danno un meraviglioso sentore di vaniglia. I ri-sultati sono soavi». Una passione che si sta diffondendo sulle tavole più innovative, se èvero — come testimonia una recente indagine della Coldiretti — che il “consumo” di fio-ri è cresciuto di quasi il dieci per cento rispetto allo scorso anno. Se anche l’occhio vuolela sua parte, nulla rallegra la vista quanto un piatto dove occhieggiano i colori sfacciati di

certe fioriture. Impudenti e benefiche, ma anchegolose. Non a caso, uno degli chef che ha fat-

to la storia della gastronomia moderna, ilfrancese Michel Bras, è diventato fa-

moso nel mondo intero con unpiatto, il Gargouillou, interamen-

te costruito intorno alle erbe e aifiori delle sue montagne. Og-

gi, che la gastronomia florea-le sta facendo il giro delmondo — con servizi e re-portage entusiasti di Timee Washington Post — il ti-mido, geniale Bras vieneinvitato ovunque a spie-gare come portare il giar-dino in tavola con esititanto mirabili. Lui, chenon lascia praticamente

mai il suo eremo nell’Au-brac, ha ceduto la scorsa

settimana alle lusinghe diBoffi Cucine solo a patto di

portare i “suoi” fiori per unagrandiosa performance gour-

mand a base di erbe e teneri boccio-li, trasformati in gelatine, mousse e

sfoglie croccanti. I milanesi che hanno as-saggiato le sue creazioni sono rimasti sbalor-

diti… Allo stesso modo, nessun visitatore dell’ulti-ma edizione di “Euroflora”, svoltasi il mese scorso a Genova, si è tirato indietro al mo-mento di assaggiare la scamorza affumicata su letto di bocche di leone, il tortino di pata-te ai fiori di crisantemi in salsa di pecorino, il risotto ai fiori di lavanda, su su fino alla mous-se di cioccolato bianco con sciroppo di fiori di begonia e alla crostata ai fiori di calendula.

Certo, chi non puoi permettersi di raggiungere Lagouiole (o più semplicemente Ostel-lato), prima di dedicarsi alla flower-kitchen farebbe bene a dare un’occhiata a un testo dibotanica, tanto per informarsi sulla sgradevole amarezza del gambo di tulipano o sullatossicità dell’oleandro (che ridotto a infuso veniva utilizzato un tempo come abortivo, conl’esito orribile di avvelenare, spesso uccidere, la sventurata). Ancora più facile, program-mare un fine settimana tra Alto Adige e Romagna, dove a partire da sabato 24 giugno co-minceranno gli appuntamenti con i fiori in tavola, tra laboratori, degustazioni e passeg-giate per imparare a raccogliere senza offendere la natura.

A chiusura, regalatevi una coppa di Elite, cocktail inventato dal barman Dario Comini:vodka, finissima polvere di perle e fiori freschi di malva. Delizioso, afrodisiaco, e più ori-ginale della solita dozzina di rose.

RISOTTOALLE FRAGOLE

E PETALI DI ROSASi prepara il risotto (per 4) come

da ricetta base, tostando il riso nella cipolladi Tropea rosolata nel burro, bagnando

con un bicchiere di vino bianco e "tirando"la cottura molto al dente con brodo vegetale.Qualche attimo prima di spegnere il fuoco,

va aggiunto un etto di fragole mature sminuzzateSi "ferma" la cottura appoggiando la pentolasu uno straccio bagnato, mantecando i petali

di una rosa, una noce di burro e qualchecucchiaio di Parmigiano grattugiato.

