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DOMENICA 14 AGOSTO 2005 D omenica La di Repubblica i luoghi Palermo, il paradiso ritrovato della Zisa ATTILIO BOLZONI il reportage Le spade di Toledo, mestiere da donne CONCITA DE GREGORIO il racconto La post-crociera, festa proletaria DONATELLA ALFONSO e MICHELE SERRA la lettura Torna il popolo a cavallo di Gengis khan GUIDO RAMPOLDI cultura La leggenda del cacciatore di falsari STEFANO MALATESTA le storie La vita clandestina del prete Ludmila CINZIA SASSO FOTO GAMMA GUSH KATIF C he cosa ha spinto, o attirato, uomini e donne da ogni angolo del mondo a venire qua, nel Gush Katif? Che cosa li ha trattenuti, poi, in questo pezzo di deserto ol- tre confine, terra altrui, tra ronde, carri armati, filo spi- nato, tiri di cecchini, caduta di razzi, Hamas o Jihad che sia? E che vita è stata lungo la curva di giorni tutti uguali, strappati volta per volta a un futuro provvisorio, in attesa che Pomona, la dea dei frut- ti, concedesse loro un buon raccolto, eppoi ricominciare fino all’a- men dell’ultima data da pronunciare chissà dove? Una storia ci aiu- ta, una storia tra tante altre simili. Quella di Caim Klein, 55 anni, da Debrezen, Ungheria, omone irsuto di vaghissima somiglianza al- l’ultimo Richard Burton, scarpe grosse cervello fino. Da 16 vive in uno dei 21 insediamenti del Gush Katif: Gan Or, 52 famiglie. Caim è nato da relitti dell’Olocausto, dall’unione di due deva- state solitudini deposte sulle macerie del dopoguerra. Prima della furia nazista, il padre Mordechi possedeva a Debrezen una picco- la fabbrica per l’imbottigliamento dell’acqua minerale. (segue nelle pagine successive) MASSIMO DELL’OMO GERUSALEMME D icono che Sharon non abbia mai sottovalutato l’ipotesi di fare la fine di Ytzhak Rabin, ucciso dieci anni fa da due pallottole sparategli alle spalle da un giovane estremista della destra re- ligiosa: e per questo, nonostante il massiccio dispositivo di sicurezza da cui è protetto, dorme con una pistola sotto il cu- scino. Vero o non vero, la cosa certa è che ormai da molti me- si, da quando è stato chiaro che intendeva sul serio smantel- lare le colonie ebraiche nella Striscia di Gaza, un’ondata d’avversione gli s’è rovesciata fragorosamente addosso. Un’avversione, per non dire un odio, che non accenna a di- minuire. Anzi s’ingrossa, man mano che s’avvicinano i gior- ni cruciali della prima evacuazione israeliana — dopo tren- tott’anni e tre mesi — da una terra palestinese. Certo, ad esecrare e maledire Sharon è soltanto un terzo, così si calcola, della società d’Israele: ma questo terzo consi- ste della parte più irrazionale, fanatica e violenta del paese. (segue nelle pagine successive) SANDRO VIOLA Terra promessa Dalla Shoah alle guerre di Israele, allo sgombero dalla Striscia di Gaza Nell’album di famiglia del colono Caim Klein sessant’anni di storia Repubblica Nazionale 23 14/08/2005

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DOMENICA 14 AGOSTO 2005

DomenicaLa

di Repubblica

i luoghi

Palermo, il paradiso ritrovato della ZisaATTILIO BOLZONI

il reportage

Le spade di Toledo, mestiere da donneCONCITA DE GREGORIO

il racconto

La post-crociera, festa proletariaDONATELLA ALFONSO e MICHELE SERRA

la lettura

Torna il popolo a cavallo di Gengis khanGUIDO RAMPOLDI

cultura

La leggenda del cacciatore di falsariSTEFANO MALATESTA

le storie

La vita clandestina del prete LudmilaCINZIA SASSO

FOTO GAMMA

GUSH KATIF

Che cosa ha spinto, o attirato, uomini e donne da ogniangolo del mondo a venire qua, nel Gush Katif? Checosa li ha trattenuti, poi, in questo pezzo di deserto ol-tre confine, terra altrui, tra ronde, carri armati, filo spi-

nato, tiri di cecchini, caduta di razzi, Hamas o Jihad che sia? E chevita è stata lungo la curva di giorni tutti uguali, strappati volta pervolta a un futuro provvisorio, in attesa che Pomona, la dea dei frut-ti, concedesse loro un buon raccolto, eppoi ricominciare fino all’a-men dell’ultima data da pronunciare chissà dove? Una storia ci aiu-ta, una storia tra tante altre simili. Quella di Caim Klein, 55 anni, daDebrezen, Ungheria, omone irsuto di vaghissima somiglianza al-l’ultimo Richard Burton, scarpe grosse cervello fino. Da 16 vive inuno dei 21 insediamenti del Gush Katif: Gan Or, 52 famiglie.

Caim è nato da relitti dell’Olocausto, dall’unione di due deva-state solitudini deposte sulle macerie del dopoguerra. Prima dellafuria nazista, il padre Mordechi possedeva a Debrezen una picco-la fabbrica per l’imbottigliamento dell’acqua minerale.

(segue nelle pagine successive)

MASSIMO DELL’OMO

GERUSALEMME

Dicono che Sharon non abbia mai sottovalutatol’ipotesi di fare la fine di Ytzhak Rabin, uccisodieci anni fa da due pallottole sparategli allespalle da un giovane estremista della destra re-

ligiosa: e per questo, nonostante il massiccio dispositivo disicurezza da cui è protetto, dorme con una pistola sotto il cu-scino. Vero o non vero, la cosa certa è che ormai da molti me-si, da quando è stato chiaro che intendeva sul serio smantel-lare le colonie ebraiche nella Striscia di Gaza, un’ondatad’avversione gli s’è rovesciata fragorosamente addosso.Un’avversione, per non dire un odio, che non accenna a di-minuire. Anzi s’ingrossa, man mano che s’avvicinano i gior-ni cruciali della prima evacuazione israeliana — dopo tren-tott’anni e tre mesi — da una terra palestinese.

Certo, ad esecrare e maledire Sharon è soltanto un terzo,così si calcola, della società d’Israele: ma questo terzo consi-ste della parte più irrazionale, fanatica e violenta del paese.

(segue nelle pagine successive)

SANDRO VIOLA

Terrapromessa

Dalla Shoah alle guerredi Israele, allo sgomberodalla Striscia di GazaNell’album di famigliadel colono Caim Kleinsessant’anni di storia

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la copertina24 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 14 AGOSTO 2005

MASSIMO DELL’OMO

più morbido della “Yeshiva”. Scopre laTorah. Si trasferisce di nuovo: a BeitShaen, dove conosce e sposa Sara Baron,biologa di origini tunisine, figlia di unrabbino di Djerba. Non sono soddisfattidel luogo in cui vivono. Decidono di tra-sferirsi ancora: nel Sud, ad Ashkelon,nella casa dei genitori di lei.

Dice Caim: «Ora so che ogni passo delmio vagabondaggio mi avvicinava sem-pre di più alla meta finale». Perché Ashke-lon è a meno di quaranta chilometri dalGush Katif dove, dagli anni successivi al-la guerra dei Sei giorni, sono sorti in terrapalestinese i primi insediamenti, molti-plicatisi alla fine degli anni Settanta perl’incoraggiamento e gli incentivi econo-mici dei vari governi israeliani.

Nell’86 nasce il primo figlio, Jonatan;nell’88, la seconda, Murìa. Caim, in quel-la fine anni Ottanta, impiegato comechimico in una fabbrica di formaggi e ge-lati, avverte che il tempo è arrivato. È oradi andare. Trasferimento a Gan Or, interra d’altri: quale la motivazione princi-pale, quella decisiva per una scelta delgenere? Queste le parole: «La spinta fon-

damentale è stata ideologico-religiosa:venire a vivere ad Ezre Ysrael, la TerraPromessa. Ho scoperto tardi la religione.Ho vissuto senza regole la mia giovinez-za. Eppure, ho sempre avuto dentroun’inquietudine che mi ha portato a gi-rare in Europa e per Israele. Sono anchetornato in Ungheria perché pensavo cheavrei potuto trovare qualcosa che mi il-luminasse o mi fermasse. In fondo, làerano nati i miei genitori, là erano torna-ti dopo l’Olocausto e là sono nato io. Misono sentito straniero. Solo ora capiscodi vivere nella mia terra, la terra del po-polo cui appartengo».

Inutile ribattere sull’illegalità degli in-sediamenti. Diverse le domande, identi-ca la risposta. Caim ripete che i luoghi delGush Katif sono indicati nella Torah co-me parte di Ezre Ysrael. Che anzi, secon-do il libro sacro, sarebbe ben più vastadell’attuale, territori occupati compresi.E ciò vale come sentenza definitiva einappellabile. Come dicevano nella Ro-ma papalina: ego locutus, causa finita.

Con l’ideologia e la religione si potevapagare anche il conto al negozio? Po-

tremmo rispondere di sì. Il governo dà aCaim dieci dunam (ettari) e 74mila dol-lari. Dei quali, tre quarti a fondo perdu-to, un quarto da restituire in blocco al ter-mine del venticinquesimo anno. Sonosoldi che non passano per le sue mani:l’apposito ministero pagherà diretta-mente i fornitori di sementi, attrezzi, fer-tilizzanti e anticrittogamici comprati daCaim. In più c’è una casetta di 70 metriquadri per la quale non c’è affitto da pa-gare. Il resto è una distesa di sabbia. Luicomincia con l’attrezzare quattro du-nam per la coltivazione di ortaggi. Tra-dotto in opera, significa costruire le ser-re con relativi impianti di irrigazione.

Racconta: «Lavoro duro all’inizio, sve-glia prima dell’alba e a letto con le galli-ne». Lavoro duro, ma risultato assicura-to. Non ci sono incognite nella venditadei prodotti: una compagnia compra, findalla semina, l’intero raccolto per l’e-sportazione. Dopo Jonatan e Murìa, na-sce Elia, che ora ha 15 anni. Gli affari van-no bene. La moglie apre, con un propriomarchio, un negozietto di abbigliamen-to per bambini. La casa viene allargata a

Via dalle colonieKlein ha 55 anni e viene dall’Ungheria. I suoi genitori,sopravvissuti all’Olocausto, sono emigratiin Israele per sfuggire al comunismo. Ha combattutodue guerre, fatto l’hippy e infine ha trovato la “stradadella fede” che lo ha portato a Gush Katif. La sua storiaè la storia di questa terra tormentata e di una pace difficile

La spinta che mi hacondotto qui è stataideologicae religiosa: volevovenire a viverenella Terra promessa

L’esodo infinito di Caim“Ma questa è casa mia”

(segue dalla copertina)

Aveva una moglie, Regina,e tre figli: Juda, Jacob e Ve-ra. Stefania Frankl, la ma-dre di Caim, gestiva unnegozio, sempre a Debre-zen, era sposata con Levi

Aron Leichter, una figlia: Rachel. Quan-do i tedeschi invasero l’Ungheria lì accu-munò il vagone piombato. L’ultimavolta che Mordechi vide suamoglie e i suoi figli, Juda avevasette anni, Jacob cinque e Veradue. Fumo di Auschwitz. E adAuschwitz morì Leichter.Mathausen per Stefania Frankl e lapiccola Rachel. Campi di lavoro dimezza Europa per Mordechi.

«Quante volte ho sentito questastoria — racconta oggi Caim — ma for-se ero troppo giovane allora. La consi-deravo solo uno degli aspetti terribilidella guerra, razzismo. La tragedia, intutta la sua vastità, era troppo grande perme. L’ho capita solo tanti anni dopo».

Mordechi Klein e Stefania Frankl si co-noscono dunque alla fine della guerra, tragli spettri che tornano a Debrezen. Trop-po vive le piaghe aperte, inesistenti le cu-re: si sposano solo nel 1948. Due anni do-po nasce Caim. Altri quattro anni e sonodi nuovo in fuga. Questa volta dal comu-nismo. Scappano prima che i carri arma-ti sovietici schiaccino la rivolta unghere-se: in Israele, Stato ancora giovane, ad abi-tare nei pressi di Ashkelon. Il governo,promuovendo l’Aliyah (letteralmente: lasalita, il richiamo degli ebrei in Israele)dona loro trenta dunam (ettari) di terra.

Qui cresce Caim. Elementari nel kib-butz di Nitzanim, superiori a Kyfar Silver.Al termine, un anno dopo la guerra dei Seigiorni, Zahal (in ebraico l’equivalente diIdf, Israeli Defence Force) lo chiama per itre anni di leva cui sono obbligati i diciot-tenni. Dopo l’addestramento frequentail corso allievi piloti dell’Aeronautica. Ri-de al ricordo scuotendo il corpo intero:«Trascorsi i primi due mesi l’istruttore michiamò e mi disse: “Sei molto bravo, masono sicuro che sarai più bravo da un’al-tra parte”». Fu spedito allo “Shaked”(“Mandorla”), il corpo di unità speciali dicombattimento addestrate a “commandaction” oltre confine.

Combatte in Egitto e in Giordania: unafoto lo ritrae a Petra. Nel ‘71 ridiventa ci-vile senza saper che fare. Non ha radici,né religiose né terrene. «Anche dalla fa-miglia — spiega — mi ero già staccato.Mio padre, peraltro, per le percosse su-bite durante la prigionia non ragionavanemmeno più tanto bene. Me ne andaiin Europa». Per un anno vaga tra Franciae Danimarca. S’impianta in una comu-nità hippy di Amsterdam, musica e spi-nelli. Rientra in Israele nel ‘73 per rivede-re i genitori, forse anche i soldi erano fi-niti, a giugno. Ai primi di ottobre Siria edEgitto aggrediscono Israele. È la guerradello Yom Kippur. Zahal lo reclama dinuovo nelle “special landing units”,commando che operavano nel Canale diSuez, a Cantara, con i gommoni Zodiac.

Questa volta, il conflitto, nel quale per-de un carissimo amico, lascia tracce piùprofonde delle cicatrici da schegge cheporta ancora sulle braccia. Caim ha tut-to il tempo di rifletterci nei mesi supple-mentari di servizio cui sono tenute leunità speciali. «Mi chiesi in quel periodoper quale ragione o causa avevo com-battuto. Soprattutto per chi? Solo perchéavevo cominciato il servizio militare qui?Per quanto mi riguardava avrei potutofarlo in Ungheria o in Danimarca. D’al-tro canto non mi sentivo nemmeno unmercenario che andava in guerra per lapaga. Ripensai alla storia dei miei geni-tori, all’Olocausto, alla fuga dal comuni-smo. Parlai con molte persone. Arrivaialla conclusione che ciò che avevo fattoa rischio della vita, lo avevo fatto perchéero ebreo. Anche se non sapevo con pre-cisione che cosa ciò significasse».

Non conosce quasi niente, lui, dellasua religione. E vuole sapere. È preso dal-l’ansia di sapere. Si iscrive alla scuola re-ligiosa, la “Yeshiva” di Gerusalemme. Lafrequenta per un po’. L’impatto è duro.Troppo fanatismo. Ne esce quasi subito.Si iscrive alla facoltà di Scienze di TelAviv. Si laurea in chimica dopo tre anni.Va dove l’occasione di lavoro lo porta: aSebastia, in Samarìa, uno dei primi inse-diamenti della West Bank, dove insegnascienze. Frequenta un gruppo religioso

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240 metri quadri. Altra terra viene com-prata, altre serre costruite. In tutto que-sto tempo ciò che accade in Palestina, gliattentati in Israele, gli attacchi agli inse-diamenti sembrano non incrinare le cer-tezze di Caim, appena lambito dai fran-genti delle esistenze altrui, assorto inve-ce nel radicamento a Gan Or, nell’incre-mento della sua azienda. Sì, gira con la pi-stola nella fondina ma da tempo si è abi-tuato agli spari nella notte, alla caduta diqualche razzo. Mai avuto ripensamenti,il rimpianto per una vita dal futuro piùcerto e meno opprimente di quello rin-chiuso dietro reti e filo spinato? «Mai».Cresce, con la fattoria, anche la famiglia.Nel ‘98 nasce il quarto figlio, Johanan.

Dunque, a fine parabola, tra questivolti e questo cielo che li ha consumatinon abbiamo trovato l’ombra di un dub-bio cui appendere un pensiero differen-te, solo verità che non si toccano conmano. Ma anche verità che le mani lehanno riempite di frutti. Caim è arrivatoa Gan Or ricco solo delle sue convinzio-ni, da lui stesso definite ideologico-reli-giose. Oggi, sulla soglia della partenza,

Caim possiedeventi dunam, dieci inpiù dell’inizio, di cui tredi-ci coperti da serre. Forse ha an-che un discreto conto in banca, a giudi-care dalla vita parca cui qui si è costretti,volenti o nolenti, e dal desco assai fruga-le. La compagnia americana che comprale serre per rivenderle ai palestinesi glipagherà, tredici dunam per quattromila,52mila dollari. Altri 500mila per la terra,la casa e l’avviamento del negozio. C’è diche ricominciare.

Non sa, lui, dove andrà ad abitare. Nel-l’immediato, dalla sorella della moglie vi-cino ad Ashkelon. Poi? Caim allarga lebraccia. Eppure da questa incertezza s’ègià delineato un profilo di programma.Lui tecnico di computer: è già un espertodigitatore e dell’agricoltura ne ha abba-stanza, pesando gli anni. Sara in societàcon la sorella, che ha un allevamento digalline: potrebbero ingrandirlo. Ovvia-mente, se Dio vorrà, o non lo spingerà al-trove. Magari in Cisgiordania.

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 25DOMENICA 14 AGOSTO 2005

(segue dalla copertina)

Davanti al King David, il vecchio eleggendario albergo di Gerusa-lemme, una ventina di attivisti del

movimento dei coloni, anziani, giovani eadolescenti, inalberano cartelli con suscritto «Sharon dittatore» o «Sharon tra-ditore», e distribuiscono volantini con-tro il ritiro da Gaza. Ma se si percorronodue o trecento metri nelle strade lì intor-no, sui muri si vedono scritte più impres-sionanti: «Sharon, farai la fine di Rabin»,«Preghiamo per la morte di Sharon», «At-tento Sharon, abbiamo più armi deicombattenti del ghetto di Varsavia». Epoi la scritta più torva e incivile di tutte:«Lily t’aspetta», Lily essendo stato il no-me della moglie, morta anni fa, di Sha-ron.

Sono slogan non tanto spontanei o pu-ramente emotivi, visto che a suggerirli —dopo averli spulciati da una qualche tor-tuosa interpretazione dei testi sacri —,sono le decine di rabbini che appoggia-no, infiammano, la battaglia dei coloni.Gli stessi rabbini, per intenderci, che ave-vano avuto a lezione Natan Zada, il sol-dato diciannovenne che dieci giorni fa èsalito su un autobus pieno di arabi e s’èmesso a sparare. Gli stessi che in questeore incitano i soldati e gli ufficiali, che damercoledì prossimo dovranno portar viacon la forza i coloni da Gaza, a disubbidi-re agli ordini dello stato maggiore.

Adesso che gli attentati degli integrali-sti palestinesi si sono drasticamente ri-dotti, in Israele il turismo è tornato flu-viale. Così che l’altra sera, vedendoun’interminabile fila di gente che entra-va dalla porta di Jaffa nella città vecchia,avevo creduto si trattasse di turisti diret-ti a uno spettacolo diSons et Lumiéres attor-no alla Torre di David.Erano invece oppositoridel ritiro da Gaza, reli-giosi e laici (gli uni inabiti neri e cappello astaio, gli altri in t-shirt esandali) che andavanoal Muro del pianto. Set-tantamila persone am-massate l’una sull’altranel grande slargo anti-stante il Muro, gli slogancontro Sharon che ri-suonavano a ondate, iltraffico bloccato — autodella polizia comprese— in mezza Gerusalem-me. E a Tel Aviv, giovedìsera, erano centocinquantamila: comedire, in un paese con la popolazione del-l’Italia, un milione e seicentomila.

Su questo sfondo concitato, mentre icoloni di Gaza hanno già ricevuto l’ordi-ne di sgombero, quel che viene conti-nuamente a galla è l’enigma Sharon. L’o-scurità che avvolge la sua spettacolare in-versione di rotta. Perché le stesse folleche oggi lo maledicono, sino a due annifa tripudiavano ad ogni sua comparsa,parola o gesto. Lo osannavano, cantava-no esaltate «Ariel, sei il re d’Israele». Miviene in mente una conversazione avutaverso la fine dei Novanta a Kiryat Arba,una grossa colonia di fronte a Hebron. Ilcapo dell’insediamento, un ortodossodel Gush Emunim, lo chiamava «il bull-dozer». E per un tratto della chiacchiera-ta avevo pensato che col termine «bull-dozer» l’uomo si riferisse alla stazza fisi-ca di Sharon. Ma non era così: i colonichiamavano Sharon «il bulldozer» per-ché sbancava dappertutto terreni, scava-va fondamenta, e costruiva senza inter-ruzione le colonie ebraiche nei Territorioccupati.

