D Laomenica - download.repubblica.itdownload.repubblica.it/pdf/domenica/2009/06122009.pdf · padre...

14
DOMENICA 6 DICEMBRE 2009 D omenica La di Repubblica l’incontro Paolo Sorrentino, la malinconia creativa SILVANA MAZZOCCHI cultura Il K2 e il Duca degli Abruzzi STEFANO MALATESTA l’attualità Il ritorno dei lupi metropolitani PAOLO RUMIZ le tendenze Profumi, la primavera sulla pelle LAURA LAURENZI PARIGI « Q uando si ha un genitore celebre come il mio, ai figli resta molto poco del padre. Per questo mi esprimo il meno possibile, cercando di tenere per me la dimensione privata della nostra sto- ria». Inizia così la conversazione con Catherine Camus, la figlia del- l’autore de La peste e Lo straniero, di cui il 4 gennaio prossimo ricor- rerà il cinquantesimo anniversario della scomparsa. Di Albert Ca- mus, premio Nobel per la letteratura morto in un incidente d’auto a soli quarantasei anni, in questi giorni in Francia si parla molto, an- che perché la proposta di Nicolas Sarkozy di trasferirne le spoglie nel Pantheon ha suscitato accese discussioni. In questi stessi giorni la figlia dello scrittore, che vive in Provenza nella casa acquistata dal padre poco prima del tragico incidente, manda in libreria un bellis- simo libro, ricco di foto e documenti, intitolato Albert Camus, soli- tarie et solidarie. E in occasione di tale pubblicazione ha accettato di parlare, benché per ora non desideri intervenire nel dibattito susci- tato dalla proposta del presidente: «È un’iniziativa che non mi aspet- tavo assolutamente», ammette con franchezza. (segue nelle pagine successive) FABIO GAMBARO I l 4 gennaio 1960, sulla Statale 5, a ventiquattro chilometri da Sens, la potente Facel-Vega dei Gallimard sbanda, sbatte contro un platano e rimbalza sfasciandosi. Albert Camus muore sul colpo. Alla guida Michel Gallimard, il nipote del- l’editore, è gravissimo; muore in ospedale cinque giorni dopo. Le due donne Gallimard sul retro restano indenni; il loro cane non vie- ne ritrovato. Sul cruscotto, l’orologio è fermo alle 13.30: è ministro della cultura uno scrittore, Malraux, che alla notizia spedisce im- mediatamente un segretario a ritirare la borsa di Camus, che il sin- daco di Sens ha trovato accanto all’auto. Nella borsa c’è in effetti un manoscritto, centoquaranta fogli coperti da una scrittura fitta e senza cancellature: è il romanzo Il primo uomo. Ad Algeri, la madre illetterata di Camus — la «donna che non pensa», che in casa, col suo amore «minerale», «passava il tempo a seguirlo con gli occhi» — come al solito non piange: « È troppo giovane», dice solo (Camus aveva quarantasei anni). Piange la gente per le strade di Parigi, no- ta con un po’ di stupore Queneau, della casa editrice Gallimard, dove si decide di non pubblicare Il primo uomo. (segue nelle pagine successive) DARIA GALATERIA i sapori La cassoeula ovvero Milano da mangiare DARIO FO e LICIA GRANELLO spettacoli Biancaneve e i cinquanta nani LUCA RAFFAELLI e MICHELE SERRA mio padre Camus Il 4 gennaio 1960 la morte del grande scrittore francese Oggi le polemiche innescate da Sarkozy sulle sue spoglie Parla la figlia: “Un uomo solo” FOTO © COLLECTION CATHERINE ET JEAN CAMUS, FONDS ALBERT CAMUS, BIBLIOTHÈQUE MÉJANES AIX-EN-PROVENCE, DIRITTI RISERVATI Repubblica Nazionale

Transcript of D Laomenica - download.repubblica.itdownload.repubblica.it/pdf/domenica/2009/06122009.pdf · padre...

DOMENICA 6DICEMBRE 2009

DomenicaLa

di Repubblica

l’incontro

Paolo Sorrentino, la malinconia creativaSILVANA MAZZOCCHI

cultura

Il K2 e il Duca degli AbruzziSTEFANO MALATESTA

l’attualità

Il ritorno dei lupi metropolitaniPAOLO RUMIZ

le tendenze

Profumi, la primavera sulla pelleLAURA LAURENZI

PARIGI

«Quando si ha un genitore celebre come il mio, aifigli resta molto poco del padre. Per questo miesprimo il meno possibile, cercando di tenereper me la dimensione privata della nostra sto-

ria». Inizia così la conversazione con Catherine Camus, la figlia del-l’autore de La pestee Lo straniero, di cui il 4 gennaio prossimo ricor-rerà il cinquantesimo anniversario della scomparsa. Di Albert Ca-mus, premio Nobel per la letteratura morto in un incidente d’auto asoli quarantasei anni, in questi giorni in Francia si parla molto, an-che perché la proposta di Nicolas Sarkozy di trasferirne le spoglie nelPantheon ha suscitato accese discussioni. In questi stessi giorni lafiglia dello scrittore, che vive in Provenza nella casa acquistata dalpadre poco prima del tragico incidente, manda in libreria un bellis-simo libro, ricco di foto e documenti, intitolato Albert Camus, soli-tarie et solidarie. E in occasione di tale pubblicazione ha accettato diparlare, benché per ora non desideri intervenire nel dibattito susci-tato dalla proposta del presidente: «È un’iniziativa che non mi aspet-tavo assolutamente», ammette con franchezza.

(segue nelle pagine successive)

FABIO GAMBARO

Il4 gennaio 1960, sulla Statale 5, a ventiquattro chilometri daSens, la potente Facel-Vega dei Gallimard sbanda, sbattecontro un platano e rimbalza sfasciandosi. Albert Camusmuore sul colpo. Alla guida Michel Gallimard, il nipote del-

l’editore, è gravissimo; muore in ospedale cinque giorni dopo. Ledue donne Gallimard sul retro restano indenni; il loro cane non vie-ne ritrovato. Sul cruscotto, l’orologio è fermo alle 13.30: è ministrodella cultura uno scrittore, Malraux, che alla notizia spedisce im-mediatamente un segretario a ritirare la borsa di Camus, che il sin-daco di Sens ha trovato accanto all’auto. Nella borsa c’è in effetti unmanoscritto, centoquaranta fogli coperti da una scrittura fitta esenza cancellature: è il romanzo Il primo uomo. Ad Algeri, la madreilletterata di Camus — la «donna che non pensa», che in casa, colsuo amore «minerale», «passava il tempo a seguirlo con gli occhi»— come al solito non piange: « È troppo giovane», dice solo (Camusaveva quarantasei anni). Piange la gente per le strade di Parigi, no-ta con un po’ di stupore Queneau, della casa editrice Gallimard,dove si decide di non pubblicare Il primo uomo.

(segue nelle pagine successive)

DARIA GALATERIA

i sapori

La cassoeula ovvero Milano da mangiareDARIO FO e LICIA GRANELLO

spettacoli

Biancaneve e i cinquanta naniLUCA RAFFAELLI e MICHELE SERRA

mio padreCamus

Il 4 gennaio 1960 la mortedel grande scrittore franceseOggi le polemiche innescateda Sarkozy sulle sue spoglie

Parla la figlia: “Un uomo solo”

FO

TO

© C

OLLE

CT

ION

CA

TH

ER

INE

ET

JE

AN

CA

MU

S, F

ON

DS

ALB

ER

T C

AM

US

, BIB

LIO

TH

ÈQ

UE

JAN

ES

AIX

-EN

-PR

OV

EN

CE

, DIR

ITT

I RIS

ER

VA

TI

Repubblica Nazionale

la copertinaAnniversari

Il 4 gennaio di cinquant’anni fa moriva in un incidente stradaleil grande scrittore francese. Il presidente Sarkozyvorrebbe, tra le proteste, trasferirne le spoglie al PantheonOra la figlia Catherine racconta chi era in privatol’uomo che sosteneva che il mondo è assurdoMa che non per questo bisogna smetteredi lottare contro le ingiustizie

40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 6DICEMBRE 2009

(segue dalla copertina)

«All’inizio, ho pensa-to che ciò avrebbepotuto rappresen-tare una sorta di ri-conoscimento pertutti gli umili che

mio padre ha sempre difeso. Un rico-noscimento anche per mia nonna, unadonna che ha conosciuto la povertà e lasofferenza. Poi però mi sono resa contoche le cose erano più complicate. Così,dato che per il momento ho troppi dub-bi, preferisco non esprimermi, tenen-domi lontana dalla polemica. So cheprima o poi dovrò parlare, ma lo farò so-lo quando avrò le idee più chiare. Peruna figlia non è facile accettare la riesu-mazione del padre, ma Camus è un uo-mo pubblico e i suoi libri appartengonoa tutti. Io non voglio imporre nulla anessuno, non sono la guardiana deltempio, anche perché il tempio non esi-ste. Quando mi sentirò meno implicataaffettivamente, dirò come la penso, an-che se allora, forse, il mio punto di vista

non interesserà più».In questi giorni, molti ricordano il

carattere libertario di suo padre. Ancheper lei resta un tratto fondamentale?

«Certo, era uomo libero, ma per lui lalibertà non esisteva senza la responsa-bilità. Ricordava spesso che occorresempre assumersi la responsabilitàdelle proprie scelte, delle azioni comedelle parole. Si tratta di una forma di ri-spetto nei confronti degli altri. È unprincipio su cui insisteva molto anchein casa. Nella vita quotidiana, infatti,cercava di trasmetterci i valori presentinelle sue opere. Per noi, il peccato capi-tale era il non rispetto degli altri».

L’uomo privato, quindi, non era di-verso da quello pubblico?

«Io non ho conosciuto l’uomo pub-blico, perché, fino al giorno della suamorte, in realtà non sapevo che fossecelebre. In casa, eravamo protetti dallasua celebrità».

Nemmeno al momento del Nobel?«Non avevamo né radio né televisio-

ne, quindi la notizia non ci colpì più ditanto. Mi disse che sarebbe andato inSvezia, ma per me non era un fatto par-ticolarmente importante. Mi ricordoche gli chiesi se esistesse anche un No-

bel per gli acrobati, e siccome mi rispo-se di no, non diedi più di tanta impor-tanza alla cosa. Avevamo l’abitudine diuna vita semplice».

Nel suo libro pubblica una letterainedita a Nicola Chiaromonte, doveCamus ammette che la notizia del No-bel l’ha gettato nel panico...

«Pensava di essere troppo giovane.Aveva solo quarantatré anni e stava at-traversando un periodo molto difficile,dato che il mondo intellettuale pariginolo aveva emarginato. Inoltre, il Nobelrendeva ancora più profonda la distan-za tra la realtà da cui veniva e lo scritto-re che era diventato. Non bisogna maidimenticare le sue origini popolari. InAlgeria, era un bambino di strada, per ilquale la lingua francese era stata unaconquista. La celebrità rischiava dischiacciarlo e non lasciargli più spazioper un’esistenza sua».

Trascorreva molto tempo con figli?«Aveva molti impegni pubblici, ma

riusciva a essere presente nella nostravita. Era un padre bravissimo, capace didarci molta sicurezza. Era un uomo di-vertente e pieno d’ironia. Ci faceva ri-dere, preparava da mangiare, giocava apallone. Era pieno di vita. Ricordo mio

padre come un uomo felice. Una voltalo vidi triste e gli chiesi perché. Lui mi ri-spose che era solo. Dovevo avere noveanni e non sapevo come dirgli che conme non sarebbe mai stato solo. Ma do-veva essere veramente molto solo, perdirlo a me. Era probabilmente poco do-po la pubblicazione de L’uomo in rivol-ta».

