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DOMENICA 3 APRILE 2011/Numero 320 D omenica La di Repubblica spettacoli Pokémon, piccoli mostri crescono JAIME D’ALESSANDRO e SANDRO VERONESI cultura Enzo Mari, il design della mia vita MAURIZIO FERRARIS e ENZO MARI i sapori La sottile invenzione del carpaccio ARRIGO CIPRIANI e LICIA GRANELLO l’incontro Westwood, compleanno da bad girl GIUSEPPE VIDETTI l’attualità La Beirut a colori di Gabriele Basilico PINO CORRIAS NICOLA LOMBAROZZI GAGARIN (Smolensk) M anda giù quest’acqua fredda, Jurij. È leggera, ti fa volare. Cinquant’anni dopo, circondato da una scolaresca in gita, il vecchio pozzo di casa Gaga- rin conserva l’aria fiabesca e scalcinata della pia- nura russa. A questo mestolo di legno pensava il più famoso cosmo- nauta della storia la mattina del 12 aprile 1961 sulla rampa di lancio di Bajkonour, repubblica sovietica del Kazakhstan. Ne avrebbe par- lato dopo con gli amici: della leggenda del pozzo e degli scherzi del papà falegname quando si mise in testa la folle idea di fare il pilota. Rito scaramantico e contagioso, se è vero che ancora oggi i cosmo- nauti russi, non più eroi ma impiegati dello Spazio, vengono a farsi una mestolata d’acqua prima di ogni missione. (segue nelle pagine successive) VITTORIO ZUCCONI WASHINGTON E ra il tempo del panico, nella grande villa bianca al cen- tro di Washington. Niente, ma proprio niente, sembra- va andare nel verso giusto in quella primavera del 1961 per John Fitzgerald Kennedy, colui che aveva vinto le elezioni da pochi mesi proprio martellando sul tasto del “missile gap”, della superiorità missilistica dell'Unione Sovietica. Appena quattro anni prima, il bip-bip del primo satellite artificiale, lo “Sput- nik”, aveva trafitto con il suo monotono pigolio la superbia yankee. I vettori militari americani sembravano non riuscire a far di meglio che lanciare in risposta pompelmi meccanici di pochi centimetri di diametro mentre lo Sputnik aveva avuto già una massa di 83 chili. (segue nelle pagine successive) con un articolo di ARRIGO LEVI Cinquant’anni fa l’Urss lanciava in orbita il primo cosmonauta: Jurij Gagarin Così la Guerra fredda conquistava anche lo Spazio Uomo L’ delle stelle FOTO BETTMANN/CORBIS Repubblica Nazionale

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DOMENICA 3 APRILE 2011/Numero 320

DomenicaLa

di Repubblica

spettacoli

Pokémon, piccoli mostri cresconoJAIME D’ALESSANDRO e SANDRO VERONESI

cultura

Enzo Mari, il design della mia vitaMAURIZIO FERRARIS e ENZO MARI

i sapori

La sottile invenzione del carpaccioARRIGO CIPRIANI e LICIA GRANELLO

l’incontro

Westwood, compleanno da bad girlGIUSEPPE VIDETTI

l’attualità

La Beirut a colori di Gabriele BasilicoPINO CORRIAS

NICOLA LOMBAROZZI

GAGARIN (Smolensk)

Manda giù quest’acqua fredda, Jurij. È leggera, ti favolare. Cinquant’anni dopo, circondato da unascolaresca in gita, il vecchio pozzo di casa Gaga-rin conserva l’aria fiabesca e scalcinata della pia-

nura russa. A questo mestolo di legno pensava il più famoso cosmo-nauta della storia la mattina del 12 aprile 1961 sulla rampa di lanciodi Bajkonour, repubblica sovietica del Kazakhstan. Ne avrebbe par-lato dopo con gli amici: della leggenda del pozzo e degli scherzi delpapà falegname quando si mise in testa la folle idea di fare il pilota.Rito scaramantico e contagioso, se è vero che ancora oggi i cosmo-nauti russi, non più eroi ma impiegati dello Spazio, vengono a farsiuna mestolata d’acqua prima di ogni missione.

(segue nelle pagine successive)

VITTORIO ZUCCONI

WASHINGTON

Era il tempo del panico, nella grande villa bianca al cen-tro di Washington. Niente, ma proprio niente, sembra-va andare nel verso giusto in quella primavera del 1961per John Fitzgerald Kennedy, colui che aveva vinto le

elezioni da pochi mesi proprio martellando sul tasto del “missilegap”, della superiorità missilistica dell'Unione Sovietica. Appenaquattro anni prima, il bip-bip del primo satellite artificiale, lo “Sput-nik”, aveva trafitto con il suo monotono pigolio la superbia yankee.I vettori militari americani sembravano non riuscire a far di meglioche lanciare in risposta pompelmi meccanici di pochi centimetri didiametro mentre lo Sputnik aveva avuto già una massa di 83 chili.

(segue nelle pagine successive) con un articolo di ARRIGO LEVI

Cinquant’anni fal’Urss lanciavain orbita il primocosmonauta:Jurij GagarinCosì la Guerra freddaconquistavaanche lo Spazio

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Repubblica Nazionale

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PROPAGANDADa sinistra

a destra,

Jurij Gagarin

con Nikita

Krusciov leggono

la Izvestia

che celebra

l’impresa;

le foto del lancio;

un ritratto

di Gagarin

in orbita;

francobolli

commemorativi

e la Piazza Rossa

in festa dopo

la missione

40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 3 APRILE 2011

L’uomo delle stelle

NICOLA LOMBARDOZZI

(segue dalla copertina)

Ma a bordo della sferad’acciaio “Vostok 1”non c’era solo unsemplice giovanottodi campagna. JurijAlekseevic Gagarin,

ventisette anni, era un tipo metodico cheaveva imparato tante cose. Gli obiettivitecnici della missione, con i complessicalcoli astronomici e ingegneristici, masoprattutto quelli politici: dimostrare lasuperiorità planetaria del sistema sovieti-co. Fedele al Partito, sobrio, senza fame diricchezze e protagonismo, era il candida-to perfetto, selezionato tra i migliori avia-tori dell’Urss. Così perfetto da battere nel-lo spareggio finale il suo caro amico. AGerman Stepanovic Titov, insofferentealle gerarchie militari e un po’ troppo af-fascinato da vodka e ragazze, sarebbe toc-cata pochi mesi dopo la “Vostok 2”. Unamissione più lunga (oltre 25 ore) e diffici-le ma inevitabilmente ai margini dei libridi Storia.

Al figlio del falegname di Klushino toc-cava la Gloria. E lo sapeva bene. Quandosentì la spinta dei razzi e la Terra che si al-lontanava, alle 9 e 07, ora di Mosca, non glivenne altro da dire che «Andiamo!». Ba-nale, forse, ma adesso quell’incitazione,tradotta in cinque lingue, è dipinta sulmuro del piccolo museo della cittadina aquindici chilometri dal villaggio di Klu-shino, dove la famiglia Gagarin si era tra-sferita all’inizio degli anni Cinquanta. Po-che migliaia di anime per un centro agri-colo in disarmo che si chiamava Gzhatske adesso Gagarin gorod. Proprio qui, affi-dato a ex ragazze che quel giorno festeg-giarono in strada il trionfo mondiale delloro compagno di giochi, sorge il più te-nero museo dello Spazio del mondo. Ca-setta in legno e mattoni, macchie d’umi-do sui muri, cartoline, vestiti, fotografie. E

“Quel giornotutta l’Urss volò”

I RUSSI

LE TAPPE

Alle 9.07 del 12 aprile 1961 un pilota ventisettenne, figlio di un falegname,di una contadina e del Partito, si trasformò nel primo essere umanolanciato nello Spazio. Cinquant’anni dopo, nel suo paese natale, i vecchi amicidi Jurij Gagarin festeggiano la memoria dell’eroe sovietico che con una solaimpresa sconfisse gli Stati Uniti. E ricordano con tenerezza le uniche paroleche riuscì a pronunciare prima della missione: “Andiamo”

la copertina

tuffo verso la Terra. Dondolii e oscillazio-ni terrificanti. Gagarin deve aver pensatoai suoi predecessori. Alla cagnetta Laika,destinata a morire, nello Sputnik 2 del1957. Alle più fortunate bastardine Belkae Strelka rientrate sane e salve l’anno pri-ma. E soprattutto a Ivan Ivanovic Secon-do, il manichino a sembianze umane lan-ciato poco più di un mese prima, ultimasimulazione in vista della storica missio-ne. Ma la paura finì presto. A 7000 metridal suolo, Gagarin fece l’unico gesto auto-nomo di tutta la missione. Azionò il seg-giolino eiettabile e fu accompagnato daun paracadute rosso fino alle campagne a30 chilometri dalla città di Engels.

A Gagarin gorod celebrano ancora ildopo. La casa che il governo regalò ai ge-

nitori. Appartamentino modesto ma contelefono e tv mai visti prima nella campa-gna sovietica. La Volga nera, auto da pez-zi grossi del Partito, con cui Gagarin veni-va spesso a trovare gli amici. Elèna si com-muove: «Mai un attimo di arroganza, ve-niva a pescare anche quando fu nomina-to eroe dell’Unione sovietica». Il museoesalta i viaggi in cui l’eroe esportò la gloriapatria. Il bacio della Lollobrigida a un fe-stival del cinema. La foto del primo in-contro con Krusciov, Gagarin in altauniforme sul tappeto rosso. E le custodi tiindicano intenerite il particolare dellascarpa destra slacciata: «Poverino erastanco, non era uno da cerimonie». E siglissa sulla parte più dolorosa. La stranastoria della Soyuz 1, soprannominata «labara volante» per i troppi errori di proget-tazione.

Un Gagarin stanco di cerimonie volevaandarci a tutti i costi. Fu nominato solosupplente di Vladimir Komarov che sischiantò in atterraggio pochi mesi dopo.Scioccato più dal rifiuto che dallo scam-pato pericolo tornò a volare sui Mig mo-rendo in un incidente ancora molto di-scusso appena un anno dopo, il 27 marzodel ’68. Ma a Gagarin gorod il tempo si èfermato a quel 12 aprile. Quest’anno festacon giochi in piazza, alberi della cucca-gna, e corse sui trampoli. E poi tutti a Klu-shino per un sorso di acqua miracolosa.

