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DOMENICA 3 GENNAIO 2010 D omenica La di Repubblica le tendenze Cachemire, il lungo inverno caldo LAURA ASNAGHI l’incontro Penelope Cruz, un destino da diva MARIA PIA FUSCO spettacoli Il Pergolesi perduto e ritrovato CLAUDIO ABBADO, LEONETTA BENTIVOGLIO e RICCARDO MUTI cultura Nell’officina di Mauro Corona PAOLO RUMIZ l’attualità Cocaina, il fascino del male LUCA RASTELLO UMBERTO GALIMBERTI FOTO ©SELVA/LEEMAGE/MONDADORI ELECTA A settant’anni dalla morte di Freud vien da chiedersi che cosa sopravvive della sua teoria e che cosa in- vece si è rivelato caduco. È questa una domanda le- gittima, ma che forse vale solo per le scienze esatte, dove verifiche oggettive e sperimentazioni sempre più approfondite consentono di validare o invali- dare una teoria. La psicoanalisi non è una scienza “esatta”, ma si iscrive nell’ambito delle scienze “storico-ermenutiche”. E questo perché la psiche è così solidale con la storia da essere profonda- mente attraversata e modificata dallo spirito del tempo, che è pos- sibile cogliere e descrivere solo con l’arte dell’interpretazione o, come oggi si preferisce dire, col lavoro ermeneutico. Questo spiega perché, a partire da Freud, si sono sviluppati tan- ti percorsi interpretativi, approdati ad altrettante teorie psicoana- litiche, da cui hanno preso avvio le diverse scuole. In comune esse hanno il concetto di «nevrosi» che Freud, dopo aver rifiutato di considerare la nevrosi una malattia del sistema nervoso come vo- leva la medicina di stampo positivista in voga al suo tempo, ha tra- sferito dal piano “biologico” a quello “culturale”. (segue nelle pagine successive) PAOLO REPETTI I l mio inconscio è un reperto archeologico nel quale un os- servatore attento può trovare tracce stratificate di una tren- tennale storia clinica che spazia dai freudiani agli junghia- ni ai lacaniani e perfino ai famigerati comportamentisti. La mia carriera di paziente in cura è cominciata a otto anni. Uno strano malessere che faceva su e giù all’altezza del ples- so solare in prossimità del pranzo e della cena mi attanagliava e mi impediva di mangiare. Fu in quell’occasione che ebbi il mio primo incontro con una rudimentale figura di terapeuta: la portinaia del palazzo. Mi fermavo a parlare con lei, una signora ebrea poco lo- quace ma dotata di un bel sorriso e di un robusto buon senso. Da lei si intrattenevano altre figure solitarie, querule zitelle e vedovi angustiati, e anche un ragazzino manesco che solo in sua presenza sembrava calmarsi. Il setting che si svolgeva in una guar- diola poco illuminata aveva anche le sue brave regole: mai fuori dell’orario di portineria e a bassa voce. E dunque non è un para- dosso. È lì che ho vissuto il mio primo transfert. Da adolescente i miei mi obbligarono ad alcune rare incursioni nello studio di uno psichiatra. (segue nelle pagine successive) i sapori Ecco la Befana, dolci sotto il camino LICIA GRANELLO e MARINO NIOLA Freud Quel resta di che Inconscio, Edipo, Super-io Cosa è cambiato e come siamo cambiati a settant’anni dalla morte del fondatore della psicoanalisi

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DOMENICA 3 GENNAIO 2010

DomenicaLa

di Repubblica

le tendenze

Cachemire, il lungo inverno caldoLAURA ASNAGHI

l’incontro

Penelope Cruz, un destino da divaMARIA PIA FUSCO

spettacoli

Il Pergolesi perduto e ritrovatoCLAUDIO ABBADO, LEONETTA BENTIVOGLIO e RICCARDO MUTI

cultura

Nell’officina di Mauro CoronaPAOLO RUMIZ

l’attualità

Cocaina, il fascino del maleLUCA RASTELLO

UMBERTO GALIMBERTI

FO

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A/L

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MA

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ND

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Asettant’anni dalla morte di Freud vien da chiedersiche cosa sopravvive della sua teoria e che cosa in-vece si è rivelato caduco. È questa una domanda le-gittima, ma che forse vale solo per le scienze esatte,dove verifiche oggettive e sperimentazioni semprepiù approfondite consentono di validare o invali-

dare una teoria. La psicoanalisi non è una scienza “esatta”, ma siiscrive nell’ambito delle scienze “storico-ermenutiche”. E questoperché la psiche è così solidale con la storia da essere profonda-mente attraversata e modificata dallo spirito del tempo, che è pos-sibile cogliere e descrivere solo con l’arte dell’interpretazione o,come oggi si preferisce dire, col lavoro ermeneutico.

Questo spiega perché, a partire da Freud, si sono sviluppati tan-ti percorsi interpretativi, approdati ad altrettante teorie psicoana-litiche, da cui hanno preso avvio le diverse scuole. In comune essehanno il concetto di «nevrosi» che Freud, dopo aver rifiutato diconsiderare la nevrosi una malattia del sistema nervoso come vo-leva la medicina di stampo positivista in voga al suo tempo, ha tra-sferito dal piano “biologico” a quello “culturale”.

(segue nelle pagine successive)

PAOLO REPETTI

Il mio inconscio è un reperto archeologico nel quale un os-servatore attento può trovare tracce stratificate di una tren-tennale storia clinica che spazia dai freudiani agli junghia-ni ai lacaniani e perfino ai famigerati comportamentisti. Lamia carriera di paziente in cura è cominciata a otto anni.Uno strano malessere che faceva su e giù all’altezza del ples-

so solare in prossimità del pranzo e della cena mi attanagliava e miimpediva di mangiare. Fu in quell’occasione che ebbi il mio primoincontro con una rudimentale figura di terapeuta: la portinaia delpalazzo. Mi fermavo a parlare con lei, una signora ebrea poco lo-quace ma dotata di un bel sorriso e di un robusto buon senso.

Da lei si intrattenevano altre figure solitarie, querule zitelle evedovi angustiati, e anche un ragazzino manesco che solo in suapresenza sembrava calmarsi. Il setting che si svolgeva in una guar-diola poco illuminata aveva anche le sue brave regole: mai fuoridell’orario di portineria e a bassa voce. E dunque non è un para-dosso. È lì che ho vissuto il mio primo transfert. Da adolescente imiei mi obbligarono ad alcune rare incursioni nello studio di unopsichiatra.

(segue nelle pagine successive)

i sapori

Ecco la Befana, dolci sotto il caminoLICIA GRANELLO e MARINO NIOLA

Freud

Quel restadi

che

Inconscio, Edipo, Super-ioCosa è cambiatoe come siamo cambiatia settant’anni dalla mortedel fondatoredella psicoanalisi

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la copertinaQuel che resta di Freud

Settant’anni fa moriva il padre della psicoanalisi dopo aver cambiatoper sempre non solo la cura della mente ma la nostra visione del mondoMentre scadono i diritti delle sue opere e c’è la corsa a ripubblicarle, BollatiBoringhieri rimanda in libreria i suoi capolavori curati dal grande MusattiEcco un bilancio di quanto dobbiamo all’uomoche disse che è il nostro inconscio a decidere per noi

34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 3 GENNAIO 2010

(segue dalla copertina)

Lo ha fatto definendo la ne-vrosi come un «conflitto»tra il mondo delle pulsioni(da lui denominato Es) e leesigenze della società (de-nominate Super-io) che ne

chiedono il contenimento e il controllo. In questa dinamica è possibile scor-

gere il tragitto dell’umanità e il suo di-sagio che Freud condensa in queste ra-pide espressioni: «Di fatto l’uomo pri-mordiale stava meglio perché ignoravaqualsiasi restrizione pulsionale. Incompenso la sua sicurezza di godere alungo di tale felicità era molto esigua.L’uomo civile ha barattato una partedella sua possibilità di felicità per unpo’ di sicurezza». Questa interpreta-zione del disagio psichico, che sposta lalettura della sofferenza dal piano biolo-gico a quello culturale, è la grande sco-perta di Freud, tuttora alla base dellesuccessive teorie psicoanalitiche che,per quanto differenti tra loro, rifiutanodi reperire le spiegazioni della soffe-renza psichica esclusivamente nel fon-do biologico dell’organismo.

A questa intuizione Freud è giuntograzie alla sua assidua frequentazionedella filosofia e in particolare di quelladi Schopenhauer, che Freud considerasuo «precursore»: «Molti filosofi posso-no essere citati come precursori, e so-pra tutti Schopenhauer, la cui “volontàinconscia” può essere equiparata allepulsioni psichiche di cui parla la psi-coanalisi». Secondo Schopenhauer,infatti, ciascuno di noi è abitato da unadoppia soggettività: la «soggettivitàdella specie» che impiega gli individui

per i suoi interessi che sono poi quellidella propria conservazione, e la «sog-gettività dell’individuo» che si illude didisegnare un mondo in base ai suoiprogetti, che altro non sono se non illu-sioni per vivere, senza vedere che a ca-denzare il ritmo della vita sono le im-modificabili esigenze della specie.

Questa doppia soggettività viene co-dificata dalla psicoanalisi con le parole«io» e «inconscio». Nell’inconscio oc-corre distinguere un inconscio «pul-sionale» dove trovano espressione leesigenze della specie, e un inconscio«superegoico» dove si depositano e siinteriorizzano le esigenze della società.Sono esigenze della specie la sessua-lità, senza la quale la specie non ve-drebbe garantita la sua perpetuazione,e l’aggressività che serve per la difesadella prole. Queste due pulsioni, pro-prio perché sono al servizio della spe-cie, l’io le subisce, le patisce, e perciò di-ventano le sue «passioni», che la so-cietà, per salvaguardare se stessa, chie-de di contenere, nella loro espressione,entro certi limiti.

Tra le esigenze della specie (Es o in-conscio pulsionale) e le esigenze della

società (Super-io o inconscio sociale)c’è il nostro io, la nostra parte coscien-te, che raggiunge il suo equilibrio neldare adeguata e limitata soddisfazionea queste esigenze contrastanti, la cuiforza può incrinare l’equilibrio dell’io(e in questo caso abbiamo la nevrosi) oaddirittura può dissolvere l’io soppri-mendo ogni spazio di mediazione tra ledue forze in conflitto, e allora abbiamola psicosi o follia. La psicoanalisi, cheper curare ha bisogno dell’alleanza del-l’io, può operare solo con la nevrosi, ag-giustando le incrinature dell’io, mentreè impotente con la psicosi, dove incon-scio pulsionale e inconscio socia-le confliggono corpoa corpo,

senza uno spazio di mediazione.Ma proprio perché la psiche è «stori-

ca» e perciò muta col tempo, non si puòessere fedeli a questa grande intuizio-ne di Freud, se non superando Freud,perché il suo concetto di nevrosi ben siattaglia a una «società della disciplina»dove la nevrosi è concepita come un«conflitto» tra il desiderio che vuole in-frangere la norma e la norma che tendea inibire il desiderio. Oggi la società del-la disciplina è tramontata, sostituitadalla «società dell’efficienza» dove lacontrapposizione tra «il permesso e ilproibito» ha lasciato il posto a una con-

trapposizione ben più laceranteche è quella tra «il possibile e l’im-possibile».

