D Laomenica Pyongyang, disgelo nel Jurassic...

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DOMENICA 19 GIUGNO 2005 D omenica La di Repubblica NEW YORK I l Totem e la Balena Bianca languono l’uno accanto all’altra, in secca sulla spiaggia di Manhattan, figli di un Dio agoniz- zante al quale il mondo non crede più: il Dio della pace. Piovvero qui mezzo secolo fa da un altro pianeta, un luogo dove uomini spossati e sanguinanti li portarono e li adorarono, prima di scivolare inesorabilmente indietro al loro stato di natu- ra, alla guerra. Lessi su un giornale americano che il monolito di 39 piani conosciuto come “Palazzo di Vetro”, sede della “Segreteria Generale della Organizzazione delle Nazioni Unite”, con la bale- na bianca dell’Assemblea Generale ai suoi piedi, è l’edificio più fo- tografato e ritrasmesso del mondo, più della Casa Bianca, della cu- pola di San Pietro, del Cremlino, della Tour Eiffel. Forse è anche vero, considerando che dentro si agitano — mica troppo — i figli di tutte le 191 nazioni del mondo più sciami di osservatori come i Palestinesi senza terra o il Vaticano senza corpo, e che davanti al monolito tutti si sono, una volta o l’altra, inginocchiati per implo- rare una grazia, salvare un bambino già nato o almeno rimediare un po’ di quattrini. Per poi dimenticarsene, o inviare un tributo frettoloso e formale, come il segno della croce superstizioso del viaggiatore davanti a una Madonnina sbiadita in un crocevia. Ricorderanno le rievocazioni ufficiali che l’Organizzazione del- le Nazioni Unite, le UN, compiono ora 60 anni, essendo nate il 26 giugno del 1945, a meno di due mesi dal suicidio di Adolf Hitler e mentre “Fat Man” e “Little Boy”, il ciccione e il ragazzino, avevano cominciato il loro viaggio verso Hiroshima e Nagasaki. L’idea di un’organizzazione internazionale che avesse come obbiettivo quello di eliminare la guerra come strumento per «risolvere le con- troversie» tra nazioni sovrane era già spettacolarmente fallita con la Società delle Nazioni wilsoniana. Ma questa volta, in quella pre- coce estate di guerra del 1945, sembrava, come sembra ogni volta, la volta buona. Troppo profondo era stato il lago di sangue, troppo mostruosa era diventata l’industrializzazione della morte e trop- po reali erano la prospettive di apocalisse planetaria aperte dal “ciccione” e dal “ragazzino” per non tentare qualcosa. Le nuove Nazioni Unite avrebbero funzionato, pensarono i fondatori, non per buonismo o per idealismo, come aveva creduto Woodrow Wil- son, ma per cinismo e per realismo, perché sarebbe stato nell’in- teresse — ecco la parola chiave, “interesse” — di tutti farle funzio- nare, senza distinzione fra buoni e cattivi, democrazie e totalitari- smi, Occidente e Oriente, per salvare la nostra specie. (segue nelle pagine successive) con servizi di ANAIS GINORI e ARTURO ZAMPAGLIONE Viaggio nella casa dell’Onu a sessant’anni dalla sua fondazione. Per trovare le ragioni di una crisi che si sta aggravando Nel palazzo della pace la lettura Wimbledon, il tennista in Topolino GIANNI CLERICI il viaggio Pyongyang, disgelo nel Jurassic Park FEDERICO RAMPINI i luoghi I giardini perduti della Cornovaglia ENRICO FRANCESCHINI l’incontro Del Ponte, la solitudine dell’accusatrice SILVANA MAZZOCCHI VITTORIO ZUCCONI spettacoli Dylan, i demoni dell’ultimo cantastorie GINO CASTALDO e BILL WYMAN cultura Le armi che hanno ucciso il Novecento PINO CORRIAS FOTO PATRICK ANDRADE / POLARIS/GRAZIA NERI Repubblica Nazionale 27 19/06/2005

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DOMENICA 19 GIUGNO 2005

DomenicaLa

di Repubblica

NEW YORK

Il Totem e la Balena Bianca languono l’uno accanto all’altra,in secca sulla spiaggia di Manhattan, figli di un Dio agoniz-zante al quale il mondo non crede più: il Dio della pace.Piovvero qui mezzo secolo fa da un altro pianeta, un luogo

dove uomini spossati e sanguinanti li portarono e li adorarono,prima di scivolare inesorabilmente indietro al loro stato di natu-ra, alla guerra. Lessi su un giornale americano che il monolito di 39piani conosciuto come “Palazzo di Vetro”, sede della “SegreteriaGenerale della Organizzazione delle Nazioni Unite”, con la bale-na bianca dell’Assemblea Generale ai suoi piedi, è l’edificio più fo-tografato e ritrasmesso del mondo, più della Casa Bianca, della cu-pola di San Pietro, del Cremlino, della Tour Eiffel. Forse è anchevero, considerando che dentro si agitano — mica troppo — i figlidi tutte le 191 nazioni del mondo più sciami di osservatori come iPalestinesi senza terra o il Vaticano senza corpo, e che davanti almonolito tutti si sono, una volta o l’altra, inginocchiati per implo-rare una grazia, salvare un bambino già nato o almeno rimediareun po’ di quattrini. Per poi dimenticarsene, o inviare un tributofrettoloso e formale, come il segno della croce superstizioso del

viaggiatore davanti a una Madonnina sbiadita in un crocevia.Ricorderanno le rievocazioni ufficiali che l’Organizzazione del-

le Nazioni Unite, le UN, compiono ora 60 anni, essendo nate il 26giugno del 1945, a meno di due mesi dal suicidio di Adolf Hitler ementre “Fat Man” e “Little Boy”, il ciccione e il ragazzino, avevanocominciato il loro viaggio verso Hiroshima e Nagasaki. L’idea diun’organizzazione internazionale che avesse come obbiettivoquello di eliminare la guerra come strumento per «risolvere le con-troversie» tra nazioni sovrane era già spettacolarmente fallita conla Società delle Nazioni wilsoniana. Ma questa volta, in quella pre-coce estate di guerra del 1945, sembrava, come sembra ogni volta,la volta buona. Troppo profondo era stato il lago di sangue, troppomostruosa era diventata l’industrializzazione della morte e trop-po reali erano la prospettive di apocalisse planetaria aperte dal“ciccione” e dal “ragazzino” per non tentare qualcosa. Le nuoveNazioni Unite avrebbero funzionato, pensarono i fondatori, nonper buonismo o per idealismo, come aveva creduto Woodrow Wil-son, ma per cinismo e per realismo, perché sarebbe stato nell’in-teresse — ecco la parola chiave, “interesse” — di tutti farle funzio-nare, senza distinzione fra buoni e cattivi, democrazie e totalitari-smi, Occidente e Oriente, per salvare la nostra specie.

(segue nelle pagine successive)con servizi di ANAIS GINORI e ARTURO ZAMPAGLIONE

Viaggio nella casa dell’Onu a sessant’anni dalla sua fondazione.Per trovare le ragioni di una crisi che si sta aggravando

Nel palazzo della pace

la lettura

Wimbledon, il tennista in TopolinoGIANNI CLERICI

il viaggio

Pyongyang, disgelo nel Jurassic ParkFEDERICO RAMPINI

i luoghi

I giardini perduti della CornovagliaENRICO FRANCESCHINI

l’incontro

Del Ponte, la solitudine dell’accusatriceSILVANA MAZZOCCHI

VITTORIO ZUCCONI

spettacoli

Dylan, i demoni dell’ultimo cantastorieGINO CASTALDO e BILL WYMAN

cultura

Le armi che hanno ucciso il NovecentoPINO CORRIAS

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la copertinaOnu, i 60 anni

(continua dalla copertina)

Per sette anni, da quel 26 giugno aSan Francisco, cardinali e chie-rici della “rinuncia alla guerra”girovagarono attraverso gli StatiUniti, aspettando che si trovas-se il terreno e si completasse il

progetto della loro nuova città santa. Il ter-reno fu trovato e donato da John Rockefel-ler, sulle rive dell’East River, davanti aQueens, accanto a una centrale termica, inuno spiazzo lasciato vuoto da uno specula-tore fallito. Fu pagato una somma che oggicomprerebbe forse un bilocale con vista, inun condominio di lusso inquella fantastica posizio-ne: otto milioni e mezzo didollari per 18 acri, 7,2 etta-ri, 72.800 metri quadrati.Un gesto, questo della fa-miglia Rockefeller, cheavrebbe gettato il semedella paranoia del “com-plotto” mondialista versoun governo planetario,molto popolare nell’Ame-rica rustica fino a quandosarà rimpiazzato, conamara ironia, dal suo esat-to contrario, il disprezzoper l’Onu imbelle e inetto,la “società delle chiac-chiere” come lo chiamò ilDart Fenner del bushi-smo, Dick Cheney.

Parve allora una sma-gliante idea, secondo lospirito Onu, anche quelladi affidare il progetto a uncomitato di luminari in-ternazionali dell’architet-tura modernista, guidatidallo studio newyorkesedi Wallace Harrison, den-tro il quale immediata-mente cominciarono adaccapigliarsi il francese LeCourbusier, il brasilianoOscar Niemeyer, lo svede-se Sven Markelius, e altrisette architetti delle na-zioni vincitrici che il malcapitato Harrisondoveva pilotare. Il progetto richiese sei an-ni, dai primi disegni di Le Courbusier allaconsegna finale dell’ultimo pezzo comple-tato nel 1953 e lasciò «più lividi» sull’ego diquei baroni «di quanti ne avrebbe lasciatiuna rissa tra bovari in un bordello del Kan-sas», ammise Harrison poco prima di mori-re. Era stata, quella ideale scazzottatura fragrandi architetti vinta alla fine da Le Cour-busier, un omen chiarissimo di che cosa sa-rebbe stata la vita quotidiana all’Onu, ma lafede nella nuova divinità della pace era piùforte dell’evidenza che già gridava alle spal-le dei sogni. Nel 1948, mentre il comitato diarchitetti litigava, il neonato Israele dovevacombattere la prima delle sue molte guerreper la sopravvivenza. Il 25 giugno del 1950,mentre apriva il cantiere, le artiglierie dellaRepubblica Popolare della Korea aprivanoil fuoco sul 38esimo parallelo.

Il “gambero umano”Sarà dunque il senso di 60 anni di marciatrionfale del gambero umano verso la “ri-nuncia alla guerra” che rende particolar-mente malinconica la mia visita nel ventredella balena bianca e del totem di vetro. Senon fosse per i 2.600 terminali di computerche dormono praticamente su ogni scriva-nia nei 38 piani di uffici (il 39esimo è un fin-to piano, una facciata per coprire gli im-pianti sul tetto) e per le macchinette del-l’ormai immancabile espresso nelle caffet-terie interne, i dieci architetti che li dise-gnarono e li arredarono si sentirebberoperfettamente a casa. Tutto è rimasto comeera. Le librerie e i gift shop pubblici al pianoterra, aperte a tutti, hanno quella tenera escialba aria da edicole del socialismo reale,con dozzine di libri edificanti e pubblica-zioni illustrate per bambini a gloria dell’i-stituzione. Mentre gli scaffali delle librerielà fuori, nel mondo reale, scricchiolano sot-to i prodotti del nuovo conformismo domi-nante anti Onu, con titoli affettuosi comeInside the Asylum, dentro il manicomio,

scritto da un ex sottosegretario nel Penta-gono di Bush, Jed Babbin, dove il Palazzo diVetro è definito «un covo di criminali inter-nazionali», qui nelle edicole di ieri si ven-dono graziosi francobolli commemorativie album da colorare con girotondi multiet-nici e bambini sorridenti. Una testimo-nianza palpabile della extraterritorialitànon solo legale — il complesso Onu non èsotto la giurisdizione del governo america-no o del comune di New York — ma cultu-rale del Totem, della sua solitudine.

Come se volessero mandare un messag-gio di rimpianto ai primi segretari generali— il norvegese Lie Trygve, e il primo che nel1953 occupò l’ufficio d’angolo oggi di An-nan al 38esimo piano, lo svedese Dag Ham-

marskjold — gli arreda-menti hanno tutti l’im-pronta di quel designscandinavo che dominavagli anni Cinquanta e Ses-santa, il momento nelquale l’orologio della fedenella pace sembra essersifermato. Persino i minimie banali dettagli pratici —gli ascensori foderati dellostesso legno scuro immu-tato e lisciato da mezzo se-colo di mani, i tavolini e lesedie di plastica da refetto-rio socialdemocratico nelristorante per i cinquemi-la dipendenti del palazzo adieci dollari per pasto enella buvette per gli inter-preti chiamata “CaffèVienna”, dove è rigorosa-mente vietato fumaretranne che si fuma lo stes-so — raccontano la storiadella ideologia garbata-mente progressista e tolle-rante che i troppi fallimen-ti ben pubblicizzati, i trop-pi scippi di despoti e i mol-ti successi ignorati hannosgretolato, fino alla spalla-ta del terrorismo e del ma-nicheismo neo-con ame-ricano, perfetta antitesi delrelativismo diplomatico.

Salire, piano per piano, i38 livelli del grattacielo come ho fatto io conun senso crescente di “stupor” burocraticoe di malinconia, vuol dire muoversi non inun palazzo di Vetro, ma in un palazzo degliSpecchi. Sento il corretto, ma evidente di-sagio delle mie guide, gentili diplomaticidella missione italiana all’Onu, i consiglie-ri D’Antuono e Quintavalle, ogni volta chesbuchiamo negli stessi corridoi deserti omettiamo il naso in uffici virginali dentro iquali nessuno lavora mai, nonostante sia latarda mattina di un lunedì feriale, perchétutti sono sempre in qualche “riunione”.Loro come diplomatici, io, la mia genera-zione, milioni di persone esposte ovunqueai venti e alle bufere scatenate dai più fortivogliono ancora credere nel Dio morente,ma il suo tempio è vuoto, i suoi tabernaco-li, sconsacrati. Il personale Onu qui a NewYork non ha neppure l’obbligo del cartelli-no, viene e va quando vuole, anche in que-sto caso rammentandomi i termitai kafkia-ni della burocrazia sovietica anni Ottanta,lo stesso clima di tutte le burocrazie chia-mate soltanto a rispondere a se stesse. Chis’intende di calcio sostiene che il persona-le sparso tra il Palazzo degli Specchi, i dueedifici distaccati nello stesso quartiere del-la East End di Manhattan, detti Dc1 e Dc2,giocano secondo la tattica del 4-3-3. Su die-ci, quattro lavorano duro e a volte fino almartirio di Sergio Viera de Mello a Bagdad,al sacrificio di ottocento funzionari ognianno, rapinati, violentati, aggrediti, scom-parsi, uccisi per portare un sacchetto di fa-rina, una fiala, una parola nel mondo. Trefanno il minimo indispensabile e tre nonfanno assolutamente nulla, oltre che per-cepire stipendi e leccare i piedi giusti.

Tentare di ricostruire, anche con l’aiutodell’elenco telefonico interno ufficiale chela nostra legazione guidata dall’ambascia-tore Marcello Spatafora mi fornisce con in-volontaria crudeltà, la distribuzione degliuffici è un’impresa umanamente impossi-bile. Nel Palazzo degli Specchi, a parte l’ulti-mo piano del segretario Kofi Annan e quel

Nella Torre degli specchiun malinconico declino

Il 26 giugno 1945 nasceva l’organizzazione delle Nazioni Unite. Ottoanni più tardi, frutto di un leggendario litigio tra dieci celebri architetti,il Palazzo di Vetro è approdato su una spiaggia di Manhattanaccompagnato dalle speranze di concordia di tutto il mondo. Abbiamovisitato i 39 piani della casa della pace disertati dai burocratie abbiamo toccato con mano la profondità e l’ampiezza della sua crisi

Tuttoconserval’improntadel designscandinavoanni ‘50

IL SIMBOLOIl segretario generaleKofi AnnanSotto, il simbolodell’Onu con i duerami d’ulivo attornoal mondoa simbolizzarela pace, la mappadel pianeta raffigurainvece la vocazioneglobale delle NazioniUnite

28 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 19 GIUGNO 2005

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magnifico arazzo che riproduce il Guernica

di Picasso (regalo, toh, di un altro Rockefel-ler all’Onu, la signora Nelson Rockefeller),tutto è dappertutto e niente è dovunque. Laproliferazione di iniziative, sottosezioni,agenzie, uffici studi, sinecure, deborda dal-le destinazioni originarie e conquista, se-condo un’altra classica legge territorialedella burocrazia, tutto lo spazio che trovavuoto. Il direttorato per operazioni di peacekeeping, che costano cinque miliardi all’an-no, ha uffici e sottouffici dappertutto. Oc-correrebbe una missione di caschi blu soloper trovarli. I soldi, visibilmente, scarseggia-no nella mesta pulizia di uffici ministerialiun po’ strapelati, e il bilancio base dell’Onuè immutato da anni, a 1,7 miliardi di dollari,sessanta per cento dei quali spesi per le re-tribuzioni, meno quattrini di quanti abbia-no a disposizione i vigili del fuoco di Tokyo oil comune di Vienna. E questo doveva esse-re il “governo del mondo”. La Organizzazio-ne mondiale della sanità, che è un bracciodell’Onu, dispone di 412 milioni di dollaril’anno per ricercare, sorvegliare, vaccinarebambini, spegnare focolai di epidemie. So-no meno dei 420 milioni spesi per il nuovopalazzo dello Sport di Dallas, nel Texas, perla squadra locale di basket, i Mavericks.

Gli impianti allo stremoGli impianti, gli stessi del 1953, rabberciati eriparati per cinquant’anni al costo di quat-tro milioni all’anno, la metà di quanto costòil terreno ai Rockefeller, sono allo stremo.Guardare le budella del palazzo dà la sensa-zione di visitare le viscere di un vecchio ba-stimento prossimo alla demolizione. Men-tre gli zelanti picconatori dell’Onu — comequel possibile nuovo ambasciatore ameri-cano Bolton che vorrebbe segare di un terzotutta la baracca — esigono cambiamenti po-litici cuciti sulla misura della loro ideologiae ricordano che una struttura creata sulloschema dell’equilibrio del terrore non ri-sponde più allo squilibro globale creato dalterrore, riforme politiche e ristrutturazionifisiche diventano allegoria le une delle altre.C’è un piano maestro, un “Master Plan” persvuotare le budella del Totem e della sua Ba-lena, con un ridicolo preventivo di 1,2 mi-liardi di dollari e un tempo di consegna poe-tico di tre anni, ma nessuno vuol pagare.Non gli Americani, che hanno soltanto pro-messo provocatoriamente finanziamenti aitassi commerciali, circa il sei per cento, co-me si darebbe a una qualsiasi coppietta disposi. Da anni Washington, pre-con, neo-con, post-con, neo-lib, paleo-lib o qualun-que cosa essa diventi dopo George W Bush,vuol pagare soltanto per un Totem devoto euna Balena addomesticata.

Mancano i soldi, ma soprattutto mancail morale, sostituito dalla routine di serviresoltanto come foglia di fico per governi chedisprezzano l’Onu e poi lo invocano pergiustificarsi, o come zeppetta da ficcareogni tanto negli ingranaggi degli interessiamericani, più per tigna che per alternati-ve strategiche da proporre. In una delle tresale per conferenze, dentro la Balena Bian-ca dell’Assemblea Generale dove è appenastato eletto, per la prima volta in oltre mez-zo secolo, finalmente, anche un vice presi-dente Israeliano dell’assemblea, ascoltoper qualche minuto la testa biondissima diCarla Del Ponte, il “pubblico ministero” deltribunale dell’umanità, leggere un rappor-to che gli altri delegati ascoltano o con in-differenza o con la inquietudine di chi ha lacoda di paglia. Si aspetta. Tutti aspettano,qua dentro, qualcuno, qualcosa, la grandesvolta, la grande riforma, la botta america-na che stroncherà definitivamente Kofi An-nan con uno scandalo e un’accusa infa-mante ora che i suoi ex sponsor di Wa-shington lo hanno abbandonato. Si aspet-ta il piccone che smuffirà i piani e le teste, ilnuovo segretario generale, un nuovo attac-co dal cielo a quel grattacielo che sta solocome il dente di un vecchio, sulla spondadell’East River, magnifico bersaglio. So-prattutto si aspetta qualcuno che abbia an-cora voglia di credere al magnifico Totemabbandonato sulla spiaggia della sua soli-tudine, ma che sia qualcuno di importante,non più soltanto quei bambini famelici equelle madri con i seni rinsecchiti, che an-cora credono a quelle due lettere nere sullejeep bianche — UN — come all’angelo cu-stode, ma che nel mondo dei forti e dei du-ri non contano mai niente.