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me né dove. I tubetti, mai aperti, sono inmostra al museo di Gagarin. Furono tra glioggetti che l’eroe fu più felice di donare aiposteri. Nel viaggio ebbe modo di dire co-se che avremmo sentito da decine diastronauti ma che allora nessuno imma-ginava: «Sapevate che la Terra è blu? È unacosa straordinaria». Tono tranquillo dapilota che sa controllare le emozioni mache cambiò nella fase di rientro. Pochi mi-nuti difficili in cui ci furono problemi disganciamento della parte strumentaleche doveva alleggerire la navicella nel suo

una ricostruzione artigianale, mappa-mondo, filo di nylon, un po’ di stagnola, diquel volo indimenticabile. Il primo essereumano in orbita ellittica intorno alla Ter-ra con un perigeo di 169 chilometri e unapogeo di 135, dicono gli esperti. Ma la si-gnora Elèna, che fa da custode al sacrarioin babbucce e foulard, ha ricordi menotecnici: «Com’era bello! Avevo dicianno-ve anni, scesi in piazza come tutti quandola radio diede l’annuncio. Parlava dell’or-goglio sovietico. E io mi sentivo più orgo-gliosa di tutti. Avevamo giocato, insieme,pescato i gamberi nel fiume. Eravamo an-dati tutti nello Spazio quella mattina».

Il viaggio durò appena un’ora e 48 mi-nuti ma dietro gli oblò della Vostok 1, sem-brò molto più lungo. Gagarin rimase sem-pre concentrato sul pannello di controllosul quale avrebbe dovuto intervenire incaso di guasto. Nel fondo della navicella,come nel bagagliaio di un’auto a un pic-nic, c’era una scorta di tubetti contenentimisteriose paste simili a dentifricio. Era-no i primi tentativi di cibo spaziale da usa-re nel caso di mancato funzionamento deiretrorazzi. I tecnici avevano calcolato che,in quella circostanza, la Vostok sarebberientrata in maniera “naturale” solo dopodieci giorni. Ma non sapevano bene né co-

1961 VOSTOK 1Il 12 aprile Jurij Gagarinè il primo uomo lanciatoin orbita intorno alla Terranella navicella Vostok 1

1969 APOLLO 11Il 19 luglio Neil Armstrong,a capo della missioneApollo 11, è il primo uomoa camminare sulla luna

1970 VENERA 7La sonda Venera 7è la prima ad atterraresu Venere e a trasmettereun segnale alla Terra

1971 MARINER 9La sonda Mariner 9entra in orbita intornoa Marte: nel 1965c’era stato il primo sorvolo

1958 MERCURYLa prima vera rispostaamericana è il programmaMercury: un primate,Gordo, è lanciato in orbita

1957 SPUTNIKLa corsa alla conquistadello spazio inizia il 4 ottobrecon il lancio del primo satellitesovietico: lo Sputnik

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 3 APRILE 2011

VITTORIO ZUCCONI

pallina sparata in cielo», la presenza di unessere umano volante a 300 chilometrid’altezza, e di un “homo sovieticus”, ave-va cambiato tutte le regole del gioco.«Space needs a face» dicevano alla neona-ta Nasa, lo Spazio ha bisogno di una fac-cia, per colpire l’immaginazione del pub-blico, un volto di uomo, non i musi dellecagnette o degli scimpanzé che già eranostati crudelmente sacrificati sull’altaredello Spazio. Kennedy era nel panico. Néil suo umore migliorò di molto quando,appena cinque giorni dopo lo shock Ga-garin, il 17 aprile una banda di mercenarimale armati e peggio sostenuti naufraga-rono sulla Playa Giron cubana, la baia deiPorci. Niente, proprio niente, andava peril verso giusto. «Trovatemi qualcuno chesappia come rispondere a questa impre-sa sovietica, chiunque, non mi importa sesia l'usciere, purché abbia l'idea giusta», siagitava Kennedy. Invano i generali e gliscienziati cercarono di spiegargli che Ga-garin non significava nulla, che era uno«stunt», un effetto speciale propagandi-stico senza alcun senso militare o scienti-fico, perché la potenza mostruosa dei vet-tori russi era dettata dalla necessità di por-tare in orbita ordigni nucleari primitivi epesantissimi, mentre il Pentagono aveva

scelto la direzione opposta, bombe sem-pre più miniaturizzate, per essere lancia-te da missili sempre più piccoli. «Il restodel mondo ci guarda, il Terzo Mondo, chenon sa nulla di spinta, portata, vettori, or-bite, dirà che gli Stati Uniti stanno per-dendo la propria superiorità sull’Urss» sidisperava Jfk. L’idea venne a lui stesso, aKennedy, e fu infatti un’idea politica, unagrandiosa sfida propagandistica, non tec-nologica. Sei settimane soltanto dopo ilvolo del figlio di un falegname e di unacontadina russi, cresciuto in una comuneagricola e dunque perfetto esemplaredell’“uomo nuovo” realsocialista, Jfk sipresentò il 25 maggio davanti alle Came-re riunite. Annunciò che l’America avreb-be fatto molto di più, che avrebbe sma-scherato il bluff di Krusciov e sarebbe an-data, con la propria faccia, non con robot-tini, oltre Gagarin. Sulla Luna. Soltanto inprivato, per non perdere il posto che dapochi mesi gli era stato assegnato proprioda Kennedy, il direttore della Nasa JamesWebb, osò dire quello che molti nella co-munità dei “rocket scientists” della scien-za missilistica, pensavano: «È un’idiozia,un’impresa che sfascerà i nostri bilanci etoglierà miliardi a ricerche ben più im-portanti, è un esercizio di puro machismo

da ragazzini che giocano a vedere chi fapipì contro il muro più da lontano e più inalto». Qualcuno rifiutava di crederci. Ne-gli stadi di calcio italiani, gli altoparlantiblateravano le note di una canzone sarca-stica, Tango Bugiardo, Tango Gagarin.Come sarebbe accaduto per l’allunaggio,anche per la “Vostok 1" abbondavano gliscettici e gli increduli, per motivazioniideologiche. Otto anni dopo, nel 1969,tanto l’intuizione di Kennedy quanto i ti-mori di Webb si sarebbero avverati, con ilpiedone di Neil Armstrong nelle polveredel Mare della Tranquillità. Senza Gaga-rin non ci sarebbe molto probabilmentestato un uomo sulla Luna. Fu uno sforzoindustriale, scientifico e finanziario co-lossale. Costò oltre 100 miliardi in dollaridi oggi, ma l'America aveva dimostrato atutti chi fosse il bambino che la faceva piùlontano. E la Nasa, dopo avere sbattutocon il muro dell’«e adesso che facciamo?»,avrebbe cominciato il languore della cre-scente indifferenza dei contribuenti. Lastessa trappola, lo stesso «stunt» nei qualiora indiani e cinesi stanno cadendo, perpartecipare anche loro al gioco del bullospaziale. Un rito di passaggio dall’infan-zia alla maturità.

Quando la risposta definitiva alla sfidadi Gagarin si consumò nel 1969, i duellan-ti originali nel “mezzogiorno spaziale”non erano più ai comandi. Kennedy se-polto ad Arlington. Krusciov defenestratoper avere tentato un altro bluff missilisti-co, a Cuba. Ben altre notti di panico avreb-bero scosso gli inquilini della Casa Bian-ca. Al mondo restarono circuiti integrati eprocessori microscopici, chiusure al vel-cro e omogeneizzati per neonati, purifi-catori per l’acqua e l’aria, lenti antigraffioe moonboot isolanti. E il ricordo di un de-cennio nel quale i Grandi della Terra sicomportavano come maschietti contro ilmuro dell’ultima frontiera.

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E Jfk disse ai suoi“Voglio la Luna”

Corrispondenze da una Mosca col naso all’insùARRIGO LEVI

GLI AMERICANI

Durante la notte fra l’11 e il 12 aprile 1961 su Mosca era caduta la neve, e la città si era sve-gliata tutta bianca. Ma il sole era presto comparso in un cielo sgombro di nubi e l’umidaneve dell’aprile russo si era tutta sciolta. Mosca era splendida. La notizia del lancio di una

nave spaziale chiamata “Vostok” (Oriente), con a bordo un “cosmonauta” chiamato Jurij Alek-seevic Gagarin, si ebbe alle 10 dalla radio, dalla voce solenne di Jurij Levitan, la voce che avevadato al mondo la notizia della resa del nemico a Stalingrado.

Subito dopo mi arrivò all’Hotel Budapest, dove alloggiavamo, la telefonata di Gaetano Afel-tra, direttore di fatto del Corriere d’Informazione: «Arrighe, a mezzogiorno voglio una grandecronaca di cose viste». Così, interruppi a un certo punto l’ascolto e uscii per strada: ma Moscaera ancora tranquilla, con piccole folle silenziose raccolte attorno agli altoparlanti disposti intutta la città.. Solo dopo l’annuncio del felice ritorno alla terra del primo cosmonauta, un’ora e28 minuti dopo il lancio, una folla immensa si riversò nelle strade e nelle grandi piazze — Piaz-za del Teatro, della Rivoluzione, del Maneggio — che conducono alla Piazza Rossa. Una follache fino a notte ballava e cantava, gente che si abbracciava e baciava, donne che piangevano digioia. Tre giorni dopo, con l’incontro a Mosca fra Gagarin e Krusciov, la Piazza Rossa conobbela manifestazione più grandiosa dal giorno della vittoria. In verità eravamo tutti un po’ com-mossi. Nel suo discorso Krusciov paragonò Gagarin a Colombo, disse che l’Urss era «genero-samente disposta a condividere i risultati della sua superiorità scientifica e tecnologica con tut-ti coloro che vogliano vivere in pace con noi», ma aggiunse: «Questi risultati ci danno una co-lossale superiorità dal punto di vista della difesa del nostro paese: coloro che affilano i coltelli

contro di noi sappiano che Jurij è stato nello spazio, ha visto tutto e sa tutto». Ma nel suo discorso Krusciov non mancò di parlare anche dei problemi “terrestri” dell’Urss:

in aprile le scorte di viveri erano quasi finite, non erano ancora arrivati i nuovi prodotti prima-verili, al “Zentralnij Rynok”, il Mercato Centrale, mia moglie faceva lunghe code per le patate.L’Urss era potente e povera. (Per avere poi ricordato questa realtà, le Izvestia mi dedicarono uncorsivo che mi definiva «un maiale che fruga nella spazzatura mentre tutti alzano lo sguardo alcielo»). Quando, ad agosto, sull’onda dei trionfi spaziali, Krusciov presentò il Programma Ven-tennale che dava per prossimo il sorpasso di un Occidente in rovina da parte di un’Unione So-vietica divenuta il Paese più ricco del mondo, annunciò soltanto sogni che non si realizzaronomai. Mentre il volo di Gagarin convinse Kennedy a lanciare il piano che portò in una decinad’anni al primo allunaggio. Ma quel giorno d’aprile tutto sembrava possibile alla «Russia deilapti» (le povere calzature del contadino russo: così la definì con orgoglio Krusciov), divenutauna superpotenza spaziale (e militare). Oggi la guerra fredda è finita insieme con il comunismo,e grazie alla collaborazione fra Russia, Stati Uniti ed Europa lo spazio è di casa. Quel breve volodi Gagarin può sembrarci poca cosa. Allora fu una “svolta storica”, per il mondo intero. Quan-do a mezzogiorno telefonai all’Informazione col mio pezzo pronto, Gaetano mi chiese: «Arri-ghe, hai scritte?». Ma certo, risposi. «Allora butta via tutto, parla, parla, dì tutto quello che ti pas-sa per la testa». Ovviamente obbedii.