Quel libro produsse la rottura conSartre. Ne soffrì molto?

«Erano amici e quindi ne soffrì, macredo che la rottura avvenne più peropera di Simone de Beauvoir che di Sar-tre, che mio padre considerava un uo-mo generoso. La polemica lo ferì, per-ché, più ancora del libro, gli attacchi mi-ravano a lui personalmente. Molti si al-lontanarono da lui. Solo alcuni amici glirimasero vicini, come Nicola Chiaro-monte, Ignazio Silone, René Char oLouis Guilloux».

La sua denuncia dello stalinismo fumolto osteggiata?

«Fu un vero scandalo, fu accusato diessere di fatto un alleato della destra.Per mio padre ciò che contava era la di-gnità umana, indipendentemente da-gli schieramenti politici. Si ponevasempre dal punto di vista dell’uomo e

La madreDavanti a mia madre,sento che sono di una razzanobile: quellache non ambisce a nullaA vent’anni, povero e nudoho conosciutola vera gloria:mia madreDa QUADERNI 1949-1959

La vita segreta di un Nobel“Lasciato solo, ma felice”

FABIO GAMBARO

L’assurdoIl mondo è assurdo;si pone allora la domanda:vogliamo accettarela disperazionesenza far nulla?Suppongo che nessunuomo onesto possarispondere di sì

Da QUADERNI 1935-1948

BAMBINOCamus a due anni

IL LIBRO

Albert Camus, solitarie

et solidarie (Michel Lafon, 208 pagine, 39,90 euro)è il libro di Catherine Camususcito in Francia. Contiene fotografie e documenti ineditiLe foto sono qui pubblicateper gentile concessionedella Collection Catherineet Jean Camus, Fonds AlbertCamus, Bibliothèque MéjanesAix-en-Provence, diritti riservati

‘‘

‘‘

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 6DICEMBRE 2009

La nobiltà della miseriala sua unica fede

DARIA GALATERIA

(segue dalla copertina)

Il romanzo era bellissimo e Camus — dopo Kipling,il più giovane premio Nobel della storia — amatis-simo nel mondo. Ma in casa editrice — consultati

gli intellettuali di riferimento — ritennero inopportu-na la diffusione di quel libro. Il primo uomo era la ri-sposta di Camus al problema algerino, che dal 1954squassava Francia e Algeria, ed è stato un laboratoriodei conflitti che, a cinquant’anni dal pomeriggio diquell’incidente, agitano la nostra epoca. Da tre anni,Camus, che pure «aveva male all’Algeria, come si hamale ai polmoni», taceva.

Il primo uomo è un po’ suo padre, uno dei primi co-loni in Algeria; nel 1914, quando Albert ha un anno,muore nella battaglia della Marna. La madre, Catheri-ne, è tornata, quando il marito è partito in guerra, dal-la mamma: tre stanze senza acqua né elettricità, in cuivivono anche due fratelli di Catherine e, a un certopunto, una nipote. «Nessuno intorno a me sapeva leg-gere; tenetene conto», raccomandava Camus. Nel ro-manzo è la nonna che comperava le scarpe, che «spe-rava immortali», e che ferrava con grossi chiodi coniciperché la suola non si consumasse. Ogni sera, il bam-bino doveva dimostrare di non averle usurate giocan-do a calcio sul cemento; quando le suole si staccavano,le legava con un laccio, ma erano «le sere del nerbo dibue»: «Lo sai che costano». I vestiti, per durare, eranotroppo grandi, e il bambino era costretto a sbuffare invita l’impermeabile, stringendo bene la cintura — tan-ti anni dopo, a New York, chiamavano Camus, perquell’abitudine, «il piccolo Bogart» (gli assomigliava ineffetti; era solo molto più alto, e, con la sua «aria da ga-ragista», più bello).

La miseria era già una prima risposta alla guerrad’Algeri; i poverissimi si confondono, e ci guadagnanoa fraternizzare. Camus aveva sognato perciò un popo-lo algerino autonomo, e federato con quello dei picco-li coloni francesi (i grandi andavano beninteso elimi-nati; personalmente Camus aveva difeso i militanti delFnl imprigionati e torturati). Ma i due campi si eranospecializzati, rispettivamente, in terrorismo e napalm.Alla consegna del Nobel, un algerino aveva chiesto aCamus di pronunciarsi in favore della causa d’Algeria;lui aveva risposto: «Tra la giustizia e mia madre, scelgomia madre» — che era una citazione distorta di Do-stoevskij, e anche una testarda protesta contro la vio-lenza, a protezione del più debole, che era ancora lamadre. Ma la frase non gli fu perdonata.

Quando, prima che gli scoprissero la malattia ai pol-moni, Camus giocava a calcio, era portiere. Aveva im-parato una grande lezione, che il pallone non arrivamai da dove ce lo si aspetta. Anche gli attacchi gli era-no venuti sempre dai più vicini. All’uscita de L’uomo inrivolta, Sartre aveva attaccato il saggio, con le sue de-nunce di Stalin; tutto il suo gruppo aveva rotto con Ca-

mus. Camus soffriva di «pene d’amicizia,come si hanno pene d’amore».

« Soffri?», gli aveva chiestola figlia Catherine, veden-do il padre assorto: «No, so-no solo», gli aveva rispostoCamus. Lo splendido filo-sofo Merleau-Ponty, cinqueanni dopo quella lacerazio-ne, leggendo dei gulag, si eraricreduto. C’è da impararequalcosa anche a rileggere og-gi Actuelles III, che raccoglie gliarticoli di Camus sull’Algeria.

Ora, a cinquant’anni dallamorte, Catherine Camus pub-blica un ritratto dal titolo AlbertCamus, solitaire et solidaire (Mi-chel Lafon, 208 pagine, 39,90 eu-ro) tutto intessuto di foto e di do-cumenti, a volte inediti, di quelsuo padre «vertiginoso». Vediamola casa dei coloni Camus, di primi-tiva semplicità; seri e composti, ilmaestro Germain e il professorGrenier, che lottano per convincerela nonna e il ragazzo a fargli conti-nuare, con le borse, gli studi; e poi ilsole, il teatro, le donne (Jean Grenier

rimproverava a Camus «l’ossessione freudiana per iseni»), le battaglie del giornalismo, in maniche di ca-micia, ad Algeri e a Parigi; la Resistenza e Combat, fo-glio clandestino; gli anni del Lo stranieroe La peste, colsuo enorme successo, a milioni di copie; il lavoro daGallimard, e gli intellettuali di Parigi; a Stoccolma peril Nobel, con lo smoking affittato a rue de Buci; la ma-dre di straziante cartapecora; e poi Camus in vacanzanel Lubéron col grande poeta Char (Gallimard festeg-gia Camus con un suo inedito itinerario con Char at-traverso il paese di quelle estati, foto di Henriette Grin-dat, 80 pagine, 22,50 euro; e, a seguire, la corrispon-denza con Michel Gallimard, mentre dai BouquinsLaffont Jean Yves Guérin dirige le mille pagine di unDictionnaire Camus). Non lontano da Char, Camusfinì per comperare una casa, nell’incantata Lourma-rin, dove riposa. Sarkozy ha recentemente lanciato l’i-dea di traslarlo al Pantheon. I francesi vicini a Camuspensano che sia meglio lasciare le sue ossa a scaldarsial sole di Provenza.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Gli intellettualiIn compagnia degli intellettuali,non so perché, ho semprel’impressione di avere qualcosada farmi perdonareQuesto mi toglie la naturalezza,e così, mi annoio

Da PERCHÉ FACCIO TEATRO?

LE IMMAGINIAl centro del paginone,Camus gioca con il figlioJean; accanto alla foto,lo scrittore ritratto da TullioPericoli, attorno una seriedi scatti, manoscrittie documentiIn copertina lo scrittorecon i due figli,Jean e Catherine

La povertàÈ solo il mistero della povertàche fa gli uominisenza nome e senza passatoI mutiErano e sono più grandi di me

Da IL PRIMO UOMO (appendici)

non dell’ideologia. Per questo, nelmondo intellettuale francese rimasesolo. Non faceva parte di alcun partito.Diceva sempre che l’unico partito cuiavrebbe potuto aderire era il partito diquelli che non sono mai sicuri di averragione. Il partito del dubbio. Senza di-menticare le sue origini popolari. Lamaggior parte degli intellettuali france-si erano dei borghesi che avevano fre-quentato le migliori scuole. Lui era di-verso e per di più veniva dall’Algeria, inun’epoca in cui la Francia guardava so-prattutto al nord, rimuovendo la sua di-mensione mediterranea».

Per Camus la mediterraneità era im-portante?

«Certo. Amava moltissimo la Spagna,la Grecia e soprattutto l’Italia. Per lui, ilmare e il sole erano fondamentali. Haanche scritto che gli sarebbe piaciutomorire sulla strada che sale verso Siena».

Oggi Camus è apprezzato da tutti.Non teme che l’eccesso di consenso ri-schi di imbalsamare la sua immagineribelle?

«No, perché Camus sa difendersimolto bene. I suoi scritti sono lì a pro-varlo».

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Repubblica Nazionale

l’attualitàAvvistamenti

Quattro mesi fa, il caso più clamoroso: un branco comparsoalla periferia di Bologna.Qualcuno li scambia per cani, ma sonoi loro fratelli predatori, dei samurai della caccia. Da qualchetempo, corrono paralleli alla via Emilia, in direzione Nordovest,sfiorando le città. Adesso, naturalisti e appassionati si dedicanoa riprodurne il richiamo, il “wolf howling”, in attesa di vederli

Il primo a farsibeccare, nell’estate

del 2004, sopravvissea uno scontro

sulla tangenzialedi Parma e venne

battezzato “Ligabue”

42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 6DICEMBRE 2009

MODENA

Scendono dai monti, fannotana nelle periferie, ci stu-diano nella notte, decodifi-cano il rombo delle auto-

strade e delle fabbriche; forse si prepa-rano ad attraversare la pianura ipermer-cata, tanto l’uomo non si accorge di nul-la. I lupi sono tra noi, invisibili e guar-dinghi. In pochi anni si sono abbassatidi quota, hanno trovato nuovi territoridi caccia e spazi di rendez-vous. Ora cor-rono paralleli alla via Emilia, tutti nellastessa direzione, attirati da un richiamoirresistibile a Nordovest, verso la Fran-cia e l’inizio delle grandi montagne. Leavanguardie hanno quasi ultimato il“tour” dell’arco alpino, sulla linea delPiave i loro ululati già incrociano quellidei cugini in arrivo dai Balcani. Ma è qui,tra Bologna e Piacenza, che li senti vici-ni. Lupi metropolitani.