39° PIANO

Impianti vari

38° PIANO

Uffici e segreterie delsegretario generale Annan

37° PIANO

Protocollo, sottosegr.per affari politici, Brahimi,dipartimento per le peacekeeping operation

36° PIANO

Uffici militari, supportomissioni di pace e caschi blu,affari umanitari

35° PIANO

Servizi di controllo interno,affari politici

34° PIANO

Ufficio legale, trattati, normeinternazionali, codici marini

33° PIANO

Impianti vari, divisioneper i diritti dei palestinesi,divisione per le Americhe,Europa, Asia e Pacifico

32° PIANO

Affari umanitari, sottosegr.per l’assistenza umanitaria,situation center

31° PIANO

Dip. per il disarmo, divisionearmi di distruzione di massa

30° PIANO

Sezione per assistenzae monitoraggio elettorale,unità per la decolonizzazione

29° PIANO

Alto commissariatoper i diritti dell’uomo,dip. per l’assemblea generalee il managementdelle conferenze, serviziointerpreti trascrizione verbali

28° PIANO

Servizi e impianti

27° PIANO

Gestione e management

26° PIANO

Contabilità, pianificazionee bilancio

25° PIANO

Ufficio personale,alimentazione mondiale

24° PIANO

Progetto ristrutturazionepalazzo

23° PIANO

Affari sociali ed economici,finanziamenti allo sviluppo

22° PIANO

Pianificazione militaree polizia civile

21° PIANO

Uff. dei servizi di supporto,sicurezza, archivi,manutenzione palazzo,programmi di sviluppo

20° PIANO

Trasporti ed energia,ambiente, problemi dellepiccole isole in via di sviluppo

19° PIANO

Divisione informatica

18° PIANO

Sezione dell’Ombudsman,elaborazione politichee ricerche

17° PIANO

Coordinamento sicurezza,club di lettura giapponese

16° PIANO

Centro statistiche

15° PIANO

Divisione sedute assembleagenerale e servizidi pubblicazione

14° PIANO

Servizio coordinamentodelle politiche, gruppodi studio delle tecnologieper la comunicazione

13° PIANO

Fondo per la partnershipinternazionale

12° PIANO

Agenzia per i profughipalestinesi in M. O.,divisione per la promozionedella donna

11° PIANO

Interpretied elaborazione testi

10° PIANO

Stampa, sezione “Ong”

9° PIANO

Gestione viaggi e missioni

8° PIANO

Rimborsi spese,gestione finanziariagenerale, radio e tv

7° PIANO

Ufficio pensionie banca del personale Onu

6° PIANO

Servizi per l’azione anti mine

5° PIANO

Servizi medici, servizidi consulenza pertossicodipendenti e alcolisti

4° PIANO

Affari marittimi e dirittodel mare

3° PIANO

Ufficio del portavocedel segretario generale

2° PIANO

Protocollo e collegamento

1° PIANO

Ingresso pubblico,caffetteria, gift shop,biblioteca riservata e ufficiopostale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 29DOMENICA 19 GIUGNO 2005

‘‘LA CARTANoi popoli delle Nazioni Unite,

decisi a salvare le futuregenerazioni dal flagello

della guerra, che per due voltenel corso di questa generazioneha portato indicibili afflizioni

all’umanità, a riaffermare la fedenei diritti fondamentali dell’uomo,

nella dignità e nel valoredella persona umana, nella

eguaglianza dei diritti degli uominie delle donne e delle nazioni grandie piccole, a creare le condizioniin cui la giustizia ed il rispetto

degli obblighi derivanti dai trattatie dalle altri fonti del diritto

internazionale possano esseremantenuti, a promuovere il progresso

sociale ed un più elevato tenoredi vita in una più ampia libertà...

l’ascensore

della torre di vetro

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la copertinaOnu, i 60 anni

La città californiana si è mobilitataper accogliere le celebrazioni della nascita delleNazioni Unite, ma non ci sarannoil presidente George Bush e il segretario di StatoCondoleezza Rice a testimoniare la lontananzadella Casa Bianca da Kofi Annan

30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 19 GIUGNO 2005

Il 26 giugno 1945, dopo oltre due mesi di discussioni, cin-quanta Stati firmavano a San Francisco la Carta delle Nazio-ni Uniti, il documento che ha segnato la nascita dell’organi-smo internazionale e posto le basi per un impegno globale afavore della pace. «Noi popoli delle Nazioni Unite — è scrit-to nel preambolo — siamo determinati a salvare le future ge-

nerazioni dal flagello della guerra, che per due volte nel corso diquesta generazione ha provocato indicibili sofferenze».

Oggi la città californiana si mobilita come non mai per accoglierei festeggiamenti. L’Un Plaza, il comprensorio dedicato alle NazioniUnite a Market Street dove è inciso su una grande lastra di marmo iltesto dell’intera Carta, è stato completamente ristrutturato. Unamostra è stata dedicata a Franklin Delano Roosevelt, padre fonda-tore dell’Onu. E qui, domenica prossima, si riuniranno le massimeautorità della città e arriverà il Segretario generale Kofi Annan, perpoi in serata partecipare a un concerto dentro la cattedrale.

Il programma delle celebrazioni conta qualche defezione eccellen-te. Peserà l’assenza del presidente George W. Bush e del segretario delDipartimento di Stato Condoleezza Rice. «Troppi impegni», è stata lagiustificazione. Al loro posto è stato inviato l’ambasciatore Sichan Siv,un «anonimo funzionario» secondo il New York Times. Per la stampa

americana, quelle poltrone vuote sono l’ennesimo segnale del solcoabissale scavato tra la Casa Bianca e le Nazioni Unite.

«Qui c’è ancora qualcuno che vuole festeggiare le Nazioni Uni-te» ha detto provocatoriamente il giovane sindaco di San Franci-sco, Gary Newsom. Eletto nel 2003 con il Partito democratico, èstato il grande regista della festa che si terrà tra una settimana, unafesta di «orgoglio e dignità» per le Nazioni Unite come ha detto ilsindaco, strenuo difensore dell’organizzazione. Giovane, brillan-te, Newsom definisce il rafforzamento e la riforma delle NazioniUnite «l’unica garanzia per un futuro di pace nel mondo».

Le polemiche rischiano di accompagnare tutte le celebrazioni,che culmineranno il 14 settembre con il vertice mondiale dei capidi Stato e di governo a New York. Mentre a San Francisco andrà inscena un’allegra mobilitazione popolare di sostegno all’Onu, asettembre si consumerà un summit tutto politico che rischia diinasprire le divisioni e le contrapposizioni. Finora la riforma pre-sentata da Annan («In larger Freedom») non ha raccolto abba-stanza consensi per sperare di essere approvata e nessuna alter-nativa valida è stata ancora avanzata. Sulla East Coast per il mo-mento non c’è nulla da festeggiare.

(anais ginori)

San Francisco prepara la festadi un compleanno senza gioia

I SEGRETARI GENERALI

LIE

Il primo segretariogenerale fu il norvegeseTrygve HalvdanLie (in caricadal ’46 al ’52).Laburista, vicinoal sindacato,nel suo paese fupiù volte ministro

HAMMARSKJÖLD

Lo svedese DagHammarskjöldrimase in caricafino al ’61 quandomorì in unincidente aereodurante unamissione in Africa.Nobel postumoper la pace

THANT

Dal ’62 al ’71 fu lavolta del birmanoU Thant. Volevaaffrontare le crisidel mondo con iprincipi buddisti.Nel ’74 il suocorpo a Rangoonvenne conteso trastudenti e regime

WALDHEIM

Segretario Onufino all’81, KurtWaldheim nell’86fu eletto presiden-te austriaco. Su dilui l’ombra di unpassato in un’uni-tàdel Terzo Reichaccusata di crimi-niin Jugoslavia

PEREZ DE CUÉLLAR

Il diplomaticoperuviano JavierPérez de Cuéllarfu segretariodall’82 al 1991.Mediò tra GranBretagnae Argentina dopola guerra delleFalklands

BOUTROS GHALI

In carica fino al’96, l’egizianoBoutros BoutrosGhali fu criticatoper l’inattivitàdell’Onu durante ilgenocidio del ’94in Ruanda. È statoil primo a nonessere rieletto

ANNAN

Il ghanese KofiAnnan, eletto nel ’96, è il primosegretariooriginario dell’Africanera. Nobelper la pace nel2001, ora affrontalo scandaloOil for Food

LE MISSIONI ALL’ESTEROLe missioni di peacekeeping sono16: 8 in Africa, 1 in Asia, 1 in CentroAmerica, 3 in Europa e 3 in MedioOriente. I paesi che partecipanoalle azioni militari sono circa90. Dal 1992, sono 210 ifunzionari civili uccisiper attacchi diretti, 265 quellipresi in ostaggio. I caschi bluuccisi in azione di pace dal 1948sono 1.760 di 100 nazioni. I casidi aggressione, rapina, ferimentie stupri contro personaledell’Onu sono 830 all’anno(media dal 2000)

LE AGENZIEOltre ai sei principali organi(Assemblea, Consiglio disicurezza, Consiglio economicoe sociale, Corte internazionale diGiustizia, Segretariato e ilConsiglio per l’amministrazionefiduciaria, che però ha sospesole sue attività nel ‘94) l’Onu com-prende altre strutture divise inAgenzie, Programmi e Fondi cuispettano compiti tecnici e diassistenza umanitaria. Tra i piùnoti il Programma alimentare(Pam, con sede a Roma) e ilFondo per l’infanzia (Unicef)

LA CAMPANADELLA PACEOttenutadalla fusionedelle monetedi sessanta nazioni,la campana è un donodel Giappone

IL GIARDINODELLE ROSENei giardini che siaffacciano sull’East Riverci sono rose diventicinque varietà

IL CONSIGLIO DI SICUREZZA

LA STANZA DELLE DECISIONIIl Consiglio ha come ruolo il mantenimento della pacee della sicurezza internazionale. È composto da quindici membri:i rappresentanti delle cinque grandi potenze vincitricidella Seconda guerra mondiale - Stati Uniti, Francia,Gran Bretagna, Cina e Russia - sono membri permanenti.Gli altri dieci sono eletti a rotazione ogni due anni: oggi sonoAlgeria, Argentina, Benin, Brasile, Danimarca, Grecia, Giappone,Romania, Filippine e Tanzania. Per approvare una risoluzione

è necessaria una maggioranza qualificata di nove membridel Consiglio di sicurezza, ma anche l’assenso di tutti e cinquei membri permanenti, il cui voto contrario equivale al veto.La prima volta il veto venne usato il 4 febbraio del ’48dall’Unione Sovietica per bloccare una risoluzione a favoredell’intervento delle truppe britanniche in Grecia.L’Italia ha fatto parte del Consiglio per cinque volte,l’ultima dal 1995 al 1997

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31DOMENICA 19 GIUGNO 2005

NEW YORK

Tra le specie antropologiche che popo-lano il pianeta ce n’è una misteriosa, perlo-più sconosciuta, che vive nascosta in un pa-lazzo di vetro. Timida, eppure vitale per i de-stini dell’umanità, Giandomenico Picco ladefinisce — un po’ per scherzo, un po’ no —«homus onusiano». Spiega: «Sono gli uomi-ni (e le donne, sempre in numero maggiore)di ogni razza, etnia e religione che lavoranoall’Onu e si sentono investiti della missionedi salvare il mondo».

Picco è stato un tipico homus onusiano.Friulano d’origine, newyorkese d’adozione,ha trascorso vent’anni alle Nazioni Unite di-ventando il braccio destro di Javier Perez deCuellar, raggiungendo il grado di sottosegre-tario e portando a termine con successo mis-sioni delicate, come la liberazione degliostaggi rapiti in Libano. E anche se ha lascia-to da tempo l’organizzazione per fondareuna società di consulenza internazionale, laGdp & associates, di quel palazzo che si af-faccia sull’East river Picco conosce ognimeandro e ogni segreto.

Il Palazzo di vetro è sempre stato sinoni-mo di giochi diplomatici e intrighi interna-zionali. Ma c’è, al suo interno, un angolodolce, romantico?

«È questione di gusti, ovviamente. Io sonosempre rimasto stregato dallo spettacolo deltappeto regalato all’Onu dallo scià di Persiae appeso a una parete. Anche se è un po’ sbia-dito dal sole, al tramonto assume toni magi-ci. È immenso, bellissimo, frutto del lavoro dicentinaia di persone. Di opere d’arte, al Pa-lazzo di vetro, ce ne sono molte, donate daigoverni e disperse dentro e fuori. Purtropponon tutte sono belle: Perez de Cuellar, cheera un conoscitore, non perdeva occasioneper lamentarsi di alcuni obbrobri».

Ma gli onusiani hanno il tempo di goder-si queste cose?

«Purtroppo no. A dispetto di una cattivafama, i funzionari dei settori nevralgici lavo-rano sodo. Entrano la mattina presto, esco-no la sera tardi, non si danno tregua né di sa-bato né di domenica. Chi stacca alle 17 nonpuò certo sperare di fare strada».

Dove mangiano, questi stacanovisti del-la politica internazionale?

«A pranzo, nella mensa al piano terra. Disera, anche se è tardi, niente pizza: stringonola cinghia e aspettano di tornare a casa. Di so-lito il segretario generale non va mai allamensa. O va a mangiare alla sua residenza uf-ficiale, che non è lontana, o resta al trentot-tesimo piano — la tolda di comando — dovedispone di una piccola camera da pranzo».

Com’è la vita quotidiana nel palazzo? Silavora bene? E come viene vissuto, dall’in-terno, il multiculturalismo?

«Di per sé il palazzo è comodo. Ha più dimezzo secolo di vita, ma continua a essereabbastanza funzionale, anche se l’aumentodegli organici porta a problemi di spazio e dicongestione. Si parla inglese, tranne che congli amici della stessa nazionalità. Si celebra-no le festività del paese ospitante: cioè gliStati Uniti. E per la verità, dopo qualche an-no che si è dentro, si tende a dare per sconta-te le diversità culturali».

Ma è vero che esiste un sistema di castenel palazzo di vetro?

«C’è sempre stata una frattura — particolar-mente accentuata negli anni della guerra fred-da — tra i funzionari di carriera e quelli distac-cati all’Onu dai governi nazionali. I primi han-no un rapporto fiduciario con l’organizzazio-ne; gli altri, invece, si sentono di passaggio esenza particolari doveri di lealtà. C’è anche unafrattura tra chi lavora nel quartier generale e chiopera sul campo: purtroppo non c’è un’equarotazione tra incarichi al centro e alla periferia.E bisogna riconoscere che all’Onu, come in al-tri organismi, ci sono zone più efficienti e altremeno, zone più nobili e altre meno».

Zone nobili?«Sì, a seconda del periodo e del segretario

generale, ci sono stati settori considerati piùaristocratici di altri. Un tempo il cuore delpotere era l’ufficio “affari speciali” retto daBrian Urquart, una figura leggendaria nellastoria dell’Onu. Chi lavorava con lui — e ioebbi questa fortuna — faceva parte di ungruppo d’élite. Adesso, il settore più impor-tante è il cosiddetto Esog (Executive office ofthe secretary general). Cioè, l’entourage diKofi Annan, concentrato al trentottesimopiano del palazzo».

“La mia vita

nel Palazzo”

Parla Giandomenico Picco

ARTURO ZAMPAGLIONE

LA STORIA

IL MEDIO ORIENTE

Il 23 novembredel 1967, dopola guerra dei “Seigiorni” tra Israelee paesi arabi,l’assemblea generaleadotta la risoluzione242 sul ritiro di Israeledai territori occupati

LA GUERRA DEL GOLFO

Il 2 agosto del 1990,il Consiglio di sicurezzacondanna l’invasionedel Kuwait da partedell’Iraq. Il 29 gli Usae i loro alleati sonoautorizzati a intervenire“con tutti i mezzinecessari”

L’EX JUGOSLAVIA

Il 21 febbraio 1992,il Consigliodi sicurezza autorizzal’invio di forzeUnprofor nellaex Jugoslavia.Nel febbraio 1993viene creato il tribunaleinternazionale

LA CRISI IRACHENA

L’8 giugno 2004approvatala risoluzione 1546che disegna il futurodell’Iraq. È laconclusione dellalunga crisi diplomatica,seguita alla guerrain Iraq

LA FONDAZIONE

Il 26 giugno del 1945cinquanta statifondanol’Organizzazione per lenazioni unite. Il 10dicembre del ’48,l’Assemblea adotta ladichiarazioneuniversale dei diritti

IL PALAZZO

DI VETROJohn Rockfeller juniordonò 8,5 milionidi dollari per comprareil terreno sull’EastRiver. I lavori furonoaffidati all’architettoWallace Harrison.Iniziarono nel ’49e finirono nel ’52

I COLORI

DEL MONDOLe bandieredei 191 paesimembri dell’Onusventolanodavantial palazzo di Vetro

IL “PARLAMENTO”L’Assemblea generale è il principale organodeliberante delle Nazioni Unite. È compostadai rappresentanti di tutti gli Stati membri,ognuno con diritto a un voto. Le decisioni piùimpor-tanti - sui temi della pace e dellasicurezza, sull’ammissione di nuovi membrio le materie di bilancio - richiedono unamaggioranza di due terzi. L’Assemblea ha ilpotere di esaminare i principi dicooperazione per il mantenimento dellapace e della sicurezza internazionalefacendo raccoman-dazioni agli Stati membrie al Consiglio di sicurezza; approva il bilanciodell’Onu; elegge i membri non permanentidel Consi-glio di sicurezza. La sessioneregolare di lavori comincia il ter-zo giovedì di

settembre e prosegue fino a metàdicembre. Possono essere convocate

sessioni straordinarie su richiestadel Consiglio di sicurezza

o della maggioranzadei membri

LA STATUA

DELLA PACEScultura equestredel 1954 opera di AntunAugustincic, donatadalla ex Jugoslavia

FORGIAMO

LE SPADE IN ARATRIStatua in bronzo delrusso Vucetic (1958)che rappresenta lo scopoprincipale dell’Onu

Gli impiegati che lavoranonella sede Onu di New York

5.000Il budget annuale per la sededi New York

1,7 miliardi di $Costo complessivo delsistema Onu (aiuti compresi)

12 miliardi di $Preventivo dei costi perristrutturare il Palazzo di Vetro

1,2 miliardi di $Percentuale di donne nelpersonale permanente Onu

40,2%

LA STATUA

DELLA NON VIOLENZAOpera dello svedese KarlFredrik Reutersward,che è stata donatadal Lussemburgo nel 1988

ILLUSTRAZIONEM

IRCOTANGHERLINI

L’ASSEMBLEA GENERALE

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il viaggioMonarchia marxista

Statue, stadi, archi di trionfo monumentali. E in mezzoqualche automobile, poche biciclette, lunghe fileper i rari tram, contadini che dormono sull’asfalto.Pyongyang sembra una tragica “Disneylanddella guerra fredda”, eppure anche nel regimetotalitario di Kim Jong Il qualcosa si sta muovendo

Sul confine con Seul,Kim Jong Ilha autorizzatouna “zonaeconomica speciale”dove duemilafabbriche del Suddaranno lavoroagli operai del Nord

PYOGYANG

Il quadrireattore Ilyushin 62 difabbricazione sovietica mostratutti gli acciacchi dei suoi qua-rant’anni, ma non c’è alternati-

va. Il volo Air Koryo tra Pechino ePyongyang, martedì e sabato, è l’unicocollegamento regolare tra la Corea delNord e il resto del mondo. È già un’im-presa prenderlo. Per un occidentale èdifficile ottenere il visto, tanto più in unperiodo come questo di “tensione nu-cleare” con gli Stati Uniti. È rarissimoche riescano a entrare dei giornalisti. Abordo i passeggeri nordcoreani si rico-noscono subito: in completo grigio ecravatta, hanno sempre all’occhiello laspilla rossa con l’effigie del Grande Lea-der, Kim Jong Il. Appena atterrati aPyongyang iniziano i riti che segnalanol’ingresso in un universo remoto e mi-sterioso. La Corea del Nord è l’unicopaese al mondo dove i telefonini ven-gono sequestrati all’arrivo dalla poliziadi frontiera, dove quasi tutti i telefonifissi sono disabilitati a ricevere chia-mate dall’estero, solo pochi potentihanno un accesso a Internet, e il visita-tore viene sempre scortato da due fun-zionari governativi con cui occorre“concordare” ogni itinerario.

L’ingresso in città è rapido perché iviali maestosi, circondati da mausolei estatue del Grande Leader, sono semi-vuoti. Le automobili sono ancora unacuriosità, scarseggiano perfino le bici-clette. Le dimensioni monumentalidella capitale accentuano l’atmosferairreale da città-fantasma. Dopo il pas-saggio davanti allo Stadio Kim Il Sung (ilfondatore del regime deceduto nel1994, padre dell’attuale leader), poisotto l’Arco di Trionfo che celebra laguerra contro gli americani, la primasosta obbligatoria è per ammirare lastatua bronzea di Kim figlio, talmentecolossale che i lineamenti del volto de-vono essere ben visibili dai satelliti-spia. Tutta l’architettura urbana è unomaggio titanico all’unica “monarchiaereditaria comunista” della storia, lacui ideologia accentua col passare de-gli anni i connotati religiosi. Il leader siattribuisce poteri soprannaturali e ali-menta leggende sui suoi miracoli. Sierigono in suo onore templi che ricor-dano il culto dell’imperatore nell’eraconfuciana.

La visita alle grandi opere dell’icono-grafia rivoluzionaria si conclude con lacolonna della Juche (autarchia) alta150 metri. Sovrasta un trittico scolpitonel granito: la contadina con la falce,l’operaio col martello, l’intellettualecol pennello. Intorno c’è una cornice diparchi verdi curatissimi, e al centroscorre placido il fiume Taedong. Finqui Pyongyang sembra finta. Una im-maginaria Disneyland dedicata allastoria del comunismo, un JurassicPark, bizzarro parco-attrazioni inven-tato per farci viaggiare all’indietro neltempo. Un mondo ricostruito propriocome mezzo secolo fa, all’apice dellaguerra fredda.