L’autore è stato corrispondente da Mosca del Corriere della Sera dal 1960 al 1962

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(segue dalla copertina)

Enella notte del 12 aprile1961, erano le tre del matti-no ora di Washington, Jfk fusvegliato dal funzionario diturno al Consiglio per la Si-curezza Nazionale con la

notizia che un russo, chiamato Jurij Gaga-rin, aveva fatto un giretto attorno al nostropianeta, primo essere umano a raggiun-gere la Frontiera oltre la gravità terreste,con la falce e il martello dell’Unione So-vietica dentro una palla di cannone chia-mata, polemicamente, “Oriente 1”.

Fu come se il tempo della politica, del-la Guerra Fredda e delle decisioni avesseconosciuto la stessa accelerazione vio-lenta da 0 a 27 milachilometri dei po-tentissimi razzi“Semyorka” R7,sparati dalla base diBajkonour nel Ka-zakhstan per lan-ciare Gagarin co-me un modernoBarone diMuenchausen.Se ancora Ei-senhower ave-va potuto licen-ziare lo “Sput-nik” come «una

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42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 3 APRILE 2011

«L

l’attualitàTestimonianze

C’era stato la prima volta durante gli anni in bianco e nerodella guerra civile documentando macerie su macerie,cratere dopo cratere. Oggi, mentre il Medio Orienteè in fiamme, uno dei maggiori fotografi italiani è andatoa rivedere quei posti. E come allora ha piazzatola macchina e ha scattato. Ma stavolta la città rivive a colori

BEIRUT

a fotografia è un istante del mondo, un rettangolomesso sul paesaggio, una tessera della memoria»:alle nove del mattino Gabriele Basilico cerca la suaprima inquadratura sotto al cielo azzurro di que-sto Medio Oriente assediato da fuochi che brucia-no in Libia e Siria. Davanti al venditore di falafelpassano Suv veloci come vento tra i palazzi appe-na rivestiti di tufo e acciaio. Gli uomini della secu-rity Hawk presidiano la Moschea al Amin, con lesue cupole blu, e la cattedrale ortodossa di SanGiorgio. Dice che la prima foto del suo nuovo viag-gio a Beirut vuole farla qui, in Place des Martyrs, laPiazza dei Martiri, rinata vent’anni dopo. «Neigiorni del mio primo viaggio, anno 1991, qui c’era-no pioggia, fango, macerie». Ora Beirut ha ripresoi colori della vita dopo i quindici anni in bianco enero della guerra civile che ha crivellato tutti i suoipalazzi, accatastato duecentomila cadaveri tral’ovest sciita e l’est cristiano, che si contendevanoogni centimetro di vita lungo la Linea verde abita-ta dai cecchini. Basilico piazza il treppiede dellasua Linhof Technikardan che va caricata con unnegativo alla volta. L’inquadratura, che controlla

infilando la testa sotto al drappo nero, come si fa-ceva mezzo secolo fa, gli compare rovesciata nelvisore. Lui calcola la disposizione degli edifici «co-me fossero masse astratte, disposte lungo le lineedella luce e dell’ombra». Sono la sua geometria.Sono la sua poetica: «L’idea di riprodurre il mon-do con un massimo di densità, un massimo di si-gnificato, in un colpo d’occhio irripetibile». Indicaun punto, dice: «La Linea verde passava laggiù».

Come tutti i grandi fotografi Basilico vede coseche a occhio nudo non si vedono. Racconta: «Sa-pevo, nei giorni del ’91, che il dopoguerra avrebbecancellato ogni traccia, ogni maceria, perché è co-sì che fanno i sopravvissuti per ricominciare a vi-vere e che la responsabilità di quella memoria sta-va in ogni mia inquadratura. Per questo fotografaimoltissimo, 530 scatti in due settimane, una vora-gine alla volta, senza mai abituarmi né all’emozio-ne, né all’orrore».

Regola a 22 il diaframma. Verifica la luce. Perchéè nella luce dei cristalli che adesso — dopo le ulti-me guerre del 2006 e del 2008 — si irradia la nuovaavventura di una delle città più fascinose al mon-do, stesa tra i fertili monti dello Chouf, dove sorgeil sole, e il Golfo, dove tramonta, con il suo calen-dario di modernità che incalza. Ogni giorno si ce-lebrano inaugurazioni di centri commerciali pie-

“Il mio ritorno a Beirut”PINO CORRIAS

BASILICOni di computer cinesi, gioielli italiani, arredi india-ni. Ogni sera aprono ristoranti nel quartiere allamoda di Hamra, e gallerie d’arte con artisti sele-zionati a Londra e Dubai. Rinascono le torri a cin-que stelle delle multinazionali che in questi anni sierano spostate negli Emirati.

Il suo ritorno è un omaggio al presente e alla me-moria: «Questa piazza era solo polvere. Tutto erastato distrutto, smontato, rubato, anche le targheblu delle strade. E nel nulla, laggiù, c’era questoMoammed che in un negozio sfondato preparavatè verde e caffè nero per i passanti. Solo che nonc’erano passanti. C’eravamo solo io, la mia mac-china fotografica e un gatto».

I palazzi e i cantieri qui intorno fanno tutti capoa Solidere, la società immobiliare che fu di RafikHariri, il primo ministro sbriciolato con trecentochilogrammi di esplosivo il 14 febbraio del 2005, eche adesso è stata eredita dal figlio, anche lui pri-mo ministro, anche lui ingranaggio di questo eter-no ritorno. È Solidere che ha invitato Gabriele Ba-silico, per offrirgli tutti i nuovi rettangoli di questacittà che eternamente rinasce dalla ceneri. Adde-strata a soffrire e insieme a godersi le pigrizie delladolce vita levantina. A contenere l’inferno deicampi profughi palestinesi e le notturne follie deljet set. A subire gli assedi israeliani e quelli di Hez-

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 3 APRILE 2011

le scattano a velocità supersonica. Io mi godo lapellicola. Impiego anche mezzora prima di unoscatto. Aspetto la luce. Aspetto il vuoto di traffico epassanti che valorizzi il pieno delle architetture.Penso che nella lentezza della visione ci sia la sal-vezza del vivere e una chiave per capire di più». Èdifficile che Basilico faccia più di venti scatti in ungiorno. È difficile che scelga un punto facile o co-modo per inquadrare. Sale sui muretti. Spostatransenne. Si piazza sul tetto più alto o al centrodell’incrocio più trafficato. Confessa: «Mi piacetantissimo rompere i coglioni a tutti: spostatevi,devo fotografare».

Ride, ma quel «devo» è autentico. Perché foto-grafare è la sua missione. Il suo modo di racconta-re il mondo dai tempi in cui, appena finita archi-tettura a Milano, appena passato il ’68, appena fi-niti i primi reportage sull’onda delle foto di Beren-go Gardin e di Ugo Mulas, scoprì il lavoro di Bernde Hilla Becker che nel nord Europa campionavanol’archeologia industriale. Lasciò la Nikon e acqui-stò la sua prima Hasselblad usata. Cominciò a fo-tografare le fabbriche di Sesto San Giovanni, le co-ste industriali della Francia, le ciminiere, comefossero ritratti di persone e non di cose. Dice: «Daallora ho fotografato e raccontato più di sessantacittà. Che adesso sono il mio personale mosaico

del mondo, la mia città virtuale, che esiste in ognidettaglio, senza esistere davvero». Durante la suaprima cena a Beirut, l’altra sera una signora gli hadetto: «Ho visto le sue foto del ’91 e le ho trovatepiene di sentimento. Lei conosce l’equilibrio tra labellezza e il dramma. Ama Beirut e ha scoperto ilmodo di parlarle». Basilico si è commosso. Disse:«Parlarle e farle raccontare la sua storia era lo sco-po di quel viaggio».

Ora che è quasi arrivato il momento del primoscatto, qui nella Piazza dei Martiri, racconta che inquei giorni lontani, ogni tanto passava daMohammed a bere il tè e a riposarsi gli occhi. «Unavolta trovo un americano seduto in mezzo a unpaio di vecchi che fumano il narghilè. Era RobertFrank, il grande fotografo, il maestro di tutti noi.Girava in calzoncini con una Polaroid semipro-fessionale, parlammo per un’ora della città. Sco-prii che cercavamo la stessa luce. E ci incantava lastessa solitudine». Anche stavolta trovare le due-centocinquanta inquadrature della nuova Beirutsarà un viaggio solitario. Una somma di istanti co-me questo, quando finalmente una nuvola si scio-glie, la luce e la prospettiva della piazza finalmen-te coincidono, e Gabriele Basilico scatta il suo pri-mo click.

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PRIMA E DOPO

Le foto di queste pagine di Gabriele Basilico

sono vedute di Beirut in bianco e nero

(anno 1991) e a colori (2011)

Nell’altra pagina in alto da sinistra,

Hotel Hilton ouest e Place de Martyrs;

in basso, rue Dirké e Minet el Hosn (Four Seasons

Hotel e Marina Tower)

In questa pagina in alto,rue Al Omari Mosque;

in basso da sinistra, rue Ahmed Chaouqi

e Avenue du Parc (area in costruzione)

bollah. Il tallone di ferro dei siriani e i tacchi a spil-lo delle ragazze che danzano le loro notti occiden-tali tra i laser del Crystall e del Club Set.