Una seconda rosa serviràper guarnire i piatti

Così belli da mangiarseli

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Tre tossici! Per aver gustato i fiori del lo-to, stavano trasognati, e non voleva-no più partire; «la patria gli era cadu-

ta dal cuore». Odisseo, che li aveva manda-ti in avanscoperta tra i Lotofagi, li legò sal-damente sotto ai banchi delle «negre navi»e salpò, prima che qualcun altro «ponessenel dolce loto il dente». Horkeimer e Ador-no, i filosofi di Francoforte, approvano: ilnostos, il viaggio, è scoperta e civiltà. Moltocontrario invece il poeta Tennyson: «Macerto, certo che il sonno è più dolce delle fa-tiche», e la sponda è meglio che arrancareper mare — vento, tempesta, e remare: «Ri-posa, fratello marinaio, basta vagare: wewill not wander more». È il 1832, lord AlfredTennyson è giovane, quando alterna gliariosi cori dei marinai, che lamentano dinon ricordare più bene le spose, con le dol-ci lusinghe dei Lotos eaters: ma i miti, e lasaggezza, sono duri a morire, e in Star TrekCaptain Kirk deve strappare a una coloniaplanetaria invasa da spore euforizzanti laciurma in stato di rapimento.

A altri sogni alludono le piccanti Histo-riettes di Tallémant des Réaux quando rac-contano di un corteggiatore così timido,che regalava violette alla fidanzata, pre-gandola di passarsele «non dico dove», epoi le mangiava. Neanche cinquant’annidopo, è già il ragionevole Settecento, e ilcasto Fénelon dedica a Monseigneur il du-ca di Borgogna — il delfino — una favola,Viaggio all’isola dei piaceri. È un’isola dizucchero; gli abitanti si succhiano le dita,quando le immergono nei fiumi; ci sonovenditori di sonno, un tanto all’ora, e in ba-se ai sogni. I mercanti d’appetito — «di co-sa volete aver fame?» — sono stupiti dallerichieste del nuovo venuto; la gente delluogo è di «grande delicatezza», e a cola-zione offrono fiori d’arancia, a pranzo «unnutrimento più forte»: tuberose; e sologiunchiglie a merenda. Ma la sera, arriva-no grandi cesti pieni dei fiori più profuma-ti; il nostro ha un’indigestione di odori, efugge in città, dove governano le donne; gliuomini si incipriano e cuciono, e temono

di essere battuti, se non obbediscono(non è sempre stato così: ma i maschi

dell’isola erano così ignoranti e pigri,che le donne si erano vergognate di

lasciarsi dirigere da loro, e ne ave-vano preso il posto).

Grevi, i cibi degli uomini,«consacrati uccisori di selvaggi-na»; «ciclamini crudi? Bleah!Viva porci e montoni», canta lapoetessa Christina Orcyanac,battuta nel 2002 all’elezioneall’Académie française dal ci-nese François Gheng. Lesabeilles et les hommes disegna«l’uomo dal gusto esecrando /che non conosce il bene di nu-

trirsi di fiori…/ Nessun pistillo,calice, stame o petalo / ebbe mai

il favore d’entrare nella loro golagolosa»; ecco allora le api, dame

dal corpo villoso, ardenti del piace-re del gusto, che, testarde operaie,

fanno per loro la mediazione del cibodegli dei — il nettare — creando il «mie-

le d’oro».Anche i bambini sono testardi, e il Picco-

lo Principe di Antoine de Saint-Exupérycontinua a disturbare l’aviatore, che cercadi aggiustare il suo velivolo precipitato neldeserto: «Una pecora, se mangia gli arbusti,mangia anche i fiori?». I grandi sono ottusi;l’aviatore gli risponde: «Sì». «Anche i fioricon le spine?». «Sì. Anche i fiori che hannole spine». «Ma allora le spine a che cosa ser-vono?». L’aviatore si sta spazientendo conun bullone, che fa resistenza: «Niente. Èpura cattiveria da parte del fiore». E rimaneallibito dal pianto disperato del PiccoloPrincipe, che nel suo pianeta minuscolo halasciato una rosa, e ora capisce quanto siaindifesa; per lui è unica. L’aviatore promet-te di disegnare una museruola per la peco-ra del pianetino, e culla il Piccolo Principe,ma non sa come calmarlo, «il paese delle la-crime è così misterioso».

