DOMENICA 15 MAGGIO 2005 - la Repubblicadownload.repubblica.it/pdf/domenica/2005/15052005.pdfDOMENICA...

24
DOMENICA 15 MAGGIO 2005 D omenica La di Repubblica I l telefono squillò la mattina del 13 settembre 2001. Nel suo ufficio al settimo piano di Lan- gley (Virginia), quartier generale della Cia, Cofer Black, direttore del Counterterrorist Cen- ter (“Ctc”), l’Antiterrorismo dell’agenzia, aveva fatto cercare Gary Schroen. «Gary, ti aspet- to da me. Ora». Capo stazione a Kabul e Islamabad, Schroen era finito soltanto cinque gior- ni prima in “transizione”, il limbo di chi viene escluso dal «segreto» negli ultimi mesi pri- ma della pensione. Ma i programmi erano cambiati. Nei ricordi di Schroen, il colloquio con Black fu breve. «Gary, torni al lavoro. Stavolta mi porti la testa di Osama bin Laden in una sca- tola». E lui, di rimando: «Signore, non ho mai ricevuto un ordine più chiaro in vita mia». La Cia poteva tornare ad uccidere e aveva voglia di farlo. Sei giorni dopo, 19 settembre 2001, Schroen e la sua squadra di sei uomini erano su un vecchio elicottero russo che sorvolava i massici del- l’Hindukush per depositare il suo carico nella terra dei Talebani. A bordo, armi, telefoni satelli- tari, attrezzature per le intercettazioni e cinque milioni di dollari in banconote da cento stipate in piccoli zaini. Nell’agenda dell’operazione, due opzioni. La prima: individuare Osama e ono- rare la promessa con Black. La seconda: corrompere alcuni dei capi tribù locali perché prepa- rassero l’invasione militare americana di terra e quindi l’accerchiamento e cattura del Nemico che aveva sfregiato l’America. La squadra di Schroen lavorò per un mese. Spese fino all’ultima delle banconote da cento. Si lasciò truffare da un capotribù che, in cambio di una cassa di mi- tragliette silenziate e visori notturni, aveva promesso quantomeno lo scalpo di al Zawahiri, la stampella ideologica e militare del vertice di Al Qaeda. Alla fine, Schroen si arrese all’evidenza e la comunicò a Langley. Per avere la testa dello sceicco bisognava andarsela a prendere nelle val- li dell’Hindukush. E serviva l’esercito. (segue nella pagina successiva) i luoghi I cimiteri segreti della Corsica FRANCO MARCOALDI cultura Berlino, la storia dei tunnel sotto il Muro ANDREA TARQUINI spettacoli Cannes, il festival che non si diverte più NATALIA ASPESI e MARIA PIA FUSCO il racconto I bambini senza scuola dell’altra Cina FEDERICO RAMPINI le storie Cassiere, le donne-fantasma del cinema GABRIELE ROMAGNOLI Inchiesta di copertina a cura di: ROMA RICCARDO STAGLIANÒ FOTO REUTERS CARLO BONINI WASHINGTON-RIAD WASHINGTON-NEW YORK A. FLORES D’ARCAIS IL CAIRO ELENA DUSI ROMA KABUL DANIELE MASTROGIACOMO STEFANIA DI LELLIS la lettura Il tennis e lo Stadio delle Statue GIANNI CLERICI La caccia Da quattro anni Osama è il ricercato numero uno. Gli uomini che lo braccano raccontano i misteri delle sue fughe Repubblica Nazionale 27 15/05/2005

Transcript of DOMENICA 15 MAGGIO 2005 - la Repubblicadownload.repubblica.it/pdf/domenica/2005/15052005.pdfDOMENICA...

Page 1: DOMENICA 15 MAGGIO 2005 - la Repubblicadownload.repubblica.it/pdf/domenica/2005/15052005.pdfDOMENICA 15MAGGIO 2005 D Laomenica di Repubblica I gley (Virginia), quartier generale della

DOMENICA 15 MAGGIO 2005

DomenicaLa

di Repubblica

Il telefonosquillò la mattina del 13 settembre 2001. Nel suo ufficio al settimo piano di Lan-gley (Virginia), quartier generale della Cia, Cofer Black, direttore del Counterterrorist Cen-ter (“Ctc”), l’Antiterrorismo dell’agenzia, aveva fatto cercare Gary Schroen. «Gary, ti aspet-to da me. Ora». Capo stazione a Kabul e Islamabad, Schroen era finito soltanto cinque gior-ni prima in “transizione”, il limbo di chi viene escluso dal «segreto» negli ultimi mesi pri-ma della pensione. Ma i programmi erano cambiati. Nei ricordi di Schroen, il colloquio

con Black fu breve. «Gary, torni al lavoro. Stavolta mi porti la testa di Osama bin Laden in una sca-tola». E lui, di rimando: «Signore, non ho mai ricevuto un ordine più chiaro in vita mia». La Ciapoteva tornare ad uccidere e aveva voglia di farlo. Sei giorni dopo, 19 settembre 2001, Schroen ela sua squadra di sei uomini erano su un vecchio elicottero russo che sorvolava i massici del-l’Hindukush per depositare il suo carico nella terra dei Talebani. A bordo, armi, telefoni satelli-tari, attrezzature per le intercettazioni e cinque milioni di dollari in banconote da cento stipatein piccoli zaini. Nell’agenda dell’operazione, due opzioni. La prima: individuare Osama e ono-rare la promessa con Black. La seconda: corrompere alcuni dei capi tribù locali perché prepa-rassero l’invasione militare americana di terra e quindi l’accerchiamento e cattura del Nemicoche aveva sfregiato l’America. La squadra di Schroen lavorò per un mese. Spese fino all’ultimadelle banconote da cento. Si lasciò truffare da un capotribù che, in cambio di una cassa di mi-tragliette silenziate e visori notturni, aveva promesso quantomeno lo scalpo di al Zawahiri, lastampella ideologica e militare del vertice di Al Qaeda. Alla fine, Schroen si arrese all’evidenza ela comunicò a Langley. Per avere la testa dello sceicco bisognava andarsela a prendere nelle val-li dell’Hindukush. E serviva l’esercito.

(segue nella pagina successiva)

i luoghi

I cimiteri segreti della CorsicaFRANCO MARCOALDI

cultura

Berlino, la storia dei tunnel sotto il MuroANDREA TARQUINI

spettacoli

Cannes, il festival che non si diverte piùNATALIA ASPESI e MARIA PIA FUSCO

il racconto

I bambini senza scuola dell’altra CinaFEDERICO RAMPINI

le storie

Cassiere, le donne-fantasma del cinemaGABRIELE ROMAGNOLI

Inchiesta di copertinaa cura di:

ROMA

RICCARDO STAGLIANÒ

FOTO REUTERS

CARLO BONINIWASHINGTON-RIAD

WASHINGTON-NEW YORK

A. FLORES D’ARCAIS

IL CAIRO

ELENA DUSI

ROMA

KABUL

DANIELE MASTROGIACOMO

STEFANIA DI LELLIS

la lettura

Il tennis e lo Stadio delle StatueGIANNI CLERICI

La caccia

Da quattro anniOsamaè il ricercatonumero uno.Gli uominiche lo braccanoraccontanoi misteridelle sue fughe

Rep

ubbl

ica

Naz

iona

le 2

7 15

/05/

2005

Page 2: DOMENICA 15 MAGGIO 2005 - la Repubblicadownload.repubblica.it/pdf/domenica/2005/15052005.pdfDOMENICA 15MAGGIO 2005 D Laomenica di Repubblica I gley (Virginia), quartier generale della

la copertinaGuerra al terrore

Dall’11 settembre 2001 è il super ricercato: una squadraspeciale di cinquecento agenti della Cia lo tiene nel mirino,migliaia di militari Usa e pachistani lo braccano sul campo.Ecco, nel racconto dei protagonisti, la storia della più grandecaccia all’uomo di tutti i tempi. Iniziata con una telefonatae un ordine perentorio. Per ora caduto nel vuoto

28 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 15 MAGGIO 2005

nui cicli di dia-lisi. Informazio-ni che, se vere, evi-dentemente avreb-bero potuto dare indi-cazioni operative utili achi dei nostri era sul terre-no. Non era e non è vero.Osama non soffre di reni. I me-dici arrivati a Langley ci hannospiegato e dimostrato che un’affe-zione renale, anche non grave, lasciaimportanti tracce cutanee nel tempo.Soprattutto se “il malato” in questione,come nel nostro caso, ha vissuto in zoneumide come il Sudan. Dunque, se propriodevo dire, penso che la malattia di Osama sia népiù e né meno che disinformazione veicolata dal-la stessa Al Qaeda. Un’arma usata in ogni guerra».

I reni, l’ornitologo, i geologi. Altrettanti abbozzi dicaccia a tavolino abortiti. Questa è la verità. E dunquee ancora: dov’è Osama? «Se dico al confine tra Pakistane Afghanistan dico esattamente quel che oggi sa la Cia edunque non sbaglio — abbozza Scheuer — ma capisco cheè come dire “Osama si nasconde in Italia”, visto che parliamodi un confine lungo 1.500 chilometri, con le più alte montagnedel mondo. Ma forse è possibile fare qualche approssimazione inpiù se partiamo dall’ultimo luogo in cui Osama è stato localizzatoper davvero. Che è poi il luogo dove siamo stati più vicini alla suacattura. Le grotte di Tora Bora». Era il dicembre del 2001. «Lo man-cammo per qualche ora — ricorda Scheuer — ed è interessante rac-contare anche perché lo mancammo. Fu la prima grande lezioneche imparammo in Afghanistan…».

* * *

A metà novembre del 2001, il regime del mullah Omar è in rotta.Kabul è caduta. Come anche Jalalabad. L’esercito americano hachiuso quel che resta delle truppe regolari talebane e dei mujahed-din che proteggono le vite di Osama e di al Zawahiri nelle gole di To-ra Bora, che in dialetto Pashtun significa i monti «di polvere nera»,50 chilometri a est di Jalalabad. Washington ha due opzioni possi-bili. La prima: rovesciare nelle forre che nascondono Osama e chevengono martellate dall’aviazione la sua decima divisione di mon-tagna. La seconda: affidare il lavoro ai signori della guerra dell’Al-leanza del nord. La Casa Bianca e il Dipartimento della Difesa scel-gono quest’ultima. Anche perché «L’idea di versare molto sangueamericano era ancora politicamente insopportabile», chiosaScheuer.

(segue nelle pagine successive)

(segue dalla copertina)

Da quella mattina di settembre sono passati3 anni, 7 mesi e 20 giorni. La «scatola» di Co-fer Black è rimasta vuota e lui non è più diretto-re dell’Antiterrorismo della Cia. Ha fatto in tem-po a trasferirsi al Dipartimento di Stato con ColinPowell, a tornare alla Cia per esaurire il suo periodo

di «limbo» e finire in pensione. Gary Schroen è rientrato dall’Af-ghanistan, ha scritto un libro su quei giorni di solitudine oltre le li-nee talebane che alla fine di questo mese sarà nelle librerie ameri-cane (First In, Dentro per primi, ed. Presidio press). Per lanciarlo, sifa fotografare sulle rive del lago Tahoe (Nevada), dove vive. Rilasciauna lunga intervista all’americana National Public Radio. Diventatestimonial consapevole di un fallimento. Di tre domande che han-no trasformato lo Sceicco del Terrore prima in un fantasma e poi,in tutto il mondo islamico, in una leggenda capace di farsi beffe deisuoi cacciatori: dov’è Osama bin Laden? Qualcuno lo sta davverocercando? E perché è stato impossibile sin qui trovarlo?

* * *

«Dov’è Osama? Perché quasi quattro anni dopo stiamo ancoraqui a parlarne?…», Michael Scheuer, americano di Buffalo (NewYork), 52 anni, ride di gusto. È un altro di quei “baby” pensionati del-la Cia che, negli ultimi dodici mesi, hanno lasciato l’agenzia senzaapparenti risentimenti, né rimpianti. «Perché — si compiace lui —lasciare la Cia significa recuperare la libertà di parlare e raccontarequel che è accaduto». Prima in un libro di straordinario successo(Imperial Hubris, ed. Brassey’s inc.) e, ora, in una mattina di prima-vera, nella sua casa in Virginia. Il 13 settembre 2001 anche Scheuerera a Langley. Anche lui aveva discusso con Black. Perché Osamaera affar suo e degli uomini di quella “Unità Osama bin Laden” cheera stato messo a dirigere nella seconda metà degli anni ’90, quan-do lo Sceicco appariva ossessione di pochi. Per anni, Scheuer e i suoiavevano smazzato il lavoro in non più di venticinque anime, perdue terzi donne, nascosti in un seminterrato, chiusi in un dedalo dicorridoi. In quel settembre 2001, l’Unità diventava la testa della piùgrande caccia all’uomo che l’America avesse mai avviato. «Tra ilsettembre del 2001 e il novembre dello scorso anno, che poi è il me-se in cui ho lasciato l’agenzia — racconta Scheuer — gli uomini im-pegnati su Osama sono esattamente raddoppiati. E, complessiva-mente, considerando gli agenti sul terreno, direi che oggi sono cin-quecento gli operativi che hanno un solo incarico: prenderlo».

Baciata dal dramma del martedì di sangue delle Torri Gemelle edel Pentagono, l’Unità Osama diventava celebrata icona dell’a-genzia. Veniva rapidamente ripulita dallo scherno che, fino al 10settembre l’aveva accompagnata nel pettegolezzo di Langley, chele aveva affibbiato il soprannome di “Famiglia Manson”. Per via diquel clima di isterico allarmismo che negli anni i suoi addetti ave-vano alimentato e che i più ritenevano infondato. E che tanto ri-cordava la follia di Charles Manson, l’assassino pazzo noto alle cro-nache americane. Il negozio — nome con cui erano e sono cono-sciuti a Langley gli uffici dell’Unità Osama, disposti su sei piani nel-l’ala nord occidentale del quartier generale — diventava simbolo ebaricentro di una caccia all’uomo. «Dall’11 settembre — sorrideScheuer — il negozio non ha mai chiuso». Non si sono mai spentele luci del suo castello elettronico, foderato da intercapedini in cuicorrono 2.500 tra cavi e fibre ottiche per la raccolta dei dati. Con gua-sconeria che fa tanto America e tanto film di spionaggio, nel labi-rinto di corridoi che lo innerva, si sono moltiplicati i cartelli con cuisi è pensato di mettere ordine nelle strisce di moquette che divido-no intercapedini e pannelli degli uffici. Il più vecchio è ancora lì. Esi legge: «Osama bin Lane», «corsia Osama».

A Langley, tanta enfasi su numeri e luoghi si sposa con quella sul-le competenze. Dello sceicco, si occupano sulla carta spie, ma ancheanalisti, biologi, geologi, medici, esperti informatici, fonici. Filtranoogni brandello di informazione lo riguardi. Provenga dalla rete delleambasciate americane all’estero, dall’intelligence militare, dalla Na-tional Security Agency, il grande orecchio dell’America sul sistemaglobale delle comunicazioni. O anche dall’interessato, visto che, dalsettembre del 2001, per almeno diciotto volte, lo sceicco ha fatto sen-tire la sua voce e mostrato il suo volto. Per altro, con cadenze piutto-sto regolari: ogni sei settimane. Si raccolgono allora storie capaci divirare persino nel grottesco. Che servono ad ingrassare la leggendadel fuggitivo nelle madrasse e nei suk del medioriente e a gonfiare lafrustrazione nei palazzi di Washington. Parliamo del lavoro sui foto-grammi in cui sono stati sezionati dalla Cia i tele-messaggi delloSceicco. Si racconta di geologi invecchiati dietro alle immagini diframmenti di roccia di un’anonima grotta o di uno scarrupo di mon-tagna. Di esperti ornitologi chiamati ad interminabili e infruttuosiconsulti per dare il nome di una specie — e dunque un luogo geo-grafico — al cinguettio di un uccello catturato tra i rumori di fondo diuno dei tanti video-audio. Si racconta delle ripetute processioni aLangley di luminari della medicina per esaminare ingrandimenti fo-tografici della pigmentazione della pelle del fuggitivo per come que-sta è apparsa di mese in mese, di anno in anno. Ricorda MichaelScheuer: «Per un qualche tempo, è stata accreditata una malattia re-nale di Osama. Noi ricevemmo addirittura la prima informazione inquesto senso nel 1995. Si è sostenuto che dovesse sottoporsi a conti-

I migliorigeologi studianole rocce dei video,esperti ornitologiascoltano il cantodegli uccelliche si sente sullo sfondoma il nascondiglio restaun mistero. Ora, dopol’arresto del numerotre di Al Qaeda il 2maggio in Pakistan,la Casa Bianca tornaad essere ottimista,ma gli esperti frenano:“Nessuno può direse il gran giornoè vicino oppure no”

Rep

ubbl

ica

Naz

iona

le 2

8 15

/05/

2005

Page 3: DOMENICA 15 MAGGIO 2005 - la Repubblicadownload.repubblica.it/pdf/domenica/2005/15052005.pdfDOMENICA 15MAGGIO 2005 D Laomenica di Repubblica I gley (Virginia), quartier generale della

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 29DOMENICA 15 MAGGIO 2005

Nell’Europa di qualche secolo fa poteva capi-tare che, se un rampollo dell’aristocrazia necombinava una troppo grossa, scampava

alla punizione chiudendosi in convento. Sconta-va il suo misfatto imperdonabile con la sparizio-ne, la preghiera e la clausura. Se stiamo alla tesiche mi propose tre anni fa a Kabul l’ambasciatoreThompson, grossomodo Osama bin Laden avreb-be conosciuto questa sorte: dovunque si trovi ilsuo luogo di clausura, sarebbe ospite e in qualchemodo prigioniero del fondamentalismo pachista-no, a sua volta legato al fondamentalismo saudita.

Thompson era stato l’inviato di Bush senior inAfghanistan nel 1991, conosce bene tanto i mullahquanto i generali pachistani, e la sua congettura èragionevole. Il Bin Laden vivo ma neutralizzato èun compromesso tra due esigenze opposte. Dauna parte immobilizza il saudita; dall’altra rispar-mia al generale Musharraf l’onere di arrestare ouccidere Bin Laden. Lo spettacolo di Osama pu-gnalato nella schiena, oppure aggiogato al carrodel vincitore americano e trascinato in vincoli co-me Vercingetorige, infiammerebbe i fondamen-talismi dal Pakistan all’Arabia saudita. E inevita-bilmente Musharraf entrerebbe nell’immagina-rio dell’islam politico come un Gano di Magonzamusulmano, insomma un traditore della propriafede. Così è plausibile che il generalissimo e chi dàospitalità al saudita abbiano stretto un patto, al-meno tacito, per il quale Bin Laden è al sicuro manon deve creare problemi ai padroni di casa. Do-potutto in questi anni Musharraf e la vasta allean-za dei partiti fondamentalisti pachistani hannotrovato il modo di convivere, spesso collaborandocon reciproca utilità.

Resterebbero da spiegare le riapparizioni delBin Laden virtuale, in video o in nastro audio. Maal di là del fatto che la loro autenticità talvolta èparsa molto dubbia, si potrebbe supporre che ditanto in tanto al saudita sia permesso rivolgersi almondo. In quel caso si tratterebbe di capire chi de-cide la tempistica dei suoi messaggi. Se per esem-pio al Jazeera li abbia mandati in onda appena li haricevuti; oppure li abbia trattenuti fin quando nonha ottenuto l’autorizzazione dell’emiro del Qatar,buon amico di Washington (al Jazeera nega). Il pe-nultimo nastro di Bin Laden, mandato in ondadalla tv del Qatar alla vigilia delle presidenzialiamericane, ricentralizzava la campagna elettora-le sul tema della guerra planetaria e certo non è di-spiaciuto agli strateghi di Bush.

Meno dubbio invece è che Bin Laden abbia ri-velato nel tempo una statura e capacità molto piùmodeste di quanto l’Occidente gli attribuiva nel2001: e questo rende ancor più paradossale il suosuccesso. È difficile trovare nella sua vita un soloepisodio che permetta di attribuirgli un’intelli-genza politica; anzi, nella fissità del suo sorriso giàdurante gli anni della gioventù alcuni conoscentisospettarono l’ebete. In Afghanistan tutta la suainfluenza derivava unicamente dalla disponibi-lità economica, smisurata a fronte della miseria incui da decenni versava il Paese. Dopo l’attacco al-le Twin Towers, che avrebbe finanziato su consi-glio del fido al Zawahiri, perse svariate occasioniper capitalizzare l’enorme popolarità di cui pur-troppo godeva presso le opinioni pubbliche ara-be. Cominciata la guerra afgana ha dimostrato dinon avere un piano; e s’è tramutato, o è stato tra-mutato, in un fantasma, se non in un burattino:comunque irrilevante.

Ma che oggi Osama ci spii da una moschea pa-chistana o dall’oltretomba, in fondo ha motivi perrallegrarsi. Gli è riuscito di invadere il nostro im-maginario, dove tuttora giganteggia nel ruolo delMaligno. Ha scatenato in Occidente una farando-la di rappresentazioni mitologiche che pretendo-no le maiuscole, Scontro tra Civiltà, il Male… Peròquesto è il risultato non della sua abilità, semmaidella nostra pochezza. Senza volerlo, e probabil-mente senza capirlo, Bin Laden ha messo a nudo ilimiti dell’Occidente. Non solo i limiti contingen-ti, a cominciare dalla qualità di ceti politici e siste-mi d’informazione clamorosamente al di sottodegli eventi. Ma soprattutto limiti di “civiltà”, perusare una parola di moda.

Bene o male alla fine degli anni Novanta l’Euro-pa e gli Usa di Clinton sembravano convergereverso una civiltà politica comune. Oggi non soloEuropa e Usa divergono, ma quel nuovo liberali-smo che poteva ridare senso all’Occidente paresvaporato, a destra come a sinistra. Si vuole chequesto avvenga perché, dovendo difenderci da AlQaeda, non potremmo più accordare ai diritti in-dividuali l’importanza che accordavamo prima.Ma la lotta al terrorismo islamico non obbligava ilPatriot Act, il metodo Guantanamo, il metodo AbuGhraib, il metodo delle punizioni collettive appli-cato a Falluja. Né obbligava Bush e Blair a dimo-strare al mondo come le democrazie occidentalinon siano poi sistemi così ammirevoli, se le si puòabbindolare e condurre alla guerra mentendo.Quanto poi al risultato, basta leggere quanto scri-ve il Dipartimento di Stato nel suo ultimo rappor-to sulla Global jihad, la guerra santa globale: l’Iraqsta diventando ciò che era in precedenza l’Afgha-nistan, una grande palestra per devoti di Osamache si addestreranno nell’arte di uccidere l’occi-dentale, costruiranno reti, e torneranno a casa piùagguerriti.