«Di tutte le città che ho fotografato, Beirut èsempre quella che mi emoziona di più. Ci ritrovoRossellini, De Chirico, Piranesi. Ci sono rovine fe-nice, romane, ottomane. E lungo lo stesso asse loscheletro dell’Holliday Inn che sembra anche luiun reperto archeologico, oppure quella meravi-glia laggiù, la Boule». Quello che resta della Boule,la porzione di una sfera in cemento e ferri ritorti,sta al centro della piazza. È il vecchio cinemaOrient tagliato a metà dai bombardamenti. Unabolla del tempo che probabilmente rimarrà comemonumento e monito, tra i palazzi che sta dise-gnando Jean Nouvel. Nei centottanta ettari di can-tieri stanno sorgendo non meno di trecentocin-quanta nuovi edifici. È il più grande investimentoimmobiliare del Medio Oriente, già spesi sette mi-liardi di dollari. Altrettanti se ne investiranno neiprossimi dodici anni quando anche sulle maceriedella città distrutta sorgerà il nuovo polo finanzia-rio, ristoranti, un parco, lo yatch club. Basilico nonè ancora soddisfatto dell’inquadratura. Sposta,controlla, aspetta. Il suo modo di fotografare ha lelentezze del rallenty, «quello che ti permette di ve-dere bene un gol». Dice: «Oggi i fotografi in digita-

Repubblica Nazionale

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DOMENICA 3 APRILE 2011

Il vassoio Putrella, il vaso Camicia, il posacenere Borneo,i “panettoni” nel traffico di Milano, i giochi degli animali. Ma anchela famiglia umile, gli inizi da autodidatta, le ore passate in officinafino alle lezioni tenute all’università. Etica ed estetica del prodottoindustriale: esce l’autobiografia del più grande creatore di oggetti

CULTURA*

Per molti milanesi è quello deipanettoni, cioè dei grossi pa-racarri in cemento che a lungo

hanno fatto parte del paesaggio,esprimendo del resto molto bene lesue idee di fondo, il tentativo di met-tere insieme la funzionalità (i grossiblocchi servivano a delimitare deglispazi, ma potevano essere spostati, aseconda delle esigenze, e all’uopoerano dotati di un anello per aggan-ciarli), un certo ascetismo (i blocchierano di cemento, austerissimi), euna riconoscibilità formale (ricorda-vano appunto dei panettoni). Ma l’at-tività di Enzo Mari si ritrova in moltialtri oggetti che sono entrati a far par-te, se non del paesaggio, almeno del-l’arredo di molti ambienti, come i ca-lendari in legno, i cestini, i portado-cumenti, le poltrone, i giochi perbambini.

Mari spiega che alla base della suaprogettazione c’è il desiderio di pro-porre delle forme indipendenti dallamoda, destinate a durare, facili da rea-lizzare tecnicamente, e che portinocon sé, quando è possibile, un po’ delfascino degli oggetti e degli ambientiindustriali, come accade esemplar-mente nel vassoio Putrella, fatto ap-punto con una putrella piegata ai bor-di, che porta il cantiere nel salotto. Al-tri tempi, verrebbe da dire, visto chenegli ultimi anni il fascino degli am-bienti industriali si è molto appanna-to. Ma non la potenza estetica sponta-nea che hanno gli oggetti, e che il desi-gn di Mari cerca di portare in luce. Po-trei sbagliarmi, ma, in questo “porta-re in luce”, nello sforzo che richiede,c’è qualcosa che si pone all’antitesi diun grande mito istitutivo dell’arte delNovecento, Duchamp e il ready made.

Nel caso di Duchamp, infatti, l’ideaè che qualunque cosa, presa da unambiente di produzione standardiz-zata — sia essa un orinatoio, uno sco-labottiglie o una ruota di bicicletta —può essere un’opera d’arte, qualorariceva la benedizione di un mondodell’arte che decreta che si tratta diun’opera. Nel caso di Mari assistiamopiuttosto a una ricerca che ha lo scopodi produrre un buon oggetto, attivitàper la quale, diversamente che nel ca-so dell’arte, non basta l’assenso di uncritico e di un gallerista. Bisogna fare iconti con esigenze di funzionalità, diriproducibilità tecnica, di realizzabi-lità industriale.

Di qui un paradosso su cui forse va-le la pena di riflettere. Il senso comu-ne contemporaneo è abituato, pro-prio in base all’esperienza del readymade, a considerare che qualunquecosa può essere un’opera d’arte. Ma altempo stesso il design ci insegnaquanto difficile sia produrre dei buo-ni oggetti, e che non è affatto vero che,per esempio, qualunque oggetto puòessere un oggetto di design.

Come risultato, se è vero che l’esse-re opera d’arte è, per un oggetto, qual-cosa come una santificazione, mentrel’essere un oggetto di design è, per co-sì dire, una promozione di rango mi-nore, una sorta di beatificazione, si di-rebbe che nel Novecento sia stato piùfacile essere santi che beati.

cora e c’è chi li considera dei “classici”. So di averseguito sempre la stessa ricetta, la mia. Quando misi chiede un progetto nuovo, anziché cercare d’in-ventare chissà cosa, mi limito a mettere i puntinisulle “i”, tenendo ben ferme un paio di convinzio-ni: la forma dev’essere eterna, fuori dal tempo, li-bera dalle mode, e la sua qualità dev’essere allaportata di chi fabbrica l’oggetto, come succedevauna volta. Perché, quando entro in un’officina, seimparo qualcosa sul piano della tecnica, sento didover trasmettere qualcos’altro sul piano dellacultura formale e umanistica: è lì, che si nascondel’anima delle cose.

E poi mi pongo tre domande: quale bisogno do-vrà soddisfare quest’oggetto? Con quale materia equali strumenti lo si può realizzare? Con quale for-ma? Molti miei colleghi e illustri teorici accettanoche siano le ricerche di mercato a stabilire cosa èimportante per la gente, mentre sappiamo che es-

© RIPRODUZIONE RISERVATA

ENZO MARI

Il designoltre la modaMAURIZIO FERRARIS

DORMEUSE (1999) CALENDARIO TIMOR (1966) SERIE DEI 16 ANIMALI (1957) SERIE DELLA NATURA (1961) SAMOS (1973)

IL LIBRO

Sarà in libreria martedì

5 aprile 25 modi

per piantare un chiodo,

l’autobiografia

di Enzo Mari a cura

di Barbara Casavecchia

da cui sono tratti

il brano e i disegni

che pubblichiamo

in queste pagine

Il libro (192 pagine,

17,50 euro) è edito

da Mondadori

ENZO MARI

Se qualcunooggi dice che sono un bravodesigner, è perché ho avuto una forma-zione da artista, anziché imparare amenadito la miseria manualistica chesi propina nelle scuole specializzate.

Non ho mai separato i miei due percorsi di ricerca,che si sono intrecciati e sovrapposti per tutta la miavita. Il processo di elaborazione è identico. [...]

Nel 1958 Bruno Munari parla di me a Bruno Da-nese, che viene a trovarmi. Sintonia immediata: èun giovane della mia età, curioso, appassionato. Ègrazie a quell’incontro fortunato che la mia voca-zione ha la possibilità di esprimersi, e tramutarsi inun lavoro a tempo pieno: per Danese, dall’iniziodegli anni Sessanta ai Settanta, sviluppo una ses-santina di progetti messi regolarmente in com-mercio. Mezzo secolo dopo, una decina lo sono an-

44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA

Repubblica Nazionale

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se nascono solo dalla necessità di vendere, e di con-seguenza andrebbero guardate quantomeno consospetto. Credo che sia fondamentale che l’artefi-ce di un progetto prenda come riferimento se stes-so e i suoi bisogni: se riesce a individuare una ri-sposta corretta alle proprie necessità, è probabileche sarà anche la più corretta per gli altri.

Torniamo a Bruno Danese. [...] A posteriori, cre-do che esistano due tipi di imprenditore: uno, il piùdiffuso, ritiene che un prodotto sia solo lo stru-mento necessario per fare soldi, e con questa cate-goria è impensabile realizzare un buon oggetto.L’altro, invece, pensa che il successo commercialesia necessario, perché consente di alimentare unasincera passione per il lavoro. In tal caso, è più pro-babile fare qualcosa di decente.

Il primo progetto che mi chiede Danese è unaciotola. Forse un po’ a sorpresa, gli propongo diusare come materiale il ferro, perché vorrei acqui-sirne le tecniche di lavorazione. Decido di partiredai semilavorati, cioè le lamiere e i profili d’acciaiocoi quali si fabbrica gran parte della nostra moder-nità, dalle rotaie ferroviarie alle putrelle per edifici.Prodotti industrialmente, hanno forme a mio giu-dizio perfette, perché di un’essenzialità assoluta,fatta per contenere in sé tutte le possibili variantisuccessive del costruire. Insomma, sono l’archeti-po del concetto di “standard”. [...]

Uno di quei modelli è la Putrella, ottenuta da unpesante segmento di trave metallica a doppio t, dicui ho incurvato verso l’alto gli estremi, in modo dafarla assomigliare a un vassoio. Non penso che aqualcuno verrà davvero l’idea di riempirla di aspa-ragi, frutta o cioccolatini, come poi mi è capitatospesso di vedere nelle vetrine, e invece incontra unsuccesso inaspettato. Oggi penso che quell’ogget-to sia la sintesi di tutto il design, perché cerca diqualificare esteticamente un prodotto industriale.

[...] Nel 1966 fumo due pacchetti di sigarette algiorno e decido di progettare un portacenere per-fetto e definitivo. Deve contenere comodamentequaranta mozziconi, essere stabile, afferrabile conuna sola mano, facilmente lavabile, possedere unbordo idoneo all’appoggio della sigaretta e un’areache ne faciliti lo spegnimento. Tra i primi schizzi ele fasi intermedie di progettazione passa un anno,durante il quale continuo a chiedermi che sensoabbia realizzare uno strumento perfetto per un vi-zio. Il giorno in cui ricevo il primo esemplare delBorneo, smetto di colpo di fumare. [...]

Nel 1968, Danese manda in produzione la zuc-cheriera Java, nata tre anni prima come modelloartigianale in Pvc. Si è deciso di tradurla in oggettoindustriale, in melammina stampata per alimenti,con il sogno di mettere a punto uno standard con-temporaneo: perfetto e di larghissima diffusione.Dev’essere un contenitore facile da afferrare, conun coperchio che immagino di fissare con una cer-niera, cioè un congegno elementare composto dauna serie di anelli tenuti insieme da un perno.

Mentre gli altri componenti della zuccheriera liavrebbe stampati una macchina, quel piccolo per-no sarebbe stato inserito a mano da un operaio. Èrisaputo che esistono due condizioni di lavoro:uno alienato e uno di trasformazione, riservato aun piccolo nucleo di fortunati, gli artisti, gli scritto-ri, i poeti, gli scienziati… e i progettisti. Disegnarequel perno per me significava posizionarmi senzafatica nel campo migliore, ma costringere un ope-raio a ripetere lo stesso gesto, ossessivamente, mil-le volte al giorno. Mi ribello al gioco delle parti, cer-co un’alternativa possibile e la trovo, progettandouna nuova cerniera, con tanto di brevetto d’inven-zione di primo livello. Da quel momento in poi, laJava viene utilizzata da Achille Castiglioni comeesempio di qualità progettuale durante le sue le-zioni al Politecnico di Milano. Ma da trent’anni èfuori catalogo.