Sera color lampone, prime stelle, fru-scio di foglie di faggio sotto i piedi. Pocoin là, la strada da Castelvetro a Scandia-no corre al limite della nebbia, sul bordodella pignatta padana, fra i capannonidella ceramica. Qui ci vuole poco perchéla notte inghiotta l’uomo. Con lo spopo-lamento in quota, terra selvaggia e cittàsi toccano, ma bastano pochi metri e leluci delle case, l’abbaiare di un cane,l’accelerata di un’automobile diventa-no cose dell’altro mondo. C’è un confi-ne netto fra il buio e la luce, e fratello lu-po lo segue. La sua autostrada passa lì.Mai tante segnalazioni come quest’an-no, da maggio in poi. Un branco a cin-que chilometri da Bologna, un maschioalle porte di Parma, nel fondovalle delPanaro, sul bordo del Secchia e nellabassa Val d’Arda. Altri sulla via Spezia ela Nuova Estense; a Collecchio, Castel-larano e lungo il corso del Crostolo. Av-vistamenti che disegnano una lineaquasi perfetta. Una frontiera.

Matteo Carletti ha trentasei anni e neha spesi tre con i lupi. Ha mollato un la-voro sicuro per studiarli nelle terre delsilenzio, sull’Appennino tosco-emilia-no. Alla fine è tornato in pianura, a unaprofessione “normale”, ma dopo quel-

l’esperienza per lui nulla è come prima.Non può più fare a meno del bosco e deisuoi inquilini invisibili. Ora è venuto achiamare il lupo nella notte. A furia diascoltare quelli che chiama i suoi“blues”, ha imparato a imitarlo: ed ec-colo cercare il posto giusto, elevato, ilpendio appropriato, piantare i piedi aterra a gambe larghe, gonfiare i polmo-ni, improvvisare un megafono con lemani ai lati della bocca e i polpastrellicongiunti sulla radice del naso, e poisparare verso le Pleiadi un ululato stra-ziante, planetario, da pelle d’oca. Una

ventina di secondi, quanto basta perprendere fiato e ripartire con un gospeldi tristezza abissale, spezzato da piccolisalti di tonalità, quasi singhiozzi.

I cani delle abitazioni vicine, che finoa poco prima hanno abbaiato in ordinesparso, segnando la topografia del ter-ritorio, ora tacciono terrorizzati. Si sen-te solo fruscio di vento, mormorio difiume, foglie morte che stormiscononella faggeta, un camion che va chissàdove. Sopra di noi stelle e la luce inter-mittente di aerei tra la Via Lattea e la cin-tura di Orione. La notte lancia mille se-

gnali, informa meglio di un gps. L’uma-nità stressata è a meno di un chilometroma da qui, dove la nebbia s’infila tra icolli come il mare nei fiordi, pare piùlontana di Marte. Nel fango-plastilinala torcia illumina tracce di cinghiali(una grossa femmina), tassi e caprioli,mostra che le prede sono scese a valle eil lupo non fa che seguirle. Matteo lan-cia un altro ululato. Ci siamo segnalati,ma il bosco richiede pazienza.

Dopo un buon minuto ecco la rispo-sta solitaria, a meno di un chilometro. Lavoce come di un’anima persa. Un ri-chiamo interminabile in levare, sidera-le, mistico come un canto gregoriano. Ilre del bosco s’interrompe, riparte, tace,ricomincia. È tranquillo, quasi olimpico.Non minaccia, avverte. Dice: levatevi ra-gazzi, che questa è casa mia. Chi ascoltaper la prima volta ha la pelle d’oca. Il pe-lo si rizza, dice Matteo, «come magnetiz-zato» da quel suono cupo e prolungato.«Una sferzata di energia, prevalente-mente di natura irrazionale». È il primoconfronto dell’uomo con un grande po-polo che cerca di resistere all’invasionedei bianchi. Come i Sioux o i Cheyenne.

Ma può esserci di meglio, molto dimeglio. «Se fosse giugno sentiresti cheroba», spiega l’uomo-lupo. È la stagio-ne degli ululati corali: la socialità deibranchi è al top, e le bestie entrano in fi-brillazione territoriale, lanciano segna-li più forti, pisciano e mollano escre-menti per segnare i confini di uno spa-zio che non ammette intrusi. Il proble-ma è che oggi il lupo non si limita a farsisentire. Oggi lo puoi anche vedere. «Neitre anni che ho passato in montagnal’ho solo sentito o ho individuato dalletracce. Vederlo era quasi impossibile.Ora è tutto cambiato». Il caso più cla-moroso è di quattro mesi fa alla perife-ria di Bologna, nel parco dei gessi dellaBadessa, un territorio di calanchi a duepassi dalla via Emilia. È apparso unbranco come in montagna non se ne ve-dono mai: dieci bestie, contro i quattro-cinque normalmente intercettati inAppennino. Due adulti e otto cucciolo-ni filmati con trappole fotografiche. Se-quenze strepitose, con i piccoli che gio-cano tra i covoni di fieno e la mammache rigurgita il cibo già semi-digerito

PAOLO RUMIZ

Lupi metropolitani

Repubblica Nazionale

Si nascondono a duecento metri

dalle case. Per loronon è la distanza

che conta:è l’inaccessibilità

dei loro campi-base

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 6DICEMBRE 2009

per i figli ancora impreparati alla caccia.Non lontano dal campo di golf sopra

Sassuolo, stabilmente frequentato dacaprioli, i predatori sono a meno di unchilometro dalle case. Il terreno è disse-minato di tracce di ungulati. Un perfet-to territorio di caccia. A settembre c’èchi ha segnalato grossi cani anche inpieno giorno, poi identificati come lupidalla diagnosi degli escrementi. Unanotte stellata di maggio una pattuglia dinaturalisti è uscita per fare il wolf how-ling — il richiamo al lupo — e dopo po-chi tentativi un maschio adulto ha ri-sposto con ululati insistenti, forti, sem-pre più ravvicinati, chiaramente mina-tori, probabilmente tesi a proteggere lafemmina e i piccoli nella tana. «Dopoquei richiami — ricorda Matteo — hovisto dei cacciatori commuoversi e ab-bracciarsi come bambini. Erano felici.Per loro era la conferma della qualitàdella loro natura... Non c’era solo il Ca-nada, ora c’era anche l’Italia...».

Pure Fabrizio Rigotto — un altro mo-denese entusiasta del re dei predatori— ha seguito i lupi sull’Appennino, dal2002 a tutto il 2004. Assieme a MatteoCarletti e altri due naturalisti ha lavora-to alla “triangolazione acustica” deibranchi, come dire l’individuazione deilupi attraverso le risposte ai wolf how-ling lanciati da punti diversi. «A queitempi in montagna — racconta — ab-biamo fatto quattromila chilometrisenza mai vedere direttamente un lupoin libertà. Solo contatti acustici. Ebbe-ne, quest’anno mi è capitato di vederneuno a cinquecento metri, a Vezzano sulCrostolo, durante un’uscita per osser-vare daini, cinghiali e caprioli. Era unabestia di grossa taglia, che ovviamenteci aveva visto benissimo e ha trottato suun crinale per quasi due minuti, perfet-tamente in vista».

«Uno l’abbiamo filmato quest’estatenella bassa Val di Taro», racconta il ve-terinario Mario Andreani che lavora perla Provincia di Parma. «Era una trappo-la fotografica per cinghiali piazzata inzona Collecchio, a meno di cinque chi-lometri dalla via Emilia: il lupo se ne an-dava bel bello alle porte della città». Im-pressionante la mappa degli investi-menti stradali: Pavullo, Fanano, bassa

Trebbia, media valle del Panaro, Vigno-la, Fidenza, Castell’Arquato. Il primo afarsi beccare, nell’estate del 2004, ven-ne battezzato “Ligabue”. Sopravvissu-to a uno scontro sulla tangenziale diParma, venne curato per qualche mesee poi liberato sulle montagne — muni-to di radiocollare — in un giorno digrande neve. Per cercarsi un territorioemigrò fin sulle Alpi Marittime e venneucciso, mesi dopo, nello scontro con unaltro lupo, probabilmente per avere in-vaso lo spazio di un altro branco. Millechilometri di libertà, per andare incon-

tro al suo destino di predatore.Ora è giorno e saliamo in montagna,

sotto il Cusna e il Cimone innevati, peresplorare quelli che, almeno fino a po-chi anni fa, erano gli spazi elettivi del lu-po. Faggete punteggiate di vampaterosso-fuoco dei ciliegi selvatici. Pren-diamo un sentiero di crinale, paralleloall’antica via Vandelli che univa il Mo-denese a Lucca. Direzione Sasso Tigno-so. In un chilometro Matteo individuatracce di volpe, cinghiale, capriolo, tas-so, lepre. Il sentiero è trafficatissimo, c’èun qualche segnale ogni metro o due. Ci

sono anche orme di un bel canide, po-trebbe essere il nostro predatore, manon si trovano conferme negli escre-menti. Quelli del lupo sono diversissimida quelli del cane, perché puzzano damorire e contengono spesso il pelo del-le prede, utile a digerire anche le ossa.Riproviamo con il wolf howling, da trepunti diversi, ma non arriva risposta.Unica reazione è il silenzio atterrito deicani che abbaiavano nei villaggi.

Tramonta. All’osteria “Al capanno-ne”, un delizioso posto all’antica convermouth chinato e maraschino ai bor-di della statale dell’Abetone e del Bren-nero, i quattro compari della briscolasentenziano in dialetto che «lupi non sisono sentiti». La Maria al bancone con-ferma. Ma forse i nostri eroi hanno soloimparato a nascondersi meglio. Neiprati giusto sotto l’osteria i cervi e i ca-prioli vengono ancora sul far della sera,dunque anche i predatori dovrebberoesserci. Lo sa bene la Flavia Landi, ap-passionata naturalista in zona Pievepe-lago, che già dieci anni fa ha segnalatoun esemplare sulla strada per il LagoSanto, e nessuno le credeva. L’ultimol’ha beccato due mesi fa sul Monte Nu-da. I lupi si nascondono, magari a due-cento metri dalle case. Per loro non è ladistanza che conta: è l’inaccessibilitàdei loro campi-base. Il problema è chefino al 2004 i loro territori erano stan-ziali. Oggi, senza un monitoraggio, nes-suno sa più dove sono andati a finire.Sono diventati doppiamente invisibili.

A volte ricompaiono, in montagna,per sbranamenti segnalati dai pastori.Ma spesso l’assalto non viene affatto dalupi. Oggi il nuovo flagello sono i cani li-beri, quelli con doppia vita. Quieti in ca-sa di giorno e predatori la notte. La diffe-renza fra i due è abissale. Il lupo nonsbrana per uccidere: è un chirurgo che tifa secco con un solo morso al seno caro-tideo. Il lupo è un samurai della caccia.Il cane invece è un principiante: dilaniaprima di divorare, le carcasse delle sueprede sono piene di orrendi ematomi.Ma gridare “al lupo” conviene, perché fanotizia e poi arriva il risarcimento pub-blico. Così oggi il suo fantasma è ovun-que. Anche dove non è mai passato.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

LE IMMAGININella sequenza fotografica realizzata da Alessandro Rinaldi,i lupi avvistati in zona Castellarano, sull’Appennino emiliano

FO

TO

CO

RB

IS

Repubblica Nazionale

Gentiluomo, viaggiatore, candidato al trono d’Ungheria, uomocarismatico e dotato di una volontà di ferro. Cent’anni fa Luigi Amedeoportò a termine la sua più grande impresa: dopo i ghiacci del Polo Nord

e le vette africane, si misurò primo al mondo con il K2e toccò l’altitudine-recorddi 7.500 metri. Ora un convegno e un prezioso volume della Società Geografica lo celebrano

44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 6DICEMBRE 2009

cognizioni trigonometriche dell’Indian Survey. Dopo essere sta-ta ignorata per secoli, era tornata al centro dell’attenzione di in-glesi e russi durante gli anni del Great Game, quando era statapercorsa, nelle sue vallate, da spie mascherate da geografi e damilitari britannici.