1996

A maggio Osama bin Ladenviene espulso dal Sudane si rifugia in Afghanistan:il 25 giugno 19 soldatiamericani muoiono perun attentato in una basemilitare in Arabia Saudita

1997

La Cia si rende contoche Bin Laden non è soloun finanziatoredel terrorismo islamico maanche un organizzatore: lasquadra speciale preparai primi piani di cattura

1998

Il 22 febbraio Osamaemette una fatwa controgli Stati Uniti. Il 7 agostole ambasciate americanein Kenya e Tanzaniavengono attaccate: i mortisono 224 e i feriti migliaia

1999

Si intensifica la cacciaa Bin Laden: duebombardamenti ordinatida Clinton nei pressidi Kandahar (dove si pensache sia Osama) vengonoannullati all’ultimo istante

2000

Il 12 ottobre gli uominidi Al Qaeda attaccano unanave da guerra americanain Yemen: 17 morti. Male ricerche di Bin Ladenin Afghanistan subisconouna battuta d’arresto

“Portamisubito la testa

di Osama”

GUIDO RAMPOLDI

Reso inoffensivoma in libertà

il patto pachistano

GLI IDENTIKITNelle immagini di queste

pagine e delle successivegli identikit delle

trasformazioni di Osamabin Laden ricostruiti al

computer

Rep

ubbl

ica

Naz

iona

le 2

9 15

/05/

2005

Page 4: DOMENICA 15 MAGGIO 2005 - la Repubblicadownload.repubblica.it/pdf/domenica/2005/15052005.pdfDOMENICA 15MAGGIO 2005 D Laomenica di Repubblica I gley (Virginia), quartier generale della

la copertinaGuerra al terrore

Il 26 novembre del 2001 la Ciaha “prove certe” che Osamaè in trappola a Tora Bora.Un signore della guerraha ricevuto 10mila dollariin contanti per impedire la fugadello sceicco. Ma tra l’1 e il 2dicembre Bin Laden scompare:qualcuno ha fatto il doppio gioco

(segue dalla pagina precedente)

Il 20 novembre, l’aviazione statunitense bombarda con mi-gliaia di volantini i villaggi che fanno da corona a Tora Bora:l’America promette 25 milioni di dollari a chi le consegneràlo Sceicco. Diecimila dollari in contanti vengono invece con-segnati dalla Cia ad Hazret Ali, potente signore della guerra.Ha combattuto con Ahmed Shah Massud e per i suoi servigi

bellici ha già ottenuto dagli americani le chiavi di Jalalabad, nellecui strade il suo esercito tascabile fa il bello e il cattivo tempo. «Queldenaro — ricorda ancora Scheuer — era il prezzo che Hazret Ali ave-va chiesto per tagliare le vie di fuga di Osama verso il Pakistan». Il 26novembre, la Cia ha «prove certe» che Osama è chiuso nella sacca.Neppure una settimana dopo, sa che è sfuggito alla tenaglia. Tra l’1e il 2 dicembre, gli abitanti del villaggio di Upper-Pashir, 10 chilo-metri a nordest di Tora Bora riferiscono del suo passaggio. A piedi,nella neve alta. Con soli quattro uomini di scorta. Verso il Pakistan.Dovrebbero intercettarlo gli uomini di Hazret Ali. Ma non accade.Perché? «Perché la vita di quell’uomo — dice Scheuer — non era enon è in vendita. Neppure nel quarto Paese più povero del mondo.È questo che non avevamo voluto capire fino a quel giorno. È que-sta la lezione che imparammo».

Hamid Mir, vive e lavora a Islamabad. Ha scritto l’unica biografiain lingua araba di Osama bin Laden e, soprattutto, è il giornalista chepiù volte lo ha intervistato. Una prima volta nel 1997, quindi nel1998, e, mentre infuriava l’offensiva alleata, nel novembre del 2001,in un luogo imprecisato appena fuori della capitale Kabul. «Uscitoda Tora Bora — racconta Mir — Osama trovò rifugio in Pakistan, do-ve rimase per almeno un mese. Ritengo che da allora non si sia maiallontanato dalla linea di confine tra Pakistan e Afghanistan orien-tale, anche perché attraversarlo in un senso e in un altro è uno scher-zo. Le tribù locali lo appoggiano e lo proteggono. I soldati america-ni, quelli italiani e norvegesi, non si sono mai spinti sin lì».

Dunque, protetto dall’immensità degli spazi, dall’obbligo diospitalità del Pashtunwali (il codice Pashtun), Osama è e resta unatesta di spillo lungo una frontiera lunga 1.500 chilometri, in cui cin-que sono stati e continuano ad essere i quadranti ristretti di caccia:le regioni del Whaziristan, del Konar, del Nuristan, del Chitril, del Ba-luchistan. Certo, le più recenti informazioni dell’intelligence allea-ta, raccolte sul lato afgano del confine, forniscono un’ulteriore ap-prossimazione. Lo sceicco — ipotizzano — sarebbe in continuomovimento tra la provincia afgana di Nangarhar e il di-stretto pachistano di Lal-Poor. Ipotesi, appunto. E percapirlo è sufficiente attraversare di nuovo l’Atlantico esalire al quarto piano del Chrysler building, il famosograttacielo “art deco” che sorveglia Manhattan lungoLexington Avenue. Qui, ha il suo ufficio un inglese sul-la cinquantina. Si chiama Richard Barrett. Ha un pas-sato importante nell’intelligence di Sua Maestà. LeNazioni Unite lo hanno scelto per guidare un team chepochi conoscono e che poco, forse, sembra avere a chefare con l’Onu: dare la caccia ad al Qaeda, raccoglierele informazioni delle intelligence occidentali e asiati-che che consentano l’individuazione dei suoi capi,delle sue fonti di finanziamento. Tentare, se possibile,di abbozzare una risposta alla maledetta domanda:dov’è Osama bin Laden?

«Osama — dice Barrett — è un uomo braccato, chetrascorre le sue giornate nascosto e con pochi contat-ti all’esterno. Gli stessi video sono un segno di debo-lezza e prima o poi potrebbero fornirci una traccia.Magari scopriremo che è vero che è ancora tra Afgha-nistan e Pakistan, ma magari nascosto in una città…».

* * *

«Magari nascosto in una città…». Se l’intuizione diBarrett dovesse un giorno rivelarsi corretta, la caccia al Nemico del-l’America, oggi, sarebbe costruita su una finzione. E 1.500 chilo-metri di montagne, si risolverebbero in un alibi eccellente per nontrovarlo. Detto brutalmente: lo sceicco potrebbe essere protetto inqualche centro urbano nelle regioni di confine pachistane e la cac-cia tra i monti essere dunque una consapevole messinscena. L’i-potesi è andata trovando con il passare del tempo un numero cre-scente di padri. Soprattutto negli Stati Uniti, dove la «lealtà» del-l’alleato pachistano, il generale Perwez Musharraff, incontra sem-pre meno convinti sostenitori. Dice un alto funzionario dell’intel-ligence americana: «Prenderemo Osama quando riusciremo a sra-dicarlo dal Pakistan e dunque quando saremo in grado diaumentare la nostra presenza e sforzo militare nell’area. Due con-dizioni che, in questo momento, non sono date, perché in contra-sto con il nostro interesse primario a non destabilizzare Musharaff.Finché questo sarà il quadro, dunque, il discorso è molto semplice.Bin Laden sarà catturato solo se il Pakistan deciderà di fare sul se-rio».

Le cose stanno davvero così? E il Pakistan fa o no sul serio? Nel set-tembre del 2004, Cofer Black, che aveva nel frattempo lasciato la Ciaper dirigere l’Antiterrorismo del Dipartimento di Stato, è a Islama-bad per incontrare esponenti del governo e dell’intelligence pa-chistane. Concede un’intervista televisiva. Dice: «Se Osama bin La-den ha un orologio, farebbe bene a dargli un’occhiata, perché iltempo sta scadendo. Sarà catturato». Le parole di Black suonano

come il segnale di un’improvvisa accelerazione e comunque comela prova di un rinnovato impegno di Musharraf nella caccia all’uo-mo che l’America vuole. E, forse per questo, scatenano un pande-monio. Fonti dell’intelligence pachistana, l’Isi, liquidano la sortitadi Black come «propaganda elettorale nell’anno delle elezioni»(l’America avrebbe votato di lì a due mesi). Il ministro dell’internopachistano, Aftab Ahmad Khan Sherpao, chiude la questione:«Osama? Semplicemente non sappiamo dov’è».

Le ambiguità di Islamabad, del resto, sembrano qualcosa più diun’ombra se si gira qualche domanda a Khalid Khawaja. Ex fun-zionario dell’Isi, Khawaja è uomo dalla fama controversa. ConosceOsama negli anni ’80 e combatte al suo fianco nella Jihad control’invasione sovietica. È il “contatto” tra gli ambienti islamici radi-cali di Islamabad e Daniel Pearl, il giornalista del Wall Street Jour-nal sequestrato e decapitato perché improvvisamente padrone dielementi in grado di illuminare la zona grigia dei rapporti tra il re-gime pachistano, i suoi apparati di sicurezza e Osama bin Laden.Di più: alla vigilia del conflitto afgano, Khawaja è il tramite tra JamesWoolsey, ex direttore della Cia, e la leadership talebana. L’uomoama l’eloquio incendiario, nutre una profonda avversione versol’Occidente. Oggi dice: «Mi chiedete se qualcuno in Pakistan sa do-ve si nasconda bin Laden? Bene, la mia risposta è che non è “qual-cuno” a saperlo, ma “moltissimi”. Sono quelli che hanno scelto diproteggerlo dai terroristi alla Topolino come Bush».

Musharaff conosce bene questo venticello che soffia su Wa-shington e rischia di trasformarsi in tempesta. Ne sono a tal puntoconsapevoli gli uomini della sua intelligence, che qualcuno accet-ta di affrontare il problema senza diplomatiche finzioni. Accade aRiad, dove, tra il 5 e l’8 febbraio, le spie di 52 Paesi accettano di se-dere al tavolo della Conferenza internazionale dell’Antiterrorismoconvocata dal regime dei Saud. In quei giorni, la delegazione pa-chistana ha una sua inconfondibile aggressività. Che HassanSayed, uno dei suoi componenti, argomenta con orgoglio. Il fun-zionario pachistano ha modi eleganti, si lascia cadere su un sofàdell’hotel Intercontinental, sorride: «Mi lasci indovinare la do-manda… Dov’è Osama bin Laden? È l’unica cosa che sembra chie-derci il mondo. Non è curioso?». Sayed si fa improvvisamente serio:«La cattura di Osama non è e non può essere responsabilità del so-lo Pakistan. Dal settembre del 2001, siamo il Paese che ha cattura-to più terroristi al mondo: seicento. Grazie a questi arresti, la capa-cità offensiva del nocciolo duro di al Qaeda si è decisamente ridot-

ta. E il mondo cosa continua a chiederci? Osama bin Laden. Comese toccasse soltanto a noi prenderlo e non fosse, al contrario, unobiettivo che riguarda tutti i Paesi in guerra con il Terrore. Nella cac-cia ad Osama stiamo impiegando 70mila uomini, il più grande di-spositivo militare mai dispiegato sulla nostra frontiera afgana. Ab-biamo contato già centinaia di morti. Non è abbastanza? Qualcu-no pensa davvero che non vogliamo trovarlo? Che abbiamo pauradi una destabilizzazione interna? Mi sembrano osservazioni tantoastratte quanto infondate».

* * *

I fatti sembrano dare ragione ad Hassan Sayed. Lunedì 2 maggio,Abu Faraj Al-Libbi, è sul sellino posteriore di una moto che attra-versa le strade polverose di Mardan, un piccolo villaggio di frontie-ra al confine nord-occidentale tra Pakistan e Afghanistan. Abu Fa-raj Al-Libbi è ricercato come numero tre del mutante vertice ope-rativo di al Qaeda. Soltanto un gradino sotto Osama bin Laden e Ay-man al Zawahiri. È l’uomo — dicono — che, nel dicembre 2003, hapianificato i due attentati alla vita di Musharaff.

Guidata dal suo guardaspalle, la moto su cui viaggia è costretta afrenare al passaggio di un gruppo di donne velate che donne si ri-velano non essere. Sono agenti dell’Isi guidati sin lì su da una sof-fiata. Estraggono armi automatiche. Abu Faraj abbandona la mo-to, comincia a correre chiedendo la protezione della folla. «Sonouno jihadista», urla. Raggiunge una casa dove si barrica e dove, sfi-nito dai gas lacrimogeni, è costretto ad arrendersi. Due giorni do-po, il suo volto è una foto segnaletica che fa il giro del mondo. Chestrappa al presidente americano George W. Bush parole impegna-tive: «Questa cattura è una vittoria cruciale nella Guerra al Terrore».Forse per dei pezzi di carta con istruzioni in codice che ad Abu Fa-raj sono stati trovati indosso al momento dell’arresto. «O forse —commenta un funzionario dell’intelligence americana — per la fi-ducia che si ripone nei metodi di interrogatorio dell’Isi».

«No — dice Michael Scheuer — purtroppo non penso che qual-cuno tradirà Osama». «Chi ne protegge il rifugio — concorda unafonte di intelligence occidentale a Kabul — ne riconosce e rispettala figura di musulmano. Ammira il suo valore, la decisione di com-battere in nome di Allah, rinunciando ai suoi averi. E soprattuttonon dimentica la sua generosità nell’aver dato all’Afghanistan ca-se, scuole, ospedali». «Potrei farvi conoscere centinaia di personeche lo considerano un “angelo” — aggiunge Khalid Khawaja —. È

un uomo umile, rispetta Dio, è pronto al sacrificio».Sono argomenti che, a New York, condivide anchel’investigatore Onu Richard Barrett: «Paradossal-mente — dice — catturare oggi Osama potrebbe per-sino essere negativo. Una parte del mondo islamicogià oggi lo vive come un mito. Da prigioniero lo tra-sformerebbe in eroe da emulare. E parliamo di un uo-mo che, da un punto di vista operativo è oggi soltantonominalmente il capo di al Qaeda».

* * *

Le parole di Barrett ricordano molto quelle che, nelluglio dello scorso anno, ebbe a pronunciare RichardClark, coordinatore dell’Antiterrorismo alla CasaBianca fino al marzo 2003: «Prendere Osama, a questopunto, non fa una gran differenza». Ma segnalano an-che quanto, negli ultimi 24 mesi, la caccia ad Osamabin Laden sia scemata di priorità nell’agenda militaree strategica dell’Amministrazione Bush. Dice MichaelScheuer: «Ho la sensazione che il Presidente sia rima-sto intrappolato dall’eccessivo ottimismo con cui, or-mai quasi quattro anni fa, aveva promesso all’Ameri-ca la cattura dello sceicco. Sono successe altre cose, èarrivato l’Iraq e chi ieri era in Afghanistan per dare lacaccia a Osama, oggi è tra Bagdad e Falluja e si danna

dietro ad al Zarqawi, il nostro nuovo nemico numero uno».Qualche dato. Nel marzo del 2004, Bob Andrews, ex responsabile

al Pentagono dell’ufficio di controllo e coordinamento delle “opera-zioni speciali”, ammette che la campagna irachena «è stato motivodi distrazione». «Almeno un quarto delle nostre special forces, più omeno 10mila uomini — osserva — è incastrato in Iraq». E tra loro, laTask force 121, la più specializzata delle unità del Pentagono adde-strate alla caccia all’uomo, la punta di lancia scagliata sul teatro del-le operazioni militari afgane nei mesi immediatamente successivi al-l’invasione. Nell’ottobre dello stesso anno, il generale inglese JohnCooper, vicecomandante inglese delle forze della coalizione in Af-ghanistan, spiega che «Osama non è più oggi la pedina chiave nellaGuerra al Terrore» e la sua cattura «un giorno arriverà». Un giorno…

Girata a fonti militari del Pentagono, la domanda su quanto lacattura di Bin Laden resti ancora «la priorità» strappa qualche infa-stidito mugugno: «È un problema delicato, in questi anni siamo an-dati vicini al successo in almeno un paio di occasioni. E in ogni ca-so che il Presidente ha raddoppiato la nostra presenza militare inAfghanistan portandola a 19mila uomini». Nelle parole della fontemilitare del Dipartimento della difesa si legge lo stanco epitaffio diuna caccia di cui si conosce l’inizio, ma non si vede la fine. «Però èla verità — ride Michael Scheuer —. Può piacere o meno, ma dav-vero nessuno può dire quando e se arriverà il giorno di Osama binLaden. Arriverà e basta e nessuno, fino ad allora, potrà dire se quelgiorno è molto vicino o molto lontano…».

La grandecacciaAl confine tra Afghanistane Pakistan, in una grottao in una città o sul tettodel mondo: le tante ipotesisui suoi nascondigli, i misteridelle sue fughe, gli uominiscelti che lo cercano e glialleati che lo proteggono.Ecco tutti i segretidell’operazione Osama

2001

L’11 settembre gli attentatialle Torri gemelle e alPentagono provocanocirca 3.000 morti. In cinquediversi messaggi ai mediaBin Laden rivendica lastrage e minaccial’Occidente

2002

Nonostante la caduta deiTaliban, Bin Laden restaintrovabile. Il 12 ottobreAl Qaeda colpisce a Baliprovoca 22 morti. Osamatorna a farsi sentire, elogiagli attentati e minacciaanche l’Italia

2003

L’11 febbraio Bin Ladenesorta in un messaggioaudio il popolo iracheno acompiere attentatikamikaze contro gli Usa. AlQaeda colpisce in Arabia(12 maggio) e a Istanbul (15dicembre)

2004

Il 4 gennaio Bin Ladenchiama a raccolta i Paesidel Golfo. L’11 marzo gliattentati di Madrid fanno191 morti. Il 15 aprileOsama offre una treguaall’Europa, il 19 ottobreminaccia ancora gli Usa

30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 15 MAGGIO 2005R

epub

blic

a N

azio

nale

30

15/0

5/20

05

Page 5: DOMENICA 15 MAGGIO 2005 - la Repubblicadownload.repubblica.it/pdf/domenica/2005/15052005.pdfDOMENICA 15MAGGIO 2005 D Laomenica di Repubblica I gley (Virginia), quartier generale della

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31DOMENICA 15 MAGGIO 2005

CHI LO INSEGUE

Sul terreno sono impegnati ventimila soldati americani,cinquecento sono gli uomini della Cia

Sono in campoanche unità specialinorvegesi, italiane,inglesi e francesi chepattugliano i settoridi competenza

Sul terreno simuovono, oltre aimarine, gli uominidelle forze specialiamericane: gruppisuper addestratiche da oltre tre annisono sulle traccedello sceicco

Il maggior alleatodegli Stati Uniti nellacaccia a Osama è ilPakistan chepattuglia il confinecon l'Afghanistan conoltre 70.000 uomini:un'operazione checomporta molteperdite (negli ultimitre mesi sono morti300 soldatipachistani)

IL CONVOGLIO DI AUTO

Secondo il canale tv indiano Star Hind un aereo daavvistamento ha intercettato un convoglio di diecivetture (van di fabbricazione giapponese) a fine ottobre2004 in direzione del confine tra India, Cina e Pakistan.Secondo alcune fonti potrebbe essere il convoglio cheusa Bin Laden per spostarsi da una montagna all'altra,visto che non può rimanere a lungo nello stesso posto

LA SPIA

Secondo il giornalista pachistano Hamid Mir, nel novembre 2001gli americani arruolarono Hazret Ali, uno dei più potentisignori della guerra afgani, ex aiutante di Massud e gliaffidarono il compito di controllare le vie di fuga verso ilPakistan. Gli americani gli dettero 10.000 dollari per isuoi servizi ma i guerriglieri arabi gliene offrirono diecivolte tanto per scappare con la loro complicità. Tra l’1 eil 2 dicembre Bin Laden non aveva tutti i soldi con sé,ma solo la metà, ma erano pur sempre cinque volte lapaga degli Usa e così riuscì a passare a piedi nella nevealta con soli quattro uomini di scorta. E trovò rifugio inPakistan, dove si nascose per almeno un mese

IL BLITZ FALLITO

Nel dicembre del 2002 le forze speciali americanemisero sotto assedio la zona di Tora Bora: dopo intensibombardamenti scesero sul campo gli uomini delletruppe speciali, ma Osama riuscì a sfuggire, secondo gliesperti dell'intellingence Usa, per soli 30 minuti

LA CARTA

D’IDENTITÀ

Osama bin Laden

è nato il 10 marzo

1957 a Riad in

Arabia Saudita da

padre yemenita,

e madre siriana.

È il 17mo di 52 figli

- altezza 1,93 cm

- peso 75 kg

- segni particolari: carnagione olivastra,

mancino

- membro attivo dei Fratelli Musulmani negli

anni dell'Università, nel 1974, a 17 anni, sposa

la sua prima moglie e cugina, Najwa Ghanem.

Poi sposerà altre quattro donne e divorzierà da

una di loro. Ha 24 figli

- nel 1979 si laurea in ingegneria all'università

King Abdul Aziz di Gedda

- A 22 anni si unisce ai mujahiddin per

combattere l'occupazione sovietica in

Afghanistan

- nel 1989 fonda quella che più tardi sarà

definita Al Qaeda (la Base)

- dal 2001 diventa l'uomo più ricercato dagli

Usa. Su di lui una taglia di 50 milioni di dollari

QUANDO È RIUSCITO A SCAPPARE

DOV’È

L'ipotesi più accreditata è che si troviancora al confine tra il Pakistan el'Afghanistan, nelle grotte o nascostosulle montagne: la caccia si concentranelle regioni del Waziristan, del Konar,del Nuristan, del Chitril e del Baluchistan.Alcune fonti occidentali riportate suimedia in lingua araba parlano anche diuna sua possibile fuga in Iran ma, visti ipessimi rapporti tra i Taliban e il regime diTeheran, appare improbabile. L'altraipotesi, mai accantonata dalla fine del2001, è che si trovi nello Yemen, Paesed'origine della sua famiglia. Ungiornalista statunitense che ha incontratoe intervistato Bin Laden pensa che si stianascondendo da qualche parte inKashmir. Per Richard Barrett dell'Onupotrebbe, infine, trovarsi in una città tral'Afghanistan e il Pakistan

LA SALUTE

I SUOI UOMINI

Dal 1999 Osama binLaden soffrirebbe di

una grave insufficienzarenale causata,

secondo i suoi biografi,da un tentativo di

avvelenamento daparte di Siddi Ahmed,un emissario della Cia

assoldato per ucciderlo

Nel tempo le suecondizioni di salute si

sarebbero aggravate elo sceicco avrebbebisogno disottoporsi

continuamente adialisi. Nel luglio

2001 sarebbe statoricoverato in un

ospedaleamericano di

Dubai perun'infezione renale concomplicazioni al fegato

Successivamente avrebbecercato di sottoporsi a untrapianto di reni. Alcuniparticolari sulla sua salutesono stati diffusi nel 2002da una delle sue mogli,identificata con le iniziali A.S., intervistata dalquotidiano di lingua arabacon sede a Londra, AlMajallah. La donna disseche Bin Laden avevabisogno di prenderecontinuamente pillole perdormire, che soffriva didisturbi allo stomaco e cheper questo mangiavaesclusivamente yogurt emiele

Dopo aver avvaloratoqueste voci, oral'intelligence americana èpropensa a pensare cheOsama non abbia graviproblemi di salute. Loproverebbero le ultimeanalisi dei suoi video

IN LIBERTÀ

IN PRIGIONE

Ayman al Zawahiri Egiziano, numero 2 diAl Qaeda, è l'ideologo

del gruppo e consiglieredi Bin Laden

Khalid SheikhMohammed

Kuwaitiano, catturatonel 2003, è lo strategadell'attacco agli Usa

dell'11 settembre 2001

Ramzi Bin Al Shibh Yemenita, preso nel 2002

in Pakistan, era il capodi Atta ad Amburgo

Abu Faraj Al LibbiLibico, guidava la retedi Osama Bin Laden

in Pakistan dal 2003. Èstato catturato lunedì2 maggio in Pakistan

Abu Musab al ZarqawiGiordano, è l'emiro di Al

Qaeda in Iraq. La "mente"di stragi e rapimenti

La Cia infatti ha un'intera divisioneche si occupa della caccia a Bin Laden.Un'unità completa che comprende:analisti politici, ingegneri informatici,medici e psicologi, specialisti intelecomunicazioni oltre ovviamentead agenti operativi sul campo.A questa unità vengono passatetutte le informazioni su Osamaraccolte dai servizi occidentali

LA CAROVANA DI CAMMELLI

Per alcuni Bin Laden vivrebbe in una carovana dikochees (nomadi) afgani, che si spostano con i lorocammelli nel triangolo in cui si incontrano Afghanistan,Iran e Pakistan. Alcuni aerei statunitensi avrebberotenuto sotto osservazione i kochees, mentre gliinformatori avrebbero seguito la carovana per qualchetempo per individuare Bin Laden, ma senza risultati

Rep

ubbl

ica

Naz

iona

le 3

1 15

/05/

2005

Page 6: DOMENICA 15 MAGGIO 2005 - la Repubblicadownload.repubblica.it/pdf/domenica/2005/15052005.pdfDOMENICA 15MAGGIO 2005 D Laomenica di Repubblica I gley (Virginia), quartier generale della

il raccontoNon uno di meno

Nel Paese del miracolo economico e delle miglioriuniversità, migliaia di ragazzi non riescono neppurea finire le elementari. Nelle sperdute campagnedella provincia, i piccoli vengono mandati subitoa coltivare la terra e i maestri per farli studiare devonolottare ogni giorno contro la miseria e la disperazione

32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 15 MAGGIO 2005

FEDERICO RAMPINI

I bambinisenza scuola

dell’altra Cina

SHANG LUO

Nel corridoio che porta alla classe rimbomba viva-ce l’eco di un’allegra cantilena ritmata a squar-ciagola, cinquanta bambine ripetono gridandoogni frase della maestra, scandiscono bene le pa-

role per imparare tutto a memoria. Apriamo la porta e appaionotante macchie di rosso: rossi i grembiuli delle scolare, rosse-vio-lacee le loro guance, rossa la bandiera alla parete a fianco ai ri-tratti di Ma Ke-si (Marx) En Ge-si (Engels) Lie Ning (Lenin) e Mao.L’abbondanza di colore non riesce a nascondere i muri scrosta-ti, i vetri rotti alle finestre, un soffitto pieno di buchi, i miseri ban-chi di legno ammuffito, due sole lampadine che penzolano daun filo elettrico forse senza corrente. Il tiepido sole primaverilenon basta a scaldare l’aula umida, e non c’è una stufa neancheper i geli dell’inverno.

