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DOMENICA 26 GIUGNO 2011/Numero 332 D omenica La di Repubblica le tendenze Un cuore di paglia per l’estate LAURA ASNAGHI e LAURA LAURENZI i sapori Se San Daniele ci lascia lo zampino CORRADO BARBERIS e LICIA GRANELLO l’incontro Anna Marchesini, “La mia risata amara” RODOLFO DI GIAMMARCO cultura Dos Passos nel Luna park d’Oriente JOHN DOS PASSOS e ANTONIO GNOLI l’attualità Sotto l’ombra del faccendiere FILIPPO CECCARELLI e GUIDO CRAINZ VALENTINA DESALVO L a sveglia era alle sei e mezza, annunciata dalla trom- ba rivoluzionaria. Poi ginnastica, colazione, studio. Ma anche falegnameria, fotografia, elettronica, cu- cito, teatro, cinema. Lezioni di materialismo storico e ore di slittino. Lingua unica, il russo. Siamo ad Iva- novo, trecento chilometri a nordest di Mosca, non solo una scuola ma il laboratorio della pedagogia comunista: per- ché se è vero che la rivoluzione divora i suoi figli qui sognò di edu- carli. Mettendo insieme piccoli compagni, di banco, dai cogno- mi celebri. C’erano tre dei figli Mao, quello di Tito e quello di To- gliatti, i figli di Longo, la figlia di Dolores Ibarruri. Ma anche la fu- tura moglie di Markus Wolf, l’uomo senza volto, capo dei servizi segreti della Germania Est, i figli del presidente della Repubblica popolare cinese Liu Shaoqi e quello del segretario del Partito co- munista americano. L’Internazionale dei bambini fu costruita nel 1933, in una città che grazie all’industria tessile riuscì ad avere i soldi per finanzia- re l’impresa del Soccorso Rosso, il Mopr. (segue nelle pagine successive) MIRIAM MAFAI A nche i miei figli sono stati Pionieri. Anzi, mio figlio è stato Pioniere nei due diversi paesi in cui ha vis- suto da bambino: a Parigi, nel circolo di una ban- lieu abitata soprattutto da algerini e italiani, e a Roma, a Monteverde, un quartiere nel quale abi- tavano molti veri comunisti con i figli non battez- zati, esonerati dalla religione e che, naturalmente, non potevano andare in parrocchia a giocare a biliardino. I Pionieri non vesti- vano una divisa, ma portavano, annodato al collo, un fazzoletto rosso con i bordi del colore della rispettiva bandiera: bianco ros- so e blu in Francia, bianco rosso e verde in Italia. Il circolo dei Pionieri a Monteverde era un luogo sicuro, dove si organizzavano gite domenicali e incontri a calcetto, dove c’era una biblioteca ben fornita (molto Jack London, naturalmente) e dove i ragazzi comperavano Il Pioniere, un giornaletto che ebbe come direttore lo straordinario Gianni Rodari, di cui tutti i bam- bini delle elementari ancora oggi leggono con piacere e manda- no a memoria le poesie. (segue nelle pagine successive) spettacoli Il colore, la prima magia del cinema MICHELE SMARGIASSI Compagni di classe I figli di Mao, Tito, Togliatti Tutti a Ivanovo per studiare nella scuola dei Soviet Dagli archivi russi e cinesi le immagini inedite e le storie di un’utopia pedagogica Repubblica Nazionale

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DOMENICA 26GIUGNO 2011/Numero 332

DomenicaLa

di Repubblica

le tendenze

Un cuore di paglia per l’estateLAURA ASNAGHI e LAURA LAURENZI

i sapori

Se San Daniele ci lascia lo zampinoCORRADO BARBERIS e LICIA GRANELLO

l’incontro

Anna Marchesini, “La mia risata amara”RODOLFO DI GIAMMARCO

cultura

Dos Passos nel Luna park d’OrienteJOHN DOS PASSOS e ANTONIO GNOLI

l’attualità

Sotto l’ombra del faccendiereFILIPPO CECCARELLI e GUIDO CRAINZ

VALENTINA DESALVO

La sveglia era alle sei e mezza, annunciata dalla trom-ba rivoluzionaria. Poi ginnastica, colazione, studio.Ma anche falegnameria, fotografia, elettronica, cu-cito, teatro, cinema. Lezioni di materialismo storicoe ore di slittino. Lingua unica, il russo. Siamo ad Iva-novo, trecento chilometri a nordest di Mosca, non

solo una scuola ma il laboratorio della pedagogia comunista: per-ché se è vero che la rivoluzione divora i suoi figli qui sognò di edu-carli. Mettendo insieme piccoli compagni, di banco, dai cogno-mi celebri. C’erano tre dei figli Mao, quello di Tito e quello di To-gliatti, i figli di Longo, la figlia di Dolores Ibarruri. Ma anche la fu-tura moglie di Markus Wolf, l’uomo senza volto, capo dei servizisegreti della Germania Est, i figli del presidente della Repubblicapopolare cinese Liu Shaoqi e quello del segretario del Partito co-munista americano. L’Internazionale dei bambini fu costruita nel 1933, in una cittàche grazie all’industria tessile riuscì ad avere i soldi per finanzia-re l’impresa del Soccorso Rosso, il Mopr.

(segue nelle pagine successive)

MIRIAM MAFAI

Anchei miei figli sono stati Pionieri. Anzi, mio figlioè stato Pioniere nei due diversi paesi in cui ha vis-suto da bambino: a Parigi, nel circolo di una ban-lieu abitata soprattutto da algerini e italiani, e aRoma, a Monteverde, un quartiere nel quale abi-tavano molti veri comunisti con i figli non battez-

zati, esonerati dalla religione e che, naturalmente, non potevanoandare in parrocchia a giocare a biliardino. I Pionieri non vesti-vano una divisa, ma portavano, annodato al collo, un fazzolettorosso con i bordi del colore della rispettiva bandiera: bianco ros-so e blu in Francia, bianco rosso e verde in Italia.

Il circolo dei Pionieri a Monteverde era un luogo sicuro, dovesi organizzavano gite domenicali e incontri a calcetto, dove c’erauna biblioteca ben fornita (molto Jack London, naturalmente) edove i ragazzi comperavano Il Pioniere, un giornaletto che ebbecome direttore lo straordinario Gianni Rodari, di cui tutti i bam-bini delle elementari ancora oggi leggono con piacere e manda-no a memoria le poesie.

(segue nelle pagine successive)

spettacoli

Il colore, la prima magia del cinemaMICHELE SMARGIASSI

Compagnidi classeI figli di Mao, Tito, TogliattiTutti a Ivanovo per studiarenella scuola dei SovietDagli archivi russi e cinesile immagini inedite e le storiedi un’utopia pedagogica

Repubblica Nazionale

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34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 26GIUGNO 2011

la copertinaCompagni di classe

Francesi, italiani, tedeschi, tanti cinesi. Studiavano il russoe giocavano con gli slittini, apprendevano la solidarietàsocialista e l’arte del cucito, leggevano Stalin e BalzacFigli di comunisti, negli Anni Trenta furono mandati dai genitorinella scuola di Ivanovo, vicino a Mosca. Ora le loro storiee quel progetto ambizioso riemergono dagli archivi della rivoluzione

(segue dalla copertina)

Il progetto era ambizioso e più volte fallito inaltre piccole località dell’impero di Stalin:raccogliere i figli dei rivoluzionari comunistisparsi per il mondo, salvarli dalle persecu-zioni fasciste e dalle oppressioni di classe fa-cendoli crescere e studiare in un centro d’ec-

cellenza, dai 6 ai 17 anni, per costruire la futura uma-nità. Una “Oxford sovietica”, macchina educativasenza precedenti. Per il SoccorsoRosso era fondamentale sorve-gliare e proteggere: costruire unascuola quadri per minorenni ditutti i paesi significava prendersicura dei figli e assicurarsi, così, fe-deltà future. Ivanovo diventa unsimbolo. La guerra dei grandi siconfonde con quella dei piccoli, l’i-deologia con l'utopia del bambinonuovo, i tribunali del popolo con lasolidarietà internazionale. Qui i ra-gazzini devono stare in guardia dallespie trotzkiste e dai nemici del popo-lo, ma hanno il tempo per vedere i filmdi Chaplin, leggere Dumas e Balzac,giocare e divertirsi, persino quando laGermania nazista assedia Mosca.

A raccontare un pezzetto di questastoria è un libro appena uscito (Italia eCina, 60 anni tra passato e futuro). Pri-ma, c’era stato il diario di Anita Gallius-si Seniga (I figli del partito, uscito nel1966 con una prefazione di Ignazio Silo-ne), ma a fornire le immagini e i dettaglioggi sono gli archivi russi ecinesi fin qui ineditiin Italia. Che fannorivivere facce e quo-tidianità dei bambinipiù e meno famosi.

Nel corso degli an-ni, a Ivanovo si arrivaspesso con nomi falsi,che restano addossocome una seconda pel-le, e passando per av-venture incredibili:molti cinesi vengonoavvolti in tappeti e im-barcati su aerei impro-babili fino a Mosca men-tre i genitori sono impe-gnati nella Lunga Marcia.Tanti, dalla Francia, dallaSpagna, si muovono intreno, viaggiando, picco-lissimi, soli per l’Europa.Scelti e assistiti dal Moprche deve portarli nella casavoluta dalla presidentessaElena Stassowa, all’epocacompagna esemplare cheaveva lavorato con ClaraZetkin, poi caduta in disgra-zia, rimossa persino dalla fac-ciata della scuola per l’epurazione del 1938 (bastauna frase per far capire che il suo tempo è finito: «Lazia è stata male»). Così la vita s’intreccia e si annoda:fuori ci sono le purghe di Stalin, Hitler invade la Po-lonia, la Francia viene occupata, l’Italia fascista en-tra in guerra, parte l’operazione Barbarossa; dentroi ragazzi ricevono lettere dai loro genitori, esuli,clandestini o combattenti, leggono i giornali delPartito e studiano per accendere il sol dell’avvenire.L’edificio è modernissimo: due piani, uno per i ma-schi e l’altro per le femmine, sessi separati perchéper le promiscuità non si è pronti nemmeno qui. Lamensa sembra una sala da pranzo di un rifugio, tracredenze da salotto, piante e tovaglie senza tempo.Nelle camerate si dorme in otto. Al massimo. Ognu-no ha un comodino, con scorte di prima necessità(zucchero, soprattutto). Ovviamente la nazionalitànon può essere un vincolo per chi si sente cittadinodel mondo socialista, dunque la divisione è sempreper classi d’età. Il russo viene insegnato a tutti concorsi intensivi e collettivi senza passare per la linguad’origine. Nel 1942, ad esempio, l’Internazionaledei bambini ne raccoglie 180 da 29 paesi diversi: cisono persino un senegalese, un iraniano, un giap-ponese. Moltissimi i tedeschi. La maggioranza però

è cinese, tra cui i figli di Mao. Due maschi, avuti dal-la prima moglie, e una femmina, più piccola, dallaseconda. Sono le «pigne» del collegio, come vengo-no chiamati gli eredi delle celebrità rivoluzionarie.Il più grande è Anying, detto Seriozha, destinato adiventare il presidente del Komsomol, devoto al-l’ortodossia. Anche se, secondo alcuni, se ne andòpoi, ancora adolescente, più per i suoi eccessi liber-tini che per combattere le forze della reazione. L’al-tro, il minore, è Anqing, per tutti Kolia. Gioca a scac-chi e suona il mandolino, ha una faccia ispirata ma,già a Ivanovo, mostra qualche problema psichico.Il figlio di Tito, Zàrko, è più vecchio e ha studiato quidalla metà degli anni Trenta. Parte volontario con-tro i tedeschi nel ’42 e Ivanovo, credendolo morto inun’azione di guerra, lo celebra da eroe.

