Il tempo che credevo di aver perso

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Fabiola Gravina, sentimentale

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FABIOLA GRAVINA

IL TEMPO CHE CREDEVO DI AVER PERSO

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IL TEMPO CHE CREDEVO DI AVER PERSO Copyright © 2011 Zerounoundici Edizioni

Copyright © 2012 Fabiola Gravina ISBN: 978-88-6307-407-9

In copertina: Immagine Shutterstock.com

Finito di stampare nel mese di Gennaio 2011 da Logo srl

Borgoricco - Padova

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alle mie amiche Giulia e Cinzia

a mia madre

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Perugia

24/05/2009 – 07/06/2009

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un solo motivo poteva spingermi a tornare Sono a Perugia perché mia madre è morta, unico motivo che poteva spingermi a tornare. È una calda giornata di Maggio, i gelsomini sono in fiore e posso respirare l’odore dell’Estate in arrivo. Sono passati qua-si tre anni dal giorno in cui me ne sono andata, volata a New York con biglietto di sola andata. Avevo giurato a me stessa di non rimettere più piede nella mia città natale per almeno dieci anni, quelli necessari per dimenticare. Guardo i tetti rossi della mia città, riescono ancora a incan-tarmi. Amo i suoi vicoli, le sue piazze, le sue lunghe scalinate, i suoi profumi. Mi accorgo con sgomento che il mio cuore è sempre rimasto qui e non solo per le vie strette e i palazzi medioevali ingrigiti dai fumi. I tre anni non sono serviti a nulla, hanno la valenza di una manciata di secondi. Le immagini familiari risvegliano nella mia testa ricordi im-pietosi, quegli stessi che mi ero proposta di estirpare. Sono a pezzi, la-cerata per la terribile perdita, frastornata per il viaggio precipitoso, con-fusa per l’inevitabile jet-lag. Quando zia Bice mi ha telefonato, l’altra notte, ho sobbalzato nel letto. Il trillo del telefono era terribilmente insi-stente. «Chi diavolo è a quest’ora?» Senza accendere la luce ho allungato un braccio, per cercare il cellulare sul comodino. «Pronto?» «Giulia, tua madre è morta.» «Ma chi è?» Le parole sono in lingua italiana, divento immediatamente vigile, il cel-lulare trema nelle mie mani, non riconosco la voce che mi sta parlando. «Giulia, mi senti? Sono zia Bice.» Non posso crederci. Zia Bice. Mia madre morta. «Come? Ieri? Come è possibile? Perché non mi avete chiamato prima?» «Nessuno aveva il tuo numero. Ho dovuto chiedere il tabulato alla so-cietà telefonica. A quel punto non è stato difficile rintracciarti, tua ma-dre ti chiamava sempre alla stessa ora.» Ascolto attonita quelle parole, perché è fin troppo vero. Ho tagliato i ponti con tutto e con tutti, proibito a mia madre di dare il mio nuovo numero a chicchessia. Il battito accelerato del cuore, rimbomba dentro la mia testa. «Parto subito, il tempo di trovare un volo disponibile, ma è notte qui, devo organizzarmi.»

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«Lo so che è notte, Giulia, ti ho chiamato appena ho avuto il numero.» «Zia, promettimi che non chiuderete la bara fino a quando non sarò ar-rivata, voglio vederla per un’ultima volta. Giurami che ritarderete il fu-nerale se necessario. Ti prego, non ti ho mai chiesto nulla, ma ora ac-contentami. Non me lo perdonerei mai.» Non eravamo mai andate d’accordo io e zia Bice, ce l’aveva con me perché avevo fatto soffrire mia madre che era sua sorella. Cercai imme-diatamente un volo in partenza per l’Italia, su Roma non ce n’erano. Guardai Milano, poi Torino, Verona, Ancona. «Qualsiasi città, qualsiasi compagnia aerea, ma vi prego, fatemi partire, fatemi arrivare in tempo.» Alle due di notte, ero alla disperata ricerca di un posto libero, poi decisi di andare in aeroporto e mettermi in lista d’attesa. Quando presi in ma-no il mio trolley rosso, regalo di mia madre, mi scese una lacrima, la prima di tante che sarebbero venute. «Ciao, Merlo Jack» dissi sottovoce parlando a una gabbietta coperta da un panno scuro «vedrai che torno presto.» Jack è il mio merlo indiano, la mia amica Isabel si sarebbe presa cura di lui mentre ero via.

l’ho visto per un attimo, mentre entravo in chiesa, incollata alla bara di mia madre

C’era anche lui al funerale. L’ho visto per un attimo, giusto una frazio-ne di secondo, mentre entravo in chiesa incollata alla bara di mia ma-dre. Ho girato gli occhi verso la navata laterale ed è stato allora che l’ho visto. Mi sono subito chiesta se avrebbe trovato il coraggio di venire a salutarmi. Era vestito di grigio, non posso sbagliarmi. Era lui, poi la co-lonna di marmo l’ha nascosto al mio sguardo. Ho preso posto in silen-zio sulla prima panca, insieme a zia Bice e zio Ernesto, sentendomi ad-dosso gli occhi dei presenti. Tenevo lo sguardo basso, verso il pavimen-to a losanghe bianche e nere, visibilmente a disagio al pensiero di dover incontrare tutta quella gente sconosciuta. Non ho seguito una parola del rito funebre, ho guardato per mezz’ora il marmo consunto sotto i piedi, le piastrelle scalfite dall’usura. L’altra mezz’ora l’ho trascorsa fissando le rose rosse appoggiate sul legno lucido della bara, gli occhi fermi sul fiocco viola che portava su scritto il mio nome. Le rose erano il suo fio-

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re preferito, e anche il mio. Sorrido al pensiero di aver avuto almeno una cosa in comune con mia madre. C’erano tante persone venute a dar-le l’ultimo saluto, potevo stimarne il numero dal brusio di sottofondo, amplificato dall’acustica della cattedrale. Dopo la messa, è venuta la parte più difficile, ovvero gli abbracci e le condoglianze. «Ti prego zia Bice, stammi vicina, non conosco tutta questa gente.» Ho sentito una mano afferrare la mia, era Cinzia, la mia amica del cuo-re. Ci siamo abbracciate, senza dire nulla. Non servono parole in questi momenti. I miei singhiozzi hanno contagiato anche lei. Con riluttanza ho sciolto quell’abbraccio rassicurante, dovevo salutare le tante persone in fila e lei con gli occhi lucidi si è allontanata soltanto di qualche pas-so, come a dire sono qui se hai bisogno di me. Poi a un tratto il mio olfatto si è risvegliato stimolato da un profumo, appena dietro di me. Il profumo di Paolo. «Condoglianze Giulia. Mi dispiace rivederti in questa circostanza così triste.» Mi ha abbracciato e baciato su entrambe le guance. Ho avvertito il con-tatto del suo viso, assaporato l’odore della sua pelle. Gli avevo regalato io quel profumo. Lo avrà ricomprato, non può essere la stessa bottigliet-ta, è passato troppo tempo. Mentre mi faceva le condoglianze, con mia madre morta a mezzo metro da me e la bara di cedro così vicina che al-lungando un braccio potevo toccarne il legno, mi sono chiesta se Paolo avesse attinto il profumo della mia bottiglietta. Perché l’amore è fuori da ogni controllo, perché l’amore è più forte della morte. Aveva indosso una camicia bianchissima sotto il completo grigio, una camicia che sapeva di detersivo alla lavanda, i suoi riccioli scuri erano tirati indietro con un po’ di gel. Non ho detto nulla, la mia mente era incapace di sostenere qualsiasi conversazione. Mi sono lasciata abbrac-ciare, ricambiando il suo gesto come un automa. Eppure in quei pochi attimi sono riuscita a cogliere ogni sfumatura, la barba appena ispida per la ricrescita, il gel lucido nei capelli, le sue morbide labbra a contat-to con le mie guance. Mi è sembrato esattamente uguale all’ultima volta che l’ho visto. Dietro di lui c’erano i miei amici, in fila per le condo-glianze. Non saprei dire se mi ha fatto piacere rivederli, eravamo imba-razzati, inutile negarlo. I ricordi riaffioravano violentemente come uno schiaffo in pieno viso e tornavano a galla tutti insieme, in una massa informe, come se qualcuno avesse improvvisamente divelto gli anco-raggi che li mantenevano inchiodati al fondo melmoso, impedendone la risalita in superficie. Il disagio era ovunque, potevo sentirlo dentro le mie ossa.

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«Grazie per essere venuti» ho detto, cercando di sembrare sincera. Lei non c’era. L’ho cercata con lo sguardo in mezzo alla folla, senza trovarla. Mi ha risparmiato un sorriso ipocrita e un grazie di circostan-za. Meglio così, Dio sa quanto l’ho odiata, l’ho maledetta fino a farmi male. Una voce ha chiesto quanto mi fermavo, un’altra se potevamo ri-vederci. «Riparto subito. Domani sera, o dopodomani al massimo sarò di nuovo a New York.» Quando siamo usciti dalla chiesa, c’era un bel sole. Ero certa che al fu-nerale di mia madre sarebbe piovuto, non so bene perché. Mi ero figu-rata più volte il momento, con l’acqua venire giù dal cielo, così come era stato per mio padre. Nei film piove sempre ai funerali, i cappotti e gli impermeabili si inzuppano di pioggia per l’acqua che sgocciola da-gli ombrelli fin sulle spalle. E invece niente di tutto questo, la giornata era limpida con poche nubi disordinate, sistemate alla rinfusa nell’azzurro del cielo. Stringevo il braccio di zio Ernesto fino a strito-larlo, mi sentivo impaurita e terribilmente sola. Quando muore qualcu-no cui sei affezionato, ti senti strappare via qualcosa di te e il vuoto non può essere riempito con nient’altro. Se muore uno di famiglia, il vuoto è abissale e non si riempie mai. Con il tempo, ci si abitua alla mancan-za, si impara a conviverci e non ci si fa più caso, perché il buco diventa parte di noi. Credo sia questo ciò che succede, perché l’uomo è l’animale con il più elevato grado di adattamento. Il vuoto c’è, ma non lo si avverte. So perfettamente quanto tempo occorra per abituarsi a una perdita, la voragine lasciata dalla scomparsa di mio padre è ancora lì, i bordi sono più arrotondati, le pareti lievemente smussate, ma se mi sporgo a fissarne il fondo, ho ancora il capogiro e allora so cosa fare: non guardarci dentro. La ghiaia del vialetto risuona mesta sotto i nostri passi, il gruppo di gente che mi segue si affievolisce a poco a poco, disperdendosi tra le tombe del cimitero. Non c’era un loculo disponibile nel settore dove è sepolto mio padre, così ha detto zia Bice. Mia madre sarà sepolta in quello adiacente. «Sono contenta di sapere che mamma e papà sono ora riuniti insieme, per quel che può contare» dico. «E adesso? Cosa farai?» mi chiede zia Bice. «Torno a New York.» Rispondo alla domanda con grande convinzione, non ho intenzione di rimanere un giorno di più in questa città dove ormai nulla e nessuno è in grado di trattenermi.

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«Nel frattempo puoi dormire da noi, saremmo contenti di averti a casa nostra, la camera di Matteo è vuota.» Mi sento sollevata a quelle parole, avevo già in mente di prendere una stanza in albergo pur di non tornare nella mia casa ancora calda del corpo di mia madre. Sono stordita alla vista delle persone sconosciute che mi porgono la guancia per i baci di condoglianza, voglio scappare, sottrarmi a questo inutile strazio, ripartire prima possibile. Intanto altra gente si avvicina, mi abbraccia, vuole partecipare a quel dolore che è soltanto mio. «Ti prego zia Bice, stammi vicina, non conosco tutta questa gente.» Ripeto questa frase con il tono piatto di un nastro registrato. Non c’è feeling tra me e Zia Bice, potrebbe essere l’occasione per recuperare un po’ del nostro rapporto, lei e zio Ernesto sono la mia famiglia ora. Mat-teo, mio cugino è lontano, non solo fisicamente. Non è al funerale, abita a New Dheli, in India. È come se il tempo si fosse dilatato, la giornata sembra non debba finire. Sono le otto passate quando ci accingiamo a rientrare, il sole è ancora alto. Prendo posto nella macchina di zio Erne-sto, appena fuori dal cimitero, vedo i miei amici riuniti in un capannel-lo, mi salutano con la mano, osservo i loro sguardi sconsolati, di certo stanno parlando di me, stanno scavando nella ferita mai rimarginata che adesso è riaperta. Il tentativo di scomparire dalla faccia della terra è temporaneamente interrotto, sono di nuovo al centro della cronaca, de-vo farmene una ragione. Immagino senza fatica i loro discorsi, le loro parole: «Prima Paolo, adesso la disgrazia di sua madre.» Sento i loro occhi posarsi sul vetro del mio finestrino, non voglio essere compatita, voglio rimanere sola, lasciatemi ascoltare in pace il vuoto della mia a-nima, cullare in silenzio il mio terribile dolore.

non ho avuto cuore di tornare nella mia casa Zia Bice abita in via Sicilia, un appartamento grande, ma niente di spe-ciale. Meglio il nostro in via Stella, più piccolo ma con la vista sui tetti del centro storico. Non ho avuto cuore di tornarci, ogni cosa lì dentro parla la lingua di mia madre. Le tende, i libri, i quadri, i tappeti, la sua collezione di piante grasse. Ho le chiavi nello zainetto e ogni volta che le sento tintinnare mi torna in mente l’ultima immagine di quella casa, il corpo di mia madre immobile sul copriletto azzurro. Avrei voluto ba-

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ciarla e abbracciarla un’ultima volta ma non ne ho avuto coraggio, sono riuscita a malapena a sfiorare le sue mani, dure e secche come rami di potatura. Mi sono sistemata nella camera di Matteo, mio cugino e unico figlio di zia Bice. Le pareti sono tappezzate di fotografie scattate nei suoi tanti viaggi. Da piccoli eravamo inseparabili, stessi giochi, stesse amicizie. L’università ci ha separati, lui ha studiato Ingegneria a Bolo-gna, io mi sono laureata in Lingue Straniere qui a Perugia. Sono passati cinque anni dall’ultima volta che l’ho visto. All’inizio tenevamo una corrispondenza e ogni tanto ci sentivamo per telefono, poi col tempo ci siamo persi di vista ed è un peccato. Nei tre anni che sono stata a New York non ci siamo mai sentiti, eppure andavamo d’accordo, ci voleva-mo bene. È proprio vero che le relazioni vanno coltivate come le piante, bisogna innaffiarle, spendere energia per mantenerle vive. Matteo non si è sposato, non so nemmeno se abbia una relazione stabile. Mia zia tiene la sua stanza in perfetto ordine come se dovesse tornare da un momento all’altro, in realtà torna una volta all’anno, solo a Natale. Ha sofferto terribilmente quando suo figlio ha accettato l’offerta di Texas Instruments, area India e si è trasferito all’estero. Quando a mia madre è toccata la stessa sorte, dopo il mio annuncio di partire per New York, lei ha provato a mettermela contro, ma non c’è riuscita. Non è cattiva, lo ha fatto solo per risparmiare a mia madre una sofferenza che lei ave-va già patito. Noi umbri siamo gente genuina, oserei dire provinciale, è ancora forte l’attaccamento alla terra, il senso della famiglia patriarcale. Le nostre non sono vere città, ma borghi cresciuti oltremodo in cui tutto è ancora a misura d’uomo. Forse le sorelle Marta e Bice Fabianelli vo-levano soltanto essere mamme che diventano nonne, godersi i nipoti e gioire della famiglia allargata. Non c’è stato niente di tutto questo, per nessuna delle due. È la prima volta che faccio questa considerazione, io e Matteo ci accomuniamo per la scelta di lavorare e vivere fuori dal no-stro paese, seppure per motivazioni differenti. Il campanile batte le no-ve, la cena è pronta. Mangiamo in silenzio, gli occhi fissi nel piatto. A casa di zia Bice c’è sempre minestra per cena, in qualsiasi stagione, cambia solo la temperatura del brodo che è inversamente proporzionale a quella esterna, tiepido d’estate, bollente in inverno. Non mi piace la brodaglia, non mi è mai piaciuta, quando mia madre me la propinava, la lasciavo puntualmente nel piatto senza assaggiarla. Stasera però, farò uno sforzo e la manderò giù senza lagnanze. È zio Ernesto a rompere il silenzio. «Sono felice di averti qui, Giulia, anche se mi dispiace rivederti in que-sta circostanza così triste.»