Da Ulisse a Star Trekil cibo del “viaggio”

Storie di mangiatori di fiori

DARIA GALATERIA

CALENDULA

Così battezzata dai Romani

per le sue fioriture mensili

(da calenda, mese),

è una delle piante-cardine

della fitoterapia,

grazie alle sue qualità

emollienti

e antinfiammatorie. I fiori,

coloratissimi, accendono

il pallore dei risotti

e insaporiscono le carni

ROSA

Selvatica (Canina)

o coltivata, la rosa

era ben conosciuta

già dagli Egizi,

che la usavano

per profumare l’aria, curare

le piaghe, dare tono

alla pelle. Ricca di vitamina

C, serve per marmellate,

canditure, acque profumate

Ottima “pastellata” e fritta

GLICINE

Rampicante robusto

e indomito, nel momento

di massima fioritura, quando

la pianta

gronda di pigne,

se ne staccano

i fiori aperti, da lavare

e asciugare delicatamente

Immersi in pastella e fritti,

si trasformano in bocconcini

profumati, screziati di viola

TARASSACO

Un profluvio di fiorellini gialli

per una pianta

comunissima e benefica

a partire dal rizoma,

che – seccato

e polverizzato – vanta

proprietà digestive

e depurative. È buonissimo

nelle frittate

e nelle zuppe primaverili,

regala colore alle insalate

VIOLA

Spontanea o coltivata,

la “Tricolor”, Viola

del pensiero, è considerata

il fiore della bellezza

per la ricchezza in flavonoidi

(antiossidanti) e l’attività

disintossicante

Rallegra insalate e risotti

Il suo regno

è la pasticceria, tra sorbetti,

gelati e canditure

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47DOMENICA 4 GIUGNO 2006

LAVANDA

I cespugli fioriti sono

il simbolo della primavera

provenzale. I più profumati

crescono tra collina

e mezza montagna

(in pianura si trova

la più comune “lavandina”)

Ha grandi qualità lenitive

Ideale per gelatine,

biscotti e risotti aromatici

Il suo miele è soave

CRISANTEMO

Il fiore nazionale

del Giappone è declinato

in moltissime varietà,

diverse per corolle

e stagione di fioritura

Ha proprietà digestive,

che lo rendono prezioso

nelle infusioni. Ottimo

nelle frittate, regala profumo

alle zuppe e dilata

i sapori degli arrosti

NASTURZIO

Il principe dei fiori

da insalata, e utilizzato

anche per gelatine,

è una pianta erbacea

amica dell’acqua,

che regala fiori di un bianco

splendente o biancastri

È una buona fonte

di vitamine (A, C, D)

Se ne fanno infusi e decotti,

con proprietà balsamiche

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Non ci sono vie di mezzo. C’è chi le ama e chi nonle sopporta. Chi le trova romantiche e, perchéno, anche eleganti. E chi scomode e poco prati-che. Stiamo parlando delle storiche espadrillas.Che, nell’estate che sta arrivando, saranno tra legrandi protagoniste della moda, autentiche

rappresentanti di quella tendenza che passa sotto il nome divintage. Di origine spagnola e portoghese, questa scarpa “po-vera” di tela e corda intrecciata, è stata mutuata dai pescatorimediterranei per diventare una calzatura estiva dalla secondametà del Novecento fino a oggi. Considerate una sorta di cia-batte da usare come scarpe, in grado di coprire interamente leestremità ma più leggere dei sandali, sono state praticamenteai piedi di tutti: modaioli, gente comune, statisti e star.

Ma nella loro semplicità hanno sempre avuto un’inclina-zione frivola. Il primo vezzo delle espadrillas è stato, negli an-ni Settanta, l’aggiunta di un laccio alla caviglia e di un tacco ditutto rispetto (ovviamente per la versione al femminile): unasorta di zeppa ante litteram. Poi le espadrillas sono scompar-se dalle scarpiere accusate dai più d’essere scomode e poco re-sistenti. E invece, eccole qui di nuovo. Si presenteranno in unadoppia versione: nel modello basic, in pratica le gemelle diquelle che hanno vissuto il loro boom tra gli anni Settanta e Ot-tanta. E in una sorta di copia rivisitata e “scorretta”. Le espa-drillas subiscono infatti una mutazione genetica in scarpe ca-

rissime, indica-te per fashionvictim all’ulti-mo stadio, ap-pena sono ritoc-cate dai grandinomi della mo-da come LouisVuitton, MarcJacobs, AnnaSui e Jean PaulGaultier. Ma an-che in Italia so-no state libera-mente interpre-tate da AlbertaFerretti, Kristi-na Ti e SergioRossi.