Che significa tutto questo aglieffetti della sofferenza psichi-ca? Significa, come opportu-namente osserva il sociologofrancese Alain Ehrenberg inLa fatica di essere se stessi(Einaudi), che nel rapportotra individuo e società, lamisura dell’individuoideale non è più data dal-la docilità e dall’obbe-

dienza disciplinare, ma dal-l’iniziativa, dal progetto,dalla motivazione, dai risul-tati che si è in grado di ottene-re nella massima espressione disé. L’individuo non è più regolatoda un ordine esterno, da una confor-mità alla legge, la cui infrazione generasensi di colpa, ma deve fare appello al-le sue risorse interne, alle sue compe-tenze mentali, per raggiungere quei ri-sultati a partire dai quali verrà valutato.

In questo modo, dagli anni Settantain poi, il disagio psichico ha cambiatoradicalmente forma: non più il «con-flitto nevrotico tra norma e trasgressio-ne» con conseguente senso di colpama, in uno scenario sociale dove nonc’è più norma perché tutto è possibile,la sofferenza origina da un «senso di in-sufficienza» per ciò che si potrebbe fa-

re e non si è in grado difare, o non si riesce a fa-re secondo le attese al-trui, a partire dalle quali,ciascuno misura il valoredi se stesso. Per effetto diquesto mutamento, scri-ve Eherenberg: «La figuradel soggetto ne esce ingran parte modificata. Ilproblema dell’azione nonè: “ho il diritto di compier-la?” ma: “sono in grado dicompierla?”». Dove un falli-mento in questa competi-zione generalizzata, tipicadella nostra società, equivalea una non tanto mascherataesclusione sociale.

Del resto già Freud, consi-derando le richieste che la so-cietà esigeva dai singoli indivi-dui, ne Il disagio della civiltà sichiedeva: «Non è forse lecita ladiagnosi che alcune civiltà, oepoche civili, e magari tutto il ge-nere umano, sono diventati “ne-vrotici” per effetto del loro stessosforzo di civiltà? [...] Pertanto non

provo indignazione quando sento chi,considerate le mete a cui tendono i no-stri sforzi verso la civiltà e i mezzi usatiper raggiungerle, ritiene che il gioconon valga la candela e che l’esito nonpossa essere per il singolo altro che in-tollerabile».

Alla domanda iniziale: cosa resta diFreud a settant’anni dalla sua morte?Rispondo: l’aver sottratto il disagio psi-chico alla semplice lettura biologica,l’averlo collocato sul piano culturale,l’aver intuito per effetto di questa col-locazione che il disagio psichico si mo-difica di epoca in epoca, per cui compi-to della psicoanalisi, più che attorci-gliarsi nelle diverse denominazionidelle nevrosi, è quello di individuare lemodificazioni culturali che caratteriz-zano le diverse epoche, che tanta riper-cussione hanno sulla modalità di am-malarsi «nervosamente».

UMBERTO GALIMBERTI

© RIPRODUZIONE RISERVATA

LETTEREIn questa pagina,

le lettere con le quali

Paolo Boringhieri

a partire dal 1956

chiede a Cesare Musatti,

pioniere della piscoanalisi

in Italia, di curare

l’opera omnia di Freud

La contrapposizioneben più laceranteè quella tra possibilee impossibile

Oggi la societàdella disciplinaè diventata societàdell’efficienza

I LIBRI

A settant’anni dalla morte di Freud sono

scaduti i diritti delle sue opere che in Italia

sono state pubblicate da Bollati Boringhieri

In occasione dell’anniversario la casa editrice

manda in libreria l’8 gennaio tre titoli

fondamentali dell’edizione di riferimento curata da Cesare Musatti

in edizione economica: L’interpretazione dei sogni, Psicopatologiadella vita quotidiana e Introduzione alla psicoanalisi

La profezia del dottor F.saremo sempre nevrotici

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 3 GENNAIO 2010

Io, il paziente perfetto

PAOLO REPETTI

(segue dalla copertina)

Per me e i miei genitori, che nulla sa-pevano di psicoanalisi, quello era unvero medico, dotato di scrivania di

noce, martelletto per i riflessi, pila per il con-trollo delle pupille e il cui sapere rassicuran-te aveva come espressione manifesta il fami-gerato ricettario dove la sua firma di offician-te di un’autentica scienza campeggiava sot-to i farmaci prescritti.

Nulla di tutto questo in analisi, cominciataqualche anno dopo. Quella stanza svuotata diqualsiasi autorevolezza clinica era piena solodi parole e fantasmi, immagini e sogni, sottoil controllo paziente di un “tecnico dell’in-conscio” che aveva con i miei sintomi, il ma-lessere e la mia angoscia, un rapporto di com-prensione, privo di pregiudizi. Io e il mio ana-lista imparavamo uno straordinario «giocolinguistico» — che è la vera grande rivoluzio-naria scoperta di Freud — in cui ricostruendoassieme pezzi inghiottiti della mia biografiarendevamo attivo quel processo che miavrebbe portato col tempo — e mai in mododefinitivo — ad accettare che nessuno è de-positario del segreto della tua guarigione.

Il percorso è lungo, dispendioso, acciden-tato. Ma non ho conosciuto altre scorciatoie.La psicoanalisi non è una filosofia di vita chedà senso alla tua esistenza. Non è un pienoche riempie una lacuna. Per quello ci sono ilbuddismo, lo yoga, la religione, il turismoorientale. La guarigione stessa è solo un limi-te che si sposta come quando guardiamo l’o-rizzonte. A un certo punto accade. Assomigliaallo sgretolamento di un muro. Un muro checi difendeva dalla vista insopportabile delmondo «così come è», nudo e crudo, e che orapossiamo finalmente guardare con i nostriocchi senza temere di esserne sopraffatti.

Certo nel corso del mio trentennale girova-gare tra uno studio e l’altro sono stato un pa-ziente tutt’altro che fedele. Ho persino avutoper tre mesi due analisti in contemporanea.Un freudiano e uno junghiano. Ero un poli-teista alla ricerca ansiosa di un monoteismoda abbracciare e mettevo ingenuamente aconfronto i vantaggi dei riti più diversi. Sonostato colpito dal virus lacaniano. Per un anno

sembrava che parlassi con le maiuscole. IlDesiderio, l’Altro, il Significante. E ancorauna breve e intensa partecipazione a un grup-po terapeutico presso un’analista seguace diWinnicot. Esperienza che non ebbe alcun ef-fetto sui sintomi ma che mi permise di cono-scere una ragazza più nevrotica di me e dellaquale divenni amante e vice-terapeuta.

Ero ancora un paziente nevrotico, ma do-tato di un sapere minuzioso che elargivo congenerosità ad amici e fidanzate. Come quegliipocondriaci che pensano di vincere la ma-lattia immaginaria trasformandosi in medi-ci dilettanti. A trent’anni finalmente l’incon-tro con un vecchio analista junghiano, unebreo polacco che, per inciso, era nato nellastessa città del ginecologo di mia madre, an-ch’egli ebreo: semplice coincidenza o sin-cronicità junghiana? All’inizio ero ancoratalmente immerso nello studio del Signifi-cante lacaniano che i primi sei mesi di sedu-te, invece di affrontare dolorosamente gli ef-fetti catastrofici di un’autostima ridotta a ze-ro — quello che il mio analista chiamava ilmio Sé schifoso — ero io a tenere dotte lezio-ni al terapeuta sulle Macchine Desideranti diDeleuze e Guattari dei quali avevo seguitouna e una sola lezione presso il Dams di Bo-logna. Ebbene dopo sei mesi di farneticanticonferenze lentamente cominciai a scoprir-mi e a raccontare qualcosa di me. Tutto co-minciò con un sogno di pipistrelli e colombeche il terapeuta accolse con un sorridente:«Ecco questa è la prima moneta d’oro da in-filare nel salvadanaio».

E invece, da sempre, una naturale diffi-denza verso la cosiddetta psicoanalisi dell’Ioche ha in America la sua culla e nei film diWoody Allen la sua caricatura più appropria-ta. Una psicoanalisi ridotta a ortopedia del-l’io, tecnica di adattamento, normalizzante efelicemente convinta che l’american way oflife sia la vita stessa.

In questi giorni ho iniziato la mia quinta te-rapia. L’archeologo che si imbatterà nel mioinconscio scoprirà le tracce di una bonaria esorridente diffidenza e una disponibilità iro-nica verso questo nuovo viaggio. Segno che ilmuro comincia a mostrare le sue crepe.

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l’attualitàMercanti di morte

In principio furono scrittori e intellettuali. Poi, durante la Grande guerra, andò di moda tra i piloti “un po’ giù di nervi”. Vent’anni fa toccò ai rampanti yuppiesOggi, tagliata con sostanze micidiali, non è più la droga dei ricchi, ma di operai, muratori e tranvieriÈproprio questa l’ultima vera magia della polverina bianca

36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 3 GENNAIO 2010

Miracoli ne fa, non c’è dubbio, an-che se cattivi. E per lo più di na-tura illusoria. Per esempio sem-bra tanta quando è poca. Menodi così non ce n’è mai stata daquindici anni, eppure i rapporti

ufficiali parlano di consumo dilagante e addirittu-ra in espansione. La cocaina, sembra strano, scar-

seggia: la «polverina magica» regala l’ennesima il-lusione di massa nella sua storia. «Sono rovinato»,confida a Repubblica un uomo che per ovvie ragio-ni chiede l’anonimato: «Noi fornitori del segmen-to-lusso stiamo perdendo clientela». Parla propriodi segmento-lusso: come tutte le industrie moder-ne anche questa applica strategie di marketing perindividuare, classificare e incrementare gli stili divita compatibili con il consumo. «Nelle fasce altel’impossibilità di trovare cocaina buona spinge icannabinoidi», spiega il nostro dealer, «è quella og-gi la droga dei ricchi».

Altro che sostanza d’élite: la coca sulle nostrepiazze è merce con principio attivo inferiore al di-ciotto per cento, addirittura in certi casi, truffe piùche narcotraffico, inferiore all’uno per cento. Dosida trenta euro, ma a volte anche da dieci, che as-sorbono l’intero mercato, tagliate con le sostanzepiù varie: dalla mannite al vetro tritato dei tubi alneon, che dà alla polvere una specie di scintillìo perfar credere ai più ingenui di avere per le mani la«perlacea», meraviglia al novantacinque per centoche a Napoli, secondo il nostro confidente, «non sivede dai tempi di Maradona».