Molta retorica e molta disciplina, nell’educazio-ne dei ragazzi. Pochissime le punizioni, e mai cor-

porali, quando si manifestano (raramente) «i resi-dui del capitalismo»: non dividere con gli altri i cioc-colatini, ad esempio, o diventare prepotenti. Comespiega una testimonianza di allora: «Ci veniva in-culcata la vigilanza rivoluzionaria, era inconcepibi-le per noi non regalare anche agli altri i pacchi che cimandavano i nostri genitori». Ci sono un super-iocollettivista e una sorta di democrazia dal basso maverticistica, ispirata alle strutture dei Pionieri: i pic-coli si riuniscono in assemblee per eleggere i capi-reparto, gli stati maggiori fino agli «organizzatori dimassa», specializzati nel gestire le varie attività.

I vestiti, invece, vengono dati dal collegio, grazieal Partito e a donazioni popolari. Per questo c’è chiindossa maglioncini a collo alto, chi ha il gilè, tantihanno giacche un po’ fuori misura e camicie concolli adulti. Le ragazzine, dopo restrizioni iniziali,possono avere capelli più lunghi, mettono le mol-

lette, le gonne corte a quadretti. A Ivanovo c’è un di-rettore, ci sono maestre, cuochi, insegnanti. Arriva-no dagli stessi paesi dei ragazzi, perché va coltivataanche una cultura locale, in mezzo alle bandiererosse. Ma la mattina si va a lezione con i ragazzi so-vietici, facendo matematica, storia, geografia, nellescuole pubbliche della città. Poi si torna alla “Casadei bambini”. Dove ci sono i laboratori, dalla foto-grafia alla falegnameria, almeno due volte a setti-mana. Si può imparare a costruire un piccolo muli-no o un apparecchio radio, sotto lo sguardo di Sta-lin che vigila senza fine dalle foto alle pareti. C’è, fa-coltativa, l’ora pratica: il cucito, spazio tradizional-mente femminile, che però l’uguaglianza rivolu-zionaria ha difficoltà ad imporre solo alle ragazze.Ci sono campi sportivi, molte proiezioni di film (daiclassici di Eisenstein ai musical americani, ma sen-za saltare la vita di Lenin) e la possibilità di impara-

VALENTINA DESALVO

L’Internazionale dei bambini

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 26GIUGNO 2011

re a cantare o a recitare. I ragazzi puliscono, sparec-chiano, servono in tavola, regolati da turni interni.È un collegio d’élite e il cibo non manca: solo neglianni della guerra (prima nel ’40, poi dal ’41 al ’44) lecose si fanno difficili. Per l’Urss, per tutti: l’assedio,la fame e pane nero. Eppure Ivanovo va avanti. Labiblioteca è uno dei gioielli del centro. Dai libri distoria spesso vengono strappate delle pagine: sonoi manuali del partito bolscevico che, sciagurata-mente, danno spazio a personaggi che all’improv-viso si rivelano «traditori del popolo». Ma ci sono an-che i classici dell’Ottocento (Il Conte di Montecristo,tra i più letti) e non solo quelli di Marx o la Costitu-zione dell’Urss.

Si cresce sapendo che la domenica si chiama«giorno libero» e che le feste sono quelle sovietiche,dall’8 marzo al Primo maggio. C’è chi resta fino a 17anni, chiudendo il ciclo di studi, qualcuno rientra

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MIRIAM MAFAI

(segue dalla copertina)

Il Pioniere pubblicava anche bellissime storie a fumetti, con singolari personaggi: rove-sciando lo schema tradizionale e un po’ razzista del pellerossa selvaggio e del negro violen-to, Rodari sceglieva i suoi eroi tra i diseredati, i poveri, i neri, gli schiavi e ne offriva le storie ai

piccoli lettori del suo giornale. Per quanto io ricordi, però, il protagonista che suscitava il mag-giore entusiasmo (per lo meno tra i Pionieri di Monteverde) era Atomino, il bimbo-motore che,inventato dal bravo professor Plutonio, e dotato di poteri straordinari, riuscirà a fuggire dallemani del terribile dottor H, che voleva usarne l’energia (atomica) per una terribile guerra.

I comunisti (e tra loro anche la sottoscritta) si impegnavano perché i propri figli conoscesse-ro bene la storia del nostro Paese, e anche per questo dunque erano ben contenti quando li ve-devano andare al circolo dei Pionieri, dove c’era sempre qualche vecchio partigiano (all’epocain realtà non tanto vecchio) che gli avrebbe raccontato com’erano andate le cose durante laguerra, al di là della Linea Gotica, o anche nella Roma occupata dai tedeschi.

Ma a un certo punto, naturalmente, il pur glorioso Pioniere non bastava più. Nella bibliote-ca del circolo c’erano molti altri testi che i ragazzi avrebbero potuto (dovuto) leggere utilmen-te. Tra questi ricordo un corposo supplemento del Pioniereche ricostruiva la storia d’Italia, dalRisorgimento alla guerra partigiana, con una attenzione particolare al contributo e agli atti d’e-roismo di cui erano stati protagonisti i più giovani. (Confesso il mio stupore quando vidi ricor-dato in quelle pagine e incluso nella «schiera dei piccoli eroi» anche il genovese Gian BattistaPerasso, detto Balilla, che per anni ci era stato proposto come esempio dal fascismo).

I Pionieri erano in prima fila nelle opere di solidarietà: li ricordo impegnati prima nella rac-colta di fondi e indumenti per gli alluvionati del Polesine e poi, più grandicelli, partire per Fi-renze per ripulire, pazientemente, i libri travolti dal fango dell’Arno. Finita la scuola, i Pionieriche non andavano in campagna dai nonni (all’epoca quasi tutti i bambini avevano dei nonniin campagna) davano una mano, nelle rispettive sezioni per le Feste dell’Unità: preparavanole coccarde, distribuivano volantini, aiutavano ai tavoli. Erano sempre molto occupati, in-somma, e fieri di essere utili al fianco dei loro genitori e fratelli e sorelle, tutti comunisti...

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I piccoli pionieri italianidel maestro Rodari

prima nel suo paese, quando la situa-zione migliora. Altri, invece, conti-nuano ad andarci. Perché Ivanovoesiste ancora. Nel tempo la proprietàè passata alla Croce Rossa, oggi glistudenti sono quasi tutti russi, ma gliex, quelli che sono passati di qua, siincontrano per gli anniversari.Hanno seguito carriere diverse,medici, biologi, attori, avvocati.Nell’ex Ddr, in Bulgaria, in Brasile,in Italia. Qualcuno, come Liu Yu-bin, figlio del presidente del Parti-to comunista, noto fisico nuclea-re, si suicidò, misteriosamente, inCina. Dovevano essere i rivoluzionari di professio-ne del domani. Quasi nessuno lo è diventato.

I LIBRI E LE FONTI

Alcune delle storie raccontate in queste pagine

si trovano nel libro Italia e Cina, 60 anni tra passatoe futuro di Mario Filippo Pini (L’Asino d’oro, 280 pagine,

18 euro). Nel 2000 era stato ripubblicato I figli del partitodi Anita Galliussi Seniga, introduzione di Massimo

Caprara, prefazione di Ignazio Silone (Bietti, 268 pagine,

15,49 euro). Le foto e i documenti sono inediti

e vengono da archivi russi e cinesi

SALA PROIEZIONI

PALESTRE

LE IMMAGINI / 2Lezioni di cucito

a Ivanovo, 1941

Pensate

per le studentesse,

non erano

obbligatorie

Nella foto

di copertina

i due figli di Mao:

da sinistra

Seriozha

(Mao Anying)

e Kolia (Mao

Anqing)

che morì

in un ospedale

psichiatrico

LE IMMAGINI / 1In alto, al centro delle pagine, la falegnameria di Ivanovo,

1935. A lato, studenti cinesi dell’istituto negli anni Quaranta:

al centro, nel cerchio rosso, il figlio più grande di Mao,

Seriozha, che poi morì nella guerra di Corea. A sinistra,

le lettere degli allievi al segretario del Komintern Dimitroff

nel 1942. Qui sopra, Ivanovo oggi: un orfanotrofio

Nell’immagine grande, un manifesto per celebrare la vittoria

di Stalingrado: “Sono orgoglioso!” recita il bambino

la scuola di IvanovoTEATRO

INGRESSO

Repubblica Nazionale

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36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 26GIUGNO 2011

F

l’attualitàStorie d’Italia

FaccendiereIl

Per i suoi interlocutori è uno che “sponsorizza”, “sonda”, “suggerisce”,“intercede”. Ma non solo. È soprattutto colui che possiede lo stomacoper fare ciò che altri non vogliono o non possono fare.Ecco, da Machiavelliai giorni nostri, il mansionario di chi lavora alle spalle della Repubblica

ra il pelo sullo stomaco e le mani in pasta simisurano gli inesorabili tratti, e così italiani,del faccendiere. Parola di nobili e sintomati-che ascendenze (Machiavelli, 1513) messain circolazione per designare una figuraquant’altre mai ricorrente nella penombradella storia, che di solito corrisponde al buioprofondo del potere.

«Uomo di relazioni» si definisce Gigi Bisi-gnani, e non per caso Gianni Letta ha ripetu-to pari pari l’espressione. «Uomo di mondo»avrebbero potuto entrambi dire sciogliendo ilvolto in un lieto sospiro ormai pacificato, per-ché via, insomma, è inutile far finta: «certe cose»qualcuno deve pur farle. Per sé, s’intende, ma piùspesso di quanto si immagini anche per gli altri.

«Amico di tutti», «il più conosciuto che io cono-sca» secondo Letta. «Fa cortesie», «aiuta politica-mente», «aiuta ad aver contatti», «ha rapporti par-ticolari» articola la Prestigiacomo. Utile esercizioricostruire il mansionario di Bisignani attraversole parole rese alla Procura dai suoi più o meno abi-tuali interlocutori. «Sponsorizza persone», «mettein contatto», «ha ottimi rapporti con», «sonda»,«suggerisce» (Masi). «Interviene» (Montezemo-lo). «Ha indubbio potere contrattuale», «presen-ta», «promette interessamento», pure passando lacornetta del telefono (il manager Basile). «Si ado-pera per far avere dei vantaggi», «ha aderenze»,«intercede» (il generale Ragusa). «Può arrivare unpo’ dovunque» (l’onorevole attore e producer Lu-ca Barbareschi).

Ecco, pare tutto questo abbastanza filantropi-co; ma al tempo stesso suona parecchio ambiguo.I due termini, nel faccendiere, non si elidono, maanzi si fondono in un’inconfondibile atmosfera incui l’aiuto confina con la minaccia, la lusinga sfu-ma nel tornaconto e quindi l’esibita premurapuò sempre rivolgersi nel ricatto.