Istruzioni perl’uso? Da indos-sare in vacanzama non solo.Con gonne opantaloni e, perle più coraggio-se, allacciate so-pra i jeans. Nellaversione 2006toccano il mas-simo dell’impu-dicizia: paillet-tes, rasi, cinturi-ni preziosi, tes-suti con logo. Unrevisionismoche non cono-

sce limiti. Tornano, più sobrie, anche per il pubblico maschile.Gucci ne ha proposto un modello minimalista, un rigato bian-co e nero, anche per serate eleganti (naturalmente al mare).

Grande fan delle espadrillas prima versione è la stilista Kri-stina Ti che le ha rifatte in vari tessuti, dal jeans alla stoffa cheusa per i suoi famosi costumi da bagno. Spiega: «Trovo che lepiù belle siano quelle originali che ricordano le estati spen-sierate. Averle riproposte offre alle donne l’opportunità dimettersi una scarpa che regala una certa altezza ma con ilvantaggio di non sembrare aiutate dal classico tacco a spillo.Insomma il trucco c’è ma si vede pochissimo».

Saranno pure delle alleate delle mancate stangone, que-ste zeppe di corda mai sotto gli otto centimetri, però gira vo-ce che siano scomodissime. «Niente affatto, è solo un mododiverso di camminare — smentisce Kristina Ti — che creauna barriera psicologica, ma in realtà sono comode perchéil piede è praticamente orizzontale». E i prezzi? «Quelli de-cisamente non sono vintage — spiega la stilista —perché lenuove lavorazioni sono molto più laboriose, però il vantag-gio è che durano a lungo e sono anche morbide». E se in Ita-lia ritornano con una certa timidezza, all’estero sono quasiuna fede. Gli stilisti di scarpe Castaner, storici fornitori dinumeri uno come Hermes, Dior e Jean Paul Gaultier, ne pro-ducono in tutte le versioni e le spagnole ne posseggono al-meno un paio a testa.

LACCI

Caviglie fasciate

e imbrigliate,

colori tenui

per Betty Flowers

MADE IN SPAIN

Il marchio spagnolo

Castaner reinventa

la tradizione. Resta

la sabbia. E la corda

ELEGANTI

Non solo

zeppa e corda

Dolce

e Gabbana

non rinunciano

alla femminilità

48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 4 GIUGNO 2006

le tendenzeCorda ai piedi

FLOREALE

A sinistra l’idea

di Stuart Weitzman:

fiori secchi

Esp

adri

llas

IRENE MARIA SCALISE

FIOCCO

Incrocio di lacci per

questa versione

di Castaner

Griffata e scorrettala scarpa-ciabattatorna regina d’estate

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Duravano tre mesi, se pioveva le buttavi, ma ci camminammo dentro per tutti i Settanta

Simbolo di libertà, un modo di volare

Non è facile spiegare ai ragazzi di oggi che cosa hanno rap-presentato le espadrillas. Né scarpe né sandali né pan-tofole, ma un modo per volare. Scarpa anarchica, ecolo-

gica, libertaria. Intessuta nella trama della sua tela c’era la vogliadi partire: partire nel senso di andarsene. È un’Italia dei primianni Settanta, e di chi in quegli anni faceva l’università, quellache camminava sulle mitiche suole di corda. E partiva per la Gre-cia post-colonnelli, ma anche semplicemente per Ostia. De Gre-gori cantava Alice non lo sa, finiva la guerra nel Vietnam, Allen-de veniva assassinato. La televisione era in bianco e nero e tra-smetteva l’Eneide, al cinema si andava a vedere Paper Moon edEffetto Notte, maxicappotti e pantaloni a zampa d’elefante sta-vano già cominciando a stufare.