© 2011 Arnoldo Mondadori Editore Spa

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45DOMENICA 3 APRILE 2011

AUTOPROGETTAZIONEA sinistra,

Enzo Mari

monta la sedia

classica 1

tratta

dal suo progetto

del 1973

MOSTRANella foto

in bianco e nero

in alto,

strumento

per le relazioni

di profondità

del ’65;

a sinistra,

allestimento

struttura lineare

per una mostra

di Danese

nel 1965

VASO CAMICIA (1961) VASO PAGO-PAGO (1968)

PUTRELLAIn basso,

il vassoio

Putrella

del 1958,

uno dei primi

oggetti di Mari

per Danese

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Praticamente in ogni casa dell’Occidente dove negli ul-timi quindici anni siano cresciuti dei bambini c’è uncassetto pieno di carte Pokémon, o della loro evolu-

zione italiana, i Gormiti; e, in genere disgiunto da questo,cioè nella stessa casa ma in altro loco — così come di solitogli archeologi trovano disgiunte le antiche statue dalle iscri-zioni che le accompagnavano, incise sui basamenti — , c’èun sacchetto o uno scrigno pieno di piccoli gadget di plasti-ca, mostri di plastica, cartucce di plastica di videogioco, cor-rispondenti a quelle collezioni di carte. Oggi sono quindicianni, si è detto, ma fra altri quindici saranno trenta, poi cin-quanta, poi cento: a quel punto probabilmente molte dellecarte/iscrizioni saranno andate perdute, ma i mostri e i gad-get, poiché non biodegradabili, saranno ancora da qualcheparte. Avremo voglia a buttarli via, infilandoli barbaramen-te nel sacchetto dei rifiuti generici: essi resisteranno, stre-nuamente, chimicamente, alla nostra volontà di sbarazzar-cene, e in qualche modo, da qualche parte, alcuni di loro ri-spunteranno. D’altron-de, stiamo parlando di miliardi dipezzi, perciò non è azzardato ipotizzare che almeno qual-che migliaio di esemplari (con una proporzione cioè di unosu un milione), riesca ad arrivare fino alla fine della propriavita chimica — che nella fattispecie, è bene ricordarlo, su-pera i mille anni. E dato che quando parliamo di Pokémon odi Gormiti — è bene ricordare anche questo — stiamo par-lando di mondi, la sopravvivenza fisica dei loro abitanti im-plica la sopravvivenza dei mondi medesimi, con tutto ciòche questo comporta. I nostri figli possono crescere quantogli pare, dimenticarsene, abbandonarli: non è che un mon-do smetta di esistere solo perché non lo si guarda più. Per ilsolo e semplice motivo d’esser stato creato, esso tende a so-pravvivere, a evolvere, e infatti per tutti i bambini che si fan-no ragazzi, e perdono interesse per Pikachu o per SommoLuminescente, ci sono altri bambini che scoprono i loro ba-rattoli abbandonati, dove cova il virus che li contagerà. E laplastica ne è al tempo stesso il simbolo e il genoma.

Ho una figlia di un anno e mezzo alla quale nessuno ave-va mai parlato di questi mondi. Per i suoi fratelli più grandiessi, i mondi dei Pokémon e dei Gormiti, hanno da tempoesaurito la propria attrattiva. Sono mondi che qualcuno hainventato, certo, ma che lei, invece, poche settimane fa, hascoperto: li ha scoperti con un gesto di inconsapevole ar-cheologia domestica — aprendo una vecchia scatola, rove-sciando in terra un cassetto; li ha avuti davanti agli occhi nel-la propria più vitale rappresentazione, grazie ai mostri cheli abitano e alla plastica che li trasporta intatti nel tempo; esubito dopo averli scoperti ha cominciato a maneggiarli, as-saggiarli, disporli, ammucchiarli, rovesciarli — ha comin-ciato, a modo suo, a giocarci. Tanto vano è, infatti, l’Unend-liche Aufgabe, l’impegno senza fine di collezionarli, quantoè semplice, ipnotico e irresistibile il messaggio che essi lan-ciano a chiunque se li trovi in mano per la prima volta: noisiamo qui per te. È per via della plastica, sapete — è perchénon invecchiano, e non portano mai il segno delle fissazio-ni che hanno generato e degli abbandoni che hanno subito.In questo senso sono, per l’appunto, invulnerabili; e la ra-gione semplice semplice del loro successo è che sono stati sìinventati una volta per tutte, ma non cessano mai di venirescoperti, ogni giorno, nelle vestigia delle infanzie preceden-ti che i bambini occidentali si trovano davanti scavando ne-gli strati di oggetti — quasi tutti di plastica — di cui le loro ca-se sono imbottite.

L’infinita scopertadei nostri figli

SANDRO VERONESI

© RIPRODUZIONE RISERVATA

OshawottPokémon di circa

mezzo metro

simile a una lontra

I suoi poteri

e i suoi attacchi

sono legati

all’elemento

dell’acqua

TepigNon supera

i 50 centimetri,

è simile a un maiale,

come Snivy

è uno dei Pokémon

con i quali si può

cominciare negli ultimi

due videogame

anni costruendo la prima coppia digiochi per Game Boy. Nessuno, nem-meno alla Nintendo, si aspettava unsuccesso del genere. Negli ultimi tempiTajiri, dato per morto erroneamente suTwitter durante l’ultimo terremoto inGiappone, ha preso a fare il consulentee supervisiona tutti i testi dei giochisenza però essere al centro della scena.A differenza dei suoi animali digitali. «Ilvero divertimento con i nostri videoga-me inizia solo una volta giunti al termi-ne della storia», conclude Masuda. Unastoria però che non sembra proprioavere fine. Anzi, come ogni adolescen-te, sembra essere nel pieno delle forze.

ReshiramPokémon di quinta generazione,

anche questo rarissimo

Alto oltre tre metri,

è un drago che usa

attacchi di fuoco

ZekromPokémon leggendario

di quinta generazione,

molto raro e potente

Di quasi tre metri,

è un drago

con poteri elettrici

complementare

a Reshiram

TRAINERAsh Ketchum, allenatore di Pokémon

insieme a Pikachu in uno dei film

sui piccoli mostri; in alto a destra, un aereo

della Ana Airlines dedicato ai Pokémon

i videogiochi venduti

dal 1996 a oggi

210 milionile carte del Trading Card

Game vendute

15 miliardi4 milioni

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47DOMENICA 3 APRILE 2011

© RIPRODUZIONE RISERVATA

le copie dell’ultima versione

vendute in Giappone in un mese

SnivyAlto 60 centimetri

è uno dei Pokémon

con i quali si inizia

negli ultimi due

videogame. Appartiene

alla specie Serperba

e la sua arma è il veleno

© 2011 POKÉMON

© 1995-2011 NINTENDO/

CREATURES INC./

GAME FREAK INC. TM, ®,

E NOMI DEI PERSONAGGI

SONO MARCHI REGISTRATI

DI NINTENDO

PikachuIl più noto della prima

generazione, compare

in diversi videogame

Alto 40 centimetri

ha poteri elettrici

ed è un Pokémon

Topo

Repubblica Nazionale

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Fossero tutti così gli adole-scenti avremmo un mondodi genitori probabilmentefelici, sicuramente ricchi. IPocket Monsters, meglionoti come Pokémon, han-

no appena compiuto quindici anni e lifesteggiano dall’alto dei 210 milioni divideogame venduti. Dopo Super Marionessuno si è spinto tanto avanti e allaNintendo sono ovviamente orgogliosi.Del resto, oltre alle cinque generazioniapparse nei giochi elettronici, ci sono letredici serie animate trasmesse in cen-tocinquanta paesi e tradotte in trentalingue, i dodici film, l’esercito di pupaz-zi e pupazzetti e il gioco di carte uscito

in quattro edizioni e per il quale sonostate stampate quindici miliardi di im-magini collezionabili.

Numeri da capogiro per un universo,anzi un ecosistema dalle mille sfaccet-tature, che non sembra aver mai cono-sciuto un momento di crisi. I quattro-centonovanta mini dinosauri da cac-ciare, collezionare e soprattutto scam-biare con gli amici, cavalcano la crestadell’onda con una bravura sconosciutaperfino ai personaggi della Disney. Eora, ormai quasi adulti, stanno cam-biando davvero. Nell’ultima avventurauscita da pochi giorni per la console ta-scabile Nintendo Ds, al solito suddivisain due versioni (chiamate in questo ca-so Bianca e Nera), hanno attraversatol’oceano per approdare a New York.Non solo: al posto di Pikachu e compa-gni, c’è una nuova generazione di mo-stri tascabili. Altra rivoluzione in un be-stiario fantastico che fin da quel lonta-no 1996, quando apparvero nei negoziPokémon Rosso e Verde per Game Boy,è sempre stato ampliato passo dopopasso ma mai rinnovato così radical-mente.