Sarebbe bello poter classificare i faccendie-ri secondo comodi criteri politici, ma non sipuò e non solo perché ne esistono dappertut-to, in tutte le epoche in tutti i partiti e di tutti itipi. Craxi, per dire, aveva architetti anche raffi-nati e abbronzatissimi reduci da Murorua e Cu-racao che gli portavano i quattrini e gli riempivanoil frigorifero di champagne, «che poi Martelli siciucciava» disse poi uno di loro con legittimo ri-sentimento. Così come attorno ad Andreotti gira-

vano tipi anche coloriti e grevi, pure rivali fra loro,uno fu detto dai rivali «l’acquaiolo», veniva dalMsi e poi mercato ittico, finì per mettere su cli-niche e giornali. Così come non riescono a tro-vare pace, nella cronaca giudiziaria, un paiodi venditori e/o comproprietari della rino-mata barca dell’ex gran nocchiero della sini-stra, diciamo. Interessante sarebbe notarecome, sospinti dalle rispettive professiona-lità, i faccendieri si attraggano l’un l’altro, amaggior gloria della specie.

In realtà alle spalle di Bisignani, più anco-ra della storia, c’è probabilmente la naturaumana, con le sue fragilità. In buona sostanza,il faccendiere è colui che possiede il fegato e lostomaco, appunto, per fare ciò che gli altri nonvogliono fare per non sporcarsi le mani. Ma da cui,una volta compiuto, e con le conseguenze anchepiù gravi per la vita pubblica, traggono indubbioanche se provvisorio e rischiosissimo vantaggio.

La letteratura, il teatro, la poesia abbondano diqueste figure. Così, se Calibano, nella Tempesta diShakespeare, può considerarsi un faccendiereprimordiale, tanto selvaggio quanto insidioso eservile, lo stesso Mefistofele del Fausttesse intrighicon sornione cinismo, più di ogni altro consape-vole della posta in gioco e dello scambio che contutta evidenza si stabilisce patteggiando col de-monio.

FILIPPO CECCARELLI

L’uomo che trama nell’ombra‘‘

NICCOLÒ MACHIAVELLI, 1513

Un ambasciatoredebbe su tutto ingegnarsid’acquistar riputazione,e come la si acquisti Quali siano le cosedi chi debbe dar parteal suo signore, e quali d’essefacili e difficili Debbe stringer amiciziaco’ faccendieri delle corti,e perché Come dovràcon essi contenersiL’IMMAGINE

Il disegno

che illustra

queste pagine

è di Riccardo Mannelli

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 26GIUGNO 2011

Il capostipite è uno dei protagonisti del caso Montesi (1953),il marchese Ugo Montagna di San BartolomeoVent’anni dopo si va senz’altro a sbattere sulla figuradi Licio Gelli, avventuriero della variante pseudoesotericanonché attuale presidente onorario della categoria

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Però l’Italia resta un caso un po’ particolare, o sesi vuole un paese pittorescamente e insieme deso-latamente faccendiero. Per restare al passatoprossimo, il capostipite è uno dei protagonisti delcaso Montesi (1953 e seguenti), quel marcheseUgo Montagna di San Bartolomeo, nobile sospet-to e già venditore di tappeti, ex fascista pronto a of-frire proibiti servigi, compresi stupefacenti e bun-ga bunga ante litteram, ai nuovi potenti democri-stiani. Amante del mistero e furfante gentiluomo,scrisse Montanelli che Montagna era «generosocome tutti quelli che pagano di tasca altrui»: e que-sta è il primo segno di riconoscimento del mestie-re. Il secondo, annotato da Gigi Ghirotti, è di natu-ra psicoattitudinale e consiste nel «saper scoprireil debole degli uomini e nel conoscere la maliziadella strizzatina d’occhio».

In questo senso, trascorsi vent’anni, si vasenz’altro a sbattere sulla figura di Licio Gelli, vir-tuoso dell’occhiolino e della telefonata fatta ascol-tare di soppiatto, avventuriero della variante pseu-doesoterica nonché attuale presidente onorariodella categoria. Fin da bambino sembra che il Ve-nerabile si esercitasse a prendere la merendina deicompagni per poi fargliela ritrovare, con il che ot-tenendo la più fiduciosa e malriposta gratitudine.

Con qualche sgomento si può riconoscere cheGelli — che lavorava in coppia con Umberto Orto-lani, donde il nomignolo «Il gatto e la volpe» — fu

sostituito da quelli che nell’Italia sotterranea deglianni Ottanta divennero i suoi successori.

Uno, il sardo Flavio Carboni, aveva addirittural’hobby della prestidigitazione e si appiccicò al po-vero Calvi con tale ardore da presentarsi come «ildottor Penicillina». Con la stessa allegra disponi-bilità, poteva fornire protezione, affari, forme dipecorino, incontri con monsignori e anche altro.L’altro, Francesco Pazienza, che si muoveva conaerei privati e Rolls Royce, faceva immersioni su-bacquee e accompagnava i dc oltreoceano, recò indote al mestieraccio il più scoperto armamentariodello spionaggio, sia pure trovando il suo Tacito inun ruspante imprenditore capitolino, si chiamavaAlvaro Giardili, che così ne tratteggiò il profilo da-vanti a una commissione parlamentare: «France-sco ciaveva un cervello diabbolico, parlava cinqueo sei lingue e se li incartava tutti».

Perché in Italia di solito si ride, si ride, si ride: delpiù surreale dei faccendieri, quell’Igor Marini, pu-re lui pseudo nobile ed ex cadutista del cinema,che tra fantomatici archivi svizzeri e giganteschidiamanti a Singapore s’inventò cose incredibili suTelekom Serbia provando a sporcare questo equello. «Cose da pazzi» direbbe forse Bisignanistrizzando l’occhio furbo e lisciandosi la pelliccet-ta che ogni rispettabile uomo di potere e di rela-zioni si fa crescere attorno allo stomaco.

Tangenti, spie e burattinaila corruzione al potere

GUIDO CRAINZ

«C’era un Paese che si reggeva sull’illecito»: lo scriveva Italo Calvino nel1980, in un fulminante Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti chesegnalava con lucidità un mutamento decisivo. In quei mesi infatti

la tangente Eni-Petromin, lo scandalo dell’Italcasse e altri venivano a confermareun imporsi della corruzione come metodo rivelato già nel 1974 dalle tangenti pe-

trolifere. Quello stesso 1974 in cui era iniziata la parabola discendentedi Michele Sindona, inutilmente contrastata da pressioni politiche

e criminali (con l’aggressione alla Banca d’Italia di Baffi e di Sarci-nelli, e l’assassinio dell’avvocato Ambrosoli). Nel frattempo loscandalo Lockheed aveva coinvolto, oltre a ex ministri, anche fi-gure di mediatori come Antonio e Ovidio Lefebvre. E ancora nel

1980, mentre Craxi faceva aprire in Svizzera il conto “Protezione”,Licio Gelli usciva allo scoperto sulle ospitali pagine del Corriere del-

la Sera. Poco dopo le liste della P2, rinvenute dai giudici Turone e Co-lombo nelle indagini su Sindona, faranno emergere meglio la trama che ha i no-

mi del Banco Ambrosiano di Calvi, dello Ior, della Rizzoli. Ed evocheranno inol-tre sia oscure ombre precedenti o presenti (dalle trame eversive del passato si-no al ruolo dei servizi durante il rapimento Moro o alla strage alla stazione diBologna), sia inaspettate proiezioni nel futuro. Anche a prescindere, natural-mente, dai nomi di Berlusconi o di Cicchitto (che sarà allontanato per alcunianni dal pur comprensivo Psi di allora). Figura in quelle liste, ad esempio, il so-

cialista Teardo, che sarà al centro di uno dei due scandali che nel 1983 fanno giàintravedere — in Liguria, appunto, e a Torino — quella devastazione della vita

pubblica che crescerà negli anni Ottanta sino all’esplosione di Tangento-poli. Esplosione che ha la sua massima espressione nell’affare Enimont,che culmina tragicamente con i suicidi di Gabriele Cagliari e di Raul Gar-dini (preceduti da quello — avvolto in più oscure nebbie — di Sergio Ca-stellari). Fra i condannati al processo Enimont vi è un altro nome già pre-sente nelle liste della P2: Luigi Bisignani.

Un commentatore pur moderato come Sergio Romano osservava allo-ra che gli storici della “prima Repubblica” avrebbero letto gli atti giudiziari

di Mani Pulite come gli storici della Rivoluzione francese leggono i cahiers dedoléances inviati agli Stati generali: affreschi entrambi di due profondissime crisidi regime. Occorrerà comprendere meglio perché — dopo lunga incubazione einascoltati segnali — siano poi riesplosi quei fenomeni giganteschi di corruzionee di distorsione delle istituzioni che le intercettazioni sulla “cricca” hanno ampia-mente rivelato nel febbraio del 2010. Svelando, ad esempio, che la Protezione civi-le, lungi dall’essere strumento dell’emergenza, si era trasformata nello svuota-mento quotidiano della democrazia, completamente privata di norme e control-li: una deformazione che stava per essere istituzionalizzata al livello più alto. Inquell’occasione molti hanno osservato che rispetto agli anni di Tangentopoli il“rubare per sé” appare oggi molto più diffuso del “rubare per il partito”. Osserva-zione sin troppo scontata, dato che i partiti, nella forma di allora, non esistono più:e sciaguratamente questo ha portato talora ad affrontare in proprio, per così dire,i “costi della politica”. Così come ha dato un peso crescente alle cricche e a quelleforme di relazione che le cronache di questi giorni hanno illuminato di luce cruda.Ricordandoci la vecchia intervista di Gelli al Corriere: da piccolo, disse, volevo fareil burattinaio.

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Un americanoa Damasco

ANTONIO GNOLI

Aveva venticinque anni John DosPassos (1896-1970) quando decisedi intraprendere un lungo viaggio

sulla rotta che da Venezia lo avrebbe por-tato in Iran e in Siria. Si intuiva già in luil’accanito nemico del turismo di massa.L’Europa gli era stata familiare. La madrelo aveva da bambino condotto in Spagna.E durante la Prima guerra mondiale pre-stò servizio per la Croce Rossa. Era un uo-mo con ideali umanitari, fondamental-mente anarchico (ma in vecchiaia diven-ne un acceso conservatore), disposto aviaggiare — sobbarcandosi le più pesantifatiche — per conoscere quella parte del-l’umanità che l’Occidente aveva depreda-to e oppresso. E quando iniziò la sua av-ventura verso Oriente aveva all’attivo unpaio di romanzi tra cui I tre soldati. Quan-to a Orient Express (oggi disponibile nelleedizioni di Donzelli) fu pubblicato nel1927, ma parte di quegli articoli aveva giàvisto la luce su varie riviste americane.Non era Hemingway. Nel senso che nonpossedeva lo stesso carisma. Dos Passosera fatto di una stoffa diversa. Era imma-ginifico, lussureggiante, barocco. Dotatodi una prosa umida e calda che si appicci-ca alla pelle come un velo di sudore. Ci sideve fare l’abitudine — sentirla in tutta lasua bassa pressione e restare immobili,mentre le frasi si muovono e incantano illettore — per carpirne la potenza.