Le espadrillas costavano poco: sembravano quasi vendute aprezzo politico. Erano una scarpa usa e getta: nel senso che a set-tembre finivano nel secchio della spazzatura, morte di mortenaturale. Se per caso ci prendevi un acquazzone, la suola di cor-da intrecciata si sfilacciava e ne dovevi comprare subito un altropaio. Piaceva che fossero così rudimentali, senza nessuna pre-tesa, egualitarie. I maschi le portavano “scalcagnate”, cioè colcalcagno calpestato; le ragazze si dividevano in due categorie.Le più alternative copiavano il look da pescatore: espadrilla ra-soterra, molto fricchettona, in genere con la gonna da zingara;le più vanitose — e le loro sorelle maggiori — sceglievano il mo-dello femminile con un po’ di zeppa e lacci alla caviglia. Regala-va qualche centimetro di statura ma non tradiva lo spirito di unascarpa ad alto tasso ideologico. Le espadrillas erano un po’ co-me le Clark: indiscutibilmente “di sinistra”. Si abbinavano vo-lentieri alle cosiddette vacanze intelligenti. Per le donne eranoanche una divisa femminista, per la loro comodità un po’ sciat-

ta, per come la tela prendeva, dito per dito, la forma del piede amaritozzo senza mai lasciarlo nudo.

La loro origine era nebulosa ma ne faceva la scarpa etnica pereccellenza: erano nate tra i pescatori della Spagna nord-occi-dentale, nei Paesi Baschi, in Cantabria, in Galizia e nei villaggilungo la costa portoghese, dove gli artigiani da secoli intreccia-vano la corda per farne suole di scarpe. Se ne impossessaronoelegantoni come Wallis Simpson e il suo docile consorte, l’ex reEdoardo d’Inghilterra. Le portava, chic come non mai, la neo-principessa Grace Kelly. Le esibiva il più estroso fra i dissacrato-ri di professione: Salvador Dalì. Le rilanciavano Brigitte Bardotin Camargue e Yves Saint Laurent a Parigi, etichettandole comescarpe campesine. Le portavano con calcolata nonchalanceGianni Agnelli e Bioy Casares, solo nere però, meglio se l’acquadel mare ci lasciava un po’ di alone salato.

La scarpa di pezza è vintage per eccellenza ma quelle d’epocanon esistono (quasi) più: troppo deperibili per durare, troppovulnerabili per essere tramandate ed ereditate, anche se messein naftalina. L’espadrilla è una scarpa interclassista. La porta iltycoon e la porta la colf, specie se cinematografica, vedi Penélo-pe Cruz nell’ultimo film di Almodovar: «Le scarpe sono fonda-mentali — ha dichiarato l’attrice iberica in una recente intervi-sta — Per me parte tutto da lì, sempre. E la pensa così anche Pe-dro. Infatti la Raimunda di Volver porta le espadrillas, le scarpegiuste per una popolana spagnola che fa la donna delle pulizieed è sempre in movimento». Le nuove e ricche espadrillas chefanno bella mostra di sé nelle boutique — ridisegnate, reinter-pretate, modificate, infiocchettate e accessoriate dagli stilisti —non hanno più nulla a che vedere con una scarpa tanto sempli-ce & gloriosa. L’hanno snaturata, imbalsamandola.

REVOLUTION

Resta ben poco

delle classiche

scarpe di corda

in questo

modello

di Castaner

RICAMI

Betty Flowers aggiunge

disegni floreali

su tessuto

color avorio

LAURA LAURENZI

Erano come le Clark,decisamente “di sinistra”Per le donne erano ancheuna divisa femminista,gli uomini le portavano“scalcagnate”. Poi se neimpossessarono artisti,star e principesse

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 49DOMENICA 4 GIUGNO 2006

Trent’anni fale indossavano tutti,poi si disse che eranoscomode e sparironoOra tornano protagonistee non solo al marePerchégli stilisti le hannomodificate geneticamente