Trent’anni trascorsi ad impiantaresempre nuovi insediamenti, e semprepiù in avanti, più addentro la Palestina,lungo i crinali delle alture in Giudea e Sa-maria, sinanche nelle zone più popolatedai palestinesi. Perché fosse chiaro a tut-ti che la realtà delle colonie nelle terre bi-bliche era ormai definitiva, irrevocabile.Nei fatti un’annessione, da far ingoiareun giorno o l’altro alla comunità interna-zionale. Come ministro volta a volta del-l’Agricoltura, dell’Ambiente, delle Infra-strutture, della Difesa, Sharon s’era in-fatti assunto il ruolo del Grande Costrut-tore. E i risultati sono noti. Quand’egliandò al potere nel ‘77 con il Likud di Be-gin, in Cisgiordania c’erano infatti nove-mila coloni: adesso ce ne sono duecento-trentamila.

Con quanta prontezza e violenza hareagito in questi trent’anni ad ogni ipote-si o proposta d’un ritiro — anche limita-to — dai Territori. Prendiamo per esem-pio Gaza. Un piano d’evacuazione da Ga-za lo aveva avanzato nel 2002 l’allora lea-der dei laburisti, Amram Mitzna. Sharonlo aveva respinto ruggendo come un leo-ne. È vero che quale ministro della Dife-sa era stato lui a organizzare nell’apriledell’82, dopo la firma del trattato di pacecon l’Egitto, la ritirata dal Sinai e lo sman-tellamento della colonia di Yamit. Ma adimporre il ritiro era stato Begin, il primoministro, e i coloni non costituivano an-cora nella vita politica del paese il formi-dabile gruppo di pressione che sarebbe-ro divenuti in seguito. In ogni caso,sgombrato l’ultimo ebreo dal Sinai, Sha-ron presentò al Parlamento una risolu-zione che vietava ai governi futuri di pro-gettare altri ritiri dalle colonie dei Terri-tori occupati.

Poi, poco più d’un anno fa, ecco lasvolta. Il piano di ritiro da Gaza e da quat-tro piccoli insediamenti in Samaria: viatutto, postazioni militari, colonie e colo-ni. Decisione «unilaterale», e dunquesenza alcun negoziato o accordo con ipalestinesi. Lasciamo per ora da parte leragioni, che restano incerte e in gran par-te riposte, della scelta di Sharon. Il fatto èche l’annuncio del piano ha rivoltato lasocietà israeliana come un calzino. I so-stenitori di Sharon, le destre e i coloni,sono adesso i suoi avversari, e i suoi av-versari — la sinistra, i pacifisti — si sonotrasformati in sostenitori. Ricordo versola fine dell’anno scorso gli incontri conalcuni vecchi conoscenti, intellettuali diPeace now e della sinistra laburista, neisoliti caffè della German colony o di BenYehuda. I loro discorsi imbarazzati. Il lo-ro disagio nel trovarsi, dopo trent’anni di

critiche spietate, a par-teggiare per Ariel Sha-ron. E questo mentre aGaza e in Cisgiordania ilmovimento dei coloni sipreparava a dare batta-glia contro il suo vecchioidolo.

Così, più che divisa, lasocietà israeliana appareoggi letteralmente spac-cata. La verità è che lagran parte degli israelia-ni non avevano volutovedere né sentire quelche avveniva nei territorioccupati. Quali abusigravissimi venissero re-golarmente compiuti daicoloni. Le spedizioni che

facevano per impedire le raccolte nellepiccole proprietà palestinesi, così da farmarcire olive, frutta e verdure sugli albe-ri o nei campi. Le greggi sgozzate, le pre-potenze ai posti di blocco e nei mercati,le acque dirottate. Né a patire l’arrogan-za dei coloni erano solo i palestinesi. Era-no anche le strade d’Israele ad essereostruite, sparse di copertoni bruciati,ogni volta che i coloni manifestavano perqualche loro rivendicazione, sussidi,nuove costruzioni, altri privilegi.

Se da una parte gli israeliani preferiva-no non vedere (e i media, la tv soprattut-to, favorivano la rimozione), dall’altra ipartiti politici si disputavano il voto deicoloni. Così il loro movimento non hafatto che crescere. Vi sono confluiti i restidel vecchio sionismo religioso, il nazio-nalismo oltranzista che s’era sempre op-posto alla spartizione della Palestina, enei primi Ottanta la corrente anti-araba,razzista, del rabbino americano MeirKahane. E ne è scaturito un fondamenta-lismo parente stretto di quello islamico. Igovernanti e l’opinione pubblica avreb-bero dovuto prendere le distanze, impe-dire che il peso politico delle colonie e deicoloni aumentasse sino a rappresentareun pericolo per la democrazia d’Israele.Non l’hanno fatto, e oggi il bubbone nonsi può più incidere.

Quanto alla questione della pace, d’unprocesso negoziale che dopo l’uscita daGaza conduca all’evacuazione d’unagran parte almeno, se non di tutta, la Ci-sgiordania — così consentendo la nasci-ta d’uno Stato palestinese—, quel che èsuccesso in queste settimane induceuna volta di più al pessimismo. Se losgombero di ottomila coloni da Gaza hafatto addensare su Israele le ombre d’u-na guerra civile, cosa succederebbe in-fatti al momento di sgombrarne cento-centoventimila dalla Giudea e dalla Sa-maria?

Bulldozer-Sharonuna sfida mortaleSANDRO VIOLA

ALBUM DI FAMIGLIAQui sopra, Caim Klein

oggi davanti

alla sua casa

di Gush Katif;

dietro, altre

due immagini

dell’insediamento

di Gush Katif

e, al centro,

Caim con la divisa

dell’esercito israeliano

durante la guerra

del Kippur.

Nelle altre foto,

da sinistra in basso

in senso orario: Jacob,

Juda e Vera, i fratellastri

di Caim uccisi

ad Auschwitz;

Caim bambino;

uno zio

che combattè

contro i franchisti

e che fu ucciso

nella guerra

di Spagna;

Mordechi Klein

e Stefania Frankl

con la piccola Rachel;

Caim e Rachel;

Caim con i genitori

ormai anziani;

Caim il giorno

delle nozze

con Sara Baron

GLI SGOMBERIDomani inizierà la fase decisiva

degli sgomberi, chiamata in codice “Mano

tesa ai fratelli”: i soldati israeliani

andranno nelle case dei coloni

della striscia di Gaza per convincerli

a partire.Da martedì, infine, i soldati

potranno usare la forza. Gli sgomberi

sono previsti dal piano di pace

del febbraio 2004, per il quale Israele

evacuerà ventuno insediamenti,

ricollocando circa ottomila coloni

CONTRO IL PREMIERUna manifestazione

di protesta contro il premier

israeliano Ariel Sharon

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il reportageTradizioni artigiane

Nella città spagnola dove secoli fa i cavalieri venivanoa cercare “Excalibur” e dove oggi i toreri si procuranogli “estoques”, la produzione di lame pregiate è diventataun lavoro di donne. Sono le tre sorelle Martìn - Margarita,Ascensiòn e Maria del Pilar - a mandare avanti la gloriosaofficina Bermejo che ancora fornisce 62 eserciti

CONCITA DE GREGORIO

Toledo, il mestiere delle spadeTOLEDO

Margarita Martìn, cin-quanta passati, haun bolerino rosa edei jeans rosa attilla-

ti ton sur ton. Sale le scale e si affaticaun po’, «fumo troppo». Poi riparte,passa in rassegna i reparti, fa gesti mu-ti agli operai che d’altra parte non po-trebbero sentirla: il rumore di lame èun clangore di battaglia che si mesco-la coi soffi e gli sbuffi delle macchine.Fiamme, fumi,odore di fuoco.Uomini dentroscafandri che ma-neggiano pinzeincandescenti. Lasignora, piccola esvelta, ci passa inmezzo come fossein cucina e si rac-comanda moltocon l’ospite: at-tenta qui, non sitagli. Non tocchi lavasca, è rovente.Stia lontana dalforno. Attenta allescintille, si po-trebbe sciupare ilvestito. L’acciaiobrunito macchia e poi ci vuole il limo-ne per toglierlo. Limone e mezza gior-nata ad asciugare al sole.

Si chiude la porta sull’inferno in mi-niatura, si torna nel patio. Il cortile in-terno è verde e ombroso. Smerli di ca-stello, azulejos e fiori, una fontana. Si-lenzio. «Qui da bambine le mie sorelleed io giocavamo alle principesse.Guardi, quella è la Puerta del Sol da do-ve entrarono Alfonso VI e il Cid Cam-peador quando presero la città ai Mo-ri. Questa è la moschea, laggiù la sina-goga. Qui sotto la porta di Carlo V im-peratore. Noi ci mascheravamo con gli

stracci e aspettavamo il principe cheavrebbe scelto la più bella e l’avrebbesalvata. Le nostre vicine sono le suorecarmelitane, vede? La sera escono acurare l’orto e quando fa buio si sento-no pregare: fanno un mormorio chesembra d’acqua». Si vedono, sì, le car-melitane. Al di là delle tende del con-vento, ombre minuscole dietro alle fi-nestre chiuse.

In un tempo lontano, molto moltolontano, tanti secoli prima che la glo-riosa fabbrica di spade Bermejo esi-stesse, i cavalieri venivano a Toledoda tutta la Spagna perché le acque del

fiume Tago eranouna leggenda: lo-ro sole, si diceva,potevano raffred-dare il conio diuna lama così darenderla invinci-bile. Arrivavano acavallo fin qui acercare “Excali-b u r ” , c ’ e r a n omaestri fabbri chesapevano rico-noscere la tem-peratura del-l ’ a c c i a i o ed u n q u e i lmomento dibatterlo so-lo guardan-

do il colore della lama incan-descente: rosso tizzone, por-pora del re, rosso sangue, ros-so tramonto. Ancora oggi sidice così, la scala dei colori delfuoco è questa. Poi i signoriraffreddavano il lavoro che gliveniva consegnato affondan-dolo nel corpo muscoloso diuno schiavo, dicono i testiconservati al museo. Le illu-strazioni, sui libri, indugianosui dettagli. I più generosi ri-sparmiavano le vite e bagnava-no la lama con l’urina di capra. Aquel punto di nuovo bisognavascaldarla: sarebbe stata pronta soloquando al contatto con il corno di untoro avesse cambiato colore. C’è unmodo di dire altrimenti incomprensi-bile, qui in Spagna: «C’è puzza di cor-no bruciato», dicono le donne di casaquando qualcosa si attacca nella pen-tola. Le corna nel resto del mondonon bruciano. A Toledo sì, da secoli.Lo sapeva Carlo Magno. Lo sapevaShakespeare quando ha scritto l’Otel-lo e naturalmente lo sapeva Cervan-tes, Don Chisciotte è nato qui.

Lo sa Margarita Martìn, quieta ma-dre di famiglia ed erede del fondatore,Vicente Martìn Bermejo. All’una inpunto, quando la fabbrica Bermejo fasuonare la sirena di fine turno, da qua-si cent’anni le donne del quartieresanno che è l’ora di mettere le patate alessare. Di buttare la pasta, diremmonoi. Vicente, il nonno di Margarita,aprì qui il suo laboratorio di maestrod’armi nel 1910: il terreno glielo avevaregalato la suocera (Margarita, natu-ralmente) con matriarcale lungimi-rante senso pratico, così che il generonullatenente potesse mettersi all’ope-ra e mandare avanti la famiglia. Co-minciò da solo, col suo basco in testa:gli uffici sono pieni di foto di questoometto minuscolo che esamina i ferricome fosse Picasso.

Sarà così per pochi giorni ancora. AFerragosto si chiude per ferie e a set-tembre — racconta la signora in rosa,gli occhi realmente pieni di lacrime —si riaprirà in un capannone di là dalfiume Tago, in periferia. «Un luogo anorma, che ci consenta di essere anco-ra competitivi perché ora che sono ar-rivati i cinesi non basta più la qualità.Ci vuole l’efficienza, la quantità e ilbasso costo. Non mi ci faccia pensareche non mi voglio intristire. Davveronon riesco ancora a credere che ce neandremo da qui». Però i cinesi, certo.Le imitazioni made in Taiwan hannorovinato il mercato: ormai delle coseconta solo l’aspetto, non la sostanza, ese la qualità delle lame da dieci euro èpessima, pazienza: la gente comun-que compra quelle. Ci vuole l’intendi-tore per cogliere la differenza, ci vuoleun professionista e non un turista perdecidere di spendere seicento euro in-vece di sei per un “estoque” da torero.Margarita sospira: che ne sarà di noi.

Il mestiere delle armi a Toledo è og-gi un mestiere di donne. Le tre sorelleMartìn — Ascensiòn e Maria del Pilar,le altre — hanno ereditato una fabbri-ca che fornisce spade scimitarre e pu-

gnali a sessantadue eserciti del globo.I Marines, la Us Navy e la Guardia Va-ticana tra questi, oltre che “estoques”da torero a tutti i matadores di Spa-gna. Gli “estoques”, spade sottili cheuccidono di punta e non di lama, sonoelegantissimi e di una bellezza esteti-ca che fa dimenticare a cosa servono:impugnatura rivestita di tela rossa,pomello d’oro. I toreri, la cui supersti-zione è leggendaria, vengono a sce-glierli personalmente: seguono la la-vorazione, curano l’inclinazione del-la lama colpo su colpo di martello. Lacurva della lama si chiama, nel lin-guaggio degli artigiani, la “morte”.Non c’è torero che non passi da Tole-do, dai Bermejo.

«Io avevo sposato un avvocato, miasorella un fisico nucleare e l’altra uneconomista. Mio padre seguiva la fab-brica e quando è mancato, a 57 anni,abbiamo dovuto decidere: potevamo

chiudere, ma avevamo cinquantaoperai. Cinquanta famiglie. Che

si faceva? Si mandavano a casa?Così sono rimasta io. Poi mio

cognato, il fisico, ha decisodi venire a dare un’oc-

chiata. Si è innamora-to di questo lavo-

ro, adessol’ammini-

strato-

26 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 14 AGOSTO 2005

I maestri fabbrispiavano il momentodi battere l’acciaioguardando il colore

rosso tizzone,porpora del re,rosso sangue,

rosso tramonto...

LAMAPuò essere curva o

dritta, a doppio taglio

o con una sola

affilatura. Il tratto

più vicino alla punta

è detto foible, e si

distingue dalla zona

in prossimità

dell’elsa (forte)

per spessore

e larghezza. La parte

senza affilatura

si chiama ricasso

ELSADifende la mano

che impugna la spada

La sua particolare forma

“a campana” serve

a deviare i colpi avversari

L’elsa a crociera, tipica

delle spade più antiche,

ha anche una traversa

difensiva di metallo

IMPUGNATURAHa un profilo zigrinato

per garantire una presa

più sicura. Le dimensioni

dell’impugnatura variano

a seconda della lunghezza

e del peso della lama. Spesso

è protetto da un coprimano,

una striscia di metallo ricurva

che collega elsa e pomo

POMOÈ la parte terminale

della guardia. Protegge

l’impugnatura dai colpi

provenienti dal basso

e impedisce alla mano

di scivolare. Può essere

utilizzato anche

per colpire direttamente

l’avversarioE

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re è lui. I nostri figli, i miei tre e i tre mieinipoti, fanno mestieri più redditizi diquesto. Delle spade si vive appena: icosti sono altissimi e i guadagni incer-ti. Sa che davvero a volte arriviamo a fi-ne mese a stento? Fare l’avvocato ren-de molto di più, però certo, con checuore, con che anima si può archivia-re una storia così? Possiamo chiudereBermejo? Non credo, davvero. Co-munque: non io».

Il cuore e l’anima, ecco. Lelame di Toledo raccontanostorie di eserciti di moriassediati dai cattolici, dicavalieri leggendari eimperatori, di mortiall’arma biancatra i vicoli delghetto. Isa-bella la Cat-tolica —d i c u i

qui in cat-tedrale sicelebranoo r a c o nu n a m o -

s t r a s o n -tuosa i 500

anni dalla mor-te — aveva una sua

spada, le serviva perordinare i cavalieri e gli

hidalgos che mandavaa conquistare le Ameri-

che, per varare con solen-nità gli editti con cui caccia-

va dalla Spagna gli ebrei e le lo-ro ricchezze, i loro talenti. Ha

una spada in mano San Paolo nelritratto custodito nella casa di Do-

menico Theotokopoulos, pittore cre-sciuto a Roma alla scuola di Tiziano evenuto qui a vivere e morire, nato aCreta però e perciò chiamato il greco,El Greco. Hanno spade nei foderi isoldati della sua crocifissione, custo-dita nella sacrestia del Duomo: Tizia-no Tintoretto Caravaggio, un piccoloLouvre sistemato alla buona nellestanze sul retro, uno spettacolo da le-vare il fiato e sono solo gli avanzi diquel che è stata la ricchezza dei Recattolici. È affilato e grigio come unaspada il cristo in croce della Cattedra-le. Ci sono spade disegnate sulle por-te di legno, in città, negli stemmi dipietra. È una miniatura della spadadel Cid il tagliacarte che centinaia dituristi arrivati in torpedone da Ma-drid comprano per diciannove euro enovanta e portano in America, inGiappone. Nell’anno mille in questacittà vivevano insieme la sensualitàdegli arabi, l’intelligenza degli ebrei eil raziocinio dei cattolici: chiese ditutti i culti raccontano un medioevoluminoso e una convivenza possibile.All’ombra delle armi, certo: migliaia emigliaia di spade custodite nella for-tezza dell’Alcazar. Però poi l’odoredolce del capretto, la sera, i ricami dipietra alle finestre.

Dice Margarita che la sapienza se-greta dell’arte delle spade risiede inprincipio nell’acqua e nella sabbia delTago. È vera la leggenda. C’è qui unasabbia particolarmente ricca di un mi-

passare le consegne. «Questo è unmestiere che non si impara nellescuole, si impara facendolo. Arriva-no che magari hanno studiato da sal-datori, ma saldare un rubinetto nonè come unire alla lama l’impugnatu-ra del Cid. Ci vuole molto tempo, e iragazzi oggi hanno fretta. Non c’è lafila, no, per venire a lavorare da noi:sono i figli e i nipoti dei vecchi arti-giani, in genere, che arrivano. Con-tano la passione, l’amore della tradi-zione, l’orgoglio».

Anche i figli di Margarita, due avvo-cati e una veterinaria, si affacciano

ogni tanto. Siedo-no nel consiglio diamministrazioneper le riunioni im-portanti, sentonole cose di fami-glia. «Anche miafiglia, come me, siè sposata nellachiesa di cui si ve-de da qui il cam-panile, Santiagodel Arrabal. I mieigenitori ci viveva-no dietro, in que-sta piccola aladella fabbrica.Anche a mia figliadispiace che ce neandiamo da qui,

anche lei veniva a giocare nel patio dapiccola. Chissà che alla fine non scel-ga di continuare l’impresa. L’altrogiorno mi diceva: mamma, le nostresono armi che non tagliano, non ucci-dono, fanno persino tenerezza orache i morti li portano le bombe nellametro. E poi senta, pesano un quinta-le. Ci vuole il fisico per alzare una spa-da vera. Ecco, vede questa cicatriceche ho qui? Ne presi una in mano dabambina e mi cadde sul piede. Stiamolto attenta, anzi. Non tocchi». Se siesclude la Regina Isabella, non è cosada donne maneggiare le spade.

nerale chiamato wolframio, e c’è l’ac-qua salina del fiume che fa da buonconduttore al momento di forgiare lelame. «Noi i ferri li lavoriamo soltanto:l’acciaio non lo facciamo qui, ci arrivadai Paesi baschi. Qui lo forgiamo, glidiamo forma e resistenza, potenza edelasticità. La materia prima non è nul-la senza la mano che la tratta. È comeavere le uova e pensare di aver giàpronta la frittata», ride. È vero ancheche i cavalieri per raffreddare le lorolame le bagnassero nel sangue deglischiavi, o nell’urina. «Ora ci sono le va-sche, vede?».

Bermejo produ-ce dodicimila spa-de all’anno, milleal mese, quasi cin-quanta al giorno.Ha contratti inesclusiva e licenzeper gli esercitiamericano e ira-cheno. A luglio hachiuso la spedizio-ne per il Cile, a set-tembre si ricomin-cia con le spade deiMarines. «Le com-mittenze interna-zionali comincia-rono nel 1959. Ar-rivò a Toledo unebreo di Boston,Sharon Fugger, un tipo bizzarro cheper pranzo voleva solo sardine e uovasode. Era scappato dai nazisti fuggen-do in Polonia, era passato per la Russiae la Svezia, infine era arrivato in Ame-rica. Lavorava per l’esercito Usa, pro-curava i materiali. Sapeva della tradi-zione di Toledo, Alonso Sahagun ilVecchio d’altra parte è leggendario: unartigiano del 1500 di cui parlano testiscritti in caratteri e in idiomi che nonsaprei decifrare. Perciò questo stranosignore, Fugger, venne qui a cercarequalche spada per le uniformi di galadel suo esercito. Aveva sentito parlaredel maestro Vicente, mio nonno. Glichiese in principio dodici pezzi. Furo-no cinquanta l’anno dopo, cento quel-lo dopo ancora». Si passa davanti allefoto incorniciate ai muri: il nonno, l’o-mino con un grande naso e con il ba-sco in testa, mentre parla con gli ope-rai, valuta il filo di una lama, accom-pagna gli ospiti. «Ha vissuto fino a no-vant’anni, stava qui seduto sotto l’al-bicocco a raccontarci storie di batta-glie. Ha fatto in tempo a conoscere igenerali della guerra del Golfo e gliastronauti. John Glenn è venuto qui acomprare una spada ed è rimasto unpomeriggio intero. El Buitre è un no-stro caro amico, un collezionista».