Era il 1921 quando attraccò con un pi-roscafo a Venezia e da lì partì per i Balcani,attraversò la Turchia e il Caucaso, giunseal cospetto del monte Ararat, proseguì perla Persia e, infine, dopo un’estenuantemarcia con una carovana, arrivò a Dama-sco. Non era il primo a seguire quella rot-ta. Viaggiatori celebri si erano spinti finlaggiù. Altri, come Robert Byron, dopo dilui, proseguiranno per la via dell’Oxiana.Quello che però distinse Dos Passos era lavoglia di un americano dell’Illinois di rac-contare senza profanare, di descrivereimmedesimandosi con i mondi che vede-va e che erano agli antipodi della sua cul-tura. Meticoloso nella cura dei particolari,sembrava dotato di un radar in grado di in-tercettare anche il più piccolo dettaglio.

Quando raccontava della visita in unamoschea durante la preghiera era come sevedesse fiammeggiare lo spirito dell’I-slam; se visitava il negozio di un rigattiere,le cose — ossia gioielli preziosi e cianfru-saglie — diventavano il pretesto per ordi-re qualche riflessione sulla fine di una ci-viltà; entrando in un caffè era attratto daun cameriere solitario che ondeggiava co-me un pinguino. Capiva che l’accattonag-gio, così diffuso in quelle terre, era ancheun atto religioso. Con la rivoluzione bol-scevica ancora fresca — tra le sperduteterre russe — finì per caso in un festival in-ternazionale di poesia proletaria dove re-citò, tra gli applausi di gente che non co-nosceva l’inglese, una filastrocca di Wil-liam Blake.

Si spostava in nave, in treno, a volte conuna macchina messa a disposizione daqualche improbabile console, più spessocon gli animali: cavalli e dromedari che glipiagavano il didietro. Eppure, nonostan-te le fatiche dei lunghi viaggi, le tappe for-zate, la durezza dei deserti, la morsa delfreddo, il tormento delle pulci, il rischiodei predoni, Dos Passos avvertiva un sen-so di pienezza, di stordimento e di pace in-teriore che l’Occidente non aveva saputodargli. «Preso come un’attrazione da lunapark non è male questo Est bello e in viad’estinzione», scrisse. Era attratto da tuttociò che sembrava indolente e precario.Tra quelle rovine, che pullulavano dellelarve della storia, ritrovò qualcosa che nonera solo antichità, ma una vera cancella-zione del tempo. Lì, infatti, il tempo si erainesorabilmente consumato, per rinasce-re prepotente e volgare in Occidente.

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le, case marrone brunito, minareti lucci-canti un po’ dappertutto come omini d’avo-rio su un tavolo da cribbage. Più su, dove lastrada gira intorno al cimitero dei PetitsChamps — altri cipressi polverosi, colonnedi pietra sormontate da turbanti scolpiti chependono sia da un lato che dall’altro — deicarri scaricano rifiuti lungo il pendio, cene-ri, stracci, carte, oggetti che brillano al sole;non appena hanno finito di scaricare, don-ne con sacchi sulla schiena, sgomitando espintonandosi, rovistano nella spazzaturacon le loro mani scarne. Da lì si odono i va-ghi schiamazzi delle loro voci querule inmezzo alle grida dei verdurai e il rumorebrulicante e confuso di molte esistenze sti-pate in strade strette. [...].

Di sotto, nell’atrio di felpa rossa del Pera

Palace, andirivieni e confusione. Stannoportando fuori un uomo in redingote e conun copricapo di astrakan nero in testa. C’èdel sangue sulla poltrona di felpa rossa; c’èdel sangue sul pavimento a mosaico. Il di-rettore va avanti e indietro con il sudore sul-la fronte; il pavimento possono anche lavar-lo, ma la poltrona è rovinata. Gendarmifrancesi, greci e italiani si pavoneggiano eparlano tutti insieme ognuno nella sua lin-gua. La testa del poveretto, signore, dice ilpoliziotto militare britannico al colonnelloche non sa se finire il suo cocktail o no. Azer-baigian. Azerbaigian. Era il diplomatico del-l’Azerbaigian. Un armeno, un uomo barbu-to, si è fermato sulla porta e gli ha sparato.Un uomo con gli occhiali e il mento sbarba-to, una spia bolscevica, gli si è avvicinato e

Omicidio al Pera Palace

otto la mia finestra, una strada polverosa epiena di solchi con qualche solitario trattopavimentato qua e là sul quale i carri sob-balzano e tintinnano continuamente, sa-lendo a scatti verso Pera, scendendo assor-danti verso il ponte vecchio, tutto il giornodall’alba all’imbrunire; più in là, case alte,ancora più serrate che a New York, un tettoa terrazza sul quale una ragazza a gambe nu-de stende il bucato, e oltre le tegole rosse, icipressi polverosi di un cimitero, pennoni, eil Corno d’Oro, color acciaio, con vaporettiall’ancora; e, più lontano ancora, stagliatacontro un cielo nuvoloso, Stamboul, cupo-

38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 26GIUGNO 2011

Novant’anni fa l’autore de “I tre soldati” si imbarcò a Veneziaalla volta della Siria. Attraversando Balcani e Turchia si fermòal cospetto del monte Ararat per poi perdersi a Bagdad e a Teheran

Dotato di un radar infallibile, descrisse per i giornali del suo Paese un mondoche tra rivolgimenti politico-sociali e conflitti militari stava, proprio come oggi,radicalmente cambiando.Quei reportage ora sono un libro pubblicato in Italia

CULTURA*

S

I DIPINTIIn questepaginequattrodegli ottodipintioriginalidello scrittorecontenutiin OrientExpressA sinistra,Mogadar;in bassoa sinistra,Teheran-Sala da tè;in bassoa destra, I Chleuh

JOHN DOS PASSOS

Dos PassosJohn

“Allah è grande, Henry Ford pure”

IL LIBRO

Orient Express,una raccolta di reportage dal Caucaso, dai Balcani e dal Medio Oriente, scritti da John Dos Passos nel 1921, è in libreria edito da Donzelli (105 pagine, 18 euro)

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vuol dire sottomissione e abnegazione.E in tutte le sale da tè lungo la strada si tro-

vano dei tipi allegri, coperti di stracci e con ipiedi doloranti, uomini di ogni età e condi-zione che hanno rinunciato al lavoro e chevagano per le strade principali, sfruttandocome meglio possono la santità della po-vertà. Sono certamente le persone più felicidi tutta la Persia. Non devono temere gli esat-tori delle tasse o gli assalti delle tribù di mon-tagna o i banditi nei valichi. Queste personevagano mentre muoiono di fame e intonanoinni, arsi dal sole e dal vento, portando le epi-demie e la parola di Dio dal deserto del Gobiall’Eufrate. I vagabondi esistono dappertut-to, ma in quello che possiamo vagamentechiamare l’Est, l’accattonaggio è un atto reli-gioso. Tutta la follia, tutta l’irrequietezza vie-

ne da Dio. Se un uomo perde il suo unico fi-glio o la sposa amata, o se è vittima di altre ir-rimediabili calamità, egli si spoglia dei suoiabiti, abbandona la casa, si fa crescere i ca-pelli e comincia a vagare per il mondo men-dicando e lodando Dio. Un uomo diviene underviscio così come nel medioevo in Europasarebbe entrato in monastero.

Erano tutte cose sulle quali riflettevoprofondamente quando facevo la spola conla stazione del telegrafo a Teheran durante lesettimane in cui nella mia borsa i kran d’ar-gento si erano ridotti a una manciata e il con-to dell’albergo continuava a salire e ogni ca-blogramma che inviavo per chiedere denaromi costava una settimana di vitto e alloggio.Erano i primi giorni di moharram, il mese dellutto, quando non c’è né musica né balli, il

mese della passione di Husain, il figlio di Fa-tima, figlia del Profeta. Teheran si riempiva dimendicanti e religione e odio per gli stranie-ri ogni giorno di più. [...].

Con il nome di Allah come unico bagagliosi poteva viaggiare dalla Grande Muraglia ci-nese al Niger, senza troppe preoccupazioniriguardo al cibo e al denaro, a patto di accet-tare di toccare la polvere con la fronte cinquevolte al giorno e di rinunciare a se stessi e allustro dell’Occidente.

Ciò nonostante, l’Occidente continua aconquistare. Il vangelo della produzione inserie e delle parti intercambiabili di HenryFord conquisterà i cuori rimasti fermi a Tale-te e Democrito, contro Galileo e Faraday.Non esiste dio tanto forte da resistere alla Pe-riferia Universale.

La nostra è un’epoca in cui il derviscio,simbolo di mistero errante sulla faccia delmondo, diventerà un semplice vagabondocosì come lo è nei paesi civilizzati.

Dichiarazione di indipendenza

Come nella Roma antica, l’alba a Bagdad èl’ora delle visite. Sbadigliando, ho seguito lamia guida per molti vicoli che trattenevanoancora il fresco della notte, sotto archi strettie fatiscenti, lungo passaggi tra muri di fangoscrepolati, fino a giungere a una ripida ram-pa di scale ricavata in un muro spesso. Arri-vati in cima, mi sono fermato ad aspettare inuna stanzetta buia mentre la guida si infilavain una porta turca intarsiata. Dopo un istan-te è tornato e mi ha condotto in una stanzapiena di tappeti. [...].

Finalmente un ragazzo con un fazzolettorosso in testa ci ha accompagnati in una salalunga e spoglia con il pavimento coperto ditappeti e con dei lunghi cuscini alle pareti.Dopo le attese e i mamnoon, i convenevoli dirigore, ci siamo accomodati contro il muro infondo alla sala accanto a un anziano signorein abito grigio tortora e con una bella barbaoro e argento; abbiamo bevuto del caffè e in-fine ha cominciato a rivolgersi a me tramitela guida. Parlava con una voce bassa e calda,tenendo gli occhi a terra, e ogni tanto allun-gava le lunghe dita brune verso la barba masenza toccarla. Quando si interrompeva perconsentire alla guida di tradurre, ci guardavacon occhi penetranti e mi sono accorto cheerano blu.

In America, gli era giunta notizia, aveva-mo avuto un grande Sceicco Washiton auto-re di un libro sulla dichiarazione dell’indi-pendenza del paese dagli Inglizi molti annifa. Da quel giorno abbiamo seguito i precet-ti del Profeta, credendo in un solo Dio e proi-bendo il consumo di vino. Tutto questo eramolto bello. E ora, nel grande gioco di pote-re europeo avevamo inviato un altro grandeSceicco, Miister Viilson, che in QuattordiciPunti aveva dichiarato che tutte le nazionierano libere, eguali e indipendenti. Anchequesto era bene. Se il volere di Dio fosse sta-to diverso, egli avrebbe creato una sola na-zione e non molte.