Salire a rischio della vita su per queste montagne non accre-sceva di molto la nostra coscienza geologica e poteva attirare ilsospetto della futilità. Ma gli inglesi avevano trasformato questoquotidiano lavoro da guida valdostana in una vacanza indimen-ticabile, che attirava molto gli snob dell’avventura. Gli asiatici cheabitavano nell’immenso plateau dell’Asia centrale non si eranomai sognati di scalare quelle cime, ritenute luoghi sacri (il nometibetano di Everest è Chomolungma, la Dea Madre del Mondo).Mentre gli inglesi avevano una debolezza per le imprese difficili,realizzate in luoghi che più pericolosi erano, meglio andava.

Il Duca degli Abruzzi era uno di loro: il tipo di piemontese checredeva al valore taumaturgico del passeggiare in altitudine,qualcosa che aveva a che fare più con il rigore morale che con laforza fisica. Una delle più vistose differenze tra le spedizioni del-l’epoca vittoriana e di quella edoardiana riguardava l’accesa ri-valità tra gruppi di diverse nazioni, che aveva ridotto i viaggi a di-ventare una sorta di vetrina delle supposte qualità nazionali. Per-sonaggi come Stanley, e in un senso diverso come il Duca degliAbruzzi, si erano molto allontanati dalla emaciata figura dei mar-tiri della geografia alla Livingstone, stroncati dalla malaria o dal-le infinite malattie che infestavano l’Africa. In particolare il Ducaera in una posizione tale di status personale e di rendita econo-mica, da lasciarsi andare alla sua passione per le montagne sen-za porsi troppi problemi. Da ragazzo era salito su quasi tutti iquattromila europei e dopo l’incontro con un grande scalatore eottimo economista, l’inglese Mummery, si era convinto che la ve-ra sfida era con il Nanga Parbat: un gigante al cui cospetto le mon-tagne nostrane sembravano dei paracarri, che presentava unaparete assolutamente liscia lunga più di tremila metri.

Ma l’Himalaya dovette aspettare qualche anno: per la sua pri-ma ascesa fuori del territorio italiano il Duca scelse il Monte St.Elias in Alaska, accompagnato da Umberto Cagni, intrepido ebellissimo ufficiale di marina; da Vittorio Sella, che aveva fonda-to il Club alpino italiano nel 1863 e che è considerato il più gran-de fotografo di montagna di tutti i tempi; e da un medico ditrent’anni, Filippo De Filippi, che diventò il cronista di questa edi altre spedizioni. Un’avventura che rese il nome del Duca fami-liare nei circoli sportivi inglesi, e americani soprattutto. Più tardiscalerà anche il Ruwenzori, montagna che nelle antiche mappeera segnata come “il monte della luna”, dando il nome della Re-gina d’Italia alla vetta più alta. Quando venne invitato a una con-ferenza sull’ascensione a Londra, alla Royal Geographical So-ciety, tra i numerosi elegantissimi ospiti c’era anche il re d’In-ghilterra Edoardo VII.

Le imprese degli esploratori arrivati in ritardo nellagara delle grandi scoperte, quando non c’era quasipiù nulla da attraversare se non i luoghi estremi del-la terra, coperti dal ghiaccio perenne, hanno qual-cosa di patetico come tutto quello che arriva in anti-cipo o in ritardo e si trova spaesato in un tempo non

suo. Il Duca Luigi Amedeo degli Abruzzi, gentiluomo, viaggiato-re, scalatore, sportivo, esploratore del polo e delle montagne hi-malayane, geografo e anima intrepida, è stato probabilmente peruna quindicina di anni il più famoso frequentatore di montagnee descubridor di poli. Ha compiuto imprese che la stampa anglo-sassone, sempre così restìa a informare di qualsiasi fatto e dettoal di là della Manica, seguiva sempre con articoli di stupefattaammirazione. Ma i suoi viaggi, sotto l’apparenza della scienzageografica e geologica, così venerata nell’Ottocento, secolo diferro, non avevano più l’urgenza di rivelare quello che si nascon-deva dietro una montagna e poi ancora dietro un’altra monta-gna. Ed erano differenti da tutti quelli che li avevano preceduti.

Le generazioni vittoriane della seconda metà del Diciannove-simo secolo sembravano aver soddisfatto la loro brama motoria,scavando e setacciando in lungo e in largo qualsiasi territorio ca-pitasse loro davanti. Anche il Tibet, una landa sempre citata co-me la quintessenza del remoto, dell’irraggiungibile e del magico,dove si nascondeva tra i monti Kun-lun il paese dell’eterna giovi-nezza chiamato Shangri-là, era stato invaso da una spedizioneinglese guidata da Younghusband, un personaggio britannicoche usava apertamente la violenza e aveva impiccato i monaci ti-betani davanti ai monasteri. Rimanevano ancora discretamenteignote le immense distese australi oltre lo stretto di Drake, pe-rennemente coperte di ghiaccio; e il Polo Nord, con il mare arti-co percorso da iceberg in libera uscita. A questi due spazi oriz-zontali bisognava aggiungere gli spazi verticali: l’Himalaya, la ca-tena montuosa asiatica che contava le quattordici vette oltre gliottomila metri, secondo quanto avevano certificato le recenti ri-

STEFANO MALATESTA

Abruzzidegli

La leggendadel re scalatore

Duca

CULTURA*

il

Palazzo dei Congressi all’Eur

Domenica 6 Dicembre

ore 12 , Sala Rubino

presentazione del libro:

Il poeta e “il fluire ondeggiante delle moltitudini”

Parigi per Nerval e Baudelaire

di Yves Bonnefoy

con l’autore intervengono:Flavio Ermini

Anna Chiara Peduzzi

Lucio Saviani

Moretti&Vitali editori

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45DOMENICA 6DICEMBRE 2009

Ma l’impresa che lo rese celebre fu il tentativo di raggiungere ilPolo Nord seguendo l’esempio di Nansen, l’intrepido norvegeseche aveva attraversato con gli sci la Groenlandia e con la Fram erasbarcato sul pack raggiungendo il punto più a nord mai toccatoda un uomo. Era una scelta che rientrava nella nostra tradizione.Uno dei primi a raggiungere il Capo Nord era stato un italiano,Francesco Negro, intorno alla metà del Seicento. I viaggi italianianche a scopo scientifico erano continuati fino a tutto l’Ottocen-to: un certo Bove aveva cercato i passaggi a Nord-Ovest e, insie-me a Nordenskjold, il Conte Zileri e Enrico di Borbone erano sta-ti i primi ad esplorare la Nuova Zemlia e le Svalbard.

Quella di Luigi Amedeo fu una spedizione sfortunata e ardua. IlDuca, che si era ritrovato con una mano congelata e aveva dovu-to tagliare le ultime falangi per evitare che la cancrena si diffon-desse, si era ritirato lasciando il comando a Cagni. La successivamarcia di oltre cento giorni nel ghiaccio perenne, insieme con laguida valdostana Petigaz, una performance giudicata impossibi-le, venne subito avvolta nel mito. Cagni era andato oltre venti kmpiù a nord di Nansen, ma qualsiasi risultato geografico venivastrumentalizzato da quel nazionalismo demenziale che avrebbe

spinto l’Europa nel baratro della Prima guerra mondiale.Finalmente il 1909 fu la volta della tanto attesa spedizione sul-

l’Himalaya, definita un modello di stile e di efficienza da Mauri-ce Isserman e Stewart Weaver, gli autori di Fal-len Giants, il testo himalayano più autorevole.L’esploratore italiano voleva scalare una mon-tagna che avesse cime di ripiego, nel caso di unfallimento alla vetta. Per questa ragione scelseil K2, non il Nanga Parbat. Raggiunse prima ilConcordia, un anfiteatro nato dall’unione didue immensi ghiacciai: il Baltoro e il GodwuinAusten. «A un tratto, dopo aver superato lo spe-rone — raccontò De Filippi — ci apparve tuttointero il grande vallone del Godwuin Austen.Nel fondo, solo, separato da ogni altro monte sistagliava con tutta la sua sovrana grandezza il

K2». Dal ghiacciaio Luigi Amedeo si mosse sempre accompa-gnato da guide valdostane, sempre salendo verso la cima princi-pale: allevato secondo metodi militari spartani e scalatore im-proprio, il Duca aveva una resistenza incredibile ed emanava una

sicurezza che andava a riscaldare gli animi dei suoi amici, ma in-tanto la nebbia si era fatta sempre più fitta e fu deciso di fermarsie tornare indietro. Faceva sei gradi sotto lo zero a un’altitudine di7.498 metri, che all’epoca costituiva il record del mondo. Battutosolo nel 1922 dagli inglesi che tentarono di scalare l’Everest.

I suoi viaggi così vari e frequenti ebbero fine dopo la Primaguerra mondiale, quando il Savoia si trasferì in Somalia. La son-nolenta colonia, abituata al ritmo lentissimo delle oasi, assistet-te stupefatta all’attività in suo favore di un personaggio come Lui-gi Amedeo, che rivoluzionò le piantagioni di banane fondandoun villaggio a cento chilometri a sud di Mogadiscio. In quegli an-ni di lui si parlava come di un possibile candidato al trono un-gherese, che risultava vacante. Ma Luigi Amedeo continuò a ri-manere in Africa assistito da Faduma Ali, una bellissima ragazzasomala che gli altri Savoia si erano rifiutati di conoscere. Aveva untumore alla prostata e preferì restare in quella colonia così sem-plice e così lontana dall’Europa piuttosto che ritornare in Italiaaccolto da quelle che lui chiamava ipocrisie. Quando morì nes-sun Savoia era presente al funerale.

LE IMMAGINIFoto dei viaggi di Luigi Amedeo di Savoia

(nel tondo); nell’immagine grande, panoramadal Monte Gessi; accanto la nave Stella Polare;

a destra, foto di gruppo sul pack articoe salita alla Punta Alessandra

© RIPRODUZIONE RISERVATA

IL CONVEGNOIl volume Luigi Amedeo

di Savoia Aosta

Duca degli Abruzzi

Esploratore pubblicatoda Società GeograficaItaliana e Centro TuristicoStudentesco e Giovanileverrà presentato a Romail 10 dicembre alle 19a Palazzetto Matteiin Villa Celimontana,via della Navicella12

IL LIBRO La copertinadel volume

LE MAPPEMappe tracciate dal Duca degli Abruzzi. Qui sotto

lo Uabi-Uebi Scebeli; a sinistra l’Arcipelagodell’Imperatore Francesco Giuseppe

e la Catena del Ruwenzori

Repubblica Nazionale

C’erano una volta Pazzolo, Zompolo e Piagnolo,ma non sfondarono come attori del primo cartone divenutolungometraggio per il grande schermo.Quei nomi

e quelle facce scartate dal ruolo di comprimari del principe e della strega cattiva emergonodai quaderni del re del cinema d’animazione adesso che il film esce su un nuovo supportodigitale. E dunque ecco svelati gli ultimi segreti di quella favolosa lavorazione

SPETTACOLI

46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 6DICEMBRE 2009

LUCA RAFFAELLI

Il casting di Walt Disneyper i “magnifici sette”

Nonè vero che è tanto dif-ficile ricordarsi tutti isette nani. Basta un po’di metodo: bisogna adesempio seguire l’ordi-ne alfabetico saltando

alcune lettere, come la prima. Poi è fa-cile: Brontolo, Cucciolo, Dotto, Eolo,quattro tutti di fila. Poi si salta la F e si ar-riva a Gongolo. Poi via l’H, la I e la L edecco Mammolo. Via la N e la O e arrivia-mo a Pisolo. Finito: sono tutti e sette. Lastessa operazione risulta ben più diffi-cile con i nomi originali sparsi tra la B diBashful (Mammolo) e la S di Sneezy(Eolo). Fu quella di caratterizzare i nani(altrimenti anonimi nella favola origi-nale) una delle grandi idee di Disney,una di quelle che ha reso questo filmimmortale, tanto da essere un evento lasua uscita in Blu-ray a settantadue an-ni dall’uscita nei cinema.