«Volevo un cambiamento netto»,racconta Junichi Masuda, direttoredella Game Freak, la software housegiapponese che ha creato il mondo deiPokémon. Oggi quarantatreenne, vi la-vora fin dalla sua fondazione ed è ilprincipale artefice della svolta. «Ero se-duto nel cortile del Moma e mi è venu-to in mente che sarebbe stato bellomettere al centro del prossimo video-

game Manhattan». Rivoluzione neces-saria forse, dato che in genere a ogniconsole portatile della Nintendo èsempre corrisposta una generazione diPokémon. Quest’ultima invece non so-lo è la seconda per Ds, ma arriva dopoOro HeartGolde Argento SoulSilverchehanno venduto undici milioni di copie.Un successo difficile da eguagliareusando i soliti cliché. Anche se saràmantenuto quel compendio immagi-nato oltre quindici anni fa da SatoshiTajiri, il padre autentico dei Pokémon.Classe 1965, è lui il bambino che amava

Parola composta

da due termini

in lingua inglese:

pocket (tascabile)

monster (mostro)

**

JAIME D’ALESSANDRO

collezionare insetti, l’appassio-nato di videogame che a malapena èriuscito a finire il liceo e che ha messo inpiedi con Sugimori la Game Freak. Erail nome della rivista amatoriale dedica-ta ai giochi elettronici che i due preseroa pubblicare dai primi anni Ottanta.Tajiri in seguito si mise a studiare il lin-guaggio di programmazione e dopo unvideogame intitolato Quinty, presentòl’idea dei Pokémon alla multinaziona-le di Super Mario. Sotto la guida di Shi-geru Miyamoto, che Super Mario lo hainventato, la Game Freak ha passato sei

Un giorno un bambino appassionatodi videogame, che amava collezionare insettie che non avrebbe mai finito il liceo,

ha un’idea. La porta alla Nintendo che quasi per scherzo la realizza. È il 1996,un esercito di minidinosauri invade il mercato, i ragazzini di tutto il mondoimpazziscono. Adesso Pikachu e gli altri sono diventati adolescenti,ma ancora pronti per la prossima generazione

SPETTACOLI

Piccolimostricrescono

CelebiÈ alto 50 centimetri,

della specie Tempovia,

ha poteri di “alternacura”:

impedisce ai Pokémon

di cambiare stato

46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 3 APRILE 2011

Ho-OhAlto tre metri

e 80 centimetri,

è un Pokémon

leggendario,

fra i più rari

Ha diverse abilità

e usa fuoco

e attacchi volanti

LugiaÈ uno di quelli più rari

Alto cinque metri

e 20 centimetri, è l’unico

a poter apprendere la mossa

leggendaria: l’aerocolpo

**

TotodileÈ di seconda generazione

ed è di tipo acquatico

Alto 60 centimetri,

è uno dei Pokémon

Mascellone

Repubblica Nazionale

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48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 3 APRILE 2011

Borsecome golosi pasticcini, esposte in allettanti vetrine che scate-nano il desiderio di fare shopping sfrenato. Piccole e grandi, rigi-de e morbide, le borse sono le grandi star di questa stagione dellamoda. Ma per essere davvero di tendenza, devono avere una ca-ratterista fondamentale: il colore, forte e deciso, meglio se ener-getico e abbagliante. Tutto è ammesso: dal rosa fucsia all’arancio,

dal verde smeraldo al blu cobalto, dal rosso al turchese. Via libera al viola, alle ri-ghe a contrasto e alle fantasie più stravaganti. Le borse colorate racchiudono insé un messaggio positivo. «Segnano la voglia di ripresa», sostengono gli stilistiche sperano di essersi lasciati alle spalle i momenti più bui della crisi. E sull’on-da di questo augurio le vetrine si riempiono di borse deliziose. La varietà di mo-delli è tale che anche le più incallite collezioniste restano affascinate da questofiume colorato che investe il mondo degli accessori. A sdoganare il colore hacontribuito moltissimo Miuccia Prada, con un’intera collezione dove le righe

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LAURA ASNAGHI

multicolor fanno la parte del leone. Sono ovunque, sugli abiti ma anche sulleborse, con chiusure metalliche. Con la complicità dell’estate, Prada ha messo daparte il nero, il colore più comodo e rilassante, di cui gli armadi delle donne so-no pieni, per attirare l’attenzione su una nuova estetica, meno austera e più vo-tata all’ottimismo. La rivoluzione del colore è appoggiata anche da Chanel. Leclassiche borsette in pelle trapuntata con il ciondolo caratterizzato dalla doppia“C” intrecciata sperimentano la forza del giallo e del rosa, da abbinare a jeans maanche a tailleur super griffati. Da Furla la grande novità di stagione sono le borsea forma di bauletto, in gomma colorata, già diventate oggetti di culto tra le fa-shioniste più esigenti. Colori a go-go anche in casa Hermès: dalle piccole allegrandi Kelly fino alle amatissime Birkin, la gamma cromatica è sempre più am-pia. Fendi e Roger Vivier da tempo credono in questo trend e le loro creazioni perla sera sono veri capolavori di alto artigianato. I Dolce e Gabbana hanno scelto icolori caldi dell’estate per “Miss Sicily” la loro borsa-icona, sulla cresta dell’ondada più stagioni, proposta in tutte le taglie. L’ultima nata è la versione marsupio.

La moda dà il via libera al colore e offre una vasta gamma di borse differenziateper i vari momenti della giornata. Ecco perché sempre più donne vanno in uffi-cio con le borse «matrioska». Ovvero quelle che, all’interno, contengono la po-chette morbida da sera o la clutch rigida, con la chiusura a scatto, per il cocktaildel dopo ufficio. Come ricordano gli stilisti, sono finiti i tempi in cui le donne ma-nager andavano alle feste trascinandosi le shopping bag o le tracolle cariche didocumenti. Adesso anche tra loro prevale il piacere di cambiarsi in vista delle fe-ste serali. E così con un borsa divertente e un paio di scarpe giuste, il gioco è fat-to. Smettono i panni della donna manager e riscoprono la loro femminilità.

La borsa è la vita(meglio se a colori)

le tendenzeIndispensabili

Piccole e grandi, rigide o morbide, effetto “matrioska”o stile bauletto. L’importante, almeno in primaverae in estate, è che non siano né classiche né austereE così da Miuccia Prada a Chanel, da Dolce e Gabbanaa Piero Guidi, trionfa l’allegria dell’arcobaleno per l’accessorio più trendy del guardaroba femminile

Millenniumbag

BALNEARELa borsa

dell’estate

di Carpisa

è grande

e a righe colorate

ESCLUSIVAEsclusiva

e originale

la pochette

fucsia da sera

Gherardini

FLOREALEStampe floreali,

su fondo bianco

per il bauletto

firmato D&G

BRILLANTEColori brillanti

per le pochette

di Gucci

con le nappine

sfrangiate

FOCOSARosso

fuoco

il secchiello

linea Bold

di Piero

Guidi

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 49DOMENICA 3 APRILE 2011

“Una al giorno non basta più”Gabriele Colangelo/Borbonese

Dietro un grande marchio come Borbonese, che, nel 2010, ha celebrato un secolo di storia,c’è un giovane talento della moda, appassionato di arte e letteratura. Gabriele Colangelo,36 anni, cresciuto alla scuola di Versace e di Roberto Cavalli, ha lavorato con il gruppo Bu-

rani e ora firma “Borbonese 1910”, la linea di borse di alta gamma. Da cosa nasce questa passione sfrenata delle donne per le borse speciali e colorate?«La borsa fa la differenza, è quel tocco che permette a una signora ma anche a un ragazza di

mettersi in vista, di emergere. Il tubino nero che si indossa al mattino per andare in ufficio, conuna borsa capiente e pratica, diventa abito da sera se abbinato a una pochette colorata e a un paiodi scarpe molto originali».

La borsa protagonista del guardaroba femminile?«Sì, il suo potere è aumentato enormemente. Anche perché la borsa non ha problemi di taglie

come un vestito e, in più, favorisce anche scelte eccentriche».Ci fa un esempio?«Sono poche le donne che possono permettersi di osare un abito rouge ardent e sentirsi per-

fettamente a loro agio. Il rosso è un colore impegnativo, che richiede una perfetta forma fisica eun volto rilassato, come dopo una vacanza. Ma le stravaganze hanno un fascino irresistibile e al-lora ecco che la borsa colorata diventa il modo più elegante di soddisfare un desiderio».

Quando lei disegna una borsa, a cosa si ispira?«Uno stilista deve sempre captare i bisogni delle donne e interpretarli nella maniera giusta. Per

“Borbonese 1910”, che rappresenta la linea di borse couture di questa maison nata a Torino al-l’inizio del secolo, prendendo le mosse da una gioielleria ho creato venti pezzi glamour, in ma-teriali pregiati: galuscia, visone, coccodrillo, e il celebre “Op”, l’occhio di pernice, ovvero la pel-le realizzata in esclusiva da Borbonese. Ma l’elemento che ricorda le origini del marchio sono lechiusure, ispirate ai gioielli déco. Ogni borsa è speciale e ha un nome: “Tribeca”, “Soho”,“Aspen”».

Gli armadi delle donne sono una sorta di gran bazar delle borse. Perché secondo lei?«Semplice. Oggi non esiste più la borsa che si addice a tutte le occasioni. Uno stesso modello

può essere proposto in taglia piccola, media e grande, come fa Borbonese, marchio che tra i suoipezzi di culto ha la “Sexy bag”, la “Luna bag” o la “London bag”. Oggi cambiano le dimensionidelle borse e in più i modelli sono tra i più variegati. Tanto che, molte donne, escono di casa por-tando a tracolla due borse, a volte tre».

Ma per realizzare una borsa basta il lavoro di un creativo?«No, lo stilista deve lavorare a stretto contato con i tecnici che conoscono tutti i segreti dei ma-

teriali. La borsa nasce da un lavoro di squadra».(l. as.)

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BON TONEcco il classico “trapuntato”

con manici catena di Chanel,

ma in versione rosa shocking

VARIOPINTALa mini Kelly con tracolla

di Hermès in tutti i colori

dell’arcobaleno

SOLIDAMini box

colorate: ecco

le borsette

dell’Emporio

Armani

MEDITERRANEAColori solari

e mediterranei

per i bauletti

da giorno

di Borbonese

TRADIZIONALEVerde intenso

È il colore

della tracolla

classica

di Ferragamo

GLOBETROTTERSono pensate

per le donne

che viaggiano

le multitasche

Piquadro

ALLEGRAViva le righe

colorate

Da Prada

è tutto un gioco

di contrasti

SERALELa pochette da sera

di Louis Vuitton

che si porta a mano

è proposta nei toni

caldi della Cina

PRATICAPratica

e multiuso

la borsa Tod’s

segue il trend

di stagione:

è disponibile

in molti colori

PREZIOSABella e preziosa quanto

un gioiello: è la nuova idea

di Bulgari per il look estivo

Repubblica Nazionale

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50 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 3 APRILE 2011

Carpaccio

InvenzioniDalle Langhe l’arte antica del vitello all’albese, carne crudae tartufo bianco. Poi, a Venezia, la rinascita cosmopolitaOggi la preparazione che appiattisce i cibi con l’illusionedi mangiare meno e meglio contagia tutti e tutto:cappesante, fragole, parmigiano...