La nazione araba, formata da fedeli di Bag-dad e Damasco, aveva aiutato volentieri gliinglizi e i franzeui a cacciare gli Osmanli cheerano oppressori e adesso erano ansiosi dimantenere la pace e l’amicizia con il mondointero, seguendo le parole di Miister Viilson.Ma gli Alleati non avevano agito secondo leparole di Miister Viilson, né secondo i princi-pi dello Sceicco Jurij Washiton. E questo nonera bene. I patrioti arabi erano stati cacciati eimprigionati dai franzeui a Damasco, e ades-so gli inglizi, rompendo la promessa, cerca-vano di ridurre in schiavitù il popolo irache-no. Gli inglizi credevano di poter trattare gliarabi di Bagdad e di Bassora e di Damasco co-me avevano trattato le genti dell’India.Avrebbero scoperto che gli arabi non eranotanto teneri. Avevano provato a imbrogliarlicon delle parvenze di regni, quando anchel’ultimo dei facchini sapeva bene che né Fai-sal né Abdullah, e nemmeno il re dello Hijazcon il suo dominio sulle città sante, avevanonessun potere senza le armi degli Inglizi.

Bisogna che l’America dica ai suoi compa-trioti che il popolo dell’Iraq continuerà a bat-tersi per la libertà e per i principi proclamatidallo Sceicco Washiton e da Miister Viilson.L’ultima rivolta era fallita perché mal prepa-rata. La prossima volta… ha detto alzandoimpercettibilmente la voce. [...].

Traduzione di Maurizio Bartocci Orient Express © 1927 by John Dos Passos

© renewed © 1955 by John Dos Passos © 2011 Donzelli editore, Roma

ha sparato. Il cameriere del bar che porta leordinazioni è disperato. I clienti se ne sonoandati tutti senza pagare.

Felicità del derviscio

[...]. In Persia la mendicità è una forma di san-tità. Il mendicante è uno strumento che per-mette al credente di accumulare tesori in cie-lo. Al khandi Mianej c’era un mercante la cuicarovana era stata saccheggiata dai banditi.Possedeva un certificato rilasciato da unmujtahid con la dichiarazione che Allah l’a-veva privato dei beni terreni e, seduto nellasala superiore, attendeva pazientemente idoni dei viaggiatori per poter finalmente ri-prendere gli affari. Aveva il volto di un uomomolto felice, di un uomo che ha smesso di lot-tare contro le avversità. Non per niente Islam

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 26GIUGNO 2011

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TEHERANQui sopra,

Teheran.Il bagnodel Leone,la capitale

della Persia

fu una delle

città visitate

dallo scrittore

americano

durante

il suo viaggio

in Oriente

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Rosa pesca, giallo ocra, blu cielo, rosso tramonto. Prima ancora di trovaresuono e voce, pubblico e critici chiesero che fosse la tavolozza a rendere

più vivo un film. Nacquero così, da fine Ottocento, fabbriche specializzatenell’uso del pochoir.E operaie addette alla pigmentazione manuale di ogni frameUna magia oggi riscoperta grazie alla Cineteca di Bologna che presenta i primi cortidella storia. Opere d’arte capaci di lasciare tutti a bocca aperta senza dire una parola

SPETTACOLI

40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 26GIUGNO 2011

Erano campitureuniformi,

senza sfumature,i volti degli attorirestavano glauchi

e la messa a registronon era mai perfettaMa non importava,gli spettatori eranoentusiasti di questimiracoli pirotecnici

BOLOGNA

Urla terrorizzata l’eroina dichissacosa, circondata dapoveri diavoli in calzama-glia e lumache giganti. Ma

nessuno la sentirà, perché questo è unfilm muto, Le pied de mouton, 1907, delfrancese Albert Cappellani, forse il primo“regista autore” della storia del cinema.Gridano per lei il giallo acido e folgorantedella sua veste, il turchese dei cappelli deifolletti, il verderame brillante della fore-sta. Non lo sapevate? Il cinema ebbe i co-lori prima dei suoni, non c’è scritto nellestorie del cinema, e se c’è è scritto contro-voglia, come si accenna a qualcosa di im-perfetto e primitivo e anche un po’ volga-re. Ma è proprio così: il cinema è stato co-

lorato fin dall’inizio, pretese i colori delmondo prima di desiderarne i rumori. Silamentava Gorkij che nei primissimi me-traggi dei Lumière il mondo fosse stato«punito con l’essere privato di tutti i colo-ri della vita», eppure già allora i cronistidei fogli parigini uscivano dalla sala diproiezione dei geniali fratelli giurando diaver visto «rosseggiare il ferro sotto il mar-tello del maniscalco». Non era vero, erasolo un gigantesco desiderio: ma fu esau-dito prestissimo, chiedendo all’arte e allamano di imporre alle pellicole quel che latecnica e la macchina non erano ancorain grado di prelevare dal mondo reale.

Nei suoi primi trent’anni di vita il cine-ma fu muto ma a colori, e ce lo siamo di-menticato. Colpa delle tante volontero-se cineteche che salvarono quelle anti-che bobine dal disfacimento e dall’in-cendio, trasferendo le immagini dal na-

stro di nitrocellulosa infiammabile e de-peribile a supporti più stabili e duraturi;ma quelle copie le fecero dai negativi ori-ginali, monocromi, e i positivi colorati amano si persero tutti. Per fortuna, quasitutti: i superstiti risorgono per merito diun’altra Cineteca, quella del Comune diBologna, che da un quarto di secolo sal-va restaura e rilancia la storia del cinemacom’era, come la videro i primi spettato-ri. Torna così sullo schermo la magia delcolore senza parole, per la venticinque-sima edizione del festival Il cinema ritro-vato: una quindicina di cortometraggidigitalmente restaurati con un procedi-mento che ritrova la luminosità straordi-naria delle trasparenti aniline ripescan-dola direttamente, senza passaggi inter-medi, dagli originali.

A pensarci, fu un’autentica follia indu-striale. Per realizzare un film di una deci-

na di minuti col procedimento “Coloris”ideato nel 1897 e in uso fino al 1928, neilaboratori della Pathé a Vincennes la di-rettrice madame Thuillier, la pionierache colorò tutto Méliès, metteva al lavo-ro fino a duecentoventi operaie, con leloro mani leggere e precise. La tecnicadel pochoir (o stencil, o maschera) fun-zionava così: da una copia del film mo-nocromo la mano più esperta ritagliava,fotogramma per fotogramma, con unalama affilata, le sagome degli oggetti de-stinati a ricevere un certo colore; il film-maschera veniva sovrapposto a un’altracopia monocroma, e il colore impressocon pennellini o meglio tamponcini divelluto. Fotogramma per fotogramma: ein dieci minuti ce ne stanno circa cento-mila. Operazione da ripetere per ognunodei colori previsti, in genere cinque. To-tale cinquecentomila frame dipinti a

Quando il Muto arrossìMICHELE SMARGIASSI

Cinemacolorato

LE IMMAGINI Qui sotto, Le pied de mouton, di Albert Cappellani, 1907. In alto Coiffures et types de Hollande, 1910. Nell’altra pagina in alto Magie moderne, di Segundo de Chomón, 1908. Sotto Mammifères américains:

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 26GIUGNO 2011

mano, per pochi istanti di emozione.Verso il 1906, fortunatamente, qualcunoinventò una macchina automatica, e ilprocesso si diffuse ovunque: in Italia sene occuparono la Ambrosio, la Cines, laFilm d’Arte Italiana.

C’erano in realtà modi più veloci edeconomici per dare al pubblico almenoun surrogato dell’estasi cromatica tantodesiderata: l’imbibizione, che interveni-va sulle luci trasformando un film bian-co-e-nero in un film verde-e-nero, o ros-so-e-nero eccetera, ma in manierauniforme su tutta l’inquadratura; oppu-re il viraggio, che interveniva sulle ombrecreando un film verde-e-bianco o rosso-e-bianco eccetera. Monotone monocro-mie che potevano essere usate solo perbrevi inserti, per far sobbalzare lo spetta-tore annoiato dal grigiore daltonico: perle scene notturne, o drammatiche, o ma-

rine, secondo un codice più simbolicoche realistico. Ma nulla poteva eguaglia-re la fantasmagoria del pochoir, che davaa ogni figura il suo alone riverberante,che si muoveva con lei. Certo, non eranocolori verosimili. Anzi, erano capricciosi.Spesso le copie distribuite nelle sale (chepotevano scegliere se noleggiare la ver-sione monocroma o quella colorizzatache costava il 50 per cento in più) eranobizzarramente una diversa dall’altra.Erano campiture uniformi, senza sfu-mature, i volti degli attori restavano glau-chi (azzeccare un colore credibile perl’incarnato è stata la maledizione anchedei pittori), la messa a registro non eramai perfetta e il colore sbavava oltre icontorni: ma fa lo stesso. Il pubblico sientusiasmava per le arbitrarie esplosio-ni pirotecniche di n.2, Peachblow, rosapesca, o di n.10, Azur, blu cielo, o di n.3,

Afterglow, tramonto. I colori della belleépoque, gli stessi che impazzavano nellacoloratissima iconosfera di quegli anni,dai poster, dalle cartoline illustrate (co-lorate anche loro al pochoir), dalle lito-grafie da appendere sul camino.

Del resto anche il cinema appartene-va allora al regno dell’incredibile, dellafantasmagoria: regnava Méliès, era l’e-poca di Houdini, trionfavano storie sen-za storia e piene di effetti e trucchi e tra-sformismi, le féerie dai titoli roboanti, Lapeine du talion, Le spectre rouge, preleva-te dal varieté popolare e dagli spettacolida fiera e girate da maestri illusionisti di-menticati, a Bologna riscoperti, comeGaston Valle o Segundo de Chomon; maanche i documentari esotici e naturali-stici (sulle contadine olandesi, sui mam-miferi del Nord America, sulla raccoltadel riso in Giappone) infiammati da tin-

te immaginarie diventavano viaggi nellafantasia più sfrenata, godimento sen-suale del colore come oggetto estetico insé, puro e significante.

Poi successe un miracolo: il muto trovòla voce. Gli schermi cominciarono a par-lare e a rumoreggiare. La nuova novitàscacciò la vecchia: per attirare spettatoribastava la faccia impeciata ma canora eswingante del Jazz Singerdi Al Jolson. Co-sì gratificato il pubblico smise di percepi-re il bianco-e-nero come un difetto, co-me un daltonismo: diventò per molti an-ni il colore del cinema. Finché un’altra ri-voluzione riportò i colori, ma questa vol-ta obbedienti e tranquilli, ancora falsi manon più fantastici, i colori “presi dal vero”del Technicolor. E le cromie di sogno,spudorate e affascinanti, svanirono dallamemoria come svaniscono i sogni.