Trovare quelli giusti fu uno dei primie principali problemi di Disney. E daisuoi appunti emergono ora una cin-quantina di nani alternativi: ce n’è unoegocentrico (Biggo-ego), un altro sem-pre affamato come il cagnolino dellaCarica dei 101 (Hungry), un altro chenon ha voglia di fare niente (Lazy). E poic’è anche Pazzolo (Silly), Zompolo(Jumpy) e Piagnolo (Tearful). E viene

fuori anche uno Snoopy. Ora lo si puòdire: Disney tra tanti ha scelto i miglio-ri. Quelli che meglio li caratterizzanocome piccole, simpatiche macchiette:disordinati e permalosi, insicuri e di-spettosi, che arrossiscono, starnutisco-no, balbettano (Cucciolo non parlaperché «non ha mai provato»). Piccoliadulti che non vogliono lavarsi le mani,che giocano con i diamanti estratti nel-la loro miniera, di cui chiudono la por-ta a chiave lasciando la stessa bene in vi-sta. Ma facciamo un passo indietro.

Per arrivare a fare tutto ciò, per ren-dere i suoi personaggi immortali, Di-sney doveva superare il problema più

grande di tutti: come far vivere dei dise-gni animati in un film lungo, un film piùlungo di un’ora. Negli anni Trenta i car-toni animati erano intermezzi di setteminuti che accompagnavano il lungo-metraggio, quello con gli attori. AncheMickey Mouse aveva il suo successo,certo, ma limitato al cinema di serie B.Dunque, per riuscire a entrare in serieA, Disney doveva realizzare un lungo-metraggio. E un lungometraggio avevabisogno di personaggi veri, credibili,non di creature fatte di tubi di gomma(come il primo Mickey) che potevanoarrotolarsi su se stesse o essere schiac-ciate senza farsi male. Con Biancaneve

gli spettatori avrebbero dovuto averpaura della strega cattiva e temere perla vita della ragazza protagonista. Perquesto in tre anni, dal 1934 al 1937, WaltDisney rivoluzionò la tecnica del dise-gno animato: raccolse e mostrò il lavo-ro di tanti illustratori europei, orga-nizzò dei corsi all’interno del suo Stu-dio, per esempio sull’“analisi del movi-mento”. E poi riprese una soluzione giàadottata da altri: quella di far animare lescene sulla base di una ripresa dal vero.Per la parte di Biancaneve si scelse unagiovanissima danzatrice, che inter-pretò magistralmente la scena in cuicanta e danza con i nanetti (c’è negli ex-

tra del disco insieme a molto altro). Nonostante tutta l’energia creativa

di un’impresa del genere, la realizza-zione del film non si rivelò affatto facilee fu piena di ripensamenti. Il principe,ad esempio, doveva avere più impor-tanza nel piano originario di Disney,ma il personaggio non riuscì mai a fio-rire. E invece, sotto le matite degli ani-matori, la strega diventò cattiva davve-ro, l’ingenua Biancaneve mostrò la suaarmonia con la Natura, mentre i settenani si dimostrarono attori comici for-midabili. A proposito: nel film uscitonei cinema italiani, verso la fine si vedeBiancaneve preparare una torta e or-narla con un astratto ghirigoro. Nellaversione originale (la si vede nel disco)quella torta è invece dedicata a uno deinani: Grumpy, cioè Brontolo.

Altre due curiosità: alla fine del film,quando Biancaneve sta per abbando-nare i nani per andare via insieme alprincipe, lei ne bacia solo sei: ma risul-ta impossibile stabilire con esattezzaquale sia lo sfortunato. E poi, ecco il ca-stello, alla fine del film: a guardarlo at-tentamente ci si accorge che non è uncastello vero, non c’è nessuna stradache porti al suo portone. È un castellotra le nuvole, è una visione, forse il Pa-radiso, forse solo una grande illusione.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47DOMENICA 6DICEMBRE 2009

Dotto e Cucciolo, non illudetevisiete diventati famosi per caso

MICHELE SERRA

Scrappy, Hoppy, Weepy,Cranky, Sneezy-wheezy,Hungry, Lazy, Dumpy, Th-

rifty, Shifty, Nifty, Woeful, Doleful,Wistful, Soulful, Helpful, Snoopy,Goopy, Gabby, Blabby, Silly,Dippy, Graceful, Neurtsy, Sappy,Gloomy, Flabby, Crabby, Daffy,Tearful, Gaspy, Busy, Dizzy,Snappy, Hotsy, Jaunty, Puffy,Strutty, Biggy-wiggy, Biggo-ego,Chesty, Jumpy, Awful e Dirty.

Ecco un elenco che UmbertoEco potrebbe pubblicare comepostilla al suo recentissimo La ver-tigine della lista. È l’appello (qua-si) infinito, e a pensarci anchepiuttosto malinconico, dei naniignoti, che presero parte allo spie-tato casting di Biancaneve, ciascu-no con fisionomia e attitudinepropria, ma vennero scartati. Di-sney ne aveva disegnati una cin-quantina, di nani. Ma solo setteebbero la fama. Degli altri non siseppe più nulla. Entrarono a fareparte dell’infinita schiera degli ar-tisti falliti, di quelli che ci hannoprovato ma non ce l’hanno fatta.Neanche una particina in un car-toon minore. Forse si sono dati al-l’alcool. Forse qualcuno si è rifattouna vita lontano dai riflettori. Piùprobabilmente sono rimasti in uncassetto, laggiù a Los Angeles, persortirne solamente ora, settanta-due anni dopo.

Scorrendo l’elenco, diverte im-maginare come quei nomi sareb-bero stati tradotti in italiano se

non fossero stati esclusi dal cast.Mantenendo il trisillabo sdruc-ciolo e la desinenza in “olo” che,con l’eccezione di Dotto, contrad-distingueva gli altri sei, si può pre-sumere che invece di Gongolo,Mammolo, Pisolo, Cucciolo,Brontolo e Eolo, avremmo potutoavere Zozzolo (Dirty), Brutolo(Awful), Zompolo (Jumpy), Tri-stolo (Gloomy), Mangiolo (Hun-gry), Tettolo oppure Pettolo (Che-sty), Egolo (Biggo-ego), Piagnolo(Tearful) eccetera.

Mi prendo la responsabilitàdelle traduzioni: tra i lettori di Li-nus degli anni ruggenti la pubbli-cazione della lista dei nani ignotiavrebbe scatenato un memorabi-le gioco collettivo, sfida alla tradu-zione meglio riuscita. Che sarà an-che un gioco ozioso e anzi lo è si-curamente (il piacere dell’elenco,spiega Eco nel suo libro, non ne-cessariamente attiva le parti piùnobili del nostro cervello), ma unminimo di profondità la contiene,perché allude alla precarietà deidestini, e non solo il destino diquei nani. Per esempio: se l’aspi-rante nano di nome Snoopy ce l’a-vesse fatta, magari detronizzandoGongolo (che mi è sempre sem-brato il meno interessante del

gruppo: forse un raccomandato),ovviamente sarebbe diventato fa-moso nel mondo con il nome, ap-punto, di Snoopy. E dunque chene sarebbe stato, trent’anni dopo,del bracchetto più famoso dell’u-niverso? Ovvio: non avrebbe po-tuto chiamarsi Snoopy, il suocreatore Schultz lo avrebbe dovu-to battezzare diversamente, e noioggi vivremmo in un mondo delquale non solo Gongolo non esisteed è stato rimpiazzato dal nanoSnoopy, che in italo-nanese mi az-zardo a tradurre Trufolo (to snoopin inglese vuol dire curiosare, in-trufolarsi, ficcare il naso). Ma il ve-ro Snoopy, pur esistendo, non sichiamerebbe affatto così. E dove-te ammettere che l’idea di unoSnoopy che non si chiama Snoopyun poco ci confonde.

E che dire di Daffy? Uno dei na-ni eliminati proprio così si chia-mava, come l’anatra pazza chenon molti anni dopo (Biancaneveè del ’37) avrebbe invaso i cinemae le televisioni di mezzo mondo.Niente nomen omen, dunque, perquei nani: due di essi si chiamava-no come future star planetarie,Snoopy e Daffy, ma finirono infondo al pozzo dei fallimenti.

Da quell’elenco di nomi, dun-

IL BLU-RAY

Biancaneve e i sette nani

di Walt Disney è uscito in Blu-Ray in una versione con due dischi ricca di contenuti speciali: tra gli altri, un commentoaudio di Disney,il dietro le quinte,giochi, video musicalie scene eliminate

que, ciascuno può trarre sugge-stioni a non finire. La meno ludica,ma anche la meno peregrina, è ra-gionare su quale e quanto peso ab-bia, nella vita non solo dei cartoon,il caso. Si immagina che Walt Di-sney abbia sottoposto i suoi nani algiudizio dei collaboratori (o chealcuni dei nani siano opera dei col-laboratori stessi, della bottega enon del maestro). Nella favola deiGrimm i nani erano un insiemegenerico, nel film dovevano avereciascuno un carattere, un tic co-mico, una riconoscibilità. Eccoche un naso venuto male, una spe-cializzazione troppo blanda, undisegno portato a termine a nottefonda, con la mano stanca e le ideesfocate, portano a scartare Flabby,oppure Gabby. Un foglio che cadedalla scrivania costa il futuro a Do-leful: è finito sotto il tavolo e nes-suno lo ha notato. E così via.

Gli altri sette, quelli superstiti,quelli che sono riusciti a sfondarea Hollywood, non si montinotroppo la testa. Se sono nelle ca-merette di milioni di bambini, enon dimenticati in un archiviopolveroso, lo devono anche al ca-so. Il talento conta, ovviamente,ma contano anche le manipola-zioni del destino. E nessuno puòsapere se i moderni casting, e sele-zioni, e talent-show siano, quantoa esito, meno discutibili, e precari,e casuali di quel lontanissimo con-corso tra nani.

I DISEGNII bozzetti preparatoridi Biancanevee i sette nanisono pubblicatiper concessionedella Disney

© RIPRODUZIONE RISERVATA

© D

ISN

EY

Repubblica Nazionale

La più locale delle cucine: circoscritta,autarchica, per certi versi obsoleta. Ep-pure in grado di sfornare tre ricette co-nosciute e adorate in tutto il mondo: ri-sotto allo zafferano, cotoletta e panet-tone. Tanto popolari e ubiquitarie che

perfino il più moderno e sfrontato dei grandi cuo-chi cittadini, Carlo Cracco, ha dovuto farci i conti,«perché se c’è gente che arriva qui dall’altra partedel mondo, e vuole assaggiare un risotto coi fiocchi,midollo compreso, o una milanese croccante e gu-stosa, come faccio a dire no?».