Un popolo di ombreAnche il resto della città ricorda un vec-chio documentario in bianco e nero,ma piano piano vi compare un popolodi ombre, e una realtà diversa sostitui-sce Disneyland. Un grattacielo-pira-mide abbandonato durante la costru-zione, file di caseggiati dai muri scro-stati o senza intonaco compongono unpaesaggio da dopoguerra. E quei loculisquallidi che s’intravedono illuminatida deboli neon sono le abitazioni deisemiprivilegiati, il “ceto medio” a cui il

regime concede la residenza nella capi-tale. Ad ogni incrocio una giovane vigi-lessa in divisa immacolata esegue unelegante balletto solitario anche se nonc’è traffico da dirigere: passa una Mer-cedes nera ogni dieci minuti, per il re-sto ci sono solo file di attesa per i raritram, e lunghe colonne di pedoni incammino. È concesso un breve viaggioin metropolitana: lo scopo è farci am-mirare la profondità dei tunnel-rifugiantiatomici e le stazioni affrescate conmotivi rivoluzionari. Ma il tragitto sot-toterra per una sola fermata basta a ri-trovarsi in mezzo a una popolazionegelida e silenziosa, dagli sguardi tristi esfuggenti, con abiti grigi, tagli e fogge daEuropa dell’Est anni Cinquanta. Ancheper la strada, questo è l’unico angolod’Asia dove i bambini non sorridono al-lo straniero, non lanciano un «hèl-lòu!»allegro ma anzi abbassano gli occhi o siscostano impauriti.

La paranoia inculcata dal regimeesplode all’im-provviso, nel tra-gitto verso l’alber-go che sta in perife-ria, quando appa-re la campagna e laprima risaia. Bastaun finestrino del-l’auto abbassato,una camera digita-le estratta dall’a-stuccio, l’accennoa voler fotografareda lontano ungruppo di contadi-ni. Il funzionariodella scorta co-mincia a urlare,esterrefatto e ter-rorizzato: «Questonon era nei patti! Èuno scherzo stupi-do! Basta, nientefoto!». La minimarichiesta fuori pro-gramma ha lo stesso effetto, scatena ilpanico tra gli accompagnatori. Un ten-tativo di fare jogging nel parco che cir-conda l’albergo viene intercettato ebloccato da una pattuglia di soldati agi-tatissimi. Una seconda corsa finiscepeggio: da un campo vicino un giovanepastore che pascola capre si avventa fu-rioso contro lo straniero, urlando e ro-teando un bastone. La sera tardi, rien-trando ancora in albergo dalla città, siha una fugace rivelazione di ciò che lostraniero “non doveva” vedere: deicontadini delle risaie dormono sul nu-do asfalto della strada, rischiando di es-sere schiacciati dall’unica auto; altri al-loggiano in tuguri marci e immondisotto un ponte.

Mercoledì sera Pyongyang esce dalsuo mesto torpore e si anima per unevento speciale. Cortei di pedoni, so-prattutto donne e bambine, attraversa-no la città indossando vestiti multico-lori e galosce turchesi, con in mano fe-stoni di fiori finti rosa-shocking. La ca-pitale, che spesso è oscurata daiblackout, stavolta è tutta una lumina-ria, certi viali sembrano imitare iChamps-Elysées nell’addobbo natali-zio. I cortei si avviano verso lo stadiodove si celebra il quinto anniversariodello storico vertice tra i due leader delNord e del Sud: il 15 giugno 2000 l’allo-ra presidente in carica a Seul, Kim DaeJung, tentò di avviare il disgelo tra ledue Coree, da lui battezzato la «politicadella luce del sole». Il presidente demo-craticamente eletto dalla metà riccadella penisola venne a Pyongyang astringere la mano al dittatore comuni-sta. Fu un gesto controverso (soprat-tutto per le famiglie dei suoi concittadi-ni e dei giapponesi rapiti in tempo di

LA CAPITALETre immaginidella capitaledella Corea del Nord,PyongyangDall’alto, una vedutagenerale della città;una stazionedella metropolitana,decorata con stucchie lampadari preziosi;il monumentoa Kim Il Sung,il fondatoredel regimee padredell’attuale leader,morto nel 1994

FEDERICO RAMPINI

32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 19 GIUGNO 2005

pace, catturati nei blitz clandestini dal-le spie del Nord) ma valse a Kim DaeJung il Nobel per la pace.

Cinque anni dopo una delegazionedi 350 sudcoreani viene accolta e fe-steggiata di nuovo a Pyongyang. Il cie-lo si tinge di fuochi d’artificio, decollauna mongolfiera verde. Lo stadio ègremito, gli spettatori applaudonouna di quelle spettacolari coreografiedi massa in cui i nordcoreani sonomaestri, e la tv ritrasmetterà quelleimmagini per giornate intere. La reto-rica della riunificazione qui è in augecome nel giugno del 2000. L’odio è ri-servato agli americani, accusati di «oc-cupare militarmente» la Corea delSud. Per i «fratelli» di Seul i cuori delGrande Leader e delle sue masse ado-ranti traboccano di amicizia.

Ma il clima internazionale attorno aPyongyang è irriconoscibile rispetto acinque anni fa. Dopo l’11 settembre2001 George Bush ha citato la Corea delNord tra i paesi dell’«asse del male», peri suoi progetti di armamento nucleare.L’11 dicembre 2002 una nave nordco-reana diretta allo Yemen veniva inter-cettata con 15 missili Scud a bordo. Nel2003 la Libia avrebbe acquistato uraniotrattato da Pyongyang. Lo stesso annoil regime comunista ha espulso gliispettori nucleari dell’Onu e si è ritiratadal trattato di non-proliferazione.Condoleezza Rice appena nominatasegretario di Stato ha definito questopaese «uno degli ultimi bastioni dellatirannide nel mondo» (i nordcoreani ri-battono definendola «la cagna»; il vice-presidente Dick Cheney invece è «labelva assetata di sangue»). I satellitiamericani spiano con attenzionerafforzata il Nord per avvistare segnali

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Corea, prove di mercatonel “Jurassic” comunista

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precursori di un test nucleare. Ieri KimJong Il ha improvvisamente annuncia-to di voler riallacciare i negoziati conWashington, se gli americani lo tratte-ranno «con rispetto». Ma l’imprevedi-bile dittatore è un habitué delle svolterepentine, da anni alterna i ramoscellid’ulivo e gli annunci di riarmo atomico.

Il vice primo ministro Pak Bong Junel riceverci recita la versione del re-gime per giustificare i preparativi nu-

cleari: «Grazie al nostro deterrentel’America non osa scatenare unaguerra d’aggressione contro di noi co-me ha fatto in Afghanistan e in Iraq».Sembra soprattutto interessato apiangere miseria («siamo a corto dicapitali, la minaccia americana im-paurisce e tiene lontani gli investitoristranieri») e ad attirare le imprese oc-cidentali. Testualmente: «Il nostropaese offre un ambiente sicuro per glistranieri che vogliono fare affari».

Lascia increduli, in un paese doveancora formalmente non esiste la pro-prietà privata. Di certo fino a pochi an-ni fa non era pensabile quel linguag-gio. Come non era pensabile il negoziodi orologi Longines da 700 euro l’uno,spuntato sulla via principale diPyongyang. Né i due cartelloni pubbli-

citari (gli unici in tutta la città) che van-tano una Fiat Siena in versione locale.Né i trenta ristoranti aperti di colpo dagestori privati. Tanto meno ci si pote-va aspettare la banca che all’ora dipunta si anima di una piccola folla conrotoli di euro, valigette piene di dolla-ri: qualcuno ha la faccia del funziona-rio di Stato, qualcun altro del contrab-bandiere, ma chi sarà mai quell’anzia-na signora con una gonna a pois neriche posa sul bancone pesanti mazzet-te di valuta pregiata? Il pretesto di que-sto viaggio è altrettanto singolare: unavvocato d’affari italiano già insediatoda anni in Cina, Luca Birindelli, ha ri-cevuto per primo l’autorizzazione adaprire uno studio legale. Per assisterele imprese che vogliono investire qui.Nel Jurassic Park nordcoreano qual-cosa si muove?

L’esperimento più sorprendente loscopro a tre ore di auto dalla capitale,nella “zona economica speciale” diKaesong. È lo stesso termine che in Ci-na usò Deng Xiaoping, il padre dell’eco-nomia di mercato, quando negli anniOttanta creò i primi laboratori di capi-talismo a Shenzhen e Guangzhou, sullacosta meridionale vicino a Hong Kong.Ma a Kaesong sta accadendo qualcosadi più sconcertante di quel che osò ilvecchio Deng in Cina. Siamo a 1.500metri esatti dalla Dmz, la “de-militari-zed zone”. È l’ultima cortina di ferro delpianeta. Il confine dove dalla guerra del1950-53 si fronteggiano l’esercito nord-coreano da una parte, sudcoreani eamericani dall’altra. Una frontiera mi-nata, con foreste di missili puntati daidue lati, dove un errore di calcolo po-trebbe far esplodere una guerra nuclea-re in qualunque momento.

Eppure a Kaesong sembrano una cu-riosità turistica i due pennoni dellebandiere che segnano le postazioni ne-miche della Dmz. Ogni tanto scom-paiono per il polverone sollevato dascavatrici, gru, schiacciasassi, asfalta-trici e camion. Qui si sta costruendo, interritorio nordcoreano e con l’inverosi-mile beneplacito di Sua Maestà comu-nista Kim Jong Il, una Hyundai-city. Dalnome della Hyundai, colosso capitali-stico della Corea del Sud. Il fondatore epadre-padrone dell’azienda Chung Ju-yung (morto il mese scorso all’età di 86anni), figlio di contadini poveri delNord, cinquant’anni fa era riuscito afuggire al Sud portandosi dietro unamucca. Nel 1998 si è ripresentato nellasua patria con 501 mucche — «500 re-galate, una restituita» — e con una pro-posta temeraria: portare sviluppo eco-nomico al Nord, grazie al suo fiuto, allasua credibilità, e alle regole del capita-lismo.

Quaranta dollari al mese

Lui non c’è più ma il suo sogno va avan-ti. In un cantiere a cielo aperto l’eserci-to pacifico di manager, tecnici e scava-trici della Hyundai sta costruendo unparco industriale di 3.000 ettari, dovel’anno prossimo si saranno insediatetrecento aziende sudcoreane. L’obiet-tivo finale è di arrivare a duemila fab-briche, con 400.000 dipendenti: tuttioperai del Nord, a 40 dollari di salariomensile, comandati da padroni delSud. Cinque imprese sono già in fun-zione, un’altra dozzina lo saranno en-tro poche settimane. Ogni mattina siincontrano due colonne di veicoli, dalNord gli autobus blu che portano labassa manovalanza, dal Sud i fuoristra-

da coll’aria condizionata su cui arriva-no i manager.

Improvvisamente qui svanisce la pa-ranoia di Pyongyang: i manager sudco-reani accolgono il giornalista occiden-tale con larghi sorrisi, distribuisconobiglietti da visita, spalancano i cancellidelle fabbriche già in funzione, regala-no informazioni in abbondanza, sottogli occhi increduli e smarriti delle no-stre “guide” governative. Alla SonokoCuisineware, nuova fabbrica di pento-le, i magri operai nordcoreani hannoancora gli occhi pieni di paura e di so-spetto. Ma alla Shinwon, azienda tessi-le, le operaie in divisa bianca curve sul-le macchine cucitrici sembrano piùtranquille. Sarà merito della musicaleggera che gli altoparlanti spandononello stabilimento. O forse della sala daping pong che la direzione ha fatto in-stallare per le pause. Il manager venutoda Seul, Chul Soon Kim, mostra con or-goglio la grande mensa pulita e lumi-nosa. «E subito a fianco abbiamo co-struito anche la cappella cristiana e iltempio buddista, per chi vuole prega-re». Il funzionario nordista che ci scor-ta nasconde il suo imbarazzo con dei ri-solini soffocati. Ma se il Grande Leaderha dato via libera alla Hyundai-city, tut-to quello che accade qui dentro è in una“bolla” di immunità. Fino a prova con-traria.

A un’estremità del gigantesco can-tiere, poveri manovali a piedi nudi si ca-ricano sulla schiena le traverse di legnoper la linea ferroviaria Nord-Sud, cheun giorno dovrebbe inviare i prodottiverso i porti e i mercati stranieri. Intan-to con un buon binocolo si vede il cam-bio della guardia dei due eserciti, sulconfine più pericoloso del mondo.

PROPAGANDASopra, passeggerialla stazioneferroviariadi Pyongyangdavanti a manifestidi propagandaA fianco, una statuadi Kim Il Sung

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 19 GIUGNO 2005

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 19 GIUGNO 2005

le storieSport e terapia

La corsa tra i ghiacci delle isole Spitzbergenè una delle più dure al mondo: al via un centinaio di atletispericolati in calzamaglia e berretto di lana.Tra di loro anche una squadra italiana molto speciale:21 ragazzi autistici portati sin qui non in cerca di miracoli,ma di piccoli passi avanti verso il traguardo più importante

Alberto, che è la stardel gruppo, va subitoin fuga. Dietro di luiQuirino, Leonardo,Alessandro, Matteoe tutti gli altri.Ma all’arrivonon ci sono sconfitti

CORRADO SANNUCCI

La maratona al Poloper guarire dal silenzio

LONGYEARBYEN

Lo striscione del via sbatte alvento, la Maratona delleSpitzbergen parte in salita,dal piazzale davanti all’e-

dificio verde delle piscine. All’interno ècustodita una fiaccola delle Olimpiadidi Lillehammer, simbolo nobile e be-neaugurante. Fa più freddo degli altrianni, temperatura intorno ai due gradima sotto le folate si scende subito a me-no dieci. Un centinaio i partenti, concalzamaglie e berretti. C’è anche unasquadra italiana. I ventuno ragazzi au-tistici del Progetto Filippide.

Si parte in salita, alle spalle il fiordo,dovunque montagne ancora copertedai ghiacci. Il Polo Nord è a 960 chilo-metri, vicinanza illusoria, come scoprìUmberto Nobile che da qui partì con ildirigibile, come sapeva Roald Amund-sen che morì per andarlo a cercare. Tra iragazzi c’è chi ha già fatto una maratonama stavolta correranno tutti sulla di-stanza più corta dei 10 chilometri. Perfare squadra, gruppo. Mai erano cosìtanti al via di una corsa.

Ecco il via. Partenza puntuale. Dueanni fa ci fu un ritardo di un’ora, c’era unorso un po’ troppo vicino e si dovette at-tendere che si allontanasse. I ragazzi so-no emozionati, è proprio così?, e giàquesto è un mezzo prodigio. Eranosbarcati una settimana prima, aeropor-to di Longyearbyen, una stanza per lepartenze e una per gli arrivi. Gli sguardiche vedevano o no l’ambiente polare.Ognuno con la sua assenza, il suo tic, ilsuo manierismo. Autismo, sindromi diWest, sclerosi tuberosa, sindromi X-fra-gile, ragazzi che hanno scavato un fos-sato tra le proprie conoscenze e il mon-do, la vita e i genitori. Ma ora sono parti-ti, pronti alla Maratona delle Spitzber-gen. Polo Nord, autismo, correre: checocktail. Malattie limite per un ambien-te limite, ultima terra prima del pack. Amalattie estreme, estremi rimedi.

Una spedizione di sessanta persone,perché c’è un assistente per ogni ragaz-zo, per di più buon corridore perché do-vrà fare la corsa insieme a lui, poi ci sonoi medici, gli psicologi, gli istruttori dinuoto, i cuochi. E poi altri sei bambini,figli di operatori, per un’integrazione tranormalità e anormalità, volendo usare idue termini che piacciono a chi alza bar-riere. A progettare l’invasione delleSpitzbergen da parte degli autistici è sta-to il Progetto Filippide, l’ultima forma diun’idea che ha ormai più di dieci anni,da quando Nicola Pintus cominciò acorrere con Alberto Rubino. Ne scaturì

all’arrivo. È una crisi che può piantarloqui, chi conosce questi ragazzi sa qualemonumentale e insormontabile con-trattempo può rappresentare un equi-voco così. Ma Davide comunque ha cor-so, asciugando molte delle sue ecolalie.E adesso supera la crisi e va verso il tra-guardo.

Perché questi ragazzi stanno megliocorrendo? L’aveva chiesto anche la re-porter dello Spitzbergen Posten, per-dendosi dietro ai ragionamenti sui livel-li della serotonina e dell’adrenalina. Madall’anarchia totale della loro mente,dal rifiuto totale del fuori, passano acomportamenti lineari, instradati. Es-sere in grado di farsi la doccia dopo unacorsa è un traguardo che porta sollievopoi alle famiglie. Non si fanno miracoli,non li fa neanche la maratona, ma solopiccoli passi in un mare di silenzi e di ri-fiuti.

C’è qualcuno che ha creduto a questoprogetto, il Cnr per esempio, che portòAlberto nella sua base in Himalaya e cheha anche una base qui, a Ny Alesund, perricerche sull’inquinamento, il che spie-ga anche il perché di questa spedizioneal Polo. Ma i fondi sono stati tagliati equindi la ricerca non si fa, neanche persapere cosa sta cambiando nel corpo diquesti ragazzi esposti così allo stress. LaTim ha dato da sempre sostegno, unamico di vecchia data è Damiano Tom-masi che ha fornito l’equipaggiamentotecnico, una mano è arrivata dalla Pro-vincia di Roma. Ma la lista dei rifiuti edelle indifferenze è lunga.

Passata la miniera è di nuovo discesae poi si finisce di nuovo sulla salita versole piscine. Alberto chiude in 50’23”, ter-zo assoluto sui 10 chilometri. Non male,ma forse ha corso in difesa, per timoredell’infortunio. Nei primi dieci c’è Qui-rino in 56’, poi Leonardo e Alessandroancora sotto l’ora. Scaglionati gli altri,con Ivan che è riuscito a restare davantia Beatrice e chiude in 1h06’. La gara è sta-ta dura come sempre. La maratona è sta-ta chiusa sopra le tre ore. Tutti hannomigliorato i propri tempi, ma non per-ché siano migliorati come atleti. Hannocanalizzato meglio le cose della loromente, sono diventati più padroni dellacompetizione. Tra gli ultimi i nuovi, Mi-chele precede Davide, e sul traguardo haaddirittura un sorriso, un avvenimentobellissimo e inspiegabile. Anche tra glioperatori qualcuno piange, non si passaindenni attraverso queste prove. Si toc-ca in ogni momento quale difficile con-quista siano coscienza e conoscenza. Ilsole è stato sempre a metà del cielo, nelgiorno senza fine. Basta chiedere a Leo-nardo cosa ne abbia pensato: «Non mene sono accorto».

gie in infiniti movimenti ed ecolalie; eMichele, l’opposto, impassibile nel suototale distacco. Sono alti e filiformi, atle-ti del futuro per il Progetto. Ma nel grup-po sfilano molti così alti, sono le dimen-sioni delle nuove generazioni. Esserecosì imponenti non li aiuterà, chi vorràfarsi spaventare sarà pronto a farlo.

Si va lungo il fiordo, dovunque ci sonomotoslitte abbandonate, come motori-ni parcheggiati fuori da una scuola.Quando tornerà la neve saranno di nuo-vo on the road. Ivan sbuffa e piazza unadelle sue freddure. «Toglietemi tutto manon il mio grasso». I suoi punti di riferi-mento sono Beatrice e Roberta, chehanno meno chili e reattività muscolaremaggiore. Roberta solo poco tempo fa siera bloccata sulla Tour Eiffel, non era vo-

luta salire. Qui ha presol’aereo, è scesa, e adessoalza le ginocchia contro-vento.

Più avanti un altro car-tello di «pericolo orsi».Non è solo questione di ri-tardi nella partenza, re-centemente hanno uccisoun turista giapponese. Leorse stanno uscendo dalletargo con i piccoli appe-na nati e molto affamati.Un furgoncino sorveglia lacorsa, a bordo gli uominiarmati di carabine.

In settimana era passataanche una reporter delloSpitzbergen Posten, il setti-manale del paese, un cen-

tinaio di copie vendute tra i 1800 abitan-ti. Cercava di capire perché questi ragaz-zi siano qui, non comprendeva cometutto questo nascesse per un’iniziativaprivata. In Norvegia ci pensa lo stato, i di-sabili hanno un loro percorso lungo ilquale sono curati e protetti, senza biso-gno di arrivare al Polo Nord, che per lorosarebbe anche più comodo. Così si fal’integrazione dei disabili. Che storia èquella di portarli alle Spitzbergen?

Si corre nel paesaggio minerario, pilo-ni, carrelli fermi, buchi aperti e chiusinella montagna. Al sesto chilometro co-mincia la salita, su uno sterrato di sassi ecarbone. I meno allenati si allontanano,Michele, Davide, Alessandrone. Albertoè davanti, ha recuperato dal lieve infor-tunio al tendine dell’inizio settimana eadesso sta tirando bene, ma tutti stannocorrendo. Come si direbbe negli sportseri: che prova di squadra.