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IL FESTIVAL

Compie 25 anni Il cinemaritrovato, il festival che salva

i tesori dimenticati

della filmografia mondiale

Lo promuove la Cineteca

comunale di Bologna,

presieduta da Giuseppe

Bertolucci e diretta

da Gian Luca Farinelli

Per festeggiare, un’edizione

speciale: fino al 2 luglio

345 proiezioni, inaugurate ieri

e culminanti l’1

con il Phantom of the OperaUna sezione sarà dedicata

ai muti colorizzati

(www.cinetecadibologna.it)

paca, coati, tatous, maras, 1914; Les floraisons, 1912; La mangouste ou rat des Pharaons, 1914; Les bords de la Tamise d’Oxford à Windsor, 1914; Nahm Dinh (Tonkin), 1915; Oiseaux sauvages des monts d’Ecosse, 1914

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le tendenzeTrame estive

Non solo sandali, espadrillas, ballerine, borse e cappelli:anche gli abiti sono intessuti come centrini. Così rafia,vimini e bambù diventano un ricamo. E così la modasi impadronisce delle fibre più ecologiche per riproporlein capi e accessori urban chic. Con intrecci che evocanoil sole, le vacanze, il profumo dei campi di grano

42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 26GIUGNO 2011

Esercizi di raffinatezza con materiale povero. La pa-glia, la corda, la rafia, il midollino, il bambù. Atmo-sfere retrò, da anni Cinquanta, ma la cesta di vimi-ni non è più solo quella che si compra (e si usa) almercato o quella che si porta sulla spiaggia. Le grif-fe alte di gamma si impadroniscono di un materia-le ecologico popolare da sempre per declinarlo inarticoli da boutique. Non solo sandali, espadrillas,ballerine, non solo borse ultra chic addirittura dasera, non solo sofisticati e ampi cappelli simil pana-ma, ma addirittura abiti o intarsi di abiti intessuticome centrini dove la paglia, la rafia, il giunco, ilmais diventano un ricamo.

Ancora una volta gli italiani sono i più bravi, e nonda oggi. Già mezzo millennio fa, nel Cinquecento,la Toscana raggiunse un tale livello di raffinatezzanel produrre cappelli di paglia che il granduca Co-simo de’ Medici ne spedì in regalo gli esemplari piùbelli a vari sovrani d’Europa, spesso cugini e paren-ti. Un omaggio che si rivelò una lungimirante ope-razione di marketing. Fu a Signa, ai primi del Sette-cento, che si cominciò a coltivare un certo tipo digrano non più esclusivamente a fini alimentari maallo scopo di produrre un determinato tipo di pagliaideale per fare cappelli. Il comprensorio fiorentinosi affermò presto come primo produttore di copri-capi in paglia di tutto l’Occidente, fama e prestigiosopravvissuti.

Oggi l’intreccio fitto e sapiente della paglia & si-mili ha un potere evocativo speciale: richiama il so-le, le vacanze, il profumo dei campi, i covoni di gra-no, un passato non troppo remoto di ritorno alla na-tura. Evoca pulizia di linee, autenticità di materiali,

semplicità genuina, picnic, scampagnate, gardenparty. Un materiale povero che ha acquisito un alo-ne di eleganza upper class, una fibra naturale checonnota l’élite: non meraviglia che i marchi del lus-so già da varie stagioni ci siano saltati sopra facen-do lievitare i prezzi e riproponendo la stessa mate-ria prima, così docile, così versatile, anche per capie accessori etichettabili come “urban chic”.

Può essere di vimini anche il cinturino dell’o-rologio, anche il monile etnico, anche il cestinodella bicicletta, anche il trasportino per il gatto,oltre ovviamente a ogni tipo di mobile, letto, di-vano, poltrona che arredi la seconda casa. Il vi-mini è interclassista: va dalla Kelly di Hermès allasporta low cost comprata sulla bancarella, perso-nalizzabile a piacere. La paglia dei cappelli estivipuò essere quella venduta dagli ambulanti sullespiagge o quella dei panama sfoggiati dai grandi delmondo, re, scrittori, dive di Hollywood, capi di go-verno, anche gangster: virtuosi del dandismo a cac-cia del panama doc, che a guardare per il sottile de-ve essere intrecciato con fibre e germogli di carlu-dovica palmata, speciale qualità di palma.

Anche il bambù attraversa le differenze sociali:può essere il manico di una celeberrima borsa Guc-ci fotografata al braccio di Paola del Belgio e di Jac-queline Kennedy, rivisitata e riproposta oggi a caroprezzo, e può essere strumento di vita e sopravvi-venza nel Terzo Mondo. «La pianta di bambù è l’o-ro verde dell’uomo povero» ha scritto Atal BihariVajpayee, due volte primo ministro dell’India maanche poeta. «Una persona può sedersi in una casadi bambù sotto un tetto di bambù, su una sedia e aun tavolo fatti dello stesso bambù, con un cappellodi bambù in testa e sandali di bambù ai piedi. Allostesso tempo può tenere in mano una ciotola dibambù e nell’altra bacchette di bambù che gli ser-vono per mangiare germogli di bambù».

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LAURA LAURENZI

MATTINASembra paglia ma è cotone

a lavorazione crochet

con inserti scamosciati

e manici in pelle. Di Car Shoe

VERTIGINOSASuper tacco

per il sandalo in rafia

con inserti in pelle

marrone. Di Roger Vivier

CHICGiacca

alla coreana,

camicia di seta

color deserto

e bermuda

in chiffon di seta

Completa

la mise

Emporio Armani

una grande

borsa a mano

in paglia

Con manici

in legno

FAR EASTUn cappello doppio

in paglia naturale arricchisce

il mini abito con stampa fantasia

in poliestere di Issey Miyake

pagliaCuoreun

di

MARINAROÈ in paglia sottilissima

bianca e blu

il sombrero extralarge

proposto da Borsalino

Un libro prezioso e illuminato, che ricostruisce l’avvincente dibattito sull’interpretazione della meccanica quantistica e sulle profonde obiezioni di Einstein riguardo alla descrizione della realtà.

www.edizionidedalo.it

in libreriaRoger G. Newton

La fisica dei quantisfida la realtàEinstein aveva ragione ma Bohr vinse la partita

prefazione di Giulio Peruzzi

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 26GIUGNO 2011

“Oggi c’è voglia di prodotti naturali,ma per sognare meglio aggiungere un po’ di lusso”

Stuart Weitzman

LAURA ASNAGHI

Stuart Weitzman disegna scarpe da quandoaveva ventiquattro anni. Amato dalle dive diHollywood, è però uomo molto discreto e

geloso della privacy.Come nasce questa nuova passione per scar-

pe in rafia e paglia?«La moda è sempre in sintonia con i tempi che

viviamo. Oggi c’è voglia di cose naturali e questointeresse si riflette anche su quello che indossia-mo: dall’abito alla scarpa. E quindi paglia e rafia siadattano perfettamente a queste esigenze».

Certo, ma lei è il re delle calzature glamour equindi il suo è un ecologico di gran lusso.

«Non c’è dubbio. È nel mio dna fare scarpe cherendono bella la donna, la facciano sognare e sen-tire una regina. Quindi per me l’anima ecologicadei prodotti naturali non può che essere resa inmaniera spettacolare».

Questi prodotti sono facili da lavorare?«Sì, sono molto malleabili e si adattano facil-

mente alla realizzazione dei modelli di scarpe cheio disegno. E, cosa fondamentale, hanno un’altaresa da un punto di vista estetico. Non solo: il lorocolore neutro si adatta a ogni tipo di modello, daun sandalo ultra-piatto a quello con tacco 12 dared carpet».

Guardando al suo archivio storico, a quandorisalgono le prime calzature realizzate con que-sti materiali?

«La rafia e la paglia sono materiali che ricorro-no ciclicamente in tutte le collezioni. Io ho inizia-to a lavorarle cinquant’anni fa, quando ancorastavo con mio padre nell’azienda di famiglia».

Quali sono le donne famose che indossano lesue scarpe?

«È un lungo elenco e comprende star del cine-

ma, del teatro, della musica e molte opinion lea-der che adorano i miei modelli, sia per il red car-pet che per la vita di tutti i giorni. Oggi, tra le no-stre fan ci sono Angelina Jolie, Eva Mendes, Jen-nifer Aniston, Jessica Alba, Kate Hudson, Eva Lon-goria e Katie Holmes. Ma è solo per citarne alcu-ne».

Cosa rende una scarpa davvero glamour?«Un tacco alto, un decor originale e (soprattut-

to) un paio di fantastiche gambe».Qual è l’allure giusta da dare alle calzature?«Una bella scarpa, confortevole e possibilmen-

te con dettagli eccentrici, deve essere indossataalla perfezione. E quindi una donna deve eserci-tarsi a portarla bene. Se non si ha familiarità con itacchi, bisogna fare pratica in casa guardandosiallo specchio. Il segreto è piegare bene il ginoc-chio e fare un passo dopo l’altro, con grazia».

A cosa si ispira quando crea le sue scarpe?«Tutto quello che mi circonda è fonte di ispira-

zione. Le idee mi vengono quando cammino suimarciapiedi di New York ma anche quando guar-do i paesaggi della campagna spagnola dove vivola maggior parte dell’anno. Ma per le mie creazio-ni non posso fare a meno del cinema e dell’arte».

Dove vengono realizzate?«Ogni singolo paio di scarpe è prodotto a Elda,

vicino ad Alicante, in Spagna. È un paese fantasti-co, non solo per la sua posizione geografica ma so-prattutto per l’eccezionale qualità del lavoro deisuoi artigiani. Ogni singolo pezzo è curato, stu-diato, realizzato come se fosse unico. Lo spirito dicollaborazione che c’è tra me e gli artigiani è dav-vero speciale. E solo da questa magica unionepossono scaturire capolavori».

ROSSO FUOCOÈ in paglia e a tesa larga

il cappello rosso di Oviesse

Per un’estate di fuoco

CON CAMELIAChanel sceglie il nero

per il suo cappello

in paglia

Arricchito

da una camelia

in tweed applicata

HANDMADEÈ impreziosita da un fiore

intorno alla caviglia la zeppa

in rafia bicolore intrecciata

a mano. Di D&G

NATURALESandalo con tacco e plateau

in rafia intrecciata. La fascia

alla caviglia è in cotone effetto

crochet. Di Stuart Weitzman

DÉCORÈ tutto rosso con zeppa

in paglia e tessuto il sandalo

di Castaner. Con decorazioni

floreali coordinate

CANDIDAHa zeppa in rafia e laccetto

in pelle bianca alla caviglia

la scarpa pensata da Roberto

Del Carlo per l’estate

LA RAFIASi ricava

dalle foglie

di una particolare

palma

Color giallo

chiaro,

odore piacevole

FAR WESTA un abito bianco

in popeline

drappeggiato

Moschino

abbina un cappello

da cowboy

In paglia naturale

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LA PAGLIASi ricava

dallo stelo

del grano,

del frumento,

dell’orzo

e dell’avena

dopo la raccolta

IL MIDOLLINOÈ una fibra

vegetale

che si ricava

dal rattan,

una particolare

palma

rampicante

IL VIMINIÈ il ramo

del salixviminalis. Viene

impiegato

come fibra

tessile in molti

prodotti

IL BAMBÙAppartiene

alla famiglia

bambusa.Fusto di varie

specie, ha forte

resistenza

e versatilità

APERITIVOIn midollino, ma con manico

in cuoio e con impunture

bianche a contrasto

Da Ferragamo

ON THE ROADIntrecci di rafia e pelle

per il secchiello estivo

firmato Twin Set

Simona Barbieri

SPIAGGIADue misure per la cesta

in paglia blu con federa fiorata

delle stesse tonalità

La proposta è di Carpisa

PICNICHa il guscio di midollino

con inserti in pelle l’elegante

Kelly Picnic di Hermes

Come un cestino in miniatura

Repubblica Nazionale

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44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 26GIUGNO 2011