Elogio della cucina di Milano, la città più “stella-ta” d’Italia, tanto abile e pronta ad accogliere le ga-stronomie del mondo quanto incerta e modestanel promuovere la propria. È come se i milanesi,veri o “importati” che siano, dopo un’iniziale ven-tata di localistico entusiasmo gourmand fosserocolti da una sorta di pudore alimentare, che gli fapreferire la tagliata alla cotoletta impanata e il su-shi al riso all’onda.

Tra le due anime, tradizionalista e globalizza-ta, una convivenza impossibile, sottolineata dal-l’involuzione dell’identificazione letteraria:passata dalla Paneropoli (città della panna) diUgo Foscolo; a quella di Carlo Emilio Gadda, chenel 1965 in un articolo intitolato Risotto Patrioaveva perorato la causa del Vialone dal chiccogrosso come ingrediente-principe del risottod’oro; giù giù fino alla città da bere (e non più damangiare!) dei rutilanti anni Ottanta.

Certo, mangiare milanese può risultare indi-gesto. Al momento di dosare i grassi, i ricettari

d’antan non ammettono esitazioni: burro,burro e ancora burro. E se non è burro, pan-na, latte (super-intero), salsiccia, lardo, coti-che. Non ci si formalizza nemmeno davantialle croste di formaggio, pur di incrementa-re il gusto di minestrone e pasta e fagioli.Una scelta ideologica rigorosamente appli-cata anche ai dolci — pur già nutrienti e go-losi grazie alla presenza zuccherina — se èvero che panettone e colomba fatti come-dio-comanda devono essere gialli di buonburro. Risultato: piatti ricchi perfino a pre-scindere dagli intendimenti del cuciniere.Infatti, cassoeula, mondeghili e polentapastizzada non nascono certo sulle tavoledei signori: a far crescere a dismisura il ca-rico nutrizionale è la quota di grassi con-naturata alla realtà contadina padana, co-struita a misura di allevamenti bovini esuini.

Il guaio è che l’esplosione di Milano co-me città tutta businness & fashion ha pro-vocato l’abiura della sua tradizione ali-mentare, con rarissimi tentativi di mo-dernizzazione. Su tutti, il piccolo capola-voro di Gualtiero Marchesi, datato 1984,dove a fronte della foglia d’oro alimenta-re appoggiata sul risotto, la vera rivolu-zione è stata compiuta sottraendo gras-si per esaltare il sapore primario del riso.

Se il colesterolo basso non rientra nel-le vostre priorità, regalatevi un piccolotour meneghino tra gli indirizzi storici,dove ancora trippa e nervetti sono fatticon la mano (e gli ingredienti) di untempo. Altrimenti, ripiegate (si fa perdire) sul risotto col midollo alla piastradi Cracco, a un passo dal Duomo, o suquello all’acqua di Marchesi (in Fran-ciacorta). A un passo dal Natale, chiu-sura d’obbligo con una burrosa fetta dipanettone.

milanese

LICIA GRANELLO

Cucina

48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 6DICEMBRE 2009

i saporiItalia a tavola

Ponte di Sant’Ambrogio:ecco l’occasioneper scoprire una tradizionegastronomica anticae ricchissima. Fatta di cotolette,risotto allo zafferano e panettoneAnche in versionipiù light e anti-colesterolo

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Il gusto di una cittànon solo da bere

Repubblica Nazionale

Carlo Magno, la cassoeulae la vendetta dei lumbard

DARIO FO

Se c’è un piatto che incarna l’anima e lo spirito dei milane-si, questo è la cassoeula detto in antico caza. Gli ingre-dienti principali di questo piatto sono le verze nere e al-

cune radici profumate, quindi le parti meno nobili del maialecome la cotenna, i piedini, la testa e soprattutto le costine.Quando ero ragazzino, mi ricordo che lo si cucinava solo nellegrandi occasioni e devo dire che mia madre era di una bravuraincredibile: i miei amici si informavano del giorno in cui lo pre-parava per farsi invitare.

I racconti della tradizione popolare ci restituiscono un fattodavvero spassoso e al tempo stesso drammatico: una storia de-gna di Pantagruel sull’origine della cassoeula che risale all’e-poca di Carlo Magno e della sua discesa in Italia, anno 773,quando venne a sconfiggere definitivamente i Longobardi.Una volta vinto l’esercito di Desiderio, ai lumbard di tutta lapiana del Po, primi fra tutti i milanesi, volle infliggere una umi-liazione spietata: ordinò ai vinti di costruire un arco di trionfoin suo onore e di leccare la pietra finché risultasse pulita e sbian-cata. Finito l’arco, qualcuno gli mise in testa di sfidare i lom-bardi su un altro terreno, la cucina. C’era all’epoca la vulgatache i lombardi fossero cuochi straordinari in grado di cucinarepietanze luculliane con ingredienti poveri. «Improvvisatemiun piatto dei vostri: ma attenti a voi, se non è davvero eccezio-nale vi faccio mozzare la testa!».

Di ingredienti per cucinare non ce n’erano più. I lumbardcercarono nei borghi intorno, scendendo nelle conserve, cioèdentro ghiacciaie ante litteram, pozzi a forma di coni rivoltati,nel cui fondo, grazie alla neve portata dai monti, si riusciva aconservare per mesi le carni e i pesci. Visitarono tutte le con-serve, raschiando i fondi per trovare un po’ di pezzi di maiale.Poi nei boschi trovarono verdure selvatiche, cipolle e soprat-tutto la verza nera. Quindi, ungendo il tutto di sugna, comin-ciarono a mescolare quell’intruglio dentro pentoloni per ore.Carlo Magno stava lì appresso ad annusare il profumo. Si se-dette alla mensa già inebriato da quell’odore. Cominciò ad in-ghiottirne qualche pezzo e ne rimase estasiato.

«Fatene ancora per stasera», ordinò. I milanesi a quel punto,vollero vendicarsi: «Non possiamo — risposero — non c’è car-ne perché gli animali di sera non si fanno vedere». «Che ani-mali?», chiese Carlo Magno. «Topi, meglio pantegane!», disse-ro i milanesi infilzando sontuosi pezzi di stracotto. «La cas-soeula si fa con le pantegane?», chiese Carlo emettendo rutti daimperatore. «Sì, più qualche gatto e cani randagi». Con un urloel maior dei Franchi decise di impiccarli tutti. Lo bloccò il suoconsigliere, un saggio a cui dava sempre retta: «Carlo, non far-lo! Se li impicchi, girerà voce che li hai condannati per vendi-carti dell’affronto d’averti fatto gustare pantegane, gatti e canibastardi e tu non ci faresti una bella figura. Mostrati soddisfat-to e fingi di leccarti le labbra per il gusto e invita tutti i tuoi a man-giarne a strozzo. Vedrai che nessuno poi avrà mai il coraggio diparlarne». Carlo il Grande alzò la brocca colma di vino e urlò:«Evviva! Brindiamo alla cassoeula, regina di tutte le leccornie!».

Eugenio Medaglianiè il principe delle pentole –rame, ghisa, argento, titanio –dell’alta ristorazione

Tra i clienti del negozio-magazzinogestito col figlio Simone e apertoa due passi dalla Stazione Centrale,ci sono da tempo i migliori chef italiani

DOVE DORMIREGRAN DUCA DI YORKVia Moneta 1, CentroTel. 02-874863Camera doppia da 128 euro

LOCANDA DEI MERCANTIVia San Tomaso 6, CentroTel. 02-8054080Camera doppia da 185 euro

LA CORTE DEL RONCHETTOVia Pescara 56 , SudTel. 02-89302615Camera doppia da 75 euro

VILLA MAGNOLIAVia Ambrogio Binda 32, Navigli Tel. 02-8130200Camera doppia da 100 euro

TROVA IL TEMPO B&BVia Novara 216, Fiera-San SiroTel. 339-5021730Camera doppia da 90 euro

DOVE MANGIAREAL MATARELCorso Garibaldi 75, CentroTel. 02-654204Chiuso martedì e mercoledì a pranzo, menù da 40 euro

OSTERIA DELLA CAGNOLAVia Cirillo 14, CentroTel. 02-3319428Chiuso dom., menù da 40 euro

NUOVA ARENAPiazza Lega Lombarda 5, CentroTel. 02-341437Chiuso lunedì, menù da 50 euro

MASUELLIViale Umbria 80, Zona 22 MarzoTel. 02-55184138Chiuso lunedì, menù da 40 euro

TRATTORIA MILANESE Via Santa Marta 11, CentroTel. 02-86451991Chiuso sab. e dom. menù da 35 euro

DOVE COMPRAREGASTRONOMIA FARAVELLICorso Italia 40Tel. 02-876-287Zona Centro

PASTICCERIA MARCHESIVia S. Maria alla Porta 11/A Tel. 02-876730Zona Centro

MACELLERIA ANNUNCIATAVia dell’Annunciata 10Tel. 02-6572299Zona Centro

ENOTECA COTTIVia Solferino 42 Tel. 02-29001096Zona Centro

PANIFICIO PRINCIPiazzale Istria 1Tel. 02-60685

itinerari

Polenta pastizzadaPer pasticciare la polenta, si prepara

una besciamella – farina, latte, noce moscata,parmigiano – in una cipolla soffritta nel burro,

arricchita con salsiccia e funghi secchiammollati. A strati in forno

Rustin negàL’arrostino annegato deve il nome al sugo

scuro e lento che accompagna i nodinidi vitello, infarinati, rosolati nel burro

con salvia e rosmarino, cotti con poco vinobianco e brodo. A cotè, patate arrosto o puré

Nervetti in insalataI gnervitt, tendini, si ottengono bollendo

ginocchio o stinco di vitello in acqua e sale,alloro, aceto. Isolati dalla carne, raffreddati,

tagliati a listarelle, si condiscono con olio,aceto, cipolla, peperoni e prezzemolo

BuseccaIn una padella, pancetta, carota, cipolla,sedano e salvia, da soffriggere nel burro,prima di rosolarci dentro la trippa in liste

sottili. Insaporita e cotta con acqua per dueore, si serve con parmigiano e pane tostato

OssobucoPraticato in città già nel 1700, l’oss bus parte

dallo stinco di vitello, infarinato, insaporitocon cipolla, vino bianco, brodo. Prima di fine

cottura, si aggiunge la gremolada (bucciadi limone, aglio, prezzemolo)

Risotto gialloNella ricetta de Il Re dei Cuochi, 1875, la cipolla – soffritta con burro e midollo, diluitacon poco brodo, passata al setaccio –è la base per la rosolatura del riso conzafferano. A fine cottura, burro e parmigiano

MondeghiliLe gustose polpette di manzo trasformanogli avanzi di bollito o brasato. Dentro,salsiccia, mortadella, uova, pane raffermoammollato nel latte e parmigiano. Si passanonel pangrattato prima di friggerle nel burro

CassoeulaDeriva dal lombardo caza, la pentola dovevengono cotti piedini di maiale, cotenne,costine, orecchie, luganega (salsiccia),salamini. Per profumare e sgrassare,dentro cipolla, carota, sedano e verza

CostolettaSi chiama anche cotoletta (dal francese côte,costa ) la fetta di carne con l’osso derivatadalla lombata di vitello. Dopo impanatura con uovo e pangrattato, si frigge nel burrochiarificato (privato dell’acqua)

PanettoneIl leggendario pan de Toni fu presentato sullatavola natalizia di Ludovico il Moro nel 1495come “panis quidam acinis uvae confectus”Il segreto è nella qualità di burro, canditi,uvetta e nella lunga lievitazione naturale

Cucina

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 49DOMENICA 6DICEMBRE 2009

‘‘Il risottoL’atteggiamento della massaia di fronteal risotto dev’essere religioso. Il tegame

è il suo calice sacro. La cipolla viene messaa soffriggere e subito si aggiunge il midollo…

La cipolla non dev’essere dorata...Da LA PACCIADA, MANGIAR E BERE

IN PIANURA PADANA

di GIANNI BRERA E LUIGI VERONELLI

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Repubblica Nazionale

le tendenzeL’essenza del piacere

50 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 6DICEMBRE 2009

Vai sul sicuro, fai bella figura e puoi anche com-prarlo quasi fuori tempo massimo. Il profumo, an-che in questo Natale di crisi, si annuncia come ilregalo best seller. «Il cinquanta per cento dei pro-fumi venduti in Italia vengono comprati nel mesedi dicembre», afferma Gian Andrea Positano, che

dirige il centro studi dell’Unipro. Suggestionato da campagnepubblicitarie martellanti, e forse anche a corto di idee alternati-ve, l’italiano medio si riversa in profumeria a fare il suo shoppingnatalizio. Non sempre ha le idee chiarissime su ciò che intendeacquistare e dunque si lascia consigliare. La scelta è enorme e fra-stornante, come la sinfonia di odori, le note di testa e di cuore, chespesso si sovrappongono e si annullano fra loro.