Tanta roba e poca sostanza, insomma. È effettodel nuovo boom del consumo negli Usa, proprioquel mercato la cui flessione all’inizio degli anniNovanta causò l’invasione di cocaina in Europa. Ipotenti clan messicani che controllano il Centroa-merica assorbono quantità senza precedenti dimerce, diminuendo il volume del traffico verso

l’Europa. Sono le ’ndrine calabresi, partner d’affa-ri dei messicani, a controllare la piazza d’arrivo pri-vilegiata in Europa, la Spagna. Ed è proprio il ruolodei calabresi ad aver contribuito a fare di Madrid lanuova Borsa europea della cocaina in sostituzionedi Amsterdam. La scelta dei clan è di mantenere ilconsumo a livelli di massa, aumentando i tagli esmerciando al dettaglio roba di poco valore. È la po-litica anche dei camorristi che tendono a lasciare lapiazza del dettaglio in gestione a terzi indipenden-

ti — con guadagni proporzionali al «rischio d’im-presa» — e a conservare il controllo del canale di ap-provvigionamento. Un criterio organizzativo snel-lo ed efficace: meno fiancheggiatori, meno dete-nuti, meno spese e più sicurezza (molti pentimen-ti in carcere sono dovuti al bisogno di mantenerefamiglie che non hanno più il sostegno del clan).Ma anche meno controllo sulla merce e sui guada-gni selvaggi che tagli successivi e sostanza sempremeno pura garantiscono. Con buona pace del mi-

to della sostanza d’élite, che però proprio nellepiazze più povere sopravvive come marketing: «Èsu questo tipo di consumatore che fa presa l’ideadelle merce esclusiva. È questione di moda». Altrogioco di prestigio: roba da pezzenti venduta comestatus symbol.

Di magheggi vive la cocaina, nata per incremen-tare sogni e creatività. E non è la prima volta che famoda. Negli anni Sessanta, per esempio, il princi-pio attivo fu isolato dalla dottoressa rumena Ana

Aslan che lo commercializzò contro l’invecchia-mento (prima si chiamava «coca sintetica», poi piùprudentemente «gerovital»). Ma la prima ondata dimoda risale alla Grande guerra, quando i piloti «unpo’ giù di nervi» la usavano per rimettersi in forma,come scrive Ernst Jünger, il grande scrittore tede-sco che sulla soglia della morte — avvenuta a cen-todue anni — decise di provare ogni droga, il soloforse ad aver saputo dominare la mortale polverebianca. A ridosso vennero i giocatori d’azzardo:«Fiutavano con moderazione, all’incirca come sifuma un sigaro nero brasiliano o si prende uncaffè», anche se secondo il Journal de Médecinefrançaise nel 1924 a Parigi erano censiti ottantami-la cocainomani. Jünger la provò, come altri primadi lui: Stevenson che scrisse in poche notti di «ne-ve» Il dottor Jeckyll e Mr Hyde, Conan Doyle che fe-ce di Sherlock Holmes un nevrotico affetto da di-pendenza per la sua «soluzione sette per cento»,Gottfried Benn, Freud, Benjamin. E prima di loro gliadepti del Vino Mariani, ideato nel 1863 dal farma-cista corso Angelo Mariani: Gounod, Ibsen, Rodin,Zola, Verne, Edison, il generale Grant, e EdoardoVII principe di Galles, l’uomo più chic del mondo.Il vino corso guariva a furor di popolo ogni tipo dimale (un po’ come ora l’aloe), febbre, insonnia, maldi gola e impotenza: coeundi e generandi. QuantoMariani fosse un benefattore lo dimostra la meda-glia assegnatagli da papa Leone XIII. Quanto fosseun genio degli affari lo dimostra la concorrenza del-la bevanda di John Styh Pemberton, consigliata,co-

LUCA RASTELLO

Cocaina, il fascino del male

Il vetro tritato dei tubial neon per far credereai più ingenui di avereper le mani la “perlacea”

Il principio attivo fu isolatodalla rumena Ana Aslanche lo commercializzòcontro l’invecchiamento

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 3 GENNAIO 2010

proprio grazie all’equivoco in un’epoca che nonconosceva molti lenitivi per mali fisici e nervosi.Tanti futuri schiavi la incontravano nel corso di unaterapia, nelle vesti di antidolorifico, già indebolitidalla malattia.

Ma, infine, la vera forza della polvere bianca stanella sua redditività: moneta di tutti gli scambi ille-citi (e di molti “legali”, si pensi alle raffinerie gesti-te dalla Dea, l’agenzia antidroga Usa, scoperte altempo dell’affare Iran-Contras), la cocaina rende

nel passaggio dalla produzione alla vendita il mil-leduecento per cento del denaro investito. Ciò acausa della difficoltà di accesso al mercato al livel-lo del dettaglio, in parole povere della proibizione:con l’eroina, è la merce più redditizia nella storia,veicolo di accumulazioni vertiginose. Il volume deicapitali creati scoraggia le preoccupazioni sullaprovenienza, come mostrano alcuni numeri noti:secondo il rapporto annuale Onu sulle droghe, so-lo una quota fra l’1,2 e l’1,5 per cento dei guadagni

me recitava la pubblicità, «agli intellettuali e agli al-colisti in astinenza»: la Coca Cola. Le proprietà sti-molanti e anoressanti dell’alcaloide contenutonella coca attirarono poi l’attenzione dei militari ela sostanza fu sperimentata sulle truppe tedeschedurante la Guerra franco-prussiana. Era finita lapreistoria «romantica». L’estrazione dell’alcaloidefu perfezionata con metodi chimici raffinati.

«Le nostre notti sono troppo brevi per viaggi cheportano così lontano», scrisse Jünger descrivendo

la minaccia contenuta nell’eccesso di potenza:«Questa contraddizione — annotò — si può osser-vare non solo nello studio delle ebbrezze, ma anchein quello della pubertà: è qualcosa che nella storiasi ripete, tipico delle epoche di mutazione in cuitorna a comparire il titanismo». Aveva conosciutoda vicino il nazismo, Jünger, e praticava l’arte dellaprecisione: l’orrore per il titanismo e il suo fascinogli erano chiari, e la cocaina non ne fece uno schia-vo, come invece accade ai piccoli titani delle peri-ferie o a quelli — tanti, come risulta dalle inchiestedi Paolo Berizzi, Loris Campetti, Sandro De Riccar-dis — che ne fanno uso per sostenere tempi pro-duttivi sempre più incalzanti. Nei cantieri, in fab-brica o alla guida di un tram, come vent’anni fa frai pubblicitari newyorchesi o sulle piazze finanzia-rie, non è raro trovare chi fa uso di coca per reggerei ritmi impazziti di una condizione lavorativa sem-pre più precaria.

Del resto la fortuna della cocaina riposa anchesulla sua collocazione in una specie di terra di nes-suno dell’orizzonte simbolico, a mezza via fra dueposizioni inconciliabili: male da una parte, medici-na dall’altra, sostegno chimico per chi dalla vita ècostretto a correre. Per capire la contraddizione ba-sta provare a spiegare a un adolescente che la so-stanza che si procura da solo per ballare è malvagia,mentre non lo sono gli altri «aiutini» artificiali chemercato e famiglia propongono: dallo psicofarma-co all’integratore, alle sostanze legate ai miti dellosport. La moda della cocaina, in fondo, prese piede

rimane nei paesi produttori mentre, secondo l’A-genzia Usa per la sicurezza e l’investigazione, in ca-so di scomparsa del narcotraffico l’economia sta-tunitense rischia una flessione tra il 19 e il 22 percento, e l’Fbi di Miami segnala che nel sistema dicredito della Florida i narcos colombiani investonodieci miliardi di dollari l’anno. Facile immaginarecome le conseguenze di una reale caduta nell’eco-nomia della droga sarebbero disastrose non soloper la malavita.

Per questo probabilmente si insiste in strategieche in un secolo hanno dimostrato il loro fallimen-to; per questo le somme investite dalle NazioniUnite nella repressione inutile delle coltivazioni(103 miliardi di dollari nel decennio scorso) sonoincomparabili con quelle per la prevenzione delladomanda (14 milioni di dollari). La cocaina è utile,è un «nemico perfetto», incarna il male assoluto, le-gittima l’investitura politica di chi lo combatte (an-che quando non legifera sulle droghe). Ma, con-temporaneamente, regge una fetta troppo rilevan-te dell’economia globale. Quanto sia simbolico ilruolo attribuito alle droghe lo dicono le tabelle stes-se delle convenzioni Onu: fra le sostanze che indu-cono dipendenza l’eroina è seconda alla legalissi-ma nicotina, mentre i tassi di mortalità determina-ti da cocaina e eroina insieme non sfiorano neppu-re i livelli epidemici della mortalità da tabacco, daalcol o da uso dell’auto. Eppure a essere bandita intutto il mondo è la piantina di coca, di per sé inno-cua senza il trattamento con i “precursori” che svi-luppano l’alcaloide, tutti legali e prodotti nelle in-dustrie chimiche di paesi a economia avanzata.Forse non ha torto Dionisio Nunez, dirigente delsindacato boliviano dei coltivatori di coca: «Se lapiantaste di raccontare balle sulla coca, allora sì chesalvereste un bel po’ di vite. Non solo quelle di con-tadini schiavi dei narcotrafficanti. Ma anche tantevite che vi interessano di più: quelle dei cocaino-mani nei paesi ricchi».

che viene da lontano

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La provarono Stevenson,Conan Doyle, BenjaminPrima di loro c’erano gli adepti del Vino Mariani

Grazie al ruolo delle ’ndrinecalabresi, la nuova Borsaeuropea non è piùAmsterdam ma Madrid

Il posto occupatodall’Italia nel consumodi cocaina tra i paesi della Ue

TerzoGli italiani tra i 15 e i 64 anniche assumono cocaina In Europa sono il 3,6 per cento

6,95%La stima delle tonnellatedi cocaina che si vendonoogni anno in Italia

100Il giro d’affari, in euro, prodotto dalla cocainaStima annua italiana

30 mldLa percentuale di resain denaro della cocainadalla produzione alla vendita

1200Le tonnellate di cocainasequestratenel 2007 in Europa

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Rane mummificate, gufi di legno e maiolica,chiodi e moschettoni d’arrampicata, donnein legno. E poi, quintali di libri, fogli

alle pareti, biglietti, polvere, ragnatele. Fuori, le montagne del Vajont. Viaggio nel magazzino e biblioteca, antro di ciclope e laboratorio di alchimista di uno scrittore eremita

CULTURA*

38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 3 GENNAIO 2010

ERTO (Pordenone)

Nel buio arrivano primagli odori. Fumo di tosca-no e resina di abete, col-la da rilegatura, neve. In-

chiostro, carta, ghisa di stufa rovente,polvere, lana umida ad asciugare. For-maggio, legno scortecciato di cembro,pelo di cane, lama di ferro dolce passa-to alla mola. Poi cominciano i suoni.Botti e sfrigolii di ceppi sul fuoco, faggioben stagionato, tic-tac di una pendola acucù, un camino che tira, una radio abasso volume. Ultimi arrivano i rumorisommessi: pagine sfregate, ticchettardi pioggia, un pennino che gratta la car-ta come un topo.