San Daniele

i saporiStagionati

Aria fredda delle Alpi Giulie e aria calda dell’Adriatico:da questo incrocio magico, quattro secoli prima di Cristo,nasce il maiale dalla “gamba lunga” che con dolcezzastrega ogni palato. Attenzione, però, a non scartareil grasso. Altrimenti meglio darsi alla bresaola

i prosciutti Dop

prodotti ogni anno

2,6 milioni

I luoghiSi lavorano a San Daniele

le cosce di maiali allevati

in Friuli Venezia Giulia, Veneto,

Lombardia, Piemonte, Emilia

Romagna, Toscana, Lazio,

Abruzzo, Marche, Umbria

La materia primaLe cosce fresche, di almeno

12 chili, con zampino, vanno

trasformate entro cinque

giorni dalla macellazione

Non è consentito l’impiego

di carni congelate

La lavorazioneSi compone di otto fasi:

raffreddamento, rifilatura,

salagione, pressatura,

riposo, lavaggio, asciugatura

e sugnatura. Unico

ingrediente: il sale marino

La stagionaturaAlmeno otto mesi (minimo

tredici con la lavorazione)

in ambienti dove umidità

e temperatura sono regolati

da terre moreniche

e acque del Tagliamento

Questione di gusti. Gli esperti friuliani sostengono che,mantenendo intatta l’articolazione nella sua completezza,si agevola il drenaggio dell’umidità nelle parti più difficili,teoria condivisa dai produttori del Pata negraspagnolo, sta-gionato per ossidazione con temperature fino a trenta gra-di. La qualità media della produzione è ottima, compresaquella garantita dalle aziende dai (relativamente) grandinumeri. Come sempre, però, a fare davvero la differenza so-no materia prima e abilità dell’artigiano. Se i paletti dellaDop garantiscono un’alimentazione corretta dei maiali, ilresto lo fanno le mani. Come quelle di Luciano Zanini, abi-tuato a lavorare le cosce a una a una in ambienti a cinque gra-di, perché le carni assorbano il minimo di sale possibile,creando quell’effetto dolce che strega il palato. Quando iclienti, ristoranti e salumieri tra i migliori d’Italia, protesta-no per la scarsità del prodotto a disposizione, Zanini ri-sponde serafico: «Se ne lavorassi anche solo uno in più, nonavrei più il controllo diretto dei prosciutti che escono dallemie celle». Industriali e norcini sono uniti, sia nella lotta conla Ue per stabilire la programmazione della produzione(fondamentale per evitare il problema eccedenze, che cicli-camente attenta alla stabilità economica del comparto delParmigiano Reggiano), sia nei comandamenti del San Da-niele. Il primo recita «controllate il marchio», ovvero la car-ta d’identità del prosciutto, il secondo «non scartate il gras-so». Perché una fetta di San Daniele privata del grasso smar-risce il meglio di sé. Altrimenti, meglio la bresaola.

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C’è prosciutto e prosciutto

Il paninoEmanuele Scarello – Agli Amici,Godia, Udine – alterna San Daniele

e crostini di pane al latte

i produttori

del Consorzio

31

Timballo di pâté di fegatoCarlo Cracco – Cracco, Milano – ricolma un guscio

di pasta con strati di crema di zucca e crema di vitello

e fegatini. Sopra, fette di San Daniele e insalata

L’appuntamento“Aria di Festa”

a San Daniele

del Friuli dal 24

al 27 giugno

con degustazioni,

cene e visite

ai prosciuttifici

www.prosciutto

sandaniele.it

C’è chi ci mette lo zampino da millenni.Succede in Friuli, dove è nato e prosperail prosciutto “a gamba lunga”. Diconoche i Carni, tribù di lingua e cultura celti-ca, arrivati in zona almeno quattro seco-li prima di Cristo, si fossero impratichiti

nella salatura delle cosce di maiale — la loro carne d’elezio-ne — per poterle conservare e trasportare nelle loro migra-zioni. Quando le truppe di Mauro Emilio Scauro li sconfis-sero nel 115 prima di Cristo, i legionari romani scoprirono ilsegreto del prosciutto friuliano originario. Malgrado la pro-mozione dell’antico avamposto fortificato di Aquileia, ot-tanta chilometri più a sud, a capitale della regione Venetiaet Histria, la produzione di persuti rimase nella zona sceltatanto tempo prima dagli abitanti originari. Che avevano in-tuito benissimo quanto la scienza gastronomica ha scoper-to duemila anni più tardi, inventando la formula della sta-gionatura ante litteram.

Responsabile di tanta magia l’incontro tra l’aria freddadelle Alpi Giulie e quella calda dell’Adriatico che, grazie allamediazione termoregolatrice del Tagliamento, crea le con-dizioni ideali per la lunga stagionatura delle carni. Una pra-tica assorbita così bene che sul cippo funerario di un macel-laio, trovato a Concordia Sagittaria, crocevia delle provincedi Udine, Pordenone e Venezia, si trova scolpito il simulacrodi un prosciutto di San Daniele, con tanto di zampino.

LICIA GRANELLO

Repubblica Nazionale

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Quanti elogi per un porcoCORRADO BARBERIS

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45DOMENICA 26GIUGNO 2011

Anche se le regole per conservare iprosciutti furono dettate da Catoneattorno al 180 a.C. ed anche se l’esi-

stenza della romana via Panisperna sembraattestare in epoca imperiale una distribu-zione di pane e prosciutto (ma l’etimologiaè stata recentemente contestata), non sipuò non concludere che lungo è stato in Ita-lia il cammino della coscia di maiale versol’attuale apprezzamento gastronomico.Anche perché dai nostri antenati il pro-sciutto era preferito cotto.

In questa apatia alimentare brillano le te-stimonianze dei muletti che partivano dalFriuli carichi di cosci per depositarli alle re-sidenze degli eccellentissimi protagonistidel concilio di Trento conclusosi nel 1563.Passano però altri due secoli perché il pro-sciutto approdi alla gloria della poesia, oquanto meno della rima. A incaricarsene èil ferrarese Antonio Frizzi che nel 1772stampa in Venezia un poemetto giocoso, LaSalameide. In esso il prosciutto di San Da-niele del Friuli ottiene, primo in Italia, un ri-conoscimento tanto più prezioso perchéundici anni prima l’Abate Ferrari, camuffa-tosi col ringhioso nome di Tigrinto Bistonio,era riuscito a far transitare i suoi Elogi delporco attorno a Parma senza accorgersi dialtro che delle bondiole e delle spallette, ve-rosimilmente bollite.

Ecco dunque il Frizzi: «Nel sale ancor in-tere cosce asconde / per far prosciutto damangiar la state/ diviso in fette fiammeg-gianti, e monde / del nevoso lor grasso in-torn’orlate. / Voi, che a irrigar le fauci siti-

bonde / servi di Bacco ognor lo ricercate / fa-te almen che il gran merto non si cele / delprosciutto gentil di San Daniele».

Si ricava da questi versi: 1) che i tempi distagionatura erano allora assai più brevi,trattandosi di pezzi meno pesanti degli at-tuali; 2) che gli esemplari di cui erano tessutele lodi avevano l’aureola, ossia una bella cin-tura di grasso attorno al magro; 3) che la sala-gione era forse più forte di quella praticata inepoche recenti, visto che serviva a fauci siti-bonde ma non fino al punto di fargli perderela caratteristica principale: la gentilezza.

Di tale reputazione fece tesoro il genera-le napoleonico Massena, razziandone unagran quantità per la mensa ufficiali della Vil-la Manin di Passariano, durante le trattativeper la pace di Campoformio che segnò la fi-ne della Repubblica Veneta (1797).

Ma il San Daniele sormontò anche que-sta congiuntura. La statistica industriale del1890 sottolineava infatti che «nel comune diUdine, San Daniele del Friuli, San Vito al Ta-gliamento, Pordenone e altri varie ditte pre-parano il prosciutto detto di San Daniele.Esso viene venduto nel Regno e all’estero inscatole di legno di mezzo chilogrammo (li-re 3) di tre quarti di chilogrammo (lire 4,50)e di un chilogrammo (lire 6). La quantità co-sì smerciata fuori provincia è di circa 5.000chilogrammi all’anno».

Eroici traguardi ma che oggi fanno sorri-dere pensando che nel 2010 il San Danieleha oltrepassato il 2,7 milioni di pezzi e unpeso di 39,4 milioni di chili.

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San Daniele (Udine)dovedormire

dovemangiare

dovecomprare

AGRITURISMO

CASA ROSSA AI COLLI

Via ai Colli 2

Frazione Ragogna

Tel. 338-8895548

Doppia da 80 euro

AL PICARON

Via S. Andrat 3

Tel. 0432-940688

Doppia da 115 euro

ALLA TORRE

Via del Lago 1

Tel. 0432-954562

Doppia da 100 euro

AGRITURISMO

DOLCE RISVEGLIO

Via Sottoriva 42

Tel. 0432-955470

Doppia da 60 euro

ANTICA SCUDERIA

DEL CASTELLO

Via Castello 150

Susans di Majano

Tel. 0432-959115

Doppia da 68 euro

L’OSTERIA

Via Trento e Trieste 69

Tel. 0432-942091

Chiuso lunedì

PROSCIUTTERIA

LA TRAPPOLA

Via Cairoli 2

Tel. 0432-942090

Sempre aperto

PROSCIUTTERIA

AL CANTINON

Via Cesare Battisti 2

Tel. 0432-955186

Chiuso giovedì

PROSCIUTTERIA

AI BINTARS

Via Trento e Trieste 67

Tel. 0432-957322

Chiuso merc. pom.