La maestra Li Yaping, 27 anni e 700 yuan di stipendio al mese(70 euro), di fronte allo straniero ammutolisce e abbassa gli oc-chi come una bambina. Timida e impaurita, sembra la protago-nista del film Non uno di menodi Zhang Yimou, quella maestra-contadinella ossessionata dalla promessa di non perdere nean-che uno scolaro durante l’anno. Ma questo non è un film. È lascuola elementare del villaggio di Shang Luo nella regione delloShaanxi. È a tre ore di viaggio (strada non asfaltata, tutta fango epietre) da Xian, metropoli moderna invasa dai turisti occidenta-li che visitano il più celebre tesoro archeologico della Cina, l’ar-mata dei guerrieri di terracotta.

Tre ore sul camioncino che arranca nella polvere e salta sullebuche sono una distanza infinita, il fossato incolmabile che di-vide due mondi. «A Xian, a Pechino — dice Wang Hong del sin-dacato delle donne — i bambini dei ricchi hanno il computer giàall’asilo materno. Qui siamo fortunati se ce ne regalano uno vec-chio, uno solo per tutta la scuola». Per la verità il computer è l’ul-timo dei problemi per queste bambine. Prima alla scuola ele-mentare di Shang Luo bisogna arrivarci. Molte di loro fanno ven-ti chilometri al giorno dalle loro casupole sperdute: a piedi, senon hanno la fortuna di un passaggio su un carro di fieno tiratodal bue. Per resistere fino a sera si portano dietro una pagnottabollita e un pugno di verdura (la scuola non ha i mezzi per unamensa). Alcune a pranzo vanno a casa di contadini di Shang Luo,ma devono portarsi il grano da cuocere perché qui nessuno puòregalare niente. Chi viene da villaggi ancora più lontani dal lu-nedì al venerdì alloggia nel dormitorio scolastico: un corridoiodove si ammassano giacigli sporchi e consunti, gettati sul pavi-mento freddo, con il fetore della fogna a cielo aperto che emanada un rigagnolo poco distante.

Eppure anche queste bambine sono delle privilegiate. Certeloro coetanee in classe non si vedono mai. «La scuola — dice lapreside signora Tang — costa 300 yuan, è proibitivo per famiglieche ne guadagnano 700 all’anno. E poi i genitori hanno bisognodei figli nei campi, se li mandano a studiare restano senza aiuto».Dalle finestre dell’aula si intravedono in lontananza alcuni con-tadini curvi a lavorare, inerpicati su pendii ripidi per strapparequalcosa alla terra avara, in queste valli anguste dove ogni lem-bo coltivabile è conteso dalle rocce, dove la gente vive in casu-pole di fango e paglia, dove la Birmania sembra più vicina diShanghai. Solo in questa provincia, secondo la preside, 50milabambini ogni anno abbandonano la scuola dell’obbligo. «Poi cisono i pluri-ripetenti che vengono qui ogni tanto ma non impa-rano niente, perché dopo la scuola devono comunque lavorarenei campi con i genitori, e in classe distrutti dalla fatica si addor-mentano».

Un paese che ancora si dice comunista, una superpotenzalanciata alla conquista dell’economia globale, ma dove i poverinon hanno il diritto all’istruzione gratuita neanche alle elemen-tari: è una vergogna che ormai affiora, sia pure con qualche reti-cenza, anche nell’informazione di regime. Un mese fa il gover-no di Wen Jiabao ha assegnato alle dodici regioni più povere l’o-biettivo di alzare entro il 2007 dal 75% all’85% il numero di sco-lari che riescono a frequentare le elementari e le medie. Quindiriconosce che oggi un quarto dei bambini in quelle regioni nonvanno neppure alla scuola dell’obbligo. Un altro obiettivo pro-clamato dal governo, sempre per il 2007, è di garantire l’istruzio-ne gratuita ai figli dei contadini; a conferma che oggi se la devo-no pagare loro. Un salasso per le famiglie, e in cambio di cosa?Perfino il quotidiano ufficiale del ministero dell’Istruzione rive-la che nelle zone rurali «la metà delle scuole non ha i soldi per lespese essenziali, compresa la bolletta della luce». Wang Hong,pur essendo la vicepresidente di quel sindacato delle donne cheè un’organizzazione del collateralismo comunista, non esita aconfessare la sua amarezza: «Com’è possibile che il governo nonriesca a spendere di più per la scuola?».

Non tutti sono poveri qui intorno. Il corteo dei dirigenti localidel partito venuti a salutarci, è fatto di tre Volkswagen Jetta nere:ognuna vale il reddito annuo di cento famiglie contadine. I pez-zi grossi si sono scomodati per Matilda Young, la ricca cinese-americana che io seguo, la vera protagonista di questo viaggio aShang Luo. Sono accorsi i contadini da tutto il villaggio, e anchedalle valli vicine, per vedere la “zia d’America” in visita. La bene-fattrice che con i suoi soldi privati supplisce come può alla lati-tanza della Repubblica popolare. Il cortile della scuola si affolladi paesani che spalancano le bocche sdentate. Hanno la pelleRep

ubbl

ica

Naz

iona

le 3

2 15

/05/

2005

Page 7: DOMENICA 15 MAGGIO 2005 - la Repubblicadownload.repubblica.it/pdf/domenica/2005/15052005.pdfDOMENICA 15MAGGIO 2005 D Laomenica di Repubblica I gley (Virginia), quartier generale della

Siamo andati a ShangLuo, a tre ore di stradasterrata dalla cittàdi Xian, assiemea Matilda Young,una sino-americanache ha creato unafondazione per aiutarei più poveri ad avereun’istruzione. Conun occhio particolareper le bambine

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 15 MAGGIO 2005

scura e indurita dal sole, le espadrille di tela sdrucite, sono infa-gottati nelle giacche di Mao troppo strette (quelle che a Pechinoormai si trovano solo nelle bancarelle per i turisti), ricordano laCina dei documentari di trent’anni fa. Una contadina curva erattrappita mi si avvinghia per obbligarmi ad accettare in donouova frutta e verdure, estende al forestiero la gratitudine per Ma-tilda che paga la scuola a sua figlia.

La storia di Matilda Young è un altro paradosso di questa Cina.Suo padre era un importante broker della Borsa di Shanghai, suozio un banchiere, all’apice del benessere negli anni Venti e Tren-ta. Era l’epoca in cui Shanghai aveva il soprannome di Parigi d’O-riente ed era una delle grandi capitali del commercio mondialenell’epoca della prima globalizzazione (allora non si chiamavacosì). Come quasi tutta l’alta borghesia shanghainese, il padre diMatilda fuggì dalla rivoluzione comunista: riuscì a prendere permiracolo l’ultimo bastimento americano che salpò da Shanghainel 1949. La bambina Matilda, la mamma e la sorella lo raggiun-sero più tardi a Hong Kong dopo un viaggio non meno avventu-roso sul treno via Shenzhen. Da Hong Kong agli Stati Uniti: là Ma-tilda si laureò, prese la cittadinanza americana, si sposò, ebbe duefigli, si stabilì a San Francisco dove vive tuttora. È stata educata findalla nascita in una famiglia anticomunista, naturalmente: «Miopadre aveva molti risentimenti. Finché era vivo lui non mi avreb-be mai permesso di tornare in Cina. A noi familiari lui proibiva ad-dirittura di comprare prodotti cinesi».

Invece su Matilda il suo paese non ha mai smesso di esercita-re un’attrazione fatale. Come per milioni di cinesi della diaspo-ra, la politica viene dopo l’attaccamento alla madrepatria. Ma-tilda non ha simpatia per il regime, ma neanche i risentimentiche nutriva suo padre. Nella sua Cina è tornata per la prima vol-ta nel 1986 («vent’anni fa trovai Shanghai poco diversa da quel-la del 1949, tutto il boom economico doveva ancora comincia-re»). È andata nell’elegante quartiere francese della città a visita-re quella che era stata la sua sontuosa casa natale, per scoprirlaoccupata da venti famiglie («hanno perfino costruito una casaaggiuntiva, su quello che era il nostro campo da tennis»). Quat-tro anni dopo ha creato, insieme ad altri sino-americani, il 1990Institute: una fondazione filantropica il cui obiettivo principaleè aiutare i figli dei contadini poveri a finire gli studi. Almeno trevolte all’anno Matilda vola dalla California a Xian per portare ifondi raccolti tra la diaspora cinese in America, e controlla chequei soldi siano spesi bene. A volte bastano 40 dollari all’anno ascolaro per compensare i genitori del “danno” economico dellasua assenza dal lavoro dei campi. In questo momento solo nellaprovincia dello Shaanxi mille bambine stanno finendo la scuo-la dell’obbligo grazie al 1990 Institute.

È un’operazione volutamente al femminile, come è fem-minile tutta la classe della maestrina Li Yaping. Nelle cam-pagne cinesi la nascita di una figlia è ancora consideratauna disgrazia, tra i contadini indigenti l’infanticidio dellebambine non è ancora scomparso del tutto. I meno poveriricorrono all’ecografia e all’aborto selettivo. Le chancesche i genitori facciano duri sacrifici per pagare l’istruzionealle ragazze sono minime. Per questo Matilda e i suoi ami-ci americani concentrano gli sforzi sulle bambine.

Liu Huan, 13anni, sta finendo la scuola dell’obbligo grazie al-l’aiuto venuto dagli Stati Uniti. Lei vive proprio dentro il villaggiodi Shang Luo. Per sua fortuna, ché se abitava più lontano avreb-be già lasciato gli studi: cammina con le stampelle dopo esserestata investita da un furgone mentre portava sulle sue spalle il gra-no da vendere al mercato. È orfana di genitori, vive coi nonni set-tantenni che senza di lei non potrebbero più coltivare niente. Pri-ma e dopo la scuola, lei passa sei ore al giorno a spigolare il grano,ad allevare i maiali, lavare e cucinare per i due anziani. La casa incui vivono loro tre è una stanza sola, con il pavimento e i muri diterra. Non hanno neanche la cucina individuale, un lusso da que-ste parti: ne condividono una con altre famiglie. La giovane mae-stra Li Yaping la interroga davanti alla benefattrice cinese-ame-ricana: «Liu lo sai quanto costa la scuola?». Lei ha gli occhi pieni dipaura: «Lo so, maestra Li, costa tanto. Studierò duramente e i ri-sultati li dedico a voi». Cosa vorresti fare da grande? La domandapiù banale, quella che tutti i bambini del mondo si sono sentiti ri-volgere mille volte, sprofonda Liu Huan nell’angoscia. Resta mu-ta a lungo, lo sguardo smarrito nel vuoto, come di fronte a un pro-blema impossibile. Poi ha un’illuminazione: «Il mio sogno è di-ventare maestra e aiutare gli scolari più poveri». Forse dice la ve-rità o forse è l’unico mestiere desiderabile che ha mai visto in vitasua, diverso dal destino contadino della sua gente.

La maestrina Li in classe ha attaccato alle pareti le lettere diqualcuna che non ce l’ha fatta. «Era una calda estate di tre annifa — le ha scritto una sua ex-allieva — troppo calda. Di colpo so-no arrivate grosse nuvole nere, i lampi e i fulmini. L’acqua cade-va violenta spinta da un vento forte. L’acqua era dappertutto, lanostra casa dondolava come se stesse per crollare. Papà ci ha tra-scinate fuori, io e la mamma gli siamo corse dietro. Ma poi lui siè ricordato che in casa era rimasto lo zenzero, che avevamo rac-colto per mesi sulle montagne. Era lo zenzero che mi avrebbe pa-gato la scuola l’anno dopo. Quando papà è corso indietro, la ca-sa gli è crollata addosso. Un onda di fango li ha portati via, lui lacasa e lo zenzero. Settembre è il mese in cui gli studenti tornanoa scuola. Quando è arrivato settembre ho guardato le mie ami-che, le loro facce contente, i loro libri nuovi, e ho pianto».

La maestrina Li saluta Matilda con un filo di voce: «Per favoreracconti ai suoi amici in America quello che ha visto qui».

L’ESERCITO DEI PICCOLI DISPERSI

Ogni anno in Cina un milione di bambini abbandonano gli studi e il 15 percento torna a scuola solo grazie al sostegno delle donazioni di benefattori.Due milioni e 450 mila ragazzi tra i 15 e i 19 anni sono analfabeti: la maggiorparte vive nelle zone rurali. Qui, nelle scuole, vengono adottatidei programmi ridotti con solo 4 materie: cinese, matematica, conoscenzegenerali ed etica. La durata della scuola dell’obbligo è di 9 anni, in generedivisi tra 6 di elementari e 3 di medie nelle città, 5 di elementari e 4 di medieinvece nelle zone rurali. Le immagini di questa pagina sono del fotografoXie Hailong per la fondazione Project Hope

Rep

ubbl

ica

Naz

iona

le 3

3 15

/05/

2005

Page 8: DOMENICA 15 MAGGIO 2005 - la Repubblicadownload.repubblica.it/pdf/domenica/2005/15052005.pdfDOMENICA 15MAGGIO 2005 D Laomenica di Repubblica I gley (Virginia), quartier generale della

34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 15 MAGGIO 2005

Viaggio a Khamgoan, nel nord del Paese, dove si è celebratoun grande matrimonio di massa. Un rito collettivo e gratuitoreso possibile da una rete di beneficenza che sta raccogliendosempre più consensi e che lavora per evitare alle classi socialipovere una delle sofferenze più antiche: indebitarsiper la dote cadendo così nelle mani degli usurai

CKHAMGOAN (India)

osteggiata da colline scol-pite dal vento nelle formepiù imprevedibili, la su-perhighway Bombay-

Shirdi-Kham-goan offre unviaggio di duegiorni a balzel-loni nel tempoattraverso iluoghi dove ilDio Rama tra-scorse in esilioq u a t t o r d i c ianni prima dirivedere la suabella sposa Si-ta rapita dalcrudele re Ra-vana.

Oggi qui lagente combat-te contro unasiccità che du-ra da tre anni,e l’attesa dellasposa di Ramasimboleggial’attesa dellapioggia capa-ce di feconda-re la terra arsadal fuoco. Sia-mo nell’infer-no del Vider-bah, Mahara-shtra nordorientale, do-ve negli ultimimesi cinque-cento conta-dini si sonotolti la vita perdebiti. Ma sia-mo a Kham-goan, epicen-tro del flagello,perché pro-prio qui si ce-lebra uno deipiù grandisposalizi dimassa e gra-tuiti mai tenu-to da queste parti, un fenomeno chesta entrando nella storia moderna del-l’India con tutti i presupposti di unapiccola rivoluzione sociale: 500 le ri-chieste di unione, quasi la metà scar-tate per la minore età o per il mancatoconsenso delle famiglie, 236 aspirantisposi convolati infine a nozze.

La novità della cerimonia collettiva èche tutto — gli abiti per gli sposi, gli ad-dobbi, i primi utensili, il pasto a deci-ne di migliaia gli invitati — è stato of-ferto gratuitamente da ricchi benefat-tori alle famiglie delle ragazze cui spet-terebbe per tradizione l’incombenza,da sempre fonte di indebitamenti etragedie.

La strada nel deserto

Lungo la sottile e dissestata strisciad’asfalto, dove si schivano tumultuo-samente moltitudini di carri da buoi,trattori, pedoni e camion d’epoca, gliultimi trecento chilometri di deserto esabbia tra Shirdi e Khamgoan sembra-no condurre a nient’altro che ad altrideserti e sabbie. Poi a sorpresa, comeun miraggio, appare il corteo coloratoe senza fine di uomini, di donne, dibambini che salgono a piedi la collinadella cerimonia, dove il vento d’alturali tempesta con mulinelli di sabbia etrasporta la voce dei megafoni chediffondono hindipop, raga, slogan dipartiti e inni religiosi.

Allegri e sudati coprono il lungo trat-to in salita che li porterà al luogo dell’e-vento, dove sono già riuniti politici eburocrati e che è benedetto dal giovane(ha appena 36 anni) santone BhaiyyuMaharaj, una sorta di divinità locale vo-tata alla causa no global. Circondato daun drappello di devoti che discutonocon lui di impianti eolici e pannelli so-lari per elettrificare le campagne, il san-to scende da una grossa Range Rovercol suo abbagliante doti bianco e l’a-spetto di un attore di Bollywood. Fini-sce in mezzo a un assalto di prostrantiche gli baciano i piedi e le mani. La stes-sa cosa era avvenuta il giorno prima aShirdi dove Maharaj — nella terra del

celebre Sai Baba vissuto al modo di SanFrancesco nel secolo scorso — avevabenedetto le prime 125 coppie. Con le111 di Khamgoan arriverà a 472 il nu-mero dei nuovi sposi registrati dalla suaFondazione-parrocchia e a ben 75milala cifra degli invitati.

Tra gli oggetti donati da organizza-zioni locali di ricchi benefattori c’è unaspeciale collana dalle foglie doratechiamata Mangala Sutra, che ha peruna moglie lo stesso significato della fe-de. Da sola costa duemila rupie, quan-do un ricco contadino di Shirdi ne gua-dagna sei, settemila in unmese. Alla fine il matrimoniocollettivo salverà dunque dalcappio di un debito per la vi-ta le caste più basse di conta-dini kunbi o marathas, chepopolano queste campagneassieme ai kurta intoccabili.

Seduti coi loro abiti mi-gliori e la composta sobrietàdei gesti, tra fuochi d’artifi-cio e rulli di tamburi che an-nunciano l’evento, gli ospitie gli sposi dimenticano permolte ore la drammaticarealtà che li aspetta al di fuo-ri del recinto colorato dellacerimonia: non solo la sic-cità, ma anche il progressivoaumento dei prezzi di se-menti e pesticidi, di cementoe riso. Li farà felici per un po’il pensiero di aver risparmia-to dalle cinquanta alle cento-mila rupie per le nozze, i gua-dagni di un anno.

La differenza in tempi diglobalizzazione è che se pri-ma i debiti rendevano i con-tadini schiavi del Signore del-le Terre, ora sono gli usurai atenere in pugno le loro viteper poche migliaia di rupie, enon sanno che farsene dibraccia per lavorare le zollearide, preoccupati come so-no di investire i soldi degli in-teressi nei settori emergentidella Shining India, magarinell’alta tecnologia. Sia stato il ventoglobale che soffia sempre più forte dal-l’occidente e dalle metropoli indiane,siano state le gravi carestie degli ultimianni, un’intera comunità si è però fi-

nalmente risvegliata scoprendo cheper eliminare il problema comune ba-stava far cessare la causa a monte.Adesso in India i matrimoni collettivisono quasi una tradizione, e quello didomenica scorsa a Shirdi e Khamgoanè stato forse il canto del cigno di questonuovo corso più pragmatico sponso-rizzato dallo stesso partito progressi-sta oggi al governo.

Ma nonostante i risvolti propagan-distici, il grande anfiteatro sulla collinaaffollato di parenti commossi e di infil-trati curiosi conservava un po’ dello

spirito che in chissà qualecontesto cosmico unì Shiva asua moglie Parvati. Secondola leggenda fu la dea che ac-cettò l’unione a patto che losposo profferisse sette pro-messe di lealtà coniugale, disostegno, comprensione,amore e devozione girandoaltrettante volte attorno alfuoco Agni, lo spirito divino.

Come nelle fiction-tv se-guite da milioni di indiani,ghirlande di anemoni e petalidi rose cadono a pioggia susposi e invitati. E ancora colo-rato sindu, riso di buon augu-rio e radice medicinale di tu-meric finiscono nel fuoco as-sieme al burro fermentatoper cementare davanti a Diola promessa di mutuo rispet-to e collaborazione per que-sta e altre vite a venire. Il ma-trimonio in India è un sacra-mento che non unisce solodue anime, ma le consegna alflusso della catena ancestralestabilita dai genitori che deci-dono gli accoppiamenti.

Gli sposi ventenni Siram eSreddah, Dipab e Aruna,Arjun e Poojita, legati dai loroscialli con un nodo ben stret-to mentre girano attorno alfuoco, si dicono contenti del-la scelta fatta in nome loro.«La passione finisce dopo unpo’ e subentrano altre cose.

Sono sicuro che mia madre capisce me-glio di me se Aruna è una buona moglieo no» è l’opinione di Dharman De-smuka, un contadino che ha studiato eora coltiverà dieci ettari da solo con

l’aiuto della sposa. Secondo lui la pas-sione cieca iniziale è causa della crisi ditanti matrimoni in Occidente.

Ma il meccanico di biciclette Inder,giunto a Khamgoan su una grossa Apeassieme a tutta la sua tribù per impal-mare la timida Vaishali, racconta diaverne volute vedere altre tre di candi-

date prima didecidersi. E co-me lui molti al-tri sposi di Shir-di e Khamgoanhanno fatto lostesso, giun-gendo infine aun compro-messo tra i gustidei genitori e ipropri. Ancoraben poca vocein capitolohanno invecespose poco piùche bambinecome la minutaManisha, cheabbassa il velodel sari sul visoper piangeres o m m e s s a -mente al pen-siero di lasciarediciottenne lacasa dei genito-ri e passare il re-sto della vita trasuoceri e unmarito che ap-pena conosce.

Ma se noncambia il mec-canismo dellatrattativa perarrangiare ilmatr imonio,tutto il resto stamodificandosiradicalmentein questo gi-gante da un mi-liardo di abi-tanti, a comin-ciare da certepratiche umi-lianti e orrendeper la donna,come il dowry,

la dote obbligatoria (punita oggi perlegge) e — strettamente connesso algravoso costo dei matrimoni — l’infan-ticidio delle bambine. Questa pratica èancora in voga in alcune regioni delpaese come certe aree desertiche delRajastan, dell’Andra Pradesh o inHaryana, dove il tasso di natalità fem-minile è di 861 per 1000 maschi controla media nazionale di 933. Nell’educatoMaharashtra invece una legge ha ancheimpedito l’utilizzo delle ecografie perscoprire il sesso del nascituro, mentre lapratica del dowry è ormai consideratauna vergogna da gran parte della popo-lazione.

Le spese per la festa

La cerimonia collettiva delle 236 cop-pie di Shirdi e Khamgoan e le altre ana-loghe tenute altrove servono ora a farcrollare quest’ultimo anacronistico to-tem del matrimonio dispendioso,quando a casa manca l’elettricità ne-cessaria anche per far andare le pompedei pozzi sempre più asciutti e si faticaa sfamare tutti. Ma oggi è festa e le spo-se indiane in sari aspettano con timoree fiducia i giovani cavalieri che stannoper raggiungerle dal villaggio a dorso dimulo o in auto, per celebrare attorno alfuoco sacro la seconda fase della vita diun hindu.