Alla fine le visioni. Sulla porta, unafolla di mostri-amuleti contro il mon-do: rane mummificate, gufi di legno emaiolica, una morte con la falce. Sto en-trando in un posto che è tana e bottega,magazzino e biblioteca, antro di ciclo-pe e laboratorio di alchimista, accade-mia e spazio talibano. Per terra libri,chiodi e moschettoni d’arrampicata.Oltre, un bancone con centinaia di scal-pelli e una folla di donne in legno, gran-dezza naturale, anime abitatrici di albe-ri. Corpi nudi confabulanti, seni mon-tanari e zigomi alti.

La dimensione della stanza si deli-nea. Dieci metri per sette, più o meno, euna tempesta di oggetti, sedimentati daanni, un labirinto inimmaginabile cheporta al cuore nascosto della bottega.Coltelli, occhiali, rastrelliere di penneallineate come fucili, risme di quaderni

neri, forbici, lime, scarponi, un pistolo-ne da Far West, un pettine, una lima, bi-gliettini con nomi, numeri di telefono eappunti sparsi. Sopra, ragnatele, e unluna park di fili elettrici con lumini ap-pesi e interruttori. Servono a farsi il pro-prio sentiero di luce, accendendo unalampadina alla volta e spegnendo quel-la che si lascia alle spalle.

Sfioro una gabbia che par vuota e in-vece nasconde un tordo che starnazza emi fa morir di spavento. Lampi nel buioilluminano libri sparsi. Un dizionariodei sinonimi e contrari, Educazione si-berianadi Lilin, Storie chassidichedi Bu-ber, Canto di vita di Hoffmanstahl.Qualche foto di Mario Rigoni-Stern, ilvecchio. Apro a caso le poesie di Esenin:c’è scritto «È già sera, la rugiada scintillasull’ortica». Ora la stufa è vicina, pare unfacocero che grufola su zampe di ghisa.Anche l’uomo è vicino, lo senti dall’odo-re del sigaro. Una nube azzurra esce dauna parete di libri — l’ultimo rifugio — eviaggia verso la bocca del camino.

La tana dell’animale

«Chi è là?», si sente dal profondo. Vocedi Polifemo nella caverna. Mauro, agilecome un gatto, sbuca dai libri con ca-notta nera, bandana e toscano. Siamoarrivati alla trincea dello scrittore. Unacassapanca che fa da letto e una planciadi tre tavolini affiancati, costruiti con lesue mani. Un labirinto di cassetti, para-tie, tavole estraibili. Il tutto coperto discritte e nascosto da un muraglione dilibri. Fuori nebbie, la sera blu che scen-de sulla montagna del Vajont ancorascuoiata dalla frana, traslucida comepelle di pescespada. Dentro una fucina

di legno, ferro e carta. La bottega diMauro Corona.

«Qua se ciapa fogo — ride giocandocol tizzone del sigaro — di me non tro-vano nemmeno la cenere», e butta altralegna nella stufa. L’uomo che esce incanottiera d’inverno ama arrostirsiquando sta al chiuso, segno di vita pen-dolare tra la tana e le montagne. «Son

come una martora, un predatore senzapace… mi piace scappar qua dentro,dove non mi vede nessuno». E poi? «Epoi viene il tempo che la tana ti graffia èalora l’è tempo se sortir… Quando siesce cambia il respiro, diventa più lun-go e lento… Dentro invece ansimo, co-me le talpe. È la concentrazione, chenon permette al pensiero di scappare».

Un crocefisso, I racconti di Kolyma,una vecchia caraffa da vino annerita,un armonica a bocca Hoehner, fax diinviti a conferenze, il sacco a pelo perdormire, cuscini, ago e filo. «Mia mo-glie non mi cuce più, e ha ragione…Undicesimo comandamento: arran-giarsi». Appeso a un filo tra le lampadi-ne pensili, lo scheletro di un uccellino,

OfficinaCorona

Il cacciatore di parolenella bottega-foresta

PAOLO RUMIZ

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“La vera casa è la stanza dove tutti gli oggettiche mi servono possono guardarmi. Gli oggettihanno gli occhi, che ti credi? Posso prendere tuttoquello che occorre. Anche… il fucile. Fucile perché?Contro gli italiani, mica contro gli extracomunitariNon ne posso più di questo paese che diventa razzista”

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 3 GENNAIO 2010

con qualche piuma. Sembra che canti.«È un talismano, quando ho energiariesco a farlo muovere col pensiero, daqui a lì». Chiedo: e fuori dalla tana chesuccede? «Fuori vengono le idee, le ful-minazioni! Se non cammino, loro nonvengono; ma devo beccarle al volo, fis-sarle su un fogliettino, altrimenti indieci metri son già perse».

E nel dormiveglia? «Ah, la fase Rem!Anche lì vengono le visioni! Quandonon dormi e non sei sveglio… momen-ti di pace senza limiti… ma se apri gliocchi tutto finisce. Studio Rudolf Stei-ner per imparare a fermare quelle im-magini». S’è svegliato il vento, ora lastufa rugge e le lampadine appeseoscillano leggermente. «Sono la miafollia… ce ne saranno quaranta… quadentro niente è a norma… Niente lucigrandi, a me piace illuminare una cosaalla volta». Fa scattare gli interruttorisaltando qua e là, accende La pioggiagialla di Llamarazes, la scatola dei to-scani, Il libro dell’inquietudine di Pes-soa, una piccola farmacia con cerottida arrampicata, forbici, essenze per ilnaso.

La biblioteca senza fine

«La vera casa è la stanza dove tutti gli og-getti che mi servono possono guardar-mi… Gli oggetti hanno gli occhi, che ticredi? Qui, stando seduto, posso pren-dere tutto quello che occorre. I libri, lamannaia… il fucile». Fucile perché?«Contro gli italiani, mica contro gli ex-tracomunitari… Non ne posso più di

questo paese che diventa razzista». Lafolla di presenze si anima, annuisce. Ledonne ertane profumate di legno, l’an-gelo azzurro arrivato dalla Russia, ilSant’Antonio fatto da Genio Damiandopo il disastro della diga, tronchi dascolpire, rami contorti.

La foresta è entrata nella bottega. Labottega è foresta. L’odore di pino cem-bro. La durezza del maggiociondolo. Lapersistenza del larice, tagliato a novem-bre con la luna calante, roba che durasecoli, senza bisogno di vernice. Intor-no, montagne di libri. Tutto Hrabal, tut-to Borges, tutto Jean Giono. E poi Cio-ran, Gombrowicz, volumi sottolineatipagina per pagina. Corona è un figliodella cultura orale che ha letto da mori-

re. Milioni di pagine. Trecento quintali,due autoarticolati pieni. La stanza ri-corda Auto da fé di Canetti, ma al con-trario: la casa-libro come caos assoluto,non come ordine maniacale.

Su tutto, un buon dito di polvere.Problema? Macché. «Se qualcuno misposta le cose sparo. Qui trovo tutto. Epoi la polvere è il segno del tempo. To-glierla è come togliere la neve. Bisognaaspettare che se la porti via il vento».Ovunque occhiali, Mauro ne ha a deci-ne, sparsi in ogni angolo, anche nei bar.«Li compro dai marocchini, così li aiu-to». E poi specchi, piccoli e grandi, inogni angolo. Non per tagliare i baffi, enemmeno per le allodole. Gli specchiservono a ingrandire il posto, sfondare

la stanza, aprire finestre, sfuggire al-l’Horror Vacui.

«Sono feticista, la mia malattia è ave-re tutto a disposizione e sapere tutto amemoria». Nella stanza aforismi e cita-zioni stanno appesi in ogni spazio libe-ro. Leggo di Platonov: «Ogni giorno si ri-pete perché gli uomini ricordino ciò cheè indispensabile. E invece la gente pen-sa che sia il tempo che passa». Chiedo albrigante: ma come fai a sfuggire al trop-po pieno? «Regalo o brucio nella stufa.Sottrarre, sottrarre sempre… gesti, pa-role, legno… La vita è come scolpire, bi-sogna togliere, più hai e peggio è. Leggiqua cosa dice Baring: se volete saperecosa Dio pensa del denaro, basta guar-dare quelli cui lo dà».

La lingua e le voci

Fuori c’è odore di neve. Ne è venuta tan-ta a dicembre, poi col tempo matto se n’èandata mezza via. Mauro stacca un col-tello piantato sulla scrivania, affetta unsalame arrivato da un lettore di Modena,uno che segue i lupi in Appennino. Sfo-glio pile di quaderni a righe, copertinanera, riempiti con scrittura minuta e co-sì regolare da sembrar battuti a macchi-na. Lavoro fine, di china color seppia ecancellina. I più vecchi, quelli dei primilibri, sono a pagina pulita, e la scrittura —millimetrica — ha l’andamento fluidodelle venature di un albero.

L’ultimo testo, Il canto delle manere,storia nomade di un boscaiolo che viag-gia tra il Piave e la Mitteleuropa. È il libroche segna la riconquista dell’oralità ori-ginaria. «Ci ho messo dieci libri per capi-re che lì dovevo tornare… La lingua è lacasa, va bene com’è, non serve dargli lacera. Mio padre morendo non ha detto“Mamma”, ha detto “Oma”! Capisci?».Ed ecco “Pitussìn” per dire uccellino,bambino gracile e sfortunato; “Dhocol”,giovane capretto, adolescente che scal-pita… «Come fai a rendere queste me-tafore nella lingua codificata?». Così ladiga si è rotta, ora lascia passare “straco”al posto di stanco, “patuss” invece dimucchietto di polvere, “Thediga” inve-ce di pendìo.

E il vino, Mauro? «Con quello ho chiu-so. Anche con la birra. Ero diventato uncane idrofobo. Il fegato si era gonfiato,minacciavo mia moglie col fucile, senti-vo suonare flauti che non c’erano, litiga-vo con tutti. Il fegato è importante: il flus-so viene da lì. Non è il cuore il centro ditutto, quella del cuore è una balla… Gliantichi nei vasi sacri non mettevano ilcuore, ma il fegato…». Anche stavolta lasalvezza è venuta dalla montagna e dal-la scrittura; dall’andirivieni talmudicofra il mondo e il libro. «Solo scrivere mi fauscire dalle mie maledizioni. Mi raccon-to una storia, mi ascolto e mi consolo.Con la scultura non funziona, non è unadimensione così totale, terapeutica».

La biblioteca sembra crollare sullacassapanca, i cuscini e il sacco a pelo, èun’illusione ottica delle notti più lunghedell’anno. Ora sono i libri e cercare ilMauro, non il contrario. Ci si apre da-vanti un testo di Giono, parla dell’ulula-to del vento in un paese. Poi tocca a Ese-nin: «Ha smesso il bosco dorato di can-tare / con la sua gaia lingua di betulle / ele gru nel loro lento volo / non hanno piùalcun rimpianto». Resta lì, col libro aper-to. Mormora: «Un verso così tiene in pie-di il mondo». Sospira: «La Russia! Vorreivedere le Isole Solovkij, il monastero di-ventato gulag». Mette un panno sullagabbia del tordo; la pendola batte le ottocon la voce del cuculo; la tempesta di og-getti, libri e lampadine appese si placacome d’incanto.