Le armi da collezione sono le piùbelle e le più care. La copia della spadadi Simon Bolivar costa novemila euro:è fatta d’oro e zirconi, un lavoro deli-catissimo di intaglio. Il laboratoriodelle incisioni è una stanza chiusa, topsecret. «Qualche segreto ce lo dobbia-mo tenere stretto, con tutta la genteche circola e fa foto non si sa mai…».Sono le donne a incidere e a dipingerea mano, pezzo per pezzo. Hanno dellemaschere come quelle delle decalco-manie, le applicano sulle lame, ci fan-no passare sopra gli acidi con un pen-nello, poi scavano con un punteruolo.Ogni lama passa da trenta mani alme-no, e finisce poi dentro la fodera dicuoio che un artigiano vicino cuce se-condo la curva voluta con una mac-china a pedali. È così che lievitano itempi di fabbricazione, e i costi: 400euro una spada dei cadetti di WestPoint, da 450 in su un “estoque” da to-rero, 550 la spada adornata di foglie deiMarines, 6.000 il regalo di Juan Carlosa Saddam Hussein, la copia di una an-tica spada irachena. Per le nozze del-l’Infanta Elena la casa reale ha com-missionato a Bermejo 25 pezzi da col-lezione, nell’impugnatura una testa di

leone con occhi di rubino. Senzaprezzo, non è in vendita.

Si è fatta l’ora di pranzo, suo-na la sirena. Gli operai esco-

no togliendosi gli occhialie le cuffie, sono quasi

tutti giovani. L’ulti-ma generazione di

vecchi è andatain pensione un

anno fa, ner e s t a n o

quattrop e r

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 27DOMENICA 14 AGOSTO 2005

Poi i committentiraffreddavano

il prodottoaffondandolo

nel corpo muscolosodi uno schiavo

I più miti usavanol’urina di capra

SFIDA NEL BOSCOUn singolare duello

tra dame che si sfidano

all’alba nel bosco

L’immagine è francese

dei primi anni

del Novecento

IL MANUALEUna sequenza

di scene illustrative

da un manuale

sull’arte del duellare

stampato e diffuso

nel diciottesimo secolo

Sta

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il raccontoFerie d’alto mare

28 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 14 AGOSTO 2005

il resto o quasi è extra. Vino e bevande, eva bene, ma poi il servizio, le gite a terra,il fitness, internet, ogni leggera deviazio-ne dal pellegrinaggio continuo in cercadi nutrimento costa denaro. Si spende,caricando sulla prestigiosa Costa Cardeuro su euro, ma non si sfugge alla seve-ra sorveglianza del personale ammini-strativo, che invita gli spendaccioni a re-carsi all’apposito desk per dimostrare diavere l’acconcia copertura finanziaria,cosa che non mi era mai capitata nean-che nei più sgangherati ostelli che fre-quentavo, effettivamente squattrinato,in gioventù. «Lei non ha idea di chi im-barchiamo», mi confida un’impiegataper giustificarsi di fronte alle mie rimo-stranze per l’eccessiva pedanteria deicontrolli. «C’è gente che ha scassinato ilfrigobar prima di sbarcare. C’è di tutto,sa, a bordo». Le faccio osservare che labassa qualità della clientela non è, per laprecisione, tra gli addebiti che possonoessere mossi a un presunto innocente.La mia replica cade nel vuoto. Far cade-

Il collante ideologicoè il cibo “tuttocompreso”, unastaffetta ininterrottadi colazione-brunch-lunch-merenda-cena-spuntini after hours

GIOCHI DI BORDOSopra, la sezione

trasversale

dei vapori “Duilio”

e “Giulio Cesare”,

entrati in servizio

negli anni Venti

sulla rotta Europa-

Sudamerica

A sinistra, vignette

di Marcello

Dudovich sui giochi

a bordo

dell’“Augustus”,

e un manifesto

pubblicitario

Le illustrazioni sono

tratte dal libro

“Transatlantici”

di Maurizio Eliseo

e Paolo Piccione,

edito a cura

della Banca Carige

La post-crocierafesta proletaria

La parola “fame”, qui da noi,appartiene alla memoria de-gli avi e ai film di Franco Cit-ti. È stata rimpiazzata daconcetti più costumati, co-me “appetito”, che apparen-

tano il gesto di nutrirsi a una garbata con-venzione sociale piuttosto che al bisognobestiale di mantenersi in vita.

È dunque con allegro sconcerto che laodo echeggiare più volte, come leit-motivprogrammatico, nel discorso di benve-nuto ai croceristi (rotta Savona-Barcello-na-Casablanca-Canarie-Madeira-Mala-ga e ritorno). «Se avete ancora fame…. sevi resta un po’ di fame… se la fame non èpassata… se siete ancora affamati…»: ec-co l’impulso che dovrebbe condurci, tut-ti e millecinquecento, lungo i ponti e le oredel giorno, i ristoranti e i self-service, i bare gli odorosi barbecue allestiti accanto al-la piscina, nella ininterrotta migrazionein ciabatte che unisce il breakfast al brun-ch al lunch alla merenda al dinner al rab-bocco di mezzanotte allo spuntino in di-scoteca: sì, mangiare, mangiare conti-nuamente e molto, onorare l’agio del tut-to compreso e festeggiare il lungo addioall’indigenza in un fescennino di succhigastrici e ganasce, piatti ricolmi, camerie-ri prodighi.

Quanto se ne vuole e quando si vuole,basta studiare giudiziosamente il labirin-to degli orari, sapere che se la cornucopiadel ponte 10 chiude alle cinque è perchéapre quella del ponte 11, oppure basta se-guire il flusso maggioritario della gente,quasi sempre diretta, a frotte, a nuovefonti di nutrimento.

È il cibo il collante ideologico (il “co-mune sentire”) della crociera. E la moto-nave Costa Romantica deve avere stiveincredibili, congelatori ciclopici e cam-busieri più che abili per riuscire a stillareda ogni angolo montagne di roba da man-giare (sì, mangiare!) e fiumi di bevande.Discrasia evidente rispetto al nuovo cul-to parco e dietista degli abbienti, dei let-tori di settimanali anche non intelligenti,del ceto medio oramai conscio che man-giare all’ingozzo richiama troppo sgarba-tamente il nostro passato plebeo, tantoche nei ristoranti italiani, anche i piùcheap, quasi nessuno ordina più antipa-sto primo secondo e dolce, non fa bene enon sta bene. È una gloriosa attitudineproletaria e residuale, quella del cibo ec-cedente e gioioso: ed è il primo indizio,questo, di quanto avessi sbagliato i pro-nostici sulla crociera, che ritenevo tipicavacanza da media borghesia sportiva, se-milussuoso petit-tour per visitatori diporti e medine, moschee e centri storici, einvece è una poderosa bolgia di popolo inascesa o anche di popolo e basta: sposinimeridionali in viaggio di nozze grazie auna colletta dei parenti, pensionate chehanno risparmiato per anni per coronareil loro sogno da dèpliant, famiglie di ope-rai e piccoli impiegati.

Indizio implacabile, il numero bassis-simo di passeggeri con un libro o un gior-nale in mano, forse uno su cento, e mol-to spesso con il Codice da Vinci. (Ne ho vi-sto uno, un signore sulla cinquantina,che leggeva Svevo, e volevo proporgli unammutinamento). Crudelissima, inquesto senso, una breve scena pomeri-diana, con animatori implacabili che co-stringono al Trivial Pursuit un gruppetto

di anziane semiassopite: «Chi è il pittorecontemporaneo famoso per le tele bian-che tagliate?». No, le casalinghe di Vo-ghera non sono tenute a conoscere Fon-tana. Infatti una dice «Giotto», poi si sie-de e si mette a ridere. Solo domande su Si-mona Ventura e Del Piero, please. Nonsta bene mettere gli incolti di fronte al lo-ro status: anche se se ne fregano, tuttosommato.

* * *La crociera è un allestimento scenico

per poveri che almeno dieci giorni all’an-no vogliono sentirsi ricchi: i ponti si chia-mano Montecarlo, Vienna e Verona, ri-storanti e luoghi di riunione Michelange-lo e Brunelleschi e trasudano marmi e ot-toni come la hall di un albergo interna-zionale che punta alla clientela araba, ilfree-shop ha la sua scintillante vaghezzaaeroportuale, t-shirt, sigarette, orologi,foulard e chincaglieria, le cabine (la cosamigliore della nave) sono comode e mo-quettate come bomboniere, ottima-mente condizionate, e connesse alla ter-

MICHELE SERRAra madre dal satellite che infligge il com-missario Rocca anche in pieno Atlantico.Piccola sbavatura, in questa accurata re-cita interclassista: nessun luogo al mon-do, come una grande nave, è così spieta-tamente metaforico delle differenze dicenso. Dalle cabine del ponte più basso(gli inferi) all’empireo dei ponti sommi-tali, il prezzo quasi raddoppia, e negliascensori, schiacciando il bottone delponte di pertinenza, ognuno svela spie-tatamente quanto ha speso, e a quale gi-rone è stato assegnato, se quello nobil-mente affacciato sul Mediterraneo op-pure quello sprofondato nella panciaoscura della nave.

Un ragazzo del Sud, ricciutello e sim-patico, un po’ Troisi un po’ Ninetto Davo-li, in ascensore mi dice ridendo: «Sto al 5,ma per non farmi accorgere premo sem-pre il 10 e poi scendo per le scale…». Giàtutto ben detto nel Titanic di De Gregori,prima seconda e terza classe, anche se og-gidì l’abito fa un po’ meno il monaco e inshorts e maglietta ci si assomiglia tutti. So-lo gli uomini dell’equipaggio si distinguo-no, con le uniformi inappuntabili che ga-rantiscono il superiore decoro delle isti-tuzioni. Tanto distanti paiono dal bruli-cante e sciatto transito della clientelasbracata, che una signora non particolar-mente perspicace domanda a un ufficia-le: ma voi, dormite sulla nave?

* * *Chiedersi se sia il glorioso Love Boat a

ispirare il clima e i modi della crociera, oviceversa il telefilm li abbia mutuati dal-la realtà, è come chiedersi se sia la televi-sione lo specchio del popolo, o il popoloche si conforma al video, per cercare diesserne degno. L’uovo e la gallina. Sta difatto che le signore, quando annotta, siimbudinano in abitini da sera e fanno lafila per partecipare al drink con il co-mandante, che è l’apogeo dello chic dacrociera anche se cinque o seicento ospi-ti per turno non garantiscono intimità,più che un ricevimento è una Vucciria, eil comandante, poverello, è pur sempre

uno solo, per quanto alto, ab-bronzato e perfino di bell’a-spetto.

I turnisti del drink (e di tuttoil resto) non paiono però patirela carente esclusività dei riti dibordo, e si ammassano festan-ti in code da ufficio postale inattesa di afferrare il calice dispumantino, e farsi fotografarea braccetto con colui che deveapparire, sotto i lampadari agocce e in mezzo a tutti queivelluti, poco meno di HoraceNelson. Il brivido marinaro,per il resto, è affidato a unasquillante prova di evacuazio-ne della nave, con le sirene etutto il resto, che porta ad am-massarsi, con il giubbottoarancione, nei punti di ritrovo,tra schiamazzi e battute sunaufragi e iceberg, abissi e pe-scecani, in una parodia dell’e-mergenza che almeno instillanei partecipanti una vaga per-cezione del mare, dello stare inmare, del temere il mare, cheimmenso e silenzioso si aprealla prua e poi richiude a pop-pa, in lontananza, la ferita spu-meggiante della scia.

Già, il mare. Qualcuno, ap-poggiato ai parapetti dei ponti più alti,passa i minuti, il tempo di una sigaretta,ad osservarlo. Oppure ci si appiccica al-le grandi vetrate delle cabine, come i vi-sitatori di un gigantesco acquario, e sicercano nel blu infinito i soliti delfini o lavaga sagoma di un’isola, o della terrafer-ma, o il segmento piatto e nero di una pe-troliera all’orizzonte. Ma di salmastro edi marino, a bordo di questo falansterioalto come un grattacielo, e lungo comedieci ristoranti messi in fila (tale è), ne ar-riva ben poco. In viaggio ci si consola conle due tinozze quadrate che fanno da pi-scina (otto per otto, direi), o con le vaschedi idromassaggio, e si rimanda il contat-to vivo con il mare alle soste, quando unaspiaggia vera sia a portata di gambe (co-me a Malaga), o quando le gite in torpe-done prevedano, oltre allo shoppingcompulsivo in suk e boutique, ancheuna sosta per fare un tuffo vero, final-mente, in acque vere.

* * *A parte il cibo, in dose stordente, tutto

In principio era un esclusivo ritrovodi ricchi, poi la tipica vacanza della mediaborghesia sportiva, un semilussuosopetit-tour esotico. Oggi si è trasformatain una poderosa bolgia di popolo,un sogno da dèpliant da coronare in massa

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GENOVA

«Bourbon, bitter campari, suc-co di limone. Tutto nello shaker e poi inuna flute guarnita con fetta d’arancio eciliegina». Sorride: «Si chiamava Cock-tail Michelangelo, ovvio. Era rosa, unpo’ amarognolo. Ci ho vinto anche loShaker d’oro a Saint Vincent». Ma LizTaylor e Richard Burton al “Michelan-gelo” preferivano altro: «Due martiniper aperitivo e poi, dopocena, Dom Pe-rignon per lei, bourbon per lui. Mai vi-sti andar via ciondolanti, però. Sorri-devano, tornavano in cabina tranquil-li. Lei una volta mi ha detto: Benito, saiperché veniamo da te? Perché non ciguardi nemmeno. E lei era veramentebella, gentile, morbida, dolce. Era ve-nuta prima con Eddie Fischer, poi conBurton. Ma con Fischer faceva un po’ lastar, era più rigida. Con Burton no, eraveramente una ragazza semplice, a suoagio. Stupenda, sempre».

Succedevano tante cose nei sette bardella Michelangelo. Benito Cuppari,capo dei barmen della grande nave persette anni («ma in realtà io ci ho lavora-to da prima del varo, avevo collaboratoproprio alla progettazione dei bar, congli architetti e gli arredatori») sorridementre, dal gran-de belvedere af-facciato sulla cittàantica guarda ilmare e il porto diGenova, da dove laM i c h e l a n g e l osalpò per la primavolta quarant’an-ni fa, il 12 mag-gio1965. Presti-gioso imbarco, ilclou della carrierada barista sull’o-ceano, per lui chedal ‘54 aveva co-minciato ad anda-re su e giù per leAmeriche su tutti igrandi transatlan-tici italiani: Augu-stus, Giulio Cesa-re, Leonardo DaVinci, Colombo,Conte Grande,Raffaello. E Mi-chelangelo, la più amata. «Era una bel-la nave, più bella della Queen Mary. Unvero albergo a cinque stelle, le lenzuo-la di lino cambiate tutti i giorni, la ca-meriera che senza bisogno di venire ri-chiamata andava a prendere losmoking e lo faceva trovare pronto incabina, perfettamente stirato, insiemecon la frutta sulle fruttiere d’argento. Eci lavoravano grandi professionisti, atutti i livelli: la ristorazione, ad esem-pio. Buonissimo il cibo, ricercatissimala presentazione: in prima classe ognipiatto arrivava con le campane di ser-vizio individuali, d’argento. Hannoraccontato grandi bugie, dicendo chenon si sarebbero più fatte crociere,l’hanno venduta come ferrovecchio.Hanno smantellato un patrimonio...Sì, mi ha fatto male questa fine, e nonsolo a me. Al Pier 94 di New York, il mo-lo di attracco, ho visto piangere i pas-seggeri quando ci hanno detto «la navetorna a Genova e non parte più».

Per i protagonisti del boom italianoun viaggio sulla Michelangelo, magaricon le attrici e i cantanti da intravederegiusto al bar o al ristorante, era il segnodella promozione sociale raggiunta.Loro, le star, solo raramente si conce-devano: «Mi ricordo Petula Clark, checantò una sera soltanto per l’equipag-gio». Ma ci fu anche un Burt Lancastercon il mal di mare: «Prendemmo unatempesta, la nave si inclinò di ventottogradi. Lui rimase otto giorni in cabina».O Renata Tebaldi, regina dell’opera,«che era completamente succube del-la madre: le sceglieva persino il menu».E Alberto Sordi, celebre anche tra i 720dell’equipaggio tutto, dal comandanteal mozzo, per una certa difficoltà amettere la mano in tasca e trarne qual-che spicciolo. «Ma la cosa che avevarealmente fatto scandalo è che si faces-se rammendare i calzini dalle camerie-re. Un attore famoso come lui…».

Si pagava in dollari, nei bar, e a parte

le mance le bevande erano l’unica spe-sa da prevedere a bordo, perché traver-sate e crociere avevano una tariffa tut-to compreso. «Ma i prezzi erano con-correnziali, tutto fuori dogana. Sessan-ta centesimi un cocktail, e una bottigliadi Dom Perignon per otto dollari». Nonfacevano proprio caso ai conti i fullcruisers, quelli che in prima classe nonsolo facevano la traversata, ma da unanno all’altro prenotavano la crocieradi ventuno giorni, la round trip: parten-za e arrivo a New York e nel mezzo Ma-dera, Algeciras, Palermo, Napoli, Ge-nova, Cannes, Barcellona, Lisbona. Fe-delissimi anno dopo anno, per sette an-ni. «Miliardari certo, californiani so-prattutto, vicepresidenti di banche egrandi società, la padrona della Camelcon il marito... Notti intere a giocare,bere. All’alba il marinaio scaldava la pi-scina a ventotto gradi, c’era il bagno fi-nale: alle sei e mezzo facevo servireomelette e champagne. Alle sette emezzo tutti a letto».

Restavano chiusi ben poco, i settebar della Michelangelo. In funzionedalle 10 alle 14, riposo sino alle 16.30.Poi di nuovo via con gli shaker, fino alletre, almeno. Con un sorriso per tutti,ascoltando confidenze da non raccon-tare mai: discrezione come stile di vitae di lavoro. «Tantissime cose non le ha

mai sapute nem-meno mia moglie.La discrezione erauna dote che a bor-do nessuno in-frangeva, nemme-no dove si lavava-no i piatti sentiviun mormorio, unpettegolezzo. Ve-niva Thomas Fo-glietta, senatore diFiladelfia che ètornato a trovarmiqui a Genovaquando era amba-sciatore di Clintonin Italia. Faceva lacrociera di ventungiorni, si sedevadavanti a me perore, e parlava di Fi-ladelfia, delle lotteper diventare sin-daco.. . bevevatranquillo, rac-

contava. E Charlie Lasserse, il vicepre-sidente della Morgan Bank: grandissi-mo. In quegli anni era proibito impor-tare oro negli Usa, lui faceva la crocieracon gli sbarchi a Napoli e a Venezia. An-dava da un orafo, si faceva fare un leo-ne di San Marco da cinque chili. Ogniviaggio, un leone. Come opera d’artepoteva importarli».

Il comandante sulla plancia di co-mando («perché allora il comandanteera il padrone della nave e stava ad oc-cuparsi della nave, non ai ricevimenti»)il capo barman sulla sua, il Bar Nero.«Stupendo. Tutto in pelle nera, un ban-cone lungo ventotto metri con un dise-gno michelangiolesco al centro. Settepersone di servizio. Sì, era il mio prefe-rito. Stavo lì, in genere, poi facevo qual-che giro, avevo un “secondo” in ognibar... in serata mi spostavo magari al ni-ght: bello, sulla piscina, con pista daballo e orchestra». Cinquecento pas-seggeri in prima classe? Per il cocktail dibenvenuto significava preparare 1500cocktails in un’ora e un quarto. «Marti-ni, Manhattan, Champagne cocktail,Così per partire, con i tre quarti dei ca-merieri impegnati. Poi c’erano quelliche ti chiedevano gli special orders,whisky o altro».

Il modello della Michelangelo, rega-lo di fine imbarco, lo guarda dall’altodel bancone dell’american bar dove oralavora il figlio. «Ci tenevo tanto, gli ar-chitetti me l’avevano promesso. Ma c’èun’altra cosa a cui tengo, la dedica su unmenu che mi ha fatto Peynet, il dise-gnatore: la ricetta di un cocktail, il bou-quet dell’amore, l’ha chiamato. Un po’di tenerezza, un po’ di mughetto por-tafortuna, tra gli ingredienti».

Dopo la Michelangelo, basta con ilmare e le crociere? «Per il lavoro sì, sonorimasto sulla terraferma. E di crocierenon ne parliamo: mi hanno invitatotante volte, ma a vedere navi jukebox ecibi congelati, io proprio non ci vado».

DONATELLA ALFONSO

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 29DOMENICA 14 AGOSTO 2005

re le repliche nel vuoto dev’essere unodei punti forti nell’addestramento delpersonale di bordo.