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Le medesime parole dette da Paolo. Mi prende un attacco di tosse, il brodo è andato di traverso. «Non è niente zio, non preoccuparti, è tutto a posto.» Paolo e il suo vestito grigio. Paolo e la sua camicia bianca. Paolo e i suoi riccioli scuri. Paolo e il suo profumo. Non so cosa sia successo do-po la mia partenza. Non so nemmeno dove abita, magari nella stessa casa che doveva essere nostra, con gli stessi mobili scelti insieme. Sa-remmo potuti essere felici, o forse sarebbe stata soltanto una questione di tempo. La vita è imprevedibile, non ha alcun senso fare progetti, so-prattutto con la morte in giro. Già, perché mia madre non c’è più, è questa la realtà e non riesco ancora a farmene una ragione, la perdita è sconfinata. Un figlio mette sempre in conto di sopravvivere ai propri genitori, ma cinquantaquattro anni sono davvero pochi. Ho ritenuto l’esistenza di mia madre cosa scontata, basandomi sul parametro dell’età media, niente di più fuorviante. Mi viene in mente Trilussa e le sue statistiche ingannevoli: ci tocca un pollo a testa e quelli che digiu-nano, vengono compensati da chi ne mangia due. La vecchietta che ha cent’anni ne ha rubati venti a mia madre e purtroppo non c’è alcun re-clamo da inoltrare, così va la vita. I sensi di colpa mi sconquassano, perché sono passati quasi tre anni dall’ultima volta che l’ho vista viva, l’ho letteralmente abbandonata, lasciata sola. Credevo di potermi pren-dere del tempo, poi sarei tornata. Avevo bisogno sparire per un po’ e dimenticare, invece ho finito per aggiungere tre lunghi anni alla perdita già così smisurata. Ho capito a mie spese che niente è scontato nella vi-ta, ogni giorno dovrebbe essere affrontato come un dono, ogni istante come fosse l’ultimo. Ricordo la lunga malattia di mia nonna, aveva i mesi contati, lo sapevamo tutti, forse pure lei. Giaceva sul letto con gli occhi costantemente chiusi. Ogni volta che salivo nella sua stanza pre-gavo Dio di trovarla ancora viva. Rivedo le sue mani rugose e distorte per l’artrite, sono le mani che più di ogni parte del corpo rivelano l’età. Lei aveva sempre una carezza per me, seppure ridotta in quello stato pietoso. Faticava a parlare, io le raccontavo della scuola, dei miei po-meriggi con le amiche, le stringevo la mano rattrappita per comunicarle la mia presenza e lei ricambiava la stretta. Ogni volta poteva essere l’ultima. Ero solo una ragazzina, avevo davanti agli occhi la fugacità dell’esistenza, eppure non ho capito la lezione. Nemmeno quando è morto mio padre, in un incidente di lavoro in Belgio. Stavolta è diverso, mia madre è morta e io non ero accanto a lei. Mi accorgo solo ora che la minestra è finita, non saprei nemmeno dire che sapore avesse.

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non voglio annegare dentro i suoi occhi scuri Sono in centro, cammino distrattamente per il Corso quando sento chiamare il mio nome. «Giulia.» La sua voce. Paolo è appena dietro di me. Mi sento mancare, ma conti-nuo a camminare. Non voglio vederlo. Un fiume di gente mi passa vi-cino, vorrei lasciarmi trascinare dalla corrente umana, mescolarmi tra quelle persone sconosciute. «Giulia.» Di nuovo la sua voce che mi chiama. «Che cosa vuoi da me? Non abbiamo niente da dirci» rispondo seccata. Non voglio parlargli, non mi fermo e nemmeno mi giro mentre rispon-do. Mi fa stare male solo sapere che è dietro di me a quaranta centimetri di distanza. «Giulia, ti prego, fermati un momento.» Non voglio perdermi nel suo sguardo e annegare dentro i suoi occhi scuri, non voglio sentire il suo maledetto profumo. Accelero l’andatura, lui mi sorpassa velocemente e si piazza davanti, bloccandomi la strada. «Voglio parlarti. Non puoi scappare sempre.» Forse ha ragione, è ora di chiarire le cose, una volta per tutte. Alzo lo sguardo e lo fisso negli occhi. «Cosa vuoi?» «Se torni con me, io la lascio. All’istante.» Mi prende le mani tra le sue. Quel contatto caldo mi dà un fremito di piacere. Vorrei abbracciarlo, baciarlo tutto, sentirmelo addosso. È solo un attimo, perché sento una voce uscire dalla mia bocca e dire: «Vattene, non farti più vedere.» «Dimmi almeno se hai un altro uomo, sarebbe più facile per me dimen-ticare…» Non gli lascio nemmeno finire la frase, mi allontano facendo zig-zag tra la folla e dopo pochi metri comincio a correre disperata. Mi confondo tra la gente anonima che affolla Corso Vannucci, mi infilo in una tra-versa laterale per poi appiattirmi dentro la vetrina di un negozio di ab-bigliamento. Aspetto qualche minuto, lui non arriva, voglio assicurarmi di non essere seguita. Riprendo fiato e mi avvio a passo svelto verso via Oberdan, con il cuore impazzito e lo stomaco in subbuglio, cammino

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senza meta, ho lo sguardo fisso nelle vetrine dei negozi ma guardo sen-za vedere. Scendo le scalette di S. Ercolano, arrivo ai Tre Archi per poi bloccarmi di colpo. Paolo è di nuovo davanti a me. Non so come abbia fatto a precedermi. «Giulia, ti prego, ascoltami.» «Non tormentarmi, è finita.» Corro via gridandogli dietro: «Lasciami in pace.» Il cuore mi batte forte per l’agitazione, avverto un dolore al petto. Cer-co di attraversare la strada per mettere qualche metro di asfalto tra me e lui, come se una volta dall’altra parte potessi considerarmi salva, ma non mi riesce, il traffico è serrato. Continuo a camminare. Quando guardo indietro, Paolo è sparito. Sono disorientata, non so dove sia fini-to, non mi resta che tornare in centro attraversando la Rocca Paolina, austera fortezza del millecinquecento. Prendo le scale mobili inserite nel suo interno, che permettono la risalita rapida alla quota del centro città. Un mendicante bambino, al tunnel di entrata, attira la mia atten-zione, ha gli occhi tristi, lo sguardo spento, un po’ di muco gli cola dal naso sporco. Magari è solo un trucco preparato, ma affondo lo stesso la mano nella tasca dei jeans scoloriti per cercare qualche spicciolo, gli allungo una moneta da cinquanta centesimi. Salgo le due rampe mobili, mi guardo intorno, avevo dimenticato quanto fosse bello qui dentro, un accostamento tra antico e moderno davvero singolare. Sono dentro la fortezza, le mura massicce, l’illuminazione soffusa, il forte odore di umido, riescono a trasportarmi indietro nel tempo di centinaia di anni. Sono sudata per la corsa e l’agitazione e qui è molto fresco, avverto brividi di freddo. C’è solo il suono dei miei passi a rimbombare sul la-stricato antico. Mi rilasso con un lungo sospiro, per tranquillizzarmi e riportare i battiti alla frequenza normale, mi avvio lentamente verso l’uscita. Non mi accorgo che Paolo è di nuovo dietro di me e con un balzo mi è addosso. Mi spinge con prepotenza dentro una delle stanze non protette dalle inferriate, mi blocca le mani dietro la schiena, infila la sua gamba a forza tra le mie. Cerco di divincolarmi senza riuscirci, vorrei urlare ma sono completamente impotente, lui intanto preme la sua bocca sulla mia. Il suo sapore mi inebria, non l’ho scordato. L’odore della sua pelle è forte, profumo misto a sudore, il suo corpo è schiacciato addosso al mio. Sento la sua mano che si insinua sotto la corta camicia bianca a cercare la mia schiena, avverto il suo fiato caldo a contatto con il mio orecchio. «Dimmi che mi ami, dimmi che non mi hai dimenticato.»

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«Lasciami, mi fai male.» Allenta la stretta, senza liberare le mie mani. Sono ancora sotto scacco. Ora mi sussurra parole dolci in un orecchio. «Ti amo, Giulia.» «Vattene, ti scongiuro.» Sto per mettermi a piangere, sono debole di fronte a lui. Vorrei lottare per liberarmi e nello stesso tempo rimanere eternamente prigioniera del mio carnefice. Se mi abbraccia ancora, non so davvero come andrà a finire. «Giulia, niente è perduto, siamo ancora in tempo per ricominciare.» Le mie mani adesso sono libere, ha lasciato la stretta. Mi abbraccia e mi bacia ancora e ancora, sul viso, sul collo, dolcemente. Io ricambio con ardore il suo abbraccio e i suoi baci. Il brivido che passa nella mia schiena in questo istante, l’ho sognato per tre lunghissimi anni. «Vattene, ti prego, non torturarmi. È finita, devi crederci» gli dico ri-prendendo il controllo. «No, non è finita, tu mi ami ancora, non sei capace di fingere.» «Vattene.» Mi afferra un braccio, mi sta facendo di nuovo male. «Lasciami!» grido. La mia voce attira l’attenzione di alcune persone, un uomo entra nel mio campo visivo e chiede se ho bisogno di aiuto, Paolo è costretto a lasciarmi andare, sparisce di colpo, così come era apparso. Appoggio la schiena al muro, percepisco il freddo della pietra attraverso la sottile camicia di cotone garzato. Una volta fuori, il sole mi acceca, i miei oc-chi abituati all’oscurità della fortezza, faticano a rimanere aperti. Mi in-filo gli occhiali scuri, apprezzo quell’aria rovente che cancella il freddo dal mio corpo. È quasi mezzogiorno, mi avvicino alla fermata degli au-tobus per controllare gli orari. Quando rientro a casa, sono ancora scon-volta e per eludere lo sguardo indagatore di zia Bice mi infilo nel ba-gno. Il turbamento dell’incontro con Paolo è troppo forte, mi ha raggi-rato con un bacio e io l’ho lasciato fare, ma l’importante è non cedere ancora. Quel capitolo è chiuso per me, a maggior ragione dopo che lui l’anno scorso si è sposato, l’ho saputo da mia madre. Lei ha usato tutta la delicatezza del mondo per darmi la notizia, ma io in quel momento sarei voluta morire.

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ho detto a mia madre che avrei messo dei fiori di plasticasulla sua tomba

Avevo il biglietto di ritorno già prenotato ma non ce l’ho fatta a riparti-re. Al cimitero il cemento è ancora fresco, sulla tomba di mia madre non hanno ancora murato la lapide con il nome. È stata zia Bice a occu-parsi dei dettagli, non me la sono sentita di andare all’agenzia di pompe funebri. Mi sono limitata a scegliere la foto, il volto che rimarrà per sempre legato al suo nome, accanto ai caratteri di ottone brunito. Marta Fabianelli, vedova Mariani. N. 6-11-1955, M. 22-05-2009. La fotogra-fia da me scelta risale a qualche anno fa, una gita a Firenze. Andammo in treno, noi due sole, una Domenica che Paolo era fuori per lavoro. Che bei ricordi, pranzammo al sacco al giardino di Boboli ed è lì che l’ho immortalata, sorridente, seduta a gambe incrociate con un panino al prosciutto in mano. Ho chiamato la mia agenzia per informarli che starò via ancora qualche giorno. Lavoro per la Translation Services H.C. come traduttrice. I miei colleghi sono stati gentili e premurosi, so-prattutto Nick. Mi ha risposto lui al telefono, mi ha fatto le condoglian-ze a nome di tutti, l’ho sentito vicino in questo momento di grande do-lore. Il mio primo anno di permanenza a NYC è stato difficile e solo grazie alle amicizie di lavoro sono riuscita a scrollarmi di dosso quella faccia da cane bastonato. Oggi non sono uscita di casa, a parte la visita al cimitero insieme a zio Ernesto. Volevo comprare delle rose fresche, al chiosco dell’ingresso ma lui mi ha convinto che non era una buona idea. Ce ne sono già tante, mi ha detto. Anni fa, in uno scatto di rabbia, dissi a mia madre che avrei messo fiori di plastica sulla sua tomba, per evitare la scomodità di cam-biarli. Sono amareggiata per questa idiozia, non può averci creduto, me lo auguro con tutto il cuore. Noi figli diciamo spesso cose orribili ai ge-nitori, per sfogare la rabbia che ci opprime, e anche se in quei momenti vogliamo intenzionalmente ferirli, le nostre esternazioni non dovrebbe-ro essere prese sul serio. Ho pregato in silenzio, davanti alla sua tomba. Se ogni giorno focalizzassimo il pensiero sulla sorte che ci aspetta, fini-re rinchiusi dentro a una scatola di legno e infilati orizzontalmente in un buco di cemento, non riusciremmo più a vivere. È l’istinto di sopravvi-venza che provvede a cancellare sistematicamente la morte dal nostro cervello. Zio Ernesto è tanto caro, non ricordavo fosse così piacevole la

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sua compagnia. Abbiamo parlato a lungo, mentre passeggiavamo nei vialetti tra le tombe. Ho approfittato per far visita a mio padre e a mia nonna, madre di mia madre. Sulla tomba di mia nonna ho infilato una rosa rossa rubata tra quelle di mia madre. Non abbiamo la cappella di famiglia, mia madre ha sempre scartato l’idea. La salma di mio padre è tumulata nella parte nuova del cimitero, in un loculo che venne scelto tra quelli liberi al momento. Abbiamo fatto così anche per lei. I nostri cari sono sparsi qua è la ed è bello così, mi piace doverli rintracciare fra le tante tombe, perché sono indotta a pensarli e farli rivivere ogni volta, sebbene per pochi attimi. Durante il tragitto ho anche la possibilità di scorgere vecchi o nuovi nomi che altrimenti lascerei nel dimenticatoio. Zio Ernesto mi ha raccontato cose bellissime di mia madre, rievocando fatti a me sconosciuti. Le uscite a quattro, Ernesto, Bice, Marta e Vito, le vacanze al mare in Versilia, quando io e Matteo eravamo piccoli. «Marta era una persona speciale.» Mio zio ha sessant’anni, ma dentro è più giovane di me. È stato come conoscerlo per la prima volta, mi ha fatto discorsi da padre, anzi a dir la verità con mio padre non ho mai fatto quei ragionamenti. Forse imma-ginava di avere davanti suo figlio Matteo. «Perché non torni in Italia? È davvero necessario vivere all’estero? Con l’esperienza che hai fatto in questi tre anni, potresti facilmente trovare lavoro qui.» Come faccio a spiegargli che qui a Perugia non c’è più posto per me? Ho abbandonato la scena e così hanno cancellato la mia parte dal co-pione, non sono più prevista dalla sceneggiatura. Deve essersi accorto della mia faccia afflitta perché mi ha suggerito di fermarmi in centro. «Perché non ti distrai un po’ e vai a fare un giro con i tuoi amici?» Gli ho risposto di no. Ho preferito rientrare, la paura di incontrare Paolo è ancora troppo forte. Non riesco togliermi dalla mente il suo sguardo folle e il suo comportamento sconsiderato. Se mi amava così tanto, per-ché non è venuto a riprendermi? Nessuna distanza è incolmabile per l’amore. Quante volte ho sognato di trovarmelo davanti all’uscita dell’agenzia dove lavoravo, quante volte ho scrutato l’orizzonte nella speranza di vederlo comparire. Se mi avesse rincorso fino a New York magari avrei potuto ripensarci anche se in verità non potrei dire cosa sarebbe successo. Certo è che le emozioni delle ultime ore sono davve-ro troppe, non sono in grado di sostenere questi situazioni stressanti, voglio stendermi sul letto, riposare a occhi chiusi, sgombrare la mente dai cupi pensieri. Una volta a casa provo ad aprire il mio PC e lavorare un po’, ma non riesco a combinare nulla, continuo a fissare il monitor e