Nicola accompagna Alberto, ma tor-na anche indietro per dare assistenzaagli altri. Ivan nelle retrovie ha passatoBeatrice, ora è scoppiato ma non vuolefarla passare. Davide in cima alla salitadella miniera, all’ottavo chilometro,credeva di trovare il succo di frutta allospugnaggio, invece gliel’hanno portato

l’intuizione che correre poteva far beneagli autistici, e da allora l’idea si è in-grandita. Sempre più autistici a correre,sempre più centri in tutta Italia, ora so-no nove, di cui quattro in Sicilia, anchese qui i ragazzi sono tutti romani, salvodue viareggini, tra cui Alessandro, unodei ragazzi dai quali ci si attende di più.

La corsa è partita, Alberto va in cercadel suo ritmo. In settimana ha avuto unaleggera infiammazione al tendine cheha messo a rischio la sua partecipazio-ne. Ha riposato, ora corre, perché aldilàdel suo eterno tacere fa capire che ci tie-ne, è il suo orgoglio. Alberto ormai è amodo suo una star, è il testimonial diquello che può accadere nel tempo aquesti ragazzi. E ha alle spalle maratonevere, come New York e Roma. Ha più diquarant’anni, agonistica-mente nella parabola di-scendente. Ma il suo fisicoera da atleta vero, se avesseavuto un’altra storia.

La Maratona delle Spitz-bergen è una gara infame,freddo, salite, vento chebatte sui corridori, un per-corso immerso nelle rovi-ne e nelle tracce della cul-tura delle miniere. Si correin un anello, d’altronde laminuscola valle che ospitaLongyearbyen, non ha piùdi 40 chilometri di strade,meno di quante ne servo-no per una maratona.L’hanno inventata per atti-rare del turismo nella sta-gione di stanca, finito il periodo delle gi-te in motoslitta e in attesa dell’estate checompleterà il disgelo e farà nascere an-che qualche fiore. Di alberi non se neparla, non ce n’è uno in tutta l’isola.

La salita sgrana il gruppo, Alberto su-bito avanti, dietro Quirino, Leonardo,Alessandro, Matteo, quelli già un po’cresciuti nella disciplina agonistica ementale. Solo un paio di anni fa, al suoprimo tentativo su pista, Matteo nonriuscì a chiudere i 400 metri: dopo la se-conda curva puntò diritto sulle tribune.Ora va avanti, con la sua economica cor-sa a piccoli passi.

Con la prima discesa si passa davantial piccolo cimitero, sul declivio del mon-te, nel permafrost che si sta ammollan-do per il caldo. Questo è uno dei primipunti dove batte il sole quando torna do-po l’inverno, davanti c’è la miniera, vitae sofferenza per questi operai. Sottoqueste croci vennero a cercare il virusdell’influenza dell’epidemia del ‘18, laspagnola. Esumarono i corpi, preleva-rono dei tessuti, ma del virus trovaronosolo qualche traccia.

I ragazzi caracollano per la fatica, nes-sun piano di gara è possibile. Tra i nuovic’è Davide, che spreca tutte le sue ener-

L’ABBRACCIODue dei ragazzi italianiche hanno partecipatoalla Maratonadelle Spitzbergen. In alto,altre immagini della corsa

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La grande tenutaapparteneva ai contiTreymane. Nel 1914i 42 domesticie giardinieri furonoarruolati, partironoper la guerrae non tornaronomai indietroOggi, dice la gentedel posto, lassùsi sentono “stranecose: voci, spettri, maforse è solo il vento”

i luoghiArcheologia verde

Quindici anni fa un musicista rock in cerca di un buenretiro scoprì per caso le rovine, coperte da edera e rovi,di Heligan. Oggi quello che era stato uno splendido parcotropicale vittoriano è tornato all’antico splendoree in un anno è diventato la più affollata meta turisticadi questa straordinaria terra affacciata sulla Manica

I giardini perduti della Cornovagliarugginiti e un cartello appeso al muro.Soffiarono sulla polvere. C’era scritto,in inglese: «Non calpestate piante e fio-ri», e una data, «1914». Piante? Fiori?Scavarono ancora. Scoprirono di esse-re finiti sopra quello che resta di una ser-ra. La sera, a Mevagissey, il villaggio piùvicino, un porticciolo di pescatori nellacui locanda alloggiavano i tre forestieri,un vecchio si fece offrire una birra e rac-contò che sì, molti anni prima avevasentito parlare da suo padre dell’esi-stenza di un favoloso giardino, su quel-la collina, ma nessuno sapeva se fosse laverità o una leggenda. «Succedono stra-ne cose, lassù», aggiunse misteriosa-mente il vecchio. «Che genere di cose?»,gli domandarono. «Voci. Spettri. Maforse è soltanto il vento».

Nel 1970 morì l’ultimo erede

Non era soltanto il vento. Come in unacaccia al forziere di un galeone affonda-to, l’avventuroso olandese avrebbepresto capito di avere infilato il naso inun tesoro scomparso: solo che in questocaso il forziere non era pieno di doblonie pietre preziose, ma di rododendri e ca-melie, rose e tulipani, ciclamini e ane-moni, narcisi e primule e crisantemi emagnolie e non-ti-scordar-di-me emolto altro ancora. Era il 1990. Occor-sero quasi quindici anni per far affiora-re il tesoro, e scoprire la storia che c’eradietro, comprese le voci degli spettri.Dal 1560 la tenuta apparteneva a unaricca famiglia aristocratica inglese, iconti di Treymane, che la battezzaronoHeligan e vi coltivarono amorevolmen-te uno splendido giardino tropicale vit-toriano. C’erano fiori, piante, alberiesotici; e terrazze di orti rigogliosi che

sfamavano la famiglia, i suoi ospiti, ven-ti domestici, ventidue giardinieri.

Per quattro secoli, la proprietà vissetranquilla e appartata attorno al giardi-no sulla Manica. Poi, nel 1914, tutti i di-pendenti furono arruolati, partironoper il fronte della prima guerra mondia-le, in Francia, e non tornarono mai in-dietro. Dapprima i Treymane offrironola loro residenza all’esercito britannico,come ospedale per gli ufficiali in conva-lescenza; successivamente si trasferi-rono altrove. Col tempo, il giardino e lacasa caddero in uno stato di totale dila-pidazione. Nel 1970 morì l’ultimo deidiscendenti maschi, gli eredi vendette-ro la vecchia villa patrizia, trasformatain una ventina di appartamenti, e delgiardino si occuparono rovi e sterpa-glia, inghiottendone progressivamenteogni traccia. Come una Bella Addor-mentata, giaceva sotto un velo verde diincuria e trascuratezza: finché un olan-dese pazzo non lo ha scoperto, resti-tuendogli la vita.

Trecentomila visitatori

Nel suo primo anno di attività, col pit-toresco nomignolo di “i Giardini Per-duti”, Heligan ha accolto oltre trecen-tomila visitatori, diventando la princi-pale meta turistica della Cornovaglia eun luogo di pellegrinaggio per gli ap-passionati dell’hobby preferito degliinglesi. Sbocciato tra le fila dell’aristo-crazia nel diciassettesimo secolo, ilgiardinaggio è diventato un fenomenodi massa all’inizio del ventesimo: neglianni Settanta i quattro quinti delle abi-tazioni avevano un giardino e trentamilioni di persone vi si dedicavano ala-cremente, sollecitati da inserti sui gior-

nali, riviste specializzate, programmiradiofonici e televisivi. Per il gradualetrasferimento dalle campagne allecittà, oggi il numero è sceso a quindicimilioni, che comunque non sono po-chi. Il giardinaggio è una fede, per gli in-glesi. L’esercito di floricoltori dilettan-ti entra nei grandi giardini nazionalicon adorazione e rispetto, come inchiesa. Il principe Carlo ha regalato aCamilla come dono di nozze un giardi-no da lui segretamente coltivato con lesue mani: «Perché un giardino», haspiegato, «è per sempre». E se non è persempre, se scompare o decade, ognitanto qualcuno lo resuscita eroica-mente, come fecero a Sissinghurst, nelSurrey, lo storico Harold Nicholson e lascrittrice Vita Sackville-West, sua mo-glie: «Su questi fiori», annotò lei, «mi so-no spezzata le unghie, la schiena e tal-volta il cuore».

Ma oltre che all’amore degli inglesiper il giardinaggio, il fascino di Heliganè dovuto alla Cornovaglia. Terra di con-trabbandieri, pirati, pescatori e mina-tori. Terra di re Artù, di Ginevra, dei ca-valieri della tavola rotonda, del magoMerlino e di Excalibur, la spada nellaroccia. Terra di scrittori che sono anda-ti a stabilircisi, da John Le Carrè a Daph-ne du Maurier, l’autrice di Rebecca, chevisse qui vicino e qui ambientò i suoiromanzi più famosi. Infine terra pove-ra, nonostante il turismo e un po’ di pe-sca, terra remota, non facile da rag-giungere.

Parte del bello di andare in Cornova-glia, in effetti, sta nell’arrivarci. Stupi-damente, studiando la carta geografi-ca, avevo scelto di scendere da Londrafino alla costa, girare a destra e prose-

PENTEWAN

Èuno di quei momenti che ca-pitano a tutti nella vita, manon tutti lo colgono. Il desi-derio improvviso di fuggire

dalla città, ritirarsi in un luogo solitarioe selvaggio, vivere a contatto con la na-tura: Tim Smith, olandese di madre in-glese, compositore di musica rock epromotore di concerti, aveva qua-rant’anni, un discreto gruzzolo di dena-ro e tanta voglia di cambiare aria. Qual-cuno gli parlò di un terreno da affittarein Cornovaglia: una collina affacciata almare, l’ideale per la fattoria dei suoi so-gni. Un giorno d’estate, andò a visitarlo.«Vuole coltivare la terra o allevare be-stiame?», chiese il fittavolo che lo ac-compagnava. «Non ho deciso, ma pen-savo a un allevamento di maiali», rispo-se. «Andrà bene comunque, ma le toc-cherà ripulire un po’, c’è stato un brut-to uragano, l’anno scorso».

I segni erano ancora evidenti: alberiabbattuti, tetti di baracche sfondate.Eppure non poteva essere stato l’uraga-no, pensò l’olandese, a erigere quellagiungla di edera, rovi e sterpaglia sul-l’intera proprietà. Un groviglio inestri-cabile. Il mattino seguente tornò sul po-sto, senza il fittavolo, con due amici. Co-minciarono ad aprirsi un varco a colpidi vanga, ascia, piccone. Tre ore più tar-di, sudato fradicio, Tim scivolò su unatavola di legno marcio. Il legno si ruppe.«Ehi, ma c’è qualcosa, qui sotto», gridò,incuriosito. Scavando, allargarono lafalla. Sembrava un ripostiglio. Al chia-rore di una pila, notarono attrezzi ar-

ENRICO FRANCESCHINI

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Rododendri gigantidell’Himalaya,un viale di alberid’aspetto preistorico,bamboo, felci, palme,piante da fruttaE poi fiori arancio,gialli, rossi, pesca

guire sempre dritto, senza rendermiconto che sarà l’itinerario più logico maè anche il più lungo ed impervio. “Sem-pre” dritto non è un eufemismo: sem-bra di non arrivare mai. Come punto diriferimento, Land’s end, il promonto-rio che segna il punto più occidentaledell’Inghilterra, va preso alla lettera:avanzando lentamente su strade stata-li e provinciali, hai l’impressione che la“fine della terra” sia veramente in fon-do al mondo.

Solo bed & breakfastIn compenso, hai tutto il tempo di am-mirare il panorama. Un paesaggioaspro, di una bellezza struggente, ma-linconica. Prati verde smeraldo a stra-piombo su un mare color acciaio. Sco-gliere, distese sabbiose, deliziose inse-nature, villaggi di pescatori con le bar-che in secca per la bassa marea, ruscel-li, case di pietra grezza col tetto di paglia,

muretti di cinta a delimitare proprietàterriere su cui brucano mucche, pecoree cavalli, fari e mulini in lontananza. An-cora più stupidamente, avendo sba-gliato i tempi e non prenotato una stan-za, giungo a Mevagissey a tarda notte:non ci sono alberghi, da queste parti,soltanto bed and breakfast, a un’ora si-mile tutti sprangati, sicché non ho altraalternativa che dormire in macchina. Almattino, mi consolo facendo una lautacolazione con un pasticcio alla corno-vagliese, il tradizionale involtino di car-ne, patate, cipolla e rapa, in una locan-da davanti al molo: la stessa in cui ap-prodarono l’olandese Tim e i suoi ami-ci, nella prima visita.

Mi domando cosa devono avere pro-vato, nella faticosa marcia per scoper-chiare il giardino perduto: quindici an-ni di lavoro, quindici lunghi anni per ta-gliare erbacce, ripulire, seminare, ri-creare, crescere. Descrivendo l’avven-

tura, nella sua autobiografia, Smith èanimato da un fervore religioso: «L’e-splorazione di Heligan è diventata fon-te d’ispirazione per tutti noi», scrive. Eancora: «È stata una redenzione collet-tiva», «un miracolo», «abbiamo salvatoil giardino dopo che il giardino ha salva-to noi». Anche lui, come il vecchio delpub, parla di strani fenomeni: sibili, vo-ci, apparizioni. Gli spettri dei giardinie-ri dei Treymane, caduti al fronte nel1914? Se di spiriti si tratta, a giudicaredal risultato finale sono sicuramentebenigni e, probabilmente, un po’ di si-nistra.

Il rapporto con la terraTutto è fatto a mano, tutto è organico,biologico, riciclato, a Heligan. Ci sonoavvisi di non sporcare, non dare ciboagli uccellini, non disturbare, non fu-mare, non parlare al telefonino. Le cen-to persone che lavorano a tempo pienoal progetto hanno volti, comporta-menti e linguaggio da comune agrico-la anni Sessanta. «Dopo settantacin-que anni di incuria, i Giardini Perdutisono stati riscoperti da una piccolabanda di entusiasti», avverte un mani-festo all’ingresso. «L’obiettivo è esplo-rare il rapporto con la terra, fra la terra,il cibo di cui ci nutriamo e la campagna.Siamo qui per guardare contempora-neamente indietro e avanti, per combi-nare il meglio del vecchio e del nuovo.Non siamo qui per arricchire un pa-drone, ma per dare una giusta ricom-pensa a chi lavora al giardino e frutti al-la comunità che ci circonda». Hannogiacche con le toppe, pantaloni di fu-stagno, tele cerate, giacconi Barbour,scarponcini Timberland con la suola

carrarmato: l’abbigliamento tipicodell’italiano che fa due passi in centroil sabato pomeriggio, qui indossato perl’ambiente per cui fu originariamenteconcepito.

Non disponendo di un letto in cuipoltrire, sono il primo visitatore dellagiornata. Una lieve pioggerella, cessa-ta da poco, ha dato lucentezza allepiante, e anche chi non ha l’abitudinedi commuoversi per la floricultura nonpuò rimanere insensibile allo spetta-colo. Rododendri giganti dell’Hima-laya, un giardino italiano ispirato allerovine di Pompei, una caligine di ver-bena porpora, una valle di alberi esoti-ci d’aspetto preistorico. Una cascata dipetali rosa, abbattuti dalla pioggia, fada tappeto a una gigantesca quercia.Un pino di Monterey alto venticinquemetri, un cedro rosso, un acero dellaCalifornia. Bamboo, felci, palme, liane,una lussureggiante giungla subtropi-cale. Stagni, fontane, pozzetti. Fioriarancio, gialli, rossi, pesca. E poi gli or-ti botanici, gli alberi da frutta, gallineruspanti, bianche colombe, leprotti,scoiattoli, maialini pezzati, pony, vac-che. Nell’aria, un piacevole odore di le-tame, spezzato qui e là dai dolci effluvidei fiori. Senonché, quando faccio unasosta nell’ex-casa del fattore, ora uncaffè per i visitatori, vedo sbucare nelparcheggio mezza dozzina di torpedo-ni di turisti, che rapidamente invadonoogni sentiero della proprietà. Sonoeducati, taciturni e rispettano le rego-le, ossia inglesi: ma sono tanti, e dopoun po’ l’incanto non è più lo stesso. L’u-nico problema, per i Giardini Perdutidella Cornovaglia, è che li ha riscopertiun po’ troppa gente.

LE MAGICHE FIORITURE DI HELIGANUna panoramica dei Giardini perdutie alcuni dei fiori che vi crescono(le immagini sono tratte dal libro“Heligan, a portrait of the lost gardens”)Nella foto in basso, un tratto della costadella Cornovaglia: acqua blu, calettesabbiose e prati fioriti fino al mare

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A Città del Messico è stata ritrovatanello scantinato di un piccolomuseo la piccozza da ghiaccio con cui l’agente segreto RamonMercader il 20 agosto 1940 colpì a morte Leon Trotzkij.

Parte da qui un’indagine a ritroso nel tempo sulle pistole, i fucili e i coltelliche in mano a terroristi e fanatici hanno centrato al cuore il Secolo breve.Cambiando, spesso, il corso degli eventi

38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 19 GIUGNO 2005

IL FANATICO E L’ICONA POPL’8 dicembre del 1980 Mark DavidChapman uccide John Lennoncon cinque colpi di pistola alla schienadavanti al Dakota Building di New York

di Mercader, indistruttibile e appena ri-trovata, e la plastica mai più trovabile,smaterializzata, di Mohammed Atta adirci l’infinita declinazione possibile,non tanto del terrorismo, ma degli stru-menti indispensabili al suo compiersi.Per una volta trascurando le sole armiche contino davvero: il cuore, la mentee l’infinita sequenza di nodi scorsoi chesanno generare, politici e religiosi, ter-ritoriali e razziali.

Terrorismo è parola di derivazionefrancese, viene da quel biennio di ghi-gliottina insonne che fece pallido Robe-spierre e rossa la parigina Place du Tro-ne Renverse.

Ma naturalmente ciò che ne nutre lasostanza — il segreto, i complici, il pia-no, il sangue — sta proprio alla radicedella nostra storia di Occidente latino,lungo le incisioni imprecise delle 23 col-tellate, una sola mortale, inflitte al cor-po profumato di Cesare, l’imperatore.Corre lungo i secoli, assalta principi, pa-pi, regnanti, si arma di pugnale e veleno,di radicalismo islamico, con la Setta de-gli Assassini, di irredentismo. Adotta,nella Russia zarista, la polvere da sparousata dai primi rivoluzionari delle so-cietà operaie e dai giovani studenti ni-chilisti. Imbraccia bombe rudimentali,come quella fabbricata dall’italiano Fe-lice Orsini, mazziniano, che vuole ucci-dere Napoleone III, a Parigi, anno 1858,per vendicare il bagno di sangue dellaRepubblica romana. Oppure una gros-sa pistola Colt, e un coltello di riserva,come l’attore americano John WilkesBooth, che la sera del 14 aprile 1865, aiu-tato da molto alcol e un po’ di fortuna,arriva indisturbato alle spalle del presi-dente Abraham Lincoln, seduto nel pal-co del Ford Theatre di Washington, persparargli un colpo alla nuca. E poi la-sciarsi catturare, pronunciando una so-

la frase: «Il Sud è stato vendicato». O ancora la stupefacente ferocia con

cui il conte Felix Jusupov e i suoi con-giurati uccisero, nella notte tra il 16 il 17dicembre 1916, a San Pietroburgo, il ro-vente Rasputin, monaco siberiano, ma-go, alchimista, anima nera degli zar Ro-manov, amante della zarina Alessan-dra. Lo uccisero tre volte, quella notte,prima con il cianuro nel vino, poi conquattro colpi di pistola e infine, dopouna lotta furibonda, lui ferito ma anco-ra urlante mentre cercava di strangola-re con le mani uno dei congiurati, le-gandolo dentro a un sacco gettato nelleacque ghiacciate della Neva. E il suocorpo, riaffiorato due giorni più tardi,sotto le arcate di un ponte, analizzatodai medici legali, portava i segni inequi-vocabili dell’annegamento, la solamorte che vinse Rasputin. Tutto acca-duto, come una premonizione di immi-nente furore, davanti agli occhi dell’ul-timo zar Nicola II, otto settimane primache le onde della Rivoluzione allagasse-ro l’intera madre Russia.

Onde che, milioni di morti più tardi,trascinò fin sotto le ombre tropicali diCoyoacan, la piccozza destinata aTrotzkij, teorico della rivoluzione per-manente, fondatore dell’Armata rossa,esiliato da Stalin nel 1928, prima in Ka-zakistan, poi in Turchia, Francia, Nor-vegia. Poi condannato a morte, anno1936, e perciò in fuga nelle lontananzemessicane.

Trotzkij abita con la moglie in una vil-la fortificata ai bordi di Mexico City. Sfug-ge al primo assalto, nel maggio del 1940,organizzato dal pittore Alfaro Siqueiros,quello dei murales: 20 uomini con mi-tragliatrici, bombe incendiarie e mitrache fanno irruzione, travestiti da poli-ziotti. Scaricano 300 colpi. Feriscono unpaio di guardie armate, non riescono a

Ritrovata. Come una reli-quia del Novecento, seco-lo degli assassini. Diconosia la piccozza da ghiacciocon cui l’agente segretoRamon Mercader, sotto al

cielo bollente di Città del Messico, alfondo di un giorno qualunque, martedì20 agosto 1940, cancellò la vita di LeonTrotzkij, rivoluzionario in fuga da tuttoil sangue sovietico, e dalla sentenza dimorte, «ovunque, con qualunque mez-zo» che Stalin ordinò, nel gelo d’acciaiodi Mosca, lanciando i suoi sicari nelmondo già imprigionato dalla guerra edai massacri che divoravano l’Europaflagellata dai carri e dai lampi delle ar-mate naziste.