Colgo, nel trascorrere dei giorni, unacerta qual tensione tra clientela e com-pagnia, con impiegate transnazionalipallide e severe, occupatissime a rispon-dere «non si può» in tutte le lingue a qua-lunque richiesta appena insolita (tipo:mi hanno rubato il telefonino a Malaga,potreste per favore bloccare il mio nu-mero con una telefonata alla Vodafone?Risposta: non è previsto dalle nostre re-gole). Dico che neanche in una pensionedi sest’ordine rifiutano una cortesia a uncliente in difficoltà, ma capisco di rap-presentare più una turbativa della disci-plina di bordo che un caso di piccolaemergenza. Non sono previsto dai rego-lamenti.

L’ultimo giorno, però, capisco alme-no in parte la gelida impenetrabilità chela compagnia oppone alle necessità deipasseggeri. Alla fila per pagare gli extra(lunghissima, l’ennesima) se ne aggiun-

ge un’altra, appena più breve, di clientiche contestano, alcuni sbraitando, l’ad-debito di un caffè, o di una minerale.L’ordinata filiera della Costa Card sban-da e quasi deraglia mentre clienti e im-piegate spulciano un numero pazzescodi foglietti di carta questionando suicentesimi. Il popolo è in subbuglio, qua-si in rivolta, la crapula, vista dalla coda, sirivela più costosa e disagevole di quantoimmaginato all’imbarco, l’orgia di foto-grafie (con il salvagente al collo, con il co-mandante, con i vicini di tavola, mentresi balla il valzer con il cameriere, mentresi fa il trenino — sì, anche il trenino — trale bottiglie scolate) è sfuggita di mano aifotografati, forse ne hanno comperatetroppe e non se ne ricordano, comun-que non le vogliono pagare, magari nonpossono proprio, spiantati dalla retta dicrociera e con i soldi contati per rientra-re, sui treni disgustosi delle normali trat-te italiane non Eurostar, a casa, e mette-re la foto del comandante accanto a Pa-dre Pio.

Si risolvono i contenziosi rimediabili,per gli altri ci sono appositi moduli perreclamare, la maggioranza inghiotte(dopo tutto quello che ha inghiottito) laspina di un conto sfuggito di mano, pas-sarsela da semi-ricchi, sia pure in una ca-bina bassa e senza oblò, non è gratuito, oforse è tornare a casa e al proprio statusabituale che costa davvero. Battutescontate tra gli sbarcandi, «la Costa co-sta», ma non è neanche giusto lamentar-si di quello, quando la sola lamentela le-cita, per capire meglio in quale secca ci siè arenati, sarebbe domandarsi se è dav-vero necessario, per essere felici, fare iltrenino al largo di Madeira.

* * *Però bellissima la Rocca di Gibilterra,

di notte, uno sperone di luci che squarciail nero, e centinaia di navi che suonano lasirena salutando con un mugghio coralee struggente il mare domestico e affron-tando l’Oceano, in memoria di quandol’Atlantico era l’incognito ed era l’addio.Ora è tutto compreso, bevande escluse.

IL COCKTAIL DELL’AMOREIl bouquet dell’amore, disegnato

da Peynet per Benito Cuppari

Il barista sull’oceano:ricordo champagne,attrici e notti bianche

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sacerdozio». Niente di scritto, nessunpronunciamento eclatante: se le donneprete non esistono, perché mai parlar-ne? E Ludmila obbedisce: «Si vede che itempi di Dio sono diversi dai tempi de-gli uomini, però il futuro apre alle don-ne questa possibilità».

“Un dono di Cristo”

«Un sacramento non si può cancellare,io sono stata ordinata da un vescovo eresto un prete. Il sacerdozio è un donocarismatico, è un dono di Cristo e da-vanti a Cristo non esiste uomo o donna,esiste solo la persona». Ma il dogma?Sorride: «Non è un dogma, è solo unanorma del diritto canonico». «Non so-no una fuorilegge, né era fuori dalla leg-ge quello che è accaduto. Il sacramen-to non fa differenza di genere». Ancora:«Io sono solo una piccola persona in unpiccolo appartamento, non mi rivoltocontro nessuno. Sono contro la violen-za e l’imposizione, questa è una que-stione che ha bisogno di tempo per ma-turare e di molto coraggio. Ci sono nuo-vi bisogni, non si può chiudere la por-ta, non si può spegnere la luce delloSpirito». Non è una rivendicazione, siachiaro: «Non è che perché adesso ci so-no donne magistrato, soldato, capo diStato, che allora le donne vogliono rag-giungere la parità anche in questo.Quello che dev’essere riconosciuto èl’essere umano che è nella donna, unessere uguale a quello dell’uomo».

Dietro gli occhiali dorati lo sguardosembra ancora più limpi-

do: «Il mio essereuna donna sa-

cerdote è undono di Dioche serve an-che ai bisogniattuali del po-polo di Dio».Per questo haaccettato diraccontare lasua storia, perprima, a Mi-riam ThereseWinter, unasuora e teologaamericana (neha scritto un li-bro, Dal profon-do, edizioni Ap-punti di Viaggio).Cosa pensa dellagerarchia eccle-siastica che è sor-da a questi argo-menti? «Mi vieneda pensare a lorocome a dei bambi-ni handicappati…li amo e tento di ca-pirli. Come mi hainsegnato mio pa-dre, prego perchéDio possa usare ilmio essere prete co-me una via per di-mostrare che que-

sto è possibile». Tiene le mani immobi-li, dolcemente appoggiate, le muovesolo per accarezzare lentamente Bo-binko. Se oggi è una tranquilla pensio-nata che va all’orto, da Maria sua sorel-la, dalla nipote Bohumila, alla chiesadei Santi Cirillo e Metodio a insegnarecatechismo ai bambini, se oggi ha rag-giunto la serenità, non è stato semprecosì. Gli anni della guerra, poi quellidella repressione sono stati durissimi.Il vescovo Davidek pensava che la chie-sa dovesse vivere e continuare nel suooperato in qualsiasi condizione e a Ro-ma non potevano sapere di cosa ci fos-se bisogno nella Cecoslovacchia dell’-StB, la famigerata polizia politica: «LaChiesa del silenzio aveva bisogno an-che di preti sposati e di donne prete.Ciò che mi è accaduto è accaduto in unmomento eccezionale della storia ed inun luogo particolare».

Pensa che mondo, sogna Ludmila, sela chiesa fosse aperta anche alle donne.Il libro delle preghiere, ad esempio: ilsuo è corretto tutto al femminile. In ce-co ogni verbo, ogni sostantivo, ogni ag-gettivo sono declinati secondo il gene-re. «Io mi sento una donna, sono sem-pre più grata, più profondamente gra-ta, di esserlo. E questa gioia voglioesprimerla anche nella preghiera, maal femminile». «Faccio parte dellaChiesa e dunque insieme ad essa gioi-sco, soffro e lotto. Vorrei che la miaChiesa mi accettasse per quello che so-no: donna e sacerdote».

BRNO

Alle tre di un pomeriggiod’estate, una piccoladonna coi capelli raccoltiin una crocchia, gli orec-

chini di perle, le gambe sperdute in unpaio di jeans azzurrini, scende dal tramnumero tre con in mano un cesto di vi-mini. Torna dall’orto con le carote e l’in-salata. Come fanno tantivecchi, qui, a Brno, inperiferie come questa— Stara Osada, a Zide-nice — che sanno an-cora di comunismo.Ciabatta ingobbita neifinti Birkenstock di pla-stica nera, ha 73 anni eocchi di un azzurro tra-sparente. Si infila in unodei cinque portoni delsuo blocco di case, dodi-ci piani, senza balconi, imuri grigi e scrostati. En-tra nel suo appartamentoche sta a piano terra. È so-la e in silenzio. Sola e in si-lenzio come è sempre sta-ta. Si chiama Ludmila Ja-vorova ed è un prete. Unadonna prete costretta pertutta la vita a dimenticare sestessa: prima, nella Ceco-slovacchia della dittaturacomunista, come cattolica;poi, nella Chiesa che nonvuole le donne sopra un alta-re, come sacerdote.

Si scusa perché ha le manisporche di terra, non aspetta-va nessuno, anzi, stava perandare con le carote da sua so-rella Maria che è una delle po-che che ha sempre saputo. Co-munque va bene, venga, sì, so-no un prete, se insiste le spiego.La casa è due stanze, tutto lin-do, pulito, in cucina la formicabianca e la marmellata di albi-cocche appena riposta. Le tendi-ne di pizzo, tanta luce anche se siamoproprio in basso, là fuori ecco il giar-dino. Nel salotto il divano di legno cheè anche il suo letto, tante piante — fi-cus, dracene, papiri, un cactus per-ché piaceva a suo padre — e soprat-tutto tantissimi libri. Una parete dilibri: filosofia, psicologia, architet-tura, i titoli sono in ceco, ma si ca-pisce. C’è una macchina per cuci-re, un tv Grundig e, su un tavolinocoi vasi di fiori finti, un computercollegato col mondo. «Sì, sono unsacerdote. Sì, ho celebrato laMessa». Bobinko, il gatto soria-no, si struscia in cerca di gratti-ni sul collo. Ludmila lo accon-tenta e continua: «Ma non vo-glio essere una bandiera, ionon chiedo né recriminoniente».

Il contrabbando di ostie

Era la notte del 28 dicembredel 1970. In una casa che non èmolto lontano da qui, un vescovo, ani-ma della chiesa nascosta della Cecoslo-vacchia comunista, innamorato di Dioe della libertà, provato da 14 anni di car-cere ma indomito, ordinò Ludmila Ja-vorova sacerdote della Chiesa CattolicaRomana. In cella aveva capito che ledonne erano vittime due volte: senzasacerdoti tra loro non potevano riceve-re nemmeno il conforto dell’Eucare-stia. Ludmila aveva 38 anni, in quel mo-mento faceva la custode in una galleriad’arte, anche lei amava Dio. Dovevanoamarlo tutti in silenzio, però. Pregare dinascosto e stare attenti al vicino che po-teva fare la spia. Scrivere le preghieresulle cartine di sigarette e ingoiarle searrivava qualcuno. Celebrare al buio, lanotte, nelle poche case sicure che do-vevano avere due ingressi così, se era ilcaso, almeno qualcuno poteva scappa-re e salvarsi. C’era il contrabbando diostie per celebrare l’Eucarestia. Trova-re chi volesse ordinare nuovi preti eradifficile, oltre alla fede ci voleva troppocoraggio. Il gruppo si chiamava Koino-tes, viene dal greco, vuol dire Comu-nità, era uno dei più importanti dellachiesa clandestina. Il piccolo gruppodivenne ancora più piccolo quandoLudmila venne fatta sacerdote: neppu-re tra loro tutti capirono; anche tra loroera costretta a nascondersi.

Quella notte appena dopo Natale, in

Vive a Brno nella Repubblica Ceca, è stata ordinata sacerdoteda un vescovo nel 1970 in un Paese provato dalla dittaturacomunista e costretto a vivere la propria religionein clandestinità. Ha celebrato messa di notte nelle case dei credenti,sino a quando, ventisei anni più tardi, il Vaticano l’ha interdettadal suo ufficio: “Ma un sacramento non si cancella”

CINZIA SASSO

le storieChiesa del silenzio

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31DOMENICA 14 AGOSTO 2005

Non sono unafuorilegge,

non mi rivolto contronessuno ma nonsi può spegnerela luce dello Spirito

telli, si lamentava con la mamma, allo-ra protestava in modo vivace. Adoravasuo padre e di lui non può dimenticareuna frase, come se fosse quella che le hasegnato la vita. Era bimbetta, la famigliamolto cattolica e il padre un uomo digrande cultura, sempre a leggere di tut-to, molti dei libri di questa stanza eranosuoi. I fratelli giocavano a dire la Messa,a lei era vietato e allora andò dal padreprotestando: «Perché le donne nonpossono fare il prete?». E lui, spostandoappena lo sguardo dal libro: «Prega per-ché questo possa accadere». È accadu-to, e adesso Bohumila può sapere. Ma lagerarchia no, quella ha preferito igno-rare, cancellare con il silenzio.

Era il 1996, un’altra storia, ormai, perla Cecoslovacchia: a Berlino era cadutoil muro e poi a catena la rivoluzione divelluto e il Paese che non c’era più pro-prio, ora Brno è nella Repubblica Ceca,la seconda città dopo Praga, e il resto èSlovacchia. Dallo Stato non era più ne-cessario nascondersi, ma dalla Chiesa?Per anni Ludmila aveva cercato di ave-re risposte: anche Felix, alla fine, l’ave-va lasciata sola. Sola con il suo segreto,sola con la mancanza di modelli, sola acercare di giustificare agli altri la pro-pria vocazione. Aveva scritto a Giovan-ni Paolo II: sarà mai arrivata, quella let-tera? Di certo non è mai arrivata rispo-sta. Nel ‘92 il Vaticano rivolse un appel-lo ai preti della chiesa sotterranea per-ché uscissero allo scoperto: rivolta soloagli uomini, però. È nel ‘96, solo nel ‘96,che Roma manda a chiamare Ludmila:dal vescovo della sua diocesi, come sideve, che in privato le dice che «è for-malmente interdetta dall’esercitare il

L’ALBUM DI FAMIGLIAIn alto, Ludmila nel’97.

Al centro, con la famiglia

del fratello e con la

nipotina. Sotto, Ludmila

negli anni ‘70

La fede nascostadel prete Ludmila

quell’appartamento, davanti a un te-stimone vincolato al silenzio, dopo es-sere stata ordinata dal vescovo fonda-tore dei Koinotes Felix Maria Davidek,Ludmila celebrò la sua prima Messa.Indosso aveva il suo vestito più bello,nero, di broccato. Poi nel gelo si in-camminò verso casa, da sola, e si ac-corse che stava piangendo. Finalmen-te. Non lo aveva mai fatto: piangeva difelicità e di paura. Era cresciuta con ot-to fratelli maschi e si era abituata a farecome fanno gli uomini, trattenere leemozioni, nascondere i sentimenti.Entrò, al piano di sopra sentì piangereBohumila, la nipotina che tanto nonpoteva capire, tra le lacrime impartì lasua prima benedizione e le sussurrò:«Questo è un giorno molto importante,quando crescerai ti dirò che cosa è suc-cesso ma per adesso deve restare un se-greto».

Sopra il divano, nel salottino, c’è ungrande ritratto della persona che ha re-so possibile questa storia: Felix MariaDavidek pare un uomo bellissimo, oc-chi senza paura, mani bianche, lun-ghissime, aristocratico anche nel fisico.Gli uomini, non solo l’amico Felix, di-ventato prima prete e poi vescovo, han-no una parte importante nella storia diLudmila: da bambina soffriva di nonpoter giocare come facevano i suoi fra-

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i luoghiGiardini restaurati

ATTILIO BOLZONI

La Zisa, paradiso ritrovato

PALERMO

Gliemiri che venivano dal-l’altra parte del mare lochiamavano gennat al-ard, il Paradiso della Ter-

ra. E lo trovarono anche a Palermo. Magli abitanti di quella città, magnifica co-me lo era solo Bagdad per i suoi giardi-ni e Cordova per le sue moschee, diecisecoli dopo seppellirono quel paradisosotto i loro rifiuti. Dove c’erano fontanee palme da datteri e melograni ci porta-rono sozzure, veleni, carcasse di ani-mali e di automobili. Dove crescevanole piante degli odori ci costruirono casedeformi e giganteschi palazzi, rove-sciarono cemento sugli agri più fertilidella Conca d’Oro, nascosero castelli,coprirono tesori. I parchi di Palermo di-ventarono i suoi orrori urbani. E anchela Zisa, in arabo la Splendida, fu sotter-rata con la sua memoria. Dimenticata,lasciata nelle mani dei nuovi califfi ma-fiosi, abbandonata nel suo sfacelo.

Ci sono voluti gli ultimi vent’anni etanta fatica per seguire una traccia cheforse, prima o poi, ci farà ritrovare lastrada che conduce ancora al Paradisodella Terra. Vi hanno piantato aranciamari e cedri, bacche, arbusti, la lavan-da, i carrubi, il gelsomino e la menta, lerose e i pistacchi. Vi hanno scavato trale sterpaglie e i cumuli di fango una va-sca lunga centotrentacinque metri elarga quattro, una «via dell’acqua» conluci e spruzzi. Vi hanno disegnato aiuo-le, poggiato marmi e restaurato pozzi,mosaici, colonne. In una delle borgatepiù devastate e putrefatte stanno fa-cendo rinascere un frammento di quel-l’eden che dopo gli arabi fu dimora deinormanni, grande riserva reale di cac-cia che si estendeva da Altofonte finoquasi al mare, territorio che elevò Pa-lermo a capitale. Una delle più gran-diose del Mediterraneo.

Erano centomila e qualcuno dice an-che duecentocinquantamila quelli chevivevano sotto il Montepellegrinoquando gli arabi persero il dominio del-l’isola e, dopo due secoli e mezzo, ar-rivò dal nord più lontano un manipolodi audaci. Erano condottieri «fedeli diDio e cavalieri di Cristo» con a capo ifratelli Roberto e Ruggero d’Altavilla,dovevano sottomettere i greci, caccia-re i saraceni e riportare la Sicilia «ingrembo alla cristianità».

L’avventura però fu anche un’altra. Ei re normanni dal 1071 e per cento annivissero a Palermo come «i più orienta-li» dei sovrani. Fu allora che il gennat al-ard divenne il Genoardo. Fu allora cheil mecenatismo illuminato dei cavalie-ri di origini scandinave assecondò la fu-sione di culture, di popoli, di tendenze.Una Palermo multietnica dove cupoleislamiche svettavano sulle basiliche la-tine, dove artigiani magrebini e bizan-tini decoravano chiese cristiane, doveper le vie si incontravano mercanti egeografi e matematici di ogni razza eogni provenienza. Longobardi, ebrei,slavi, berberi, persiani, tartari. E, comeannotava uno dei tanti poeti a queltempo partiti dall’altra sponda del Me-diterraneo, «le donne di questa città al-l’aspetto sembrano musulmane, par-lano arabo correttamente, si amman-tano e si velano come quelle».

Fu proprio in quegli anni che dallemaestranze di Sousse e di Kairouan inormanni si fecero progettare e realiz-zare quelle che il viaggiatore arabo an-daluso Ibn Giubair descriveva come «leperle di un monile», la piccola Cuba, laCuba Soprana, il palazzo dell’Uscibe-ne. E soprattutto el Aziz, la Zisa. Palazziche uno dopo l’altro ricadevano nel Pa-radiso della Terra, luogo di delizie, cul-la di ozi e sollazzi di corte. Su mandatopapale i normanni edificarono le gran-di cattedrali cristiane — a Palermo, aMonreale, a Cefalù — ma nel privatoscelsero di trascorrere la loro esistenzacome i vinti, quei sultani che passava-no le giornate a sentire il cinguettio de-gli uccelli e i profumi delle erbe nei giar-dini ispirati al disegno islamico, che go-devano di quelle grandi sale per il ripo-so e per le feste, per gli incontri con le

concubine.«La Zisa era il palazzo dei piaceri, co-

struita da un re cristiano ma araba nel-la sua concezione: è stato un riconosci-mento dei trionfatori agli sconfitti»,spiega Salvo Lo Nardo, uno degli archi-tetti — gli altri sono Pippo Caronia eLuigi Trupia — che hanno fatto rivive-re a Palermo questo ritaglio di Genoar-do. L’idea la ebbero nel 1986 e trovaro-no in quella inquieta stagione politicasiciliana un’entusiastica sponsorizza-zione trasversale, il sindaco democri-stiano ribelle Leoluca Orlando e l’as-sessore socialista Turi Lombardo. Pro-getto approvato nel 1990 e finanziatodal Comune nel 1996, nel 1997 iniziaro-no i lavori ma poi la ditta fallì e il cantie-re rimase chiuso per anni. Ha riapertol’anno scorso. Nell’estate del 2005 igiardini della Zisa sono stati finalmen-te offerti alla città che li aveva occultati.

Tre ettari di verde, sessanta varietà dipiante sapientemente sparse in ottocampi, poco più di cinque milioni dieuro il costo dell’opera. «Noi palermi-tani siamo lenti nel fare le cose ma poi,alla fine, riusciamo a sentirle profonda-mente nostre», dice la Sovrintendenteai beni culturali di Palermo Adele Mor-mino quando ci mostra in un bellissi-mo tramonto il «luogo delle delizie».Eccoli i giardini della Zisa con i suoi trepercorsi, la «via dell’acqua», la «via delverde» e la «via dell’ombra», un retico-lato metallico che sarà coperto da bou-ganville e da glicine e da gelsomini. Inmezzo la lunga vasca con le ceramichelavorate dai mastri di Santo Stefano diCamastra, gli zampilli, il marmo bian-co delle cave di Alcamo e di Castellam-mare, un proseguimento ideale deltracciato d’acqua della sala della fonta-na, quella che si apre oltre le porte delpalazzo della Zisa. E fuori dalle sue mu-ra c’è ancora la «senia», una piattafor-ma di pietra circolare con al centro unpozzo e una macchina dentata. Unavolta un asinello legato e bendato vi gi-rava all’infinito intorno, con il suo an-dare le pale tiravano su dal pozzo l’ac-qua che finiva poi in una cisterna e sci-volava nei canali che irrigavano il giar-dino.