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partorire pensieri senza senso. Quando zia Bice rientra dalla spesa, è piuttosto agitata. Mi informa che stanotte qualcuno ha imbrattato il mu-ro posteriore del palazzo con una bomboletta spray, la scritta dice: «Giulia ti amo». Che cosa romantica, mi dico, nessuno ha mai fatto niente del genere per me, vorrei essere io quella Giulia. Mi sono decisa a chiamare Isabel, per salutarla e avere notizie di Merlo Jack, non vor-rei morisse di tristezza. Sono uccelli molto gioiosi, necessitano di cure e compagnia. Isabel mi ha riferito che Jack sta bene, becca il mangime e ogni tanto dice il mio nome. «Giu-u-lia, Giu-u-lia.» Mi ha anche rac-contato che Graciela, sua figlia, è entusiasta di avere il merlo in casa e con riluttanza si stacca dalla gabbietta. Lo rimpinza di spicchi di mela e sta tentando di insegnargli il saluto spagnolo «Hola». Mi fa ridere que-sta cosa, perché Graciela ha solo tre anni e sono convinta che il vocabo-lario di Merlo Jack sia più ricco di quello di una bambina della sua età. Ho comprato Merlo Jack un mese dopo il mio arrivo a New York, in un negozio di animali vicino casa. Il suo piumaggio è nero lucente, ha un becco color arancio vivo e due macchiette gialle appena sotto gli occhi. È stato il mio primo amico negli States. Mi sentivo sola, il silenzio della stanza mi spaventava. Pensai di prendere un animale tranquillo e senza grandi esigenze. Entrai nel negozio decisa a comprare tartarughe e uscii con una gabbia in mano. Non sapevo nulla di uccelli a parte il fatto che mangiano semi. Per la sua alimentazione mi sono documentata su Internet. Il tizio che me l’ha venduto mi ha raccomandato di fare atten-zione alle parole dette in casa, perché i merli indiani imparano presto quanto viene detto e difficilmente lo dimenticano. «Perfetto, cominciamo subito.» Tra le prime cose che ho cercato di insegnargli c’è stato «Fanculo Pao-lo». È stato il mio passatempo serale per intere settimane quando vive-vo nel squallido condominio del ‘Red Rose’. Merlo Jack si è rivelato al di sopra di ogni aspettativa, ha imparato in poco tempo. Ogni volta che lo diceva correttamente, gli allungavo un dolcetto. Un biscotto per ogni vaffanculo. Facile, facilissimo. «Fan-cu-ulo , Pa-a-olo, Fan-cu-ulo» ed ecco che il merlo si è guadagnato il suo biscotto. Alla fine lo diceva spontaneamente, senza alcuna richiesta, come se recitasse una filastroc-ca. Ha capito che mi piace sentirglielo ripetere o forse è solo ghiotto di dolcetti. JohnJohn, il proprietario della casa in cui abito adesso, ha vo-luto dare il suo contributo e gli ha insegnato a dire «Giulia, I love you» così ogni volta che qualcuno dice il mio nome, Merlo Jack aggiunge la dolce frasetta. Davvero delizioso. Merlo Jack parla due lingue anche se il repertorio italiano è quello che va forte: Buongiorno, Buonanotte,

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Ciao, Ciao-mamma, Ciao-Jack, Oh-Nick-sei-tu, No-grazie, Porca-miseria e altri improperi. JohnJohn gli dà i chicchi d’uva porgendoglieli direttamente dalla sua bocca, ma io non lo faccio, ho paura del suo bec-co. Qualche volta però apro la gabbietta e lo faccio uscire. Non vola, si limita a saltellare sulla tavola e se gli allungo un dito ci sale sopra, ag-grappandosi forte con le magre zampette. Non ama gente intorno tan-tomeno il trambusto che ne deriva. Invito spesso amici, vengono volen-tieri a cena per via della cucina italiana. Mi vergogno a dire che ho im-parato a cucinare solo negli States. Riesco a reperire ingredienti di ot-tima qualità, cucino meravigliosamente spaghetti alla carbonara e all’amatriciana, mamma sarebbe stata fiera di me. In quelle occasioni, quando interrogo Merlo Jack per mostrare a tutti le sue prodezze, lui non dice una parola, rimane muto perfino se gli porgo un biscottino. Si limita a guardarmi da sotto in su, piegando la testina di lato. «Dai Jack, per favore, dì qualcosa.» Non c’è niente da fare, da quel becco non esce alcun suono, ma appena la gente se ne va, ecco ritornare di colpo la parlantina. Merlo Jack co-mincia a rifarmi il verso. «Ja-a-ck, ti pre-e-e-go, per-fa-a-vore.» È la prima volta che lo lascio solo, nei pochi viaggi che ho fatto, l’ho portato sempre con me. I merli indiani soffrono di solitudine, proprio come noi umani, mi auguro che Isabel sappia prendersi cura di lui.

non volevo sposarmi con le scarpe sporche di fango Oggi pomeriggio ho visto Cinzia, anzi è stata lei a trovarmi, io non l’ho cercata. Ha aspettato giusto un giorno, poi mi ha stanato, arrivando sen-za preavviso a casa di zia Bice. All’inizio è stata premurosa, mi ha fatto ancora le condoglianze, era molto affezionata a mia madre. «Quando l’ho saputo, ho sofferto tremendamente, ho subito pensato a te che eri lontana.» Mi abbraccia forte, mi sento bene tra le sue braccia carnose. «È stato terribile, saperlo così all’improvviso, in piena notte» dico di rimando. Poi le racconto della telefonata, della fuga precipitosa all’aeroporto, ed ecco affiorare il suo risentimento e venire a galla il veleno accumulato in questi lunghi tre anni. «Anche io l’ho saputo da lei, mi chiamò per chiedermi il tuo numero di

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cellulare ma senza successo perché nessuno di noi lo aveva e ti garanti-sco che questa cosa non mi è andata giù per niente. Ci hai trattato come se non fossimo più degni di essere tuoi amici.» «Lo sai che non è così. Avevo solo bisogno di stare sola.» «Sei sparita come Houdini.» Ha lo stesso taglio di capelli, lo stesso trucco, lo stesso tacco da dieci. È un po’ ingrassata ma non glielo dico, ci tiene tanto alla sua linea, è spesso a dieta. Cinzia è figlia unica, proprio come me. Da bambine era-vamo inseparabili, stesse scuole e stesso banco per tredici anni di fila. Stipulammo un giuramento di sorellanza, impegnandoci a proteggere la nostra amicizia affinché durasse per sempre. Sei la sorella che non ho, ce lo dicevamo a vicenda. Mi guarda dritta negli occhi e mi trapassa con il suo sguardo affilato. «Non potevo lasciarti andar via una seconda volta senza averti parlato.» C’è risentimento in questa affermazione, misto a dispiacere. Quando decisi di mollare tutto non avvisai nessuno, mi limitai a partire e basta. La prima mossa fu cambiare il numero di cellulare, la seconda chiudere la mia mailbox e riaprirne una nuova. Per l’occasione, presi in prestito il cognome di mia nonna materna, ‘giulia.deangelis’ suonava proprio bene. A Cinzia però mandai una cartolina con la statua della Libertà, pregandola di salutarmi tutti e mettendo una raccomandazione: non cer-catemi, mi farò viva io. In verità non li ho mai chiamati. «Ho tante cose da dirti, Giulia, raccontarti tutto quello che è successo e poi Paolo…» Non termina la frase, perché io la tiro per un braccio e la guardo fissa negli occhi. Una rabbia incontrollata sale dentro di me. «Mettiamo subito in chiaro le cose, non mi va di sentire la storia di Pao-lo e Linda, non so nulla di loro e mi va bene così, intesi? Parliamo di altro.» Il timbro della mia voce è salito di qualche tono. «Non capisci che in questo modo ti porterai per sempre Paolo dentro? Devi scrollarti di dosso questa storia, altrimenti non sarai mai libera.» «Parli bene tu, ma che ne sai di quanto ho sofferto e di quanto è pro-fonda la mia ferita?» La porta si è spalancata e Zia Bice è entrata nella stanza, per quanto gridavamo forte. «È tutto a posto, io e Cinzia stavamo discutendo. Ora usciamo.» Siamo andate in centro, ci siamo sedute sulle scalette del Duomo con lo sguardo rivolto vero la fontana ottagonale, proprio come ai vecchi tem-pi, e abbiamo cominciato il secondo round.

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«Non sei cambiata per nulla» dico. «Neanche tu. Sei la solita testarda» risponde lei. «Perché mi tormenti?» ribatto. «Perché ti voglio bene.» Scoppio in singhiozzi violenti e mentre l’abbraccio, anche lei comincia a piangere. «Lo vedi che ho ragione, tu questa cosa qui non la superi se non ne par-li, se la tieni dentro prima o poi esplode, se la covi, va in cancrena» mi dice asciugando le lacrime dal mio viso con le sue mani. «Cosa vuoi sapere, se lo amo ancora? Certo che lo amo, Paolo è tutta la mia vita. Credevo di averlo cancellato e invece non è cambiato nulla, è rimasto tutto maledettamente uguale a tre anni fa. Lo amo eppure lo o-dio per quello che mi ha fatto.» Il disappunto che sento dentro è palpabile, la cattiveria trasfigura il mio viso, sono una bestia ferita e trattengo a stento la mia aggressività. Cin-zia non ha intenzione di mollare. «Perché non mi hai detto che avevi intenzione di partire? Sei una stron-za. L’ho saputo da tua madre, a cose fatte. Non potevo crederci, non sei passata nemmeno a salutarmi. E perché non ti sei fatta viva? Quasi tre anni, Giulia, tre anni! Credevi di potermi liquidare con una cartolina? Grazie tante, comunque. Ho sofferto da morire, ho creduto che per te la nostra amicizia non valesse un fico secco.» L’abbraccio di nuovo, voglio farle sentire quanto mi è mancata. Cerco di spiegarle che la mia decisione è stata improvvisa e non volevo ri-schiare che qualcuno mi facesse cambiare idea. «Tu sola potevi riuscirci.» Mi guarda. Mi scruta attentamente. «Sei pentita di quello che hai fatto?» «No. Ho fatto la cosa giusta» rispondo con convinzione. «Ma tu lo amavi. E se lo ami ancora, come puoi dire questo?» «Mi ha tradito, calpestato brutalmente, non posso perdonarlo. L’amore da solo non basta.» «Anche lui ha sofferto molto, credimi.» «Non quanto me.» «Non gli hai dato modo di spiegarsi né difendersi. Hai rifiutato qualsia-si contatto.» «Si è arreso presto.» «Credeva di averti persa per sempre.» È un dialogo domanda-risposta che ho fatto con me stessa milioni di volte. Conosco le domande e anche le risposte, me le sono date fino alla

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nausea. «Chi ama davvero è capace di perdonare» dice Cinzia. «Perché insisti, serve solo a farmi stare male. Tu lo avresti fatto? Avre-sti perdonato? Dimmi la verità.» «Forse.» Le faccio notare che un forse è tutt’altro che un sì. «Come posso spiegarti quello che ho provato? Mi sono sentita oltrag-giata, ecco come è stato. Hai presente quando hai una scarpa infangata? Devi pulirla perché altrimenti rischi di sporcare anche il vestito. Il fan-go va via facilmente, ma le scarpe da sposa sono troppo bianche perché non rimanga traccia. Non volevo sposarmi con le scarpe sporche di fango.» Mi abbraccia ancora e mi tiene stretta a sé anche se è un caldo pazzesco e siamo tutte sudate. Sono grata al cielo per avermi dato un’amica come lei. «Ho sperato tanto che tu lo perdonassi, anche se in cuor mio sapevo che non l’avresti fatto. Sei una persona troppo orgogliosa per piegarti da-vanti a un affronto di quella portata.» «Mi conosci bene tu.» D’un tratto mi disorienta, con una domanda al limite dell’assurdo. «E com’era il tuo vestito da sposa? Adesso puoi dirmelo.» «Bastarda che sei» le urlo ridendo. Avevamo litigato fino alla morte su questa storia del vestito, perché lei voleva vederlo in anteprima. Sono la tua migliore amica, devi farmi ve-dere questo vestito, non posso aspettare fino al giorno fatidico, non so-no mica lo sposo, solo se lo vede lo sposo porta male, questo mi diceva, come una cantilena. Ero stata irremovibile. «Niente da fare, lo vedrai quando sarà il momento.» Per accontentarla ne avevo inventato uno lì per lì e lo avevo descritto minuziosamente, pregustandomi la sua faccia il giorno delle nozze. Le avevo fatto credere che era rosso. Quel dannato vestito lei non lo ha mai visto, nessuno lo ha mai visto a parte me e mia madre, non so nemmeno che fine abbia fatto. Quando le chiedo come va con il suo Gianni, lei dice bene e abbassa gli occhi. È quasi dispiaciuta per essere stata più fortunata di me.