Il matrimonio di massa di Shirdi eKhamgoan non è però soltanto per glihindu. Una dozzina di donne musul-mane hanno dichiarato il loro sì ripe-tendo tre volte al maulana celebrante«Accetto quest’uomo come marito», se-parate da un telo bianco che le celava al-la vista del loro uomo e del pubblico.Venti coppie buddiste invece si sono li-mitate ad ascoltare insieme nei loro abi-ti bianchi la recita dei Sutra che celebra-no le virtù della moralità e della pazien-za. Nel Paese delle stragi religiose, avve-nute non molti anni fa nel vicino Guja-rat, il mega-matrimonio di tante fedi di-segna l’India di domani. Sempre lastessa, estrema e tollerante, figlia di undio che distrugge e ricrea davanti agliocchi attoniti di tutti.

RAIMONDO BULTRINI

I VESTITI COLORATIIn queste immagini alcuni momentidella cerimonia collettivain cui si sono sposatioltre 400 giovani indiani

Ai contadini,prigionieridella siccità, le nozzeall’antica costanoil corrispettivodi un anno di lavoro

le storie/1Nuove tradizioni

I quattrocento sposiche cambiano l’India

FO

TO

GIA

NLU

CA

PU

LC

INI

Rep

ubbl

ica

Naz

iona

le 3

4 15

/05/

2005

Page 9: DOMENICA 15 MAGGIO 2005 - la Repubblicadownload.repubblica.it/pdf/domenica/2005/15052005.pdfDOMENICA 15MAGGIO 2005 D Laomenica di Repubblica I gley (Virginia), quartier generale della

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 15 MAGGIO 2005

GABRIELE ROMAGNOLI

le storie/2Volti ignoti

Ci siamo passati davanti mille volte, ma non le abbiamomai viste, gli occhi bassi sul biglietto, l’attenzione al postoassegnato dal computer. Ci abbiamo parlato, ma nonle ricordiamo: sono le cassiere delle sale. Immortalatein queste fotografie d’autore, che per la prima voltaaccendono i riflettori su chi li ha sempre avuti alle spalle

Le donne invisibili del cinema

LE FOTO DEL LIBROLe immagini di questa pagina sono trattedal lavoro di Albert e Verzoneintitolato “Le cassiere dei cinemadi Torino”, contenuto nel libro “Quotidianoal femminile” edito da Peliti e associati

porno e alla lettura dei classici a quel-la di una sala d’essai? È negli occhi dichi (talora) guarda o nella selezionefatta dai gestori?

A ciascuno la sua

Facciamo qualche esempio, ambien-tato a Roma. Pasquino multisala, spe-cializzata in pellicole in lingua origi-nale: la cassiera o è un’africana oppu-re una ragazza con l’aria vagamentepunk come fosse appena rientrata daManchester e in procinto di tornarci.Adriano multisala, proprietà CecchiGori, neon colorati e pellicole di faci-le consumazione: cassiere genere fastfood, giovani e a rotazione continua,presumibilmente co.co.co. Nuovo ci-nema Sacher, proprietà Nanni Moret-

ti, programmazionealternativa: cassieranon definibile altri-menti che “moret-tiana”. Anche il tipodi civiltà influisce:solo cassieri maschin e i c i n e m a d e lGolfo, mentre a NewYork l’acquisto delbiglietto è racco-mandato via telefo-no, utilizzando la ta-stiera e dialogandocon la voce registratadi Mister (non Miss)Movie Phone. Tre ta-sti per scegliere ilfilm, il quartiere, l’o-rario, nessuna possi-bilità di avere qual-che anticipazionesulla trama, comesperava chi telefo-nava alla cassiera,giustamente diffi-dando del giornale.Magari rispondeva,ma che cosa davverosuccedesse sulloschermo non lo sa-peva. Proiezionista emaschera almenoassistono, la cassie-ra, fuori. Eppure de-ve esistere un modo

per redimerne la storia, uno spiragliocapace di allietare perfino la cassierache agli autori di queste foto chiese:«Non è che mi potete trovare un altrolavoro?». E non basta ricordare cheuna cassiera al cinema entrò grazie alfiglio attore, Franco Fabrizi, scelto daFellini per I Vitelloni. Né basta riesu-mare dalla storia della pittura la don-na chiamata Volga, ritratta da TonioZancanaro nel ‘39, con il baverospruzzato di neve, primo amore del-l’artista e cassiera di cinema. Occorredi più, bisogna tornare da dove si èpartiti: in America.

Nell’estate del 1940 Jodie Attawayera una bella ragazza del Texas. DiLongview, per l’esattezza. Sognava diviaggiare, andare lontano, magari aNew York, o in California, possibil-mente, a fianco dell’uomo della suavita. Nell’attesa, faceva la cassiera alcinema del posto e, mentre la genteera in sala, ascoltava la piccola radiotransistor: non il programma musica-le, seguiva le partite di baseball, legadel Texas. In realtà di fuori campo eterza base non le interessavano gran-ché, le piaceva la voce dell’uomo cheli raccontava. La stazione si chiamavaKCRO, il radiocronista Jerry Doggette, in qualche modo, le faceva sembra-re un inning un’avventura. Chi vin-cesse era, alla fine, secondario.

Il lieto fine di Jodie

Una sera di luglio, una di quelle in cuiperfino il baseball riposava, Jodie eraal suo posto di lavoro e smerciavabiglietti più veloce che poteva.All’improvviso si fermò, la voce cheaveva detto “Uno”, poi “platea” o“galleria”, la inchiodò. Alzò gli occhi eanche Jerry Doggett rimaseimmobile, colpito. Tornò il giornodopo, allo spettacolo pomeridianoperché la sera c’era la partita. E quellodopo ancora. Si sposarono quellostesso anno. Lui divenne la voce deiDodgers (insieme a Vin Scully, cosìfamosi che hanno dato il nome agliagenti di X-Files). Si trasferirono aNew York, poi, seguendo il destinodella squadra, a Los Angeles. Visseroinsieme per 57 anni. Al funerale diJerry la ex cassiera prevedibilmente,ma con motivato orgoglio, disse: «Lanostra vita è stata un bel film».

Il 30 gennaio del 2004 nella cittàdi Hillsborough, North Caroli-na, di fronte alla cassiera di unalocale multisala cinematogra-fica si presentò, all’ultimospettacolo, un uomo che mo-

strò la pistola e chiese sussurrandol’incasso. La cassiera obbedì. Il rapi-natore intimò di fare in fretta: la follaalle sue spalle cominciava a spazien-tirsi. La cassiera consegnò tutto quelche c’era. Il rapinatore portò la pisto-la alle labbra e ce la tenne per un se-condo, prima di riporla nella tasca delgiaccone: era il suo modo di ordinaresilenzio. Si allontanò dal cinema. Lepersone in fila si stupirono che aves-se impiegato tanto per poi non entra-re in sala, ma non notarono nulla distrano, pagarono iloro biglietti ed en-trarono. Nessuno siaccorse che la cas-siera tremava neldare il resto, nessu-no vide il fermo im-magine dello spa-vento nello schermodei suoi occhi.

L’episodio serve adimostrare una co-sa: nessuno guardauna cassiera di cine-ma (e, scopriremoalla fine, può perde-re molto). Nel luogodove andiamo pervedere trascuriamodi osservare la per-sona che sta sulla so-glia. Davanti a lei ab-biamo gli occhi bas-si sul biglietto, sulloschermo computerche indica il posto,sulle monete che civengono restituite.Non bastasse la rapi-na nel North Caroli-na, una prova ulte-riore dell’invisibilitàdelle cassiere la for-niscono le fotografiepubblicate in questapagina. Sono statetutte scattate in cinema di Torino. Peranni sono entrato e ho acquistato il bi-glietto a ognuna di queste casse. Avreipotuto affermare sotto giuramento dinon aver mai visto nessuna delle don-ne, che qui appaiono come dipinte daAndy Warhol su un fotogramma di SixFeet Under. Queste immagini e la lun-ga didascalia che le accompagna sonoun tentativo di mettere sotto i rifletto-ri chi li ha sempre avuti alle spalle. O,quando li ha avuti per sé, ha dovutorimpiangerlo.

Nella parte delle vittime

Se, per caso, in una versione al contra-rio de La rosa purpurea del Cairo, unacassiera viene invitata ad alzarsi dalsuo banco ed entrare nella pellicola,va a fare una brutta fine. Accade, perdire, nel film di Bigas Luna L’angoscia.Due ragazze vanno a vedere un horrorintitolato The Mommy. L’assassinoseriale agisce nei cinema. Le spettatri-ci si spaventano, sentendo la minac-cia proiettarsi dallo schermo sulla sa-la. Si rifugiano in bagno e qui scopro-no l’omicida mentre massacra la suavittima: la cassiera del cinema. Muoreanche l’ambigua cassiera in Final-mente domenica di Truffaut. E in quel-lo che è considerato uno dei capola-vori segreti del cinema orientale,Goodbye Dragon Inn di Tsai MingLiang, la cassiera, dopo aver addenta-to un’arrostita chiappa di porco, la-scia il suo posto per intraprendereuna lunga (dieci minuti), ipnoticacamminata nel corridoio di un cine-ma popolato da fantasmi che ne sim-boleggia (forse) il passaggio nell’al-dilà. Più indolore (non dal punto di vi-sta di una qualche morale) il passag-gio allo schermo di Anne Sprinkle, no-me d’arte di una giovane russa, nota-ta dal regista Gerard Damiano allacassa di un cinema porno e lanciatadall’altra parte con Deep inside AnnieSprinkle (In fondo a Annie Sprinkle),apertura di una ventennale carriera. Equi si introduce un secondo elementodi valutazione: nel raro caso in cuiguardiamo la cassiera subiamo un ef-fetto ottico dovuto al tipo di cinemadove ci troviamo? Come Gerard Da-miano ci viene spontaneo attribuireuna naturale disposizione all’esibi-zionismo alla cassiera di un cinema

Nella finzionecinematografica,se per caso unacassiera viene

fatta alzareper entrare

in una pellicola,di solito

fa una bruttafine. Nella

realtàrispecchianoquasi sempre

le caratteristichedella sala

Page 10: DOMENICA 15 MAGGIO 2005 - la Repubblicadownload.repubblica.it/pdf/domenica/2005/15052005.pdfDOMENICA 15MAGGIO 2005 D Laomenica di Repubblica I gley (Virginia), quartier generale della

i luoghiIsole e scrittori

Corsicai camposanti segreti

peratore. Dunque ci siamo, anche Na-poleone è arrivato al capolinea, e cosìpossiamo ritornare al vero tema delviaggio dello scrittore tedesco, indicatodal titolo del libro: per l’appunto, Cam-po Santo.

Nello specifico, quello che Sebald vaa visitare e di cui riferisce nel secondocapitolo si situa a Piana, splendida loca-lità marina celebre per le Calanche, dicui così scrisse uno stupefatto Maupas-sant nel suo romanzo Una vita: «Parti-rono al levar del sole e presto si ferma-rono davanti a una foresta di granitopurpureo. Erano picchi, colonne, gu-glie, immagini sorprendenti modellatedal tempo, dal vento roditore e dallanebbia marina. Alte fino a trecento me-tri, sottili, rotonde, contorte, adunche,difformi, imprevedibili, fantastiche,quelle rocce stupefacenti sembravanoalberi, cespugli, bestie, monumenti,uomini, frati con la tonaca, diavoli conle corna, uccelli smisurati, tutta una po-polazione mostruosa, un serraglio daincubo, pietrificato dal volere di qual-che Dio stravagante».

Credetemi, non c’è nessun svolazzoletterario, le cose stanno proprio così: lospettacolo naturale offerto dalle Calan-che è a cavallo tra lo stupefacente e l’in-quietante, cosa non infrequente in Cor-sica. Non è né stupefacente né inquie-tante, invece, il cimiterino di Piana, unluogo desolato dove la presenza arbo-rea — nell’isola straripante ogni dove,con decine di specie diverse — stavoltanon si manifesta neanche con un stri-minzito cipresso. Se Dio vuole però èl’altrettanto straripante macchia medi-terranea (mirto, cisto, ginestra, rosma-rino, lentisco, corbezzolo) a colorare eprofumare le tombe del cimitero, so-pendo almeno in parte la tristezza infi-nita dei fiori di nylon e dei cuscini di fio-ri in ceramica delle diverse tombe, a cuisi accompagnano curiose targhe inmarmo dove la nipote ricorda la nonnamorta omaggiandola con la figurina diuna sedia a dondolo e relativo bastoneda passaggio, i compagni di caccia deldefunto con l’immagine di un cacciato-re assieme al suo cane e i compagni dilavoro del fu marinaio con relativa bar-chetta.

Sin qui, ripeto, niente di memorabi-le. Ma qualcosa di più sorprendentecattura l’attenzione di Sebald e conse-guentemente la mia. Ovvero le date dimorte che compaiono sulle tombe deivari Spinosi, Luciani, Barbagelata, Cec-caldi, Grimaldi, Casabianca (cognomiche indicano nel modo più evidente laprossimità con casa nostra): non si vamai più in là di sessanta-settant’annifa. In quel di Piana, dunque, esiste unaltro cimitero, precedente a questo?

Assolutamente no. La ragione è un’al-tra: in barba alla legge, guarda tu, pro-prio napoleonica, che nel 1804 istituti-va la creazione dei cimiteri, i còrsi han-no pensato di seppellire altrimenti i lo-ro morti. E questo è avvenuto lungo tut-to l’Ottocento; ma anche oggi, a giudi-care da certi racconti, più d’unocontinua a seguire l’antica tradizione.Una tradizione che richiedeva per ilproprio riposo eterno la collocazioneall’interno del terreno di famiglia, neiposti più spettacolari dell’isola (non èdifficile, sono un’infinità) e nel caso deipiù ricchi dentro pantheon costruitiper l’occasione.

Non so perché ma ho la sensazioneche la pista offerta da Sebald, il culto deimorti, possa offrire una chiave insolitae interessante per accostare quest’iso-la, che al visitatore italiano si offre con-tinuamente in una duplice, oppostaveste: da un lato si respira aria di casa(tanta Pisa e Genova e Sardegna; nellechiese, nella lingua, nella natura),mentre dall’altro sembra invece di pre-cipitare in un altrove tanto più indefi-nibile perché mai e poi mai minima-mente esotico.

Decido di fare con calma il punto del-la situazione fermandomi in un alber-go di Piana che incarna il sogno di ogniviaggiatore: vecchio, démodé, terrazzasul golfo da strappare l’applauso, otti-mo cibo di mare e montagna. In attesadella cena ordino un bicchiere di mo-scato (che ben presto si moltiplica perdue e per tre e per quattro) e metto ma-no alla mia mini-biblioteca còrsa, com-posta di libri vecchi e nuovi: una Guidede la Corse mystérieuse, Le voyageur deCorse di Jean Noaro, Amor di Corsica diStefano Tomassini, Mazzeri, Finzioni,Signadori di Dorothy Carrington, Motset Mythes di Max Caisson, La chansonpopulaire de l’Isle de Corse di Austin deCroze, Voyage en France di ArdouineDumazet.

Ciascun autore ha le sue idee, e spes-so sono divergenti l’una dall’altra, masvariati spunti che leggo qua e là mi aiu-tano a mettere meglio a fuoco le primeimmagini di viaggio che ho accumula-to. Ora, che da queste parti il culto deimorti sia sempre stata una cosa seria losi capisce da subito: basta mettere aconfronto l’architettura abitativa(semplice fino all’anonimato) con lecappelle mortuarie che si vedono lun-go le strade, alcune monumentali, altrepiù modeste, ma comunque con un co-stante tasso di fantasia in più. In ag-giunta lo stesso Sebald racconta che ifunerali erano cerimonie di intensadrammaticità, molto elaborati e lun-ghi, quindi costosi, tanto che se la ma-lasorte (o magari il banditismo e la logi-

ca della vendetta) determinava diver-se, ravvicinate dipartite, la famiglia po-teva andare incontro alla rovina econo-mica. E proprio quando si era in pre-senza di un morto ammazzato assume-vano un ruolo fondamentale le «voce-ratrici», delle professioniste che, traisterismi corporei e un assoluto geloemotivo, invitavano i parenti a vendi-carsi dell’affronto subito: «Di sanguesentu una sete/Di morte sentu una bra-ma».

Oggi di «voceratrici» non c’è più trac-cia; in compenso sembrano essere inuna fase di nuova fioritura le confrater-nite religiose, ben sessanta su seicento-sessanta comuni dell’isola, a volte mi-nuscoli. Un tempo le confraternite ave-vano una precisa funzione sociale (l’as-sistenza dei malati o delle persone so-le), ora costituiscono un legame identi-tario quanto mai facile e immediato delpopolo còrso, soprattutto attraverso icori. Le confraternite vivono il loro mo-mento di massimo fulgore nel periodopenitenziale della Settimana Santa edurante l’anno sono sempre più richie-ste per accompagnare con i loro canti ildefunto nel corso del suo ultimo viag-gio.

Non sono particolarmente ben vistedalla Chiesa e ne ho avuto la puntualeconferma incontrando in quel di Car-gese l’archimandrita Florent Marchia-no, la cui storia è a suo modo straordi-naria. A Cargese vive da oltre due seco-li una piccola comunità greca con rela-tiva chiesa cattolica di rito bizantino. Difronte ad essa, sempre sul mare e al di làdi generosi orti punteggiati da cactus,aranci, fichi e palme, c’è un’altra picco-la chiesa cattolica di rito latino. Svaria-ti decenni fa arriva qui dall’Italia mon-signor Marchiano, che in teoria do-vrebbe fermarsi appena una settima-na, mentre in realtà rimane fino ad og-gi, officiando messa — grazie ad un’ap-posita dispensa papale di Paolo VI — inentrambe le chiese: una domenica inquella di rito bizantino, una domenicain quella di rito latino.

La storia mi affascina e mi piacereb-be approfondirla, ma l’uomo è ispido,poco suadente. O forse individua nelsuo interlocutore nient’altro che unoscocciatore ignorante. Trova soltanto iltempo per dirmi che le attuali confra-ternite hanno ben poco a che vederecon la dottrina della Chiesa. I loromembri si vedono soltanto durante laSettimana Santa, mai nel corso dellemesse domenicali. In qualche modo ri-flettono, conclude, la religiosità emoti-va e infantile dei còrsi, che spesso scon-fina nel folklore.

Davanti al tramonto di Piana che stainfiammando di un rosso vinaccia le

FRANCO MARCOALDI

AJACCIO

Seduto su un pezzo di roccia(vera) di Sant’Elena, a caval-lo di un dromedario, assisosul tamburo di una caraffa inceramica, in cima alle scale

di una minuscola statuetta di avorio: sevolete vedere Napoleone Bonaparte intutte le salse, fogge, dimensioni e mate-riali venite al piano terra del museo Fe-sch e nella casa natale di Ajaccio, di cui ituristi — in particolare francesi, natu-ralmente — vanno ghiotti.

Lo troverete rappresentato o indiret-tamente richiamato su tazze di porcel-lana, tovaglie, coltelli in madreperla, pi-pe, medaglioni, boccette di profumo,portamonete, cavaturaccioli, scatole inlegno a forma di cappello bicorno, por-tagioie in argento, busti, ventagli. Sen-za contare i frammenti di tessuto e ter-racotta provenienti dalla casa natale,adeguatamente infiocchettati come al-trettante reliquie, e ancora le diverse ar-mi e divise utilizzate nel corso di unastrepitosa carriera militare, i ritratti pit-torici, i modellini delle navi su cui il No-stro ha navigato, le pagine di musica alui dedicate. Sì, a giudicare da questoimmenso bric-à-brac ottocentesco sidirebbe che Napoleone è il primo per-sonaggio della storia (e pour cause) sucui si è incentrato un vero e propriomercato di oggettistica e materiale reli-quiario. Infinitamente più interessantee ricco dei miseri soldatini napoleonicidi oggi che si possono trovare nel book-shop della casa museo.

Serraglio pietrificato

Non a caso anche il mio anfitrione, loscrittore tedesco W. G. Sebald, che pocoprima di morire stava mettendo mano aun libro di viaggio sulla Corsica di cui iprimi capitoli sono appena comparsi inInghilterra nel libro Campo Santo (Ha-mish Hamilton), comincia da qui la suavisita nell’isola. Pagando da subito il ne-cessario pedaggio ad Ajaccio — la cittàmeno còrsa della Corsica, come scrive laguida del Touring — e al suo più celebrenativo, che, dopo una cotta giovanileper il padre dell’autonomismo isolano,Pasquale Paoli, sarà preso da ben altriproblemi di ordine imperiale.

Ma prima di abbandonare la casa na-tale di Napoleone c’è un’ultima stanzache vale la pena visitare. A fianco di unincredibile albero genealogico della fa-miglia Bonaparte composto di capelli(sic!), secondo un procedimento chepare fosse molto alla moda durante il re-gno di Luigi Filippo, ecco la mascheramortuaria e la corona funeraria dell’im-

36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 15 MAGGIO 2005

MARE E ROCCIAIn alto, veduta da Capo Corso.Sotto, da sinistra,il cimitero dell’isoladi Lavezzi, le calanchedi Piana, il porto di Ajaccio,le calanche della riservadi Scandola, la chiesadi San Michele di Murato

Da Ajaccio a Capo Còrso seguendo la traccia del libro diWinfried George Sebald: i bizzarri cimiteri, più fantasiosie ricchi dei loro villaggi; le straordinarie, ancestralicerimonie funebri; l’usanza di seppellire i morti nei terrenidi famiglia. Per scoprire l’anima nascostadella gentedi questo spettacolare “sasso posato nel Mediterraneo”

Torna la leggendadei “mazzeri”,strane figure che dinotte ammazzavanogli animali incontratiper via, controfiguredei compaesanidestinati a morire

Rep

ubbl

ica

Naz

iona

le 3

6 15

/05/

2005

Page 11: DOMENICA 15 MAGGIO 2005 - la Repubblicadownload.repubblica.it/pdf/domenica/2005/15052005.pdfDOMENICA 15MAGGIO 2005 D Laomenica di Repubblica I gley (Virginia), quartier generale della

sue immaginifiche sculture naturali,ripenso alle secche parole di monsi-gnor Marchiano, che peraltro rafforza-no ulteriormente la legittimità della pi-sta tracciata da Sebald. È venuto il mo-mento di mettersi in marcia, per rag-giungere il nord, capo Còrso, dove daquello che ho letto mi attendono letombe più sorprendenti e l’incontrocon Christian Andreani, un singolarepersonaggio polimorfo: fotografo, et-nografo, appassionato di musica po-polare, e membro a sua volta della con-fraternita di San Martinu, in quel di Pa-trimonio.

Il viaggio per raggiungere il nord èbreve, circa tre ore, ma è un vero viag-gio. Ieri, davanti a una strepitosa gior-nata di sole, mi era venuta la voglia di fa-re un bagno in mare in anticipo sullastagione; oggi, in montagna, devo rin-graziare la provvidenziale presenza diuno spazzaneve, se ho modo di passa-re indenne in mezzo a una ricca nevi-cata. E ho così modo di raffigurare pla-sticamente cosa significhi in quest’iso-la la potenza della natura e degli ele-menti, collante primo e irrinunciabiledell’identità còrsa, al di là di qualunquenazionalismo e a dispetto di qualun-que globalizzazione. Ora mi è più chia-ro cosa intendesse dire il mio alberga-tore quando ieri affermava che soltan-to partendo da qui, da questo «sassoposato nel Mediterraneo», per usarel’espressione di Saint-Exupéry, si capi-sce come malgrado invasioni, migra-zioni, turismo e quant’altro, ci sia qual-cosa, al fondo dell’isola, di incancella-bile: «È la Corsica a fare i còrsi, non vi-ceversa».