e giovedì

PROSCIUTTERIA

AL PORTONAT

Piazza Dante 8

Tel. 0432-940880

Sempre aperto

PROSCIUTTIFICIO

DOK DALL’AVA

Via Gemona 17/b

Tel. 0432-957335

PROSCIUTTIFICIO

GIOBATTA ZANINI

Via da l’Ancone 2

Tel. 0432-956017

PROSCIUTTIFICIO

LEVONI

Via Aonedis 15

Tel. 0432-956265

PROSCIUTTIFICIO

PROLONGO

Viale Trento Trieste 129

Tel. 0432-957161

PROSCIUTTIFICIO

BAGATTO

Via Cesare Battisti 28

Tel. 0432-957252

le calorie presenti

in cento grammi

320milioni di euro

il fatturato del San Daniele

335

Cannelloncini in salsa di cipollottoPer Agata Parisella – Agata e Romeo, Roma – cannelloni farciti

con Parmigiano, San Daniele, besciamella

e salsa frullata di cipollotti appassiti nell’olio, con panna

Uova alla carbonaraAndrea Canton – La Primula, San Quirino, Pordenone –

serve uova al vapore con raviolini di funghi e San Daniele

Decorazione con salsa al Parmigiano

IL LIBROLe foto di Ennio Calice

che illustrano queste

pagine sonon tratte

da Prosciuttodi San Daniele DOP,

Guido Tommasi Editore

Repubblica Nazionale

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46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 26GIUGNO 2011

l’incontroMaschere

‘‘

“Forse non ho investitoabbastanza nell’amoreForse mi sono postaun divieto alla felicità,quasi per pauradi farmi maleE dove ho avutomeno coraggio,meno ho ricevuto”

nale e autobiografico questo testo lette-rario che forse è anche un lungo e senti-tissimo monologo. «Ho sempre deside-rato scrivere un libro che fosse un libro.Con storie accadute e con vicende so-gnate e non direttamente vissute. Unasintesi di voci, silenzi, immagini. La suorGiuseppina che cito è una suora fatta disuore, non realmente esistita, ma è unprototipo verosimile. Le sorelle di cui ri-ferisco esistono davvero ma non tutto èandato proprio così. Direi che ci si svin-cola da un solco quando si esce fuori dalquadrilatero della famiglia, in cerca diuna condizione senza regole, a prima vi-sta un po’ da barbona inglese e caotica,alla ricerca di una stanza tutta per sé».Conversando, si scopre che lei ha sem-pre avuto rapporti con la scrittura. «Hocomposto poesie fin da quando avevotredici anni, e l’ho fatto per circa venti-cinque anni, e poi una volta ho com-messo la balordaggine di domandareche fossero pubblicate sotto altro nome,e la casa editrice me ne chiese la conve-nienza, costringendomi a rispondereche io avevo dei principi talebani, e chevolevo che le poesie fossero riconosciu-te senza il plusvalore della popolaritàdel mio lavoro. Fisime che adesso nonho più...». Il contenuto di quei versi, con-fida, era un osservatorio di parole, dipaesaggi, di esistenze. «Ho fatto il puntosugli scenari in cui vivevo, sui linguaggi,sulla mia identità, sullo scarto tra me e larealtà di Orvieto, la mia città, sull’edu-cazione domestica, sull’indipendenzadella mia mente, e mi soffermavo su fac-cende che erano lontane dagli sguardidegli altri, e avevo come postazione pri-vilegiata il mio terrazzino, da dove m’e-sercitavo a resistere. Ora ho anche lepoesie e i racconti di mia figlia Virginia,che compie diciott’anni a novembre, di-versa da me, ispirata da estasi creativeche durano un lampo, mentre io correg-go qualsiasi cosa moltissimo».

Un voltapagina, questo romanzo diAnna Marchesini. Che cambia la perce-zione degli altri nei riguardi della sua in-dole, del suo manifestarsi, del suo co-municare... «Beh, in effetti mi incuriosi-scono, da parte di chi mi legge, le emo-zioni con aggettivi e sostantivi contra-stanti, “un libro timido e pieno di deter-minazione”, “infelicità che è un eccessodi vita”, opposti che sono la chiave ancheper entrare nel mio universo, perché unacosa non esclude l’altra, e tutto coesiste,e c’è energia anche nelle vite che si spez-zano e si sbucciano, e in fondo il mio li-bro vuole testimoniare la possibilità diun’armonia, malgrado le cose inguarda-bili e non raccontabili di noi, di cui non sideve aver paura, se è vero che a scrutarebene dentro al dolore trovi risorse e

aspetti d’infinita grazia, e senso». Vieneil sospetto, ascoltandola, che un’artistacosì incline alla manutenzione del buo-numore del suo pubblico abbia trovatonella scrittura privata una ricarica, unesercizio terapeutico. Ma lei lo escludesubito. «Il libro mi consente un passoavanti nella consapevolezza, mi premianella misura in cui m’accorgo d’averloscritto come avrei voluto, ma non è tera-peutico, e tutt’al più mi dà una gioia let-teraria, m’aiuta a trasfigurare e a rende-re bello qualcosa che bello non è. Direiche un segreto è nella causa-effetto cheattribuisco al personaggio mitico e in-giudicabile di mia madre, lì dove scrivo“il sacrificio la rendeva di buon umo-re”». Una cosa è sicura: l’Anna ragazzaera già un manifesto del volto dinamicodell’Anna adulta. «Ero una bambina in-sospettabile, molto estroversa, moltoamante del cibo, molto socievole, mol-to simpatica, facile negli studi, ma suc-cedeva anche che da giovane non fossicreduta, al punto che le mie amiche di

scuola mi dicevano che avevo trasfor-mato il liceo in un teatro, imitavo gli in-segnanti, avevo battute ironiche, ama-vo mostrarmi sempre in modo allegro. Emi sono portata appresso un desideriodi non sottostare al quotidiano. La lau-rea in psicologia doveva aiutarmi a cer-care meglio nel territorio della cono-scenza. Poi provai con la recitazione, eprima di fare l’Accademia fui bocciatadue volte (una volta perché ero “troppoalta”). Credette in me Lorenzo Salveti, emi lasciai andare, feci molta palestra digrottesco, di surreale, di assurdo, lavo-rando sull’eccesso. Rubai il mestiere aBuazzelli, feci poi un Platonov, e per unadozzina d’anni ce l’ho messa tutta colTrio, trovando forza e motivazione.Pensavo che saremmo potuti diventareuna compagnia di prosa, ma non è an-data così. Ho continuato un po’ con Tul-lio Solenghi. Poi, a parte i miei monolo-ghi di Bennett e Ruccello, mi sono mol-tiplicata in Le due zittelle di Landolfi, eho coronato il mio sogno con Winnie diGiorni felici di Beckett (mi commuove,la vita nel tempo freddo, la morte che ticontiene la vita, mentre siamo abituatiche una cosa escluda l’altra)».

Qui le recite di Anna s’interruppero,per un’influenza pesante. «Troppo fra-gile per una tournée, nel 2010 ho spo-stato il mio orizzonte, la mia attitudine.Ho cominciato a scrivere. Per sette me-si. Certo, un libro non fa di me un’autri-ce. Comunque sto già scrivendo un rac-conto, anzi tre racconti legati tra loro, eho cominciato il primo. Non c’è più l’iodel terrazzino. Protagoniste sono per-sone inventate, una figura per ogni rac-conto. Il giorno della settimana in cui ac-cadono le cose è lo stesso per tutte e tre.Mi attrae qualcosa che spezza le loro vi-te, con un ordine che si sgretola, unanormalità che non resiste». Il teatro lofrequenta insegnando in Accademia.«Un corso di recitazione, sul comico». E,per abitudine costante, legge. «Non icontemporanei, per diffidenza verso lalingua quotidiana, vicina al giornali-smo, al cinema, al lessico domestico. Hopreferenze antiche, mi piace tutto ciòche è evocativo, quindi ricerco i classici,dal ’600-700 a quelli moderni. E mi sof-fermo su Dostoevskij, sulle novelle di Pi-randello, su Calvino, Palazzeschi, Ja-mes, alcune cose della Woolf». Leggeanche nelle abitudini della figlia Virgi-nia. «Ora la vedo adulta, non mi preoc-cupo di indirizzarla, osservo cosa fa e laguardo vivere, felice di tutti gli attimi vis-suti assieme, e della sua capacità di met-tere poesia nella vita, e un candore pocoomologato».

Accenna con pudore a bilanci. «Hoavuto molto dove ho investito, nei sen-

timenti, nel rapporto con un compa-gno, ma forse ad essere sincera non so-no stata capace di cercarlo l’amore, for-se mi sono posta un divieto alla felicità,quasi per paura di farmi male, non sonostata capace di investire emotivamentefino in fondo, mentre nelle amicizie cisono riuscita. Dove ho avuto meno co-raggio, meno ho ricevuto». Questa so-cietà non le pare la società migliore. «Hola sensazione di vivere in una condizio-ne che non ho scelto, in una sottrazionedi identità col mondo circostante, chemi somigliava di più negli anni Settanta.Allora anche le minoranze avevano for-za, e quello era il tempo della comunica-zione. Ora vivo in una scena definita dalpotere ma non dai miei coetanei, e av-verto la violenza di scelte diverse daquelle che mi piacerebbe condividere».Pochi, gli aspetti che la rincuorano. «Midanno gioia le mie risorse, il potermi fi-dare di me, di ciò che penso, della capa-cità e consapevolezza di trovare una vi-ta anche dove, come Winnie, si sta infi-lati in un buco nero». Argomento fede.«Non ce l’ho, e anche quando è in qual-che modo presente, non la sento comepossibilità di speranza, ma solo come ri-chiesta di rinuncia, di inadeguatezza».La politica. «Il potere è diventato la mor-te dell’ideologia salutata come moder-nità. Un doppio messaggio: la moder-nità è un ritorno al Medioevo, e l’igno-ranza di fatti critici economico-civiliequivale a un movimento reazionarioche attacca la cultura e la fa soffrire». Glialtri artisti d’oggi. «I nuovi comici nonmi piace giudicarli televisivamente. Unattore è tale se si misura col teatro. La ca-ratteristica dei giovani è quella di esserenella contemporaneità rendendosiestranei alle complessità del linguag-gio». Le fonti di emozione. «L’uomo dalfiore in bocca, e un qualsiasi libro che tifaccia scoprire un altro modo di stare almondo, e di parlarne».

‘‘

RODOLFO DI GIAMMARCO

ROMA

«C’è qualcosa diinfinitamentebello nell’in-felicità. L’ho

scritto nel mio libro. Perché nella miaesperienza sento che è così. Comequando mi colpì una cosa che lessi, aproposito di sub immersi a profonditàabissali, che accendono le luci e scopro-no fondali coloratissimi, sconosciuti al-la luce del sole. Ecco, i fondali dell’infe-licità non escludono i verdi, i gialli e i bluintensi, e anzi sono pieni di incanti e dirichiami, tant’è che nel mio apprendi-stato delle ombre, nel mio camminaresul dolore, io ho conosciuto, e le ho de-scritte, grandissime gioie della vita, chesono cose insopprimibili». Leopardia-na, con un senso della contemplazionedel mondo e dei turbamenti dell’animoche toccano corde segrete sorrette dauna sofisticata e imperterrita (a voltequasi amena) energia del carattere, An-na Marchesini, attrice comica, grandeartista della risata intelligente, popolaree amata coprotagonista dal 1982 al 1994della stagione felice del Trio con Massi-mo Lopez e Tullio Solenghi, poi strenuainterprete di prosa di piglio anglosasso-ne o beckettiano, parla oggi impertur-babilmente (e serenamente) della tri-stezza e della malinconia in veste discrittrice, avendo riscosso elogi e cla-mori, e tributi di classifiche, per il suoprimo romanzo Il terrazzino dei geranitimidi (Rizzoli). Un’elaborazione deglianni dell’adolescenza. Un ripensamen-to sulla palestra della vita in famiglia, inprovincia, in un silenzio dato da libri e ti-rocini umani.

Di fronte al suo exploit, che ci ha po-sto sotto gli occhi un linguaggio fatto dinarrazione intima e poetica, molti si so-no chiesti fino a che punto fosse perso-

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Per il pubblico televisivo resta,con Lopez e Solenghi, la donnadel “Trio”. Ma è molto più di unabrava attrice comica. A teatro

ha coronato un suo sognointerpretando la Winniedi Beckett. Poi stupìmolti con un libroraffinato e melanconico:“Scrivere mi aiutaa rendere bello quello

che bello non è. Volevo soltantotestimoniare la possibilità di trovaregrazia e senso anche dentro il dolore”

Anna Marchesini

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Repubblica Nazionale