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quando sei davanti alla morte, ti tieni stretta la vita Quando sei davanti alla morte, ti tieni stretta la vita, anche dovendola cambiare con quella del primo sconosciuto che passa, poiché qualsiasi cosa è meglio del nulla. In quella chiesa piena di gente sconosciuta, mentre fissavo la bara di cedro con dentro il corpo di mia madre, ho ringraziato Dio per essere viva, anche se tremendamente sola e senza Paolo. Quante volte ci ho rimuginato sopra, quante ore ho speso nel pensiero della morte! Davvero finisce tutto quando si esala l’ultimo re-spiro o avremo una seconda possibilità? Da bambini è tutto più sempli-ce, gli adulti riescono a liquidare brillantemente la spinosa faccenda in quattro parole: è-andata-in-cielo. Nel mio immaginario di bambina, mi figuravo i morti vestiti di bianco fluttuare sopra la mia testa, alla stre-gua di nuvole spostate dal vento e il perché non si vedessero da terra era facilmente spiegabile col dire che i morti volavano alti ben sopra le nuvole. Anche mia nonna dunque era lassù e si aggirava nel cielo az-zurro, in voli plastici da aliante. «Ti vede» diceva mia madre, per con-solare il mio pianto e rendere la perdita meno definitiva. Ora che sono adulta non ho ancora risposte a questi interrogativi. Credo fermamente che la vita non termini su questa terra, ma ho un’altra domanda ad assil-larmi: le anime dei morti possono davvero guardarci vivere, pur senza interferire? Oppure è una fesseria credere che i morti vedano e difenda-no i loro cari ancora viventi? Questo pensiero mi sconvolge a sufficien-za e non ho ancora capito quale sia la chiave di lettura da preferire: ral-legrarsi per essere costantemente vigilati dall’alto o al contrario sentirsi a disagio all’idea di essere spiati. La soluzione perfetta in realtà ce l’ho, i morti dovrebbero interagire con i vivi soltanto se invocati o sollecitati. Lo ammetto, cerco sempre di aggiustare le cose per il mio tornaconto, cosa che mia madre non perdeva occasione di sottolineare. Posso però affermare che qualcosa è cambiato dal momento in cui ho visto la mor-te attraverso gli occhi chiusi di mia madre. Mi sembra di affrontare i giorni in maniera più consapevole, come se non avessi il diritto di spre-carli. Non ho bisogno di ulteriori lezioni, devo impegnarmi affinché il tempo che mi rimane abbia un sapore nuovo. Sei viva, Giulia, ricordalo, a ogni nuovo giorno, questo ripeto a me stessa. Eppure una sera, nel si-lenzio del mio meraviglioso appartamento di New York, confesso di aver valutato la possibilità di farla finita. Dovevo essere pazza o sem-plicemente disperata. Un libro di poesie di Sylvia Plath, trovato nella libreria di JohnJohn, mi aveva fortemente suggestionato. L’angoscia sprigionata da quei versi mi teneva imprigionata dentro una fitta nebbia

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e in quel momento morire mi sembrò più facile del tentare di sopravvi-vere. Fu davvero arduo distogliere la mente dal pensiero della morte. Se solo avessi dirottato il pensiero verso mia madre, sarebbe stato facile cambiare idea, comporre un numero di telefono e dire semplicemente «Mamma, mi sento tanto sola». Lei sarebbe corsa in mio aiuto, come un autentico angelo custode. Mia madre amava la vita, riusciva a trovare il lato buono in ogni cosa. È stata lei a insegnarmi come la vita abbia un valore intrinseco, indipendentemente da come la si adopera. Era solare, bella perfino nella bara, sembrava dormisse. Gli occhi chiusi, il viso composto, i corti capelli che incorniciavano il suo viso. Zia Bice le a-veva messo indosso un completo azzurro cielo, non ricordavo ne avesse uno. Quando è morto mio padre, le cose sono andate diversamente. Per-se la vita mentre lavorava in Belgio, in un incidente di cantiere. La bara era già chiusa quando lo riportarono in Italia. Non esiste nella retina della mia memoria il suo viso con gli occhi spenti e la bocca serrata, di lui per fortuna ho solo immagini vive. Fu comunque un trauma. Due settimane dopo il funerale, decisi di andarmene a Torino, per sei mesi. C’era un Master in traduzione letteraria per l’editoria e mi iscrissi. Non volevo rimanere in quella casa piena di ricordi. Mio padre lavorava all’estero, ma quando tornava, per me era una festa. Non sopportavo l’idea di averlo perso. Me ne vado mamma, le dissi la sera prima della partenza, non avercela con me, non ce la faccio, ho bisogno d’aria. Mi sembrava di impazzire, a quei tempi non c’era ancora Paolo nella mia vita. Lei non ha fatto nulla per tenermi a sé, ha rispettato le mie deci-sioni pur senza approvarle. Mi ha lasciato andare. Quando zia Bice ha saputo della mia partenza per Torino, è andata su tutte le furie e mi ha gridato sei un’ingrata! Aveva ragione, ho abbandonato mia madre quando aveva bisogno di me, in un momento di grande sofferenza. Ho pensato solo a me stessa, il mio egoismo a volte è smisurato. L’istinto di fuggire è illusorio quanto vano, ma a una mente balorda e impulsiva come la mia sembra l’unica via d’uscita, il solo rimedio efficace. Così è stato anche la seconda volta, quando sono scappata a NYC, il posto più lontano che ero riuscita a trovare in quel momento. Se avessi avuto una segnalazione per l’Australia, l’avrei accettata senza pensarci, anzi, con maggiore convinzione. Se penso agli occhi di mia madre pieni di lacri-me, il giorno dell’addio all’aeroporto, mi sento morire. L’ho fatta sof-frire tremendamente e dopo aver conosciuto anch’io la solitudine, ne sono ancora più consapevole. Mia madre non mi ha fatto pesare i miei abbandoni, ha sopportato in stoico silenzio. È doloroso riconoscerlo so-lo ora che è morta. Non posso fare niente per riparare ai miei errori e

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alle mie mancanze se non dire una preghiera per lei e augurarmi che sia in grado di sentirla. Mi è preclusa perfino la possibilità di scappare di nuovo, perché la mia condizione è già quella di nomade senza terra. Oggi sono stata di nuovo al cimitero, per un breve saluto. Al rientro, sono passata nella mia casa di via Stella, per prendere dei vestiti. Non volevo tornarci perché mi fa male entrare in quella casa, ma sono stata costretta. Fa molto caldo in questi giorni, mi occorreva vestiario più leggero di quello che mi sono portata dietro. Qui a Perugia c’è un intero armadio zeppo di vestiti, l’idea era di farmeli spedire dopo aver trovato una sistemazione, in realtà è rimasto tutto qui. Quando ho aperto il por-tone di casa, ho trovato nell’ingresso un mare di piccoli foglietti bian-chi. Non ho capito subito di cosa si trattasse, ho pensato a materiale pubblicitario infilato sotto la porta e ci ho camminato sopra. Poi ho guardato meglio, ne ho raccolto qualcuno. Dicevano tutti la stessa cosa: «Giulia ti amo». Erano scritti di pugno da Paolo, con un pennarello ne-ro e la sua inconfondibile grafia. Li ho calpestati, sparpagliati, presi a calci. Lo odio perché mi tormenta e detesto me stessa per non riuscire a ignorarlo. Dimenticare era la parola d’ordine, credevo di esserci riusci-ta. All’inizio è stata dura, ma con il passare del tempo davvero ho pen-sato di poter guarire. Ora che sono tornata, mi accorgo di quanto sterili siano stati tutti i miei sforzi. Non è cambiato nulla, tutto da rifare, oc-corre una nuova terapia di disintossicazione. Una volta in strada, mi so-no guardata intorno con la paura di vedere sbucare Paolo da qualche parte. Sono rientrata a casa di zia Bice con la sensazione di essere spia-ta e seguita, di certo mi sono inventata tutto, ma ero spaventata e pro-fondamente turbata. Sussulto ogni volta che sento squillare il telefono, temo di sentire i passi di zia Bice sul corridoio che viene nella mia stanza per avvisarmi di una telefonata per me. Alcuni miei amici hanno chiamato e chiesto di me. Non voglio parlare e vedere nessuno. Solo Cinzia ha il mio numero di cellulare, solo con lei voglio parlare. Sono perplessa per il comportamento di Paolo, credevo mi avesse cancellato e sostituito. Penso a Linda, se non l’amava, perché l’ha sposata? Un ba-nale rimpiazzo? Non ci sono i presupposti per una buona riuscita dell’unione, ma non voglio essere io la responsabile della rottura. Mi stupisce la superficialità di Paolo in faccende serie come il matrimonio, io in questi tre anni non sono riuscita a costruirmi un rapporto degno di questo nome, le ferite profonde stentano a guarire. C’è stato Nick, ma è finito in poco tempo. Non si sta insieme a qualcuno per colmare la soli-tudine, c’è il rischio opposto, aumentare la voragine. Cinzia è una vera amica, eppure non le ho rivelato il mio incontro con Paolo perché ora

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lei e Linda sono amiche, non vorrei metterla in difficoltà. È già stata sincera con me una volta con conseguenze disastrose, non posso per-mettere che si ripeta il cataclisma, perché gli attori sono ancora gli stes-si. Mi sono limitata a rispondere alle sue domande. Di mia iniziativa non ho raccontato nulla, ho deciso di tenermi tutto dentro, tanto non è qui la mia vita. Quando me ne andrò, tutto ritornerà a posto, Paolo tor-nerà a non esistere. Lo struzzo insegna. Lo struzzo è il mio maestro. Se nascondo la testa sotto la sabbia non vedo cosa succede intorno e mi illudo che gli altri non possano vedermi. Ecco che compare zia Bice, con gentilezza, cercando le giuste parole, mi informa che dovrei occu-parmi della casa dei miei, sistemare le cose di mia madre. Potrebbe far-lo lei, ha una copia delle chiavi di casa, ma insiste dicendo che sarebbe più opportuno che mi occupassi io delle incombenze. Tutto questo mi infastidisce perché rovina i miei piani di rientro. «Fai pure tu, zia, mi fido di te, fai ciò che ritieni più conveniente.» Cambia discorso e mi informa che sul palazzo adiacente è comparsa la scritta: «Giulia non partire torna con me». I proprietari sono infuriati perché l’intonaco è nuovo di un anno. Me lo dice scrutandomi in volto. In questo quartiere, l’unica Giulia esistente è una bambina di quattro anni. Zia Bice non è una sciocca e d’altronde come potrebbe esserlo, ha lo stesso DNA di mia madre. In pochi sanno come è andata e perché ho rotto con Paolo alla vigilia del mio matrimonio. Non credo che mamma le abbia spifferato il fattaccio, lo chiamo così, tanto per sdrammatizza-re. Sono sempre state unite come sorelle, si dicevano tutto, ma magari questa cosa qui non gliel’ha detta. Sostengo il suo sguardo e con noncu-ranza le dico che dovrebbero fare come a New York City, trovare per i graffitari spazi appositi su cui possano sfogare gli istinti repressi. So da me che il discorso non regge, i graffitari fanno opere d’arte non scritte idiote, ma è la prima cosa che mi è passata per la mente. Mi viene vo-glia di scendere in strada a verificare, ma ormai non ho dubbi, quella Giulia sono io e il capolavoro è di Paolo. Mi balena il pensiero di poter-lo affrontare ma l’attimo dopo ho già cambiato idea. Perché scomodare lo struzzo e farlo uscire allo scoperto giusto per una manciata di ore? È davvero complicato stare qui a Perugia, la mia presenza altera gli equi-libri che si sono ripristinati dopo la mia partenza, sono un’intrusa, non c’è posto per me in questa città. Penso all’aereo che mi porterà all’altro capo del mondo e al momento in cui sarò al sicuro, dentro la fusoliera. Quando saprò di avere l’immensità di un intero oceano tra me e la mia Perugia, solo allora potrò godere di sonni tranquilli.

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New York City

08/06/2009 - 22/06/2009

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a NYC posso facilmente mimetizzarmi come l’insetto stecco o il pesce pietra

Sono di nuovo a New York City, arrivata stasera, con un volo diretto da Roma. Me l’ha pagato la Translation Services H.C. L’America, un altro pianeta. Sono contenta di essere tornata nella città più caotica del mon-do, dove posso facilmente mimetizzarmi in mezzo a otto milioni di abi-tanti, come l’insetto stecco o il pesce pietra, invisibili e fusi con l’ambiente circostante. Ho lasciato per sempre una madre, la mia città, la mia amica Cinzia e lo sguardo insensato di Paolo che mi chiede di tornare con lui. Troppe turbolenze a Perugia, come in alta quota. Non le sopporto, mi fanno venire la nausea. Per di più non sono provvista di cintura di sicurezza, l’ho tranciata di netto quel giorno infame di tre an-ni fa, il sedici di Settembre. Per tutto il viaggio ho cercato disperata-mente di rilassarmi, ma è stato inutile. La faccia di Paolo è stampata a colori nella mia retina, impossibile mandarla via. Sono stanca per il lungo viaggio, voglio andare a dormire su un vero letto. Prendo un taxi e mi faccio portare da Isabel, sulla West 57 Street, nel suo negozietto di cose inutili, per riprendermi il mio merlo. Jack ha subito riconosciuto la mia voce e ha fatto eco alle affettuosità della mia amica che mi abbrac-ciava. «Giu-u-lia, Giu-u-lia.» Isabel mi guarda con occhi carichi di af-fetto. Dice che deve darmi due notizie, una buona e una cattiva. «Prima quella cattiva.» «Ho visto JohnJohn, mi ha detto che rientrerà il mese prossimo, ma non devi preoccuparti, puoi rimanere da lui finché non trovi un’altra siste-mazione. Ha preferito non telefonarti, in questi giorni avevi già tanti pensieri.» Incasso il colpo, in quanto a brutte notizie sono allenata ormai. Mi sono affezionata a quella casa in prestito, pur sapendo di doverla prima o poi lasciare. Sono quasi due anni che ci abito e quando me l’ha lasciata non potevo crederci. È un appartamento stupendo, da mille dollari al mese e io pago solo le spese vive. Sembra una favola, ma è l’assoluta verità. Ora la notizia buona. «La seconda è che ti ho già trovato un nuovo posto, niente vista pano-ramica alla JohnJohn, ma non è poi così male. Per adesso è occupato da una mia amica ma a fine Luglio sarà libero. Quando vuoi, ti porto a ve-derlo.» Ho conosciuta Isabel per caso, due anni fa, in metropolitana. Il vagone era piuttosto affollato, vedo una tipa stramba che si guarda intorno co-me alla ricerca di qualcuno. Quando incrocia i miei occhi sorride, ho la

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sensazione che cerchi proprio me. Si avvicina facendosi strada tra le persone pigiate nel vagone e tira fuori dalla borsa un libro dalla coper-tina verde. Il mio libro. «L’opera galleggiante» di Barth, dimenticato in metropolitana qualche giorno indietro. Ormai dato per perso, avevo già in mente di ricomprarlo perché ero quasi alla fine, sul punto in cui il protagonista si accinge a svelare il motivo del suo mancato suicidio. Mi appassionano i libri in cui i protagonisti si suicidano o tentano di farlo, per una sorta di muta ammirazione, perché io davvero non saprei farlo. Per ringraziarla del gesto cortese, le propongo di andare a prenderci un caffè. Mi racconta di essersi subito accorta del libro dimenticato ma di non aver fatto in tempo ad avvisarmi. L’aveva preso con sé, con l’intento di restituirmelo, si ricordava di avermi visto spesso su quella linea, sono una delle poche persone con in mano libri di carta, non an-cora convertita agli e-book elettronici. Aveva tenuto il libro in borsa, per restituirmelo alla prima occasione. Il suo carattere affabile, la sua innata generosità mi hanno subito colpito. Isabel è una ragazza madre, abbandonata dal suo uomo dopo la rivelazione di una gravidanza e il conseguente rifiuto alla eventualità abortire. Ho conosciuto anche sua figlia Graciela, me ne sono innamorata all’istante e non sono più riusci-ta a mollarle. Adoro i bambini piccoli, Graciela è deliziosa. Le ho per-fino fatto da baby-sitter in due o tre occasioni, ed è stato divertente. Qualche volta esco insieme a loro per andare al parco a giocare. Felipe, il padre di Graciela, è messicano, non l’ho mai visto, lo conosco solo dai racconti di Isabel. Lei non ha alcun rimpianto, anche se essere ra-gazza madre è una condizione difficile, sia dal punto di vista emotivo, sia economico. Afferma con convinzione che sua figlia è la cosa più preziosa della sua vita. Quando mi ha raccontato la sua tormentata vi-cenda, ho traslato la sua storia su di me, fantasticando di essere anche io una ragazza madre. Poteva essere la mia vendetta, fuggire a NYC con il bambino di Paolo nel grembo senza che lui lo sapesse e come nelle so-ap opere più ordinarie, ricomparire dopo qualche anno per rovinargli l’esistenza. Ho anche considerato il fatto di non aver mai sviscerato l’argomento figli con Paolo, probabilmente ci bastavamo l’un l’altro e l’idea di mettere su famiglia era prematura. Non credo sia facile cresce-re un figlio senza padre, quando ho chiesto spiegazioni in merito a Isa-bel, mi ha risposto che per adesso non ha problemi, Graciela è piccola e non si pone la domanda, il padre è un concetto estraneo alla sua esi-stenza, dal momento che non c’è mai stato. Non ha subìto l’abbandono, la sua condizione è immutata dalla nascita. Quando Graciela diventerà grande abbastanza per capire e avrà modo di confrontarsi con gli altri