Un prete per due chiese

Nel frattempo ho lasciato alle spalle lamontagna e tramortito dai profumidella macchia sono giunto ancora unavolta in prossimità del mare e di quelcapo Còrso che è famoso tra l’altro peri suoi vini, vini che in qualche modo fu-rono all’origine del moderno autono-mismo còrso, come è suggellato dall’e-pisodio di Aléria, dove nel 1975 la canti-na di un pied-noir venne occupata da uncommando di autonomisti, che accusa-vano lui come più in generale quei fran-cesi d’Algeria venuti in Corsica come vi-ticultori, grazie ad aiuti statali, di pro-cessi di vinificazione fraudolenta. Furo-no anni duri, mi dice la moglie di Antoi-ne Aréna, uno dei migliori vignaioli del-la zona, ma adesso le cose si sonorimesse nel verso giusto. E il vino còrso ènuovamente (e giustamente) apprezza-to dal mercato internazionale. Anch’io,a mia volta, faccio un bel carico di mo-scato e vino bianco gentile, dopodichèarrivo finalmente a Patrimonio.

In chiesa mi attende Christian An-dreani, alla testa del coro della confra-ternita di San Martinu: una decina dipersone di ogni ceto ed età, con le faccetipiche di tutti i còrsi, cittadini, campa-gnoli o montanari che siano: facce ter-ragne, arcaiche, veraci.

Christian mi riempie di libri e docu-menti, suona per me i più diversi stru-menti isolani, mi offre salumi, formaggie vini, mi racconta storie antiche e sem-pre presenti. Come quella dei «mazze-ri», strane figure a cavallo tra lo scemo dipaese e lo sciamano, che di notte si libe-ravano dei loro corpi e obbedendo aun’irresistibile compulsione ammaz-zavano degli animali incontrati per via(cani, gatti, maiali, volpi, mucche) nelmuso dei quali compariva all’improvvi-so l’immagine di un loro compaesano,destinato, proprio per questo motivo,ad una immancabile e subitanea morte.

Poi Christian ritorna sul significatopiù profondo del seppellimento del de-funto nella propria terra: era il modo piùchiaro per stringere un patto di inalie-nabilità della proprietà con i discen-denti, per far sì che la sua presenza con-tinuasse a circolare quotidianamentetra i vivi che potevano chiedergli consi-gli sul modo migliore di procedere negliaffari dell’esistenza.

È giunto il momento di fare un giroper vedere le tombe più belle, qui, nellazona della Corsica dove i cosiddetti«còrsi americani», mi dice Christian,«tornavano a morire dopo aver fatto for-tuna in Costa Rica, Venezuela, Argenti-na». Ed eccole allora queste curiose co-struzioni, da sole o in gruppo, che conmaggiore o minore discrezione si ri-chiamano al gotico e al barocco, al pal-ladiano e al neoclassico, senza contarele incursioni nel mondo islamico. C’èaddirittura uno studioso che si è si è pre-so la briga di definire le diverse e distin-te tipologie: la cappella, il monumento,l’esedra, il baldacchino, il pantheon, lacripta.

«Era così un tempo», dice Christian,«ma anche oggi, a dispetto della legge,alcune persone desiderano e ottengonodi essere sepolte nel proprio terreno.Dalle costruzioni megalitiche in avanti,il legame tra vita e morte, qui, è fortissi-mo. E non ha niente di cupo, di malin-conico. È l’insegnamento costante cheviene dalla terra dura e aspra in cui vi-viamo. La cosa, vista da fuori, può anchestupire. La zia di una mia amica raccon-tava di come gli italiani occupanti, altempo dell’ultima guerra, a proposito diquesta usanza plurisecolare le dicesse-ro meravigliati: voi còrsi seminate imorti come fossero patate. E lei rispon-deva: non ci trovo nulla di strano. Dallaterra veniamo e alla terra ritorniamo».

‘‘

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 15 MAGGIO 2005

“Perciò di paese in paese si trovanodappertutto piccole dimore per imorti: tombe e mausolei, qui sotto uncastagno, là in un boschetto di ulivipieno di luci mobili e ombre, nelmezzo di un’aiuola di zucche, uncampo d’orzo”’

“Le porte e le finestre della casa cheaveva subito la sventura erano chiusee a volte l’intera facciata era dipintadi nero. Il cadavere, lavato e rivestito,o nel caso di una morte violentalasciato tutto insanguinato, era inmostra nella stanza”

“Le donne, altrimenti condannateal silenzio, assumevano il ruoloprincipale, cantando lamenti e nenietutta la notte, strappandosi i capellie ferendosi il volto come le anticheFurie, in particolare quando il corpoera quello di un uomo assassinato”

da CAMPO SANTO di W. G. Sebald

FO

TO

CO

RB

IS/C

ON

TR

AS

TO

Rep

ubbl

ica

Naz

iona

le 3

7 15

/05/

2005

Page 12: DOMENICA 15 MAGGIO 2005 - la Repubblicadownload.repubblica.it/pdf/domenica/2005/15052005.pdfDOMENICA 15MAGGIO 2005 D Laomenica di Repubblica I gley (Virginia), quartier generale della

dalla Heerstrasse, in un quartiere ele-gante di Berlino Ovest, mentre le suedue bimbe giocano allegre in giardino.«Poi il regime di controllo confinario di-venne molto più efficiente e severo. Ladisperazione spinse la gente dell’est al-l’ingegno. E i giovani di Berlino Ovest adatti di coraggio, in nome della solida-rietà. Sono queste le storie che ho cerca-to di narrare».

Al museo di Bernauerstrasse foto edocumenti ricordano quei giorni terri-bili. Ecco i gendarmi dei Kampfgrup-pen, la famigerata milizia operaia delregime, a presidiare il lato est della Por-ta di Brandeburgo, col mitra sovietico atracolla. «Patriotische Erziehung-Ord-nung und Disziplin», cioè «educazionepatriottica-ordine e disciplina», recitaquasi nazista lo slogan alle loro spalle.Ecco le foto degli anziani che saltano dai

balconi del lato ovestdei vecchi palazzi diBernauerstrasse. Ol’immagine leggen-daria di ConradSchumann, il giova-ne soldato dei Voposche in un momentodi distrazione deisuoi commilitonibalza sul filo spinatoe passa a ovest.

«Presto venne ilpeggio, presto la li-nea di separazionetra le due Berlino fue r m e t i c a m e n t echiusa e presidiatadalle autorità confi-narie comuniste»,spiega MarionDetjen. «E allora ac-cadde l’imprevisto,l’impossibile: allaFreie Universitaet ealla Technische Uni-versitaet, i due ateneidi Berlino Ovest, si

formarono piccoli gruppi spontanei di“Fluchthelfer”, gente che aiutava a fug-gire. Erano quasi sempre solo studenti:abbastanza giovani da affrontare il ri-schio con incoscienza, il più delle voltesenza legami familiari o affettivi a fre-narli davanti al pericolo».

Piccoli gruppi spontanei, il più dellevolte di tre o quattro persone. Piccoligruppi in contatto sporadico tra loro.Quello dei Fluchthelfer fu un movi-mento giovanile di base, coraggioso emosso da buoni sentimenti. Un movi-mento senza miti e senza capi, sette an-ni prima del Sessantotto. Un movimen-to che la famigerata Stasi, la Gestaporossa di Berlino Est, cominciò subito aschedare nei suoi dossier. Dice un rap-porto Stasi del settembre 1961: «I nemi-

ci del socialismo, i trafficanti d’uomini,si annidano soprattutto nelle due uni-versità del settore ovest, tra le organiz-zazioni giovanili democristiana e so-cialdemocratica, nelle Chiese, nelle ra-dio di Berlino Ovest, nei circoli studen-teschi».

Mimmo Sesta e Gigi Spina furonodall’inizio nel movimento senza eroi nécapi. «Mimmo — narra Maria Nooke —studiava Architettura, Gigi storia del-l’arte. Avevano amici di Berlino Est tra icompagni di studi, li perdettero quan-do col muro quei giovani non poteronopiù venire a studiare all’Ovest. Uno de-gli amici di Gigi aveva moglie e un bim-bo nel settore comunista». Il gruppo diMimmo e Gigi costruì per loro e permolti loro parenti e amici il cosiddettoTunnel 29, dal numero di persone cheriuscirono a scapparvi. Si scavava dinotte, senza particolari conoscenzed’ingegneria delle gallerie, rischiandocrolli o allagamenti. Il tunnel 29 fun-zionò solo due giorni. La Stasi poi lo sco-prì, ma troppo tardi. Nel mondo liberodivenne famoso come «tunnel dellaNbc», perché il network tv americano viriprese sequenze delle fughe, e dopol’abbandono del tunnel mostrò al mon-do cosa voler dire cercare scampo dalcomunismo.

In tutto, attraverso i tunnel scavati daigruppi di studenti, riuscirono ad appro-dare alla libertà circa 50mila berlinesi

LA COSTRUZIONELa mattina del 13 agosto 1961cominciano i lavori di edificazione

I MOVIMENTISubito dopo la costruzione, i giovanidelle università di Berlino ovest siorganizzano per facilitare le fughe

LA REPRESSIONEAi poliziotti viene dato l’ordine disparare a chiunque tenti la fuga

LA CADUTAIl 9 novembre 1989 i dirigenti dellaRepubblica democratica tedescariaprono le frontiere: fine di un’era

LE TAPPE

L’esodo sotterraneo dalla zona Est della capitale tedesca: a raccontarela genesi del “movimento degli scavatori”, quei gruppi di studentiche aprirono le gallerie attraverso le quali oltre 50mila berlinesi

raggiunsero l’occidente, sono due donne, Marion Detjen nel suo lavoro di dottoratoche a settembre uscirà in volume e Maria Nooke, direttrice del Museo del Muro

38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 15 MAGGIO 2005

BERLINO

Ci furono anche due stu-denti italiani a BerlinoOvest, Mimmo Sesta e Gi-gi Spina, tra gli eroi scono-sciuti della Grande Fuga.

Si scappava saltando sui reticolati, lan-ciandosi dalle case di Bernauerstrasse,la strada dove la linea di confine del Mu-ro della Vergogna passava attraverso ipalazzi: portone principale a est, portesecondarie, balconi e finestre a ovest.Oppure, molto spesso, si fuggiva versola libertà scavando di nascosto tunnelsotto il Muro. L’esodo a rischio da Berli-no Est, dopo che la dittatura di WalterUlbricht ed Erich Honecker aveva ordi-nato di blindare il confine, fu un’avven-tura infinita, degnadi un copione hol-lywoodiano. Oggiquel copione, con ri-gore di studio scien-tifico ma con lo stileavvincente d’un ro-manzo di Le Carré odi Clancy, lo ha scrit-to una giovane, bellastorica berlinese diappena 35 anni, Ma-rion Detjen. Il suo la-voro di dottoratouscirà in settembrecome volume conl’editrice Siedler. EinLoch in der Mauer —die Fluchthilfe im ge-teilten Deutschland1961-1989, cioè “Unbuco nel Muro —l’aiuto alle fughe nel-la Germania divisatra il 1961 e il 1989”,s’intitola l’appassio-nante resoconto diFrau Doktor Detjen.Un’altra donna di talento, MariaNooke, direttrice del Museo delle fughee del Muro che sorge al numero 111 diBernauerstrasse, ha contribuito. E conl’uscita del libro che si avvicina, la Ger-mania riunita rivive uno dei capitoli piùdolorosi della sua Storia.

La costruzione del Muro fu un attobrutale, improvviso: così il 13 agosto1961 la dittatura dell’est volle arginare lafuga in massa delle élites e degli operaipiù qualificati verso la Germania libera.«Nei primi giorni e settimane dopo il 13agosto era ancora possibile scavalcare ireticolati, o passare da est a ovest attra-verso i cortili di Bernauerstrasse, la stra-da a ridosso del nuovo confine», mi rac-conta Frau Doktor Detjen. Parliamo nelsalotto della sua bella villetta a un passo

Tunnellibertàdella

La lunghezza complessiva del Murodi Berlino, che era alto 3,6 metri

166 km

I metri di filo spinato stesi,per scoraggiare i tentativi di fuga,lungo il perimetro del Muro

450mila

Le lastre di cemento armato usateper evitare l’arrampicamento

45mila

Le persone fuggite dall’est all’ovestdella Germania tra il ‘49 e il ‘61prima della costruzione del Muro

2,6 mlnIan McEwan

Si trovarono in unasezione del tunnel

illuminata a giorno,pulita e ordinata.Dall’alto si udivail frastuono deltraffico sullaSchönefelder

Chausse

da LETTERA A BERLINO

‘‘

ANDREA TARQUINI

Berlinola vera storia della Grande Fuga

Rep

ubbl

ica

Naz

iona

le 3

8 15

/05/

2005

Page 13: DOMENICA 15 MAGGIO 2005 - la Repubblicadownload.repubblica.it/pdf/domenica/2005/15052005.pdfDOMENICA 15MAGGIO 2005 D Laomenica di Repubblica I gley (Virginia), quartier generale della

GLI AEREITra i mezzi di fuga c’erano i piccolivelivoli (nella foto un monoposto)

LE BORSEI bambini venivano spesso espatriatinelle borse: nella foto, la ricostruzioneesposta al museo Checkpoint Charlie

I SOMMERGIBILINella foto, uno dei piccoli sottomariniusati per attraversare il fiume Sprea

LE AUTOI vani segreti ricavati nelle auto (foto)erano uno dei metodi più diffusi perattraversare il Muro di Berlino

I TRUCCHI

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 15 MAGGIO 2005

dell’est in pochi mesi. Almeno quindicifurono i tunnel più grandi, altre gallerieerano così piccole che vi si procedevacarponi. Altre finirono allagate, altre fu-rono scoperte dai Vopos, i gendarmi diUlbricht con l’ordine di «sparare anchecontro bambini, cani e gatti domestici»,o da delatori. Le autorità occidentali tol-leravano il movimento degli studenti-scavatori con simpatia, ma anche conimbarazzo: ogni incidente di frontieranella guerra fredda poteva trasformarsinel rischio di far scoppiare la terza guer-ra mondiale. E il rischio fu gravissimoquando le truppe confinarie comunistescoprirono il Tunnel 57 (anch’essochiamato così dal numero di fughe riu-scite). Gli ultimi fuggiaschi scapparonocorrendo nella piccola galleria, i milita-ri comunisti li rincorsero nella confu-sione sparando. Le pallottole dei Kala-shnikov colpirono a morte un soldato. EBerlino Est cercò di avvalorare la tesimenzognera di un omicidio di un sol-dato da parte dei “provocatori” occi-dentali. Nel marzo ‘62, un altro tunnelimportante lo scavò Harry Seidel, cam-pione olimpionico di ciclismo dellaDdr, fuggito in Occidente pochi mesiprima. E portò via moglie, figlia e alcuniamici.

Ma non furono i tunnel l’unica armanon violenta dei gruppi giovanili di aiu-to alla fuga. Nelle due università di Ber-lino libera, i ragazzi si organizzarono in-

sieme a studenti di altri paesi occiden-tali. Soprattutto per procurare gli “og-getti esotici”, cioè, nel gergo del movi-mento, i passaporti falsi di altri paesiNato o neutrali. Studenti norvegesi,olandesi, francesi, danesi, belgi si mo-bilitavano per fornire con precisione lamerce necessaria: passaporti con fotodi persone giovani o anziane, grasse omagre, bionde o brune, abbastanza so-miglianti ai tedeschi dell’est decisi afuggire. Poi venivano a Berlino Ovest,passavano il Muro verso est con i passa-porti in tasca, e li distribuivano ai desti-natari del soccorso. Il gruppo di “forni-tori di oggetti esotici” attorno a DetlevGirrmann, Dieter Thieme e Bodo Koeh-ler riuscì così a organizzare con succes-so oltre mille fughe.

Altri cittadini di paesi occidentali ri-schiavano anche più grosso. Divennemitico un medicoitaliano, che volleconservare l’anoni-mato: nel portabaga-gli della sua fiam-mante, rossa Alfa Ro-meo portò a Berlinoovest prima una ra-gazza, poi i suoi geni-tori. Il colmo della ge-nialità da film e delcoraggio fu quellod’un gruppo di berli-nesi dell’est, che nelsettembre 1961 era-no già in contatto dasettimane con i lorosoccorritori dell’ove-st. L’occasione dellafuga fu un funerale: iltunnel scavato daglistudenti arrivavadietro un cespuglionel terreno del cimi-tero di Finkstrasse, aBerlino Est. Fuggiro-no in cinquanta do-po aver dato l’ultimoaddio a una veneranda nonnina. Resta-rono all’est solo le due anziane “guar-die”, che vigilarono per controllare sepattuglie della polizia comunista si avvi-cinavano al camposanto.

I primi mesi dopo la costruzione delMuro furono i più eroici. Marion Detjenha raccolto il caso di due bimbi, di undi-ci e nove anni. Scavalcarono i reticolatiin un punto dove ancora non erano sta-ti eretti i mattoni del Muro. I soldati fran-cesi li soccorsero e li consegnarono a unbrefotrofio. Tre settimane dopo, i duebimbi fuggirono, riscavalcarono il reti-colato verso est, e da quel passaggio por-tarono via papà e mamma. Ci fu poi il ca-so di Hartmut Richter, giovane sportivo,che di notte nuotò per ore nel canale diTeltow, fino a raggiungere la prima pat-

tuglia americana sulla riva libera, a unpasso dalle villette di Zehlendorf.

Richter entrò volontario nel movi-mento senza capi. E lo portò avanti an-che anni più tardi, quando il Muro eradiventato ipervigilato e impenetrabile.Divenuto cittadino della Repubblica fe-derale, organizzò un gruppo che porta-va a ovest i tedesco-orientali nei capacivani bagagli delle auto dei suoi membri.Hartmut era divenuto un pendolare delsentiero della libertà: viaggiava sulle au-tostrade di transito nella Ddr circonda-te dai reticolati, tagliava varchi nel filospinato e raccoglieva a bordo i fuggia-schi. Nel 1969 fu scoperto e catturato, econdannato a 15 anni di lager. Tornò al-l’Ovest alla fine dei Settanta, quando lademocrazia di Bonn cominciò a pagarequalche decina di migliaia di marchi atesta per comprare la libertà dei fratelli

sfortunati dell’Est.Condanne esemplaridopo processi-farsafurono a lungo stru-mento di Berlino Estper intimidire i suoicittadini: già pochigiorni dopo la costru-zione del Muro, ungruppo di studentiorientali fu arrestatoal campeggio duran-te una festa in spiag-gia. Accusati con pro-ve prefabbricate divoler progettare untunnel, i ragazzi furo-no condannati a penetra i due e gli otto annidi centro d’interna-mento a regime duro.

Dopo i Settanta ilmovimento dei tun-nel si sciolse: l’espa-trio pagato da Bonnera più facile, e trop-po alto era diventatoil rischio di finire as-

sassinati al confine dai poliziotti comu-nisti. Oggi, nella Berlino unita, sotto ilpercorso del Muro corrono solo i tunneldel bellissimo metrò, adorato dai giova-ni. Un tratto di Muro resta come ricor-do lungo Bernauerstrasse, e là solo uncumulo di macerie sul lato est della stra-da ricorda gli anni bui. Sono le maceriedella Chiesa della Riconciliazione, laparrocchia del lato orientale del quar-tiere dei tunnel, distrutta con la dina-mite dalla dittatura per disprezzo e ven-detta contro la fede e il ruolo dei religio-si in quei gruppi giovanili. L’antica chie-setta crollò nel 1985 nel boato dell’e-splosione. Il Muro della Vergogna le so-pravvisse solo quattro anni, fino almitico Ottantanove del nuovo movi-mento dell’est.

John le CarréOra scorgeva il muroe, guardando in alto,

i tre fili di ferrospinato

e i micidiali ferriuncinati che li

reggevano. Nel muroerano stati infissi

dei cunei di metalloda LA SPIA CHE VENNE

DAL FREDDO

‘‘

I PROTAGONISTINella foto a destra, Dominic “Mimmo”Sesta, uno degli studenti italiani cheparteciparono al “Movimento degliscavatori”. Accanto, sua moglie EllenSesta, autrice del “Il tunnel della libertà”edito da Garzanti. Nella foto grande, il Muroprima del crollo. Le immagini in basso suimetodi di fuga ritraggono oggetti esposti alMuseo Checkpoint Charlie di Berlino

I tentativi di fuga scavalcando ilMuro. Spessissimo ci sono stati feriti

5mila

I soldati di guardia impiegati lungoil Muro o sulle 302 torri di controlloper impedire la fuga dei berlinesi

10mila

Le persone uccise dai poliziottidi guardia durante le fughe

239

I tunnel più grandi: attraverso di essiin pochi mesi riuscironoa fuggire 50mila berlinesi dell’est

15

FO

TO

LA

IF/C

ON

TR

AS

TO

FO

TO

MA

GN

UM

/ K

OU

DE

LK

A

FO

TO

LA

IF/C

ON

TR

AS

TO

Rep

ubbl

ica

Naz

iona

le 3

9 15

/05/

2005

Page 14: DOMENICA 15 MAGGIO 2005 - la Repubblicadownload.repubblica.it/pdf/domenica/2005/15052005.pdfDOMENICA 15MAGGIO 2005 D Laomenica di Repubblica I gley (Virginia), quartier generale della
Page 15: DOMENICA 15 MAGGIO 2005 - la Repubblicadownload.repubblica.it/pdf/domenica/2005/15052005.pdfDOMENICA 15MAGGIO 2005 D Laomenica di Repubblica I gley (Virginia), quartier generale della

la letturaArchitettura e sport

Ascesa, caduta e (piccola) risalita di un impianto storicodello sport italiano: il Foro italico di Roma dove siconcludono oggi gli Internazionali di tennis. Una strutturaimponente nata nel 1934 su un progetto di Costantini:l’anno dopo si gioca il primo torneo con Mussolini tifoso,deluso, dei campioni di casa nostra

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 15 MAGGIO 2005

zio, per una iniziativa dovuta quasiesclusivamente ad Alberto Bonacossa.Importante feudatario, grande sporti-vo, proprietario della Gazzetta delloSport, Bonacossa era stato insignito deltitolo di Conte dal partito.

All’inizio avverso a quel «gioco da si-gnorine inglesi», Mussolini si era via viaavvicinato al tennis, anche per il corag-gio di Augusto Turati, presidente dellaFit, Federazione Italiana Tennis, cheaveva espunto il classico Lawn (prato)dalla ragione sociale. Un giorno in cui,dalla terrazza del Club Parioli di viale Ti-ziano, Mussolini assisteva ad una sfilatadi sportivi, Turati l’aveva sentito escla-mare: «Un gioco che non mi piace e chenon capisco». Pronto, aveva ribattuto:«Non vi piace, Eccellenza, perché non locapite». Pochi giorni dopo, il custode delTennis Parioli sarebbe stato chiamato acostruire un campo a villa Torlonia, e tremesi più tardi qualcuno si sarebbe sor-preso nel sentire il Duce esclamare:«Magnifico gioco, lo pratico anch’io». Aquesto coup de foudre si deve lo sposta-mento del torneo da Milano a Roma.Vecchi soci del Tennis Club Milano miraccontarono che “El cont Alberto” nonera stato per niente lieto dell’iniziativadel Capo. Ma che altro poteva fare, senon indossare la camicia nera, mettersisull’attenti, e tendere il brac-cio?