ARCOBALENO

Nannini, tanti colori

e dilemma risolto:

non sono scarpe,

sono ciabatte

OPEN SPACE

Piede quasi

scoperto

per Can Cun

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50 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 4 GIUGNO 2006

l’incontroTalenti precoci

LEONETTA BENTIVOGLIO

Forseè finita l’epoca del Diret-tore-Sciamano, l’onnipo-tente Mago della Musica cheguida gli officianti di quel ri-to che è il concerto. I giovanidirettori odierni smitizzano

il carisma dei predecessori, giocano conle mode trasandate, odiano (o fingonodi odiare) le affettazioni e le pretese deidivi. Tra i rari Grandi Vecchi che resisto-no spicca, agguerrito e maestoso, LorinMaazel, in prima linea sul fronte di colo-ro che considerano la partitura una per-sonale dichiarazione di diritti. Ammire-vole per physique du rôle, testa leonina,piglio regale, sguardo imperioso, è sem-pre stato un fuoriclasse, sospinto da unacapacità impressionante di bruciare letappe: «A cinque anni suonavo il violinoin pubblico, a otto diressi un’orchestra,a nove ero sul podio di un concerto allaFiera di New York», racconta con vocecalma e suadente dalla sua fattoria inVirginia, una magnifica tenuta piena dianimali che brilla per immacolata iden-tità ecologica, visto che «in questa fettadi mondo ogni industria è proibita, enon c’è un filo di fumo che inquini l’a-ria», segnala fiero l’illustre proprietario.

Quando aveva undici anni Lorin co-nobbe Toscanini: «Era stato incuriositodal giudizio di un critico newyorkeseche di me aveva scritto: “questo bambi-no è un genio, la scoperta del secolo!”Perciò lui, all’epoca direttore musicaledella Nbc Symphony, m’invitò a dirige-re la sua orchestra. Dopo aver assistito auna prova venne in camerino, mi poggiòuna mano sulla testa e mi disse dolce-mente: “Dio ti benedica”. Era un uomotenero, anche se nelle prove con gli or-chestrali sbraitava tanto. Aveva un cuo-re sensibile e in fondo era un timido,bloccato dalla scarsa conoscenza dellalingua inglese».

La benedizione di Toscanini fu unportafortuna: Maazel aveva dodici anni

quando diresse per la prima volta laNew York Philharmonic, regina delleorchestre americane, fondata nel 1842 eguidata da maestri leggendari comeMahler, Mengelberg e Furtwängler.«L’occasione fu un concerto all’apertonel Lewisohn Stadium. Vi diressi laQuinta di Beethoven, col coraggiodell’innocenza. Ma ero ben prepara-to, e riuscii a comunicare ai musicistila mia sicurezza».

A capire subito il suo talento era sta-to il padre, «che quando avevo quattroanni notò in me un’inclinazione noncomune alla musica. Mi fece studiarepianoforte e violino e dopo un paiod’anni volle che affrontassi lo studiodella direzione orchestrale a Pittsbur-gh, dove vivevamo». Non ha pagato unprezzo nell’infanzia? «Tutt’altro, fuserena. Circolano troppi equivoci sulcosiddetto enfant prodige. Il termineevoca un fenomeno da circo sfruttatoda genitori e agenti: un bambino chenon va a scuola, non frequenta coeta-nei, fa un numero incredibile di con-certi e a tredici anni è un rudere. Io in-vece giocavo a baseball, avevo amici,andavo a scuola e dirigevo concertisolo durante le vacanze».

Il fatto è che nella musica, sostieneMaazel, lo straordinarietà del talentoemerge presto, «intorno ai cinque anni,quando si svelano l’orecchio perfetto especiali doti di memoria. E come il ta-lento per gli scacchi, il tennis e la mate-matica, quello per la musica va coltiva-to fin dall’inizio. Stimolarne l’ap-profondimento è una scelta salutare.Terribile invece è la strumentalizzazio-ne da parte degli adulti. Nel mio casonon è accaduto. Sono cresciuto in unafamiglia come tante. Mia madre facevala dottoressa, mio nonno era violinistanell’orchestra del Metropolitan, miozio era pianista. Mio padre faceva l’atto-re. Per fortuna è ancora con me, ha 103anni e sta benone, forse grazie all’aria diquesta mia splendida campagna».