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bambini, allora Isabel dovrà trovare argomenti convincenti per soddi-sfare le numerose domande che inevitabilmente le saranno rivolte. «Avrò tempo per pensarci» mi ha risposto. È stata molto cara a prendersi cura di Merlo Jack, non avrei saputo a chi lasciarlo. Nick si era reso disponibile, ma ha tre gatti e sarebbe stato problematico lasciare il mio Jack in balia dei suoi felini. «Grazie di tutto» dico, mentre la bacio affettuosamente sulla guancia. Isabel mi guarda con i suoi occhi scuri e profondi, tipici della gente i-spanica. Quando mi chiede com’è andata nella mia Italia, non riesco a trattenere le lacrime. «Lo sapevo che andava a finire così, per questo non volevo chiederti nulla» dice dispiaciuta. «Le volevo bene» le dico asciugandomi gli occhi col dorso della mano. La stanchezza si fa sentire, mi passa davanti agli occhi l’immagine del divano in morbida pelle bianca che mi attende a casa. «Passa a trovarmi» le dico infine. Prendo la gabbietta in una mano, il trolley rosso nell’altra. Fermo un taxi con un cenno di piede. Me ne vado via in silenzio, con gli occhi umidi di lacrime. Non rispondo nemmeno al suo ciao, ci ha già pensato Merlo Jack. «Ci-a-a-o, ci-a-a-o.»

i ricordi si consumano e sbiadiscono inesorabilmente Stanotte ho dormito un sonno agitato. Mi sono svegliata di soprassalto, con i pugni serrati, come dovessi combattere contro il mondo intero. Non riuscivo a riprendere sonno per colpa del martellante pensiero di mia madre. Ho cercato disperatamente di ricordare l’ultima volta che l’ho sentita. Mamma è morta in ospedale la sera del venti, ma aveva già perso conoscenza durante il tragitto in ambulanza. Era mercoledì. Ci eravamo parlate quello stesso giorno, la consuetudine dei giorni dispari, qualche volta ci sentivamo anche di domenica. Non ricordo nulla di particolare di quella telefonata, le solite cose, non mi ha detto di sentirsi male o roba del genere. Ho sondato la mente alla ricerca di ricordi di lei ed è stato come intraprendere un viaggio nella memoria, spingendomi indietro nel tempo per catturare immagini via via più remote. Giuro che funziona. Ho trovato un orsacchiotto di peluche con gli occhi grandi fatti di bottoni. Ricordo che era in una scatola marrone, ho rivisto mia

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madre mentre mi porgeva il pacco, ho ricordato perfino il vestito verde che indossava in quel momento. Avrò avuto sei o sette anni, di certo andavo a scuola. Mi sono concentrata su ricordi ancora più antichi, del-la primissima infanzia, ed eccomi dentro a un grembiulino rosa, alla scuola materna, piango perché mi hanno dato una spinta e sono caduta a terra. Lì a poco arriva mia madre a salvarmi. Parecchie immagini sono confuse, altre nitide ma difficilmente databili. Io e mia madre al circo acrobatico, io e mia madre allo zoo davanti alla gabbia delle tigri. Mi sforzo di trovare un’immagine di lei che sorride. Ecco il giorno della mia laurea, l’abbraccio mentre mi porge un grande mazzo di fiori colo-rati. Una volta ho letto che i ricordi sono come le pagine di un libro, si consumano a forza di richiamarli alla mente in cui vengono gelosamen-te custoditi. Le emozioni sfumano, sbiadiscono, perdono colore, è diffi-cile mantenerle vive. E allora mi domando cosa sia meglio fare, usarli con parsimonia per conservarli intatti o farli rivivere ancora, pagando il caro prezzo di vederli irrimediabilmente deperire. Considero perfino la possibilità di fermare tali pensieri in un quaderno, prima che le imma-gini svaniscano dalla memoria. Ora che mamma non c’è più, i ricordi sono preziosi e più sono datati più acquistano di valore. Mi è sempre piaciuto scrivere, sono fissata con i diari. Dovrebbero esserci ancora di-versi esemplari, conservati da qualche parte in soffitta. Faccio ulteriori tentativi per addormentarmi e alla fine ci riesco perché sobbalzo al trillo della sveglia, puntata alle otto. Rimango ancora un po’ nel letto a rimu-ginare e all’improvviso mi viene un’idea deprimente: non ho più niente che mi leghi a Perugia e all’Italia, non esiste alcun motivo per tornarci. Provo una fitta di dolore, mi sembra di aver fatto un torto alla mia città perché non l’ho salutata come si deve, me ne sono andata via con trop-pa fretta. Se solo avessi avuto questo pensiero appena quarantott’ore fa, avrei potuto spendere meglio gli ultimi minuti nella mia Perugia, fare l’ultima ‘vasca’ in centro, percorrendo l’intero Corso Vannucci da Piazza Italia fino alla Fontana Maggiore, poi giù per via Bartolo fino all’incredibile arco Etrusco. Allungo istintivamente una mano verso il comodino, cerco a tastoni il portachiavi d’argento di mia madre con le chiavi di casa. Lo afferro, accarezzo la coccinella metallica con le ali in rilievo, seguo con le dita la lunga chiave del portoncino blindato. Il mazzo di chiavi è l’unica cosa che ho di lei, qui a NYC. Ho commesso un altro errore, non ho portato via con me niente di suo. Sarebbe bastato poco, un suo libro, la sua agenda di ricette scritte a mano, il suo quadro preferito appeso in corridoio, i guanti di pelle marrone che erano stati prima di mia nonna. Mi conosco, sono troppo impulsiva, non riesco a

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ragionare lucidamente nemmeno quando sono tranquilla, figuriamoci in queste condizioni. Mi alzo controvoglia, decido di prepararmi un caffè. Apro il frigo in cerca del latte, lo trovo miracolosamente pieno di ciba-rie. C’è un biglietto di JohnJohn dentro il frigo, dice «ti ho fatto spesa» e solo ora mi rammento di ciò che ha detto Isabel, lui è stato qui duran-te la mia assenza, non ci siamo incontrati per una manciata di ore. È sempre gentile e premuroso, mi ha comprato anche le fragole, la mia frutta preferita. Poi chiamo Nick, per avvisarlo del mio rientro. È una delle prime persone che ho conosciuto qui a NYC, lavora alla Transla-tion Services H.C., si occupa di amministrazione. Per essere precisi è la prima persona con cui ho parlai una volta sbarcata a NYC, a esclusione del gestore dell’Hotel in cui rimasi la prima notte. Il mattino successi-vo, mi recai subito in agenzia, tra le mani stringevo la lettera di presen-tazione. Pioveva forte e non avevo l’ombrello. Con il mio inglese piut-tosto tremolante per l’emozione, chiesi del direttore. C’era solo Nick nella grande stanza a vetri smerigliati e con lui sostenni il mio primo colloquio. Fu ancora lui a fornirmi il testo per la traduzione di prova. Si dimostrò cordiale fin dal primo momento. La risposta arrivò il giorno stesso, in serata: potevo cominciare. Una volta entrati in confidenza, mi confessò che scelse di proposito un testo facile per la prova, gli avevo fatto pena, sembravo un gattino spelacchiato. Grazie alle sue indicazio-ni trovai in breve tempo una sistemazione conveniente e decorosa sulla 121th. Di quei primi tempi ricordo il senso di smarrimento che provavo ogni volta che scendevo in strada, le vertigini che mi attanagliavano quando alzavo gli occhi verso le punte dei grattacieli che parevano ca-dermi addosso. Portavo sempre in tasca una piantina della città, unico conforto per sopperire all’evidente disorientamento. Passare da una pic-cola città a una metropoli è sconvolgente. A Perugia non c’è palazzo uguale all’altro, ogni scalinata e ogni vicolo è unico, uguale solo a se stesso. A NYC le strade sono tutte uguali, i palazzi si somigliano, gli incroci replicano lo stesso cliché. Quello era il passato, ora il cane ba-stonato è morto, il gattino bagnato ha imparato la lezione. Mi muovo in centro senza problemi, padrona assoluta del reticolato numerato di stra-de in cui, soltanto adesso, mi sembra impossibile perdersi. Nick è stato per me il faro di riferimento dei primi sei mesi a New York, l’ancora cui attaccarsi per non perdersi nella solitudine profonda. Era appena u-scito da una storia amorosa che lo aveva duramente segnato, io ero ri-dotta peggio di lui. L’amore porta sempre complicazioni nella vita, ve-rità sacrosanta, come il fatto che, tra sfigati, si entra subito in sintonia, l’intesa è praticamente immediata. Nei primi tempi per scongiurare la

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solitudine lavoravo in agenzia, arrivavo alle nove e me ne andavo alle cinque. Nick diceva che era il modo migliore per imparare il mestiere, le postazioni elettroniche hanno vocabolari in linea in tutte le lingue e tanto materiale da consultare al bisogno. La domenica, con l’agenzia chiusa era un problema, rimanevo chiusa in casa a fissare il muro scro-stato davanti al piccolo tavolino. Col PC acceso e assolutamente immo-bile per ore, mi abbandonavo a tristi pensieri. Non un rumore o un fiato, c’era un silenzio assoluto intorno, chiunque passando in corridoio a-vrebbe potuto giurare che la casa fosse vuota. Fu un inverno freddo quello del 2006 o almeno per me. Tanta neve e temperature sotto zero per intere settimane. In certi giorni di pioggia, con un tempo che avreb-be scoraggiato chiunque, mi recavo ugualmente in agenzia, pur di non rimanere a lavorare nel mio tristissimo monolocale. Se arrivavo bagnata fradicia, Nick mi offriva una tazza di caffè caldo. Compravo continua-mente ombrelli a due dollari l’uno dagli ambulanti di strada e li dimen-ticavo sistematicamente in metropolitana. Una di quelle mattine grigie e piovose, Nick prese dalla sua borsa un piccolo phon da viaggio che mi porse con un sorriso, invitandomi ad asciugare i miei lunghi capelli. Mi confessò di averlo portato da casa appositamente per me. Abbiamo avu-to una storia, ma è finita presto. Ogni volta che facevo l’amore con lui, pensavo a Paolo per tutto il tempo. Immaginavo lui sotto di me, inven-tavo le sue mani accarezzare la mia schiena, le sue labbra baciare la mia bocca. Un bel giorno decisi che era assurdo continuare quella relazione e decisi di troncare. Nick è una persona intelligente, aveva intuito tutto quanto, prima ancora che cominciassi l’imbarazzante spiegazione. «L’avevo capito dai tuoi occhi, quando alla fine li aprivi. C’ero io da-vanti a te ma il tuo sguardo parlava chiaro, non era me che volevi in quel momento.» Quel rapporto era riuscito a dilatare la mia disperazione. Per qualche tempo provai disagio nell’incontrarlo, ma lui è stato abile a rimettere le cose nel giusto piano. Siamo rimasti amici e in caso di bisogno so di poter contare su di lui. Credo sia innamorato di me, so per certo che non ha ancora trovato una compagna fissa. È più giovane di me di due anni, lo considero un ragazzino, forse per i suoi capelli rossi, le grosse lentiggini, che sembrano macchie di vernice e l’aria da bambino inno-cente. Io ho bisogno di un uomo e se mai dovessi intraprendere una nuova relazione, sarà con una persona capace di prendermi l’anima, come aveva saputo fare Paolo. Non mi serve un surrogato di uomo, non ho bisogno di un sostituto che ne colmi la mancanza. Riconosco quanto le situazioni di infelicità siano eventi chiave della vita, unici momenti

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in cui si impara davvero qualcosa e quando ripenso a quei primi mesi a NYC, il mio cuore si inonda di tenerezza.

nello spazio lasciato vuoto dalle Torri, il cielo si vede bene Oggi sono passata in agenzia per la riconsegna del manoscritto appena terminato. Stavolta non sono stata puntuale ma nessuno ha sollevato o-biezioni. Ho preso un nuovo testo da tradurre, nonostante Tom, addetto alle consegne, mi abbia suggerito di prendermi una piccola pausa. «Sei la nostra traduttrice più fertile e produttiva, puoi prenderti qualche giorno di riposo se credi opportuno staccare un po’. Mi dispiace molto per tua madre, siamo tutti molto addolorati.» Lo ringrazio delle parole di conforto, ma insisto, voglio rimettermi su-bito al lavoro, servirà per distrarmi e poi mi aiuta non pensare o quan-tomeno a pensare di meno. È un ottimo rimedio per tenere la mente oc-cupata ed eludere la produzione di idee dolorose e deprimenti. E poi è una grande emozione cominciare una nuova traduzione, mi calo nel manoscritto come farebbe un attore con il suo nuovo copione. Lo esa-mino qua è là, vado in perlustrazione, leggo qualche pagina, familiariz-zo con lo stile di scrittura, mi documento sul contenuto. Solo dopo una completa visione, seppure sommaria, comincio la traduzione. È un me-todo che ho elaborato personalmente e mi aiuta a rendermi conto di co-sa ho sotto mano, per non sbagliare impostazione o sbagliare la durata presunta dell’attività che io stessa comunico al mio datore di lavoro. L’amore per i libri lo devo a mia madre e alla sua incredibile passione per la lettura. Ricordo le lunghe ore passate nelle librerie del centro, mentre la guardavo aggirarsi tra gli scaffali in cerca del libro giusto. Se aveva già in mente il titolo da acquistare si faceva presto, ma quando diceva andiamo in libreria a cercare un bel libro, le cose per me si met-tevano male, potevamo restarci ore o interi pomeriggi. La sua era una vera e propria ricerca, un po’ come andare a pesca. Quando le chiedevo perché proprio quello, la risposta era sempre diversa: mi piace l’autore, ho letto la trama, ha un bel titolo. Una volta mi disse che aveva compra-to il libro perché le era piaciuta la copertina. L’amore per le lingue lo devo a mio padre Vito, architetto geniale e brillante, sempre in giro per il mondo. Mi piaceva spiarlo quando parlava al telefono in francese o in inglese. Mentre lavorava, lo studio era vietato a chiunque, perfino a mia

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madre, odiava gli intrusi. Mi nascondevo dietro la grande poltrona in pelle e rimanevo ad ascoltare in silenzio le sue conversazioni, per non farmi beccare. Dopo l’università frequentai a Torino un buon corso per traduttori, poi cominciai a studiare per mio conto, lavorando sul con-fronto tra testi originali ed edizioni tradotte. Quando arrivai a NYC, a-vevo già con me l’indirizzo dell’agenzia Translation Services H.C., in-sieme a una lettera di presentazione avuta da un amico di mamma che lavora in SIAE e ha conoscenze editoriali sparse ovunque. Mi fecero fare una prova per valutare le mie competenze. È una prassi comune qui: se sei brava, non hai problemi, se non vali nulla allora sono guai. Mi andò bene al primo colpo. Ricordo quella sera, telefonai a mia ma-dre rompendo ogni indugio. Ero esultante, bisognosa di condividere la gioia con qualcuno, la prima cosa che filava nel verso giusto dopo quei terribili giorni. Ricomincio da qui, pensai. Era il sei di Ottobre. All’inizio mi fecero lavorare su articoli di riviste e saggi brevi, dopo tre mesi avevo già il primo manoscritto tra le mani. Una produzione piutto-sto semplice, ma ce l’ho messa tutta. Tradurre è per me una sfida. Il passaggio da una lingua a un’altra non è sempre facile, bisogna lavorare sodo per far sì che un libro diventi un altro, pur restando il medesimo. Mi rendo conto che possa sembrare un’attività noiosa, senza alcuna in-terazione con il prossimo e il mondo esterno, ma in realtà, se c’è pas-sione, risulta essere un lavoro di grande soddisfazione. È un mestiere da lupi solitari e per una persona come me, in volontario esilio e in cerca di isolamento, è senz’altro il mestiere più adatto. I libri mi hanno già salvato una volta dalla depressione e sono convinta sia la ricetta giusta anche adesso. Con il nuovo manoscritto, mi avvio verso casa. La gior-nata è bella e decido di fare sosta al Central Park. Ci vengo spesso, so-prattutto di domenica, giorno in cui non lavoro mai, per principio. Mia nonna diceva che è giorno del Signore e non va infilato nemmeno l’ago. Io non sono praticante, non vado a Messa però credo in Dio e qualche volta prego, soprattutto quando sono triste o mi sento sola. È una idea confortante sapere che Dio non ha casa né paese e possa essere raggiun-to in mille modi. Central Park è un posto fantastico, una delle poche co-se che invidio ai Newyorkesi. Preferisco la parte Sud e in genere, dopo una breve passeggiata, raggiungo le panchine adiacenti al grande lago e mi metto a leggere il libro di turno. Sembrerà un’assurdità, ma nel tem-po libero leggo libri. Ho in mano libri sia quando lavoro sia quando so-no in pausa. Da quando abito oltre oceano, ho letto molti autori ameri-cani, parecchi libri sono di JohnJohn, altri me li sono acquistati. Ci sono ottime librerie fornite di tutto ciò che offre la nostra editoria, chiara-