Posata l’ultima la-stra di travertino,cooptati nelle loroeleganti divise glistudenti della Farne-sina per far macchia

sulle tribune sguarnite, la prima edizio-ne romana del 1935 ebbe inizio. Si au-spicava che un rappresentante di unpaese di Santi, Poeti, Navigatori giun-gesse a confermare la nostra antica su-periorità razziale. Con delusione mista asorpresa, i due migliori tennisti italiani,il nobile De Stefani e l’ex-raccattapallePalmieri, furono battuti. In finale, difronte ad un parterre di elegantissimedame e cavalieri in camicia nera, l’inat-teso americano Wilmer Hines, soltanto

sedicesimo nella classifica Usa, battètre set a zero il nostro eroe, Pal-

mieri.Si verificarono, nel corso di

quella prima edizione, alcu-ni incidenti, che avrebberopiù tardi connotato la sto-ria di un Campionatosempre diverso da quellitradizionali di Francia,Gran Bretagna, StatiUniti e Australia: i co-siddetti Grand Slam. Ilterzo tennista mon-diale, il boemo germa-nizzato Menzel, ab-bandonò il campocausa il comporta-mento scorretto del

pubblico, e fusqualificato. Ma,nel corso delleedizioni del do-p o g u e r r a ,avremmo visto dipeggio. SulCampo delleStatue il ceco-

GIANNI CLERICI

ROMA

Il corridoio che collega gli spoglia-toi al Campo delle Statue, il Cen-trale del Foro Italico è lunghissi-mo. Lo percorrevo per la primavolta, nel 1950, l’anno che vedeva

la ripresa del torneo, nel dopoguerra,dopo una sosta imposta all’Italia daisuoi ex-nemici anglosassoni. Fianco ame camminava un piccolo australianoche mi pareva vecchissimo, con i suoitrentasei anni. Uno che aveva vinto l’ul-tima edizione di Davis nel 1939, AdrianQuist. Camminavamo senza parlarci.Non sapevo l’inglese, durante la guerraquella lingua era stata proibita nelle no-stre scuole, e sostituita con il tedesco.Ero senza fiato, scorgevo una fonte vi-vissima di luce alla fine del tunnel, e fi-nalmente vi arrivai. Sul campo, che po-teva ospitare quattromila persone, c’e-rano più statue che spettatori. Le guar-dai una ad una, quasi potessero aiutar-mi: il pescatore col falco, l’arciere, il vo-gatore, il tennista con racchetta... Ma ilmio avversario già mi aveva lanciata laprima palla, e ribattei alla men peggio,rendendomi conto d’improvviso cheveniva naturale giocare corto, spaesatidalle prospettive di quel campo enorme.Avevo anche per la prima volta l’onore,oltre che di un arbitro di sedia, di benquattro giudici di linea. Andò male. Rac-cattai in tutto quattro game, mentre lavergogna cresceva, sino a divenire quasiinsopportabile. Accolsi il 6 a 0 finale co-me una liberazione, e presto, sotto ladoccia, mi dissi che non sarei mai diven-tato un giocatore internazionale, tantovaleva porre maggior attenzione all’uni-versità, divenire avvocato, e magari, insegreto, tentare la via del romanzo. Vedete il destino. Sarei invece ritornatoquattro volte al Foro Italico come tenni-sta, sempre modesto, ma non tanto im-potente da vergognarmi. E vi sarei poi ri-tornato ogni anno, sino ad oggi, da quel-lo scriba che sono diventato. Un felicepellegrinaggio, le mie annuali vacanzeromane, così come si ritorna per le ferienello stesso posto, sino a conoscere tut-ti, guardiani, baristi, inservienti, came-rieri. Sino ad adottare un luogo e esser-ne adottati, in qualche modo concitta-dini, di casa. Avrei pian piano appresoche quello stadio esisteva dal 1934, suprogetto dell’architetto Costantino Co-stantini, che l’aveva denominato StadioOlimpico della Racchetta, perché al par-tito fascista non piaceva la parola stra-niera tennis, sostituita con quella di Pal-lacorda.

Lo stadio faceva parte di un comples-so polisport, progettato da Enrico DelDebbio, una costruzione monumenta-le che sarebbe terminata solo alla vigiliadella guerra, nel 1939. Il tennis com-prendeva, appunto, il Centrale con legradinate in marmo, più altri sei campi,e due altri di allenamento, che sarebbe-ro in seguito stati distrutti per far postoal parcheggio auto dei tifosi di Roma eLazio e, nel 1996, per la costruzione diquello che l’architetto Portoghesi definì«una vergogna per un paese del terzomondo». Stadio dovuto alla genialità delpast-president Galgani, in seguito ad uncosiddetto permesso temporaneo diqualche funzionario compiacente dellaBelle Arti.

Ultimato che fu quello comunemen-te definito Foro Mussolini, nel 1935 ilTorneo Internazionale venne avocato aMilano, dove aveva preso a svolgersi dal1930 al Tennis Club Milano. Quell’in-cantevole Club era stato costruito nel‘23 dal geniale architetto Giovanni Mu-

slovacco Kodes avrebbe aggredito il giu-dice arbitro Brunetti. Una bottigliettasarebbe volata in campo nel corso di unmatch del bizzarro rumeno Ilie Nastase.Un forte giocatore americano, Solly So-lomon, avrebbe abbandonato il matchcontro Adriano Panatta, accusando igiudici di derubarlo. Un arbitro inglese,Bertie Bowron, sarebbe disceso indi-gnato dal seggiolone per andarsene. E,infine, Borg avrebbe minacciato il ritiro,nella finale 1978 contro Panatta, se glispettatori avessero continuato il lorolancio di monetine.

Avrebbe scritto un habitué e innamo-rato degli Internazionali, il columnistdel Boston Globe, Bud Collins. «Gli in-glesi possono aver inventato il tennis,ma gli italiani l’hanno umanizzato».Giudizio benevolo, ma, anche nei ri-svolti negativi, non lontano da una suaverità. Con il beniamino italico in cam-po, il pubblico si esaltava, sino a dimen-ticare le più elementari regole del fairplay. Gli spettatori che salutarono il loroconcittadino Nicola Pietrangeli, vinci-tore nel 1957 e 1961, erano rumorosi,partigiani, ma non faziosi. I loro nipoti,che nel 1976 sostennero un Adriano Pa-natta vincente, si erano avvicinati al co-stume dei tifosi della curva sud del vici-no stadio di calcio. Ebbri di un sottilefluido collettivo, si abbandonavano ainvocazioni rituali, e il coro di A-A-dri-a-no, scendeva dagli spalti a importunarelo sfortunato avversario del nostro eroe.

Negli anni in cui l’Italia divenne pro-tagonista della Coppa Davis, accadderoepisodi di cui ancor mi vergogno, nono-stante mi opponessi con le fragili armidel cronista. Nel corso di Italia-Usa del1961, un punto importantissimo fuscippato all’americano Whitney Reid,che avrebbe issato il suo paese a unpreoccupante vantaggio di due a zero. E,nella semifinale di Davis del 1976 controgli australiani, John Alexander sarebbestato addirittura colpito alla fronte dauna pietra. È ormai un vecchio gioco tranoi, che ci incontriamo negli studi tele-visivi dei tornei, rimemorare la vicenda:John si porta un dito alla fronte, io giun-go le mani e mi inchino, in atto di scusa.

Tutto ciò va ricordato per onestà cro-nistica, ma nulla toglie al fascino di untorneo che non ha eguali e che, negli an-ni tra il Cinquanta e il Settanta, avrebberaggiunto e forse addirittura superato laqualità di un Roland Garros allora maldiretto. Per nostra fortuna, un ex-gioca-tore e impresario di spettacoli teatrali esportivi, Carlo Della Vida, si sarebbe tro-vato a dirigere gli Internazionali. Figliodi uno dei tredici professori che rifiuta-rono di sottomettersi ai fascisti, uomo disuperiore cultura, Della Vida attirò icampioni con ogni mezzo, dagli assegnisottobanco, vietati ai tempi del dilettan-tismo, ad altre lusinghe di ogni natura.Ma fu soprattutto la sua grande intelli-genza, l’umanità, a far sì che Roma dive-nisse, se non addirittura il quarto, ilquinto torneo mondiale.

Non l’avessero disgustato i soliti me-diocri, provinciali dirigenti federali, Del-la Vida avrebbe impedito che gli Interna-zionali smarrissero via via importanza,sino a lasciare una data ideale nelle ma-ni del loro concorrente, Amburgo. Com-binata all’assenza di un erede di Pietran-geli e Panatta, la cattiva organizzazioneavrebbe condotto il bilancio in passivo,sino a far temere la scomparsa di un’isti-tuzione di ben 75 anni. Quest’anno ab-biamo assistito d’improvviso a una inat-tesa ripresina. E speriamo che la tenden-za non venga meno. Sarebbe scorag-giante che il Foro Italico fosse occupatodagli ultras come la vicina arena, ormaiconsegnata ai giochi gladiatori del circo.

CENTRALE DEL TENNISSopra, il Campo delleStatue, il “centrale” delForo Italico, in una fotodel 1935. Qui accanto,il primo pianodi una delle statuedel complesso sportivo

Nello stadio della statue

FO

TO

ALIN

AR

I

Il corridoio checollega gli spogliatoial campo èlunghissimo.Lo percorsi nel 1950:a vedermi c’eranopiù monumentiche spettatori

Rep

ubbl

ica

Naz

iona

le 4

1 15

/05/

2005

Page 16: DOMENICA 15 MAGGIO 2005 - la Repubblicadownload.repubblica.it/pdf/domenica/2005/15052005.pdfDOMENICA 15MAGGIO 2005 D Laomenica di Repubblica I gley (Virginia), quartier generale della

42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 15 MAGGIO 2005

Comincia nel 1935 il cammino della 20th Century Fox, la majorche ha prodotto capolavori e B-movies, successi planetarie drammatici flop, ma che ha fatto dell’eleganza tecnica il suo

carattere distintivo. Una storia ricca di aneddoti e personaggi, dalla magiadi Marilyn ai capricci di Liz Taylor. Fino al rilancio della gestioneMurdoch, che con l’ultimo Star Wars si prepara a un nuovo trionfo

Insomma, attorno al tavolo su cui sifirmava l’accordo da cui sarebbe natala 20th Century-Fox (ancora con il trat-tino) sedeva l’aristocrazia imprendi-toriale di Hollywood. E la nuova so-cietà si imbarcò in una serie di produ-zioni che enfatizzavano la perizia e l’e-leganza tecnica. Dai musical di BettyGrable e di Carmen Miranda alle com-medie di Shirley Temple, dai film di Lu-

bitsch, Mankievicz, Preminger, Kazan(per citare solo alcuni dei registi a con-tratto con lo studio di quella che dopoil disastro sarebbe diventata CenturyCity) a quelli con Henry Fonda, Gre-gory Peck, Richard Widmark, MarilynMonroe, i prodotti della 20th CenturyFox variavano in livello artistico maerano sempre indiscutibilmente per-fetti dal punto di vista tecnico.

IRENE BIGNARDI

Il visitatore occasionale della mi-steriosa e tentacolare città di LosAngeles non sa probabilmenteche quando percorre in macchi-na le ampie strade di Century City(in macchina, per carità, i pedoni

sono malvisti e quasi sospetti a L. A., senon quando percorrono carichi di pac-chi i marciapiedi dorati di Rodeo Drive)sta percorrendo in effetti non solo lestrade di uno dei punti più ricchi del glo-bo, ma i risultati di un disastro. Quelloche nel 1961 impose alla 20th Century-Fox, che allora si chiamava ancora così,con il trattino (abolito nel 1985 con de-cisione, si immagina, molto importantee molto meditata), di vendere il suo“backlot”, i suoi terreni, quelli in cui era-no stati girati migliaia e migliaia di metridi pellicola e in cui erano nati capolavo-ri e filmetti, blockbuster e successi mi-nori, star e “generi”.

La 20th Century-Fox (usiamo la dizio-ne dell’epoca) aveva il fiato corto e lecasse prosciugate. Colpa di Cleopatra, ilfamoso kolossal girato per buona partenella Hollywood sul Tevere che era allo-ra Roma: un kolossal che aveva visto i ca-pricci, amorosi e non, di Elizabeth Tay-lor; i suoi amori con Richard Burton(mentre tutti e due erano, orrore, sposa-ti ad altri); le sue richieste di cachet mi-liardari (un milione di dollari dell’epo-ca, cifra mai trattata prima); le sue ma-lattie (vere, poveraccia), che la tennerolontana dal set per mesi e costrinsero aun cambiamento di set dall’Inghilterraappunto a Roma. Il risultato fu che la Foxdovette cambiare il regista: Rouben Ma-moulian venne sostituito da un riluttan-te Joseph L. Mankievicz, il quale riscris-se il copione e ricominciò daccapo. I co-sti crebbero a dismisura (il film, all’epo-ca, risultò essere il più costoso mai pro-dotto). I pettegolezzi anche. I tempi dilavorazione si protrassero per due annie mezzo. I quattro Oscar conquistati daquello che è comunque uno sbalorditi-vo kolossal hollywoodiano all’anticanon salvarono il film dall’insuccesso. Eil 1963, anno di uscita del film, è consi-derato (quasi) ufficialmente come l’an-no di morte dello studio system.

Sono passati più di quarant’anni, lemagnifiche sorti e progressive del cine-ma hanno rimesso in discussione tutto,Century City risplende nella notte e nelgiorno riflettendo la luce dai suoi centograttacieli, e la 20th Century Fox (dal1985 ufficialmente senza quel trattinoche indicava la sua discendenza da duediverse famiglie cinematografiche) è inottima salute, sotto il pugno di ferro diRupert Murdoch, il grande mogul dellacomunicazione che la possiede dal1985. E compie felicemente i suoi set-tant’anni in una nuvola di successi.

Settant’anni ufficiali, da quando, ap-punto, nel maggio del 1935 due illustrifamiglie hollywoodiane si sono associa-te. La prima era la Fox di William Fox. Levolpi non c’entrano niente, anche se aHollywood a lungo si è giocato sulla«volpe» e sul «leone», che era il marchiodella Mgm. Fox in effetti non richiama-va un Fox ma Wilhelm Fried, che era unemigrato ungherese, uno di tredici fra-telli che aveva fatto i primi soldi con unapenny arcade a Brooklyn, poi con unacatena di cinema e con la Greater NewYork Film Rental Company, quindi eraentrato nella produzione con la FoxFilm Corporation, lanciando con A FoolThere Was la prima vamp ufficialmentecosì definita della storia del cinema,Theda Bara, che in realtà si chiamavaTheodosia Goodman. Il parco cinemadella Fox era di ottocento sale. Per Foxlavorava il buon cowboy Tom Mix, maanche un aristocratico gruppo di registi,dal neoimmigrato F. W. Murnau, che di-resse per la Fox un capolavoro come Au-rora al grande John Ford, da Raoul Wal-sh a Franz Borzage. Nel 1926, in concor-renza con la Warner e il suo “sonoro” (ilVitaphone) la Fox lanciò il sistema Mo-vietone, il primo a registrare il suono di-rettamente sulla pellicola: sostanzial-mente quello che si usa ancora oggi.

Dall’altra parte del tavolo, a siglare lafusione del 1935, c’era la Twentieth Cen-tury Pictures formata nel 1933 da Dayl F.Zanuck e da Joseph Schenck della UnitedArtists. Zanuck, una delle figure leggen-darie di Hollywood, era nato come sce-neggiatore: aveva cominciato con RinTin Tin, ma si dice che le sue storie pia-cessero molto a Irwin Thalberg, il miticoragazzo prodigio della Mgm. Schenckera di origine russa, aveva cominciato co-me fattorino, era entrato in società conMarcus Loews in una sterminata catenadi teatri, ed era diventato nel 1917 un pro-duttore indipendente, il produttore diBuster Keaton e di alcuni degli ultimi filmdi Griffith. Era stato presidente della Uni-ted Artists e nel 1933 aveva fondato conZanuck la 20th Century.

le major

METRO GOLDWYN MEYERFu fondata nel 1924. Quattro annipiù tardi adottò il celebre simbolodel leone che ruggisce

UNIVERSALÈ nata a Chicago nel 1912 periniziativa di un immigrato bavaresee ora appartiene al gruppo Vivendi

PARAMOUNTLa fondazione da parte di AdolphZukor risale al 1912. Oggi la majorè entrata nel gruppo Viacom

WARNER BROSI quattro fratelli Warner (Albert,Sam, Harry e Jack) fondarono lastorica compagnia nel 1903

ipadronidi

HollywoodD’altra parte, non si è nel ristretto

club delle majors per niente. E in que-gli anni le majors si contavano sulle di-ta di una mano. Ecco la Warner, ecco laParamount, ecco la Rko, la Mgm, e, ap-punto la Fox. Seguivano quelle di tagliaun po’ più piccola, le mini majors di al-lora: la Universal, la United Artists, laColombia. Poi c’erano gli indipenden-ti del cosiddetto Poverty Row, il vicolo

della povertà…Il celebre “logo” visivo e sonoro — la

musica che tutti ben conosciamo erafirmata Alfred Newman — nacque nel1951. E adesso — anticipiamo la noti-zia — dopo il passaggio nel ventunesi-mo secolo, dopo lunghe discussioni sesia opportuno parlare di 21st CenturyFox e visto che il nome non risultereb-be molto eufonico, per il lancio del Tv

Rep

ubbl

ica

Naz

iona

le 4

2 15

/05/

2005

Page 17: DOMENICA 15 MAGGIO 2005 - la Repubblicadownload.repubblica.it/pdf/domenica/2005/15052005.pdfDOMENICA 15MAGGIO 2005 D Laomenica di Repubblica I gley (Virginia), quartier generale della

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 15 MAGGIO 2005

RICHARD E LIZRichard Burton e Liz

Taylor nel film “Cleopatra”che fu un clamoroso

fallimento per la major

Il nome e il logo, con l’iniziodel nuovo secolo, sono diventatiobsoleti. I dirigenti hannoa lungo discusso sulle possibilimodifiche e la scelta alla fineè caduta su 30th Century Fox

I FILM

EVA CONTRO EVA

Il film diMankiewicz,con BetteDavis, uscito nel1950, apre unodei decenni piùbrillanti dellaCentury Fox

GLI UOMINI...

“Gli uominipreferiscono lebionde”, direttoda HowardHawks nel 1953,consacra il mitodi MarilynMonroe

CLEOPATRA

Il kolossal con LizTaylor e RichardBurton, uscitonel ’63, ebbecosti altissimie mise in crisila casaproduttrice

M.A.S.H.

Ambientato in unospedale dacampo durante laguerra di Corea,è il film che nel‘70 imponeAltman comeregista

TITANIC

Il kolossal del ‘97con DiCaprio eKate Winsletriprendel’omonimo filmdella 20thCentury Foxuscito nel ‘53

STAR WARS

La 20th CenturyFox hadistribuito i filmdella saga ma èentrata nellaproduzionedell’episodio I(1999)

Settant’annivissuti avventurosamente

FO

TO

GR

AZ

IA N

ER

I

Show Futurama è stata lanciata unanuova sigla: 30th Century Fox.

Gli anni Cinquanta — anni di filmspesso bellissimi o fortunati come Evacontro Eva, Viva Zapata!, Gli uominipreferiscono le bionde, Carmen Jones,L’amore è una cosa meravigliosa — fu-rono anche per la 20th Century-Fox,come per tutta Hollywood, gli anni del-la concorrenza tv. La risposta della Fox

fu l’invenzione del CinemaScope, il si-stema inventato dal francese HenriChretien che la 20th Century-Fox ac-quistò e battezzò con quel nome. Nelsettembre del 1953 al Roxy di New Yorkvenne presentato La tunica, il primofilm realizzato con il nuovo sistema,starring Jean Simmons e Richard Bur-ton. Il successo del film fu tale che tut-te le majors si lanciarono nella ricerca

di nuovi sistemi per il grande schermo.Nel frattempo Zanuck lasciò per di-ventare un produttore indipendente, efu Spyros Skouras a inaugurare una se-rie di disastri culminati nel chiacchie-rato megadisastro di Cleopatra e nellavendita del glorioso backlot della Fox.

Fu il dopo Cleopatra a far rientrarenella Fox il vecchio Zanuck ma, insie-me, anche suo figlio Richard, con cui si

aprì un’aspra guerra di successione.Vinta dal vecchio. Fu l’inizio della “re-surrezione” dello studio e di una lungaserie di successi di pubblico se non dicritica, a partire da Tutti insieme ap-passionatamente nel 1965. Dal 1973 adirigere lo studio giunse Alan Ladd Jr,figlio di Alan Sr, sotto la cui guida laFox, dopo che tutte le altre majors ave-va deciso che il progetto non era inte-ressante, si assicurò la distribuzione diStar Wars e dei successivi film del cicloe inaugurò con successo la moda deifilm di disastro, come L’inferno di cri-stallo e L’avventura del Poseidon.

Nel 1981 la 20th Century-Fox fu ac-quistata dal petroliere Marvin Davis.Quattro anni dopo fu assorbita dalgruppo di Rupert Murdoch, il magna-te australiano diventato nel frattempo(e con qualche discussione) america-no. Nel 1994 è stata fondata una sussi-diaria “artistica” che si chiama FoxSearchlight (in omaggio a quei fari chesolcano il cielo nel logo della casa ma-dre), a cui si devono film come TheFull Monty o Sognando Beckham, o,quest’anno, Sideways e l’ultimoWoody Allen.

E sotto lo storico logo che celebra glisplendori del cinema del defunto ven-tesimo secolo e delle sue glorie cine-matografiche, a settant’anni dalla na-scita, ci si prepara all’uscita, il 19 mag-gio, di Star Wars-Episode III, The Re-venge of the Sith, un inevitabile succes-so annunciato.

La gaffedi Scorsese

“Fabbrica dei sogni”

ANTONIO MONDA

Se fossero ancora vivi, Wil-liam Fox e Darryl Zanuckreagirebbero con orrore

alla scritta che compare oggisotto il logo più trionfalisticomai concepito a Hollywood, manon avrebbero comunque laforza di rimuovere quanto im-posto dal nuovo proprietarioRupert Murdoch: «A News Cor-poration Company». La majorche annuncia i propri film con ifari che illuminano il cielo nonha più l’orgoglio dell’autosuffi-cienza, ma è parte — prestigio-sa, ma non più determinante —di un potentissimo conglome-rato di società che opera nelmondo dei media.

La 20th Century Fox è morta erisorta molte volte ma, comeracconta il libro autocelebrati-vo Inside the Photo Archive,è na-ta dalla passione viscerale di ungruppo di produttori geniali espregiudicati, che sono riusciti amotivare al meglio i “talents”per costruire film capaci di dareal pubblico un’esperienza dicoinvolgimento assoluto e ca-tartico. Il testo accompagnalungo una serie di film leggen-dari (da Butch Cassidy a Com’e-ra verde la mia valle, fino a Mi-nority Report e Master and Com-mander) raccontati nei mo-menti di pausa e di prova, indu-giando sul volto di registi e star.

A differenza di quanto fecerola Mgm con i musical e la War-ner con il noir, la Fox si è caratte-rizzata meno con i generi, ma èriuscita a ottenere sempre il me-glio dagli artisti sotto contratto.Le immagini di Marilyn Monroeche prova i costumi di Quandola moglie è in vacanza fanno dacontraltare a quelle di Bette Da-vis in Eva contro Evae Jane Fon-da in Julia. E lo studio delle in-quadrature da parte di registi di-versissimi come Alfred Hitch-cock, Stanley Donen e Bob Fos-se evidenzia un’atmosfera di ec-citazione che smentisce lalogica industriale degli studios.

La leggenda vuole che «fab-brica dei sogni» sia stata coniataproprio per la major che oggi èparte di una “news corpora-tion”, e la potenza evocativa diimmagjni che immortalano Or-son Welles, Paul Newman, RitaHayworth e Meryl Streep, spin-ge a perdonare il fatto che Mar-tin Scorsese nella sua introdu-zione al libro parli della «mate-ria di cui sono fatti i sogni» percelebrare i risultati della majorcon cui ha realizzato Re per unanotte, ma dimenticando dabuon cinephile che la battutanon è stata creata da DashiellHammett per il Mistero del falcobensì, molti anni prima, da Wil-liam Shakespeare.