Ingredienti per 4 persone

12 scampi grandi4 pomodori cuore di bue2 lime4 bicchieri d'acqua100 grammi di zuccheroL

A R

ICETTA Lo chef stellato

Ilario Vinciguerra

ha appena

inaugurato

il suo nuovo

locale Ilario

Vinciguerra

Restaurant

a Gallarate, Milano

Il trionfo della sottigliezza. Il cibo a due dimensioni, ov-vero azzeramento dello spessore, con il sapore che invece di cre-scere in altezza si dilata, pronto a strabordare se il piatto non siadegua in larghezza. Illusione di mangiare poco, di mangia-re meno, di godersi il meglio — il gusto — evitando il peg-gio (il carico calorico). La lenta esplosione della prima-

vera, certificata dal timing dell’ora legale, spalanca il suo ven-taglio di temperature intiepidite e voglia di piatti diversi: unpo’ per cacciare via le tossine invernali, un po’ per ripren-dere confidenza con i vestiti della bella stagione, incom-patibili con i rotolini di grasso accumulati per difender-ci e consolarci nelle giornate più fredde dell’anno.Quale soluzione migliore che appiattire i cibi a mo’ disfoglia per ridurre le quantità?

In tempi non sospetti, il carpaccio ci ha avvicinatiall’universo dell’alimentazione light senza avernel’etichetta, magnifico esempio di dietologia incon-sapevole. Del resto, ben prima del nome che da oltremezzo secolo traduce in ricetta il concetto di cibo adaltezza di millimetro, nelle Langhe si praticava l’ar-te del vitello all’albese, gioco di rimandi e consisten-ze tra carne cruda e tartufo bianco, tagliati sottilissi-mi entrambi. Non i denti, ma labbra, lingua e palatoa godersi la vellutata carnalità della combinazione,spennellata con un filo d’olio, escamotage seducenteper esaltare due magie della gastronomia piemontese:

la trifola e il vitello fassone, la razza bovina dalle cosce ipertrofiche alle-vata intorno a Torino da oltre due secoli. Al di là della querelle gastrono-mica sulla modalità di preparazione, tra sostenitori del super-sottile eamanti del battuto a coltello (da non confondere con lo sbrigativo tritato,antesignano della tartare, colpevole di disperdere i succhi della carne), lamigrazione lungo l’asse del Po da Alba a Venezia è stata felicissima, se èvero che lì è rinato il piatto, diversamente condito e battezzato col nomedel pittore cinquecentesco Vittore Carpaccio (di cui nell’estate del 1963 siteneva una mostra in Laguna).

Più che la ricetta, poté la finezza del taglio: in pieno boom economi-co nascevano le sottilette, simbolo dell’Italia affascinata dai toast e dal-le fettine di carne magra e chiara, da coprire con un po’ di formaggio perrallegrarne il sapore deboluccio. Di lì in poi, la creazione di Cipriani si ètrasformata da ricetta specifica in tecnica di preparazione: tutto è di-ventato carpacciabile, dalle cappesante ai carciofi, dalle fragole al par-migiano, spesso anche in combinazione tra loro in un delirio di sotti-gliezze sovrapposte (che è poi l’idea ispiratrice di lasagne e parmigianadi melanzane). Il guaio è nell’esecuzione. Perché il taglio fine, preciso,ripetuto fetta dopo fetta, è un’arte che si impara a fatica, come ben san-no gli apprendisti cuochi giapponesi, obbligati a seguire lunghi corsisull’uso delle lame prima di accedere alla preparazione di sushi e sashi-mi. In caso non abbiate la necessaria confidenza con i coltelli, chiedeteaiuto al macellaio di fiducia. Obbligatori i piatti formato maxi.

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LICIA GRANELLO

Il piacere sottiledella fettina

Mescolare acqua, zucchero e succo

di lime. Riporre in frigo, rimestando

di tanto in tanto. Lavare, frullare e far

decantare i pomodori in uno straccio

per due ore in frigo. Raccogliere

l'acqua di vegetazione, aggiungere

un cucchiaino di lecitina di soia

e montare con un frullino

Tagliare sottilmente gli scampi

per lungo, adagiarli in un piatto,

condirli con qualche fiocco di sale

maldon. Servire con un cucchiaio

di acqua di pomodoro e una

quenelle di sorbetto al lime

Carpaccio di scampi con acquadi pomodoro e sorbetto al lime

•••••

i sapori

ManzoL’originale prevede

controfiletto crudo tagliato

sottilissimo, con maionese

lieve. Versione albese

con olio e tartufo bianco

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 51DOMENICA 3 APRILE 2011

FunghiParmigiano, carciofi

o tartufi da far cadere

a pioggia sulle fettine

di ovuli e porcini

Condire con olio e basilico

ZucchinePelapatate o mandolina

per le strisce lunghe

e sottili. Condimento

con olio, limone, sale

e bacche di pepe rosa

GamberiI crostacei, puliti e pestati

dopo marinatura

nello spumante, vengono

conditi con salsa di teste

e spumante frullati

itinerari

DOVE DORMIRECA’ SATRIANO

Campo San Maurizio

Tel. 345-5832898

Doppia 110 euro con colazione

DOVE MANGIARELE TESTIERE

Sestiere Castello 5801

Tel. 041-5227220

Chiuso domenica e lunedì

menù da 50 euro

DOVE COMPRARERIO TERÀ DEI PENSIERI

Santa Croce 495

Tel. 041-2960658

Venezia

DOVE DORMIREALLA CASCINA BARESANE

Località Santa Rosalia 32

Tel. 335-7248764

Doppia 70 euro con colazione

DOVE MANGIARELOCANDA DEL PILONE

Fraz. Madonna di Como 34

Tel. 0173-366167

Chiuso martedì e mercoledì,

menù da 60 euro

DOVE COMPRAREMACELLERIA ASTEGGIANO

Strada Cauda 2

Tel. 0173-281251

Alba (Cn)

DOVE DORMIREI PORTICI

Via Indipendenza 69

Tel. 051-42185

Doppia 120 euro con colazione

DOVE MANGIARESCACCO MATTO

Via Broccaindosso 63

Tel. 051-263404

Chiuso lunedì a pranzo,

menù da 40 euro

DOVE COMPRAREPESCHERIA ADRIATICA

Via Drapperie 8

Tel. 051-228695

Bologna

la dose di carne

per ciascun piatto

le calorie in cento grammi

di carpaccio di pescespada

120

L’Harry’s Bar lancia

la ricetta del carpaccio

1963

90 grammi

Il pittore e la contessaseduti all’Harry’s Bar

ARRIGO CIPRIANI

Un giorno, molti anni fa, Giorgio De Chirico con lamoglie stava facendo colazione a un tavolino del-l’Harry’s Bar. Seduto al banco c’era il pittore Ro-

berto Matta che, se voglio descriverlo in due parole, mi èpiù facile dire che era l’esatto contrario di De Chirico. Mat-ta vedeva la vita con la lente di ingrandimento dell’umo-

rismo e del sesso, De Chirico invece non rideva mai. An-zi. Nei tanti anni durante i quali frequentava il risto-rante, non l’ho mai visto nemmeno sorridere.

I due non si conoscevano. Un cliente, che era unamico comune dei due, prese Matta per un braccio elo portò al tavolo di De Chirico per presentarglielo.De Chirico si alzò un po’ di malavoglia e Matta gli te-se la mano dicendo: «De Chirico? Quello vero o quel-lo falso?». Una battuta “mattana” fulminante che fa-ceva riferimento alle innumerevoli copie false del fa-moso pittore il quale però aveva dipinto così tantiquadri da scambiare talvolta per duplicati anche al-cuni suoi dipinti originali. De Chirico non sorrise

nemmeno quella volta.Ricordo questo episodio per introdurre il Carpac-

cio. Quello vero o quello falso? Ci sono due cose inven-tate da mio padre all’Harry’s Bar, anzi tre, se mi conside-

ro anch’io una sua invenzione. Il Bellini e il Carpaccio.Tutte due hanno in comune il fatto di aver preso il nomeda un pittore e sono stati serviti da noi per la prima voltanello stesso anno delle rispettive esposizioni antologicheche si presentavano a Venezia quando non era di turno laBiennale. Queste due creazioni hanno fatto il giro delmondo. Non come originali, ma come copie.

Il Carpaccio, quello vero, è un piatto freddo di carne cru-da affettata molto sottile. All’inizio era fatto con il filetto dimanzo, ora con il controfiletto. Negli anni Cinquanta ladietetica non era stata ancora inventata e così, incom-prensibilmente, alla contessa Amalia Nani Mocenigo unmedico lungimirante aveva prescritto una rigorosa dietadi carne cruda! Il filetto crudo, anche se affettato sottile,chiedeva aiuto a un condimento, così si pensò di guarnir-lo con una salsa, altra invenzione minore del Vecchio,chiamata universale perché aveva il raro pregio di potersiaccompagnare sia alla carne che al pesce. Uno dei nostricuochi è specialista nel disporla sopra la carne imitando itratti del pittore Kandisky. Si potrebbe proporla alla Bien-nale come l’opera del cuoco Evaristo. Ma ci vorrebbe unfrigorifero a vetri.

Su Internet viene riconosciuta la titolarità dell’inven-zione, anche se, per presentarla, ci sono alcune foto piut-tosto singolari di varie interpretazioni. Salvo la nostra.

Infine si scopre che il Carpaccio è diventato un’esegesidel cibo crudo sia di carne che di pesce i quali, se affettatisottili, diventano “alla Carpaccio”. Perfino il filetto all’al-bese, progenitore vero del piatto, viene chiamato allaCarpaccio.

Un’ultima cosa. C’è chi, per comodità, surgela la carneprima di affettarla. Sbagliato. Il risultato rivela subito que-sto metodo perché tra la carne e il piatto ristagna un’ac-querugiola di colore incerto che, chissà perché, mi fa ri-cordare qualche creazione di chef plurireferenziati.