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mente in versione inglese, ma riesco a trovare anche testi in lingua ita-liana. Il mio comodino è strapieno di libri, a volte lascio impilati anche quelli già letti senza riporli, mi piace tornare a riaprirli sulle pagine se-gnate a matita, rileggere i passi che mi hanno particolarmente emozio-nato. Oggi c’è parecchia gente in giro, la mia solita panchina per fortu-na è libera. Prendo in mano il voluminoso tomo, è il Moby Dick di Melville. Mi piace il capitano Achab, asociale e scontroso come me. Tenersi alla larga dal Capitano! Mi accorgo tuttavia di essere poco con-centrata, guardo le pagine senza capire ciò che leggo, i miei occhi van-no e vengono sulla stessa riga e insistono sulle stesse frasi. Ritorno per l’ennesima volta a inizio pagina, poi decido di rinunciare alla lettura. Il pensiero di mia madre monopolizza ancora il mio cervello, i tentativi di scacciarlo sono vani. D’un tratto mi alzo e con passo deciso mi dirigo verso la metropolitana, direzione Ground Zero. Sto seguendo un’idea strampalata che mi si è attaccata addosso. Una volta a destinazione, percorro la rampa che conduce al punto più basso del cratere di Ground Zero. È impressionante vedere una spianata così ampia nel bel mezzo di Manhattan, fa venire i brividi. Arrivo fin sotto le lapidi e comincio a visionare il lungo elenco, sono le persone morte nell’attacco alle Torri. Da brivido anche la lunghezza della lista, duemilanovecentosettanta-quattro nomi. Cerco una donna che abbia lo stesso nome di mia madre e la trovo: Marta Stowe. Non ho una tomba su cui pregare qui a New York City. La cosa suona singolare perché se ci penso sono stata po-chissime volte a portare fiori sulla tomba di mio padre, forte della con-vinzione che qualsiasi posto sia giusto per pregare. Qui però e diverso, la lontananza mi schiaccia o forse sono i sensi di colpa che mi devasta-no per la consapevolezza di aver fatto soffrire mia madre senza una precisa ragione. Ground Zero è un cimitero in tutta regola, luogo di grande raccoglimento, con centinaia di candele sempre accese, mazzi di fiori freschi, biglietti, oggetti, lettere sparse a terra. Alzo gli occhi al cielo, perché qui, solo qui, nello spazio lasciato vuoto dalle Torri, il cie-lo si vede bene. Chiederò a Marta Stowe di prestare a mia madre ciò che rimane delle sue ossa. Ho deciso che sarà questa la tomba simbolica di mia madre, verrò qui a pregare per lei.

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JohnJohn e la sua casa, un piccolo assaggio di Paradiso Ho ricevuto una mail di JohnJohn in cui mi informa dell’imminente ri-entro. Mi accingo a preparare le scatole per il trasloco. Comincio dai miei amati libri, non potrei lasciarli qui, sono parte di me. Ognuno di loro ha una storia da raccontare, il momento in cui è stato letto, le pagi-ne sottolineate, i commenti che faccio a lato. Poi verrà il turno dell’abbigliamento, quello invernale può già essere imballato. JohnJohn dice che rientrerà a fine Luglio, ma voglio essere pronta nel caso in cui ricompaia prima del tempo. Si trova a Los Angeles, fa l’aspirante atto-re, attualmente è inserito nel cast di un film, seppure con un parte se-condaria. È così che si comincia, mi ha raccontato un giorno, ricordan-do la sua prima esperienza da comparsa davanti a un piatto di spaghetti alla puttanesca che avevamo cucinato insieme. È un inguaribile ottimi-sta, spera sempre nell’occasione magica, una parte da protagonista. Lo invidio per questa sua capacità di credere nel futuro. Ci siamo cono-sciuti in uno Starbucks Coffee, vicino alla mia precedente abitazione. I nostri sguardi si incrociavano spesso mentre eravamo lì a fare colazio-ne. Io alloggiavo in un condominio poco distante, il monolocale che a-vevo trovato grazie a Nick. Lui invece veniva lì in metropolitana, come seppi in seguito, perché il locale era gestito da alcuni suoi amici. Era-vamo una presenza fissa, i nostri orari coincidevano quasi alla perfezio-ne, a volte capitava di arrivare addirittura nello stesso istante. Mi piace-va quel locale, suscitava in me familiarità e calore, sensazioni che an-davo cercando disperatamente. JohnJohn è alto un metro e novanta, moro, dal fisico asciutto, viso spigoloso, non bello secondo i canoni classici, ma decisamente interessante. Vestito alla moda e con gran gu-sto, abiti di inconfondibile taglio Armani, calamitava facilmente gli sguardi degli avventori, sia uomini che donne. Salutava affabilmente i ragazzi al banco e poi si sistemava in un tavolo d’angolo. Era solito controllare la posta dal suo Apple bianco, sorseggiando caffè alla vani-glia. In un giorno piovoso di primavera c’era il pienone e lui chiese gentilmente di potersi sedere al mio tavolo. Ero sola, come al solito. Una parola tira l’altra e da quel giorno siamo diventati amici. A volte rimanevamo a chiacchierare per ore, di tutto e di niente. Se arrivavo tardi in agenzia era sempre a causa sua. Non è come in Italia dove la colazione si consuma velocemente al bancone, rimanendo addirittura in piedi, qui i locali sono un luogo di ritrovo e con una consumazione di pochi dollari puoi stare seduto tutto il giorno senza che nessuno trovi da ridire. Posso ironicamente dire che la nostra è stata una amicizia reci-

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procamente interessata. A me serviva qualcuno con cui chiacchierare per non sprofondare nella melma. Le mie giornate erano tutte uguali, il giorno precedente identico al successivo se non per le pagine di tradu-zione che si susseguivano una dopo l’altra dentro l’hard disk del mio PC. JohnJohn, invece, è un fanatico dell’Italia, della nostra lingua, della nostra cucina. Conosceva bene Roma, Firenze, Milano, per averci vis-suto diverso tempo. Quando stavamo insieme parlavamo rigorosamente l’italiano. Mi tieni allenato, diceva. Aveva buoni contatti a Cinecittà, sperava di essere scritturato e avere la scusa per trasferirsi in Italia. In trent’anni di vita, ha girato il mondo in lungo e in largo, suo padre è so-cio di un prestigioso studio legale, i soldi per lui non sono un problema. Negli States, come ovunque ormai, quando ci si scambia il numero di cellulare e l’indirizzo di posta elettronica, l’amicizia è sottoscritta. One-stamente, preferisco comunicare con il telefono piuttosto che usare chat. Qui è una mania, per fortuna con me non ci fanno caso, noi italia-ni siamo scusati, ci considerano all’antica. Non sei nemmeno su Face-book, mi aveva bollato così, qualche giorno dopo che ci eravamo cono-sciuti. La verità l’ho confessata solo successivamente, sono a NYC per non farmi trovare ed è un controsenso avere un profilo pubblico quando desideri disperatamente di eclissarti. Molti dei miei amici qui negli Sta-tes credono che De Angelis sia il mio cognome, a causa dell’indirizzo di posta che fornisco, ma non mi prendo nemmeno il disturbo di chiari-re l’equivoco. Durante una delle nostre lunghe conversazioni, ho chie-sto a JohnJohn spiegazioni del suo doppio nome e la storia ha qualcosa di singolare. I suoi nonni si chiamavano entrambi John. Sua madre Vio-let affermò di voler chiamare il nascituro John, in onore del nonno ma-terno. Il marito replicò che se il bambino si fosse chiamato John, era per un evidente omaggio al nonno paterno. Si era generata una disputa al-quanto bizzarra. La risoluzione del conflitto fu obbligata: si accordaro-no per il doppio nome JohnJohn, con due maiuscole per dare ugual peso alle parti, con grande soddisfazione per entrambe le famiglie. Credo di essere l’unica oltre ai suoi genitori a usare il nome completo, mentre per gli amici è soltanto J.J. (geygey). Non è un luogo comune quello che si dice di noi italiani oltreoceano, che siamo antichi e tecnologica-mente arretrati, è la pura verità. Una delle prime domande di JohnJohn è stata se a casa mia facevamo il pane in casa, con il forno a legna. Non sono riuscita a convincerlo di non saper cucinare. «Non ti credo. Io ci sono stato in Italia, saresti l’unica donna italiana a non saper stare dietro ai fornelli.» Combinammo per una cena a casa sua, lui si offrì di comperare la mate-

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ria prima, io avrei preparato un piatto italiano. Presa in trappola, perfino in quella occasione evitai di chiamare mia madre per un aiuto. Lei era una cuoca eccezionale, l’unico aspetto di mia madre che non mi sono mai sentita di contestare per non risultare patetica. Non mi andava di segnare un autogol, era solita accusarmi della mia scarsa predisposizio-ne a tutto ciò che apparteneva all’area domestica: «Non sai nemmeno cuocerti un uovo.» Mi costrinsi a cercare una soluzione alternativa pur di uscire da sola da quell’impiccio, le regole che mi ero imposta parla-vano chiaro, chiedi aiuto a chicchessia, ma non a lei, sarebbe stato am-mettere una sconfitta e non era il caso di umiliarmi. Scaricai da Google una ricetta italiana esportata in tutto il mondo, spaghetti alla carbonara, con tanto di procedimento illustrato, c’era perfino il tipo di padella da usare per soffriggere la pancetta, anche se fino a lì ci sarei arrivata da sola. Mi presentai a casa di JohnJohn armata di ricetta imparata a me-moria ma nascosta nella tasca dei pantaloni. Se andava male, mi sareb-be dispiaciuto, ma me la sarei cavata con sorriso di soddisfazione ac-compagnato da un semplice ‘te l’avevo detto’. In caso contrario avrei ottenuto solo complimenti. Una volta entrata nel suo appartamento, al 57° piano di un grattacielo acciaio e cristallo, restai sbalordita. Oltre al futuribile arredamento hi-tech, mi colpirono le enormi vetrate da cui si potevano quasi toccare le luci della città. Due divani in pelle bianca e-rano orientati verso le finestre, il maxi schermo scendeva dal soffitto su richiesta. Al confronto, la mia casa-camera a pianoterra nel condominio ‘Red Rose’, era paragonabile a una topaia del Bronx. La cucina in ac-ciaio inox era super attrezzata, aveva perfino un frigo apposito per man-tenere ogni vino alla giusta temperatura. JohnJohn chiaramente si di-chiarò esperto enologo. Aveva accuratamente soddisfatto la lista della spesa da me fornita, acquistando ingredienti di qualità superiore e un ottimo vino. Per farla breve, superai brillantemente la prova e non ho ancora capito se furono i miei spaghetti alla carbonara a convincere Jo-hnJohn a lasciarmi il suo appartamento sei mesi dopo, durante la sua lunga trasferta californiana. La sua generosità non ha eguali, il giorno in cui mi chiese se mi sarebbe piaciuto trasferirmi in casa sua, credevo stesse scherzando. Non ho ancora visionato il bilocale che mi ha trovato Isabel, di certo sarà dura passare dalla 57th alla 118th, ma la casa-Paradiso di JohnJohn, non poteva durare per sempre, esattamente come tutte le cose belle.

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non ero pronta per la tua morte mamma, dovevi avvisarmi, ti avrei voluto più bene

Oggi pomeriggio, mentre continuavo l’opera di riempimento delle sca-tole, ho notato a fianco del divano la busta marrone con la posta arriva-ta durante la settimana in cui ero in Italia. Avevo svuotato la cassetta al rientro e poi mi ero dimenticata di visionarla. Dopo aver messo da parte quella indirizzata a JohnJohn, ho notato una busta bianca indirizzata a me. L’ho guardata sgomenta nel riconoscere la calligrafia di mia madre. Ho controllato subito il timbro, risaliva a un mese fa. L’ho presa tra le mani, con la paura che potesse contenere un fantasma. Perché scrivere una lettera e non telefonare? La carta non la usa più nessuno. Leggo la posta elettronica dieci volte al giorno e mia madre ne era al corrente, qualche volta mi scriveva pure lei. Non riuscivo a comprendere il moti-vo dietro la scelta di utilizzare la posta tradizionale. Era la prima volta che comunicava con me in questo modo, a esclusione delle cartoline illustrate scambiate in questi anni. Ero disorientata, avevo la tentazione di rimettere la busta nella cassetta e far finta di non averla vista. L’avevo appoggiata sul tavolino, senza aprirla, tanto non c’era fretta, nessuno avrebbe reclamato la risposta. Avevo continuato a visionare il resto della posta, sto recitando con me stessa. La busta bianca mi fissa-va immobile dal tavolino, stava aspettando me. Quando la prendo tra le mani, osservo oziosamente il francobollo variopinto, tanto per perdere ulteriore tempo. Finalmente mi decido ad aprirla. «Ciao, Giulia, di certo ti starai chiedendo del perché non inviare una mail. È così facile, l’ho fatto tante volte, basta un click. Questa volta non ho voluto farlo di proposito. Non avrei resistito a rimanere incolla-ta davanti al PC aspettando una tua risposta. Devo comunicarti una cosa importante. Ho perfino pensato di venire a dirtelo di persona e ti giuro che verrò presto se non sarai tu stessa a decidere di tornare. Ho optato per carta e penna perché in questo modo non ho possibilità di prevedere quando leggerai questa lettera e quando mi telefonerai, non avrò un discorso preparato per ciò che devo dirti. Ed è proprio questo che voglio, sarà il mio cuore a parlare, in quel momento. Sono felice, Giulia. Voglio che tu prenda parte alla mia gioia. Chiamami ap-pena leggi. Aspetto la tua telefonata. Ti voglio bene, mamma Marta.» Ricevere una lettera da una persona morta, fa fermare il cuore, è molto peggio dell’apertura di un testamento. Oh mamma! Le parole mi escono

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dalla bocca in maniera del tutto involontaria. Merlo Jack prontamente mi rifà il verso: «Oh-ma-a-mma». La rileggo ancora, per ben due volte. Avverto una grande felicità in quelle poche righe, niente di simile ho mai captato durante le nostre telefonate. Una vita stroncata in un mo-mento di grazia, fa ancora più male. Chiedo silenziosamente all’Angelo della Morte del perché portarsi via lei e non me. Avrei accettato volen-tieri di scambiare la mia insignificante vita con la sua. È buio, adesso, la mia figura è in piedi davanti alla vetrata, le luci in casa sono tutte spente. New York è fantastica di notte, il poster ingiallito della mia ca-mera di ragazzina diventa vero sotto i miei occhi. L’immagine che ho davanti alla finestra non è una gigantografia statica, è reale e in fervido movimento. Fisso le luci delle auto giù in strada, cerco con lo sguardo le sagome dei grattacieli familiari. Lo faccio sempre, per imbrogliare il mio cuore e illudermi di avere una terra, un posto in cui stare. Chissà quanti mi invidiano, ma io in questa città mi sento tremendamente sola. Mi sarebbe piaciuto farti vedere NYC, mamma. Ricordi quante volte hai detto ti vengo a trovare e quante volte ti ho risposto cosa vieni a fa-re? Quelle poche volte che ti ho invitato, l’ho fatto senza convinzione e sono certa che è questa la ragione per cui hai rinunciato al viaggio. A-desso, quando finalmente ti eri decisa, qualcuno ha stabilito che era troppo tardi. Cosa volevi dirmi, mamma? Il tuo segreto mi tormenta. Mi stai facendo scontare le pene che ti ho inflitto? Non ho già pagato abba-stanza? Ho trentadue anni ma mi sento vecchia, forse perché i miei oc-chi hanno già visto tante persone lasciare questa terra. Non ero pronta per la tua morte, mamma, dovevi avvisarmi, ti avrei voluto più bene. Ti avrei chiamato più spesso, magari tutti i giorni, proprio come volevi tu. Avrei insistito per farti venire qui, ce la saremmo spassata! Saremmo andate insieme al laghetto del Central Park per scoprire dove vanno a finire le anatre in inverno e dirlo al giovane Holden, in un giorno di pioggia ci saremmo rintanate dentro al Metropolitan a guardare per ore i quadri di Dalí. Saremmo andate a Broadway, a vedere un musical di successo, impossibile annoiarsi qui a NYC! Guardo la luna, penso alla sua faccia nascosta, come quella parte di noi che rimane inconfessabile e inaccessibile agli altri. Per te, mamma, solo per te, avrei fatto l’eccezione. Ti avrei raccontato la mia disperazione di quella maledetta sera, ti avrei svelato ciò che ho serbato nel mio cuore senza farne parola ad alcuno. Io so dove ho sbagliato, mamma, ho creduto che la tua esi-stenza fosse scontata e avrei avuto tutto il tempo e il lusso del rimanda-re, perché ora lo so, è davvero un lusso rimandare al domani. Ho riletto ancora e ancora la tua lettera, il tuo segreto sta diventando una tortura.