Ci vorrà del tempo e tanta pazienzaper vederlo rigoglioso come mille annifa questo parco circondato ancora dal-le mostruosità della Palermo più «rug-gente», sfregi lasciati nel quartiere del-la Zisa dai Moncada, dai Corvaia, daiCarini, palazzoni tutti uguali, edilizia dirapina, licenze regalate dall’“AnonimaImpresa Ciancimino” agli amici, ai pre-stanome, a pensionati nullatenenti.Una Palermo infetta che guarda anco-ra oggi quella che era la Palermo più re-gale e superba.

È in fondo, imponente e maestoso,che si staglia il palazzo che i palermita-ni chiamano castello ma castello non èmai stato. Un parallelepipedo di tufo,alto più di 25 metri e largo più di 35 conun’iscrizione in versi sull’arcata di ac-cesso alla sala della fontana: «Quan-tunque volte vorrai, tu vedrai il più belpossesso del più splendido tra i reamidel mondo: dei mari e la montagna che

li domina le cui cime sono tinte di nar-ciso e vedrai il gran re del secolo in belsoggiorno ché a lui conviensi la magni-ficenza e la letizia. Questo è il paradisoterrestre che si apre agli sguardi. Questiè il Musta’izz e questo palazzo l’Aziz».

Il Musta’izz, «bramoso di gloria», erare Guglielmo II. L’Aziz fu iniziato nel1165 da Guglielmo I il Malo. E ultimatonel 1167 da Guglielmo II il Buono, che

al trono salì appena adolescente, quan-do aveva solo tredici anni. Così lo stori-co Michele Amari ricorda la nascita del-la Zisa nella sua ricostruzione dell’epo-ca musulmana in Sicilia: «Guglielmo,rivaleggiando col padre ne’ passatem-pi soli, ei si messe a fabbricare tal pala-gio che fosse più splendido e sontuosodi que’ lasciatigli da Ruggiero. Fu mu-rato in brevissimo tempo, con grande

Mille anni fa, quando Palermo era la capitale più raffinatadel Mediterraneo, i re normanni costruirono su mandatopapale le grandi cattedrali cristiane. Ma per i propri piacericopiarono l’arte dei musulmani sconfitti. Sorse così el Aziz,la Splendida, che oggi torna con le sue vie d’acquae d’ombra, i profumi delle erbe, i fantasmi dei suoi harem

Tre ettari di verde,sessanta varietàdi piante sparsein otto diversi campi

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spesa, il nuovo palagio e postogli il no-me di El Aziz che in bocche italiane di-ventò la Zisa e così diciamo fin oggi».

Un gioiello di architettura araba e dimonumentalità normanna. La perfettasintesi della mescolanza tra dominato-ri e dominati, la Zisa come simbolo diuna Sicilia felicissima. Scrive GiuseppeBellafiore, professore ordinario di sto-ria dell’arte e autore di un testo sulla Zi-

sa dato alle stampe una decina di annifa dall’editore palermitano Flaccovio:«A volere meglio specificare le caratte-ristiche funzionali del palazzo, c’è dadire innanzitutto che esso era una di-mora destinata prevalentemente alsoggiorno estivo. Non si trattava tutta-via di un precario soggiorno diurno...Era questo rivolto ed aperto a nord-ovest verso il mare, cioè verso la zona

stema di ventilazione per assorbire edespellere l’aria calda. Per affrontare legiornate di scirocco. Per trovare riparoalle lunghe estati palermitane. E con-cedersi sollievi più intimi. «Era propriolì dentro che i nuovi conquistatori si de-dicavano alle gioie dell’anima e soprat-tutto a quelle del corpo», racconta Mat-teo Scognamiglio, direttore del servi-zio beni architettonici della Sovrinten-denza, che spiega come da alcuni mesistanno completando il recupero dellasala della fontana.

Era al primo piano l’harem della Zi-sa, nelle sale che si inseguono nelle dueali del palazzo. Aspettavano là le donnedei sovrani, distese sui loro sofficidiwan e nella penombra delle nicchie.Un’atmosfera fiabesca, da Mille e unanotte. Alla Zisa ma anche alla Cuba e intutti gli altri «sollazzi» dei giardini di de-lizia musulmani, quelli che si richia-mavano al paradiso coranico. Era il Ge-noardo voluto dai normanni.

E non fu certamente un caso che pro-prio lì, alla Cuba, tra le acque e gli albe-ri che circondavano un altro parallele-pipedo — di dimensioni appena piùpiccole della Zisa — Boccaccio am-bientò una delle novelle del suo Deca-meron. La sesta della quinta giornata. Èla vicenda d’amore tra Gian di Procidae Restituta, una ragazzina bellissima diIschia rapita da «giovani ciciliani» peroffrirla in dono a Federico II d’Aragona.Il re comandò «che ella fosse messa incerte case bellissime di un suo giardi-no, il quale chiamavan Cuba, e quiviservita, e così fu fatto». Lieto il finaledella storia. I due amanti si ritrovaronodopo il rapimento ma una notte ven-nero scoperti mentre dormivano ab-bracciati, il re li fece trascinare nudi sulrogo. In loro favore intercedette peròRuggieri de Loria, che ricordò al sovra-no cosa fecero i Procida nella guerra delVespro. E fu così che «Gian di Procidacampa e divien marito di lei».

Quando Giovanni Boccaccio scrisseil Decameron, era già cominciato il de-clino del parco reale e anche di quellaPalermo che per il geografo arabo Al-Idrisi era allora «la più grande e la piùbella metropoli del mondo». Un deca-dimento che subì anno dopo anno pu-re la Zisa. Nel Trecento fu realizzatauna merlatura che soffocò una scrittain arabo alla sommità dell’edificio, poiil «sollazzo» fu trasformato in una forti-ficazione. Narra Nicolò Speciale, cro-nista del quindicesimo secolo, di quelche accadeva anche nel passato piùlontano nella Conca d’Oro: «Tutto ciòche c’era di verde veniva distrutto enessuno aveva pietà».

Gli aragonesi e i viceré spagnoli asse-gnarono la Zisa di volta in volta a nobi-li famiglie. Nel Cinquecento diventòun baglio, nel Seicento l’acquistò perpoche once Don Giovanni di Sandoval,nel 1808 la Zisa passò ai Notarbartoloprincipi di Sciara. La tennero loro finoal 1951, quando fu espropriata dallaRegione. Cominciarono allora i primilavori di restauro. Ma alla vecchia ma-niera siciliana. Interventi saltuari e ap-prossimativi. Tra il 1956 e il 1957 furo-no perfino buttati giù alcuni muri, i so-lai e anche i pavimenti che avevanoabilmente sistemato quelle maestran-ze arabe venute da Sousse e da Kai-rouan per desiderio dei nuovi signori.Nell’ottobre del 1971 il più bel palazzodel Paradiso della Terra cedette perl’incuria: il primo piano precipitò. E co-minciarono anche i saccheggi della Zi-sa la Splendida, luogo per le scorrerie divandali e rifugio di tossici. Il vero re-stauro statico e architettonico ebbeinizio l’anno dopo il crollo, nel 1972.

Ma dentro e intorno a quel poco cherestava del mitico Genoardo ormai eraarrivato il palermitano più predatore eimpunito. Aprirono una fossa per unadiscarica abusiva. E poi comparveun’officina. E poi ancora uno sfascia-carrozze. Ci trasferirono lì, proprio lìnel Paradiso della Terra, anche un de-posito dell’Amnu, l’azienda municipa-lizzata dei rifiuti. E davanti e dietro alpalazzo dei piaceri intanto il nuovo po-tere aveva lasciato già le sue impronte,i cantieri e il calcestruzzo degli ultimi redi Palermo, i boss.

panoramica più attraente e più frescadella pianura palermitana». Aggiungeancora Bellafiore: «Da quella parte,giungevano le brezze più temperate especialmente quelle notturne, che po-tevano essere accolte entro lo stessopalazzo attraverso l’ampio varco deitre fornici di facciata e della grande fi-nestra belvedere del piano alto».

Spazi, finestre, atri, un mirabile si-

Un palazzo-gioielloprogettatoper captare le brezzedi mare più fresche

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 14 AGOSTO 2005

RICCHE DECORAZIONIA sinistra, un montaggio

tra foto e disegno

mostra l’edificio della Zisa

com’è oggi dopo il restauro

e com’era in passato.

Sotto, una veduta diurna

e una notturna dei giardini.

Sopra, alcuni dettagli

delle decorazioni del palazzo

PROGETTO VENTENNALEL’architetto Salvo Lo Nardo,

che con Pippo Caronia

e Luigi Trupia ha guidato

il restauro della Zisa

Un restauro ventennale: l’idea

è del 1986, il progetto

del 1990, il finanziamento

del 1996 e l’inaugurazione

di pochi giorni fa

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ra gialla, che si bagnava con una terra bianca e si graffiava, mo-tivi generalmente astratti, poi si coloravano con la ferraccia peril marrone e con la ranina dell’ossido di rame per il verde».

«Si cominciò col falsificare i pezzi mancanti e poi si conti-nuò con la falsificazione dell’intero pezzo. Il Fuschini, che ioho conosciuto, era un uomo secco secco e pieno di intra-prendenza, prendeva le maioliche e le andava a vendere aLondra. Al South Kensington Museum ci sono maioliche ri-fatte e quelle completamente false vendute da Fuschini, chediceva al ritorno: “Sono stato a Lontre”, proprio così. Di coc-cio in coccio passarono alla roba etrusca. Uno dei primi ac-quirenti fu Marshall, che allora dirigeva il Metropolitan diNew York, ed era aiutato dalla sua segretaria, la Ritter. A Mar-shall, avevano venduto un pezzo autentico, comprato daitombaroli della zona di Orvieto, un piccolo balsamario a for-ma di testa di guerriero, protocorinzio, una cosa rara. Il pez-zo era piaciuto molto all’americano, che l’aveva compratosubito, e poi aveva detto: “Questi reperti sono belli, ma per ungrande museo come il nostro non bastano, sono noccioline.Noi vogliamo cose grandi” e i Riccardi a sentire queste pro-poste gongolavano. E così fecero due guerrieri etruschi, duemammozzoni che erano un castigo di Dio».

«La Ritter, che era una cretina, nel suo paper illustrativo, hascritto che quei colossi, alti due metri e mezzo perché i Riccar-di li avevano fatti grandi, li volevano imponenti, dunque chequei colossi erano un miracolo di tecnica, oltre che di arte.“Noi non saremmo in grado oggi di cuocerli alla stessa tem-peratura in tutti i punti”, diceva. Ma i Riccardi non avevanocotto il bove intero, avevano cotto le bistecche. Non capisce?Prima avevano creato i mammozzoni prendendo come mo-dello un bronzetto greco, poi li avevano fatti a pezzi e cotti co-sì, come bistecche e solo dopo avevano ricostruito le statue».

«Con gli anni i Riccardi si allargarono ad altri campi: forsesi erano un po’ montati la testa e pensavano di poter con-traffare tutto. Ma i bronzi erano la loro specialità perché era-no nati orafi e nella fusione ritrovavano la loro anima di me-tallari. Il materiale primo se lo procuravano andando in girola domenica mattina: come altri cercavano lumache o fun-ghi tra le radici dei faggi dell’Amiata, loro avevano occhio so-lamente per rottami di bronzo o di rame, vecchie caldaiescoppiate, lamierini contorti e abbandonati negli scarichi

Si chiamava Pico Cellini, non avevanemmeno la licenza media ma divenne unodei più famosi restauratori italiani.

Le sue tecniche d’indagine sperimentali e disinvoltegli consentirono di svelare clamorosi imbrogli. Come la steleattica, che davanti a un ministro smascherò leccandone il marmo

Aveva frequentato la bottegadi una famiglia di geniali falsari,capaci di fabbricare e piazzarestatue di guerrieri etruschial Metropolitan di New Yorke una biga romana al British di Londra

falsiIlcacciatore

diN

on posso vantarmi di aver conosciuto bene Pi-co Cellini, anche se questo si può dire di moltiche chiamiamo amici. È stata una di quellescoperte tardive in cui il rammarico per averemancato un incontro quando era nel suo mo-mento migliore è solo in parte compensato

dalla frequenza con cui poi lo sono andato a trovare nel suostudio, un seminterrato dalle parti di piazza Mazzini, a Ro-ma. E comunque la differenza di età e la fama di essere il piùstraordinario cacciatore di falsi d’arte in Europa non gli im-pedivano di perdere una parte notevole del suo preziosotempo a raccontare a un giovanotto, come ero in quegli an-ni, eccitanti storie che si erano svolte, per la maggior parte,prima o immediatamente dopo la seconda guerra mondia-le. Storie che non riguardavano solo i falsi, ma tutto il varie-gato mondo legato all’arte e all’antiquariato di pregio. Peruna qualche ragione ora dimenticata gli ero stato presenta-to da Giuliano Briganti ed era bastato il nome riverito di Giu-liano per aver la sua totale fiducia.

La parte più affascinante dei suoi racconti era quando co-minciava a divagare, senza che la sua memoria perdesse unodi quegli infiniti dettagli in cui riusciva a far accomodare i fat-ti veri e propri: dettagli tecnici di materiali, ma anche notazio-ni psicologiche, schizzi di ambiente, ricordi che non erano so-lo personali e che davano alle storie un’attendibilità molto piùcerta di vicende simili, narrate da altri.

Per quattro o cinque mesi, due o tre volte a settimana, apartire dalla fine di una primavera di molti anni fa, di comu-ne accordo mi facevo trovare davanti alla porta d’ingressodel seminterrato. Il pretesto era la ricerca di un soggetto ci-nematografico che ricostruisse la vita di un falsario senza ro-manzeggiare troppo e senza incorrere in troppe banalità. So-spettoso all’inizio (del soggetto, non di me), Pico era diven-tato un sostenitore del progetto, in cui tuttavia voleva inzep-pare troppi ricordi. «Sta venendo una pignoccata» disse a uncerto punto, rendendosi anche lui conto che debordavamodi storie da ogni lato. Il soggetto non l’ho mai scritto, ma ognianno dopo la sua morte sono andato a risfogliare il blocco diYellow Paper per tentare di ricostruire almeno qualcuno diquei racconti che allora mi sembravano magnifici. Ma soloquest’anno li ho completati e lascio ai lettori di giudicarequanto siano ancora tali...

* * *Riccardi. Un giorno — era almeno una settimana che non

lo vedevo — gli chiesi se conosceva i fratelli Riccardi. Al Bri-tish Museum di Londra avevo visto una straordinaria mostradi falsi intitolata Fake, the art of deception e come richiamoavevano sistemato di traverso all’entrata principale una bi-ga romana con appeso un cartellino dove c’era scritto: «Fat-ta dai fratelli Riccardi nel 1930». Pico non era un sentimenta-le, ma al nome dei Riccardi la sua pelle diventò rosea comequella di un bambino: «Quali Riccardi? Amedeo? Teodoro,che era il cugino? L’altro cugino, che forse era il migliore? Ioero fidanzato con Flora, la figlia di Amedeo che viveva a Fi-renze. Ero arrivato da Siena solo l’anno prima, a quattordicianni, per guadagnarmi il pane. Mio fratello era ritornato dal-la guerra con la tubercolosi, il babbo si era indebitato e toc-cava a me fare l’infermiere, iniezioni di sodio per stuccare ibuchi che aveva nei polmoni».

«Quando mio fratello morì, sono partito per Firenze, avevotrovato un posto di restauratore a cinquanta lire al giorno.L’anno successivo, a quindici anni ero simpatico e frequenta-vo due o tre ragazzine. Una era Elsa De Giorgi, che chiamavola contessa frittellara perché riusciva a macchiare anche la sot-toveste... L’altra era Flora Riccardi, veniva da una sana, gran-de famiglia di falsari. Questi Riccardi avevano iniziato comeorefici da fiera, specializzati in orecchini d’oro e coralli per lebalie... Poi aprirono un negozio di roba a Tordinona, a Roma,accanto a un locale di balie gestito da una sensale che chia-mavano la manderina».

«Quando veniva qualche cliente, la manderina faceva un fi-schio a una di quelle ragazzone ciociare che stavano sopra lepanche come a covare l’ovo e diceva: “Bella Mora, fa vederequanta roba tieni”. E quella tirava fora la zinna e faceva unoschizzo di due metri. Queste balie erano tremende, avrebbe-ro fatto qualsiasi cosa per un paio di orecchini di corallo.Quando il padrone era in casa e la moglie non vedeva, se eraun maschietto gli prendevano il piselletto in bocca per farlo di-ventare duro e poi dicevano: “Che bello cazzo che tien ‘sto pu-po, è come il padre”. E naturalmente il padre era contento e gliregalava i coralli. Insomma una mercanzia complicata».

«La loro carriera di falsari iniziò quasi subito. Un certo Fu-schini di Acquapendente, che aveva sentito parlare della lorobravura, gli aveva portato delle mattonelle medievali spezza-te, per vedere se loro erano capaci di rifare le parti mancanti.Questo Fuschini dirigeva il carcere di Acquapendente, dovequalche mese prima erano iniziati lavori di restauro. E dal poz-zo prosciugato erano venute fuori migliaia e migliaia di matto-nelle in frantumi, d’epoca medievale, di un tipo molto raro, atre colori, chiamate a goccioloni. Una volta quando si rompe-va un piatto, i cocci venivano lavati e gettati nel pozzo, perchési diceva che in questa maniera filtrasse meglio. E c’era ancheroba più antica, le mezze maioliche con la terra sotto. Una ter-

STEFANO MALATESTA

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 14 AGOSTO 2005

ferroviari della Toscana. Rifacevano l’intero pezzo ritaglian-do le lastre delle caldaie con le sfoglie di un lamierino messeuna sopra l’altra e battendole su un’anima di legno con deimartelletti di loro invenzione. Dal toc toc di quei martellettinacque una biga intera, quella esposta al British Museum e alungo ritenuta autentica. La stava per comprare il Museoetrusco di Valle Giulia a Roma».

«Se ripenso a quegli anni felici, il pranzo la domenica con laribollita e poco altro, posso dire che sono stato fortunato. Era-no i migliori del ramo e parlavano liberamente, perché eranoorgogliosi del loro mestiere e se ne vantavano. Incominciavauno a raccontare delle grattacacio di bronzo, di come fosseroutili per ricostituire i pezzi mancanti dei vasi romani. E un altrochiedeva: “O tu come ha fatto a mascherare i buchi?”. “Sem-plice, ho lasciato cadere una goccia di stagno su ogni buco e poiho passato la patina per nascondere meglio”. Sono rimastisempre degli artigiani, non sono diventati ricchi con i falsi, e infondo hanno solo fatto quel che il mercato chiedeva. Non ave-vano l’anima del truffatore ed io ho imparato tutto da loro».

* * *La leccata. Nel dopoguerra, la prima esposizione in un Pa-

lazzo Venezia rinnovato e adibito alle mostre doveva mostra-re i migliori pezzi di marmo provenienti dalla Grecia e MagnaGrecia. A detta degli esperti, una delle opere più pregiate erauna nuova acquisizione, una stele attica giudicata magnificaanche dal direttore delle Antichità e Belle Arti di allora, Bian-chi Bandinelli. Ma a Pico non era piaciuta, durante l’antepri-ma per giornalisti e critici della mostra si era avvicinato alla ste-le, scoprendo una vecchia conoscenza.

«Era una vecchia cosa, risaliva almeno a dieci anni prima edera stata rifiutata persino dai tedeschi. Con il Patto d’Acciaioera diventato d’obbligo dimostrare un certo cameratismoverso gli arroganti nazi scesi a Roma a razziare quante più sta-tue antiche possibili, da sistemare negli atri di quegli orrendipalazzi disegnati da Speer. O nei castelli di cui si era impadro-nito Goering, che si atteggiava a principe rinascimentale men-tre non era che un lardoso criminale nazista. Questo non vo-leva dire che i tedeschi non pagassero. Pagarono fino all’ulti-ma lira anche certe patacche, e per il discobolo Lancellotti ilprezzo fu di un milione. Poi Siviero, quello dei servizi ameri-cani incaricato del recupero delle opere d’arte, disse che i te-

I nazisti erano scesi a Roma decisia razziare reperti antichi. Ma anchea loro furono rifilate patacche

UN RACCONTO IN TRE PUNTATEQuella che pubblichiamo in queste pagine

è la prima puntata delle storie di Pico Cellini.

Altre due puntate usciranno nei prossimi giorni

sulle pagine della Cultura.

Nelle foto: al centro, Pico Cellini in un ritratto

del 1993 di Bruno Di Maio (www.brunodimaio.it);

a sinistra in basso, Cellini nel ’51

restaura la “Giuditta” del Caravaggio;

nella fascia, da sinistra a destra, opere ritenute false

da Cellini: il Colosso etrusco e il Kouros

del Metropolitan Museum, la Santa Lucia

della Collezione Berenson;

la Fornarina di Raffaello; il Trono di Boston

La vita da film dell’uomoche assaggiava le statue

deschi non avevano pagato una lira, ma non era vero. Ci fu so-lo una certa resistenza da parte di alcuni membri delle Anti-chità e Belle Arti, durata poco, perché intervenne personal-mente Bottai, urlando che la scienza non bastava, ci voleva-no i coglioni per stare in quei posti. E così il discobolo partìper la Germania. Uno dei due o tre pezzi che rifiutarono fuproprio quella che veniva chiamata la stele attica. Un notofalsario di Roma aveva fatto rubare il coperchio di un sarco-fago abbandonato per decenni lungo il Decumano Massimonegli scavi di Ostia antica, e l’aveva trasformato in un abba-stanza rozzo bassorilievo».