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PENOMBRALe foto di queste

pagine sono

state scattate

nella bottega

di Mauro Corona

da Monika Bulaj

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Il 4 gennaio di trecento anni fa nasceva il compositoreche in soli ventisei anni di vita passò alla storia come punta di diamante della scuola partenopea

Nel corso del 2010 lo ricorderanno festival, convegni e concerti E, grazie ai documenti ritrovati negli archivi del Banco di Napoli e allo studiofilologico su spartiti sconosciuti, si ricostruirà la sua opera autentica

SPETTACOLI

Nei caveau sono conservati polizze,contratti, testamenti, ricevute di pagamentoe accordi economici che testimonianole alterne fortune del musicista

40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 3 GENNAIO 2010

Il 4 gennaio 2010 Giovanni Batti-sta Pergolesi (1710-1736), com-positore di musiche d’intensitàmeravigliosa, capaci di toccarele corde più profonde di chiascolta, festeggia il trecentesi-

mo anniversario della pro-pria nascita. Lecitoparlare di lui al pre-sente. Sia perchéil genio scansadeclinazionitemporal i ,sia perché lafesta è vivae attuale:o c c u p adall’inizioil 2010 epercorret r i o n f a l -mente i l2011. A Jesi,sua città na-tale, nel gior-no del com-pleanno e nelteatro che porta ilsuo nome, prenderàil via il ricco calendario dicelebrazioni. Via via, lungo imolti mesi del programma, sarannomesse in scena sei opere teatrali e verràeseguito l’intero repertorio della suamusica vocale, strumentale e sacra:brani scritti in un tempo miracolosa-mente breve, dato che il marchigianoPergolesi (però fu Napoli il suo regno, epassò alla storia come una tra le puntedi diamante della gloriosa scuola par-tenopea) morì di tisi a soli ventisei an-ni, poco dopo aver terminato in un con-vento di Pozzuoli il capolavoro estre-mo dello Stabat Mater. Il festival saràsuddiviso tra giugno, settembre e di-cembre, e anche la parte teorica sipreannuncia imponente, con cinqueconvegni internazionali a Napoli, Mi-lano, Roma, Dresda e Jesi.

Intanto è già operativo e massiccio illavoro di edizione critica delle partitu-re pergolesiane. «Per realizzare l’im-presa, che durerà dieci anni e che pre-vede la pubblicazione di venti volumi,è stata formata nel 2009 una commis-sione di esperti», dichiara il musicolo-go Vincenzo De Vivo, consulentescientifico della Fondazione PergolesiSpontini di Jesi. È quest’istituzione,animata e amministrata da WilliamGraziosi, a funzionare da motore delprogetto di riscoperta, autenticazionee rilancio di un artista dal destino mi-sterioso e altalenante, le cui sorti se-gnate dalla sfortuna (mali polmonari loafflissero dall’infanzia, la polio gli offe-se una gamba e fu il solo superstite diquattro fratelli: gli altri morirono in te-nerissima età), giunsero a farne un sim-

bolo spiccatamente preromantico, ac-centuandone aspetti lirici e sentimen-tali a scapito di caratteristiche quali ilrigore dei ritmi, la potenza drammati-ca, la peculiarità dello stile e l’ironia pe-netrante del teatro buffo (come nell’o-pera La serva padrona).

Accadde addirittura che per alimen-tarne l’immagine oleografica gli

siano stati attribuiti nume-rosi apocrifi: solo negli ul-

timi decenni, grazie amusicologi come

Francesco Degrada,i tanti falsi sono sta-ti smascherati. Eper illuminare lesue grandioseverità hanno fat-to molto (e mol-to stanno facen-do) interpreticome ClaudioAbbado, che a Je-

si dirigerà un con-certo il 25 settem-

bre 2010 e che stacompletando un im-

portante ciclo di inci-sioni pergolesiane, e co-

me Riccardo Muti, il qualeesplora con appassionata de-

vozione, fin dall’alba della sua carrie-ra, i palpiti e la napoletanità di uno tra imusicisti che gli stanno più a cuore.

Il lavoro filologico passa anche attra-verso il gigantesco patrimonio di carteconservato dal Banco di Napoli, città incui Pergolesi, bambino prodigio, ven-ne mandato a studiare, distinguendosisubito come violinista eccelso, e già alConservatorio suonava come capo-

paranza, ovvero guida di un ensembleche accompagnava funerali e altri riti.Sotto la dominazione austriaca la capi-tale del Mezzogiorno attraversava unafase di creatività sfolgorante, con l’esi-to di un mercato di vivacità freneticaper l’arte. Il che spiega la mole di docu-menti accumulatisi negli archivi delBanco, «che testimoniano la fitta tramadi rapporti su cui si fondava la produ-zione musicale in un’epoca fer-tilissima per Napoli, cheirradiava cultura nel-l’intera Europa», riferi-sce Francesco Cotticel-li, che con PaologiovanniMaione coordina il gruppo di stu-diosi a cui spetta il compito di scheda-re i giornali di cassa delle sette sedi del-l’istituto di credito attive a Napoli nelperiodo in cui si manifestò il talentopergolesiano, dal 1727 al 1736. E ag-giunge che «l’archivio della banca in-clude polizze, contratti, testamenti, ri-cevute di pagamento e accordi di variogenere tra musicisti e committenzequali teatri, chiese e impresari».

Si nutre anche di tali materiali un

Le musiche segretedel genio bambino

Pergolesiritrovato

AFFARIIn questa pagina un documento

ritrovato nell’archivio del Banco

di Napoli relativo agli affari di Pergolesi

e due ritratti del musicista

LEONETTA BENTIVOGLIO

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 3 GENNAIO 2010

viaggio nelle fonti che puòdettare cambiamenti nellaprassi esecutiva, «rilevandocome spazi e contingenze,disponibilità finanziarie emomenti politici, influisserosul numero dei leggii e sulle ti-pologie strumentali», affer-ma Cotticelli. Inoltre questonuovo metodo d’indagine

«porta a definire meglio la fisionomiadella scena napoletana nel Settecento,col suo circuito di botteghe sonore do-ve primeggiavano i musici-artigiani».Tra loro non figura solo Pergolesi: dalgiacimento affiorano tasselli biograficie musicali di altri esponenti quali Scar-latti, Vinci, Jommelli e Paisiello. Com-positori così fecondi che al prezioso fi-lone partenopeo Muti sta dedicandodal 2007 a Salisburgo il programma an-nuale del Festival di Pentecoste, di cuiè il responsabile artistico.

Va detto che è un’esperienza emo-zionante, per il visitatore, avventurarsinei locali dell’antico palazzo di Via deiTribunali dov’è custodito l’archiviostorico del Banco, immerso in un silen-zio pregno dell’odore delle vecchiepergamene. Spiccano a migliaia, negliscaffali che tappezzano i muri altissi-mi, raccoglitori, faldoni e libri contabi-li di misure diverse, e in certe stanzependono dal soffitto, senza toccare ilsuolo, poderosi “salami” cartacei, cioèmega-cilindri di documenti sovrappo-sti: «Era in uso tenerli sollevati da terraperché non fossero rosicchiati dai topio guastati dalle inondazioni», raccontaDe Vivo. Scorre anche in questa sceno-grafia densa di suggestioni l’eterna vi-talità della grande musica.

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Un visionario che anticipòBach e Mozart

CLAUDIO ABBADO

Compositore al centro di un progettoal quale lavoriamo da tempo insie-me all’Orchestra Mozart di Bologna,

Pergolesi è stato un musicista determinan-te nella storia della musica e ha avuto unforte influsso su autori quali Bach e Mozart.Scomparso appena a ventiseianni, in un quinquennio è riusci-to a scrivere capolavori stupefa-centi per preveggenza, proiettatiun secolo in avanti dal punto divista armonico e musicale. Eraun geniale visionario capace dicogliere tracce da Gesualdo daVenosa, col quale condivide la fa-coltà di creare musiche eccezio-nalmente innovative per modu-lazioni, accordi e cromatismi, le-gate a testi che parlano di dolore,passione e morte. Nei suoi venti-sei anni di vita, ha compiuto laparabola completa della sua arte composi-tiva. Cos’altro avrebbe potuto comporre dicosì perfetto che non avesse già scritto? InItalia mi sembra giusto ricordarlo (lo ab-biamo fatto in precedenza per Gesualdo daVenosa e per Rossini) facendone conosce-re anche le pagine meno note, e non solo ilfamoso Stabat Mater.

Con la Deutsche Grammophon, nel2009, abbiamo

completato un trittico interamente dedica-to a composizioni del grande musicista inoccasione del terzo centenario della suanascita, che cade nel 2010. Quasi tutte sonodi carattere sacro. L’estate scorsa è uscito ilprimo disco, inciso dal vivo al Teatro Man-

zoni di Bologna: oltre allo StabatMatere al Salve Regina in Do mino-re, comprende il Concerto per vio-lino (con Giuliano Carmignola), lacui autenticità pergolesiana è stataaccertata solo negli ultimi decenni.Qui l’ardita tessitura dello stru-mento solista anticipa certe carat-teristiche del romanticismo musi-cale europeo. Temi minimi si so-vrappongono, si amplificano e sirestringono nell’incalzare ritmicodell’accompagnamento orche-strale. In febbraio esce il secondodisco, che include la Messa di S.

Emidio e altri capolavori di Pergolesi tra-scurati dal repertorio tradizionale, mentrel’ultima pubblicazione discografica, previ-sta in marzo, raccoglie brani pergolesianinon molto noti come il Dixit Dominus e lacantata Chi non ode e chi non vede. I brani dientrambi questi cd sono stati registrati nel-la Chiesa di Santa Cristina a Bologna.

(Testo raccolto da Leonetta Bentivoglio)

MAESTROClaudio Abbado

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Il dolore dello “Stabat Mater”un messaggio moderno

RICCARDO MUTI

Prima dell’Ottocento nessun compo-sitore italiano, forse con l’eccezionedi Palestrina, ha avuto la fama uni-

versalmente riconosciuta di Pergolesi, ce-lebre al punto che il suo stile fu imitato damusicisti a lui coevi o immediatamentesuccessivi, con l’esito di una seriedi falsi che per lungo tempo glisono stati attribuiti. E se tra i suoidetrattori c’è Berlioz, che lo at-taccò in un articolo del 1859 inti-tolato Fame usurpate, il musici-sta Grétry disse all’opposto chein Italia si ignorava che la decla-mazione è sorgente della buonamusica, e che la verità affiorò so-lo alla nascita di Pergolesi. In ef-fetti è stato il compositore chemeglio di chiunque altro, tra isuoi contemporanei, ha inter-pretato la nuova drammaturgiainsita nel melodramma di Metastasio,prendendo le distanze dai modelli tardo-barocchi, scagliandosi contro gli abusi deicantanti, e sottolineando l’espressivitàdella parola, come testimonia lo StabatMater.