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Mi tormenta il tempo che ho perso senza sapere niente di te. Ti volevo come amica, mamma, ma non ho saputo aprirmi. Quante cose avrei po-tuto raccontarti! E invece le nostre telefonate duravano talmente poco, una manciata di secondi per dirci stai bene, sto bene. Se vedessi il mio appartamento qui a NYC! È tutto in ordine, non ho più vestiti accumu-lati sulla sedia e buttati alla rinfusa dove non si capiva quali erano puliti e quali da lavare. Ho imparato a cucinare, sistemo la cucina tutte le se-re, pulisco addirittura i fornelli. Saresti così fiera di me, mamma! Jo-hnJohn ogni tanto mi fa delle visite inaspettate e io voglio fargli trovare tutto a posto, perché lui è un maniaco dell’ordine, proprio come lo eri tu. È la legge del contrappasso, ti ricordi cosa mi dicevi quando ti ar-rabbiavi? Alla fine troverai chi ti mette in riga! Ho preso una decisione, mamma, sarebbe fin troppo facile ignorare e far finta di nulla, tanto tu non ci sei più. Eppure io voglio sapere, scoprire il significato celato die-tro alle tue parole. Non credo di sbagliarmi se affermo che c’è Amore nascosto tra le righe della tua lettera. È forse comparso un uomo sul tuo cammino? Ho deciso, prenoto un volo e torno a casa. Dal mega aero-porto JKF di New York al piccolo scalo di Perugia-Sant’Egidio. Qua-ranta milioni di passeggeri all’anno contro centocinquantamila. Sorrido al pensiero del confronto.

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Perugia

23/06/2009 – 27/07/2009

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di nuovo a casa

Sono a Perugia. Nessuno sa che sono tornata, né zia Bice e tantomeno Cinzia. È stata una decisione improvvisa. Ho sentito l’adrenalina scor-rermi nelle vene nell’attimo in cui l’aereo ha toccato il suolo della mia terra. Niente acciaio e cemento qui, per tutto il lungo volo ho pensato ai campi di grano pronti per la mietitura, le ginestre fiorite, le distese di girasoli dorati che tappezzano le dolci colline umbre. Sto per tornare a casa, nel mio appartamento di Via Stella, stringo la coccinella d’argento nel pugno della mano, il contatto con il metallo mi dà la forza del pro-ponimento. Apro il portone del palazzo, fa un rumore tremendo ma non è una novità, era così anche tre anni fa. Sono quasi contenta che non l’abbiano ancora sistemato, il cigolio è rassicurante. Salgo le scale in preda a un’agitazione non giustificata. L’entusiasmo diventa cocente delusione quando all’aprire del portoncino di casa non trovo l’odore consueto che ricordavo. È una sensazione difficile da spiegare. Quell’odore familiare che mi aspettavo di trovare, è scomparso. Ogni casa ha un proprio odore, la somma dei suoi profumi. Dal cibo cucinato ai prodotti per la pulizia, dal detersivo della lavatrice alla cera dei pa-vimenti. La casa vive, insieme ai suoi abitanti. Le case morte, al contra-rio, hanno tutte lo stesso odore, un fastidioso puzzo di chiuso. Mi acca-scio sul divano del soggiorno come una bambola di pezza, sono a disa-gio, la sensazione è prepotente e non mi abbandona. Mi sento un’estranea nella mia stessa casa, eppure ci ho vissuto per quasi trent’anni. Faccio un giro, apro le finestre, accendo tutte le luci, perfino quella del bagno, vado nella mia camera. L’ho già vista l’altra volta, mamma ha cambiato molte cose da quando me ne sono andata, non ha fatto un santuario della mia stanza ma ci ha giocato a scacchi, muoven-do i mobili come pezzi di una scacchiera immaginaria. Dove era l’armadio ha sistemato il letto, il cassettone è finito sotto la finestra. Ha cambiato posto perfino ai quadri che erano appesi, ha riunito tutte le mie foto incorniciate in un’unica parete e noto con piacere che quelle in cui ero insieme a Paolo sono state tolte. Brava mamma, dieci e lode, di-co ad alta voce. Solo una cosa è rimasta esattamente uguale a tre anni fa, il mazzetto di vischio con il fiocco di raso rosso, appeso a lato della porta. Me ne regalava uno a ogni Natale, era il suo modo per farmi gli auguri, ora l’usanza è stata interrotta. Lo tocco appena, ma è talmente duro e rinsecchito che due foglie cadono a terra. L’associazione con la parola morte è immediata, mi manca l’aria, vado verso la finestra, mi

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sembra di soffocare. Ho un po’ di nausea, ma potrebbe esser fame, non ho mangiato niente a Milano dove ho fatto scalo. Potrei uscire a pren-dermi qualcosa per cena ma non ho voglia. Sono a casa, la mia casa. Non so ancora cosa farne, venderla piuttosto che tenerla. Non ho idea di cosa sarebbe piaciuto a mia madre, non ne abbiamo mai discusso, cre-devamo ci fosse tempo per questi discorsi. Abbiamo parlato sempre po-co io e lei, figuriamoci delle pratiche inerenti l’eredità. Potrei dare la casa in mano a una agenzia e affittarla, per prendere tempo e decidere con più calma. Qui a Perugia ci sono tanti studenti e la posizione è ot-timale, a un passo dall’Università. Non è questo il primo dei miei pen-sieri, c’è la faccenda di mia madre a prendermi corpo e anima, non so bene come muovermi. Non ho intenzione di condividere il motivo del mio rientro, almeno per adesso, intendo usare massima circospezione, ovvero niente domande a zia Bice. Cercare tra le sue cose, ecco cosa mi propongo di fare, anche se scavare nel suo passato è un po’ come pro-fanare la sua tomba. Mi ripugna questa idea, ma nel mio cuore sento che è giusto così, è lei stessa che me lo chiede, lei mi ha arrogato il di-ritto di sapere. Sono stanca, voglio provare a dormire. Mi lego i capelli in una lunga treccia, come facevano le donne di una volta. Ho preso questa abitudine dopo che io e Paolo ci siamo lasciati. A lui piaceva guardare i miei capelli sparsi sul cuscino, se si svegliava prima di me, sentivo le sue mani togliere le ciocche dal mio viso e sistemarle delica-tamente a lato, per evitare di svegliarmi. Godevo da matti a far finta di dormire e immaginare a occhi chiusi il suo viso e i suoi lenti movimen-ti. Per elencare tutte le cose che mi mancano di lui, dovrei star qui fino a giorno inoltrato.

l’indagine prende forma Zia Bice è rimasta esterrefatta quando l’ho informata del mio ritorno. Ho dovuto farlo subito, per battere sul tempo la signora Rosina del pia-no di sotto. È una sua amica e di sicuro l’avrebbe chiamata per infor-marla che l’appartamento ha improvvisamente ripreso vita. Finestre a-perte, rumore di passi, sciacquone tirato e roba del genere. «Credevo di non rivederti più» mi ha detto. Invento che è per via della casa e in fondo non è una bugia, è la scusa ufficiale, decidere cosa farne, venderla o affittarla. Il palazzo è vecchio

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di cent’anni e oltre all’appartamento c’è anche una piccola mansarda al piano superiore, cinquanta metri quadri in tutto. Noi la chiamavamo soffitta, perché era adibita a magazzino e raccoglie le cianfrusaglie di famiglia. Credo ci sia ancora roba appartenuta ai nonni. È stata un’idea di mio padre decidere di acquistarla, apparteneva alla signora Ada dell’appartamento di fianco al nostro. Quando è morta, sua figlia Ceci-lia ce l’ha venduta volentieri. Papà voleva integrarla con il resto dell’appartamento tramite una scala interna, progetto ambizioso e bril-lante che però è rimasto sulla carta. Nonostante le emozioni contrastan-ti, ho dormito bene stanotte. Dopo aver telefonato a mia zia, ho messo la caffettiera sul fornello, per fortuna c’era del caffè nel barattolo. Mi piace l’aroma del caffè che si spande per la cucina, magari riesco a mandare via questo odore di casa morta. Ho fame, non mangio da ieri a pranzo, lo stomaco è in subbuglio e si ribella rumorosamente. In casa è tutto in ordine, il frigorifero è stato svuotato, anche le due belle dracene e la collezione di piante grasse, orgoglio di mia madre, sono sparite. Le succulente diceva lei, piante grasse è un nome improprio. Ci teneva a essere precisa e chiamare ogni cosa col nome specifico. Guardo nella credenza che funzionava da dispensa. C’è solo cibo in scatola e per for-tuna un pacco aperto di biscotti Oro Saiwa, i preferiti di mia madre. Bi-scotti dalla forma essenziale, diceva. Io sono di tutt’altro parere, mi sembrano piuttosto miseri, ricordano le gallette ammuffite dei marinai delle navi coloniali. Sul Pequod, la baleniera del capitano Achab, non mancavano di certo. I miei biscotti preferiti sono i cookies al burro di arachidi, niente di paragonabile al quadratino smerlato. Lo guardo poco convinta, poi lo addento, è ancora commestibile. In pochi minuti finisco mezzo pacchetto, alternando i biscotti a sorsi di caffè. Mi guardo intor-no, qualunque cosa qui dentro evoca il suo ricordo. Il caffè nero, che prendeva rigorosamente senza zucchero nella sua tazzina rossa, i suoi biscotti, la tovaglietta all’americana in bambù. Non riesco ad accettare l’idea che non la rivedrò mai più viva. Decido di giocare anche io a scacchi con i mobili, come ha fatto mia madre con la mia camera, cam-biare la disposizione degli oggetti e far sì che la casa assuma una con-notazione nuova, sarà più facile viverci dentro, fosse anche per pochi giorni. Vorrei riuscire a spezzare quel circolo vizioso che riporta conti-nuamente alla memoria la sua immagine, succede ogni volta che il mio sguardo cade su un oggetto che le è appartenuto. Potrei alleggerire l’arredamento, togliere qualche mobile, applicare quei criteri che vanno oltre l’estetica e la gestione dello spazio. Mi viene in mente il feng shui, l’arte di armonizzare l’ambiente con il campo vitale, me l’ha insegnato

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JohnJohn. Lui è uno fissato con queste stramberie orientali, devo però ammettere che la disposizione dei mobili dentro la sua casa è perfetta, nemmeno papà avrebbe saputo fare di meglio. Decido mentalmente di eliminare la credenza bianca, anche se dovrò trovare qualcuno che mi aiuti a portarla in soffitta. C’è una bella libreria in ciliegio, piena di ot-timi libri, sarebbe bello portarli via con me, ma è un’idea assurda. Spo-sto il divano di fianco alla finestra, strisciandolo faticosamente sul pa-vimento, scambio la posizione di due tappeti, è solo un inizio, ma può andare, la stanza sembra già diversa. È mia intenzione svuotare gli ar-madi e mettere via la roba di mamma, preparerò degli scatoloni e lasce-rò che sia zia Bice a decidere cosa farne. Terrò poche cose per ricordo, magari un maglione o un bel vestito. Mi verso ancora un po’ di caffè ma devo andarci piano, non è lungo come quei beveroni d’oltreoceano. Sono contenta di essere assorbita dall’indagine, sarà un modo per di-strarre la mente dai tristi pensieri. Il PC portatile di mia madre cattura la mia attenzione. Lo accendo. Può essere un’idea cominciare da qui. Pen-so alla sua lettera di carta e alle mail elettroniche che mi ha spedito in questi tre anni. La sua attività di giornalista evidentemente l’aveva sti-molata a tenere il passo con la tecnologia. Mamma era insegnante di greco e latino al liceo classico ma aveva lasciato molto presto il mondo della scuola, preferendo l’attività di saggista per alcune riviste di setto-re. Quando mi chiese l’indirizzo di posta per spedirmi la sua prima mail, rimasi sorpresa. Si era comperata un computer! Mi disse che se-guiva dei corsi per imparare a utilizzarlo correttamente e si era fatta in-stallare una linea ADSL per l’accesso a Internet. Le risposi in maniera sprezzante, era ora che ti aggiornassi, tanto per non darle soddisfazione. Appare la maschera di login per l’immissione della password. Sono fregata. Faccio diversi tentativi per indovinare la parola magica. Provo con i nostri nomi intrecciati alle nostre date di nascita, il nome di mia nonna, le succulente. Niente da fare. Non è poi così facile come si cre-de. Di sicuro ha seguito le regole che le hanno insegnato al corso, mi-nimo otto lettere, con maiuscole e minuscole, almeno un numero e un carattere speciale. Le combinazioni sono infinite, c’è di che sbizzarrirsi. Non mi rimane che spegnere e accusare il colpo. Buca completa con il mondo digitale. Il suo cellulare poteva essere un’altra buona strada, ma è andato perso la notte che l’hanno portata via con l’ambulanza. Me l’ha detto zia Bice, per questo non sapevano il mio numero, non l’aveva scritto in nessuna agenda. Non mi arrendo, bevo un ultimo sorso di caf-fè e decido di trasferirmi in camera di mia madre, ripartire da lì. Apro la tenda di lino grezzo per lasciare entrare la bianca luce del sole. Sopra al