È la globalizzazione. Cataste di prodotti vecchi e nuovissimi, igrandi classici e le new entry, packaging sempre più sontuosi, ori-ginali, ricercati, cofanetti dono, trousse numerate, edizioni spe-ciali, confezioni gioiello, profumi-oggetto, strenne di ogni ordi-ne e grado. «L’offerta è vastissima, ma la congiuntura economicasi fa sentire, eccome. L’italiano continua a comprare e a regalareil profumo, è vero, ma risparmia sul formato: sceglie sempre piùspesso la confezione piccola, da trenta ml, con cui spende un po’meno», osserva Laura Schiatti, direttore marketing della catenaSephora, che conta centotré profumerie in Italia e un migliaio inEuropa. La tendenza che prevale in questi mesi, a suo avviso, èquella floreale. I fiori, ma anche i frutti: il giacinto, il gelsomino, ilgiglio di Casablanca, la rosa loukoum, la verbena, ma anche il ri-bes nero, lo zenzero del Madagascar, il cedro della Virginia, ilmandarino, la mora selvatica. Il profumo ideale, stabiliscono glistilisti che proprio grazie alle fragranze vedono lievitare il proprio

volume d’affari, deve essere ottimista, scintillante, enigmatico,luminoso, energetico, vibrante e persino croccante.

E deve sapere di cosa? Le opzioni sono molte, per tutti i gusti eper tutte le fasce d’età, dal cosiddetto profumo da pelliccia, dol-ce, opulento e retrò, alle modernissime fragranze super aspre eunisex. «Di innovazione direi che non ce n’è moltissima in giro —sostiene Laura Schiatti —. I lanci capitalizzano su linee già esi-stenti e ci si concentra sui grandi classici. Mai come quest’annoc’è stata la caccia al testimonial famoso, richiestissimo da quan-do i marchi fanno pubblicità in televisione: da Scarlett Johanssona Audrey Tatou, da Kate Moss a Charlize Theron, da Katia Smut-niak a Kate Winslet. E poi le intramontabili top model più cono-sciute, che funzionano sempre: da Claudia Schiffer a NaomiCampbell, da Eva Herzigova a Cristie Turlington e Linda Evange-lista».

La comunicazione, una campagna pubblicitaria azzeccataprima ancora della qualità e dell’unicità del prodotto, è ciò che fadi una fragranza un best seller. «Nulla come il profumo convogliasogni, suggestioni, aspettative, promesse, emozioni — sottolineaGian Andrea Positano —. Forse soltanto l’orologio è un prodottoparagonabile al profumo per il peso che viene dato al ruolo dellacomunicazione». Anche il packaging, la confezione (non solo ilflacone di cristallo ma anche la scatola e la grafica) incide moltis-simo sulla scelta. Una ricerca di mercato dimostra che al consu-matore è sufficiente una frazione di secondo — un sesto di se-condo per l’esattezza — per decidere se è attratto o meno dall’a-spetto estetico di un’acqua di colonia.

Nell’ultimo anno gli italiani hanno investito in profumi 800 mi-lioni di euro, circa l’otto per cento di una spesa complessiva perla cosmetica (dal bagnoschiuma al dentifricio, al trucco) di 9.100milioni di euro. Il settore tiene e non dà segnali di recessione. Inuovi profumi di marca lanciati, varati, presentati quest’anno so-no circa trecento. Pochi quelli destinati a resistere: si calcola chesu cinque nuove fragranze ben quattro siano destinate a uscirerapidamente di produzione.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Profumi

Trecento nuove fragranze comparsesugli scaffali soltanto quest’anno,un mercato in crescita che stimolagli acquisti, packaging sempre piùraffinato. È così che le bottigliette

sono diventate il regalo nataliziopiù gettonato da uomini e donne

È l’ora di fiori e fruttiprimavera sulla pelle

LAURA LAURENZI

DOLCE E GABBANA, ROSE THE ONEVersione rosata e romantica

di una eau de parfum orientalee molto fiorita

ARMANI, IDOLEEd ecco Idole. All’arancia amara, alla pera,

allo zenzero e alla rosa loukoum:una fragranza opulenta e molto sexy

DIOR, J’ADOREDior J’adore sono le due parole

che il creativo Galliano della maisonripete più spesso. Flacone prezioso

GUCCI POUR HOMME, GUCCIIn Gucci by Gucci pour homme ci sono:essenza di cipresso e una nota di caldoincenso con un tocco di cuoio e tabacco

PRADA, L’EAU AMBRÉEÈ una fragranza molto delicata

in cui l’ambra si mescolaall’ultrafemminile rosa di maggio

SHISEIDO, ZENProfusione di note fiorite mescolate

all’ambra e alla vaniglia: i componentisono ventidue

CHANEL, CHANEL N.5La rosa e il gelsomino si mescolano

nella versione rinnovata di un grandeclassico usato dalle dive

RICHMONDStravaganza: il flacone è sigillatocon un lucchetto che si appende

al bracciale presente nella confezione

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 51DOMENICA 6DICEMBRE 2009

Il “naso” Laura Tonatto

“Naso” fra i più quotati e richiesti,Laura Tonatto memorizza ecataloga odori da quando era

bambina. Ne riconosce tremila a occhichiusi. Creatrice di profumi su misura (frai suoi clienti Asia Argento e Ornella Muti,Sabrina Ferilli e Francesco Totti, e perfinola regina Elisabetta) è anche consulente digrandi aziende come L’Oréal e Unilever.

Il segreto di un profumo perfetto?«L’equilibrio armonico delle sue note:

nessuna deve sovrastare l’altra».Quanti profumi una persona può te-

stare in un negozio prima di entrare instato confusionale?

«Mai più di tre o quattro. Occorre “sen-tirli” sempre sulle mouillettes e poi testa-re i campioncini sulla pelle, a casa, dopoaver fatto la doccia».

Perché molti profumi sembrano asso-migliarsi?

«Quelli che si somigliano contengonofissativi di sintesi che dominano il blendrendendolo molto intenso ma omolo-gandolo a tutti gli altri».

Si può parlare di globalizzazione e diappiattimento del gusto, o meglio del-l’olfatto?

«C’è un tentativo di omologazione daparte delle case produttrici, per evidentiragioni economiche, che funziona inmolti settori, come la moda, i gioielli, il ci-bo, ma non nell’olfatto poiché questosenso risiede nell’ipotalamo, la parte piùantica del nostro cervello che è la sede deinostri istinti (la fame, il sonno, la sete, ilsesso). L’olfatto è quindi il senso più libe-ro che abbiamo e non potrà essere omo-logato perché nessuno potrà imporre atutti di provare le stesse sensazioni emo-tive».

Oggi sembra prevalere la moda deiprofumi floreali. Qual è la tendenza didomani?

«La ricerca di materie prime semprepiù rare e introvabili come il benzoino delLaos, la rosa di Taif, il gelsomino Sambac,l’ambra dell’Oman, affiancata alla ricercatecnologica di molecole da brevettare peravere un marchio olfattivo depositato».

Perché tanti marchi ricorrono a testi-monial famosi?

«Perché le persone acquistando il pro-dotto consigliato dal testimonial si iden-tificano con quel personaggio. In alcunicasi hanno fatto realizzare il profumo altestimonial, con risultati desolanti».

Gli italiani sanno scegliere i profumi?«Sì, perché hanno imparato a cono-

scerli fin da bambini nella natura che li cir-conda. Gli italiani sono abituati al bello ealla qualità. Da sempre ricercano la bel-lezza anche negli abbinamenti olfattivi».

È vero che prima delle sette di sera nonbisogna lasciare scie?

«La scia è sempre vietata agli uomini. Ledonne devono lasciare la scia solo quan-do pensano che qualcuno non debba di-menticarsi di loro».

Dove si mette il profumo? «Sui punti venosi. Collo, interno gomi-

to e ginocchio, polsi e caviglie perché lafragranza sale e quindi profuma tutta lapersona. Mai sui capelli e sotto le ascelle».

Una volta aperto dopo quanto temposi deteriora?

«Se ben conservato, lontano da fonti dicalore e di luce, si conserva per un anno.Se non lo si apre, lo possiamo dimentica-re nel congelatore per diversi anni. È co-me la vodka: non si ghiaccia».

“Nasi” si nasce? «Nasi si nasce, ma senza formazione

non si arriva da nessuna parte, soprattut-to oggi che le normative sono diventatedavvero rigide».

Fino a quanti odori è allenato a rico-noscere un “naso”?

«Una persona normale, che non ha fat-to dell’olfatto un lavoro, riconosce milleodori, un “naso” circa tremila. È solo que-stione di allenamento e memoria. Devoricordare le note per inserirle al momen-to giusto nel bouquet».

Quale profumo, o per chi, lei avrebbevoluto creare?

«Mi sarebbe piaciuto molto realizzareil ritratto olfattivo di Grace Kelly e di JohnKennedy: sono sicura che avrei scopertodei lati veramente particolari delle loropersonalità, perché il profumo, come di-ceva Yves Saint Laurent, è il fratello del re-spiro».

(l. lau.)