Bellini definì questa composizione «ilpoema del dolore», e anche Rossini ne ave-va un rispetto immenso. Espressione asso-luta delle più dolenti passioni dell’animo

umano, lo Stabat Mater, che ho inciso per laEmi nel 1996 insieme ad altri brani pergole-siani, e di cui esiste anche un dvd che ho re-gistrato nel Santuario della Beata Verginedei Miracoli di Saronno, venne ufficial-mente commissionato a Pergolesi per so-

stituire lo Stabat Mater di uno deigrandi padri della scuola napoleta-na, Alessandro Scarlatti, eseguito aNapoli ogni primo venerdì di mar-zo quando si esponeva il Santissi-mo Sacramento. Questo per direquanta ammirazione suscitasse ilgiovane musicista di Jesi.

Si è parlato molto della vita diPergolesi spezzata precocementedalla tisi, fino a favoleggiare que-st’autore in senso “romantico”. Ilche ha rischiato di metterne inombra le preveggenti qualità com-positive, l’originalità inconfondi-

bile e l’attenzione che ha saputo rivolgere,in opere come Flaminio e come Lo frate’nnamorato(che diressi alla Scala con la re-gia di Roberto De Simone), a una realtàborghese e popolare. Nel suo teatro i per-sonaggi non sono più maschere della com-media dell’arte, ma messaggeri di unanuova sensibilità verso i problemi sociali.

(Testo raccolto da Leonetta Bentivoglio)

MAESTRORiccardo Muti

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ARTEIn questa pagina dall’alto, i locali

dell’archivio storico del Banco di Napoli;

un’immagine storica di Jesi

e spartiti del compositore

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42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 3 GENNAIO 2010

i saporiNotte d’Epifania

Carbone, clementine, caramelle e liquirizia: ecco i doniper i più piccini, ma attenzione alla qualità. Perché rispettarela tradizione non significa arrendersi ad additivi e colorantiResistono in pasticceria produzioni artigianali di cioccolato, così che la festa non diventi indigesta

GinevrineLe pastigliette

di zucchero multicolori

guidano una dolcissima

pattuglia fatta di gocce

di pino, fruttini, morette,

brutti e buoni, gommose,

gocce di rosolio, anisette,

gelatine, sukay,

rigorosamente sfuse,

da “pescare”

nella tradizionale calza

LiquiriziaÈ il trionfo

del dolce-amaro

nelle mini-ricette

a base di glycyrrhiza

glabra: dai lunghi lacci

alle rotelle con la sfera

di zucchero al centro,

dai tronchetti naturali

alle storiche kremliquirizia

prodotte da Elah,

fino ai chicchi Amarelli

Monetedi cioccolato

Al tempo degli Aztechi,

i semi di cacao erano

utilizzati come moneta

di scambio. Nella calza

della befana, le cialde

di cioccolato al latte

si rivestono di carta

dorata e luccicante

Via libera anche

alle praline e ai cremini

Frutta MartoranaI finti frutti di pasta

di mandorle ingannano

l’occhio ma non

il palato, con i loro

colori splendenti

e il grande carico

zuccherino. I pasticceri

più talentuosi forgiano

anche piccoli animali,

come le pecore

per il presepe natalizio

Zucchero e fantasiasotto il camino

Dolcetti o scherzetti? Ben prima che in Italia sidiffondesse la moda di Halloween, la vigilia del-la Befana è stata caratterizzata dai dubbi deibambini: che cosa avrebbero trovato nella calzaappesa in bella evidenza alla cappa della cucina,del camino o al davanzale della finestra la matti-

na del 6 gennaio? Caramelle o pezzi di carbone, zuccherini o ca-stagne secche, dolcetti o scherzetti?

Da sempre, anche i più birichini non hanno avuto granché datemere, visto che il carbone dolce è punitivo solo per la salute deidenti, non certo per il piacere del palato. Ma le incertezze – cal-za rigonfia o mezza vuota, quadretti di cotognata o banali man-darini, irresistibili cri-cri o o semplici bastoncini di liquirizia –accendono comunque le ore della vigilia, obbligando i piccoli asonni leggeri e sveglie anticipate.

La tradizione popolare racconta come i Re Magi, in viaggioverso Betlemme carichi di doni per Gesù Bambino, si fosseropersi e avessero bussato alla porta di una vecchia donna, pre-gandola di accompagnarli. Ma lei si era rifiutata, salvo pentirse-

ne poco dopo. Così, dopo aver preparato un cesto pieno di dol-ci, aveva cominciato a cercare il bambino dei Magi, fermandosiin tutte le case dove c’erano bimbi e ovunque lasciando qualchedolce, nella speranza che tra loro vi fosse il piccolo Gesù. Da al-lora – dice la leggenda – dopo ogni Natività si rimette in viaggioalla ricerca del neonato (mai trovato) con la gerla straripante didolcetti.

La captatio benevolentiae nei confronti della Befana è ovvia-mente di impronta golosa. Se la modalità di spostamento è ma-gica e certa, visto le grandi distanze da coprire – la scopa che vo-la, proprio come la slitta di Babbo Natale – nessuno sa con sicu-rezza da dove entrerà. Così, sparsi per casa, nella vicinanza di fi-nestre, porte, fornelli, camini, la sera della vigilia si piazzano cio-tole di latte e piattini di ricotta, qualche arancia e perfino del pa-nettone, che genitori premurosi ingolleranno prima delrisveglio dei pargoli.

Ma se Epifania fa rima con dolceria, non è obbligatorio farsitravolgere da dolcetti mediocri e dominati dalla chimica. Pochema indomite, resistono le produzioni artigianali di caramelle,torroni e cioccolati. Che certo, non riducono il devastante im-patto calorico. Però, c’è zucchero e zucchero, c’è colorante e co-lorante, additivo e additivo. Una cura difficile da riscontrare nel-le calze preconfezionate. Basterebbe scorrere l’elenco degli in-gredienti in etichetta per rispedire il regalo con tutto il suo con-tenuto al mittente. Il guaio è che non le leggiamo mai.

Per gli irriducibili delle golosità fai-da-te, comunque, è il mo-mento del trionfo. Le ricette sono quasi tutte facili: poche righedi indicazioni da seguire con attenzione. In quanto agli ingre-dienti, basta armarsi di zucchero, frutta, uova, cioccolato e unbel piano su cui stendere carboni e croccanti. Prima di riempirela calza, assaggiate il risultato dei vostri sforzi per essere sicuri dideliziare i destinatari della calza. Consideratelo l’ultimo sacrifi-cio goloso prima della ferrea dieta post Befana.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Dolci dellaiLICIA GRANELLO

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 3 GENNAIO 2010

Streghe, profezie, magieil mito entra nella calza

MARINO NIOLA

Èla befana a fare la calza o è la calza a fare la befana? Èvera la seconda. In realtà è questo magico accessorioa trasformare una comune vecchia svolazzante in un

tipo simbolicamente intrigante. Un po’ strega un po’ fata,generosa e inquietante, ninfa attempata e sibilla decrepita.La buona megera che celebriamo il 6 gennaio è tutto questoinsieme. E soprattutto è la sintesi cristiana delle numerosedivinità pagane di inizio anno. Come la ninfa Egeria, divinaconsigliera di Numa Pompilio, il secondo dei sette re di Ro-ma, che alle calende di gennaio appendeva una calza nellagrotta della dea per ritrovarla l’indomani piena di regali, maanche di ammonimenti e profezie. E come la dea Strenia, dacui deriva il nostro termine strenna. Che in origine era il do-no a base di fave, frutta secca e dolci a forma di bamboline eanimaletti che i Romani regalavano ai bambini nei primigiorni dell’anno durante la festa delle statuette, la cosiddet-ta Sigillaria.

Regali, più profezie, più calze. Queste dee avevano quasitutto della Befana tranne il nome. Che è un’invenzione delcristianesimo popolare e nasce dalla volgarizzazione di Epi-fania, ovvero la manifestazione della doppia natura di Cri-sto ai re Magi venuti da Oriente per portare doni al dio in-carnato.

Ecco perché la notte della Befana conserva quel caratteredi attesa magica del nuovo anno e al tempo stesso di resa deiconti con quello vecchio. Premi e castighi. Previsioni e san-zioni. Cose buone da mangiare e cose assolutamente im-mangiabili come cenere e carbone. Quel carbone una voltatanto temuto e che le befane buoniste di oggi hanno trasfor-mato in cristalli di zucchero nero. Una dolce punizione, unalezione a salve fatta apposta per una società dove la boccia-tura non è più contemplata. Eppure quella della Befana èsempre stata una pagella, uno scrutinio di fine anno.

Non a caso si chiamano proprio con questo nome le sor-prese che si mettono nei dolci tradizionali di questa festa.Come l’ispanico roscon de los tres reyes, il catalano tortel dereyes, il portoghese bolo dos reis, la francese galette des rois,il king cake di New Orleans, la greca vassilopita. Tanti nomiper un solo significato: torta dei tre re. Melchiorre, Baldas-sarre e Gaspare naturalmente. Una ciambella a forma di co-rona reale che simboleggia la circolarità dell’anno, farcita difrutta secca e canditi, con dentro nascosta una fava, l’anticostrumento per scrutinare i voti e predire la sorte. E talvoltauna bambolina o una statuetta, proprio come durante le Si-gillaria dei romani. Oggi qualcuno arriva a metterci Super-man, Batman e altre divinità dell’infanzia contemporaneacome le Winx, fatine volanti, piccole befane glamour. Spes-so però in questi oracoli da mangiare si nasconde anche unpoco gradito aglio di porcellana. Chi trova la sorpresa avràfortuna, ma dovrà pagare pegno offrendo la torta o la festal’anno successivo. Chi invece incappa nell’aglio riceve dal-la Befana un attestato di cattiva condotta. Come dire che an-che la fortuna, come ogni altro premio, va meritata.