«La mostra poteva essere un’ottima occasione per rici-clarlo. La stele nuova versione era più curata, più levigata del-la vecchia, ma non ci si poteva sbagliare: era lei e lo dissi aBianchi Bandinelli. Ma la presentazione — il tappetino co-me io lo chiamo — era stata abile, si erano inventati anche unpedigree e Bianchi Bandinelli mi rispose che oramai i falsi miavevano dato alla testa, li vedevo dappertutto. Ma questonon era il caso. Ci rimasi male, perché era un signore tosca-no per bene e avevano messo in mezzo anche lui. Così deci-si di fare un gesto, un’azione spettacolare e memorabile, inmodo che restasse il ricordo».

Ma per uno strano pudore, Pico non riuscì mai a parlare conprecisione di quello che era stato uno dei momenti decisividella sua vita, a partire dal quale la sua fama dilagò incontra-stata. Questa versione dei fatti è ricavata da tre testimonianze,molto simili, tra i pochi che ricordavano dopo quasi mezzo se-colo: «Era difficile riconoscere Pico in quel signore piccolo eipervestito che, davanti al ministro, si era come tuffato sotto ilcordone rosso posto davanti all’opera, aveva abbrancato ilmarmo e tirando fuori una lingua lustra come una foca am-maestrata, dava colpi che sembravano vere e proprie leccate.Ma i carabinieri in alta uniforme erano stati così abili e lesti nel-l’agguantare il poveretto per la collottola facendolo sparire co-me avrebbe fatto un prestigiatore con cappello a cilindro e co-niglio bianco, ma in sequenza al contrario».

Pico riprese: «Mi portarono al commissariato e poi mi rila-sciarono. Due giorni dopo ho ricevuto una telefonata di Bian-chi Bandinelli: “Lei ha fatto una cosa gravissima mettendo ilgoverno alla gogna. Io ho costituito una commissione, vogliorendermi conto in base a che cosa lei ha giudicato la stele fal-sa”. Cercai di mantenere la calma, era un’occasione d’oro enon me la sarei fatta sfuggire. Il pomeriggio del giorno dopo al-le sei in punto stavo in casa di Bianchi Bandinelli. Lui era ungentiluomo ma si lasciava anche fregare e suggestionare. Co-minciai a parlare degli acidi, dati al marmo in tempi molto re-centi. Il marmo all’inizio li aveva assorbiti e poi risputati in su-perficie dove stagnavano. Passandoci la lingua sopra non so-lo si sentivano, ma si poteva individuare la qualità e il tipo. I fal-sari li avevano certamente usati per modellare più rapida-mente, ma esisteva la possibilità, remota, che fossero stati usa-ti per ripulire la lastra».

«Mi sentivo magnanimo e passai ad altre prove contro: “Ilmarmo del bassorilievo è del tipo fasciato chiamato marmodel Peloponneso. Ora questo tipo di marmo, mi permetto difar osservare, presenta delle fasce nere, anche grigie, che alte-rano la sua purezza. Lo hanno adoperato i romani nel tardoImpero, i bizantini, anche per le statue. I greci dell’epoca clas-sica, mai. I greci cercavano l’assoluto. Scolpivano sempre nelmarmo pario o nel pentelico. Se trovavano una macchia, ta-gliavano il pezzo e inserivano un tassello. C’era anche una ra-gione pratica, artigianale, in questa ricerca di biancore com-pleto. Il fondo bianco era necessario per l’aganosis, la lucida-tura di cera con cui gli artisti greci rifinivano le statue, per ren-derle come l’avorio e poi dipingerle. I lavori in scultura dell’e-poca classica sono policromi a fondo bianco”».

Venne servito il tè, poi Pico riprese: «Passiamo a un altropunto. La stele ha un timpano a forma di tetto, con due pal-mette scolpite ai due spigoli. Si chiamano argoteli. Nell’epocaarcaica e anche in quella classica, la presenza degli argoteli eracodificata da una norma. Se si scolpiva una palmetta al verti-ce del tetto, in posizione centrale, si poteva fare a meno dellepalmette laterali. Ma se c’erano le laterali, ci doveva essere an-che obbligatoriamente quella centrale. Invece qui manca.Non c’è perché allo scalpellino è venuto a mancare il materia-le. Il coperchio del sarcofago aveva dimensioni limitate e la cu-spide del tetto arrivava proprio dove il tetto finiva. La superfi-cie rimasta non era sufficiente per scolpire la palmetta cen-trale e lo scalpellino non se ne era accorto».

Alle ultime parole di Pico un archeologo, che fino a quel mo-mento non aveva dato segni di vita, si volse verso il restaura-tore e con voce quasi strozzata disse: «Ne sutor ultra...». Picodiede un’occhiata al direttore generale, che si era fatto di mar-mo anche lui. E poi mentre si alzava dalla tavola fingendo diessere mortalmente offeso, pronunciò con voce chiara questeparole: «Anche se non ho la laurea e nemmeno uno straccio diqualsiasi licenza media, un po’ di latino l’ho imparato e ho ri-conosciuto la citazione. Ho capito che cosa mi vuole dire: “Nesutor ultra”, “il ciabattino non vada avanti”, è troppo ignoran-te. Ma se sono così ignorante perché mi avete chiamato?». L’u-scita dalla casa di Pico a piccoli passi, girando intorno a tutti imobili, una camminata che ne mimava una famosa di Totò, èrimasta per anni nella memoria di chi aveva partecipato allariunione... Una settimana più tardi la stele venne portata viada Palazzo Venezia.

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la letturaCiviltà senza tempo

Dopo la caduta dell’Urss i mongoli hanno sceltodi rifondare l’identità nazionale sul feroce condottieroche 800 anni fa creò il più vasto impero della storia,dal mar Giallo all’Europa occidentale. Un saltoall’indietro vertiginoso, ma qui gli allevatori nomadivivono ancora la stessa vita del Milleduecento

Questo è il Paese piùspopolato del pianeta

e i viaggiatoril’associano

a un’esperienzache l’Occidente

ha perduto:la percezione

del nulla:mancano alberi, case,punti di riferimento,

così le collineingigantiscono

e il cielo si dilata

GUIDO RAMPOLDI

Torna il popolo a cavallo

Per quanto otto secoli fa i lo-ro esploratori non si spin-sero oltre la campagna diUdine, anche in Italia, cosìcome in tutta l’Europa sla-va, i mongoli sono insegui-

ti dalla fama più sinistra che sia tocca-ta ad un popolo. Colpa dei loro avi.Sommando le cronache redatte dapersiani, cristiani, cinesi e arabi, si ri-cava che Gengis khan tolse di mezzodieci milioni d’umani in un mondo al-lora spopolato. Probabilmente le suevittime furono assai meno, tuttavia imongoli uccisero nei modi più visto-si. I principi e i loro sudditi che rifiuta-vano la resa furono bolliti, scuoiati,squartati, impalati, arrostiti a fuocolento, ustionati a morte con l’argentofuso nelle orecchie, trasformati inprede di battute di caccia, tutti spetta-coli organizzati per il sollazzo dellatruppa. Ai musulmani d’Oriente ilkhan era noto come “il Maledetto”,l’Europa cristiana era certa che i suoiguerrieri discendessero dai mostri bi-blici Gog e Magog. Però i più grandisterminatori che la storia ricordi furo-no allo stesso tempo geniali costrut-tori del più vasto impero mai apparso

sulla terra, dal mar Giallo all’Europaoccidentale; e quell’impero fu d’unatolleranza religiosa singolare non so-lo per il suo tempo.

Così quando è finita con l’Urss an-che la tutela sovietica sulla loro patria,i mongoli hanno deciso di fondare l’i-dentità nazionale proprio su quel pas-sato maledetto: hanno glorificatoGengis. La riabilitazione cominciòquindici anni fa, il giorno della festanazionale. Nello stadio di Ulaan Ba-taar l’esercito sfilava davanti ai capicomunisti, quando sugli spalti dueuomini srotolarono un drappo biancoe lo sollevarono in alto, così in alto chetutti riconobbero la faccia dipinta. Al-lora la folla ammutolì: per l’ideologiaufficiale da ottant’anni Gengis khanera un’anticaglia proibita. I libri discuola lo liquidavano come un simbo-lo del più feroce pre-capitalismo feu-dale; e il fatto che i suoi mongoli aves-sero sterminato russi fino a Kiev e sla-vi fino a Cracovia lo rendeva partico-larmente controrivoluzionario. Tuttiguardarono verso il palco delle auto-rità: la nomenklatura pareva confusa.Poi qualcuno cominciò ad applaudiree l’applauso crebbe, dilagò nello sta-dio, fu un’ovazione: il Figlio del CieloEterno era tornato.

Da allora è ovunque. Portano il suonome il miglior albergo della capitale,la vodka più cara, la birra nazionale,l’unico Airbus delle linee aeree mon-gole, un’infinità di bar, ristoranti, im-prese di turismo. Il partito ex-comu-

nista l’ha riabilitato, da nemico deipopoli è diventato padre della patria.E quest’anno presiede alle cerimonieindette per l’ottocentesimo anniver-sario della fondazione dell’impero.Come per prevenire i dubbiosi, il pre-mier mongolo in giugno ha avvertito:Gengis non fu cattivo come racconta-no, «ebbe cattiva stampa».

Ad un estraneo questo agganciare ilnostro tempo al tredicesimo secolopuò apparire bizzarro come quel pro-gramma della tv statale in cui il con-duttore e le vallette, vestiti nelle setelarghe un tempo in uso alla corte im-periale, consegnano elettrodomesticiai vincitori. Ma per un quinto della po-polazione, gli allevatori nomadi, la vi-ta del Duecento è un’esperienza vis-suta. «Tuttora essi applicano le regoleprescritte dalla Legge universale del-l’impero per leggere il cielo, ricavarele previsioni del tempo, allevare il be-stiame, sapere cosa fare nel primogiorno di luna», mi disse a Ulaan Ba-taar Nasrain Nyam-Osor, rettored’un’università che ovviamente portail nome di Gengis khan.

La realtà forse è meno romantica.Oggi molti nomadi cercano un com-promesso con la modernità e per unaparte dell’anno o definitivamente sivanno ad accampare alla periferiadella capitale. Però non è infrequenteil percorso inverso: nei somon, le cit-tadine costruite intorno a kombinatindustriali oggi decrepiti, alcuni pre-feriscono la vita avventurosa del pa-

store alla disoccupazione o a stipendimedi che non raggiungono i 100 dol-lari al mese. I pastori irriducibili spes-so raccontano che a Ulaan Bataar l’a-ria è «troppo pesante». I loro progeni-tori avevano così in sospetto le cittàche nella furia con cui le radevano alsuolo si può sospettare un’avversioneideologica. La loro Legge universaletollerava le case in muratura ma pre-scriveva di non abitarvi in tanti, rite-nendole sporche e contronatura.Condannava gli scavi come ferite in-flitte alla Terra, che per un cavaliereerrante rappresentava unicamenteun’immensità da percorrere soprae-levati, e prescriveva di colmare ognibuco nel terreno, fosse pure il piccoloforo prodotto dal chiodo cui nelle so-ste si legava il cavallo. Otto secoli do-po queste prescrizioni non sono piùosservate, se non da alcuni anziani;ma basta uscire da Ulaan Bataar perritrovare, dopo qualche dozzina dichilometri, la Mongolia antica.

Innanzitutto la sua vuota immen-sità. Con un’estensione pari a cinqueItalie, la Mongolia ha meno abitanti diRoma (due milioni e mezzo). È il Pae-se più spopolato del pianeta, uno spa-zio metafisico che i cartografi prosai-camente situano tra la Russia e la Ci-na. La letteratura di viaggio contem-poranea in genere l’associa ad un’e-sperienza che l’Occidente ha perso, lapercezione del nulla. Chi avesse vo-glia di attraversare le foreste del nordnell’unico modo possibile, a piedi o a

36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 14 AGOSTO 2005

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di Gengis il Maledettocavallo, potrebbe procedere in linearetta per 400 chilometri fino alla Rus-sia senza incontrare anima viva, a par-te qualche evaso che inselvatichiscetra abeti e betulle, assediato dai lupi.Gli altopiani centrali, distese alluvio-nali bianche d’inverno e verde-tenued’estate, stordiscono il viaggiatoreprivandolo delle proporzioni: man-cando alberi, case o altri punti di rife-rimento, le colline ingigantiscono e ilcielo si dilata. Le strade asfaltate in-torno alla capitale diventano prestopiste che si accavallano e si separano,oppure si estinguono dopo aver dise-gnato geroglifici incomprensibili. Ilsud è un deserto di sabbia e di rocce, ilGobi, che nel passato inghiottì interespedizioni cinesi. A chi vi si avvicina— lo racconta nel suo Gobi lo scrittoreRoberto Ive, un cantore di quella terra— può capitare di incontrare albericon la sciarpa votiva di seta blu, il kha-dag, legata intorno al tronco: sono gliultimi alberi prima del nulla. Piùavanti comincia un mondo primor-diale dove anche il vento e la grandinesono in scala, cioè grandiosi come ilGobi.

Come il paesaggio, così è quasi im-mutata la vita del popolo a cavallo.Tuttora abita nella tenda bianca cheterrorizzò la cristianità. I russi la chia-mano yurta, i mongoli gher, “casa”.Circolare, bassa, smontabile inmezz’ora. Struttura modulare in ba-stoni; pareti in strati di lana pressata,il feltro, per trattenere il calore del fo-

colare nei mesi freddi, quando la tem-peratura scende ai meno quaranta.Non è una vita facile, e per gli adulti laradio è l’unico svago. Ma se un bam-bino può scegliere tra la scuola e il ca-vallo, beh, non ha molte esitazioni. Inomadi cavalcano dall’età di sei anni.Usano l’animale soprattutto per pa-scolare greggi, yak e cammelli lanosi,ma è chiaro che cavalcano soprattut-to per passione, con la facilità di bam-bini e adulti che trottano in schierecompatte di quattro o cinque animaliaffiancati.

La loro destrezza confermò nei se-coli l’opinione di tanti viaggiatori, peri quali non v’è cosa che i mongoli nonriescano a fare dalla sella, perfino de-fecare. Tuttora un cavaliere scadenteè così malvisto che due anni fa, quan-do chiesi ad un pastore nomade sefosse mai caduto da cavallo, la mia in-terprete si rifiutò di tradurre: la do-manda è considerata gravemente of-fensiva. Ammettere un capitomboloequivale a confessarsi non solo inetto,ma anche menagramo, perché l’inci-dente conferma che la sfortuna aleg-gia sulla famiglia del disarcionato.Quando gli ho chiesto se questa su-perstizione nasca dal fatto che Gengiskhan morì per i postumi d’una cadutada cavallo, lo storico NamsrainNyam-Osor m’ha corretto vigorosa-mente: l’imperatore non rovinò mai aterra, solo storici incauti credono aquesta diceria. «Benché sessantennenon poteva incappare in un incidente

scò il bestiame e irreggimentò pro-prietari e pastori nei nigdel, sorta dikolkhoz per allevatori. Distrutti i tem-pli buddisti, che nella popolazionenomade avevano il serbatoio delle vo-cazioni, fucilati gli sciamani, banditi imonaci, sembrò sparire anche la ci-viltà del nomadismo mongolo.

Ma sessant’anni più tardi, al crollodel comunismo, si scoprì che i noma-di non erano meno buddisti di prima,e nel frattempo s’erano perfettamenteadattati al collettivismo, ricavandonenon solo i vantaggi (collegi invernaliper i bambini, pensione, un minimod’assistenza medica) ma anche uncerto lucro. Erano così integrati in quelsistema che all’inizio degli anni No-vanta, quando gli ex stalinisti si con-vertirono d’incanto al liberismo, i no-madi si trovarono in difficoltà. Il go-verno rinunciò a riformare i nigdel e liabrogò frettolosamente, ritenendoche il nomadismo assistito non avreb-be mai portato attivi allo Stato. Il be-stiame fu privatizzato. Parte degli alle-vatori vendette la propria quota di be-stiame e si trasferì in città per tentared’arricchirsi. Nella capitale molti di lo-ro oggi ingrossano le fila degli alcolisti.Altri tentano di trovare una via d’ac-cesso onorevole alla modernità.

così disastroso. Era sempre affiancatoda cavalieri pronti a sorreggerlo».

Per molti cavalieri in erba l’inizia-zione avviene con il Nadaam, la Festa,una corsa a cavallo che vede centinaiadi bambini e adolescenti galoppareper due ore e decine di chilometri, al-l’occorrenza pestandosi senza pietàcon il manico d’osso dei frustini. Chiin quei giorni s’avventuri a piedi dalleparti del traguardo, dove il trafficoequestre è più intenso, non solo sisente precario come un pedone in au-tostrada, ma soprattutto capisce il di-sprezzo atavico che il popolo a caval-lo nutre per l’appiedato, in particola-re per il contadino, dunque per il ci-nese. Agli occhi del cavaliere nomadel’unica vita degna è mobile e soprae-levata, un moto perpetuo regolato dalcielo, un flottare nell’aria fina e nelvento; per converso il popolo dei cam-pi, sedentario, infangato e chino sullaterra, rappresenta un’umanità bruta.«Il mondo è fondato sull’agricoltura»,era scritto ancor prima di Cristo in te-sta agli editti dell’imperatore cinese.Quando i mongoli conquistarono laCina settentrionale, discussero a lun-go se lasciare in vita una popolazionecosì sordidamente agricola.

Per quanto in seguito siano stati glistanziali dettare la loro legge, gli alle-vatori nomadi o semi-nomadi, oggimezzo milione, hanno dimostratouna certa capacità di resistere. Pare-vano spacciati già negli anni Trenta,quando il regime filo-sovietico confi-

L’IMPERATORE RIABILITATO

La Mongolia si estende per 1.560.000 chilometri

quadrati su un altopiano dove, d’inverno,

le temperature possono arrivare anche a 50° sotto

zero. Più di un quinto dei due milioni e mezzo

di abitanti è nomade, dedito alla pastorizia, l’unica

vera ricchezza del paese. Nel ‘92, in seguito

al crollo dell’Urss, è diventata una Repubblica

semipresidenziale. E nel ‘97 il governo

ha riabilitato ufficialmente la figura di Gengis khan,

considerato dal precedente regime simbolo del

feudalesimo pre-capitalista e ora onorato come

padre fondatore della patria. Tanto che

nel 2006, per gli 800 anni dalla sua ascesa al

trono, sono previste celebrazioni eccezionali.

Le immagini di queste pagine sono tratte

da un servizio fotografico della storica ed etnologa

francese Sophie Zénon, e sono state esposte

a Parigi nella mostra “Haïkus Mongols”

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 14 AGOSTO 2005

Agli occhidel cavaliere nomadel’unica vita degna

è mobilee sopraelevata,

un moto perpetuoregolato dal cielo,

un flottare nell’ariafina e nel vento

E così ha sviluppatoun disprezzo atavico

per il contadinoappiedato, chino

sui campi

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sime: Loy ci metteva poi i diversi livel-li di lettura a disposizione, per cui ilcornetto nel cappuccino altrui, o me-glio ancora la finta schiava venduta almercato romano, potevano divertireo stupire i più, e poi far versare inchio-stro agli analisti del comportamento.

Il punto è che da allora sono dovutipassare decenni prima di rivedere, danoi, il ritorno della telecamera nonconclamata. Ma era già tardi, c’era latv commerciale in piena espansione, e

insomma eravamo già alla lunga, lun-ghissima fase degenerativa. Con la le-zione dei maestri della tv ultrapopamericana sottomano, s’intende. Conl’esigenza della tv-maiale, nel senso diquella dove non si butta via niente.

È il 1990, a giugno su Canale 5 va inonda in prima serata un curioso espe-rimento che si chiama appunto Pape-rissima: dentro c’è tutto il «non vistoin tv ma successo in tv», errori e stra-falcioni di giornalisti e conduttori, ca-

pitomboli e pernacchie dai quattroangoli del mondo, parolacce sfuggitee “bippate” ma intuibilissime, i vip alnaturale, o meglio come li immagina-te al naturale. Il giorno dopo negli stu-di non credono ai loro occhi, i dati par-lano di nove milioni di telespettatori,un successo torrenziale, direbbero lo-ro, ottenuto a prezzi irrisori, con inve-stimento quasi zero. L’inizio di qual-cosa di meraviglioso.

La tv commerciale — e solo lei — hacostruito da lì, sulle varianti possibilidella telecamera nascosta o comun-que spia, un filone che solo oggi va ca-lando, ma appena appena. Il filone haprodotto la quasi epopea di Scherzi aparte, programma boom fino allo sfi-nimento attuale. Un genere vendutoanche in dvd nei suoi “best of”, un ge-nere che all’inizio sembrò quasi puro,nella deflagrazione. Finché qualcunonon si accorse che gli scherzi più cla-morosi e thriller ai vip avevano perprotagonisti, guarda caso, ottimi atto-ri (memorabile il Leo Gullotta che si ri-trova una tigre vera in garage: ovvioche nessuno sarebbe così pazzo da ri-schiare un simile scherzo per davvero,grande la prova d’attore): finché di-venta ovvio e naturale il taroccamen-to dell’ottanta per cento almeno deglischerzi andati in onda. E il venti percento restante è quasi sempre quellomeno divertente.