Dicono che la piccozza da ghiacciostesse nello scantinato di un piccolomuseo di Città del Messico. Ci sono an-cora le ombre del sangue sull’artigliod’acciaio e sul manico corto di legno. Ilaboratori della polizia messicana pro-veranno a estrarre il dna, e a chiudereuna volta per tutte gli intrecci, i depi-staggi e i molti segreti di uno degli omi-cidi politici più efferati e clamorosi delNovecento, secolo di terrore e terrori-smo, battezzato fin dal suo esordio, tragli alberi della Villa Reale di Monza, 20luglio 1900, dal sangue di Umberto I red’Italia e dal piombo di Gaetano Bresci,l’anarchico.

Secolo altrimenti detto Breve, secon-do lo storico inglese Eric Hobsbawn, chegli attribuisce un inizio d’altro terroreregale, sfasato nel tempo, 28 giugno1914, ma altrettanto preciso nel luogo, ilponte che scavalca il fiume Appel, nelcentro di Sarajevo, nel punto in cui i treproiettili calibro 22 sparati dallo studen-te serbo bosniaco Gavrilo Princip inter-cettano la carotide dell’arciduca Fran-cesco Ferdinando d’Austria e l’inguinedell’arciduchessa Sofia. Recidendo, inquel luogo e in quell’istante, tre altre co-se contemporaneamente: l’equilibrioottocentesco degli imperi, la pace d’Eu-ropa, e la piuma bianca che orna il cap-pello dell’arciduca.

O anche secolo di più lunga durata,secondo altri storici, che torna a comin-ciare col regicidio italiano per chiuderela sua cavalcata di intermittenti terrori,estenuanti complotti, guerre globali eguerre sotterranee, nel rogo e nel crollodelle Torri Gemelle, 11 settembre 2001.Dunque con venti mesi di ritardo. E conl’esordio planetario del kamikaze, laguerra asimmetrica, il suo terrorismoesponenziale, la paura che irrompedentro ai confini elettronici d’Americae dentro allo spazio mentale dell’interoOccidente, violati entrambi con armiimpensabili e mai sperimentate, quat-tro Boeing carichi di cherosene e unamanciata di taglierini di plastica.

Che siano dunque la picca d’acciaio

armistoriaLe

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I colpi che hanno ucciso il Novecento

IL RIVOLUZIONARIOIl 20 agosto del 1940, Ramon Mercadercolpisce a morte Leon Trotzkijcon una piccozza per il ghiaccio; il fondatoredell’Armata Rossa morirà il giorno dopo

PINO CORRIAS L’uomo pagato daStalinper eliminareil nemico, quandoentra nello studiodel rivoluzionarioha una calibro 45e un pugnale, maper l’aggressioneusa l’insolito arnese

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 19 GIUGNO 2005

‘‘Eric J. Hobsbawm

Nessuno può scrivere la storia del ventesimosecolo allo stesso modo in cui scriverebbe

la storia di qualunque altra epoca, se non altroperché non si può raccontare l'età della propria vitaallo stesso modo in cui si può (e si deve) scriverela storia di periodi conosciuti solo dall'esterno...

da IL SECOLO BREVERizzoli editore

permeabile. Nell’impermeabile ha na-scosto una pistola calibro 45, un pugna-le e la piccozza. Trotzkij si infila gli oc-chiali per leggere e si siede alla scriva-nia. Mercader gli sta in piedi alle spalle.L’articolo è sciatto. La luce filtra dallesbarre della finestra. La punta della pic-cozza imbracciata a due mani gli sfon-da l’occipite. Il sangue dilaga. Trotzkijcade a terra e grida. Un urlo lunghissi-mo. «Un urlo feroce e disumano» diràMercader, bloccato dalle guardie, arre-stato, condannato a 20 anni. «Un urloche non ho mai smesso di sentire» come

scriverà nei suoiultimi anni di vita,a Mosca e poi a Cu-ba, ucciso dal can-cro nel 1978.

E non è solo ildettaglio della da-ta, anno 1978, aspingere fino a noi,nell’Italia di piom-bo e di piccoli fuo-chi, la risacca del-l’omicidio politi-co, Aldo Moro etutto il cimitero aseguire, incon-gruo per la sua an-tichità sovietica,eppure reale, peri-metrato dalla stel-la a cinque puntedelle Brigate rosse.Operai di unaqualche lettura eex studenti fuoricorso che sognanodi disarticolare ilneocapitalismo e iflussi desiderantidi molte borghesiepiccole e piccolis-sime. Militanticlandestini come ilsilenzioso Mario

Moretti che tengono in gran conto leserrature del leninismo e gli ingranaggidella Skorpion, di fabbricazione ceco-slovacca, modello Vz61, calibro 7,65,battezzata dai gregari «patrimonio del-la rivoluzione». E nel giorno fatale, 9maggio 1978, nei sotterranei di viaMontalcini, è lo stesso Moretti a impu-gnarla, poi Prospero Gallinari e infineGermano Maccari, per sparare due vol-te contro Aldo Moro disteso nel baga-

gliaio della Renault 5. Disteso e già can-cellato da una coperta perché lui nonvedesse ciò che anche loro non voleva-no vedere.

Per tutti i sicari, attentatori, assassini,nessuna lama, o fuoco, o veleno oproiettile è fatale quanto l’istante in cuisi compie il destino proprio e della vitti-ma. Gaetano Bresci si impicca, nella suacella del penitenziario di Ventotene, unanno dopo essere stato condannato al-l’ergastolo. Nathuran Godse, che la se-ra del 30 gennaio 1948, a Nuova Delhi,spara due colpi al torace di Gandhi, siinchina tre volte davanti alla grandeanima dell’indipendenza indiana («Ioammiravo quell’uomo», dirà) si lasciacatturare, condannare, uccidere.

Lee Harvey Oswald, che a Dallas, il 22novembre 1963, sparò almeno un col-po, con il suo fucile Mannlicher-Carca-no, calibro 6.5, sui capelli spettinati diJohn Fitzgerald Kennedy e sul sognoamericano, ha una faccia stupefatta,ma immobile davanti alla 38 specialche impugna Jack Rubin mentre fa fuo-co due volte e gli grida: «Muori, topo difogna».

Tutti per sempre condannati a rivi-vere quell’istante. Come il palestineseShiran Bishara Shiran che nelle cucinedell’Ambassador Hotel di Los Angeleschiude, con tre colpi calibro 22, l’asce-sa presidenziale di Bob Kennedy, l’in-tegerrimo, e un anno dopo segue comeun estraneo le udienze del processoche lo condannerà all’ergastolo. O ilgiovane bianco James Earl Ray, cheodiava i neri, odiava Martin LutherKing, e per ucciderlo si piazza in un pa-lazzo di fronte al Lorraine Motel diMemphis. Lo inquadra nel telescopiodel suo fucile Remington intorno alle18 del 3 aprile 1968 e spara un solo col-po che alla vittima recide la cravatta e ilcollo. O come l’ex tipografo Mark Da-vid Chapman, lui non un terrorista,

semmai un piccolo Erostrato, che la se-ra dell’8 dicembre 1980 cammina perdue ore davanti al Dakota Building, aNew York, prima di intercettare concinque proiettili alla schiena John Len-non, la sua ossessione, il rogo del suofallimento esistenziale. Per anni, den-tro al cemento sigillato di Attica, cellasingola, il vasto mondo busserà al suocospetto, con centinaia di lettere algiorno cariche di disprezzo, di puroodio. E saranno la pena perpetua perquel suo nulla che aveva nominato insua difesa al processo: «Io non ero nes-suno. Volevo che la gente si accorgessedi me».

È un nulla infinitamente declinabilequello che tiene sospeso lo sguardo diAli Agca, chinato verso Giovanni Paolo,nel parlatorio di Rebibbia. Lui fatto diaria e di mistero, il papa di solidità mi-stica così forte da sopportare il peso delperdono. Ma entrambi, nelle immagi-ni di allora, indissolubilmente legati daquelle quattro traiettorie di Browningcalibro 9 che avrebbero declinato, den-tro a un’altra Storia, il destino di tuttinoi, quella mattina romana del 13 mag-gio 1981.

In fondo l’intera storia del terrori-smo, delle sue ossessioni, dei suoi omi-cidi esemplari si addensa in quella mi-cidiale semplificazione che riduce gliuomini a un obiettivo. E l’obiettivo a uninterruttore da spegnere. Senza maiimmaginare che il buio e il nulla nonporteranno luce, ma altra vertigine, al-tri interruttori, altre ossessioni, indele-bili quanto le macchie scure su unavecchia piccozza da ghiaccio

varcare la soglia della villa. Devono fug-gire. Non sanno che il capo della QuartaInternazionale è vivo e neppure ferito, siè infilato sotto al letto della sua camera,scheggiata dalle esplosioni.

Siqueiros, aiutato dal poeta PabloNeruda, scappa in Cile. Dalle sue stan-ze moscovite Stalin furente lancia il se-condo assalto. Se hanno fallito in tanti,proverà uno solo. Viene ingaggiato Ra-mon Mercader, 27 anni, che impie-gherà due mesi, vestendo i panni delgiovane rivoluzionario devoto, a incri-nare la diffidenza di Trotzkij. Nel tardopomeriggio del 20 agosto entra per laquinta volta nel suo studio. Vuole un pa-rere su un articolo che ha appena scrit-to. Indossa, nonostante il caldo, un im-

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IL DELITTO MOROA sparare contro

il presidente della Dc,Aldo Moro, il 9 maggio

del 1978una mitraglietta Skorpion

modello Vz61calibro 7,65 di fabbricazione

cecoslovaccaAd impugnarla Moretti,

Gallinari e Maccari

TRE PROIETTILI PER BOBIl palestinese ShiranBishara Shiran uccideil senatore Kennedycon tre colpi calibro22 nelle cucinedell’AmbassadorHotel di Los Angelesil 5 giugno del 1968

L’UOMO DELLA PACEA Nuova Delhi, il 30 gennaio del 1948,Nathuran Godse spara due colpicon una Beretta automatica 9mmal torace di Gandhi, poi si inchinatre volte davanti all’uomo della pace

IL REGICIDAIl 20 luglio del 1900tra gli alberi dellaVilla reale di Monza,l’anarchicoGaetano Bresci colpiscecon una rivoltellaa tamburo Umberto I,re d’Italia, aprendocosì idealmenteil “secolo del terrore”

L’ASSASSINIO DI DALLASQui sopra il fucileMannlicher-Carcano calibro6,5 con cui Lee HarveyOswald sparò almenoun colpo il 22 novembredel 1963 a DallasLa sequenzafotografica in alto a sinistramostra il presidente Kennedycolpito a morte sull’autoscoperta, al suo fiancola moglie Jacquelineche si allunga sul corpodel marito per prestarglii primi, inutili, soccorsiOswald fu poi uccisoda Jack Rubincon una 38 special

LA FUCILATA

SU LUTHER KINGIl 3 aprile del 1968il giovane biancoJames Earl Rayuccide il leaderdi colore MartinLuther Kingcon un fucileRemington

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la letturaStorie di sport

In diciannove ore da Milano ai leggendari campiin erba del tempio della racchetta aggrappatoal volante di un’utilitaria anni Cinquanta. Per essereeliminato al primo turno. Alla vigiliadel torneo più antico, snob e famoso del mondo,il ricordo divertito e affettuoso di un protagonista

LONDRA

«È il Vaticano del ten-nis». Sbarcato aWimbledon perla prima volta,

alla fine degli Anni Sessanta, Gior-gio Bassani volgeva intorno sguar-di insieme increduli e affascinati.Appena superato il grande cancel-lo d’ingresso fuso nel bronzo, leDoherty Gates dedicate ai fratelliche vinsero nove volte il titolo,Bassani pareva infitto nel mezzodel viale, alla cui destra si ergeva lamassa del Centre Court, mentre asinistra si spalancava la prospetti-va dei campi meno nobili.

Lo presi dolcemente per il brac-cio, anche per lasciar spazio a unaRolls Royce dell’organizzazionedotata di bandierina verde viola,i colori del Club: caso volle che, suquell’auto, sedesse Marina diKent, la Presidentessa. Mi inchi-nai, e la signora parve riconoscer-mi, con un gesto benedicente.

«E quella chi è?», si stupì l’amico.«La Presidentessa, la Princi-

pessa Marina», risposi.«E ti conosce?».«Ho avuto l’onore di giocare al-

cune volte qui, quando ero vice-vice-corrispondente del Giorno.Le sono stato presentato».

Giorgio scosse la testa, e miguardò, come si guarda un amicodel quale si scopre un aspetto maiimmaginato. «Ma sì. Il MarcheseClerici», esclamò dolce e ironico.

Divertito, mi resi conto che siandava riprendendo. E lo con-dussi in una lunga visita, che l’a-vrebbe tanto affascinato da nondimenticarla mai. Quante volte,sulle gradinate del Foro Italico, aillustri visitatori quali Mario Sol-dati, Attilio Bertolucci, VittorioGassman, avrebbe ripetuto: «Sì, bello,interessante, qui al Foro. Ma noi — e miindicava — siamo stati a Wimbledon. Equesto sciagurato qui, è addirittura ar-rivato a giocarci: una cosa che gli invi-dierò sempre».

Il mio amato Maestro era stato un ot-timo tennista di Club, aveva partecipa-to nel 1936 ai Littoriali, i Campionatiuniversitari dei tempi, sinché le leggirazziali nel ‘38 lo avevano escluso e iso-lato, come racconta nel Giardino dei

Finzi Contini: un romanzo in cui la pa-rola tennis ricorre ventiquattro volte.

Giorgio aveva ragione, nel ricordareche Wimbledon era — e rimane tutt’og-gi — il sogno di ogni bambino che siiscriva a una gara nel natio borgo sel-vaggio. Quanto a me, ero giunto a Wim-bledon subito dopo i vent’anni, in unmodo che va forse raccontato, tanto di-verso dagli standard odierni che preve-dono l’iscrizione in dipendenza dellaclassifica del computer Atp e il viaggiorigorosamente aereo.

In quel lontano 1953, dopo esser statoaccettato due volte al Roland Garros,avevo inviato al Comitato degli Cham-pionship una lettera contenente unelenco dei miei risultati positivi e, tra inegativi, soltanto quelli che si riferivanoa due sconfitte nobilitanti, proprio con-

ma del Centre Court. Raggiunto il grande cancello d’in-

gresso, bloccai l’auto, scesi, mi avvici-nai alle sbarre nere e oro. Di fronte a mesi apriva l’identico scenario che avreb-be affascinato, anni dopo, Giorgio Bas-sani. La prospettiva verde appariva in-credibile per chi non avesse mai vistoun grass court. Come mi ripresi, mi resiconto che, all’infuori di me, c’era lì in-torno soltanto una persona: un tipo so-lenne, in divisa blu, che a tutta primapresi per un poliziotto.

Il Club già esisteva dal 1868 come so-cietà votata al Croquet, e la sede di Wor-ple Road a Wimbledon sarebbe stata af-fittata l’anno seguente per celebrarvi ilprimo Campionato, beninteso di Cro-quet: gioco che, per chi non lo sappia, si

svolge graziea palline e maz-ze, non certo a racchette.L’insuccesso, soprattuttoeconomico, di simile pas-satempo, condusse nel1875 all’estensione delClub al Tennis e al Bad-minton, e lì nacque l’at-tuale denominazione diAll England Lawn Tennisand Croquet Club.

Il tennis era risorto inGran Bretagna dalle cenericinquecentesche italo-franco-ispaniche tramiteanaloghi giochi con rac-chetta (Rackets, Badmin-

ton, real Tennis), tutti dispu-tati al chiuso, su fondi duri.La trovata, complementarealla creazione di palle incaucciù, fu quella di trasfe-

rirlo all’aperto, sui prati dedi-cati fin lì al croquet.

Il diciannove luglio del1877 duecento spettatori,che avevano acquistato il bi-glietto per uno scellino, eb-bero la ventura di assistere al-la finale tra Spencer Gore e Ju-lian Marshall, iniziata conun’ora di ritardo, alle quattroe mezzo, causa pioggia. Gore,nato a non più di un miglio dalluogo della tenzone ventiset-te anni avanti, vinse in soliquarantotto minuti, anche acausa dell’incapacità del suoquarantunenne avversarionel passarlo a rete. Questa erainfatti alta un metro e cin-quantadue ai paletti, e novan-tanove centimetri al centro.

Gore attese, l’anno seguente,il vincente del torneo detto All

Comers per affrontarlo in finale. Laformula, infatti, era quella post-rinasci-mentale del vincitore dell’anno prece-dente opposto al challenger, e cioè allosfidante, che rimane oggi viva solo nel-l’Americas Cup della vela.

Nel 1887 vennero alfine ammesse leSignore, insieme al doppio maschile.Nel 1905 vinceva la prima straniera,nella persona dell’americana May Sut-ton, e nel 1907 il primo forestiero, l’au-straliano Norman Brooks. Nel 1920 lamitica francese Suzanne Lenglen fu laprima a vincere i tre titoli nello stessoanno, e nel 1921 colpì l’ultima palla inun club che venne abbandonato in fa-vore di una nuova locazione in Churchroad, dove sarebbe stato completatonel 1925 il Centre Court che tuttoraospita le finali dei Championships.

Ma simili informazioni le potretetrovare su qualsiasi depliant, nel men-tre fate l’abituale coda notturna per ac-quistare uno dei tremilacinquecentobiglietti in vendita ogni mattino. Gli al-tri trentacinquemila sono già stati as-segnati sin dal mese di febbraio, graziea un sorteggio al quale partecipanoabitualmente cinque milioni di appas-sionati. Purtroppo per loro, la ratio del-la disponibilità è di uno a cento.

tro due vincitori del Torneo. Quandonon ci speravo più, giunse, a lasciarmisenza parole, una risposta che mi offri-va la partecipazione e, insieme, mi ga-rantiva un rimborso spese di cinquantasterline: insufficienti a coprire la spese.

Avevo allora deciso, insieme ad unaltro tennista italiano, che avremmoaffrontato il viaggio in auto. Ero il feli-ce proprietario di una Fiat Cinquecen-to, una Topolino, e avremmo diviso lespese. Pronta la valigia, e le mie quat-tro Dunlop Maxplay, le migliori rac-chette dei tempi, mi preparavo all’ulti-mo sonno nel mio letto, quando miraggiunse la telefonata del partner.Impegni di famiglia lo trattenevano aMilano. Dormii pochissimo, e il matti-no mi misi alla guida.

In sole diciannove ore, più una sostanotturna in uno sconosciuto villaggiofrancese, sarei sbarcato in Gran Breta-gna. E, ancor prima di scendere all’ho-tel ufficiale del torneo, il Rembrandt diSouth Kensington, diressi la Topolinoverso il borgo di Wimbledon, imboccaiChurch road, costeggiai i muri del Clubsui quali incombeva la massiccia sago-

GIANNI CLERICI

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Il tennista in Topolinoe il mito-Wimbledon

DONNE IN CAMPONella foto, la finale del singolare femminile tra Sutton e Douglass al Torneo di Wimbledon 1905

“Giorgio Bassanivolgeva intornosguardi incredulie affascinati.Disse: è il Vaticanodel tennis”

«No parking here», annunciò severo.E, alle mie domande nel modesto basicenglish scolastico, affermò spiccio cheera domenica e che la domenica non sigioca certamente al tennis. Ma di dovevenivo? Tornassi domani, se avevo ilbiglietto. Deluso sin quasi alle lacrime,rimisi in moto alla volta dell’Hotel. Lì,trovai un’anima buona che mi accom-pagnò al Queen’s Club di BaronsCourt, dove, per mezz’ora, provai adadeguare i miei gesti a quei velocissimirimbalzi traditori.

Il giorno dopo misi piede sul camponumero 16, il più periferico dell’interoclub, per perdere puntualmente controun tennista non meno modesto di me:ma avvezzo al tennis sull’erba.

Sarei ritornato soltanto l’anno se-guente come giocatore, con risultatinon meno scoraggianti, mentre l’im-piego in un novissimo quotidiano, Il

Giorno, mi avrebbe consentito di acce-dere alla tribuna stampa nel 1965 conun’incredibile peculiarità. Ero, si stentaa credere, il primo giornalista italianoaccreditato in un torneo iniziato qual-che anno avanti, nel 1877.

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Ha cominciato nel 1988 e ha inanellato finora 1.700 concerti.Suona cento volte l’anno, davanti a pochi spettatori, vendendobiglietti a prezzi modici ed esibendosi nei luoghi più insoliti:

casinò, fiere locali, riunioni aziendali. Soprattutto è tornatoa vivere “on the road”. Per scappare da qualcosao per trovare, a 64 anni, la propria strada?