CanditiA cubetti nella farcitura

del panettone, diventano

di gloriosa golosità

proposti in pezzi grandi

e spicchi interi. Ottime

le scorzette degli agrumi

candite bagnate

nel cioccolato fondente

ClementineOspiti immancabili

della calza (la varietà

senza semi

ha soppiantato

i tradizionali mandarini),

per riequilibrare

il surplus di zuccheri

Le scorze spezzettate

si trasformano

in segnapunti

per la tombola

Cri-CriSono un incrocio

irresistibile tra praline

e caramelle, le nocciole

tostate rivestite

di cioccolato fondente,

ben “rotolate”

in una minutaglia

di zuccherini colorati

e avvolte in carta

cangiante. A seguire,

caramelle morbide e dure

CroccanteNocciole, pistacchi,

sesamo e mandorle

vengono “imprigionati”

in una lastra

di zucchero o miele,

tagliata in losanghe

e barrette prima

della definitiva

solidificazione

Frutta secca anche

nei torroncini

al bianco d'uovo

Carbone dolcePer realizzare

la “punizione”

dei bambini più golosa,

zucchero e acqua bolliti

mescolando il colorante

alimentare. Fuori

dal fuoco, bianco

d’uovo montato

a neve e zucchero

a velo. Si taglia dopo

averlo fatto solidificare

Frutta seccaI calorici e sanissimi

(perché ricchi

di proteine e grassi

insaturi) frutti oleosi

— noci, mandorle,

arachidi — contendono

il primato in calza

a datteri, uva passa

e castagne, in versione

bollita o marron glacés

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‘‘Gianni RodariViene viene la BefanaDa una terra assai lontana,così lontana che non c’è…la Befana, sai chi è?La Befana viene viene,se stai zitto la senti bene:se stai zitto ti addormenti,la Befana più non sentiLa Befana, poveretta,si confonde per la fretta:invece del trenoche avevo ordinatoun po’ di carbonemi ha lasciato© RIPRODUZIONE RISERVATA

Befana

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le tendenzeNon solo maglie

Bello, morbido, sensuale ha conquistato molti anni fail cuore degli uomini per poi sedurre le donne. Sottoforma di pullover, calza, cappello o sciarpa, il filatopiù soft del mercato resta in cima alla classificadei desideri.Ben lo sanno gli stilisti, oggi più che maia caccia di nuovi modelli e accattivanti lavorazioni

46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 3 GENNAIO 2010

«Cosa rende bella una donna?L’amore che le illumina gliocchi e un pullover in cache-mire portato sulla pelle nu-da». Catherine Deneuve è trale grandi fan del cachemire,

filato pregiato, dalla mano morbida e setosa, caroquanto basta ma indubbiamente bello, sensuale,capace di insinuarsi un po’ dappertutto. Nei guar-daroba più raffinati ma anche nella biancheria perla casa più costosa, senza dimenticare i giocattolidei bimbi. Gli orsacchiotti in cachemire lanciatianni fa da Agnona, sono stati clonati da molte mar-che. Il cachemire, anche in tempi di crisi, più favo-revoli alla lana vergine dai prezzi abbordabili, re-sta in cima alla classifica dei desideri. Anche per-ché, come ricordano gli psicologi esperti in consu-mi, «gratifica, coccola, ti fa sentire bene».

E cavalcando quest’onda i grandi produttorivanno a caccia di lavorazioni nuove e personaliz-zazioni sempre più accattivanti. Cruciani propo-ne i maglioni con le proprie iniziali ricamate all’in-terno dei pullover. Un dettaglio prezioso, fatto ap-posta per ricordare che «una maglia di cachemireè per sempre» ed è quindi giusto che porti il nomedi chi la indossa e di chi, eventualmente, la eredi-ta. Le etichette nominative piacciono e anche Bru-nello Cucinelli, il “guru del cachemire” le ha adot-tate da tempo. Cucinelli ha il suo quartier genera-le in Umbria, in un borgo antico da lui ristruttura-to e trasformato in ambiente di lavoro dalle di-mensioni umane. Ed è lì che, sotto le antiche vol-te, nascono maglie ma anche piumini, giacche ealtri capi raffinatissimi, tutti elegantemente con-fezionati con il cachemire, venduti in Italia e neimercati più ricchi di tutto il mondo.

Un posto di rilievo spetta anche a Ballantyne,celebre marchio scozzese, amato dalla reginad’Inghilterra, diventato un fiore all’occhiello delmade in Italy da quando è stato acquistato nel 2004dal fondo Charme che fa capo a Luca Cordero diMontezemolo. I rombi di Ballantyne restano iltratto distintivo di questi pullover, dove spesso gliargyle si mescolano ai disegni di paesaggi, fiori eanimali, nelle tonalità pastello. Ma cachemire nonè solo sinonimo di maglie. Infatti ci sono intere col-lezione di abiti, molto alla moda, tutte giocate suquesto filato, prodotto dalle capre che vivono su-gli altopiani e nelle regioni montuose dell’Asia.

Il cachemire arriva dal Tibet e dalla Mongolia,ma anche dalla Cina. Fa un lungo viaggio prima diapprodare da noi e poi finisce sotto i riflettori delmade in Italy nelle versioni più raffinate, comequelle di Loro Piana, Lanificio Colombo, Piacen-za, Malo, Pringle, Zanone, Les Copains. Un pano-rama ampio e variegato, che mette in mostra tuttele sue sfaccettature del cachemire. Dalle voluttuo-se sculture elaborate con filati corposi alle versio-ni minimal, con maglie impalpabili, più adatte achi vive in città, in appartamenti ben riscaldati. Ilcachemire “vive” d’inverno ma cerca di conqui-starsi anche l’estate in versioni light o con specialiconnubi realizzati con i filati di seta. Perché il suoobiettivo è diventare il signore del guardaroba.

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KANGRAGiocacoi rombi fucsia,rossi e blusu fondo grigio,il baulettoKangrache sceglieil cachemireal postodel “solito”pellame

AGNONANido d’ape, lavorazione grana di riso,collo avvolgente. Ecco il modello golfmantellina di Agnona. È l’assolutagaranzia di comfort e vestibilità

PIACENZAUn viola decisocon decori di cristallidi neve. Piacenzacachemire rivisita cosìil “lupetto” classicoPerfetto in cittàcome in montagna

CachemireIl lungo inverno caldo

LAURA ASNAGHI

BRESCIANIPiedi al caldo con le calze

Bresciani proposte in millecolori moda. Qui, il modello

maschile giallo paglierinoCon tallone e punta grigia

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ZANONEQuando il golfino dolcevitagrigio perla fa la differenza

È all’insegna della semplicitàla proposta cachemire

di Zanone

BALLANTYNESexy ma comodissima

la mise Ballantyne: maglionecon collo sciallato e cintura

fucsia-prugna, pariginein tono sugli stivali neri

PRINGLEZig zag bianchi, neri e grigi

in diverse dimensionicontraddistinguono l’abitofirmato Pringle. A corredola sciarpa morbidissima

LES COPAINSCaldissimo il colore cammello

del miniabito con cardiganproposto da Les CopainsIl completo è indossato

con parigine marrone bruciato

BIAGIOTTIDa autentica regina delle nevi

il maglione in cachemireBiagiotti, ha sfilato in passerella

sul pantalone di raso pannaPerfetto per le serate di gala

MALOEd ecco la signora Maloin cappottino di maglia

cachemire e cuffietta in tintaA spezzare tanto rigore,le bordature a “ciuffetti”

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47DOMENICA 3 GENNAIO 2010

CRUCIANINon solo meravigliosie coloratissimi gilet,Cruciani (specialistain cachemire) puntaa una produzionedi ottima qualità

LORO PIANAMaglioni

con trecce, lanemelange,

colori classici:Loro Piana

al cachemirededica

da sempreil massimo

dell’attenzione

CUCINELLIÈ Brunello

Cucinellia proporreil classicocardiganmaschile

dai disegninorvegesiUn donoclassico

da Epifania

COLOMBOIl lanificio Colombo

offre alle donne l’elegante possibilità

di affrontare il gelocon i guanti lunghi

in soffice cachemire

Laura Biagiotti. La mia storia d’amorecon il “cioccolato tessile”

Laura Biagiotti, meglio conosciuta comela “regina del cachemire”, racconta co-me è cominciata la sua storia d’amore...

Quali segreti condivide con questo filatoprezioso?

«Tutto è nato da un twin set che ho acqui-stato a Londra quando avevo quindici anni equel golf con mini pull, naturalmente in ca-chemire, portato con la gonna scozzese e il gi-ro di perle era perfetto. Da subito ho avvertitoche il cachemire era una materia dolce, chetrasmette calore umano. E a vent’anni, quan-do mi sono trovata di fronte a un bivio, dove-vo cioè scegliere se continuare l’università odedicarmi a una delle aziende di famiglia cheproduceva maglie da uomo, non ho avutodubbi. E così è iniziata una storia di amore cheva avanti da cinquant’anni».

Negli anni Sessanta, il cachemire avevauna connotazione più maschile che femmi-nile e quello “doc” si comprava a Londra.

«Vero, ma io ho vinto una grande sfida: hofatto in modo che il cachemire non venisse piùassociato al guardaroba di un vecchio signo-re. E se prima i pull con le toppe ai gomiti, pro-fumavano di tabacco, grazie alle mie creazio-ni hanno cambiato immagine, diventandopiù femminili, con una nazionalità nuova.Non più british ma made in Italy e finalmentealla moda».

Tra i suoi capi di culto in cachemire, l’abi-to da bambola con le balze ha fatto storia.

«Sì, perché con quell’abito sono riuscita arilanciare il cachemire in una chiave nuova.Non solo maglioncino con lo scollo a V, ma an-che abito, poncho, sciarpa e pannello dadrappeggiare intorno al corpo».

Quanto si può giocare con il cachemire?

«Il cachemire va oltre la noia del modelloclassico al cento per cento. Per me vale un’al-tra regola: visto che il filato è prezioso, magliee abiti devono avere un tocco di creatività ingrado di reggere l’urto del tempo».

A cosa si ispira quando disegna una di que-ste maglie?

«Penso sempre alla vita reale. Il cachemireè come una “coccola” per il corpo, una speciedi “cioccolata tessile” che ci trasmette dolcez-za e morbidezza. E in più, il cachemire è intel-ligente e dalla parte delle donne. Essendo unfilato elastico, anche se si ingrassa un po’, siadegua al nostra corpo».

Per molti, il cachemire è come la coperta diLinus. Perché?

«Perché il buon cachemire vive a lungo e ciaccompagna per lunghi tratti della vita. Unamaglia anche se bucata non si butta mai, la simette a letto, in casa e alla fine diventa anchecuccia dei gatti di casa».

Nel suo laboratorio ci sono intere pareticon centinaia di colori per il cachemire.

«Sì, con gli anni sono arrivata a definire finoa cento sfumature di rosa, di verde, di rosso.Tutti colori a cui do un nome: “rosa sfinito”,“verde panchina”, “rosso Laura”».

Da qualche anno, lavora con sua figlia La-vinia. Anche lei è una fan del cachemire?

«Sì e da me ha imparato tutti i segreti».Scusi, ma lei il suo cachemire come lo lava?«Con lo shampoo per i bimbi, poi lo arroto-

lo in un asciugamano e lo lascio a “dormire” lìfinché non è asciutto. E poi siccome le tarmene vanno ghiotte, lo difendo dai loro attacchicon i grani di pepe».

(l.a.)

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l’incontro

‘‘

Muse da Oscar È tra le star più desiderate, le hannoattribuito una lunga serie di fidanzati(da Nicolas Cage a Matt Damon)e ora molti dicono stia per sposarsi

con Javier Bardem Ma lei non parla della suavita privata. Timidae riservata, si accende solose racconta della sua verapassione, il cinema “Fin da bambina”, dice,

“quando il salone da parrucchiera di mia madre divenne il mio primoset. Allora i miei si rassegnarono”

ROMA

Penelope Cruz è incinta. Pe-nelope Cruz sta per sposar-si con Javier Bardem. Sonodue notizie — la prima

smentita, la seconda solo non confer-mata e dunque chissà — che in questigiorni agitano il vasto mondo del gos-sip, tanto che perfino David Letter-mann, dall’alto della su impudente iro-nia, ha cercato risposte dall’attriceospite del suo show. Invano. De eso no sehabla. «Non parlo della mia vita priva-ta», ripete come un tormentone la Cruzda anni, da quando l’attenzione dei me-dia si è accesa su di lei. Del resto, arri-vando alla prima di Vanilla Skya Los An-geles al braccio di Tom Cruise, che allo-ra — era il 2001 — era la star più pagatae anche la più chiacchierata di Hol-lywood per il tormentato finale del ma-trimonio con Nicole Kidman, non pote-va pensare di passare inosservata. Loaveva sedotto nella vita come sulloschermo? Il sospetto fu che fosse unamore inventato per il lancio del film,ma, vero amore o no, le immagini dellacoppia imperversarono sulla stampa fi-no al 2004.