Rep

ubbl

ica

Naz

iona

le 4

3 15

/05/

2005

Page 18: DOMENICA 15 MAGGIO 2005 - la Repubblicadownload.repubblica.it/pdf/domenica/2005/15052005.pdfDOMENICA 15MAGGIO 2005 D Laomenica di Repubblica I gley (Virginia), quartier generale della

Rep

ubbl

ica

Naz

iona

le 4

4 15

/05/

2005

Page 19: DOMENICA 15 MAGGIO 2005 - la Repubblicadownload.repubblica.it/pdf/domenica/2005/15052005.pdfDOMENICA 15MAGGIO 2005 D Laomenica di Repubblica I gley (Virginia), quartier generale della

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45DOMENICA 15 MAGGIO 2005

spettacoliNuova Cannes

Si chiamavano Brigitte, Grace, Natalie o Warrene venivano alla più celebre kermesse del cinemaper abbronzarsi, litigare, ubriacarsi, intrecciareflirt, mischiarsi al pubblico che li amava. Oggi i loroeredi si muovono dentro pareti mobili di “gorilla”e sono ridotti a manichini di griffe famose e paganti

NATALIA ASPESI

Ieri in concorso “Caché” e “Election”. Oggi arriva Lucas con “Guerre stellari”

Haneke e To, film di paura e mafiaCANNES

Da unaparte la violenza bruta-le e spietata della mafia cine-

se, dall’altra quella sottile e indeci-frabile di un’intrusione misteriosanella normalità di una famiglia. So-no Electiondel cinese di Hong KongJohnnie To e Caché di Michael Ha-neke, il regista di nazionalità au-striaca che si è imposto con un ci-nema di sentimenti estremi e senzaveli, con titoli come Funny Games,La pianista, Il tempo dei lupi. Forsenon è un caso che due film così diversi si siano trovati inconcorso nella stessa giornata, in attesa dell’arrivo diGeorge Lucas e delle sue Guerre Stellari che oggi (stessogiorno del film di Marco Tullio Giordana Quando sei natonon puoi più nasconderti) invaderanno la Croisette. Ha-neke e To hanno lo stesso scopo, turbare lo spettatore conle emozioni forti di paura e angoscia, ma i percorsi sonoopposti, quasi un confronto fra due culture lontane.

Johnnie To racconta la guerra tra le triadi della crimina-lità organizzata cinese, una lotta di potere che lascia sul ter-reno decine di morti ammazzati: «Da dieci anni lavoro suquesto tema, molto sentito nel mio paese. A Hong Kong al-meno trecentomila persone appartengono a una delletriadi. Mi sono sempre chiesto perché, e la mia risposta è

che l’appartenenza alla mafia è comeuna religione che si tramanda nelle ge-nerazioni, supera ogni valore etico. Letriadi sono parte integrante della no-stra storia e della nostra cultura».

In Cachénella famiglia del giornalistaculturale George — lui è Daniel Auteil,la moglie Juliette Binoche — l’incubocomincia con l’arrivo di un video regi-strato in cui appare la strada dove abita-no, la casa, gli spostamenti, una docu-mentazione della loro vita. Impossibileidentificare l’autore, la polizia non aiu-ta, i video si susseguono, finché ne arri-

va uno che mostra la casa natale del protagonista. Comin-cia un percorso angoscioso nella memoria, la ricerca di per-sone e momenti dimenticati, di gesti colpevoli soffocati neltempo, fino ai primi anni Sessanta quando nella repressio-ne dei movimenti antifrancesi furono gettati nella Senna200 algerini e un bambino, orfano di una delle vittime entrònella casa di George che allora aveva sei anni.

Per Haneke, il riferimento storico è solo un back-ground: «La motivazione del film è la reazione a come og-gi il cinema e i media mostrano la violenza: un prodotto diconsumo. Vorrei che il film ricordasse le conseguenzedella violenza e il senso di colpa devastante che lascia inchi la compie. Ho usato il linguaggio del giallo per fare unracconto morale».

Il festival che non si diverte più

CANNES

Cade la pur ampia spallinadel casto abito da sera diSophie Marceau mo-strando in diretta televisi-va mondiale il suo seno si-

nistro. Meno male, almeno in questoevento di routine il 58° Festival del ci-nema assomiglia ad altri del passato:quando Brigitte Bardot sconosciuta la-sciò di sasso il mondo nel primo bikiniridotto mai prima immaginato; quan-do Robert Mitchum si fece fotografarecon le manone a coppa sul grosso senonudo della starlette Simone Sylva;quando Cicciolina, abbracciando unpeluche, apparì castamente a torso nu-do e mutande abbassate; quando sultanga di pizzo di Angie Everhart fu get-tato frettolosamente un cappotto;quando Madonna regale si esibì in reg-gipetto aguzzo e guaina trasparente digran firma, e in tanti si sentirono auto-rizzati a toccarle il sedere; quando re-golarmente, anno dopo anno, decinedi spalline di abiti sottoveste si rupperosempre davanti alle telecamere e il po-polo gridò entusiasta per la rivelazionegratis. Va così al Festival, seni nudi sul-la scalinata del Palais e, sugli schermi,ogni anno, bonarie fellatio (come nelfilm messicano Batalla en el cielo, inconcorso oggi) o aggraziate sodomie(come nell’americano Where the th-ruth lies, visto ieri). Tuttavia, malgradoe non a causa di questi briosi incidenti,una pacifica città cara ai pensionati di-venta per dodici giorni a maggio unafortezza blindata.

Naturalmente non sono i film a ren-derla invivibile, frastornante, pericolo-sa, ma la presenza, in realtà illusoria, dichiunque possa definirsi star, televisi-va, sportiva, musicale, della moda epersino cinematografica; non necessa-riamente meritevole, perché per esem-pio basta anche una qualsiasi ragazzadel tipo artificiale per scatenare il can-nibalismo mediatico: come succede inquesti giorni a Paris Hilton, ereditieranella vita e contadinella nella televisivaSimple life, che pur vestita provoca adogni apparizione una sommossa, unarrembaggio furibondo. Oggi poi ilcaos raggiungerà il suo parossismo, lacittà sarà praticamente in guerra quasistellare, con una impressionante mo-bilitazione della polizia e dei reparti an-titerrorismo armati sino ai denti epronti allo scontro contro qualunquecosa si muova, soverchiati forse dal nu-mero di gorilla in elegante abito nero,auricolare, pugni contundenti e revol-ver nella giacca, che a venti alla voltarendono inespugnabile chiunque è ocrede di essere famoso.

Capita così da qualche anno, quandoil festival getta la maschera virtuosa delparadiso degli autori, per esploderecon un colossal miliardario che nonavrebbe bisogno del Festival se nonfosse il festival ad aver bisogno forte-mente di lui per stare al passo con la ne-quizia dei tempi. La scusa è l’anteprimamondiale, come per questo Guerre stel-lari III: la vendetta dei Sith, che peròesce in tutto il mondo tra qualche gior-no. Qui il vero pubblico non ne avrà ac-cesso, però per alcuni minuti, assie-pandosi nello spiazzo davanti al palaz-zone del cinema, avrà il privilegio di in-travedere ad almeno trenta metri di di-stanza e oltre una muraglia di polizia,possibilmente con binocolo, la famosa“montée de marche” non solo del ge-niale creatore della serie, George Lu-cas, ma anche del coraggioso Obi-Wane dell’ambiguo Anakin e dell’angelica

Padme e del cattivo Palpatine, più al-cuni mostri e robot, tutti travestiti daattori.

Ormai la distanza tra i divi e il loropubblico si è fatta siderale; il pubblicoche li ama è sempre recintato come unnemico lunatico, mentre i divi che loodiano sono perennemente in fuga,nascosti, protetti. Prima era tuttaun’altra cosa: capitava di incontrareper strada, alle prime luci dell’alba, laperlacea Gong Li vestita di bianco albraccio del suo regista e un tempo com-pagno Zhang Yimou, coppia di roman-tica eleganza, che lentamente tornava-no in albergo; al ristorante si poteva ca-pitare a fianco del regista Francis Cop-pola con la sua famigliola; De Niro sifermava a firmare autografi; al barMickey Rourke offriva da bere agli av-ventori sconosciuti. Le star erano sca-pestrate, generose, autodistruttive,sentimentali, vitali, umane; e infattiapprofittavano del Festival per ab-bronzarsi sulla spiaggia, per intreccia-re bollenti flirt, per litigare, separarsi,ubriacarsi, divertirsi, addirittura vede-re film. Natalie Wood e Warren Beatty,innamorati, si chiusero nella loro ca-mera per quattro giorni senza mai usci-re, Grace Kelly conobbe qui il principeRanieri che avrebbe poi sposato, gli ya-cht di proprietà di sceicchi arabi ospi-tavano orge attorno a dive e divi che vo-levano divertirsi.

Oggi le star sono isolate da un’orga-nizzazione da clausura che non le ab-bandona mai: si fermano poche ore, iltempo di indossare lo smoking o l’abi-to scollato sino al coccige, di arrivaredentro una limousine corazzata sinoall’inizio del tappeto rosso, di esservi iviscaricate sotto implacabile protezione,di passare davanti a un muro di foto-grafi recintati, e poi di affrontare la te-mibile lunga scala, per le signore contacchi alti un vero supplizio. Ma l’im-portante è non venire a contatto conl’umanità, considerata psicologica-mente infetta. E per esempio WoodyAllen, per accompagnare qui il suo film,ha preteso l’assicurazione firmata chenessuno lo avrebbe avvicinato: costret-to a partecipare alla festa data in suoonore dal gioielliere Chopard, si è fattorinchiudere in un recinto tipo Guanta-namo insieme alla sua giovane signora,oberata da un immenso collier di dia-manti, si immagina imprestato e in-dossato dietro lauto compenso.

Intrappolata la moltitudine di fans, apoco a poco il Festival è riuscito anchead eliminare il pubblico, la gente che inquesto periodo veniva nei grandi alber-ghi o nelle ville principesche per parte-cipare alle serate di gala dei film e di-vertirsi intrecciandosi al mondo miticodello spettacolo. Oggi, ed è la sua fortu-na, il Festival è solo un immenso fio-rente mercato dove tutti vendono e tut-ti comprano: film, coproduzioni, corpi,vestiti, progetti, futuro, dove non ci so-no soldi e girano miliardi, dove superricchi e straccioni, paesi in grande svi-luppo come Cina e Corea e paesi trava-gliati come Kurdistan o Palestina si in-trecciano in nome dello stesso amore edello stesso business, il cinema.

Tutta la grande, splendente baraccadel più importante festival del mondo èdiventata il paradiso della pubblicità:se una grande star in cima al Palais rideluminosa in tutta la sua grazia, non èperché è felice di essere lì, ma perchésalendo quei 39 gradini di panno rossol’hanno profumatamente pagata imarchi dei prodotti di bellezza, gioielli,borsette che per pochi minuti rappre-senta, dell’automobile da cui è appenagraziosamente scesa, della birra chefarà finta di bere.

LA DIVA IN SPIAGGIABrigitte Bardot in una fotodegli anni ’60: la diva giocain spiaggia con il suo canea Cannes. In basso, il registaMichael Haneke (a sinistra)con Juliette Binochee Daniel Auteil

FO

TO

GE

RA

RD

JU

LIE

N / A

FP

FO

TO

AF

P

MARIA PIA FUSCO

Rep

ubbl

ica

Naz

iona

le 4

5 15

/05/

2005

Page 20: DOMENICA 15 MAGGIO 2005 - la Repubblicadownload.repubblica.it/pdf/domenica/2005/15052005.pdfDOMENICA 15MAGGIO 2005 D Laomenica di Repubblica I gley (Virginia), quartier generale della

i saporiMediterraneo in tavola

La rivincita dei Poveri ma Buoni

AgugliaVive in acque profonde e si avvicinaalla costa in branchi tra la primaverae l’estate per riprodursi. Ha lo scheletrodal colore verdastro. La carne è finee pregiata

Pesce spadaCorpo robusto, è lungo fino a 4 metriNegli adulti, a fronte del caratteristicorostro osseo, spesso i denti sonoassenti. Ha carne rosea, con macchiascura intorno alla vertebra centrale

Povero ma bello. Il pesce azzurro è così: senzanobiltà di rango e pregio di mercato. Lonta-no dalle carni bianche e finissime di spigolee orate. Incapace di esibire la perfezione deifiletti che rende ambite le sogliole. Privo per-fino della imprescindibile necessità di scor-

fani e rane pescatrici, brutti ma indispensabili nellapreparazione di zuppe e brodetti d’autore.

Eppure, nessun pesce è così trasversale e meritorio:facile da pescare (roba da riempire anche i secchi deineofiti della lenza), diffuso sulle nostre coste pratica-mente da gennaio a dicembre, presente in massa suibanchi dei mercati, economico da comprare, sempli-ce da pulire e da cucinare. Così tante qualità assom-mate in una sola, piccola alice, da finire per sminuirneil valore. Per fortuna, nessun pesce gode degli stessi,entusiastici supporti: difficile trovare una fiera delrombo chiodato o una degustazione collettiva di sara-ghi, mentre non esiste festa “ittica” che non contem-pli una frittura di alici o le sarde alla brace.

Perché mai, come nel caso del pesce azzurro, un ci-bo accontenta in una sola volta tasche, palato e buonasalute. Alzi la mano chi, tra gli amanti del pesce, restaindifferente a un soave, economico tortino di alici, chirespinge un piatto di acciughe sott’olio o marinate, chine ha mai messo in dubbio la salubrità. Impossibile.Campioni nell’apporto di proteine nobili, selenio, fo-sforo, iodio, vitamine, e nella percentuale di acidigrassi polinsaturi — quelli che contrastano lipidi e co-lesterolo cattivo — sgombri e soci sono invece parchinell’apporto calorico (tra le 90 e le 170 calorie per et-to), malleabili nella preparazione, capaci di riusciremorbidi e gustosi anche centellinando i condimenti.Non vi basta? Pescarli in mare è più comodo che alle-varli, quindi le contraffazioni sono più rare, malgrado

qualche tentativo denunciato da Legambiente. Del resto, secondo l’ultima inchiesta dell’associa-

zione, in Lombardia, cuore del commercio ittico, qua-si l’80 per cento dell’etichettatura è fuori regola. Tra icasi, anche quello di far passare per italiano il “novel-lame di sarda” — i neonati del pesce azzurro — in arri-vo dall’Oriente. In compenso, alici e sarde coprono ol-tre un terzo dei consumi totali di pesce.

Non sono tutti così esili, i pesci azzurri. In realtà, ilventaglio può essere allargato a pesci che per forma edimensione sembrano non avere nulla in comune coni formati mignon della categoria. Il tonno e i suoi fra-telli hanno lo stesso colore di pelle, pur con consisten-za di carne diversa. Il guaio è che il capofamiglia si èguadagnato tale fama da oscurare tutti gli altri.

Per esempio: mai sentito parlare della palamita? Ta-glia ridotta, gusto verace, popolarità vicina allo zero.Almeno fino a quando, cinque anni fa, Fulvio Pieran-gelini ha virtualmente aperto le porte del suo ristoran-te-culto a San Vincenzo, regalando alla cittadina unatre giorni interamente votata al culto di questa speciedi tonno in sedicesimo. L’edizione 2005 di “La pala-mita & San Vincenzo” si chiude oggi con il superchefdella costa livornese, per l’occasione anche presiden-te di giuria, impegnato a cucinare e a servire in piazzala ricetta di palamita vincitrice del concorso lanciatotra tutti i cittadini con vocazione gourmand.

Se invece siete patiti del pesce spada, sappiate cheDomenico Modugno quando scrisse Lu piscispadanon s’inventò nulla, ma mise splendidamente in mu-sica un cardine della pesca siciliana: quando i pesca-tori si imbattono in una coppia, il fiocinatore mira acolpire la femmina, perché il maschio, che non l’ab-bandona mai, diventa un bersaglio facilissimo. Alcontrario, se a essere arpionato è “lui”, la femminafugge subito. Decidete voi se per legge di natura o fem-minismo ittico.

LICIA GRANELLO

Alici, aguglie, sarde, cicciarelli, sgombri. È difficiletrovare un alimento che, come questo, metta d’accordoin una sola volta tasche, palato e benessere.E oggi a San Vincenzo uno chef super come FulvioPierangelini celebra in piazza il trionfo della palamita

Pesceazzurro

Per pranzo c’era tonno,sardine e olive, gallina

e il suo brodo. Doveva morirenostro padre

per metterci nell’obbligo di fare un pranzo così

BEPPE FENOGLIO

da LA MALORA

Invece compare Tino, sedutocome un presidente, (...)sputava sentenze (...) Le

acciughe sentono il grecaleventiquattr'ore prima di

arrivare, rispondeva padron'Ntoni; è sempre stato così;l'acciuga è un pesce che ha

più giudizio del tonnoGIOVANNI VERGA

da I MALAVOGLIA

‘‘

46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 15 MAGGIO 2005R

epub

blic

a N

azio

nale

46

15/0

5/20

05

Page 21: DOMENICA 15 MAGGIO 2005 - la Repubblicadownload.repubblica.it/pdf/domenica/2005/15052005.pdfDOMENICA 15MAGGIO 2005 D Laomenica di Repubblica I gley (Virginia), quartier generale della

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47DOMENICA 15 MAGGIO 2005

itinerariRomagnolo doce innamoratodella sua terra,AlbertoZaccheroni,oltre che valenteallenatore di

calcio, è appassionatogourmet, con undebole dichiaratoper il pesce azzurro,declinato dallafrittura al crudo

La cittadina resafamosa dallapresenza di FulvioPierangelini, chefpatron delristorante-cultoGambero Rosso,ha intrecciato la suastoria con il pesce

azzurro fin dal Medioevo, già nell’Ottocento erafiorente il commercio di acciughe sotto sale tra la costa e Pisa

DOVE DORMIRERESIDENCE SANTA CECILIALocalità San Bartolo 19Tel. 0565-703171Camera doppia da 100, colazione inclusa

DOVE MANGIAREZANZIBARPiazza del Porto 2Tel. 0565-702927Chiuso mercoledì, menù da 40 euro

DOVE COMPRAREPESCHERIA ARZILLICorso Italia 55Tel. 0565-702249

Sarda (Sardina)Vive in branchi numerosi lungo le costeadriatiche (dove viene pescato il 75%delle sarde) e del Tirreno. Si nutresoprattutto di plancton. Ha carnimorbide e gustose. Ottima sott’olio

SgombroHa muso appuntito, bocca grande,una carne bianca, consistente, riccadi grassi insaturi e di sapore tantointenso da reggere l’affumicatura. Puòpesare anche un chilogrammo

TonnoÈ il manzo del mare. Pescato primache deponga le uova, ha carne soda,saporita, più morbida nella parteaddominale (“ventresca”). Con le sueuova si prepara la bottarga

CicciarelloFusiforme, argenteo e senza squame,vive in branchi lungo le coste. È unodei simboli della piccola pescadel Mediterraneo. Ha carne delicata. Siconsuma in frittura o in carpione

PalamitaConsiderato un fratellino minoredel tonno, ha il suo luogo d’elezionenella costa ligure-toscana, dove arrivain primavera. Si ciba di piccoli pesciazzurri, ha carne soda e gustosa

AliceÈ la specie di pesce più acquistatain Italia. Si lavora non solo a frescoma anche congelata, salata, sott’olio,in salsa e in pasta. Si pesca tra marzoe settembre

San Vincenzo (Li)Un destino nelnome: Cetara derivada cetaria, tonnara,a testimoniarel’attività piùimportante delluogo, ovvero lapesca e lalavorazione del

pesce e in particolare della pregiata colatura di alici,usato da greci e romani per irrobustire i piatti dimagro

DOVE DORMIREHOTEL CETUSStrada Statale 163 per AmalfiTel./Fax 089-261388Camera doppia da 130 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREACQUAPAZZACorso Garibaldi 38Tel. 089-261606Chiuso lunedì, menù da 30 euro

DOVE COMPRAREPESCHERIA CETARESEPiazza Martiri Ungheresi 2Tel. 089-261795

Cetara (Sa)Il buen retiro delpremio Nobel DarioFo, celebre per ilporto-canaleprogettato daLeonardo nel 1502,è sede degli eventi“Azzurro comeil pesce”

e “Il pesce fa festa”. Al mercato ittico (5 milionidi fatturato) si vendono ogni anno 6.000 quintalidi pesce azzurro

DOVE DORMIREAGRITURISMO AI TAMERICIVia Mesolino 60Tel. 0547-672730Camera doppia da 80 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIARELOCANDA SILVANO (con camere) Via Cattaneo 16Tel. 0547-80767Chiuso lunedì, menù da 60 euro

DOVE COMPRAREPESCHERIA FRATELLI CASALIVia Fiorentini 19Tel. 0547-81224

Cesenatico (Fc)

Magra come una sardina, secco co-me un’acciuga. Queste espressio-ni tanto diffuse dicono come me-

glio non si potrebbe miserie e splendori delpesce azzurro. Il più simbolico dei pesci,l’emblema stesso della povertà in cucina.Alici, alacce, aguglie, cicerelli, costardelle,spatole, sgombri, suri, spratti, palamiti,lampughe, bisi, alletterati. Sono alcuni frai tanti oscuri nomi di una fauna minore,una sconfinata plebe del mare. Troppoprolifica per essere un cibo da signori —una minuscola alice genera quarantamilaguizzanti pargoletti — tanto abbondanteda sfamare ventri storicamente avvezzi afare i conti con il fantasma della fame.

Un perpetuo mangiar di vigilia, una die-ta forzata, una magra consolazione per chisognava iperproteiche abbuffate di co-sciotti, salsicce e fagiani. Se il nutrirsi diaringhe e sardine era esperienza quotidia-na per i poveri diventava edificante affina-mento spirituale per i ricchi che nei giornidi vigilia e di astinenza dalle carni si alleg-gerivano il corpo e l’anima, rinunciandoper penitenza ai loro consueti privilegi ca-lorici. Come Enrico IV, signore di Navarra— che si fece cattolico per diventare re diFrancia, passato alla storia per aver pro-nunciato la celebre frase «Parigi val beneuna messa» — che durante i digiuni cui lanuova confessione lo costringeva, si con-solava spanciandosi di sardine.

Oggi che la fame non fa più paura a nes-suno, almeno nell’opulento Occidente, eche l’abbondanza è quasi un dovere eco-nomico-sociale, i precetti religiosi hannolasciato il posto agli imperativi estetici. El’obbligo del mangiar di magro si è trasfe-rito dall’anima al corpo convertendoschiere di neopenitenti alla religione dellamagrezza. Questo ascetismo weight wat-chers ha segnato la rivincita del pesce az-zurro. Ormai considerato alla stregua di unrimedio magico contro colesterolo e radi-cali liberi, garanzia di un piacere leggero epolitically correct che salva in un sol colpoanima e glutei senza sacrificare il gusto.

Una quadratura del cerchio salutistico-gastronomico che non sarebbe stata pos-sibile se nel corso dei secoli il genio popo-lare non avesse rovesciato la scarsità in go-dimento dando vita a dei veri e propri ca-polavori della cucina mediterranea. Comele palermitane sarde a beccafico, o il saorveneziano che conservando i pescetti frittiin aceto e cipolla riempiva il ventre e scon-giurava lo scorbuto. O le anciue genovesi,dal profumo antico che riempie di nostal-gia le creuze de ma’. O le napoletane tortie-re di acciughe, inebrianti e sontuose comelo è la colatura di alici della costiera amalfi-tana, quintessenza di umori mediterranei,dove le sfumature arabe si mescolano al-l’eco mitica del garum dei romani.

Questi cibi sono l’espressione più altadelle nostre culture del popolo di cui con-servano l’aristocratica misura, un equili-brio raffinatissimo tra la povertà degli in-gredienti e un millenario saper fare. Unasorta di proporzione aurea che, ben primadella dilagante moda del pesce azzurro,non è mai sfuggita agli spiriti eletti, a quel-li più democraticamente snob. Come Bru-ce Chatwin che diceva sempre di poter re-sistere dovunque e in qualsiasi condizio-ne a patto di avere a disposizione una sca-tola di sardine e mezza bottiglia di Krug.Come dire, sopravvivere da signori.