42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 19 GIUGNO 2005

espressione artistica: la scena», dice. I suoi show non sono vincolati alla

rigida coreografia dei grandi concertirock moderni. Alcuni artisti importan-ti chiedono centinaia di migliaia didollari per concerti con scalette moltoprecise, che prevedono solo uno o duemomenti di improvvisazione. La pic-cola band di Dylan, invece, suona conconfidenza solo nei pochi momentistabiliti, mentre il resto del concertodeve stare attentissima, perché Dylandecide lì per lì quale parte del reperto-rio vuole eseguire.

«Può suonare qualsiasi cosa, da vec-chie canzoni a melodie della Guerra ci-vile, a quelle sue tradizionali», dice ilchitarrista G. E. Smith, che ha suonatocon Dylan all’inizio di quello che ora-mai si conosce come “il tour infinito”.«Ricordo che una volta, eravamo aHollywood, lui si è messo a suonareMoon River».

Diversamente da alcuni artisti dellasua generazione, Dylan non sembraessere motivato principalmente daldenaro. I biglietti per i suoi concerti co-stano in genere poco più di 40 dollari,

secondo Gary Dongiovanni, direttoredella rivista specializzata Pollstar chesi occupa di concerti, molto al di sottodel prezzo medio chiesto per i bigliettinormalmente. «Bob si rende conto chei soldi non sono tutto», dice Jerry Mi-chelson della Jam Productions di Chi-cago. «Qui si tratta di fare della musicae di far felici le persone, non si tratta difarsi pagare 100 dollari a biglietto». Peril tour del 2004 di Bob e Willie, aggiun-ge, il costo dei biglietti era di 45 dollari.Quest’anno costano 49,50.

Probabilmente anche l’aspetto eco-nomico conta, in una certa misura,nella strategia con la quale Dylan orga-nizza i suoi tour. I concerti nei casinòsono molto remunerativi, al SoaringEagle si pagava l’ingresso un insolitoprezzo massimo di 150 dollari, cifra in-dicativa di un cachet alto per l’artista.Dylan non morirà mai di fame, ma nonha concluso gli anni Sessanta e Settan-ta con quello che si potrebbe chiamare«il denaro di McCartney». HowardSounes, nella sua biografia di Dylan,Down the Highway, scrive che egli haavuto quattro generazioni di Zimmer-

Presenta le sue canzoni piùconosciute in versioni quasiirriconoscibili, dà menoimportanza al repertoriodegli anni Sessanta rispettoai brani recenti e soprattuttonon parla mai con il pubblico

BILL WYMAN

LANSING (Michigan)

Il teatro, un cubo sfarzoso set-tanta miglia a nord di Lansing,nel Michigan, è vuoto per un ter-zo. I fan sono seduti, sei da ogni

lato, intorno a lunghi tavoli perpendi-colari al palcoscenico. Pochi metri piùin là, ci si ritrova tra le slot machine e illoro suono metallico, tra i lampi deiflash e le carte smazzate e calate. Sulpalcoscenico, il cantante dall’aspettofragile suona ricurvo sulla tastiera unamelodia che il pubblico paziente sten-ta a riconoscere. L’artista indossa co-me al solito un elegante vestito di ga-bardine scuro, non parla quasi aglispettatori, anche se ha abbandonato latastiera un paio di volte per suonare unassolo di armonica al centro del palco-scenico. Siamo al Soaring Eagle Casinoand Resort, e questo è uno strano con-certo rock ‘n’roll. Eppure, è proprioquesto il tipo di spettacolo che Bob Dy-lan tiene sempre più frequentemente.

I concerti di Dylan, che ha sessanta-quattro anni, si svolgono spesso nellegrandi città (in aprile ha fatto cinqueserate a Manhattan), e questo è ovvio.Ma lui sempre di più sceglie posti stra-ni: fiere regionali, riunioni aziendali,mercati di strada nelle città e casinò(da quelli gestiti dagli indiani, come ilTurning Stone di Verona, nello stato diNew York, o il Roaring Eagle, a quellipiù tradizionali di Las Vegas e di Reno,nel Nevada). Ora, con Willie Nelsoncome spalla, è a metà del suo secondotour estivo, con tappe che non toccanoi classici circuiti ma gli stadi delle legheminori del baseball, come l’OsceolaStadium a Kissimee, in Florida.

Forse Dylan considera questa la fasefinale della sua lunga e iconoclasta vi-ta da star, e questo potrebbe essere ilmotivo per cui ha scelto un tour moltolungo e simbolico: iniziato nel 1988,conta 1.700 concerti. Allora, in crisi dalpunto di vista artistico, aveva deciso didefibrillare la sua carriera e di metter-si nuovamente on the road. Accompa-gnato da una piccola band, volle farsiriscoprire dai suoi fan dimostrandograndi energie e impegno nel rivisita-re il suo ineguagliabile repertorio. Dy-lan non dà segno di rallentare, anchese recentemente ha sostituito la chi-tarra che ha suonato per 45 anni conuna tastiera, suscitando commenti especulazioni su cosa possa aver moti-vato questo cambiamento (dal suo re-sponsabile stampa, presso la Colum-bia Records, si è appreso che per que-sto tour la sua è stata soltanto «unascelta musicale»).

Dylan ha trasformato questi spetta-coli in uno dei tour più bizzarri dellastoria del rock. Parla raramente al pub-blico, e quando lo fa, i suoi commentisono quasi degli aforismi: «Avevo ungrande letto di ottone, ma l’ho vendu-to». Suona sì le sue canzoni più cono-sciute, ma lo fa in versioni molto diver-se e quasi irriconoscibili, come se vo-lesse attenuare la loro qualità origina-le. Dà maggiore importanza alle can-zoni composte recentemente, più cheal suo repertorio degli anni Sessanta,ma anche queste sono rese in versionimolto stilizzate, quasi delle cantilene.Cerca di suonare nel maggior numerodi posti possibile: le serate si susseguo-no a volte in diversi teatri e club di unastessa città. In altre parole, Dylan sem-bra essersi caricato addosso un impe-gno senza precedenti per far condivi-dere la sua arte, ma soltanto alle suecondizioni.

Cento concerti l’anno non sonoqualcosa di unico nel mondo del rock;alcuni artisti ben conosciuti, comeNelson e B. B. King, tengono più con-certi di Dylan. Ma nessun cantantedella sua statura ha mai mostrato unimpegno come il suo nel restare sulpalcoscenico per decenni. BruceSpringsteen, i Rolling Stones o gli U2tendono a fare un tour ogni due o treanni. Ma si tratta di tour che fanno par-te di un pacchetto di marketing, che in-clude il nuovo album, una complessastrategia pubblicitaria, nonché pesan-ti camion che portano le loro massicceattrezzature di scena. Di solito, tuttociò diventa un album dal vivo o unospecial per la tv via cavo, che più tardiesce in dvd.

Dylan non fa niente di tutto questo.I suoi concerti non hanno un temacentrale, non sono molto pubblicizza-ti e non prevedono i camion: lui sem-plicemente tiene i concerti. Lo scritto-re Paul Williams che ha fondato nel1966 Crawdaddy, probabilmente laprima rivista di rock, sostiene che ne-gli ultimi decenni, Dylan si è lenta-mente allontanato dalla registrazionein studio. «È questa la sua forma di

BobDylan

Tour infinitoper sfuggirei suoi demoni

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 19 GIUGNO 2005

man e di Dylan da mantenere nei varimomenti della sua vita, oltre a due mo-gli e, pare, a una strana amante. Se Dy-lan fa cento concerti in un anno da-vanti a quattromila fan a un prezzo me-dio di 40 dollari a biglietto, può porta-re a casa un guadagno netto di 5 milio-ni, cui si aggiunge il milione circa rica-vato dalla vendita annua dei suoialbum.

Eppure, il denaro non spiega fino infondo questo suo instancabile esseresempre in tournée, e certamente nonspiega il rifiuto di Dylan di dare al pub-blico ciò che il pubblico vuole sentire,né il suo approccio casuale alla pub-blicità, o i piccoli club o i costi che com-porta suonare in diversi posti in unastessa città. Per alcuni degli artisti del-la sua generazione, i cui tour possonofruttare al botteghino numeri a novecifre, difficilmente vale la pena allon-tanarsi dalle case negli Hamptons per5 milioni di dollari.

Parte della spiegazione di ciò cheDylan fa, potrebbe trovarsi nelle noteche accompagnano The Freeheelin’Bob Dylan, uno dei suoi primi album:

«Non mi muovo ancora come hannofatto Big Joe Williams, Woodie Guth-rie, Leadbelly e Lightnin’ Hopkins»,scriveva. «Spero di esserne capace unagiorno, ma loro hanno più anni di me.Io sono in grado di farlo a volte ma,quando accade, accade inconscia-mente». Questi artisti non sono sol-tanto eroi musicali: sono l’oppostodelle decadenti rock star della sua ge-nerazione che danno al loro pubblicociò che il loro pubblico vuole sentire.Diversamente da loro, Dylan dà al suopubblico soltanto ciò che lui ritiene es-so dovrebbe volere: un’opportunitàper vedere lavorare un artista.

È persino diventato una sorta di pro-selitista che usa il potere di guarigionedei tour on the road. Una telefonata diDylan ha dato a Patti Smith il coraggiodi rimettersi in pista dopo un’interru-zione di sedici anni. «Mi disse che do-vevo condividere quello che facevocon la gente», racconta Patti Smith.«Credo che questo sia coerente con lasua filosofia».

Questo viaggio di Dylan ha misterio-se premonizioni nelle sue canzoni, mamai tanto quanto in Like a Rolling Sto-ne, il cui ritornello «no direction ho-me» suona quasi minaccioso e trion-fante. «Penso che quando lui cantava“no direction home”, parlava del suoessere perso, una sorta di straniero interra straniera», riferisce Williams. «Epoi, ironicamente, è così che lui scegliedi vivere la sua vita». Jonathan Cott,autore di Dylan ha detto: «Ci ho pensa-to e so che è un cliché, ma credo chequando lui si “trova” on the road, si“trova” in entrambe le accezioni dellaparola. Penso che stare in tournée siala sua meta».

C’è infine un’altra questione, piùdelicata, data l’importanza che il can-tante attribuisce alla privacy. Oltre al-la relazione abbastanza nota con laprima moglie, Sara, poco si sa della suavita privata. Fino a pochissimo tempofa, i biografi non conoscevano benenemmeno certi dettagli elementaridella sua famiglia, e molti fan non san-no che Dylan è stato sposato una se-conda volta, negli anni Ottanta, conuna delle sue coriste del periodo go-spel, dalla quale ha avuto un figlio.

La domanda cruciale è: da cosa fug-ge Dylan o verso cosa. È noto che, al-l’apice della sua fama, verso la fine de-gli anni Sessanta, Dylan si era ritiratodalla vita on the road per dedicarsi allafamiglia con relativa tranquillità. Qua-li demoni personali possono spingereun uomo a passare gli ultimi anni deisuoi quaranta, tutti i suoi cinquanta eora i suoi sessanta lontano da casa?

«È un fuggire o un trovare la propriastrada?» chiede Cott. «Non lo so».

(Copyright New York Times/La Repubblica

Traduzione di Guiomar Parada)

Nel suo girovagaredi città in città

con gli strumentinon sembra affattointeressato agliincassi delle seratema vuole piuttostodare al pubblicociò che lui ritienepiù adatto e più giustoper i suoi fan

I LUOGHIIl Turning Stone a Verona(N. Y.) che ha ospitatouno dei concerti di BobDylan in tour.Sotto, l’Hilton di Renoin Nevada, in basso,l’Osceola CountyStadium di Kissimmeee il Roaring Eagle

I SUCCESSIBob Dylan e Willie Nelsonin concerto. Sopra, Dylancon la sua chitarra: la fotoè stata utilizzata come coverdi Nashiville Skyline, l’albumdel 1969

Che gli è preso a Dylan, con quel furioso,ininterrotto, girovagare in posti sperdu-ti, tra vecchi casinò, dancehall di provin-

cia, centri lontani e dismessi? Cosa lo spinge,forse la paura dell’horror vacui domestico, lafretta degli uomini che intravedono il viale deltramonto, o è la pervicace voglia di frantumaregiorno dopo giorno il suo stesso mito? Bob Dy-lan è una sfinge, lo sappiamo, difficile cavarnespiegazioni plausibili, didascalie convincenti,è uno che non ha mai voluto spiegare le cose fi-no in fondo. Anche l’autobiografia di recentepubblicazione non chiarisce del tutto. È bella,a tratti geniale, perfino illuminante (nessunoad esempio avrebbe mai supposto che fossestato fortemente influenzato da Brecht eWeill), ma rivela molto su alcune cose e po-chissimo su quelle che tutti i fan si sono chiesteper decenni. Racconta per una sessantina dipagine il disco Oh mercy di cui oggi sappiamovita morte miracoli, e non dice una sola parolasu Mr Tambourine man o su Like a Rolling Sto-ne. Un vero bastardo, detto con simpatia e ri-spetto incondizionato.

Ma qualche indizio sui concerti ce lo conce-de. Prima che iniziasse il cosiddetto never-en-ding tour, ovvero nel 1988, Dylan era arrivato auna specie di capolinea: «Ormai ero, come si di-ce, sulla china discendente» racconta, «se nonci stavo attento rischiavo di ritrovarmi a grida-re al muro, pieno di furia e con la bava alla boc-ca. Lo specchio aveva fatto un giro su se stessoe io vedevo il futuro, un vecchio attore che ro-vista nei bidoni della spazzatura fuori dal tea-tro dove una volta aveva trionfato». Aveva pen-sato a un ritiro, amaro e definitivo. Poi una nuo-va scintilla: invece della fine quello fu l’inizio diuna nuova storia, Dylan capì che dal vivo non siera ancora espresso come voleva, che dovevaripartire, da zero, e così ha fatto.

Certo è che 1.700 concerti in 17 anni sarebbeuna bella media anche per un giovincello. A luisembrano non pesare, a 64 anni se ne va ancorain giro nelle piazze più periferiche. A differenzadei suoi colleghi di generazione, che centellina-no tour come eventi imperdibili, ogni volta an-nunciati da una grancassa mediatica, Dylan ètornato a svolgere il suo lavoro sulla strada, sen-za enfasi, senza retorica, senza alcuna possibi-lità celebrativa. Suona, semplicemente, canta,convinto di aver imparato a cantare dal vivo so-lo adesso, non parla, non dice mai nulla, e sfidai fan a riconoscere, quando le fa, anche le canzo-ni più famose. Sembra quasi che il suo sognoproibito sia quello di essere una volta fischiato,contestato. Forse è questo l’incubo che rincorresegretamente, ma ovviamente non potrà maiaccadere. Quelli che vanno oggi ai suoi concer-ti, e in quanto non-eventi non sono più di due-tremila persone a volta, se non meno, sono gli in-tegralisti del culto-Dylan, quelli che accettanotutto senza discutere, perfino che se ne stia pertutto il concerto da un lato, dietro una tastiera, adistorcere con nasale e disinvolta vocalità le suecanzoni. E non c’è dubbio che sia un esito sor-prendente. Nessuno del suo calibro farebbe maiuna cosa del genere. Per non dire del fatto che,da molti punti di vista, non esiste nessuno, almondo, del suo calibro.

Forse i ragazzi oggi, grazie anche al suo tena-ce understatement, non sanno più neanche be-ne chi è, eppure se c’è un personaggio che hadavvero cambiato il volto della musica popola-re del nostro tempo, ebbene è proprio Bob Dy-lan. Tutti gli devono qualcosa, anche se non losanno, se non altro perché, come dice la vulga-ta della cultura pop, lui è quello che ha messo leparole al rock, che gli ha dato profondità e co-scienza, che ha aperto possibilità infinite. Il se-me gettato dalle sue canzoni degli anni Sessan-ta sta ancora maturando, riverbera fino ai no-stri giorni.

Dylan queste cose le sa bene, in fondo è un in-tellettuale, anzi fu l’annuncio di una nuova fi-gura di intellettuale trascinata dalla rivoluzio-ne degli anni Sessanta, ma tutto fa credere cheproprio questa sua acuta consapevolezza siaalla base di ogni sua stramberia. Del mito hadetto tutto. Non lo voleva, non lo ha mai cerca-to, lo ha subito come una violenza e soprattut-to come una distorsione sistematica delle sueintenzioni. E per avere un’idea di come abbiamal vissuto le rifrazioni del mito basta pensareche una volta, pur di sfuggire agli stereotipi ge-nerazionali, è arrivato a dire che Masters of warnon è affatto una canzone pacifista. Ecco per-ché oggi continua a scavare nelle mappe peri-feriche del circuito dei concerti, ecco perchénon se ne sta a casa a godersi il riposo del guer-riero. Fatto a pezzi il suo mito può essere sicu-ro che non ci siano fraintendimenti, che non cisiano deformanti messe cantate intrise di no-stalgia e immagini da pifferaio delle trasforma-zioni sociali. Concerto dopo concerto può tor-nare a essere quello che in fin dei conti ha sem-pre voluto essere, un cantastorie che ha tantecose da dire, e il cui più intimo desiderio è chesiano comprese per quello che sono, niente dipiù, niente di meno.

E il Cantastoriedistrugge il mitoper sentirsi libero

GINO CASTALDO

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45DOMENICA 19 GIUGNO 2005

spettacoliCinema dimenticato

Un giovanissimo Raffaele Viviani, maestro dei De Filippoe di Totò, interpreta un bracciante carico di odioper il padrone. È “Un amore selvaggio”, una pellicoladel 1912 che si credeva perduta e che ora, grazieal restauro in Olanda, proietta una luce nuova sul “muto”meridionale. Per molti versi anticipatore del neorealismo

Lo sguardo spiritato, affilatocome le lame delle mollet-te dei vecchi duelli camor-ristici. La camminata spa-valda, da guappo non dicartone. La gestualità ner-

vosa, la magrezza animalesca. I capelliricci e scarmigliati. L’aria strafottentedel figlio del popolo che sfida il figlio delpadrone. Raffaele Viviani, mito dell’ar-te drammatica napoletana, fratellomaggiore, ribelle e maledetto, dei DeFilippo, dei Totò, dei Taranto, autorecult delle generazioni successive deiServillo e dei Martone, di Tato Russo edi Daniele Sepe, rivive per una mancia-ta di minuti in una vecchia pellicolascoperta in Olanda. È il Viviani dei tem-pi migliori: ventiquattrenne, masa-niello e un po’ bohemien, nel pieno diquella esuberanza espressiva attintadai vicoli di Napoli che lo consacrò co-me «l’ultimo scugnizzo».

Il film si chiama Un amore selvaggioe risale al 1912 (alcune fonti, però, sug-geriscono il 1909). Per anni era stato da-to per perso. Ora il Nederlands Film-museum di Amsterdam lo ha rispolve-rato e restaurato e lo riproporrà al Fe-stival del Cinema ritrovato di Bologna,in programma dal 2 al 9 luglio. È l’unicodocumento in circolazione su Vivianigiovane. Ma è anche un’interessantetestimonianza di una stagione poconota del muto, il filone «realistico» me-ridionale: una ventata di vitalità plebeae sanguigna che ai primi del Novecen-to tentò di irrompere nei patinati inter-ni aristocratici del cinema d’allora,portandovi visceralità e passione, at-mosfere campagnole ed echi dei con-flitti di classe, ma più spesso il folcloredelle sagre di Piedigrotta e un’umanità

amore. Scoperta, viene cacciata. E siunisce al fratello nel tentativo di ucci-dere il figlio del suo ex datore di lavoro.L’ultima scena vede Giuseppe e Ales-sandro impegnati in una colluttazione.Il restauro non è riuscito a salvare il fi-nale: Carmela, pentita, ferma la manoomicida del fratello e parte con lui.

Lo storico Vittorio Martinelli, enciclo-pedia vivente del muto italiano, è statochiamato ad Amsterdam per analizzareil film. «In Un amore selvaggio — dice —Luisella è una giovane Magnani moltosensuale e mediterranea, la camicettapiuttosto scollata per l’epoca. RaffaeleViviani è poco più che un ragazzo. È sca-tenato, ha l’aria del bullo, dello scugniz-zo irriverente e indossa panni da strac-cione». Martinelli ricorda di aver cono-sciuto personalmente Viviani molti an-ni più tardi a Napoli: «Al cinema davanoun film con Louise Brooks e lui, già vec-chio, si sedette accanto a me. Dopo unpo’ mi diede una gomitata e chiese,guardando lo schermo: «Giovinò, machi è ‘sta bella femmina?».

Un amore selvaggio, spiega SimonaMonizza, restauratrice del Filmmu-seum, «faceva parte di una piccola col-lezione privata di film su supporto di ni-trato di cellulosa, donata al nostro mu-seo nel 2003». Della donazione faceva-no parte altri gioielli perduti come unlungometraggio con la grande diva delcinema danese Asta Nielsen, (anchequesto film sarà presentato a Bologna).Sebbene sia stato prodotto a Roma dal-la casa cinematografica Cines, il film deifratelli Viviani, ambientato in Sicilia,s’inserisce a pieno titolo, secondo Mar-tinelli, in quella tendenza del muto ita-liano che sembra in parte anticipare icontenuti del neorealismo e cerca teminuovi nella realtà meridionale.