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letto d’ottone, c’è il copriletto azzurro. Lo tolgo immediatamente, evo-ca ricordi troppo dolorosi. Vedo un solo cuscino sul letto matrimoniale. Deve essere stato difficile per mia madre vivere buona parte della sua vita da sola e con una figlia arrabbiata con il mondo intero. Era sola an-che quando mio padre era vivo, l’architetto Vito Mariani non era mai in casa. Pensarla con un nuovo compagno è un’idea cui non riesco ancora ad abituarmi. Un libro rosso ciliegia, ben in vista sul comodino attira la mia attenzione. ‘Sei pezzi facili’ di Richard P. Feynman. Lo guardo in-curiosita, non conosco l’autore. Giro il libro per leggere la quarta coper-tina. Premio Nobel per la fisica 1965. Un libro di fisica sul comodino di mia madre è piuttosto inusuale, anzi decisamente fuori luogo. Lo apro istintivamente e trovo una dedica. Comincia con un aforisma attribuito all’autore stesso. «Se credete di aver capito la teoria dei quanti, vuol dire che non l’avete capita (R. P. Feynman). Giuro che non ti interrogherò in merito al con-tenuto e non pretendo nemmeno che tu lo legga tutto, ma puoi provare a sbirciarlo. Devi però ammettere che il colore della copertina è deli-zioso. Un Amico.» Lo sfoglio velocemente per verificare la presenza di altre annotazioni o biglietti, ma non trovo nulla. Gli altri libri impilati sul comodino sono più consoni al suo genere, ‘Il piacere’ di D’Annunzio, ‘Anna Karenina’ di Tolstoj, ‘Mrs Dalloway’ di Virginia Woolf e una raccolta di poesie di Alda Merini. Qui ti riconosco, mamma, dico ad alta voce. Comincio a frugare nei cassetti, accumulo sul letto parecchio materiale: estratti con-to, bollette e altro, niente di interessante. Mi viene in mente Mario Fer-retti della Unicredit. Il giorno del funerale, mentre mi faceva le condo-glianze, mi sussurrò di passare in filiale per sistemare gli aspetti eco-nomici, devo ricordarmi di contattarlo. Apro l’armadio per vedere i suoi vestiti e cercare qualcosa di familiare che mi faccia davvero sentire a casa. Tutto è in perfetto ordine, le camicie sulle stampelle sono perfino ordinate per colore. C’è una grossa busta di carta, piena di lettere e car-toline. Le controllo rapidamente e infilo tutto in una grossa scatola che ho trovato in casa. Visionerò il materiale con calma, nel pomeriggio. Questa attività mi deprime, odio pensare che quando morirò ci sarà qualcuno che farà lo stesso con le mie cose e carpirà i miei segreti. Mi viene l’idea di fare testamento e chiedere come ultima volontà che tutta la mia roba venga bruciata in un falò, insieme al mio corpo, perché vo-glio essere cremata, l’ho deciso in questo istante. Torno in cucina e ac-

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cendo il mio portatile, per visionare la posta. C’è una mail di Nick. «Quando torni? Sei partita da due giorni e già ci manchi.» È tanto caro ma non voglio che si illuda nei miei confronti, gliel’ho detto a chiare parole, ma lui non molla. Rispondo al saluto e passo avanti. Meg mi in-vita domenica pomeriggio a casa sua per un party in piscina. Che fortu-na essere fuori, ho la scusa per non andare. JohnJohn mi avvisa che non è poi così sicuro di voler tornare, perché abitare a Los Angeles è essen-ziale per rimanere nel giro. Dice anche che forse avrà una piccola parte in un film con Tom Hanks e per il momento posso quasi lasciar cadere l’idea del trasloco. Questa è davvero un’ottima notizia. Per festeggiare addento un altro biscotto, ora mi sembrano addirittura buoni. Devo as-solutamente uscire per la spesa, il frigo è talmente vuoto che sembra uscito dal negozio.

non c’è ascensore nel palazzo, non siamo mica a New York qui Decido di ispezionare la soffitta per verificare spazio disponibile in cui sistemare la mobilia che intendo eliminare. A seguito della nuova di-sposizione, ho bocciato pure la poltrona marrone. Salirà di un piano in-sieme alla credenza bianca per diventare preda di tarli e covo di ragni pelosi. Coltivo anche la remota possibilità di trovare elementi significa-tivi per la mia indagine. Salgo le due rampe di scale, non c’è ascensore nel palazzo, non siamo mica a NYC qui. La soffitta mi piace più dell’appartamento, potrei vendere casa e tenermi la mansarda rendendo-la abitabile e avere un posto dove stare quando ritorno a Perugia. Me la figuro già pavimentata con un caldo parquet e le pareti rivestite in le-gno, stile baita. Il bagnetto è piccolo e la finestra a lucernaio andrebbe ampliata. Bella soluzione, vedrò di ragionarci sopra. Se sono fortunata potrei scovare i disegni di papà, le sue idee erano geniali ma senz’altro troppo eccentriche per un tipo rigoroso come mia madre. Quando arrivo davanti alla porta, ho già scartato il fantasioso progetto, forte dell’osservazione che cavolo ci torno a fare a Perugia. Un profumo di peperonata invade le scale e stuzzica il mio appetito. L’odore dei mani-caretti della signora Rosina è noto agli inquilini del palazzo, peccato non aver mai avuto il piacere dell’assaggio. Giro la chiave ed entro. C’è tanta polvere in giro a far compagnia al disordine. Il primo pensiero è per mia nonna, mi vengono i brividi al pensiero della sua scatola con

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dentro il vestito «da indossare per l’ultimo viaggio». C’era questa dici-tura sopra la scatola, scritta con un pennarello nero e la calligrafia tre-molante tipica degli anziani. Chissà quanto tempo prima l’aveva prepa-rato. Un vestito di seta celeste a fiorellini bianchi era l’abito che si era scelta in anticipo per andare all’altro mondo. Mia madre trovò la scato-la quattro mesi dopo la morte, quando decise di sistemare l’armadio di nonna. Pianse per un giorno intero. L’avevamo seppellita con un vestito grigio. Mi assale la paura di poter trovare anche io una cosa come quel-la, il terrore di dover dire anch’io scusami mamma, non ho visto la sca-tola. Il mio sguardo cade sugli armadi posizionati ai lati della porta. Nel primo trovo giacche, vestiti, roba di mio padre. Non buttava mai niente lei, al contrario di me. Penso sia giunta l’ora di disfarmi di tutti questi vestiti, potrei contattare qualche associazione umanitaria, sono ancora in ottimo stato e potrebbero essere utilizzati. Una pila di pacchi avvolti in carta bianca attira la mia attenzione, so esattamente cosa c’è dentro, lenzuola del corredo di mia madre. Ne andava fiera, voleva che le pren-dessi io. Le avevo risposto che ci avrei pensato su, solo per non mortifi-carla. La verità è che io e Paolo avevamo scelto mobili moderni, non volevamo vecchiume in casa. Apro uno degli incarti e riconosco un lenzuolo color crema, in lino purissimo ormai ingiallito, ricamato fine-mente di giallo. Mamma me lo aveva fatto vedere più volte, era il suo prediletto, non credo sia stato usato, mi auguro non lo abbia tenuto da parte per me. Tocco il ricamo in rilievo, penso alle mani di fata che hanno creato quello straordinario disegno, punto dopo punto, mani or-mai ridotte in cenere. Sul ripiano basso c’è uno scatolone con sopra il mio nome, forse i miei quaderni di bambina o i miei diari. Lo apro con un po’ di emozione. Appaiono le cornici a giorno con le foto mie e di Paolo, quelle tolte dalla mia camera. Parigi, Londra, Vienna, i nostri viaggi, le nostre gite, le speranze spazzate via in una sola notte, il sogno di una vita bruciato in una vampata, come un foglio di giornale nel ca-mino acceso. C’è anche un biglietto. «Non arrabbiarti se ho conservato tutto quanto. Prima di farmi la soli-ta scenata, riflettici un momento. A distanza di anni potresti ringra-ziarmi. E poi con la vita non si sa mai. Mamma.» Non posso farle la scenata, solo perché non c’è più. Sono furiosa, mi dà fastidio vedere quelle foto, avrei preferito fossero state buttate. Se aves-si un accendino tra le mani, appiccherei il fuoco, rischiando di mandar bruciato l’intero palazzo. Mentre fisso la mia figura abbracciata a Paolo

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sulla Plaza Mayor di Madrid, mi sforzo di comprendere il suo punto di vista, Non è facile buttar via foto della propria figlia e poi lei era molto affezionata a Paolo, chissà, magari sperava tornassimo insieme. Penso che potrei raggiungere un compromesso, tagliare a metà le fotografie e buttare solamente Paolo nella spazzatura. La prossima volta che salgo, mi porto dietro un paio di forbici per fare il lavoretto. Lascio perdere lo scatolone e guardo ancora nell’armadio. C’è un cofanetto di cartone giallo e blu, lo riconosco immediatamente, era la scatola delle parteci-pazioni di matrimonio. Di certo mamma avrà deciso di tenersi la scato-la, davvero deliziosa. Sono assolutamente certa del fatto che sia vuota, ho bruciato personalmente tutto nel fuoco del caminetto, acceso per l’occasione. Sollevo il coperchio e scopro delle buste in carta Fabriano con dentro alcuni cartoncini. «Paolo Tommasi e Giulia Mariani annunciano il loro matrimonio. Pe-rugia, Tempietto S. Angelo, Sabato 7 Ottobre 2006, ore 11.» Ho la nausea. Ricordi impietosi mi scuotono violentemente. Lascio tut-to e scappo via, sbattendo con violenza la porta della soffitta.

erano in quattro a saperlo Oggi pomeriggio mi ha chiamato Cinzia. Non le avevo ancora telefona-to eppure sapeva del mio rientro. Ha avuto la notizia in anteprima da zia Bice, incontrata per caso in centro. È furba, lo sa che non ho voglia di vedere i vecchi amici che rivangano la stessa zolla di terra per farne uscire i vermi. «Perché non mi hai fatto sapere che tornavi? Quando tua zia mi ha detto che eri qui a Perugia, quasi non volevo crederci. Sei la solita stronza.» «Ti avrei chiamato oggi stesso, credimi.» «Sì, ma intanto l’ho saputo da altri.» Sottolinea quella parola per enfatizzare la nuova bruciante offesa che le ho fatto. È davvero arrabbiata. Sono mortificata per questo ennesimo torto che le ho inflitto, dispiaciuta per le eventuali conseguenze che ne deriveranno. Non si merita tutto questo, la considero una persona spe-ciale, mi auguro di riuscire a convincerla del mio sentimento sincero. Ci siamo date appuntamento in centro.

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«Perché ce l’hai con me? Sono tua amica, sono stata l’unica ad avere il coraggio di dirti la verità, per questo che ce l’hai con me, vero?» mi ur-la carica di rabbia. In fondo ha ragione, è stata una vera amica. L’unica. Mi ha dato la pos-sibilità di fare retromarcia. Se avessi saputo tutto dopo non so come sa-rebbe andata a finire, me lo sono chiesto tante volte. Se avessi saputo di Linda a matrimonio avvenuto, cosa avrei fatto? Avrei avuto il coraggio di lasciare Paolo ugualmente? Una botta e via in fondo, cosa conta? Io però questa cosa non riesco a mandarla giù e ogni volta che ci penso, loro due nudi, abbracciati dentro al nostro letto in quella che doveva di-ventare la nostra casa, mi sale una rabbia che mi appanna gli occhi. «Non ce l’ho con te, Cinzia, te lo giuro. La decisione di tornare è stata improvvisa, mi ha contattato il notaio. Tu sai quanto ti voglio bene e Paolo è per me storia passata, dimenticala, te lo chiedo per favore, con-sideralo un capitolo chiuso.» Lei non è dello stesso parere e ne vuole parlare. Ancora. «Io invece voglio capire, devo sapere se ho fatto bene a dirtelo, ho ri-schiato di compromettere la nostra amicizia, il nostro patto. Potevo per-derti per sempre. Mi sono lacerata nel dubbio di aver commesso un er-rore a informarti, in fondo avresti potuto non saperlo mai.» Questo mi ha chiesto Cinzia. Lei vuole capire, bella questa. E io? Anch’io vorrei capire, comprendere come ho fatto a invischiarmi in una cosa come questa, dare fiducia a un uomo che mi ha tradito vergogno-samente. La rabbia che mi sale dentro ogni volta che penso a Paolo è incontenibile, spaccherei qualsiasi cosa. Precipitare a terra dopo aver toccato il cielo fa male, è alto il rischio di sfracellarsi e se si rimane vi-vi, i segni rimangono per tutta la vita. «Non lo so» rispondo «non so cosa avrei fatto se lo avessi scoperto a distanza di tempo, ma sono contenta che tu me l’abbia detto, sono felice di non averlo sposato.» «Mi ci è voluta un’intera giornata per prendere quella decisione. Mi sento male a ripensarci. Eravamo in quattro a saperlo, io, Gianni, Sergio e Chiara. È stato Sergio a scoprire il fatto. Dopo essere usciti dalla piz-zeria Giovedì sera, se ben ti ricordi, ci siamo separati. Paolo aveva alza-to un po’ il gomito e Sergio lo ha accompagnato a casa. Marco ha gui-dato la sua Golf, portandogliela fin sotto casa vostra e tu sei tornata con me e Gianni, te lo ricordi? Sergio però non è andato subito a casa e un’ora dopo, quando è ripassato, ha visto la macchina di Linda par-cheggiata sotto casa di Paolo. La luce nel vostro appartamento era acce-sa. La mattina dopo la macchina di Linda era ancora lì. Sergio ha chia-

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mato Gianni e lo ha informato di questa faccenda. Volevamo vederci chiaro e così abbiamo cercato di sapere cosa era successo, poteva anche trattarsi di un terribile equivoco ma dovevamo assolutamente capire come stavano le cose. Gianni è andato da Paolo che ha farfugliato per tutto il tempo senza sbilanciarsi. Io e Chiara siamo andate da Linda e l’abbiamo torchiata fino a farla confessare. Era innamorata di Paolo, lo sapevi anche tu, lo è sempre stata. Lo ha circuito, approfittando delle ridotte capacità di reazione, se posso usare questa frase. Comunque si è comportata da vera carogna. Non riuscivamo a decidere se informarti o meno della faccenda, alla fine abbiamo messo ai voti. Due contro due. Gli uomini sono vigliacchi, lo sai, hanno votato per il silenzio, conside-rando la cosa come un’ultima bravata prima del grande passo. Magari non avevano tutti i torti, Paolo era davvero ubriaco.» «Non abbastanza, però» aggiungo ironica. Cinzia non si lascia abbindolare dal mio commento e continua imper-territa la sua deposizione. «Io e Chiara non abbiamo sentito ragioni, era una questione di principio ed è toccato a me il compito più difficile, cioè informare te. La decisio-ne a quel punto sarebbe stata solo tua. Insomma è andata così. Ci tene-vo a raccontarti i fatti, non hai voluto sapere nemmeno i dettagli.» «A che scopo? Per soffrire ulteriormente? Ma come fai, mi domando, a essere amica di quella troia, dopo quello che mi ha fatto?» «È cambiata, dammi retta, ora è un’altra persona.» «Mi ha preso Paolo e con lui la mia stessa vita.» «Non posso biasimarti se ce l’hai ancora con me, non riesci a perdo-narmi perché in fondo ho contribuito a mandare alla malora la tua vita. A volte credo sia conveniente non sapere.» «No, Cinzia, ti sbagli. Ti sarò grata per tutta la vita per ciò che hai fatto e posso immaginare quanto ti sia costato, è sempre auspicabile conosce-re la verità, anche se può fare tanto male. La menzogna non conviene a nessuno. Se lo avessi sposato, l’ombra del tradimento sarebbe rimasta in mezzo a noi due e riaffiorata continuamente a ogni minima occasio-ne. Non è vita quella, ci sono cose che non si possono cancellare e far finta che non siano mai esistite.» FINE ANTEPRIMACONTINUA...