Ama l’America? «Certo, moltissimo.Amo i suoi spazi, le spiagge sterminatedella California, i cieli senza nubi, lemontagne immense. Amo l’idealismodel mio Paese. Non bisogna guardarnesolo i lati infantili e grotteschi. C’è ancheun idealismo puro e necessario. Se nefossi privo sarei vittima di quella bestia-lità che è l’impulso alla lotta sfrenata peril successo». Ciò nonostante a lui il suc-cesso non è mancato. Americano di fa-miglia ebrea e russa di origine, nato inFrancia nel 1930, Maazel ha viaggiatosempre in sfere di plauso stellare, senzasoste nella conquista dei posti di co-mando: la Deutsche Oper di Berlino,l’Opera di Stato di Vienna, l’OrchestraSinfonica della Radio Bavarese, la Pitt-sburgh Symphony, la Philharmonia diLondra, l’Orchestre National de France,la Cleveland Orchestra, la FilarmonicaToscanini di Parma. Da quest’anno haassunto anche la direzione della nuovaOpera di Valencia, dove in settembre di-rigerà Don Giovanni, «una delle mie

trasparente. Gli strumentisti hannouna personalità fortissima, e sono tuttifanatici dell’intonazione. In più sononewyorkesi, dunque cittadini del mon-do, come lo sono io. Perciò tra noi c’ègrande sintonia».

Cos’è la direzione d’orchestra? Inche consiste la capacità di comunicareal pubblico una partitura? «Si può pa-ragonarla al lavoro del regista, che allaprima prova incontra gli attori i qualigià conoscono i loro ruoli, però non ba-sta. È lui che deve immettere la conce-zione personale di ogni interprete inuna prospettiva che esprima la sostan-za del testo. Allo stesso modo, in un’or-chestra ogni musicista sa la sua parte,ma tocca al direttore inserire questavoce individuale in un’idea più ampia.Deve trovare la precisione del ritmo,l’equilibrio fra le sonorità dei diversistrumenti. E deve far fraseggiare nelmodo giusto. Ci sono mille modi di di-re “ti amo”. Gridarlo, sussurrarlo,scandirlo in tono triste o felice. Analo-gamente, ci sono almeno dieci diversemaniere di fraseggiare un gruppo dinote. Sceglierne uno è impresa com-plessa e delicata. Oggi troppi dilettantisalgono sul podio senza capire ciò chefanno. Se c’è una buona orchestra pos-sono illudersi di saperlo fare, ma prestoemerge l’inganno. È come guidare unaRolls Royce senza patente. Lo sterzopuò funzionare da solo, ma appenaqualcosa non va salta per aria tutto».

A Maazel attribuiscono equilibrioolimpico e padronanza di sé. Qualcunoparla di freddezza. Riesce a commuo-versi? «Certo: la musica mi tocca nelprofondo. Però il dominio delle emo-zioni è necessario per un direttore, es’impara da giovani. Prima la musica micoinvolgeva troppo. Via via ho impara-to che in quel modo si perde forza.Un’interpretazione equilibrata, ma an-che vibrante, non si ottiene senza con-trollo. Perciò cerco di canalizzare le mieenergie nella bacchetta, che diventamolto espressiva. Deve risultare chiaroa tutti di che si tratta, a cosa aspiro, dovevoglio andare».

L’hanno accusato di avere un’ansiafebbrile di esperienze, di contaminarsicon i mass media. Fu lui a dirigere la mu-sica del primo film-opera di successomondiale, il Don Giovanni di Losey, epoi quelle della Carmendi Rosi e dell’O-tello di Zeffirelli. Fu lui a inaugurare inFrancia il primo mega-spazio per con-certi classici, quello parigino di Bercy.Fu lui a organizzare, sul modello deglieventi rock di solidarietà internaziona-le, le manifestazioni Classic-Aid. «Manon ho mai fatto compromessi, né misono svenduto su fronti commerciali».