Il cinema a Sud aveva già, nella se-conda decade del secolo, una consoli-data tradizione. Sin dai primissimi delNovecento nei caffè concerto di Napo-

li si proiettano i film dei fratelli Lumiè-re, case come la Lombardo o la Vesuviofilm iniziano a produrre negli stessi an-ni delle etichette di Roma, Torino e Mi-lano, e dal 1905 opera la prima film-maker italiana, Elvira Coda Notari, au-trice di decine di «arrivederci», «augu-rali», lungometraggi e corti apprezzatianche in America. «Rispetto ai noiosifilm ambientati in saloni e giardini pen-sili, con attori in smoking sin dalle un-dici del mattino — spiega Martinelli —quello prodotto al Sud è un cinema vi-vo, divertente. Ma queste pellicole condidascalie in dialetto, interpretate daguappi e scugnizzi, al di là del Gariglia-no erano quasi sempre snobbate».

Piacevano molto, invece, al di là del-l’Oceano, dove venivano proiettati pergli emigrati meridionali in America. Ifilm partivano in nave accompagnatidal cosiddetto «cantante appresso», cheforniva un commento canoro alla proie-zione. Ma era un cinema molto popola-re anche in Italia. «In quegli anni i cine-matografi avevano una diffusione capil-lare in tutto il centrosud: non parlo solodi città come Bari e Palermo ma anche dipaesetti di provincia». I temi storici, il di-vismo, la comicità sono ignorati da que-sto cinema, che invece mette in scena ‘omalamente, attinge dal teatro napoleta-no, dalle canzonette, dal romanzo po-polare. Parla di duelli a coltellate e di mi-seria; di grandguignoleschi delitti pas-sionali che hanno come sfondo le divi-sioni sociali, come in La catena d’oro.Oppure attinge a fatti di cronaca, comeil napoletano Maria, vieni a Marcello.Racconta di una provincia ancora im-mersa in una dimensione rurale. In Idil-lio infranto, la critica dell’epoca coglieuna «atmosfera di verità e originalità.Non visioni di traffici, non automobili opalazzi lussuosi, non fumaioli di offici-ne infuocate ma soltanto la visione di unlembo di Puglia nella sua bella vernice diulivi, solitario e silenzioso con i suoi co-stumi all’antica e la sua semplice vita».

d’onore e sentimento, quella che qual-che anno più tardi popolerà le sceneg-giate di Mario Merola.

Altre volte, è la filmografia di un’Italiacontadina che vuole uscire dal suo feu-dalesimo provinciale. La ritroviamo inIdillio infranto, l’ultimo film muto gira-to in Italia, interamente realizzato in Pu-glia tra il 1931 e il 1933 e autoprodotto daun giovane signore di paese innamora-to del cinema, Orazio Campanella: lapellicola, scoperta pochi anni fa in unacassapanca e restaurata dal regista An-gelo Amoroso D’Aragona, sarà presen-tata a Procida nel festival Il vento del ci-nema, diretto da Enrico Ghezzi, in corsofino al 26 giugno. Il tema qui è il conflit-to tra città e campagna, già presente invecchie pellicole come In campagna èun’altra cosa del 1912.

Una data importante, il 1912, per il ci-nema muto italiano, che sembra aprir-si alla realtà e parlare di omertà e disoc-cupazione, della Guerra italo-turca edei primi conflitti di fabbrica. Vivianirecita da protagonista, con la sorellaLuisella, in tre film. Del primo, Testa atesta, dove indossa i panni di un sancu-lotto ai tempi della Rivoluzione france-se, resta solo un frammento. Del secon-do, La catena d’oro, rimane qualchetraccia nelle critiche dell’epoca. Unamore selvaggio è ambientato in Sicilia:è la storia dei due fratelli Carmela e Giu-seppe (Luisella e Raffaele Viviani), brac-cianti in un’azienda agricola. Entrambihanno un carattere ribelle e violento.Giuseppe, poco incline alla fatica, vienelicenziato. Vorrebbe andar via con la so-rella, ma lei si rifiuta di seguirlo: è inna-morata del figlio del padrone, Alessan-dro, che però è già fidanzato. Così, dopoessere riuscita a far desistere il fratellodai suoi propositi omicidi nei confrontidel padrone, è lei, subito dopo, a pro-gettare l’avvelenamento della rivale in

IL RITROVAMENTO

La pellicola “Un amoreselvaggio” faceva parte di unapiccola collezione privata di filmsu supporto di nitrato dicellulosa, donata al NederlandsFilmmuseum di Amsterdam nel2003. Il titolo della copiaolandese era “Een onstuimigeliefde”. Il film interpretato daRaffaele Viviani fu giratoprobabilmente in Sicilia: si trattadi uno dei pezzi più importantidella cinematografiameridionale di inizio secolo esoprattutto di una pellicola chesi riteneva ormai perduta

LA PELLICOLASopra, alcune scenedel film “Un amoreselvaggio”. Per gentileconcessionedel NederlandsFilmmuseumdi Amsterdam

DAVIDE CARLUCCI

Il film che raccontò il Sud ribelle

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i saporiNatura in tavola

Le Città delle ciliegiefanno festa in piazza

Una tira l’altra. Verissimo. E non parliamo dipatatine. Trasversale per età, sesso, ceto so-ciale, geografia, la ciliegia ha attraversato isecoli senza perdere un solo grammo del suoirresistibile appeal. Ad amarle, generazionidi bimbe felici di appenderle alle orecchie,

primissime emozioni di orecchini, e di bimbi irriverenticollezionisti di noccioli (versione povera delle biglie, e “chili sputa più lontano?”). Ma anche adulti — di facile consu-mo, senza buccia, dissetante, digeribilissima — dannatidella dieta (38 calorie per etto!), donne (è diuretica, antios-sidante, disintossicante), anziani.

Tante qualità concentrate in una pallina rosso fuoco, chematura tra maggio e fine giugno, dislocata nelle campagneitaliane senza soluzione di continuità, dal Piemonte (dovela Bella di Garbagna, Alessandria, è protetta dal PresidioSlow Food), alle colline del Veneto, dai meravigliosi duro-ni di Vignola alle piccole, gustosissime “cerase” campane,giù giù fino all’altopiano delle Murge, dove trionfano lesontuose “Ferrovia”.

Il Paese della dieta mediterranea — che ha nella frutta labase stessa della sua piramide — non poteva non seguire l’e-sempio di pane, vino, olio, formaggi. Così sono nate “Le Cittàdelle Ciliegie”: 22 centri piccoli e grandi, sparsi per l’inte-ro stivale, associati per glorificare, comunicare, pro-muovere il frutto preferito dall’80% dei bambini ita-liani. E siccome quando la qualità è alta, non c’èmiglior pubblicità dell’assaggio, l’associazionededica le piazze delle città affiliate, per tutto ilmese di giugno, alla cultura della ciliegia.

L’evento collettivo si chiama “Ciliegie inpiazza” e porta il marchio dell’Unicef, asottolineare la benemerita commistio-ne tra gola e solidarietà. Da Marostica —sede dell’unica ciliegia italiana certifi-cata Igp — a Pecetto, scadenzate dalcalendario pubblicato sul sito dell’as-sociazione, (www. cittadelleciliegie.it), si succederanno fiere, sagre, degu-stazioni, cene monotematiche. Partedegli incassi serviranno a supportareun progetto per l’infanzia in Malawi,uno degli stati più poveri e più colpitidall’Aids dell’Africa.

Sui banchi saranno in vendita an-che liquori, confetture, sotto spirito,praline, ovvero le ciliegie trasformatein gourmandise: unico modo per allun-gare la vita di un frutto fortunatamente re-frattario ai trucchi con cui si dribbla il sacroprincipio della stagionalità.

L’impossibilità di conservarla a lungo,infatti, fa della ciliegia un oggetto del de-siderio intenso e concentrato in pochesettimane, periodo reso meno sincopa-to solo dall’immissione sul mercato dimaggio delle primizie coltivate in Spa-gna e dilatato fino a luglio grazie all’arri-vo dalla Turchia del durone tardivo Zi-rat. Le ciliegie nostrane, invece, non am-mettono sforamenti temporali: si co-mincia a fine maggio — quest’anno conqualche giorno di ritardo per colpa di unaprimavera scombiccherata — con le “pri-maticce” prodotte sulle colline intorno a Vi-gnola e in Valpolicella, si continua con le mitiche“Ferrovia” della terra di Murgia, in Puglia, regione lea-der per ettari coltivati e numero di aziende specializzate.L’inizio dell’estate piena esaurisce il tempo della commer-cializzazione, ma in compenso si affacciano sul mercato,chi prima chi dopo, altri meravigliosi frutti: meloni, angu-rie, albicocche, pesche, susine e fichi per i più golosi.

Ma queste per le ciliegie sono le settimane in cui gli chefsi sbizzarriscono, inserendole nei loro menù, senza pau-ra di sconfinare nel terreno insolito dei piatti salati. Per-ché se tutti noi siamo innamorati dell’archetipo della ci-liegia — rossa, succosa, carnale — le tipologie sono cosìvarie da permettere inserimenti originali: morbide perarricchire un clafoutis, croccanti per reggere la lunga cot-tura della cacciagione, acidule per contrastare la sfronta-ta dolcezza di un fegato grasso.

Del resto, le ciliegie hanno una storia così lunga, artico-lata, geograficamente estesa, da ben sopportare mode e in-terpretazioni dei diversi periodi. Vecchie di tremila anni,conosciute in Egitto prima di approdare in Grecia e in Ita-lia, sono state raccontate con ammirata dovizia di partico-lari botanici da Plinio il Vecchio nella sua “Naturalis Histo-ria”. Quello che invece proprio non reggono, è il freddo.Guai a conservarle a temperature troppo basse e a lasciar-le in frigo oltre i tre, quattro giorni: perderanno irrimedia-bilmente gusto, vitamine, consistenza.

Nel caso, ridate loro un po’ di brio tuffandole prima in ac-qua ghiacciata e poi nel cioccolato amaro fuso: sarà laghiottoneria più golosa e meno calorica dell’estate.

LICIA GRANELLO

Per la prima volta ventidue centri italiani, piccoli e grandi,si mettono insieme e promuovono il frutto preferito dall’80%dei bambini. Tra assaggi, sagre, degustazioni e mille nuovericette si potranno apprezzare, fino alla fine di questo mese,le virtù e il gusto delle Vignola, delle Graffione piemontesi,delle Ferrovia pugliesi e delle cerase campane

Fruttad’estate

Moradi CazzanoIl fruttoè medio-

grosso, rosso brillante

Ha consistenzacroccante, ottimoper produrremarmellate, sciroppi,sorbetti. Si trova dagiugno a fine luglio

GraffionebiancopiemonteseHa colore

pallido, quasibianco, ed è di

consistenza robusta,croccante, qualitàche lo rendono adattoad essere conservatosotto spirito La polpaè rossa, profumata

46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 19 GIUGNO 2005

Belladi PistoiaHa unadrupa

grossa, rossa,caratterizzata

da polpa rosa,piuttosto croccante e saporita. Si consumafresca o manipolata per liquori, crostatee decorazioni

Duronedi VignolaIl piùfamoso

duroneemiliano

ha colore rosso scuroe sapore intenso,succoso, dolce-acidulo. Matura a metàgiugno. È consideratouna ciliegia-culto

Ferroviadella PugliaSi caratterizzaper la drupa

(frutto) turgida,consistente

La tinta è rossoporpora, brillante,il sapore è dolce,morbido, succulento,carnoso. Maturaa inizio giugno

Le ciliegie

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AnguriaFrutto simbolo dell’estateha zona d’elezione in Emilia RomagnaDi forma tondeggiante o allungata, buccia verdepolpa da rosa a rossaHa il 95,3% d’acqua

FicoCitato nella Bibbia comesimbolo di abbondanza,è considerato alimentozuccherino (13% del peso in zucchero)Contiene vitamine e minerali. Si consumasia fresco che secco

MeloneArrivato dal Caucasodurante il Cristianesimo,battezzato poponeda Plinio, è ricco divitamine A e C. Vienecoltivato in estatee in inverno. Mantovae Pachino le areepiù vocate

NespolaSi trova in due qualità:comune e giapponese, a maturazione precoce,da un albero importato in Europa nel SettecentoPer la presenza di acidocitrico e tannino ha proprietà astringenti

FragolaNota già ai romani,divenne celebre nel 1700perché consideratapassaporto di longevitàSi trova coltivata e selvatica. È diuretica,contiene vitamine (A, B1,B2, C) e oligoelementi

PrugnaOriginaria dell’Asia e coltivata da mille anni in Europa, varia in colore(giallo, blu, rosso, verde)e gusto. L’acido malico le regala sapore aciduloHa calcio e potassio

AlbicoccaLa “mela d’Armenia”, è una vera miniera di sostanze utili: potassio,betacarotene, vitamine A,B, C, magnesio, ferro e fosforo Ha proprietà lassative

PescaOriginaria della Cina,dove il pesco è simbolod’immortalità, è arrivatanel Mediterraneo graziead Alessandro MagnoÈ digestiva, dissetante e antiossidante. Varietà:bianca, gialla e noce

È il calo percentualeregistrato nel consumodi frutta in Italia nel 2004

-10%

È il consumo procapitedi frutta di vario tipoogni anno in Italia

130 kg

Le tonnellate di fruttache vengono prodotteogni anno nel nostro Paese

5,2 mln

Sono le calorie contenutein cento grammi di ciliegiedi qualsiasi varietà

38 kc

Le ricette

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47DOMENICA 19 GIUGNO 2005

Luciano Tona, consideratouno dei migliori chef-docentiitaliani, è un appassionatoesperto di volatili, che servein ricette golose e ardite nel suo locale della Brianza,“La Fermata di Casatenovo”Gli abbinamenti con la fruttasono tra i suoi preferiti

Anatroccoloalle ciliegie selvatiche2 anatre da 1.2 kg l’una, 1 limone500 gr ciliegie selvatiche snocciolate10 foglie germoglio di ciliegio, 1 dlPorto, 2 dl Lambrusco, 1 mazzetto di timo e rosmarino, 2 cespi indiviabelga, 60 gr di burro, sale, pepe

* Dividere le anatre per il senso della lunghezza, incidere la pelle a quadretti

* Sfregare la pelle col limone, coprire con timo e rosmarino, far riposare

* Rosolare in padella la parte con la pelle

* Cuocere in forno a 200 gradi per 18’* Staccare le cosce e continuare

la cottura in forno per altri 8 minuti* Conservare i petti in caldo coperti

con foglio d’alluminio per 15’* Bollire le ciliegie con i vini e le foglie di

ciliegio, riducendo a un terzo* Togliere le foglie, unire il sugo

di cottura dell’anatra sgrassato* Cuocere l’indivia con il burro

e 2 dl d’acqua, fino ad asciugatura* Servire il petto e le cosce d’anatra

affettate con l’indivia e la salsa

Cittadina-gioiellomedievale, sorge ai piedidei declivi che s’innalzanosull’altipiano di Asiago. Inprimavera,la fioritura dei ciliegi vestedi una nuvola bianca lecolline. È la capitaledelle Città delle Ciliegie, quiprotette dall’Igp

DOVE DORMIRELA ROSINA (CON CUCINA)Valle San Floriano, Contrà Marchetti 4Tel. 0424-75839Camera doppia da 80 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREDUE MORI (CON CAMERE)Corso Mazzini 73Tel. 0424-471777Chiuso domenica, meù da 40 euro

DOVE COMPRAREIL GERMOGLIOVia Monte Grappa 7 Tel. 0424-780645

Conteso nel medioevotra bizantini e normanni,sede del carcere dovedurante il fascismo furonoimprigionati AntonioGramsci e Sandro Pertini,è circondato dalle collinedelle basse Murge, zona privilegiata per laproduzione di ciliegie

DOVE DORMIREANTICA MASSERIA S.S. 172 Turi/Putignano Tel. 080-4959980Camera doppia da 52 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREAGRITURISMO MONTEPAOLO (CON CAMERE)Contrada Montepaolo - ConversanoTel. 080-4955087Senza chiusura, menù da 25 euro

DOVE COMPRARE FRUTTA SETTANNIVia Principe di Napoli 4Tel. 080-8912232

Già possedimentodella Chiesa di Ravenna,appoggiata sulla collinaalle spalle di Forlì, vantaun’economia basatasull’agricoltura. Le ciliegie,Stella e Moretta, sonoprotagoniste della festadell’ultima domenicadi giugno

DOVE DORMIREACERO ROSSO (CON CUCINA)Località Seggio 5Tel. 0543-984035Camera doppia da 66 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREPAOLO TEVERINI (CON CAMERE)Piazza Dante 2 - Bagno di Romagna Tel. 0543-911260Chiuso lunedì e martedì, menù da 40 euro

DOVE COMPRAREFATTORIA BOSCO VERDEVia Badia 52 località VoltreTel. 0543-989431

itinerariCivitella di Romagna (FC)Marostica (VI)

Il torinese Alfredo Russo è uno degli chef di punta dellanuova generazioneLe ciliegie, frutto goloso dellecolline torinesi, sonoprotagoniste di alcune tra le ricette storiche del suo locale, il “Dolce Stil Novo” di Ciriè

Fegato di vitello fassonecon agro di ciliegie600 gr fegato di vitello, 250 gr ciliegietipo durone denocciolate,180 gr cipolladi Tropea, insalata fresca, aceto di vinobianco, nocciole, olio extraverginesale marino, pepe, zucchero

* Togliere la pellicina esterna e tagliare il fegato in fette alte 5 cm

* Mettere in acqua per tre ore cambiandola spesso

* Asciugare con carta, rosolare in una padella antiaderente

* Terminare la cottura mantenendoil centro rosa, raffreddare

* Spadellare le ciliegie con poco zucchero, bagnarle con poco aceto

* Far raffreddare in un contenitore * Stufare le cipolle tagliate in quarti con un filo d’olio, bagnando con acqua* Servire il fegato tagliato sottile

e aggiustato di sale* Condire con il succo e i pezzetti

di ciliegia* Guarnire con l’insalata, le cipolle

calde, qualche nocciola tritata, olio

Turi (BA)

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il corpoTempo d’estate

48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 19 GIUGNO 2005

Unguenti, creme, stick per le labbra, schermi totali senza additivi chimici,filtri dalle preparazioni hi-tech: è cominciata la “stagione del sole”e il beauty case si riempie dei prodotti di un comparto industrialeche, in controtendenza, non conosce crisi. Gli esperti raccomandanodi proteggersi dai raggi Uvama il mito della tintarella spesso ha la meglio

GUERRA ALLE ALLERGIEAntiallergico e resistentissimo all’acquail solare per bambini. Per gli adulti, moussedoposole rilassante e spray rinfrescanteall’aloe vera, di Nivea

VISOPer le pelli chiare,

fototipo 1, è indicatauna crema sun blockalmeno i primi giorni

COLLODopo il viso è la zona

più soggettaa ustioni

specie in acqua

MANISpesso trascurate,

dopo i 40 richiedonocure: il sole acuiscele macchie dell’età

GAMBEÈ la zona che soffre

di più se si è fermial sole: meglio

bagnarsi e camminare

LAURA LAURENZI

SolariS

curi, abbronzati, asciutti e tonici. Non cambia il modello. Per sentirsi più belli e piùin forma bisogna prendere il sole. Mai mostrarsi bianchi, quasi un segno di debolezza.Una questione di immagine, un mito duro a morire, rafforzato dalla pubblicità. È statopersino coniato un nuovo termine — tanoressia — a indicare la smania per l’abbron-zatura a tutti i costi. È tanoressico chi non vuole perdersi neppure un raggio di sole, chisi espone anche in terrazzo, in giardino, in cortile per ore, oltre che in spiaggia,

sulle rocce, in barca. È tanoressico chi corre da un solarium a un centro estetico, mania-co dei lettini e delle docce abbronzanti, che hanno peraltro visto i loro utenti triplicarenegli ultimi anni.

È vero, il sole può essere un toccasana: migliora l’umore, stimola il tono fisico e mu-scolare, attiva il metabolismo, riduce il colesterolo e facilita il rinnovamento cellulare.Ma attenzione alle dosi. E soprattutto occhio alla protezione. Abbiamo speso l’annoscorso 295 milioni di euro in prodotti solari, una cifra che non tiene conto di quelli spe-cifici per il viso. Ma li usiamo davvero? Come ogni estate i consigli dei dermatologi ven-gono puntualmente disattesi. Siamo campioni del sole preso a strappi: di colpo anchequattro o cinque ore di seguito, e poi per sei giorni niente. Gli abbronzanti vengono uti-lizzati i primi giorni, poi spesso rimangono in cabina. Le spiagge brulicano di gente che siposiziona sotto i raggi più caldi scegliendo come momento per esporsi al sole esattamen-te le ore da evitare, dalle undici del mattino alle tre del pomeriggio. Bambini compresi.Donne che tengono alla loro apparenza si abbronzano in faccia in maniera selvaggia, edesistono ancora quelle (sempre meno per la verità) che utilizzano addirittura lo specchioriflettente.