Il meglio, il vero — come in ogni tvche si rispetti — non è mai andato inonda. Luca Barbareschi si ritrovòchiuso in ascensore con stranissimicompagni di viaggio, capì la situazio-ne, gli girarono i santissimi e iniziò ademolire a mai nude tutto quanto allaricerca della telecamera nascosta, chesaltò fuori: mai visto in tv, mai auto-rizzato. E quel direttore di giornale in-vitato a partecipare a un finto talk-show che si ritrovò molestato quasisessualmente in trasmissione da unafinta ospite? Abbozzò, poi reagì e feceper andarsene. Sbucò la responsabiledel programma e gli disse: «Su, firmia-mo la liberatoria, oggi la firmano tuttie poi sono un sacco di soldi». Quelloche lui le rispose è abbastanza noto,ma non si può proprio scrivere. Del-l’episodio, va da sé, non si è mai vistonulla.

Per i rami, la telecamera nascosta èandata ovunque, cercando semprepiù una parvenza di verità. Con la tec-nologia che ha ridotto al minimo le di-

Il programma più visto dell’esta-te tv si chiama Paperissima e siarticola in due momenti ben di-stinti. Nel primo si vede, peresempio, un filmato in cui unbimbo con un trattore giocatto-

lo finisce contro un albero, nel secon-do un uomo con un trattore vero fini-sce contro un albero. Il telespettatoreride in entrambi i casi (i bambini, so-prattutto) ma solo in uno dei due la te-lecamera al momento dell’impatto haun sobbalzo, l’immagine svaria da de-stra a sinistra, l’operatore insomma èsorpreso, e magari — si spera — ancheun po’ preoccupato. In questo caso larealtà è davvero tale, ed è approdataper percorsi ormai noti, in tv. Nel se-condo caso, la telecamera resta saldis-sima e quindi è tutto costruito, l’ope-ratore sa quello che sta per accadere(in un solo caso non è così, ovveroquando l’operatore è felice, per moti-vi suoi, dello schianto del conoscente,ma in quel caso la telecamera si spo-sterebbe comunque per via del sus-sulto di gioia). Quest’ultima è candidcamera, artefatta, ormai dilagante (ifilmati di Paperissima con telecameraferma sono la stragrande maggioran-za). Il mercato della tv mondiale, chechiede a gran voce filmati del genere,ha imposto le sue regole.

In un recente filmato, a milioni si so-no divertiti a vedere due bimbi cheprendevano a litigare, prima si tirava-no i capelli, poi hanno iniziato a graf-fiarsi in faccia, poi a spintonarsi con-tro i mobili della stanza, poi a tirarsioggetti pesanti: la telecamera era sal-dissima, dietro alla medesima o c’eraun babbo-manager che aveva allesti-to il tutto, oppure lo stesso babbo sta-va pensando che, se usciva anche ilsangue, stavolta i cento dollari in palioper il migliore filmato non glieli avreb-be tolti nessuno.

Che ne avrebbe pensato il buonNanni Loy? Chi lo sa. O meglio, si puòimmaginarlo, a patto di non ritenere isuoi Specchio Segreto e Viaggio in se-conda classe come esperimenti naif ditelecamera nascosta e poi succedaquello che deve succedere. Ovvia-mente c’era una scrittura precedente,c’era un’intenzione alla base, c’erauna costruzione successiva. C’era latv, insomma, con il suo strapotere e lesue esigenze già ben delineate e fortis-

Quando la tv-spiaraccontava l’Italia

38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 14 AGOSTO 2005

Dieci anni fa moriva Nanni Loy. Il suo “Specchio segreto” fecedebuttare da noi un genere che, con “Scherzi a parte”, “Striscia”,“le Iene”, ha sbancato gli ascolti e che anche quest’estate,

con “Paperissima”, è in testa alle classifiche. Ma il passaggiodal bianco e nero al colore, dall’emittenza pubblica a quella commercialeha cambiato il cuore della televisione-verità. E ora il futuro è delle webcam

Il cornetto intintonel cappuccino altrui,

la schiava messain vendita tra i banchidi un mercato romano

POSSO FARE ZUPPETTA?In un bar, Loy puccia il cornetto

nelle tazze altrui. E spiega:

“Il medico mi ha proibito

il cappuccino, così lo freghiamo”

CONFESSIONI IN TRENOCon “Viaggio in seconda

classe” (’77) la candid camera

finisce in treno: Loy raccoglie

le confidenze dell’Italia pendolare

LAVORARE STANCALoy chiede soldi agli operai

della Breda di Sesto: “Sono

stufo di lavorare”. Scoppiano

disordini: viene anche arrestato

LE GAG

Candid

ANTONIO DIPOLLINA

Camera

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mensioni, la microcamera addosso ainviati spregiudicati ha fatto la fortu-na di programmi come Striscia la No-tizia e le Iene, ha smascherato centi-naia di ciarlatani e truffatori da poco,si è sempre astenuta dai grandi scan-dali, per ovvi motivi (e comunque og-gi il telefono basta e avanza). Ma sem-pre al servizio delle esigenze tv, quelleche non rendono poi molto dissimilelo scherzo al vip dal serio inviato deltelegiornale che raduna prima la folladi una manifestazione e poi fa accen-dere la telecamera per far sembrareche siano tanti.

È chiaro che definire tutto questo“candid camera” richiamandosi allospirito delle origini non ha molto sen-so. È altro, è televisione. Il genere èstanco e il percorso complicatissimo.Oggi, le vere “candid” sono le webcamnascoste, e non per nulla sta arrivan-do una legislazione ferrea al proposi-to in difesa della privacy. Vale quelloche si dice dei rapporti tra le persone:se tutti un giorno si mettessero a rac-contarsi l’un l’altro la verità, il mondofinirebbe dopo poche ore. Se una vera

telecamera autenticamente nascostaci mostrasse al naturale all’esterno,idem.

Oggi la “Real-tv”, sui nostri canali, èun programma di Italia 1 che mostraeventi drammatici, sciagure, catastrofinaturali, sparatorie tra banditi e poli-zia. Effettacci, insomma. I reality-showsono quanto di più costruito e artefattopossibile, di “candid” non c’è più nulla.Si parla di una nuova edizione di Scher-zi a parte in allestimento, ma è come unsegreto di stato: già ormai se ne accor-gono tutti se vengono presi di mira, fi-guriamoci se si spargesse la notizia chequelli di Mediaset ci stanno lavorandosopra. A Striscia e alle Iene provano inuovi modelli di microcamera, e viacontro nuovi truffatori.

Ogni tanto si prende un aereo delle li-nee straniere, e sui monitor partonodelle “candid” con colori anni Settanta,ma girate di recente. Sono ingenue, al-cune deliziose, con gente comune, cer-cano il surreale. Un altro mondo, ciprovano ancora, si divertono con poco,direbbe qualcuno. Da noi è diverso, danoi ha vinto la televisione.

All’estero continuanoa fare piccoli sketchingenui e surreali,dove la gente comuneè ancora protagonista

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 14 AGOSTO 2005

CANDID CAMERA SHOWGerry Scotti negli anni ’80,

ripropone, aggiornandola,

la formula di “Specchio Segreto”.

Fra gli autori anche Nanni Loy

LIBERONel 2000 Teo Mammucari

applica i principi della candid

camera agli scherzi telefonici.

Grande successo di pubblico

SCHERZI A PARTEIdeata da Fatma Ruffini nel ’92,

sceglie le vittime delle sue

telecamere nascoste

fra i personaggi della televisione

GLI EREDI

“Tagliente ma affettuosocosì ha svelato i nostri tic”

Nanni Loy nel ricordo di Ugo Gregoretti

PAOLO D’AGOSTINI

Due signori. Tutt’e due comunisti “aristocratici” (ilpersonaggio che rievochiamo lo era di nascita e il no-stro intervistato prima di accettare la tessera del Pci

si chiese candidamente: «Come posso io che possiedo 200cravatte?», sentendosi rispondere che poteva dal momen-to che il poeta Aragon ne possedeva il doppio). E grandi in-novatori televisivi. Tre cose in comune tra Nanni Loy e UgoGregoretti. Un’altra è Fregene, cara ai cinematografari, do-ve il 21 agosto di dieci anni fa Loy fu colto da infarto e Gre-goretti, con la compagna di Nanni Elvira, fu il primo a ten-tare invano di soccorrerlo. Ugo Gregoretti (classe 1930, cin-que anni meno di Loy) ricorda l’amico cominciando dall’e-pisodio che ne fece un personaggio popolarissimo. E sve-lando un altro punto di contatto.

«L’ho conosciuto dopo aver fatto il mio primo film nel ‘61,I nuovi angeli. Venni “scoperto” in virtù di una rubrica chetenevo in tv, Controfagotto. Sull’onda del suo successo e del-la novità che rappresentava il produttore Alfredo Bini mipropose di fare un film. Mi trovai così promosso regista dicinema, e conobbi Nanni. Di lì a poco Angelo Guglielmi re-duce da Londra con sotto il braccio il “format” — si direbbeoggi — della candid camera propose a me Specchio segreto.Risposi che sarei stato troppo riconoscibile per via di Con-trofagotto, mentre la formula si fondava proprio sulla irri-conoscibilità del “provocatore”. Venne allora in mente a en-trambi Nanni, che accettò circondandosi di collaboratori ditalento come Giorgio Arlorio e Fernando Morandi».

Ha rivelato un retroscena...

«Non l’ho mai raccontato. Evidentemente però l’affinitàelettiva tra noi due è rimasta tanto legata a quel fatto che an-cora oggi, con mia frustrazione, c’è chi incontrandomi midice: lei ha fatto tante belle cose ma nessuna ha eguagliatoquel cornetto intinto nel cappuccino degli altri. E, non vor-rei apparire irriverente, quando Nanni morì e fu allestita lacamera ardente in Campidoglio, mentre scendevo la scali-nata incrociai una donnetta che mi disse a bruciapelo: macome, lei non era morto?».

Avete entrambi riversato nella televisione lo spirito, la

sensibilità della commedia cinematografica italiana.

«Lui certamente, veniva da quel cinema. Io ero un redat-tore, anzi un praticante del telegiornale che sognava di di-ventare regista di cinema e aveva un occhio di riguardo perla commedia all’italiana. Il mio Controfagotto contenevamateriali equivalenti. E perfino quando ho girato Apollonsull’occupazione di una tipografia gli operai romani che re-citavano se stessi erano di scuola sordiana. In Nanni c’era-no già molte esperienze, in me la contaminazione da gior-nalistino televisivo che applicava i moduli della commediaai suoi “pezzi”. Impostavo le interviste come se fossero sket-

ch, parenti poveri di un film».Il modello di Specchio segreto e la succes-

siva evoluzione (o involuzione?) della for-

mula candid camera nella tv italiana.

«Specchio segreto si avvalse subito di unacomponente non so se già presente nella spe-rimentazione anglosassone anteriore: autorie sceneggiatori che venivano dal cinema,Nanni per primo. E di una comicità, di unumorismo che andavano oltre l’invenzione digag e rimandavano a uno spaccato antropolo-gico e sociale. Uno spessore mai visto prima,né tantomeno dopo. Pensi ai livelli di stupiditàdi oggi e agli abissi di faciloneria provocatoriama stolta, vacua. La forza e la classe di Nannierano nel non essere mai offensivo pur essen-do così pungente. Un meccanico autoconte-

nimento faceva sì che quando si avvicinava troppo al confi-ne della presa per il culo scattassero la pietas, la simpatia,l’indulgenza affettuosa verso il malcapitato. Tra i molti pri-mati di Specchio segreto — oltre a quello cronologico e aquello qualitativo nel far tesoro sia del cinema civile e di de-nuncia che della commedia all’italiana, nel farsi ritratto diun paese con le sue contraddizioni e tic e con la sua straor-dinaria varietà umana — ce n’è anche un altro. Si scoprì lì lafamosa “liberatoria”: cioè, dopo aver “incastrato” le perso-ne a loro insaputa, bisognava ottenere il permesso per an-dare in onda. E il bello è che i rifiuti furono pochissimi, lastragrande maggioranza si fidava e firmava al volo».

Va di moda rimpiangere la Rai di Bernabei. Ma è vero che

quella tv così governativa, prudente, bacchettona, con-

sentiva spazi anticonformisti come Specchio segreto.

«Più che “di Bernabei” parlerei di Rai monopolio. Senti-vamo la responsabilità del nostro ruolo. Sia pure sotto il tal-lone di ferro della censura democristiana eravamo severa-mente invitati a fare le cose bene e a scoprire dove stesse dicasa l’araba fenice dello specifico televisivo. Contribuironopochi registi cinematografici che, come Mario Soldati, por-tarono la spregiudicatezza del cinema nell’inchiesta televi-siva. Miei maestri sono stati i tecnici, sia i vecchi tecnici del-la radio che i nuovi che dal cinema erano passati alla tv op-tando per il posto fisso, e poi quel grande radiocronista cheera Vittorio Veltroni: l’abilità era quella di costruire delle im-magini sonore, ciò che ignorava la tradizione del docu-mentario cinematografico italiano che disprezzava la tv. In-ventammo le inchieste televisive aggiungendo con le vocilo spessore mancante al documentarismo “artistico”. Lecose erano insomma più belle perché ogni dettaglio era te-so a una qualità anche estetica. Con la fine del monopolioquesto è finito. E dico che ha contribuito a renderci più per-spicaci proprio la censura. Una ginnastica, una palestra.Studiare come assestare il cazzotto passando attraverso lesue maglie. Uno strumento pedagogico».

Ragionamento un po’ insidioso, non le pare?

«Io rimpiango la disciplina. So che oggi vediamo solo im-bruttimento mentre allora c’era un’estetica. E la censura èstata come un’istitutrice, formativa. Nelle mani di chi ha ilpotere di scegliere, oggi del tutto incapace, potrebbe esserestrumento di rieducazione: una bella censura a Maria De Fi-lippi non sarebbe cosa sana?».

FRA CINEMA E TVNella foto,

Ugo Gregoretti

‘‘

‘‘La maggiore crudeltàdel nostro lavoro stanel creare illusioni peri poveretti che ci credono, enel distruggerlepoi brutalmentecon la rivelazioneche era tutta una finta

La gente ha tutto il dirittodi andare in Tv. Anzi,secondo me ci va troppopoco. Vedo ancora moltisalotti pieni di politici,giornalisti, intellettuali,artisti [...]. E gli altri?Dove sono gli altri?

Con “Specchio segreto”abbiamo inventatol’assurdo letterarioe poi ne abbiamoprovocato l’irruzionenel quotidianopiù banale della gentepiù normale

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i saporiRiti di Ferragosto

Nei mesi estivi si celebra l’apoteosi della brace, tecnica globaleche unisce tutte le culture del mondo ma soprattutto occasioneper trascorrere una giornata con le persone care all’insegnadell’aria buona e del cibo di qualità. Per quattro milioni di italianiè un appuntamento settimanale. Ecco i segreti per prepararegrigliate prelibate senza compromettere la linea

40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 14 AGOSTO 2005

BraciolaI maiali di oggi fanno

concorrenza ai bovini per

magrezza: un bel guaio

sulla brace, che asciuga i

succhi. Meglio marinare

la carne poche ore prima

L’appuntamento

Festa di Ferragosto

a Fenestrelle (Torino)

Costina di maialeGioiello da barbecue,

“finger food” d’obbligo.

Il misto di grasso-magro

attaccato alla costola si

sgranocchia con la carne

superbollente

L’appuntamento

Maialata a Montefiore

dell’Aso (Ascoli Piceno)

Costoletta d’agnelloVa servita croccante fuori

e rosa all’interno, perché

non diventi stopposa. La

marinatura pre-cottura dà

profumo e morbidezza

L’appuntamento

Sagra della bistecca di

castrato, Monte Rinaldo

(Fermo)

PancettaColesterolo allo stato

puro, ma anche una

bontà untuosa e

irresistibile. Invece

di salarla, a fine cottura

basta un giro di pepe

L’appuntamento

Festa del Bue a Cento

(Ferrara)

Petto di tacchinoCarne da convalescenti:

magra, poco gustosa,

digeribilissima. Ottima

negli spiedini insieme a

bocconcini di carne e

verdure robuste

L’appuntamento

Fuga del bove,

Montefalco (Perugia)

SalaminoSi compra da un macellaio

complice, prenotando

per tempo. Se è buono,

ma buono davvero,

vale la grigliata

da solo

L’appuntamento

Ferragosto

a Langosco (Pavia)

BisteccaClassico intramontabile,

varia per taglio, frollatura

e razza bovina. In attesa

del ritorno della bistecca

con l’osso, ci si consola

con controfiletti e costate

L’appuntamento

Sagra della bistecca

a Cortona (Arezzo)

La griglia è pronta, la brace ardente, salsicce e bistecche fanno bella mo-stra di sé sul vassoio. Moltiplicate la cartolina per venti milioni di vol-te e avrete un’idea di quanti barbecue saranno organizzati nelle pros-sime settimane tra le Dolomiti e Lampedusa, a cominciare da doma-ni, vero griglia-day per vacanzieri e forzati della città.Ci portiamo ap-presso il rito della grigliata all’aria aperta come un passaporto d’alle-

gria a poco prezzo: forse proprio per questo l’appuntamento con carbonella espiedini a un certo punto è diventato una pratica inutile e vecchia, archiviata co-me un cappello demodé.

A rivitalizzarlo, l’ondata migratoria degli ultimi anni,insieme al superamento dell’emergenza mucca pazza(che in Italia ha causato un morto, chissà se si può dire al-trettanto di pesticidi e additivi cancerogeni ancora utilizza-ti ovunque). Perché la carne alla brace è il cibo globa-le per eccellenza, indifferente a frontiere e razze,confessioni religiose e conto in banca. Bastache si sparga nell’aria un certo profumo esiamo tutti lì, davanti alla griglia, dal presi-dente degli Stati Uniti (avete presente le im-magini dei weekend nel ranch presidenzia-le?) al campesino messicano, uniti nel sacro nomedello spiedino arrostito.

Non che tutti i barbecue siano uguali. Al contrario, basta passeggiare ladomenica nei parchi delle grandi città per scoprire come l’occasione delpranzo collettivo si trasformi in una mirabile esibizione, con rituali orga-nizzati fin nei minimi dettagli. I coreani, per esempio, collocano il bra-ciere a centro tavola e intingono i tocchetti di carne mista, una volta cotti,nelle ciotole con salse (quasi tutte piccanti), come i francesi con la “fonduebourguignonne”.

I venezuelani, invece, allestiscono delle supergriglie, accudite dagli uomini,mentre le donne preparano le carni, e i bambini, dispiegati i plaid sull’erba, allinea-no piatti e tovaglioli usa-e-getta. Il tutto, sulle note ardenti della musica salsa, men-tre i cinesi arrivano con i bocconcini di pollo e zenzero già perfettamente infilzati ne-gli spiedini, in modo da ridurre al minimo il lavoro sul campo.

Noi preferiamo la campagna, la spiaggia, il giardino degli amici, il prato di fiancoal terreno di gioco dopo una furibonda partita di calcetto. Secondo la ricerca realiz-zata nelle scorse settimane da Demoskopea per Montorsi (carni&salumi), oltre quat-tro milioni di famiglie organizzano il barbecue con frequenza settimanale, attri-buendogli virtù non così scontate: appuntamento altamente “socializzante” conamici e parenti, occasione di coinvolgimento dei figli, alternativa alla routine dellacucina quotidiana, escamotage per praticare la dieta senza avvilimenti.

Anche la scelta delle carni è direttamente proporzionale alla riscoperta del fascinodella griglia: in caduta le preferenze per le tipologie “light” (pollo, tacchino e coni-glio), al primo posto assoluto troneggia Re Maiale, con il manzo a seguire. Niente at-trae quanto salsiccia e costine, anche se bistecca e spiedini hanno sempre i loro fansaffezionati. Ben distaccate – questione di gola e di tradizione – le non-carni: il pescepiace, ma necessita di una griglia monodedicata per evitare sgradevoli commistionidi odori, il formaggio è goloso, ma basta distrarsi un attimo per ritrovarsi con un blobgiallastro spalmato su griglia e carbonella. Quanto alle verdure, non c’è barbecuesenza radicchio carbonizzato, mentre le patate sopravvivono solo se accartocciatenell’alluminio e dimenticate nella brace spenta (salvo ricordarsene a fine pasto).

Il resto, tutto quanto avreste voluto sapere sulla griglia e non avete mai osato chie-dere – siamo tutti fuochisti provetti e come cuociamo noi le bistecche nessuno! – lotrovate su www.carnealfuoco.it. Compresi gli ultimi ritrovati hi-tech per arrostire co-stine&salsicce senza incenerirvi i polpastrelli.

Il gusto della carnealla prova del fuoco

LICIA GRANELLO

Barbecue

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 14 AGOSTO 2005

Spiedini di polloDanno il meglio insieme a

verdure saporite. Sullo

stecchino si alternano

carne, cipolla e peperoni

con pomodori ciliegino

L’appuntamento

Festa del contado

a Sassocorvaro

(Pesaro Urbino)

WurstelGregario di successo,

è molto utilizzato

negli spiedini misti

per dare gusto

alle carni bianche

L’appuntamento

Barbecue alle case

di Sant’Andrea

di Buccheri (Siracusa)

SalsicciaLa più amata dagli italiani.