Gli hanno detto che peccava di eclet-tismo, che col suo repertorio gigante-sco rischiava la superficialità.«Quand’ero giovane non mi sentivo amio agio con molta musica. Non capi-vo Sibelius, non sapevo dirigere un val-zer. A 27 anni decisi di approfondire sti-li diversi. Ero capace, per un anno inte-

opere predilette, insieme a Tosca».Nel 1960 fu il direttore più giovane, e

il primo di nazionalità americana, a di-rigere Wagner a Bayreuth. E fu nei pri-mi anni Cinquanta che debuttò in Eu-ropa, «al Bellini di Catania, dove miavevano invitato all’ultimo momentoper sostituire Pierre Dervaux ammala-to. Avevo 22 anni ma ne dimostravo 15,parevo uno scolaretto. Il sovrinten-dente, quando mi vide, quasi svenne,voleva cacciarmi. Ma non c’era tempoper trovare qualcun altro e si rassegnò.Poi il concerto andò benissimo e luidovette ricredersi».

Dal 2002 Maazel è il direttore musica-le della New York Philharmonic, la stes-sa orchestra di somme tradizioni cheaveva già diretto a 12 anni in pantalonicorti, «e com’è ovvio gli orchestrali diquel concerto oggi sono tutti morti».Con questo formidabile complessosinfonico sta per affrontare una tournéein Italia, dall’8 al 20 giugno, con tappe aRoma, Firenze, Milano, Parma, Raven-na, Lubiana e Trieste: «È una formazio-ne favolosa, dal suono massiccio ma

ro, di studiare solo musica francese, poisolo opera italiana, poi russa, poi ato-nale... Sono entrato nei mondi musica-li più svariati, senza averne più paura.Non so se questo vuol dire essere trop-po eclettico, ma sto bene così».

Non gli piace che gli attribuiscano unvirtuosismo sfolgorante, uno sfoggio ditecnicismo: «Di temperamento sareiimpulsivo, ma ho domato la foga. Orache dirigo con sobrietà c’è chi mi rim-provera la mancanza di passione. Non èvero: trasparenza e chiarezza sono fon-damentali per un direttore, il resto vienedopo. E poi al centro di tutto c’è l’amo-re. È il motore di ogni cosa». Forse perquesto ha al suo attivo sette figli e tre mo-gli. Con l’ultima, la tedesca DietlindeTurban, attrice di cinema negli anni Ot-tanta, stesso ovale di Romy Schneider,ha avuto tre figli, «che ora hanno 18, 16 e13 anni. E il sedicenne Leslie ha un grantalento per la composizione». Constata-zione che lo riempie di orgoglio.

Anche Lorin Maazel, quando può,compone musica, e una sua opera,1984, ispirata al romanzo di Orwell, hadebuttato un anno fa al Covent Gardendi Londra. «È stato un lavoro per me im-portantissimo, che mi ha fatto sprofon-dare nei tanti livelli di un testo atroce eprofetico, pieno di incursioni negliabissi della viltà e del sadismo che al-bergano nell’animo umano. Ma nel li-bro di Orwell, per fortuna, un fiore d’a-more, come un’isola di luce, cresce tra iblocchi di cemento della tirannia».

Dice di amare sempre con la stessaintensità, di considerarsi «un direttoreromantico e anche un uomo romanti-co. Credo all’amore anche grazie allamusica, un linguaggio che sa semprearrivare a tutti. Se dirigo a Tokyo o a Mo-sca il pubblico reagisce allo stesso mo-do. La musica contiene tutto ciò cheunisce, niente di ciò che divide. E io houn bisogno estremo di comunicare.Passano gli anni e non solo non mi raf-freddo, ma il mio romanticismo conti-nua ad aumentare».

Ci sono molti modidi dire ‘ti amo’Gridarlo,sussurrarlo,scandirlo in tonotriste o feliceE ci sono moltediverse manieredi fraseggiareun gruppo di note

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‘‘È uno degli ultimi direttori-sciamani,un grande vecchio del podioMa non dimentica di essere statoil bambino prodigio che a undicianni dirigeva davanti a Toscanini

Ora che con la New YorkPhilharmonic affrontauna tournée in Italia,racconta la sua carriera“Ho dovuto disciplinarele mie emozioni: prima la musica mi coinvolgevatroppo, ora ho imparato

che un’interpretazione equilibratae vibrante si ottiene grazie al controlloE all’amore, che è motore di ogni cosa”

Lorin MaazelF

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