© RIPRODUZIONE RISERVATA

BLUMARINE, BELLISSIMAPiù che un profumo un inno alla femminilità

romantica: rugiada, vaniglia, muschio,fiore della passione

MARC JACOBS, LOLAUn bouquet tutto floreale che sbocciadal tappo, per una fragranza dominata

dalla peonia fucsia

BOSS, HUGO BOSSEdizione speciale Platinum per la colonia

alla mela rossa, al geranio, all’oleosolegno d’ulivo

CARTIER, LA TREIZIEME HEUREEcco delle fragranze super esclusive:

sono in vendita in soli tre negozidel marchio in Italia

LANCOME, HYPNOSEUn flacone dalle forme sinuoseper una fragranza al patchouli

e al fiore di osmanthus

COLLISTAR, ACQUA ATTIVAUna fragranza maschile e rigorosa

Prevalgono bergamotto, pompelmoe fiori di cedro

“È il fratellodel respiro”

Repubblica Nazionale

52 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 6DICEMBRE 2009

l’incontro

‘‘

Registi La sua fonte di ispirazioneè la malinconia. “I miei film”, dice,“nascono tra Natale e Capodanno,il periodo che meno sopporto”

Ma soprattutto nasconodalla sua infanzia che oraracconterà nel prossimolavoro insieme a SeanPenn. Dagli esordial successo a Cannesper “Il divo”, confessioni

di un ragazzo di quarant’anniche si innamorò del cinemain una sala parrocchiale di Napoli

ROMA

Ad accenderlo è la malin-conia, «un sentimentomeraviglioso, non gra-dasso come la felicità,

doloroso invece, e che dà un’intimasoddisfazione. E non è un caso se i mieifilm li ho quasi sempre pensati tra Na-tale e Capodanno, nel periodo più ma-linconico che c’è». Paolo Sorrentino,quarant’anni, autore acclamato di filmcult come Le conseguenze dell’amore odi riconosciuto prestigio come Il divo,vincitore a Cannes nel 2008 del Premiodella giuria, mentre parla fuma a raffi-ca, quattro sigarette in un’ora («duran-te la giornata la media cala», giura). «Lamalinconia è l’ideale per pescare le ideedal tempo dell’infanzia. Chi disse checiò che accade di definitivo nella vita,succede entro gli undici anni? Per me èandata proprio così: Anche Il divo è na-to dalla suggestione di un ragazzinoche vedeva continuamente Andreottiin tv… quell’uomo, evidentemente,aveva colpito molto il mio immagina-rio, forse perché per me coincideva conil lupo mannaro che, secondo quel cheallora usavano dire magari scorretta-mente i genitori, poteva comparire al-l’improvviso in fondo al corridoio».

Del cinema lui, che è insieme autore,sceneggiatore e regista, evoca l’ap-proccio amoroso, iniziato verso i di-ciotto anni e poi in continua ascesa.Una passione. Soprattutto adesso cheCannes gli ha aperto il mercato inter-nazionale e lui si prepara a girare ThisMust Be the Place, (da una canzone deiTalking Heads) prima a Londra in pri-mavera, quindi a New York e un po’ ingiro in tutti gli Usa, con protagonistaSean Penn. «È la storia di una ex rockstar, cinquantenne, che si rifà alla mu-

sica dark degli anni Sessanta, ma che hadeciso di non suonare più. È un film sulrapporto padre-figlio, e mi è venuto inmente mentre mi arrovellavo sui crimi-nali nazisti nascosti ancora in giro per ilmondo. Avevo letto qualche articolo digiornale su quelli di loro che vivono co-me trentenni, mentre di anni ne hannonovanta, e giravo e rigiravo intorno aquesto spunto quando, all’improvviso,ecco l’idea di sviluppare il rapporto pa-dre e figlio, anche se poi ci saranno an-che i nazisti. Il problema è che questofilm non l’ho pensato a Natale e dunquesperiamo bene. Però… ecco è successoin aereo quando, nel maggio scorso,ero andato a presentare Il divoa Porde-none e stavo tornando da Trieste a Ro-ma. E, a ben considerare, l’aereo è qua-si come il Natale, lassù c’è un’ossigena-zione diversa dalla realtà, che ti istupi-disce, ti rende ovattato, e di nuovo com-pare quella malinconia che ti prendeguardando il mondo dall’alto».

Sottolinea che la suggestione delrapporto con il padre (il suo è scompar-so quando era molto giovane) gli è arri-vata ancora una volta dalla sua infan-zia: «È così, anche se non mi piace fareautobiografia. Per Le conseguenza del-l’amore, andò allo stesso modo. Se ci sipensa bene, i bambini vivono ampi var-chi di noia e di solitudine. E io ho capi-to che la solitudine di quando ero bam-bino si poteva trasferire a un uomo dicinquant’anni». Sorride sornione:«Quel film si sarebbe potuto chiamareLe conseguenze della solitudine».

Paolo Sorrentino da ragazzo al cine-ma ci andava d’estate, durante le va-canze. Poi, verso i diciotto anni, i filmdivennero il suo pane quotidiano. «Eroonnivoro, mi ero messo in testa di farequesto lavoro e tentavo di capire il piùpossibile. La scuola era complicata perme: il centro sperimentale accettavasolo sei persone, e mi sembrava davve-ro troppo difficile entrarci. A Napoli esi-stevano ancora i cinema d’essai che fa-cevano rassegne, erano gli ultimisprazzi. Io andavo in una specie di salaparrocchiale. I miei modelli? Fellini eScorsese, di loro mi piacciono tutti ifilm, mentre di molti altri magari miporto dentro solo una o due cose. Da ra-gazzo studiavo Economia e commer-cio ma, a cinque esami dalla laurea, la-sciai perdere e decisi di provare seria-mente a fare questo lavoro. Nel ’94 feciil salto nel buio. Cominciai a lavorarecome sceneggiatore per La squadra.Ero strapagato, scrivevo velocemente eguadagnavo bene. Avevo già vinto ilpremio Franco Solinas con la sceneg-giatura di Dragoncelli di fuoco, un filmsull’ossessione della gastronomia e

delle gare di cucina. Una storia grotte-sca. Io ho sempre amato il grottesco e inprincipio credevo addirittura che ren-desse più liberi, poi mi sono reso contoche non è così, che era una trappola,perché la libertà nelle arti si acquisiscecon il tempo e non con un genere. Anzi,meno male che quel film non lo feci. Inseguito, con gli anni, ho capito che larealtà possiede tutto quello che serve ea me interessano le deformazioni reali-stiche e grottesche della realtà».

L’esordio per Sorrentino sceneggia-tore fu Polvere di Napoli di Antonio Ca-puano, «un regista che stimavo molto».Qualche anno dopo si concretizza ilprimo film, L’uomo in più. «E di nuovoecco il Natale e la malinconia. Le festenon mi sono mai piaciute, così l’idea mivenne alla Vigilia e il 31 dicembre por-tai la sceneggiatura finita a Toni Servil-lo. Era il 1999, Toni era già un attore diteatro molto affermato, e io lo conosce-vo poco, tipo buongiorno e buonasera,niente di più. Gli detti la sceneggiaturatramite il suo produttore teatrale, malui non la leggeva. Dopo sei mesi d’atte-sa, ad Angelo Curti (il produttore ndr)

venne l’idea risolutiva, lo chiamò:“Non leggerla più, abbiamo già trovatol’attore”. Fu così che Servillo la divoròin mezz’ora. Gli piacque e subito disse“lo faccio io”. Toni è straordinario e, co-me accade agli attori più intelligenti, hala capacità di penetrare le psicologiemolto di più di quanto può fare l’auto-re in un anno di lavoro».

Sorrentino parla volentieri dei suoifilm, con l’eccezione di L’amico di fa-miglia, sul quale sorvola. «L’avevo pen-sato per Giacomo Rizzo, ma il film eratroppo costruito, ho voluto innestareuna commedia su una figura ributtan-te che della commedia è proprio il con-trario. Mentre Il divo, no… non miaspettavo il clamore che ha suscitato e,del resto, gli esiti di un film sono impre-vedibili: possono essere meravigliosi enon avere successo ed esserlo meno eandare alla grande. Il divo è stato fati-coso, complicato, ma farlo è stato dav-vero entusiasmante. C’era una grandeallegria e compattezza di squadra, avolte divertimento. Abbiamo girato perdieci settimane, un tempo nella media.La preparazione invece era stata lunga,quasi un anno, e un mese per la sceneg-giatura: io scrivo molto rapidamente».

«Quando Andreotti lo vide disse cheera una mascalzonata, e questo si sa,ma è singolare quanto aggiunse: e cioèche il film, molto impreciso sulla sua vi-ta pubblica, era al contrario molto pre-ciso su quella privata. Affermazionestravagante: io sulla sua vita pubblicami ero molto informato, mentre sul suoprivato avevo lavorato di fantasia, com-preso lo srotolamento di dolore che nelfilm lui prova per la fine di Moro». DiAndreotti parla con rispetto, sembraquasi che lo rimpianga, lui e la PrimaRepubblica. «Un punto di vantaggio lo-ro ce l’avevano. Su alcune cose avevanouna spregiudicatezza incredibile. Nona caso la P2 era di quegli anni, e nella Dc,nel Psi c’erano persone veramente irri-tanti, ma rispettavano un certo stile,una misura e un senso del confine e del-la vergogna che oggi sono caduti».

Autore, sceneggiatore, regista, non èun po’ troppo per un uomo solo? «Lofaccio perché ho l’impressione che co-sì non perdo tempo, e mi sento più li-bero. Ma non è sempre così, That MustBe the Place, l’ho scritto con UmbertoContarello». Ha qualche film irrealiz-zato Sorrentino? «Tutti i registi e gli sce-neggiatori ce l’hanno e io mi tengostretti i miei come fonte d’idee. Più diogni altro però mi piacerebbe fare unfilm dal romanzo di Raffele La CapriaFerito a morte. Ho già anche la sceneg-giatura pronta, che aveva anche mode-ratamente deluso La Capria, il che è un

buon inizio. Perché ogni volta che l’au-tore di un libro rimane deluso, si rischiadi fare un buon film. Accade spesso, sipensi a Il giardino dei Finzi Contini, chea Bassani non piacque per niente».

«Questo non è certo un buon mo-mento per il cinema italiano — aggiun-ge —. La situazione è abbastanza tragi-ca e, per chi comincia adesso, è vera-mente complicato. Fa impressione ladisistima che c’è per la cultura alta. Sidichiarano sconcezze del tipo: il cine-ma è morto ed esiste solo la fiction, pec-cati mortali che Andreotti non avrebbemai detto. Si investono centinaia di mi-lioni di euro nella fiction e vengono sot-tratte le già povere risorse al cinema, alteatro, alla danza. E in questa situazio-ne non si può sperimentare. Anche sebisogna ammettere che l’assistenziali-smo ha prodotto grandi aberrazioni:registi di sinistra che hanno fatto ma-gari quindici film mentre non merita-vano di farne neanche mezzo».

Esiste un metodo di lavoro, un “siste-ma Sorrentino”? «Io scrivo soprattuttola mattina e ascolto musica, sempre.Sono quasi ossessionato dalla musica,con scarsa predilezione per il jazz, maper il resto l’amo tutta. La musica ha ache fare con la malinconia, e spessoquelle stesse musiche che ascolto men-tre scrivo le raccolgo e le metto sopra al-la sceneggiatura. E quasi sempre fun-ziona. È come con le immagini. In fon-do il cinema è la capacità di vederequalcosa prima, quando ancora nonesiste. Un talento che un po’ si coltiva,con i film, i quadri, ma soprattutto conle fotografie. Un’arte un po’ trascuratae che invece è fondamentale. Io, daquando avevo diciotto anni, ho semprecomprato libri di fotografie. StevenShore, Berengo Gardin, una loro foto sudue potrebbe essere lo spunto per unbuon film».

‘‘

SILVANA MAZZOCCHI

FO

TO

GE

TT

Y IM

AG

ES

In questo momentola situazioneè abbastanza tragicae, per chi cominciaadesso, è veramentecomplicatoFa impressionela disistima che c’èper la cultura alta

Paolo Sorrentino

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Repubblica Nazionale