Intanto il cinema americano avevascoperto che gli uomini amano anchele brune e Penelope Cruz, immaginerappresentativa del fascino latino, ave-va cominciato a scalare le classifichedelle star più desiderate, con tanto dipettegolezzi inevitabili sui suoi rappor-ti con i partner dei film: nessuno, da Ni-colas Cage a Matt Damon a MatthewMcConaughey, si sarebbe salvato. «Al-l’inizio mi faceva rabbia leggere notiziesu una mia presunta storia d’amore oaddirittura su un futuro matrimonio,ma ho capito che non ero la sola. Per unpersonaggio pubblico è quasi impossi-bile evitare l’assedio dei fotografi e lacuriosità di certa stampa. Ma perché auna persona solo perché è nota si puòchiedere con chi va a letto? Non è giu-sto, sono sempre stata timida e riserva-ta, ma alla fine ho imparato a non farcicaso, non mi arrabbio più, non voglio

sprecare energie».Pedro Almodovar, il regista che la co-

nosce più di chiunque, conferma: «Pe-nelope è davvero molto riservata. Di-pende anche dai momenti che sta vi-vendo, quando è innamorata sul serio ècosì gelosa della sua privacy che diventatimidissima, scontrosa, quasi inavvici-nabile». E visto che in questo periodo ècosì tenacemente sulla difensiva a pro-posito del legame con Javier Bardem,forse è innamorata sul serio. Lei trenta-sei anni, lui quaranta, si sono incontratiper la prima volta nel 1992, quando luiera l’aitante indossatore di biancheriaintima, protagonista di Jamon JamondiBigas Luna e lei, diciassettenne al primofilm, usava ogni malizia per sedurlo. Inseguito si sono sfiorati più volte, fino al-l’incontro fatale nel 2008, sul set di VickyCristina Barcelona, complice involon-tario Woody Allen.

Se l’argomento Bardem compagno divita è tabù, Penelope Cruz parla volen-tieri del percorso professionale. Dopo lacandidatura all’Oscar per Volver di Al-modovar, la statuetta come migliore at-trice non protagonista è arrivata propriocon il film di Woody Allen, un anno do-po l’Oscar a Bardem per Non è un paeseper vecchi, il primo assegnato ad un at-tore spagnolo. «Non è una coincidenzafantastica? Javier e io abbiamo comin-ciato insieme e nel giro di due anni ab-biamo raggiunto lo stesso obiettivo.Troppo bello per essere vero! Ma è vero»dice. Tiene la statuetta nella casa di Ma-drid e «continuo a spostarla da una stan-za all’altra, prima di decidere la colloca-zione definitiva. L’ho sognata troppo esembrava un sogno impossibile».

L’incontro con Penelope Cruz è sem-pre sorprendente. Glamour, gossip,successo e definizioni altisonanti — «Iobomba sexy?! Ma se peso poco più dicinquanta chili!» — non hanno scalfitola freschezza e l’entusiasmo quasi in-fantile che mostrava per il suo lavoroagli inizi, quando nei primi anni No-vanta venne in Italia per interpretare laMadonna in Per amore solo per amoredi Giovanni Veronesi o la siciliana sel-vaggia e ringhiosa in La ribelle di Aure-lio Grimaldi. Minuta e agile, 1,68 di al-tezza, la sorpresa è anche per gli obiet-tivi raggiunti da una ragazza timida e ri-servata, con alle spalle una famigliaborghese, prima di tre figli, padreEduardo commerciante e madre En-carna parrucchiera, nata alla periferiadi Madrid nel quartiere di Alcobendas(il 28 aprile 1974) e cresciuta in un am-biente ristretto «come un piccolo pae-se, dove non c’era neanche un teatro esolo l’idea di diventare attrice sembra-va una follia. Nessuno si guadagnava da

vivere con qualcosa che avesse a che fa-re con l’arte».

Né pensavano all’arte i genitoriquando la iscrissero a una scuola didanza. «Lo fecero per farmi sfogareenergie, ero troppo irrequieta e casina-ra. Dopo due ore di fatica e di sudore conla maestra di danza, tornavo a casa piùtranquilla. Mi piaceva, sentivo che esi-birmi davanti a qualcuno mi faceva su-perare la timidezza». La scoperta del ci-nema cominciò a otto anni, quando incasa entrò un videoregistratore Beta-max e le serate della famiglia riunita aguardare film sul teleschermo diventa-rono un’abitudine. «Tutto il mio tempolibero era dedicato a guardare film, neaffittavo uno al giorno, li divoravo, ripe-tevo le battute con le amiche, rifaceva-mo le scene che mi avevano colpito.Grazie al Betamax ho scoperto Billy Wil-der, Audrey Hepburn, Anna Magnani,Sofia Loren. E mi sono innamorata diAlmodovar e del suo mondo di donne.Era lo stesso mondo che vedevo nel sa-lone di mia madre, dove stavo da una

parte fingendo di fare i compiti e inveceascoltavo le loro chiacchiere, i loro se-greti, i problemi con i figli, il matrimo-nio, i divorzi, le insicurezze, i sogni, lefantasie: tutto quello che ho ritrovatonel cinema di Almodovar. Il salone dimia madre è stata la mia prima verascuola di attrice».

L’illuminazione definitiva fu con Le-gami!. «Avrei fatto qualunque cosa peressere al posto di Victoria Abril in quelfilm. L’ho visto e rivisto, avevo quindicianni e non avevo più dubbi sul mio futu-ro: avrei fatto l’attrice e sarei diventatal’attrice di Almodovar. Naturalmente daparte della famiglia e di tutto il vicinatofu una gara per scoraggiarmi e mettermiin guardia dai pericoli, secondo lorol’ambiente del cinema era pieno di ses-so, di tradimenti, di droga, mi racconta-vano i drammi di Jodie Foster e di MariaSchneider e di tutte quelle che avevanocominciato giovanissime. Ma io nonpotevo fare altro. I miei si rassegnaronoed è grazie al loro sostegno che io non homai avuto nessun tipo di trauma».

L’incontro con Almodovar avvennegrazie a Jamon Jamon. «Non ho un ri-cordo piacevole di quel film, ero ine-sperta, non capivo cosa volesse BigasLuna, solo dopo anni sono tornata a la-vorare volentieri con lui. Crescendo misono resa conto che non c’è niente dimale nel nudo, che il sesso è tra le coseessenziali della vita ed è giusto che il ci-nema lo racconti», dice. Ma proprio gra-zie a quel film Almodovar si accorse dilei e nel 1997 le mise addosso il perso-naggio della ragazza che all’inizio diCarne tremula partorisce su un auto-bus. «Per me Penelope esprime il sensodella maternità», sostiene Almodovarche in Tutto su mia madre le offrì il per-sonaggio della suora che rimane incin-ta dopo una notte con un transessualedrogato.

Affermatasi come simbolo della bel-lezza mediterranea, Penelope Cruz sul-lo schermo è stata spagnola, messicana,greca (Il mandolino del capitano Corel-li sull’eccidio di Cefalonia), colombia-na (Blow con Johnny Depp), italiana.L’ultima bella interpretazione nel no-stro cinema è stata con Sergio Castellit-to in Non ti muovere nel 2004. Un’atti-vità frenetica, una cinquantina di film inuna carriera intensa e fortunata. «Lafortuna c’entra, ma è anche vero che hofaticato tanto. Ho sempre lavorato, hoaccettato tutto quello che mi offrivano,ero una drogata del lavoro. Drogata mafelice, ho fatto anche film brutti, ma nonne rinnego nessuno». Quanto ai soldiguadagnati, «mi piace tanto spenderli.Compro vestiti, è un’assurdità perchéin genere mi vesto in jeans e maglioni,

ma mi piace tanto guardarli appesi nel-l’armadio. Poi ho preso un apparta-mento a New York e ho comprato duecase a Madrid, che è sempre la mia città,la mia vera vita. Mi piace lavorare inAmerica, ma non potrei mai vivere a LosAngeles, dove la vita mi sembra allegra-mente artificiale rispetto all’Europa».

Finora ha lavorato con una media diquattro, cinque film l’anno. Poi è arriva-to Gli abbracci spezzati, il quarto filmcon Almodovar, «il regista per cui fareiqualunque cosa, sul set sono totalmen-te nelle sue mani, fuori dal set è l’amicoal quale confidare anche i segreti più ge-losi». Dopo aver ritrovato Almodovar —e Bardem? — l’atteggiamento di Pene-lope Cruz verso il lavoro è cambiato.«Dipende dai bisogni che cambiano.Adesso vorrei fare un film l’anno, sce-gliendo con più razionalità, e vorrei unacarriera a lungo termine, recitare anchenonne e vecchie signore. Intanto ho bi-sogno di più tempo per me. Semplice-mente per vivere, sono tante le cose davedere e da fare fuori dal cinema».

L’ultimo film è Nine, una rivisitazio-ne di Fellini e di Otto e mezzo firmata daBob Marshall con Daniel Day Lewis nelruolo di Guido che fu di Mastroianni, eun cast di grandi nomi, compresa Nico-le Kidman, Marion Cotillard e Sofia Lo-ren, interprete della madre defunta diGuido che appare nella memoria. LaCruz è Carla, la fragile amante che balla,canta (A Call from the Vatican è il titolodi una delle canzoni) e tenta il suicidioper amore. Nineper lei «è un altro sognorealizzato, perché adoro ballare, dopoqualche lezione ho ritrovato facilmentei movimenti giusti. E adoro cantare, an-che in italiano, mia madre era appas-sionata di Raffaella Carrà quando face-va la tv in Spagna, conosco tante suecanzoni. Poi ho potuto conoscere da vi-cino Sofia Loren. Durante i pasti in co-mune lei mi rimproverava perché man-giavo poco, io la tormentavo di doman-de, volevo sapere tutto su Fellini, su Ma-stroianni, sulla “dolce vita”. È stataun’occasione preziosa, Sofia è uno deimiei miti, è il simbolo del cinema che miha fatto innamorare del cinema».‘‘

MARIA PIA FUSCO

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L’illuminazionedefinitivafu con “Legami!”L’ho visto e rivisto,avevo quindici annie non avevo piùdubbi: avrei fattol’attrice. L’attricedi Almodovar

Penelope Cruz

48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 3 GENNAIO 2010

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