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ScamorzaAccoglie gli spinacini

in cottura croccante

e gherirgli di noce,

oppure fettine di salmone

affumicato

Petto d’ocaAffumicato o marinato

in zucchero e sale

si dispone tra fettine

d’arancia o pompelmo

Sopra, olio e sale grosso

AnanasSciroppo di acqua,

fruttosio, agrumi e spezie

per marinare le fette. Sopra,

chicchi di melograno, frutti

rossi o una salsa di gelato

PolpoBollito e tagliato a pezzi,

si pressa in mezza bottiglia

di plastica, bucherellando

il fondo. Un giorno in frigo

prima di affettare e condire

Repubblica Nazionale

Page 14: Laomenica - La Repubblica.itdownload.repubblica.it/pdf/domenica/2011/03042011.pdf · nura russa. A questo mestolo di legno pensava il più famoso cosmo-nauta della storia la mattina

A giorni compirà settant’anni,ma a vederla sembra ancorala ragazzaccia che nel ’58 sbarcòa Londra per inventare il punk iniziando

da un negozio chiamatoSex. Il negozio è sempre làe lei è sempre un’agenteprovocatrice del fashionsystem: “A me della modanon importa nulla,la faccio perché la so fare

Lotto per un mondo migliore, e questocomplica molto le cose quando faiun lavoro come il mio”

‘‘

‘‘Vivienne Westwood

l’incontroBad girls

La nostra fu soloun’ operazionedi marketing. Cosacambiammo? NullaCreammo un lookstraordinario, certoMa non saranno maiun po’ di capelli verdia renderti diverso

cento. «A me della moda non importa unfico secco. La faccio perché la so fare»,esordisce. «Sono estremamente politi-cizzata. Non credo nella rivoluzione malotto per un mondo migliore, e questocomplica molto le cose quando fai un la-voro come il mio». Come poteva non in-furiarsi Margaret Thatcher quando Vi-vienne indossò un vestito che la lady diferro le aveva commissionato (e non an-cora consegnato) sulla copertina delmensile Tatler (aprile 1989)? «Non laprese benissimo», sorride Westwood,«anche perché io avversavo la sua dere-gulation, è stato il primo passo verso cri-si economica globale. Mrs. Thatcher,per la verità, diceva sempre cose lusin-ghiere su di me; e le dirò che è semprestata una donna elegante, molto elegan-te, immacolata. Non scherzo. Solo la Re-gina è più elegante di lei. Sono seria, nonrida!». Artista per vocazione, stilista percaso, antifemminista («le donne che vo-gliono fare i lavori degli uomini non han-no compreso il potere che hanno comemogli e madri»), totalmente invischiatanel fashion business eppure aristocrati-camente distaccata da marketing e con-sumismo, la Westwood non riesce certoa controllare tutte le sue linee, ma pre-tende che il messaggio esca sempre for-te e chiaro. «Per questo non ho mai volu-to chiudere il World’s End. È un negoziospeciale, dove vendiamo capi riciclati et-shirt con slogan politici. È sempre lì, inKing’s Road, lo stesso posto dove nac-que il punk».

Arrivò a Londra nel 1958 da Glossop,nel Derbyshire. Aveva diciassette anni,si chiamava Vivienne Isabel Swire, il co-gnome Westwood l’ha ereditato dal pri-mo marito Derek, sposato nel 1962.«Non credo che gli uomini abbiano maiavuto un futuro come quello in cui noisperavamo», racconta fissando un pun-to indistinto fuori dalla finestra (cioè,dentro la copertina dei Pink Floyd). «Eancora non riesco a credere che tanti so-gni e idee e fermenti si siano impanta-nati in questi anni terribili in cui la razzaumana rischia l’estinzione a causa deicambiamenti climatici. Io sono nata du-rante la Seconda guerra, ho conosciutopovertà e privazioni prima di assistereall’esplosione del consumismo. Dopodue grandi guerre, dopo l’incubo delVietnam e le proteste degli hippies, nonavrei mai creduto che saremmo ripiom-bati in questo buio. Furono gli hippies apoliticizzare me e la mia generazione.Oggi i giovani non sanno neanche cosasia la politica. Pensano di poter saperetutto schiacciando un tasto — e questospiega la mia avversione a Internet». Leiera esattamente il contrario, spavalda,un maschiaccio già negli anni di scuola,

quando se la dava a gambe dalle lezionisaltando dal secondo piano. «Ah sì,neanche i ragazzi riuscivano a imitar-mi», dice maliziosa. «Sono sempre statacoraggiosa, eroica, con una grande joiede vivre». Era arrivata in città in cerca distimoli culturali e l’incontro con Mal-colm McLaren, l’altro vate del punk, fe-ce scattare la scintilla. Della creatività,perché non fu amore a prima vista. «Luiaveva diciott’anni, io ventiquattro. Di-ventammo amici, poi amanti», raccon-ta con molto pudore. «All’inizio non mipiaceva, ma lui fu così insistente che al-la fine cedetti. È un uomo brillante, midissi, perché fare tanto la ritrosa? Ora cheè morto posso dirlo, alla fine della nostrarelazione, che è durata tredici anni, lesue idee non m’interessavano più; eraun uomo intelligente, ma aveva unosmodato bisogno di gratificazioni, dellelusinghe del successo. Nostro figlio, ilmio secondo figlio, nacque nel 1967, noicominciammo il nostro lavoro di stilistinel 1970 e andammo avanti per quasidieci anni. Persi interesse nei suoi con-

fronti — intellettualmente — perché sifermava alla superficie delle cose, gli ba-stava stupire, e non sempre ci voglionograndi idee per stupire la gente».

Insieme crearono uno stile che sareb-be entrato prepotentemente nell’ico-nografia del rock’n’roll e in maniera piùsottile ma implacabile nel blasonatomondo della moda. La loro Factory eraal 430 di King’s Road, un negozio conuna storia. «Nel 1970 si chiamava Para-dise Garage, ci comprai un paio di pan-taloni in velluto leopardato. Mi piaceva-no le cose da Teddy Boy che trovavo lì.Già all’epoca, molto prima dei punk, ioavevo i capelli pettinati a cresta. Concia-ta così, sembravo una principessa arri-vata dallo spazio», dice con un sorrisovelato di nostalgia. «Vede, io non ho maidato grande importanza al punk, perchésecondo me non successe niente di rile-vante», continua. «Solo una brillanteoperazione di marketing. Cosa cam-biammo? Nulla. Creammo un lookstraordinario, questo sì. Ma da qui amettersi su un piedistallo — come fece-ro tutti, incluso Malcolm — come profe-ti di una generazione ribelle che lottavaper una società libera ce ne passa di stra-da. Io vedevo solo frotte di ragazzini chevagavano per la città apatici e senza idee— ma cosa vuoi sovvertire se non haiidee? Johnny Rotten e tutti gli altri eranouna manica di conformisti. Non sono icapelli verdi che ti rendono diverso, mail tuo cervello, la tua attitudine nei con-fronti della vita. Le idee le avevamo noi,…Malcolm, io».

Ironicamente, confessa, cominciò afare moda a livello industriale nel mo-mento in cui la cosa non la interessavapiù, alla fine degli anni Settanta, quandola partnership con McLaren era arrivataa un punto morto. «Eravamo ormai tut-ti preda della nostalgia. Anche Saint-Laurent fece una collezione ispirata aglianni Quaranta e Dior al periodo elisa-bettiano. Io incominciai facendo qual-cosa di eroico, qualcosa che avesse unavalenza politica. Dissero che ero unasovversiva, ma semplicemente non riu-scivo a immaginare una collezione chenon avesse insita un’idea di ribellione, diprotesta contro qualcosa — e c’è semprequalcosa che non va nel mondo». Eraanticonformista, molto più colta diqualsiasi altro stilista («tranne Saint-Laurent, un genio», precisa), e soprat-tutto non era francese né italiana. «Nonfu mica facile per un’inglese sfidare ilmercato. La differenza tra la moda in-glese e quella francese si può riassume-re in una frase di Oscar Wilde: in Franciatutti i borghesi vogliono essere artisti, inInghilterra tutti gli artisti vogliono esse-re borghesi. Questo spiega perché io so-

no sempre risultata come un corpoestraneo nel mondo della moda». Nel2007 scatenò un putiferio dichiarandopubblicamente che non avrebbe più vo-tato i laburisti, appoggiando i conserva-tori sui temi delle libertà individuali e deidiritti civili.

«Fu una provocazione», spiega, «per-ché avevano cancellato nel paese l’ideadi una destra e di una sinistra creandodue partiti identici, schierati in favoredei grandi interessi economici. Controentrambi ho pubblicato il mio Active Re-sistance Manifesto, che vuol dire resi-stenza attiva contro la propaganda. È ilmio messaggio ai giovani d’oggi, che horedatto tenendo in mente quel che Al-dous Huxley scrisse in uno dei suoi sag-gi. I tre più grandi mali del mondo sonoil nazionalismo, la menzogna istituzio-nalizzata e la continua distrazione, i car-dini della propaganda. L’antidoto è lacultura, che è la radice dell’intelligenza,del pensiero, ciò che ti permette di sape-re chi sei. Nel mio Manifesto ho scritto:“Noi siamo il passato”. E quel che so-pravvive del passato è l’arte».

Andreas Kronthaler, il fascinoso ma-rito austriaco di venticinque anni piùgiovane, la chiama dalla stanza accantoper sottoporle un modello da mandarein produzione. «Io non mi faccio distrar-re», conclude. «Non mi piace viaggiare,non guardo la tv, non vado al cinema o ateatro. Ho poco tempo libero, e lo im-piego per leggere. La lettura è il mio mo-mento di gloria. Non la smetto mai dipredicare in favore della cultura, dellearti. Cosa saremmo oggi, anche noi stili-sti, senza Rembrandt, Tiziano, Matisse oMonet? Se non conosci il passato, nonriesci a capire il mondo in cui vivi. E tri-stemente, di questi tempi, siamo peri-colosamente a corto di cultura».

GIUSEPPE VIDETTI

LONDRA

La finestra dell’ufficio, convista su Battersea PowerStation, sembra la coperti-na di Animals dei Pink

Floyd incorniciata da un infisso. Quan-do uscì il disco, nel 1976, quella era unazona depressa di Londra, Vivienne We-stwood viveva tappata nel negozio diKing’s Road che aveva battezzato Sex eche l’anno dopo avrebbe preso il nomedi Seditionaries (dal 1980 si chiamaWorld’s End); con Malcolm McLarencominciava a gettare scompiglio nellacapitale inglese con lo stile punk. L’8aprile compie settant’anni, è stilista difama internazionale, da trent’anni (laprima gloriosa collezione, ispirata ai pi-rati, è del 1981) impera nel mainstreamdel fashion business, ma il suo quartiergenerale è uno spazio tutt’altro che con-venzionale.

Un viavai di creativi — molti parlanoitaliano — prendono d’assalto l’archivioal piano terra, dove sono catalogate leidee partorite in cinquant’anni di tra-sgressioni e stravaganze da quella che èancora considerata l’agente provocatri-ce della moda. Da qualsiasi angolo dellapalazzina si ode la sua voce che imparti-sce ordini, interviene a distanza, consi-glia, incita. Quando appare, è l’eternaragazzaccia, i capelli arancio, gli occhi dimalachite intelligenti e curiosi, un abitodi pile dal taglio sbieco che pare la ver-sione maison di un Kansai Yamamotoper Ziggy Stardust. In giro niente stoffe,niente manichini, niente schizzi. Solo li-bri. Libri ovunque. Su uno scaffale l’erosnell’antica Grecia, su un altro un volumesui preraffaelliti, e poi Rembrandt e Ru-bens e Tiziano e i puntinisti dell’Otto-

52 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 3 APRILE 2011

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Repubblica Nazionale