Una recente ricerca scientifica pubblicata dal Personality and Social Psychology Bul-letin conferma come i sentimenti femminili rispetto all’abbronzatura siano fortemen-te condizionati dall’autostima e da come l’oggetto viene rappresentato dai media. An-che gli uomini si percepiscono molto più atletici e desiderabili se abbronzati. Insom-ma: il sole bacia i belli. Un’altra ricerca presentata a Copenaghen nella European Can-cer Conference ha messo in evidenza come tra i patiti della tintarella no limit figurinospesso anche oncologi e personale medico, perfettamente informati sui pericoli deiraggi Uva.

Il dieci per cento della popolazione mondiale soffre di una qualche intolleranza alsole, secondo dati forniti dal Centro ricerche cosmetologiche dell’Università Cattoli-ca di Roma. Eritemi, fototossicità e allergie sono fenomeni sempre più diffusi. Quan-to al melanoma, in Italia se ne registrano 4.500 nuovi casi ogni anno, con un’inci-denza addirittura raddoppiata. Le più recenti indagini epidemiologiche rivelanoche il tumore della pelle colpisce le classi sociali più elevate, come è stato sottoli-neato nel convegno International focus on melanomache si è tenuto questo me-se a Palermo.

Imperativo dunque è proteggersi. Difficile districarsi nella giungla dei solari,quelli hi-tech e quelli a doppia azione: ti schermano e ti piallano la pancia, ti di-fendono e ti drenano la cellulite. Quelli ipernaturali senza additivi chimici equelli reidratanti al retinolo. Niente filtri sintetici ma ossido di zinco e di titanio.Il trattamento viso antirughe al carotene e l’olio secco antisale, il latte, lo spray,lo stick, la maschera igloo, il bagno fissativo solare, l’acqua rinfrescante-ab-bronzante, il fondotinta da yacht, l’anallergico senza profumo, il gel effetto ghiac-ciato che va conservato in frigorifero, l’autoabbronzante alle note fruttate, l’un-guento tropicale, lo schermo totale effetto saracinesca, l’olio che non unge, il lattebio-stimolante della melanina.

Molta offerta ma anche molta confusione. Entro l’anno venturo le aziende produttricidovranno adeguarsi alla nuova normativa che proibisce espressioni ed etichette del tipo “Sunblock” e obbliga a distinguere prodotti e filtri in cinque ben precise fasce di protezione. La primaè la più bassa, con i numeri 2, 4 e 6; poi la fascia media che varia fra 8, 10 e 12; segue la fascia alta, con15, 20 e 25; poi la fascia molto alta con protezione 30, 40 e 50, infine la categoria ultra, con 50+.Intanto un’equipe del Massachusetts General Hospital di Boston sta studian-do una pillola che protegge dai raggi nocivi in modo semplice edefficace. È a base dell’estratto di una felce che crescenell’America Centrale dalle forti proprietàantiossidanti. Se davvero funzio-nasse, renderebbe inutili cre-me, fluidi, unguenti.

LA FORZA DELLA NATURATutti eccipienti naturali per i solaridell’Erbolario, dall’olio di nocciolo di pescaall’olio di germe di riso, dall’estratto di alteae di pongamia al burro di mandorle dolci

Abbronzatura spericolataecco l’ultima mania

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SE IL FILTRO È HI-TECHA base di polimeri e silicio il nuovo filtrohi-tech che non lascia spiragli alle radiazioninocive. Per ogni tipo di pelle. Programmasole intenso e sole moderato, di Vichy

IL SEGRETO DI FINE GIORNATAUna maschera per il viso da applicaredopo l’esposizione al sole. Idratae restituisce freschezza ed elasticitàalla pelle, di Biotherm

PER DONNE SENZA MACCHIAInnovativo filtro anti-spot che previenele macchie brune. Estratto di rosmarino,vitamina E e C più acido linoleico controi radicali liberi nei solari. Estée Lauder

UN FRESCO SOLLIEVONon testato sugli animali, il solareper il viso con un filtro di media protezioneUn prodotto fresco a base di estratto dialghe, lavanda, olio d’oliva, aloe. Di Lush

GIOCHI DA SPIAGGIABottiglia-giocattolo per il latte lenitivodopo sole riservato alle bambine. Alleviagli arrossamenti, idratante e nutrienteSi chiama Miss Milkie Sun Junior, di Pupa

TINTARELLA RAPIDASolare per il viso ad abbronzatura rapidae stick specifico per le zone più delicate,come il naso, il contorno occhi, le labbra,le orecchie, di Clarins

BOTANICA MON AMOURPigmenti naturali, erbe officinali, estrattidi semi di mela cotogna, olio di bacchedi rosa canina e burro di karité per un lattedall’aroma fruttato, Dr. Hauschka

NERE... COME IL CARBONEUnguento concentrato superabbronzanteper pelli già scure al mallo di nocee betacarotene. Per il viso crema ad azionerigenerante antistress e antietà, di Collistar

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 49DOMENICA 19 GIUGNO 2005

LA STORIA

GLI ANTICHI EGIZI

Gli Egizi usavano sulcorpo oli e unguentiprofumati e truccavanogli occhi di nero perproteggersi dal solePer dare un coloredorato alla pelle,Cleopatra usavalo zafferano

IL MEDIOEVO

Le donne siesponevano al solecol viso protettoda veli per evitarel’abbronzatura:la trasparenzadel voltoera espressionedi nobiltà d’animo

IL SETTECENTO

Il sole viene consideratopericoloso e chi vaal mare si proteggesotto grandi tendoni.Abbondanotra le nobildonnei preparati per dissipare rossori e lentiggini

COCO CHANEL

La pelle bianca cominciaa diventare un fastidio:è pallido chi non hadenaro per andareal mare. Coco Chanel,fotografata al sole,invita le donnead abbandonareguanti e ombrellino

I BAGNI DI SOLE

Nel 1930 i bagni di sole diventano il passatemponazionale. Vengonointrodotte sul mercatocreme per prevenirespellature e mantenere l’abbronzatura sul visoe sul corpo

LABBRA DA BACIAREUno stick per proteggere le labbrada scottature e screpolature e un solareche coniuga efficacia e piacevolezzacosmetica, di La Roche-Posay

È il volume di vendite(in euro) nel settore solarilo scorso anno

295mln

È il tempo in cui siconcentrano le venditedei prodotti-solari

3 mesi

Lo chiamano il «dermatologo del sole», perché è unesperto dell’abbronzatura “brasilian style”, quella chedà alla pelle un colore bruno dorato senza favorire le ru-

ghe. Antonino Di Pietro è docente all’Università di Pavia, au-tore di libri sulla bellezza e dermatologo all’ospedale di Inza-go, nel Milanese.

Professore, il sole fa bene ma dipende anche dall’uso chese ne fa.

«Certo. Chi va in spiaggia senza neanche una crema pro-tettiva è un aspirante fachiro».

Scusi, in che senso?«Pochi lo sanno ma i raggi Uv-a sono paragonabili a spilli

piantati nella pelle, vanno in profondità e distruggono il col-lagene e le fibre elastiche. Poi ci sono i raggi Uv-b, in praticadei chiodi che scatenano l’eritema. Gli aspiranti fachiri ab-bondano tra i maschi che considerano il “rito della crema” unesercizio femminile da evitare accuratamente».

Le donne, invece, eccedono. Nelle loro sacche da spiaggiac’è la crema ad altissima protezione per il viso, quella a scu-do per le labbra, quell’altra per il contorno occhi. E poi an-cora: la crema per il decolletè, quella specifica per l’internocoscia...

«È così. Comunque, eccedere in creme è sempre meglio chenon usarle. C’è però un problema: le donne, spesso, sono sta-canoviste della tintarella e prendono il sole anche nelle oresbagliate».

Quali sono?«Da mezzogiorno alle due del pomeriggio. In queste due

ore il sole picchia in testa e fa malissimo. Per evitare di am-mazzare la pelle basterebbe ricordare che il sole è buono e sa-no quando la nostra ombra si allunga sulla spiaggia. Se non lavediamo, né a destra né a sinistra, ripariamoci sotto un per-golato».

Altre regole da ricordare?«“Friggere” in spiaggia non fa mai bene. Gli infrarossi sono

raggi che creano un “effetto forno” sul corpo, scaldano la pel-le e la vasodilatazione galoppa. Le vene delle gambe ne risen-tono e la couperose dilaga. Bisogna nuotare e fare docce fre-quenti, così si mantiene sotto controllo la temperatura cor-porea. E portate con voi uno spruzzino pieno di acqua mine-rale e ghiaccio, da nebulizzare sulla pelle. È un vero piacere esi evitano le rughe».

Però nel suo ultimo libro, La bellezza autentica (Sperling& Kupfer editore), lei sostiene che bellezza non è un viso sen-za rughe.

«Io sono contro la chirurgia estetica e il botulino che tra-sformano i visi delle donne in facce da circo. Le rughe si pos-sono curare in maniera più naturale con iniezioni di acido ia-luronico che, tra l’altro, aiuta le cellule a rinnovarsi. Ma il ve-ro problema è evitare tutto ciò che accelera la formazione dirughe devastanti: il fumo, il caffè, lo stress, il sole a go-go».

Qual è la ricetta per una perfetta abbronzatura brasiliana?«Il colore bruno è dato dalla melanina e la doratura è meri-

to del betacarotene che si ottiene mangiando frutta e ortaggidi stagione colorati. Ma attenzione. Il rito del sole richiede unpiccolo sacrificio. Un mese prima della vacanza sarebbe be-ne fare una dieta vegetariana e disintossicarsi. Solo così si evi-tano macchie, rossori e eritemi».

“La pelle perfetta?Più dieta che spiaggia”

Il dermatologo Antonino Di Pietro

LAURA ASNAGHI

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l’incontroNel nome della legge

SILVANA MAZZOCCHI

L’AIA

Testarda, ostinata, compe-tente. Una che non molla lapresa. Una tosta, che va fi-no in fondo. Una che, se ti

punta, sei spacciato. Una che vive blin-data e non se ne lamenta. Una che nonha paura. Una che al fascino della sfidaimmola senza rimpianti tutta se stessa.Una di ferro, insomma. Una che ti par-la sorridendo, ma che è ghiaccio invul-nerabile. Carla Del Ponte, classe ‘47,svizzera del Canton Ticino, da sei anniprocuratore del Tribunale internazio-nale delle Nazioni Unite contro i crimi-ni di guerra per l’ex Jugoslavia e grandeaccusatrice di Slobodan Milosevic, lasua fama di una che si spezza ma non sipiega se la porta dietro da tempo. Daquando, sul finire degli Ottanta, conl’inchiesta contro il narcotraffico “Piz-za Connection”, legò il suo nome allalotta contro il riciclaggio del denarosporco e la criminalità organizzata dimezza Europa. Temuta dalle banchesvizzere poco inclini a discriminarel’odore dei soldi, aveva collaboratocon Giovanni Falcone che di lei dicevaammirato: «Carla non cede mai, è l’o-stinazione fatta persona». Un marchioche l’ha seguita a Berna dal ‘94 in poi,anni in cui da procuratore generaledella Repubblica Elvetica ha fatto tre-mare più di un potente della Tangen-topoli internazionale.

Non stupisce che una così tenga be-ne in vista nel suo ufficio il poster«Wanted» con le foto dei dieci latitantiche mancano per completare i proces-si contro i massacratori della guerranei Balcani. Perché lei coltiva una spe-ranza sopra ogni altra. «Che sia fattagiustizia. E che i più alti responsabilidei crimini contro l’umanità siano fi-nalmente giudicati». Aspetta con tena-cia la resa dei conti e si augura che, en-tro l’11 luglio prossimo, decimo anni-versario della strage di Sebrenica, otto-

mila morti solo maschi, la Bosnia si de-cida finalmente a consegnare i massi-mi responsabili di quello e di altri ecci-di: Radovan Karadzic, ex capo dei ser-bi bosniaci; e il generale Ratko Mladic,capo militare. Due che «purtroppolaggiù sono ancora protetti da tutti. Eforse, chissà, la Croazia che vuole en-trare in Europa, prima o poi ci man-derà Ante Gotovina, un altro militared’alto grado accusato di crimini con-tro l’umanità».

Una donna così che idea ha della vi-ta che non è lavoro? Sorride Carla DelPonte, tranquilla, elegante, giacca im-peccabile di lino beige e orecchini lu-minosi e discreti. Siede cordiale al ta-volo delle riunioni nell’ufficio dellapalazzina bunker dell’Onu, quasi lasua seconda casa. Una stanza di cin-que metri per quattro dove passa do-dici ore al giorno, beve caffè nei bic-chieri di carta e mangia a pranzo unamela, perché andare al ristorante ètroppo complicato tanto è affollata lascorta che ha. Ammette senza ram-marico: «Io non ho tempo libero, manon conosco la noia; ho cambiatospesso attività e affronto continua-mente nuove esperienze». Rilancia:«Immagina la soddisfazione di discu-tere un problema di diritto con i magi-strati di una settantina di paesi?». Siconcede un vezzo di umiltà: «Non homai programmato la mia carriera, fos-se stato per me sarei sempre rimastaprocuratore a Lugano». Pubblico ac-cusatore, anzi accusatrice. Il suo pal-lino, la sua vocazione. E ammette DelPonte che, quando cominciò a farel’avvocato sul finire degli anni Settan-ta, sognava solo di non dover esserepiù difensore di chicchessia.

Racconta: «Fin dall’università eroappassionata di diritto penale. Avevoun professore bravissimo, PhilippeGravin, che mi ha trasmesso la vogliadel penale, una disciplina che ha unacomponente umana affascinante. Mal’avvocato non era il mio mestiere:guardavo i dossier, vedevo le prove eandavo dall’accusato in carcere a dire,devi confessare. L’imputato magari sidichiarava innocente, ma io niente…ero un pessimo difensore», sorridecompiaciuta. A Lugano diventa procu-ratore nel 1981. All’epoca, nel tribuna-le d’appello, al penale c’è soltanto unadonna magistrato; lei è la seconda e sibutta a capofitto nel lavoro che ha vo-luto. Due mariti e un figlio maschio,ora ventottenne e giornalista in Sviz-zera. «Ho divorziato due volte, ed ènormale quando la donna, madre emoglie, rientra ogni sera dopo il mari-to» ma il suo tono non denuncia ram-marico. Adesso vive sola e dice che nonle pesa. «Le mie giornate sono tutteprogrammate e, per il tempo che resta,io sto bene con me stessa».

Di lei si sa che ama il golf. Solo unpassatempo, possibile? «Gioco duran-te il fine settimana o la sera, visto chequi al nord d’estate c’è luce fino a tar-

sembra etico. Preferisco stare in casa,magari invito qualcuno a cena. È piùsemplice».

«Vivo così da una dozzina d’anni e lamia vita mi piace. È questa, la accetto.Le mie giornate sono pienissime e ognitanto la tranquillità mi fa bene». Un po’di tv; al cinema l’ultima volta è stato aNew York. «Sarà stato tre anni fa. Con lamia portavoce Florence andammo avedere Beautiful mind e con noi comesempre c’era anche la scorta, Fbi com-presa. Ricordo bene, fu un supplizio. Ilfilm era noioso e noi saremmo voluteuscire prima della fine, ma sarebbe sta-to un tale trambusto che ci è toccato ri-manere inchiodate lì fino alla fine».

Conferma di essere testarda e «mol-to determinata». Ricorda quando nel‘94, chiamata dal ministro della Giu-stizia svizzero, arrivò a Berna da pro-curatore generale. Chiosa con orgo-glio: «Le mie funzioni erano molto li-mitate, almeno per i reati di tipo fede-rale. Ma io ho lottato per cinque annie ho convinto il governo e il parla-mento finché ho ottenuto una com-petenza federale più estesa per il rici-claggio e il crimine organizzato». Sor-ride con una punta di malizia: «Pen-sare che le banche svizzere erano sta-te così contente di avermi fatto met-tere da parte. E invece…».

Ancora una sfida vinta, ma non l’ul-tima. «Nel giugno del ‘99 il governo delmio paese mi comunicò che mi avreb-bero proposta come procuratore alTribunale internazionale dell’Aia.Venni avvertita che non avevo alcunapossibilità. La Svizzera, che all’epocanon era ancora nell’Onu, doveva co-munque presentare un nome. Con-vinta di non rischiare, risposi con un“va bene”. Un mese dopo, in luglio,mentre ero in vacanza in Italia, in To-scana, leggo su un giornale che KofiAnnan mi ha proposto come candida-ta. Quasi subito mi chiamano da Bernaper dirmi che Annan mi vuole vedere.Volo a New York decisa a rifiutare: ave-vo appena ottenuto dal Parlamentosvizzero le agognate competenze fe-derali per la lotta al riciclaggio e avevoancora molte partite aperte. Non vole-vo certo mollare tutto a metà. IncontroAnnan e gli chiedo tempo per riflette-re. Lui me lo concede, ma solo una set-timana. Dice: “Vengo a Ginevra e midai una risposta”. Alla fine ho detto sì».

Obbedienza istituzionale o sedottadall’ennesima sfida? «Tutte e due lecose. Fatto sta che sono venuta qui perincontrarmi con il procuratore uscen-te, Louise Arbour. Il giorno dopo sonorientrata a Berna e ho lavorato fino al14 settembre. Il 15, mi sono chiusa laporta di casa alle spalle e mi sono tra-sferita. Qualcun altro ha organizzato ilmio trasloco. All’Aia ho trovato casasoltanto dopo sei mesi».

Non facili i primi tempi in Olanda.«In principio ho molto rimpianto diaver accettato. L’impatto con la strut-tura, tutte quelle persone da organiz-

di. Ho ripreso per puro caso. È statoquando ero procuratore anche del Tri-bunale per i crimini del Rwanda (finoal dicembre 2003). Andavo in Africa, inTanzania, per due-tre settimane ognidue mesi e il sabato e la domenica nonc’era nulla da fare. Di fronte al mio al-bergo c’era un bel campo da golf e fu lapresidente del tribunale a invitarmi. Ilgolf è relax totale; ti concentri solo suquella maledetta pallina e non pensipiù a niente altro».

Una così, tutta sfide e tenacia, ap-prezza il relax? Lei corregge il tiro:«Giocare bene a golf è una questione dicervello all’ottanta per cento. E, se per-di, te la devi prendere solo con te stes-sa». Per il resto, quando se lo può per-mettere, sceglie la solitudine. «E leggo,soprattutto carte di lavoro, fascicoli».E ogni tanto, prima di dormire, qual-che libro «ma d’evasione, leggero. Pos-so leggere in quattro lingue, ma prefe-risco l’italiano. Mi piace Andrea Ca-milleri, adesso ho sul comodino Gli in-toccabili». Quanto a uscire la sera, nonse ne parla quasi mai: «Spostare lascorta per questioni private non mi

zare, seicento nell’ufficio dell’Aia equattrocento in quello del Rwanda;passavo le giornate in riunione. E a stu-diare, sapevo così poco dei reati control’umanità. E poi doversi incontrarecon magistrati di tanti paesi e usarel’inglese, sempre. Fra gente di tutti glistati, che parla almeno una decina di ti-pi d’inglese. Affrontare problemi diogni genere. Andavo in Tanzania ognidue mesi. E anche lì una montagna didifficoltà. Ero disperata, anzi no, misentivo impantanata, bloccata. All’e-poca Milosevic era ancora il presiden-te della ex Jugoslavia e io mi dicevocontinuamente: come faccio a portar-lo in giudizio?».

Nel 2000 il disappunto è già un ri-cordo e Del Ponte timona le inchiestecon sicurezza. Milosevic viene conse-gnato un giovedì del luglio 2001 e nelfebbraio successivo compare allasbarra in Tribunale. Il confronto con lagrande accusatrice riempie i giornalidel mondo. «La più grande soddisfa-zione però me la sono presa nell’unicofaccia a faccia privato che ho avuto conlui», racconta. «Un giorno lo incontroin carcere dopo l’udienza. Milosevic sisentiva ancora un capo di Stato, men-tre io volevo fargli capire che, sebbenefosse un presidente, era accusato dicrimini gravissimi. Gli ho detto: “Se-condo le regole di procedura io possointerrogarla. E se lei si vuole difendere,sono pronta”. È andato su tutte le fu-rie; si è messo a urlare che le regole leconosceva tanto bene da sapere chenon solo poteva rifiutare di risponder-mi, ma perfino di ricevermi. Aveva co-minciato in inglese, poi nella rabbiaera passato al serbo. Allora l’ho inter-rotto. E che soddisfazione... ho chiestoforte: “Portatemelo via”. L’ho rivistosoltanto in aula».

Il Tribunale per i crimini dell’ex Ju-goslavia dovrebbe chiudere i suoi la-vori tra il 2008 e il 2010. «All’appellomancano ancora dieci imputati im-portanti. Io farò l’impossibile per por-tare tutti i processi alla conclusione».Ci si può credere.

L’ex leader serbo?Mi urlava contronell’unicofaccia a facciaprivatoche ho avuto con lui.Mi sono presala soddisfazionedi dire alle guardie:“Portatemelo via”

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‘‘È la grande accusatrice di Milosevic.Una donna di ferro, che se ti puntasei spacciato. Ma stavolta accettadi raccontare se stessa, il golf e i libridel poco tempo libero, le passeggiate

e i film sempre più rariperché la scortaè troppo ingombrante,i due divorzi (“normalequando la donnarientra sempre dopoil marito”), la scopertache anche da soli

si può stare bene. E la vogliatestarda di portare alla sbarratutti i criminali dell’ex Jugoslavia

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