Può essere di carni miste

o di un solo tipo. I dannati

della dieta la

bucherellano per far

uscire il grasso in cottura

L’appuntamento

Sagra del cinghiale

Cicerale (Salerno)

MASSIMO MONTANARI

Barbecue è uscire fuori, per una scampagnatanei boschi o lungo il fiume, una scappata alparco di città, una più semplice discesa nel

giardino o nel cortile sottocasa. Volendo, anche ilterrazzo può andar bene: l’importante è uscire. Èquesta la vera ragion d’essere del rito — perché diun rito si tratta, né più né meno. L’invitante profu-mo delle carni non è solo celebrazione del gusto, eil sapore forte della brace non è solo una ghiotto-neria per adepti. C’è qualcosa di più, qualcosa chesi sarebbe tentati di chiamare il “richiamo della fo-resta”.

Non per nulla, col barbecue, la preparazione delcibo tende a cambiare sesso. Se la nostra storiaalimentare ha posto la donna a protagonistadella cucina domestica, la grigliata e lo spiedosono per definizione un affare di maschi. Sì, cer-

tamente, era lei a cuocere il galletto comesolo lei sapeva fare, e le melan-

zane e i pomodori non sibruciavano mai, erano per-

fetti. Ma dietro di lei c’era im-mancabilmente lui; prima di lei,

lui aveva fatto il fuoco, e non si stanca-va di dare consigli non richiesti. E intanti altri casi era lui e solo lui il si-gnore del gioco, il domatore del fuo-

co, il conoscitore esperto (o sedicente tale) del “mo-mento giusto”. Questa inversione di ruoli è il segnodistintivo della grigliata. La griglia sostituisce il fuo-ri al dentro, lo spazio aperto alla casa. Sostituiscel’uomo cacciatore alla donna che addomestica il ci-bo e lo prepara in cucina. Riporta il gesto “cultura-le” della cucina a una “natura”, vera o presunta, chenon conosceva complicazioni di tecniche e stru-menti; che non conosceva, in senso proprio, l’artedi cucinare, ma si accontentava di cuocere il cibo.

Senza pentole, senza padelle, senza acqua, sen-za olio, con il solo ausilio del fuoco e di un pezzo diferro su cui posare la carne cruda, il gesto della cot-tura riacquista il senso primordiale che dovetteavere non appena Prometeo regalò il fuoco agli uo-mini. Ogni cultura umana di tanto in tanto ha no-stalgia di questo passato, più mitico che reale; ognicultura desidera completarsi con la natura da cuipresume di essersi staccata.

Ma anche questa “natura” è una costruzioneculturale. Gestire il fuoco, la fiamma, il calorenon è possibile senza un apprendimento pazien-te, senza un sapere pratico che si impara e si in-segna. L’uomo della foresta, che caccia e cuoce lasua preda, non è esattamente l’uomo “selvatico”descritto nei testi antichi e medievali, riprodottoin affreschi e in stampe popolari, protagonista dileggende ancora vive nelle nostre montagne.Leggende che, peraltro, svelano tutta l’ambi-guità dell’immagine nel momento in cui attri-buiscono proprio all’uomo “selvatico” l’inven-zione della “civiltà”: è lui, in tanti racconti, a in-segnare agli uomini le pratiche della coltivazio-ne e della pastorizia, il segreto della ceramica,l’arte della cucina.

È questo mito che, più o meno consapevol-mente, rivive nel rito del barbecue. Preparareil cibo fuori casa, in maniera semplice, senzaingombri, senza il peso della “civiltà”. E se, co-me dicono, la civiltà l’hanno fatta le donne,per questa volta cercheremo di farne a meno.

(L’autore è docente di storia medioevaleall’Università di Bologna)

Il consumo pro capite annuo

di carne bovina

25,1 Kg

Il consumo pro capite annuo

di carni avicole

17,3 Kg

Le famiglie che praticano

il barbecue settimanalmente

4 milioni

Il consumo pro capite annuo

di carne suina

39,2 Kg

‘‘Woody Allen

Cloquet odiava la realtà, ma si rendevaconto che era pur sempre l’unico posto

dove trovare una buona bisteccaDa EFFETTI COLLATERALI

casa editrice Bompiani

Quando la cucinaè un affare da uomini

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 14 AGOSTO 2005

LAMBRETTA

L’anti-Vespa

nasce nel ’47

nelle fabbriche

Innocenti. Si

ispirava ai mezzi

in dotazione

dei parà francesi

SPAZIO

Nella seconda

metà degli anni

’80, la Honda

introduce Spazio:

È il primo

maxiscooter

e inaugura un’era

Prezzo

di listino:

3.990

euro

STILE AMERICANO

A quattro anni dal lancio, la serie Beverly della Piaggio

si arricchisce della versione 250, con un nuovo motore

da 244 cc monocilindrico da 22 Cv. Dall’inizio dell’anno

in dotazione alla polizia di New York. Pesa 149 Kg

Il viaggio più lungo che mi sia capitato di fare in Vespa l’ho fat-to da fermo. Per più di duecento giorni, per l’esattezza sere,ho cavalcato una splendida Vespa del ‘53, quella col faro sul

parafango, attraverso alcuni dei teatri più importanti d’Italia.Vacanze Romane e la sua leggendaria Vespa non potevano es-sere mezzo migliore per coinvolgere migliaia di spettatori in unviaggio sulle ali della memoria di un’epoca, di un paese e di unasocietà tutte proiettate a pensare di costruire un mondo mi-gliore. In fondo l’idea che un giornalista squattrinato potesseportare in Vespa una vera principessa, per l’epoca, ha fatto so-gnare molti. Immaginatevi che ogni sera l’apparizione dellasuddetta, tirata su in scena da un piccolo montacarichi ed ac-compagnata da piccoli sbuffi di vapore magici, scatenava l’ap-

plauso spontaneo di folle sorridenti ed ipnotiz-zate nello stesso tempo. Una moderna WandaOsiris che i suoi ammiratori omaggiavano conil rispetto e la devozione dovuti. Una sera dopol’ennesima replica, mi trovavo a cena con ungrande commediografo e regista italiano Pep-pino Patroni Griffi che entusiasta dello spetta-colo mi confessò con un po’ d’imbarazzo di es-sersi commosso alla vista della Vespa che gli ri-cordava... quello che gli ricordava! Nessuno dinoi ebbe nulla da eccepire quando vedemmosulla locandina scritto: con la partecipazionestraordinaria della Vespa.

Di veri viaggi con la Vespa, però, ne ho fattitanti. La prima che mi venne regalata è stata una125 Primavera all’età di 16 anni, i miei non vol-lero prima. Segretamente ne avevo guidatemolte dei miei amici che mi facevano la grazia

di prestarmele. La mia “primavera ” durò esattamente un annoe un mese. Era un pezzo molto richiesto nel mercato dei furti.Vennero a “prendersela” nel cortile del mio liceo a Monteverde.Con dolore continuai a vivere dell’elemosina di amici che miprestavano i loro vespini dismessi. Cominciò un’epoca di moto,velocità ed incoscienza. Anche le auto ebbero la loro parte, annidi lontananza, di distacco, quasi di rifiuto. Poi un giorno eccoriaccendersi la fiamma della passione. La televisione mi offrì lapossibilità di girare un documentario sulla mia città, Roma,usando la Vespa originale di Vacanze Romane, quella di GregoryPeck. Un colpo di fulmine. Girammo le ultime scene arrivandofino ad Ostia, come nei vecchi film della grande commedia all’i-taliana. Da quel momento non ci siamo più lasciati, con grandegioia di mia moglie Paola che non ha mai avuto grande passioneper le mie corse in moto. Sarà un caso ma al mio ultimo com-pleanno mio fratello mi ha regalato una vecchia 125 primavera,tutta rimessa a nuovo. Quando l’ho vista ho avuto un tuffo al cuo-re. L’ho messa in moto e sono andato a farmi un giro, ad un se-maforo un tipo con un motorino mi ha affiancato, ha guardatola Vespa con attenzione e poi mi ha detto «125 primavera, 4 mar-ce, marmitta del novantino... è sempre ‘a più bella». Mi sono sen-tito orgoglioso come un bambino sulla sua prima bicicletta.Questa, però la tengo in garage, perché mi piacerebbe molto la-sciare ai miei figli, in tempi difficili come questi, la possibilità digoderci insieme un piccolo angolo di “primavera”.

Quei viaggi veri e immaginariin sella alla mia “Primavera”

MASSIMO GHINI

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VESPA

Nasce nel’46

nei laboratori

Piaggio. Nove anni

dopo, nel ‘55,

arriva il “Vespone”,

simbolo dell’Italia

del boom

PIETRE MILIARI

Prezzo

di listino:

3.800

euro

VITA METROPOLITANA

Password, lo scooter a ruote alte della bolognese Malaguti,

è stato pensato come “chiave d’accesso”

veloce e pratica per la città. Motore Yamaha da 250 cc

e 20,8 Cv di potenza. Pesa 156 kg

IL PERSONAGGIOL’attore Massimo Ghini

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l’incontroDive sempreverdi

LAURA LAURENZI

ROMA

Bella è ancora bella, com-patta e sottile, le braccianude e perfettamente deli-neate, senza un cedimen-

to. Mi aspetta in giardino, tutta vestita dibianco. Da lontano, mentre chiama a séi cani, sembra quella di un tempo. Gera-ni, oleandri, sfondo bucolico, un prato-ne rustico per niente all’inglese, ombra.Siamo nel casale sulla via Flaminia, alleporte di Roma, dove vive sua madre. Ec-cola la Cardinale, monumento alla bel-lezza sensuale e mediterranea. Una chese ne infischia del passare del tempo enon sembra per niente angosciata. In-dossa una gonna folk, svolazzante, daragazza, espadrillas in tinta, collana et-nica e un top leggerissimo con bretelli-ne filiformi a incorniciare la scollaturasoda. Ci sediamo in salotto, davanti algrande camino di pietra. «Sì lo so, mimantengo in forma. Eppure fumo tanto:almeno un pacchetto e mezzo al giorno.Mi curo la pelle, uso buone creme, manon ho mai messo piede in un istituto dibellezza. Faccio moto, da ragazza eroun’atleta, campionessa di pallavolo e dibasket, cammino moltissimo. Un altrosegreto forse è che mangio poco. Io nonmangio: assaggio. Una forchettata diquesto, un pezzettino di quello. Basta.Detesto alzarmi da tavola con quel sen-so sgradevole di sazietà». Autodiscipli-na. Questa deve essere, da sempre, lasua parola d’ordine.

Le rughe — poche, gentili — ci sono,ma hanno una loro morbidezza, forseperché non vengono tenute nascoste.«Non vorrei mai cancellare i segni dal mioviso, non vorrei mai dare un colpo di spu-gna. Mai, mai farei un lifting. Sono con-traria per principio, e avrei troppa paura.E se non vieni come speravi? E se ti guar-di allo specchio e non sai chi sei? E poi hovisto troppi danni, troppi errori. Magari titoccano un nervo per sbaglio e rimani

con la bocca storta, oppure con un oc-chio più chiuso e uno più aperto...».

La più bella invenzione italiana dopogli spaghetti, la definì David Niven. Labellezza, ripete lei, è un dono avvelena-to. A 66 anni Claudia Cardinale conti-nua a ricevere lettere di ammiratori. «Miscrivono in tanti. Anche molte donne, ingenere mi chiedono consigli. Io rispon-do sempre personalmente. Quelli chemettono anche il numero di telefono lirichiamo. A momenti svengono, pensa-no che sia uno scherzo».

Ma uno scherzo non è. È inconfondi-bile la voce di Claudia Cardinale, anchese con gli anni è diventata meno roca,meno sorprendente. Fu Fellini a sdoga-narla, fu lui il primo e il più grande ad ap-prezzare quel soffio denso, a imporreche la Cardinale non venisse doppiata.Nello stesso anno, era il 1962, addirittu-ra negli stessi mesi, l’attrice girava forsei suoi due film più noti: 8 e ½ e Il Gatto-pardo, e i due registi erano come il gior-no e la notte, uno geloso dell’altro. Uno,Fellini, lavorava nel caos più assoluto evoleva che lei improvvisasse e basta, e lavoleva bionda; l’altro, Visconti, mania-co del particolare, studiava ogni ciak neiminimi dettagli con perfezionismo ac-canito, e la voleva bruna. «Ogni quindi-ci giorni mi dovevo ritingere i capelli».Le ripeteva Visconti: «Ricordati, devi se-parare la bocca dagli occhi. Gli occhi de-vono dire esattamente l’opposto diquello che stai dicendo con le parole».Forse in questa ambiguità risiede il se-greto del suo sex-appeal.

«Visconti mi ha insegnato moltissimecose. Mi diceva: Claudia, quando arrivida qualche parte non arrivare a piccolipassi, devi prendere possesso del terre-no come fossi una pantera. Tutti pensa-no di te che sei una gattina da accarez-zare. Invece sei una pantera, una tigre,una che, se vuole, divora il domatore».

Luchino e Federico: erano entrambiincantati dalla sua bellezza, comeun’intera generazione e non soltanto diitaliani. In quel mitico 1962 Moravia ri-mase talmente folgorato dalla sua sen-sualità ipnotica che scrisse su di lei, an-zi, con lei, un libro-intervista, dal titoloLa dea dell’amore. «Parlava del mio cor-po come di un oggetto sospeso nellospazio. I nostri incontri avvenivano nel-la sua casa di piazza del Popolo. ElsaMorante se ne stava nella stanza accan-to. No, non era gelosa. Stavamo sedutiuno di fronte all’altra. Lui batteva diret-tamente a macchina le risposte che glidavo. Però era molto nervoso, forse eraemozionato, le mani gli tremavano, e lamacchina da scrivere spesso gli cadevaper terra. Stavamo per lunghissimotempo zitti. Lui non diceva niente e ionon dicevo niente».

Una bellezza che metteva agitazione,la sua. Toglieva la parola. «E pensare cheio ero complessata, all’inizio della miacarriera. Non mi sono mai trovata bella.Ero una vera selvaggia, non parlavo connessuno. Il mio segreto evidentementeè che io captavo la luce, e forse ancora la

i miei personaggi, una differenza fra vi-ta privata e lavoro. Per questo la gentemi rispetta: per la mia normalità, perchénon mi sono mai montata la testa».

Una cesura netta dunque fra la don-na e l’attrice: «Quando mi rivedo al ci-nema, sul grande schermo, mi dico: manon sono io! È un’altra. È l’altra! È Clau-dia! Mentre io sono Claude, il mio veronome, pronunciato alla francese». Il ve-ro motivo per cui cominciò a fare del ci-nema, racconta, fu per dare un taglionetto al passato e troncare con la Tuni-sia. Vittima di una violenza carnale,aspettava un bambino, quel Patrick chenacque quando lei aveva appena 18 an-ni e che il suo compagno-pigmalione, ilproduttore Franco Cristaldi, le imposedi fare passare per fratellino minore,«perché le dive non hanno figli illegitti-mi». Fu costretta a mentire fin troppo alungo, e la cosa ancora la devasta. «Pre-si la strada del cinema perché mi con-sentiva di essere indipendente. Ho la-vorato anche incinta, non si vedevaquasi. Quattro diversi film, fino all’otta-vo mese di gravidanza». Ha mai più avu-to contatti con il padre del bambino?Lungo silenzio. «Non ho più voluto sa-pere niente di lui. Certo quando sono di-ventata famosa lui è venuto a cercarmi,è tornato a farsi vivo. Ma io gli ho sbat-tuto la porta in faccia. Non parlo volen-tieri di questa vicenda, che mi ha segna-to nel profondo e ha fatto molto soffriremio figlio».

Una vita che sembra un romanzo, lasua: essere eletta per caso la più bella ita-liana di Tunisi, «avere il cuore in Africa ela testa in Europa», venire catapultata inviaggio premio al Festival del Cinema diVenezia, esordire con i registi più gran-di, tenere nascosta una gravidanza pervolere insindacabile di uno dei più im-portanti produttori europei, mietere unsuccesso dopo l’altro, il tutto sotto il pe-so di un contratto capestro e di uno sti-pendio minimo. «Mi sentivo un’impie-gata, guadagnavo pochissimo, è anchevero che me ne sono sempre infischiatadei soldi». Possibile che nessuno abbiamai pensato a trasformare la sua vita —soprattutto gli anni tempestosi dell’a-dolescenza e della giovinezza — in unfilm? «Ci sta lavorando un grande regi-sta. Un regista italiano molto famoso. Ègià pronta la storia».

Intanto è stata lei a scrivere un libro sudi sé. Per narrare non tanto le sue memo-rie quanto i suoi incontri. È uscito qual-che mese fa per ora solo in Francia e si in-titola Mes étoiles, le mie stelle, da MarlonBrando in su, o «in giù», come dice lei. Echissà a quale latitudine della sua classi-fica planetaria lei colloca per esempio re-gisti come Monicelli, Comencini, Germi,Sergio Leone, o colleghi come HenryFonda e Sean Connery, Mastroianni eTrintignant, Burt Lancaster e Rock Hud-son, John Wayne, Steve McQueen, TonyCurtis, Alain Delon e Jean Paul Belmon-do, De Niro. O Cary Grant, che a Los An-geles era suo vicino di casa.

Oggi Claudia Cardinale ha in cantiere

capto, sono fotogenica. E trasmettoemozioni. È il mistero della fotogenia.Sei come Marlon Brando, mi dice anco-ra oggi, dopo trent’anni, il mio compa-gno, Pasquale Squitieri. Sei come lui. Daogni parte tu venga inquadrata, anchedi schiena, prendi la luce».

Si accende un’altra sigaretta con lemani dalle dita affusolate e nervose, leunghie perfette, un anello per ogni dito,tranne ai pollici. «Certo il cinema è sta-to per me una grande ancora di salvez-za. Grazie al cinema sono riuscita adesprimere i miei sentimenti. Normal-mente uno vive solo una vita: io cento-cinquanta, quanti sono i film e gli spet-tacoli teatrali in cui ho recitato. Sonostata una puttana, una principessa, unasanta. Mi sono imbruttita, mi sono stra-volta e modificata, ho dovuto dimostra-re 85 anni. Io non faccio mai le prove,non ripeto la scena a casa, non ripasso laparte. Io semplicemente divento il per-sonaggio, mi ci calo dentro annullandome stessa. Mi trasformo, sono un’altra.Per questo ho sempre fatto una grandedifferenza fra identità, la mia, e alterità,

un film con Richard Gere. Riceve anco-ra molte proposte e molti copioni, maquasi mai dall’Italia, paese «dalla me-moria corta». In compenso conosce unaseconda stagione di gloria attraverso ilteatro, recitando nella sua lingua ma-dre, il francese. Si adopera con slanciocome ambasciatrice di buona volontàper l’Unesco, in particolare a favore del-le donne: «Mi sono battuta contro la la-pidazione di Amina, e anche a favore diSouad, la donna cisgiordana che è stataquasi bruciata viva e ha scritto un libroper raccontarlo. Vive con una masche-ra. Davanti a me un giorno se l’è tolta, emi ha fatto vedere anche il suo corpomartoriato dal fuoco. Sono rimasta sen-za parole. Ecco: cerco di essere la vocedelle donne che non hanno voce».

Se c’è una cosa che non sopporta, inItalia, è la tivù: «Pur di apparire si è di-sposti a tutto. Io non sono così. Per que-sto rifiuto quasi sempre gli inviti. Poinon mi piace vedere tutto quel nudo, se-no di fuori, sedere di fuori, ombelico difuori, perché? Mi dà fastidio tanta esibi-zione. Ai miei tempi ho sempre detto dino no e no quando volevano che mi spo-gliassi sul set. Mi sembrava di vendere ilmio corpo. Anche quelle inquadraturein Vaghe stelle dell’Orsa in cui sembronuda, era nuda soltanto la schiena. Cre-do che la cosa più bella sia fare sognare.Puoi suggerire senza fare vedere».

È lusingata di essere una fra le tre soleitaliane, con Sophia Loren e IsabellaRossellini, inclusa nella lista delle centodonne più belle del Novecento stilata daHarpers & Queen: «Non me l’aspettavodavvero, sono rimasta sbalordita. Logiuro. Non ho mai pensato di essere bel-la. Ava Gardner era bella. Rita Hayworthera bella». E oggi? Tira fuori solo il nomedi Monica Bellucci. «Oggi il problemadelle attrici, ma anche degli attori, è chenon fanno sognare, non hanno magia.Ma non dipende da loro. È l’occhio delregista che deve trasformarti in quelloche lui vuole, unito alla sapienza deglioperatori e dei direttori della fotografia.E io ho avuto i migliori del mondo».

Non voglio cancellarei segni dell’etàdal mio viso,non vorrei mai dareun colpo di spugnaMai e poi mai fareiun liftingSono contrariaper principio, ma hoanche troppa paura

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‘‘È una delle tre italiane nella lista“Harpers & Queen” delle centodonne più belle del secolo scorso,Moravia ha scritto con lei il libro-intervista “La dea dell’amore”.

Eppure - racconta - nonsi è mai sentita bella,soltanto fotogenica.E fortunata per avervissuto 150 vite, tantequanti i filmin cui ha recitato. “Senzamai imparare la parte

ma calandomi dentro, annullando mestessa nel personaggio, fosse unaputtana, una principessa o una santa”

Claudia Cardinale

44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 14 AGOSTO 2005

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