L’autore insegna antropologia culturaleall’Università Suor Orsola Benincasa

a Napoli

La plebe del maretrasformata

in piatto da signoriMARINO NIOLA

È la percentuale di pesceazzurro consumato sul totaledel pescato in vendita

35,6 %È la percentuale di pesceazzurro che viene consumatonel Sud Italia

46,2%Il consumo pro capitedelle varie specie di pesceda parte degli italiani

8,4 Kg

Il valore medio alchilogrammo (allaproduzione) delle acciughe

1,53 euro

Il valore medio (al momentodella produzione) al kgdel pesce spada

11,36 euro

Cibo penitenziale e dieta salutista

Page 22: DOMENICA 15 MAGGIO 2005 - la Repubblicadownload.repubblica.it/pdf/domenica/2005/15052005.pdfDOMENICA 15MAGGIO 2005 D Laomenica di Repubblica I gley (Virginia), quartier generale della

tanta ho cominciato con i primi yogurt natu-rali tutti mi chiedevano che cosa volesse direbiologico», conferma Marco Roveda, l’im-prenditore che, dopo aver venduto la sua pri-ma creatura, “Fattoria Scaldasole”, alla Pla-smon, ha lanciato Lifegate, un network (checomprende una radio, da questa settimanadisponibile anche a Roma e un portale Inter-net) dedicato alla cultura ecologica. E aggiun-ge: «Questo sarà il decennio dedicato all’eco-

sostenibile e all’ecosolidale».La filosofia green, dunque, è entrata

a far parte dell’etica comune. Non hapiù confini sociali o generazionali.Perché, come spiega il giornalistaAndreas Schlumberger nel suo libroCinquanta piccole cose per salvare ilmondo e risparmiare denaro (edi-zioni Apogeo), per aiutare il pianetabasta davvero poco. Piccoli accor-gimenti come sostituire l’ammor-bidente con l’aceto. O imparare amangiare verdura e frutta di stagio-ne. Idee alla portata di tutti. Perché

vivere eco è una scelta trasversale,che coinvolge creativi e casalinghe,

studenti e impiegati, intellettuali e jet-setter. Madonna e la top model Christy Tur-lington, la regina Elisabetta d’Inghilterra eHeidi McCloskey, direttore del dipartimentodi sostenibilità della Nike. Oltre a una schieradi imprenditori e banchieri lungimiranti. Co-me la Jp Morgan chase, seconda banca d’affa-ri del mondo, che ha deciso di chiudere i rubi-netti alle aziende che danneggiano il pianeta.O lo stilista Giorgio Armani che da anni pro-duce una linea jeans eco in canapa. Per nonparlare della catena di supermercati Esselun-ga che ha lanciato una linea di prodotti a bas-so impatto ambientale.

Perché oggi, vivere senza danneggiare ilpianeta è un’impresa che si può compie-re senza sacrificare il proprio stile. Esenza spendere una fortuna.Facendo shopping nelleboutique di lusso, maanche all’iper-mercato.

Un mese intero dedicato al pia-neta. Per raccontare come algiorno d’oggi ecologia e moda,innovazione e sostenibilità, de-sign e riciclo non siano più con-cetti agli antipodi. Trenta gior-

ni di iniziative che vedranno coinvolte tre-dici grandi aziende di moda, da Versace aBelfe. Riunite per produrre capitrendy-ma-eco che dimostrinoai consumatori di tutto il mon-do come acquistare un vestitopossa diventare un gesto an-che etico. L’idea, lanciata il 22aprile, in concomitanza con laGiornata mondiale delle Ter-ra, è di Nature works, l’azien-da tessile che sta rivoluzio-nando il settore con Ingeo, laprima fibra prodotta dall’uo-mo utilizzando risorse rinnova-bili al 100 per cento. E verrà ripe-tuta ogni anno.

Una trovata che è la punta dell’icebergdi un fenomeno molto più esteso. Quel-lo che vede affermarsi la filosofia del vi-vere ecologico. Una chiave nuova perconcepire la propria esistenza in modomeno aggressivo verso la Terra. Unasvolta rispetto al passato. Quando ilmondo era diviso in due: da una parte, imilitanti convinti, che indossavanosandali da francescano e si nutrivano diinsipidi germogli, suscitando ilaritànegli altri. Quelli che si consideravano“normali”, convinti che il destino delpianeta fosse in mano a forze ben piùinfluenti della loro e che quella miria-de di piccole scelte quotidiane checompiamo ogni momento influisseropoco o nulla sul benessere globale.

Oggi, invece, l’eco-pensiero è piùalla moda che mai. Persino il principeCarlo, quando ha dovuto decideredove mandare in punizione il figlioHenry, colpevole di essersi vestito danazista a una festa, ha optato per unafattoria di maiali. Rigorosamentebio. Frivolezze a parte, secondoun’indagine commissionata dallaCamera di commercio di Milanonell’ultimo anno un italiano su dueha acquistato qualcosa solo dopoaver verificato che non fosse inqui-nante e che per realizzarlo non fosse stato uti-lizzato il lavoro di minori. E non è tutto: l’85per cento dei consumatori ha dichiara-to che sarebbe disposto a pagare il10 per cento in più per un pro-dotto fatto rispettandol’ambiente e la società.«Quando a metàdegli anni Ot-

La sfida delle grandi aziende è adesso dimostrareche acquistare un vestito o un oggetto può diventareun gesto etico. Il design è entrato nel mondo del“riciclato”, gli stilisti producono anche pensandoall’ambiente e una nuova fibra promette di cambiareil destino del nostro guardaroba

le tendenzeIndustria e natura

48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 15 MAGGIO 2005

BELLE CON LE PIANTEPer i suoi prodotti dibellezza Weleda utilizzasolo piante delle suecoltivazioni biodinamichein Germania. Qui lacrema per le maniAmande, a base di olioalle mandorle detergente

SNEAKERS ODOROSELe sneaker di Aequa,la nuova linea di eco-scarpe del patrondel Bologna calcioGazzoni Frascara,hanno la tomaiain microfibra e suolain gomma riciclataOdorano di verbena

IN MARCIA PER UN FUTURO PIÙ PULITOLa Nike cede al fascino dell’ecologia con la nuova linea Considered:scarpe, con suola in gomma riciclata, assemblata senza utilizzare colleTutti i materiali usati provengono da un raggio di 200 km dalla fabbrica

JACARANDA CARACCIOLO FALCK

Vivere

EFFETTO DESERTOUn cactus in salotto?È un’idea. Quelloproposto da Guframin realtà è unattaccapanni. Èrealizzato inpoliuretano espansofacilmente riciclabile

FORMOSASi chiama PeelIdeata da OlavEldoy per Stokke,coniuga lapiacevolezzadi una sedutaergonomicacon un designinnovativo

Abiti, mobili, gioielliil boom dei prodotti-eco

I pannolini consumati in treanni da ogni bambino

5.500

PASSO BRILLANTESono sempre più di moda isandali Birkenstock. Soprattutto quellitempestati di pietre e coloratissimifirmati dalla modella Heidi Klum. Erealizzati con solventi e collanti al 95per cento non nocivi per l’ambiente

verde

Rep

ubbl

ica

Naz

iona

le 4

8 15

/05/

2005

Page 23: DOMENICA 15 MAGGIO 2005 - la Repubblicadownload.repubblica.it/pdf/domenica/2005/15052005.pdfDOMENICA 15MAGGIO 2005 D Laomenica di Repubblica I gley (Virginia), quartier generale della

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 49DOMENICA 15 MAGGIO 2005

Il nostro futuro sarà indubbia-mente verde. Il numero dei pro-dotti eco sul mercato, all’estero

ma anche in Italia, è destinato adaumentare in modo vertiginosonei prossimi anni. Per una serie dimotivi. Politici, culturali e sociali.Innanzitutto ultimamente sonostate emanate una serie di leggi cheobbligano i produttori a farsi cari-co del fine-vita di quello che escedai loro stabilimenti. Si è afferma-to, a livello industriale, il principiodella responsabilità estesa permerci come le auto, l’elettronica egli imballaggi. Nei prossimi anniquesta filosofia si allargherà ad al-tri comparti. Nel mondo di ogginon è più possibile creare un qua-lunque oggetto, dalle scarpe daginnastica ai motorini, dalle t-shirtalle cucine, senza prendere in con-siderazione l’intero ciclo di vita diquello che si sta mettendo in ven-dita. Molti industriali hanno dovu-to quindi rivedere la loro politica.Per cominciare a concepire pro-dotti facilmente smontabili e rici-clabili, che consumino poca ener-gia e che possano essere recupera-ti senza spendere troppo.

La situazione ambientale sem-pre più degenerata ha creato, so-prattutto nei giovani, un forte inte-resse verso tutto ciò che è ecologi-co. Acquisti compresi. Infine, in se-guito a una politica intrapresa a li-vello comunitario e denominata“green purchasing”, nel 2003 in Ita-lia è stato emanato un decreto mi-nisteriale che obbliga le ammini-strazioni pubbliche e le aziende acapitale pubblico ad acquistare perle loro forniture, almeno il 30 percento di prodotti di riciclo. Alcuneregioni, come la Lombardia, hannoalzato questo tetto al 35 per cento.Tutti questi fattori hanno creato ilnuovo mercato eco. Che presentaottime prospettive economiche eche, quindi, è diventato allettanteanche in termini di profitti. Molteaziende stanno cominciando apresentare bilanci socio-ambien-tali. Io credo che si affermerà un“Remade in Italy”. Che ci farà eccel-lere nel mondo, come ha semprefatto il Made in Italy di qualità.

Una nuova etica industriale do-vrebbe seguire lo slogan: «Proget-tiamo la durata dei nostri prodot-ti». Perché grazie alle innovazionitecnologiche in nostro possessooggi un materiale può vivere all’in-finito. Assumendo di volta in voltaforme diverse. Le gomme di un au-to possono diventare pavimenta-zioni anti-trauma per bambini. Iflaconi dei detersivi possono esse-re trasformati in giocattoli. La car-ta è eterna. Persino la plastica è unamateria molto interessante, chepuò essere facilmente rilavorataper diventare un pile piuttosto cheun cestino per la spesa. L’impor-tante è che la raccolta differenziatavenga eseguita in maniera ottima-le. E credo che l’Italia si stia orien-tando verso questa idea. Ancheperché, visto che in futuro le mate-rie prime saranno sempre più care,riciclare rappresenta un vantaggioeconomico.

In quest’ottica il design assumeun’importanza fondamentale. So-no sempre più numerose le azien-de che chiedono a noi designer direalizzare prodotti nuovi che solle-tichino l’attenzione del pubblicosenza danneggiare il pianeta. Co-me la cucina di cartone.

L’autore, fondatore dello studioCapellini Design & Consulting,

si occupa da anni di design ambientale e ha dato vita a Matrec,la prima banca dati per l’ecodesign

Remade in Italyè la formula

del nostro futuro

Così il mercato si riorganizza

MARCO CAPPELLINI

SEDIE RICICLATEI fratelli Fernandoe HumbertoCampana hannoconquistatotutti con i loropezzi diriciclo. La loroproposta diquest’anno perEdra si chiamaJenette. Incinque colori

UN’IDEA DI LEGNOAnche i designer pensanoverde. Cappellini lancia laproposta di Marc Newson:la Wooden chair. Unapoltroncina realizzata conuna serie di listarelle inmassello di faggio curvato

OCCHIO AL PANORAMAI bebè sono i più colpitidallo smog da tubo discappamento, per evitarloora c’è il passeggino Xplorydi Stokke. Altezza regolabile

SPIRITO D’AVVENTURAI nuovi eco-resort riescono a mettereinsieme spirito ecologico e lusso a cinquestelle. Viaggi dell’Elefante ha in catalogouna serie di proposte verdi. Come il campo“tendato” dell’isola di Espiritu Santu in BajaCalifornia.

PIETRE DA SCOPRIREQuarzi, turchesi, coralli, onici, giada,madreperla. Sono le pietre utilizzateper gli orecchini d’argento stile gitanadi Shinè : un’azienda che devolveparte degli utili ai profughi tibetani

DI BUONA FIBRALa t-shirt Moby è uno deicapi prodotti per mostrarele capacità di ingeo, la fibrache ha la resistenza e ladurata dei materiali sintetici DORMIRE TRA I FIORI

Zucchi ha decisousare la Ingeo fiberper una collezionedi lenzuola dallefantasie sgargianti

SOGNI DA CHEFLe Valcucinesono realizzatecon materialiriciclabili e verniciatossiche. Masoprattutto sonoimprontate alladematerializzazio-ne: cioè utilizzanoil 70 % in meno dimaterie prime. Ilmodello Ricicla haante in carboniospesse appenadue millimetri

Nelle serre i pomodori bruciano50 volte più energia che nei campi

50 volte

È la quantità di rifiuti prodottada un bimbo in tre anni di vita

1000 kg

Rep

ubbl

ica

Naz

iona

le 4

9 15

/05/

2005

Page 24: DOMENICA 15 MAGGIO 2005 - la Repubblicadownload.repubblica.it/pdf/domenica/2005/15052005.pdfDOMENICA 15MAGGIO 2005 D Laomenica di Repubblica I gley (Virginia), quartier generale della

l’incontroScelte radicali

LAURA LAURENZI

ROMA

Sulla scrivania, un tavolo diformica bianca, ha un com-puter vecchio tipo, di quellicon lo schermo mastodonti-

co, e poi una confezione di integratorivitaminici e pile di libri, giornali, qua-derni zeppi di appunti. Alle spalle, incornice, quattro sue caricature pubbli-cate sulle prime pagine dei quotidiani eun vecchio manifesto anni Settanta dilei, ragazza, che sfila in piazza control’aborto clandestino. Anche una gran-de foto scattata a Kabul nel ‘97 duranteun blitz che le costò l’arresto: la Boninoin mezzo a nove donne col burka, novefantasmi celesti.

Emma la dulce, come la chiamano igiornali spagnoli — che dolce non è perniente, semmai più genere human can-nonball (definizione di Time) — arrivanel suo piccolo ufficio al Partito radica-le, nel cuore di Roma, vestita da perfet-ta donna in carriera: giacca scura gessa-ta a righe minuscole, top bianco, panta-loni neri, capelli freschi di parrucchiere,agenda sottobraccio, aria fattiva. Sul ri-svolto della giacca esibisce una minu-scola decorazione al merito: un’onori-ficenza italiana? Cavaliere? Commen-datore? «Ma quando mai. L’Italia nonmi ha mai dato nessuna onorificenza.Questa l’ho avuta a Gibuti: sono cava-liere al merito della Repubblica di Gibu-ti». Uno dei paesi in cui più veemente èl’impegno di Emma Bonino nella batta-glia contro l’infibulazione.

Dopo quattro anni di vita al Cairo —ha preso casa in Egitto nel giugno del2001 anche per elaborare la batostaelettorale — è ancora più occidentaliz-zata e ha capito molte cose, oltre ad ave-re approfondito un contatto più direttoe più intimo con la solitudine. «Ho ca-pito che, al di là dei diversi paesi e dei di-

versi stili di vita — ognuno si veste di-verso, prega diverso, mangia diverso —gli arabi di religione musulmana, o cop-ta, o laici come me, in realtà hanno esat-tamente le stesse aspirazioni e le stessenecessità che abbiamo noi. Insomma:ho avuto conferma che non sono unmondo a sé. La differenza vera tra noi eloro è una differenza di sistema politi-co: tra società chiusa e società aperta,tra dittatura e democrazia. Tutto qui. Sesi prende atto di questo, capiamo il ruo-lo della religione, anzi, capiamo comela religione venga manipolata a fini dipotere, tant’è vero che questo poveroCorano viene interpretato in modomolto diverso a seconda delle esigenzedei diversi paesi e di quello che fa co-modo alla classe dominante».

Il «povero Corano». Per capire me-glio, Emma Bonino è tornata sui banchidi scuola: al Cairo, con umiltà e deter-minazione, si è messa a studiare l’ara-bo. Per studiare la cultura studia la lin-gua, e così mette insieme i pezzi delpuzzle. Lezioni al British Council e daifrati Comboniani la mattina e ripetizio-ni private a casa il pomeriggio, i dettati,gli esercizi di conversazione, la letturadei quotidiani. E poi sola (in una mega-lopoli di 16 milioni di abitanti) davantialla televisione, Al Jazeera, Al Arabya etutte le altre emittenti locali. Oggi riescea capire, a leggere correntemente i gior-nali e anche ad esprimersi. È stato diffi-cile? «Sì. L’arabo però è una lingua mol-to razionale. Ogni parola ha una radicedi tre lettere. Attaccandoci prefissi, suf-fissi, declinazioni varie fai tutto. Di unacosa però mi sono resa conto col tem-po: la lingua non è un fattore identitarioquanto potremmo pensare. Tutto l’e-stablishment parla anche inglese ofrancese».

Da Pannella alle Piramidi. Testimo-nia anche, Emma d’Arabia, quanto ilsuo calvinismo nordico venga messo adura prova nella routine del Cairo, do-ve ormai passa due settimane al mese,più le vacanze di Natale e quelle di Pa-squa. Ha avuto qualche momento discoraggiamento? «A non finire — sbuf-fa l’ex commissario europeo alzando gliocchi al cielo — Il sentimento che mi ac-compagna da più tempo, nella vita, è lasolitudine. In Egitto, specie all’inizio,questo sentimento è diventato più for-te. Una solitudine non certo scelta. So-la non per virtù, quindi, ma per neces-sità. Non sto parlando della comunitàinternazionale, dei cocktail nelle am-basciate: quelli non mi interessano.Parlo dei rapporti umani. La societàegiziana è chiusissima. Di giorno, perlavoro, ho sempre incontrato decine dipersone, dissidenti, attivisti. La seraspariscono tutti. Difficile trovare qual-cuno con cui andare al cinema. Ultima-mente, dopo quattro anni, adesso chemi conoscono meglio e si fidano, vengoaccolta un po’ di più: certo c’è ancoradiffidenza».

Non capivano cosa realmente fossevenuta a fare al Cairo una deputata eu-

la donna marocchina, la donna egizia-na, la donna saudita e via dicendo. Cisono mille realtà diverse, ma sempre lasocietà è più avanti delle leggi e del si-stema politico che la governano, e ledonne giorno dopo giorno acquisisco-no una forza più travolgente. Un contoperò è la Turchia, un conto il Bahrein,un conto è l’Arabia Saudita, dove sol-tanto adesso alle donne viene ricono-sciuto il permesso di prendere la paten-te e guidare. Nello Yemen ho visto don-ne velate e vestite di stracci, mentre inKuwait ho visto donne velate di nerodalla testa ai piedi andare a casa e sfog-giare, sotto, abiti lussuosissimi di Ver-sace e di Dior, scollature a balconcino,trucchi perfetti. In un centro commer-ciale in Arabia Saudita, all’ultimo pia-no, quello riservato alla clientela fem-minile, ho visto commesse che sembra-vano conigliette di Playboy; al repartolingerie vendevano biancheria daCrazy Horse, roba postribolare. È ovvioche la libertà ti toglie il bisogno di que-sto esibizionismo represso che poi sisfoga in casa, in camera da letto».

La battaglia contro l’infibulazionecondotta dall’organizzazione non go-vernativa Non c’è pace senza giustizia,da lei fondata, sta dando buoni frutti:«Al Cairo siamo riusciti a coinvolgere lasignora Mubarak, abbiamo ottenuto ladiretta tv da Al Jazeera, abbiamo fattopartire una campagna di spot in televi-sione che ripete come le mutilazioni ge-nitali non sono previste dal Corano.Nell’ultima conferenza a Gibuti, a mar-zo, trecento donne si sono rivoltate insala contro le autorità religiose che con-tinuavano a sostenere la necessità del-la mutilazione della clitoride anche sein forma leggera. È stata una rivoltadavvero fantastica: gli imam sono do-vuti scappare a gambe levate. Anche lìabbiamo avuto la diretta di Al Jazeera».

Un panzer, la Bonino. Non si scorag-gia mai. «Il Protocollo di Maputu, cheall’articolo 5 prevede l’abolizione diogni forma di mutilazione genitale, ègià stato ratificato da dieci paesi. Man-cano ancora cinque ratifiche, che con-tiamo di avere entro l’anno. Dopodichéla norma entrerà in vigore e diventeràobbligatoria».

L’Italia vista dal cannocchiale delCairo sembra un paese lontano. Unabattaglia in cui Emma Bonino si sta im-pegnando con tutta la sua passione(«ma non abbiamo un centesimo») èquella per i referendum sulla procrea-zione assistita, lei che negli anni Set-tanta si sottopose a inseminazione ar-tificiale: «Sono referendum fonda-mentali esattamente come lo eranoquelli sul divorzio e sull’aborto, legati aiprincipi laici dell’autodeterminazionee della libertà di cura. Avremo una va-langa di sì ma il vero problema sarà rag-giungere il quorum. Mancano, secon-do le nostre stime, cinque milioni di vo-tanti».

Un’altra sigaretta. In tema di laici-smo e religiosità, che impressione le

ropea, per giunta single. «Mi hannochiesto persino se ero venuta per apri-re una pizzeria». Un paese «complica-to e appassionante»: così definisce l’E-gitto. «Sarebbe stato più chic studiarel’arabo a Marrakech, ma dal Cairo, cittàcrocevia, continuo tutte le mie batta-glie civili contro ogni integralismo. So-no così tante quelle che vorrei combat-tere che non mi basterebbero dieci vi-te...».

È possibile stilare una lista di prio-rità? Emma Bonino pesca dalla sua lus-suosa borsa bordeaux di Fendi un pac-chetto di sigarette. Ne accende una.Pausa. Poi dice: «Non è per veterofem-minismo, ma il filone dei diritti femmi-nili è sempre il filone più straordinario.È un microcosmo di tutto: implica i di-ritti personali, i diritti economici, i di-ritti politici».

Al Cairo e dintorni ha capito peresempio che la donna musulmana èun’astrazione. «Esiste la donna turca,

hanno fatto i milioni di persone in codaper rendere omaggio a papa Wojtyla?«Fortunatamente non ero in Italia. Ungrande spettacolo. La stessa mediatiz-zazione, del resto, che ha avuto tutto ilcalvario del Papa. Comunque non erauna folla religiosa, non possiamo parla-re di una corrente di spiritualismoquanto piuttosto di una sorta di pre-senzialismo epocale, poter dire: c’eroanch’io, scattare la foto col cellulare. Eanche ricerca di una leadership chenon si trova altrove». E papa Ratzinger?«Un papa non di potere, un papa dei po-veri, un papa da Concilio Vaticano II èun papa che sarebbe stato più utile peri veri credenti».

È amareggiatissima di non avercelafatta nella corsa a diventare alto com-missario delle Nazioni Unite per i rifu-giati, lei che era l’unica donna nellashort list degli otto supercandidati. Ep-pure il governo italiano, almeno a paro-le, l’aveva sostenuta. «Non direi pro-prio. Direi anzi che Berlusconi e Fini sisono addormentati. Mi dispiace davve-ro moltissimo, è una delusione cocen-te. Un bel giorno renderò pubblico l’in-tero dossier. E quel giorno, tra incapa-cità e malafede, ci sarà da mettersi lemani nei capelli».

Oggi il suo ubi consistam sembra es-sere il Cairo, quell’appartamento in unpalazzone di nove piani nel quartiereborghese ma delabré di Zamalek dacui, in solitario, sembra tenere sottocontrollo ogni possibile segnale dicambiamento. Impegnarsi nelle bat-taglie per il mondo arabo è diventataun’urgenza. Bella scommessa politicala possibile evoluzione democraticadell’intera area. «Prese una per una ledonne laggiù non hanno forza, peròstanno cominciando a capire che uni-te possono avere un impatto enorme.È caduto il muro della paura, e la loroforza può essere rivoluzionaria», riba-disce Emma Bonino, con una luce spe-ciale negli occhi.

Ho imparato chela differenza tra noie loro non riguardala religione,gli stili di vitao le aspirazionima i sistemi politici:qui c’è la democraziae lì c’è la dittatura.Nient’altro

‘‘

‘‘Quattro anni fa si è trasferita al Cairoper studiare l’arabo. Così la più laicafra le politiche italiane si è ritrovatafaccia a faccia con l’integralismo,ha affrontato le diffidenze suscitate da

una deputata europea,donna e per di più single,che va ad abitarenel cuore dell’Islam.Ma soprattutto ha fatto i conti con la solitudine: in Egitto, ci raccontaora, di giorno parli

con decine di persone ma la seraspariscono tutti: difficile trovarequalcuno per andare al cinema

Emma BoninoF

OT

O M

IMM

O F

RA

SS

INE

TI /

AG

F

50 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 15 MAGGIO 2005R

epub

blic

a N

azio

nale

50

15/0

5/20

05