DOMENICA APRILE FEDERICO RAMPINI Gli ultimi...

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DOMENICA 10 APRILE 2005 D omenica La di Repubblica « O MONTECARLO H, my God! Trovo tutto ciò profondamente noioso», avrebbe esclamato giorni fa la regina Elisabetta ad uno dei suoi numerosi collabora- tori. Costui cercava vanamente di coinvolgerla nei preparativi del matrimonio civile di Carlo e Camilla che si è cele- brato ieri nella modestissima saletta del municipio di Windsorloue e che è costato 720.000 euro. La confidenza, secondo una prassi ormai consolidata, è approdata in tempo quasi reale sulle pagine dei tabloid londinesi che subito l’hanno sbattuta in prima pagina. La vita da mo- narca è un sogno per i mercanti di sogni, ma non per chi è re o regina. La legittimità delle monarchie riposa sul consenso ereditato dalla Sto- ria, ma oggi quel consenso è barattato giorno dopo giorno. Onori e pri- vilegi sono sempre più discussi, gli appannaggi sono contrattati dai governi. Per non parlare della privacy. Devastata. Gli spessi muri dei castelli dovrebbero tenere i sovrani ben al riparo dalla plebea curio- sità dei sudditi. Macché. Avviene il contrario. Ne sa qualcosa proprio Elisabetta: maggiordomi, camerieri, autisti, segretari, guardaspalle, persino gli scudieri fidatissimi fanno a gara per “rivelare” i segreti del- la sua vasta e avventurosa famiglia. C’è persino chi s’introduce furti- vamente a Buckingham Palace, pur di rubare attimi di intimità regali. D’altra parte, i re oggi diventano popolari se si parla tanto dei loro affanni, se si condividono con essi problemi, apprensioni, drammi e tragedie. Transfert collettivi di emozioni. Solo che ispirare simpatia non basta, devono saper comunicare rispetto. E questo è sempre più difficile: la vita da re comporta sacrifici, s’intende, sacrifici dorati, do- ratissimi, ma pur sempre incombenze regali che non possono esse- re eluse. Di recente, Elisabetta si è recata come ogni anno alla gran fe- sta del Commonwealth di cui lei è istituzionalmente alla testa. Anzi, di più. Di 15 dei 54 Stati membri di questa alleanza, lei è ancora il ca- po di Stato: la sua effigie compare sulle monete, sulle banconote, nei francobolli. Sfoggiando il suo più bel soprabito rosa e un coraggioso cappello a cloche rosa e viola, abbinato con l’abito, si è recata in Rol- ls Royce all’abbazia di Westminster per celebrare il Regno Unito e le sue molteplici culture. L’accenno alla vettura non è casuale. segue nella pagina successiva servizi di PAOLO FILO DELLA TORRE e LAURA LAURENZI spettacoli Se Hollywood conquista Broadway ANTONIO MONDA l’inchiesta “Le camerette della nostra vita doppia” MARIA STELLA CONTE FEDERICO RAMPINI il viaggio Alla scoperta del popolo Miao l’incontro Paolo Rossi: ricomincio da capo RODOLFO DI GIAMMARCO LEONARDO COEN cultura L’eterna guerra per l’Arca perduta ELENA DUSI e GUIDO RAMPOLDI Gli ultimi Re Il matrimonio di Carlo e Camilla in Inghilterra e la morte del principe Ranieri hanno acceso i riflettori sulle monarchie. Siamo andati a vedere come vivono e quanto contano oggi i sovrani d’Europa

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DOMENICA 10 APRILE 2005

DomenicaLa

di Repubblica

«OMONTECARLO

H, my God! Trovo tutto ciò profondamentenoioso», avrebbe esclamato giorni fa la reginaElisabetta ad uno dei suoi numerosi collabora-tori. Costui cercava vanamente di coinvolgerla

nei preparativi del matrimonio civile di Carlo e Camilla che si è cele-brato ieri nella modestissima saletta del municipio di Windsorloue eche è costato 720.000 euro. La confidenza, secondo una prassi ormaiconsolidata, è approdata in tempo quasi reale sulle pagine dei tabloidlondinesi che subito l’hanno sbattuta in prima pagina. La vita da mo-narca è un sogno per i mercanti di sogni, ma non per chi è re o regina.La legittimità delle monarchie riposa sul consenso ereditato dalla Sto-ria, ma oggi quel consenso è barattato giorno dopo giorno. Onori e pri-vilegi sono sempre più discussi, gli appannaggi sono contrattati daigoverni. Per non parlare della privacy. Devastata. Gli spessi muri deicastelli dovrebbero tenere i sovrani ben al riparo dalla plebea curio-sità dei sudditi. Macché. Avviene il contrario. Ne sa qualcosa proprio

Elisabetta: maggiordomi, camerieri, autisti, segretari, guardaspalle,persino gli scudieri fidatissimi fanno a gara per “rivelare” i segreti del-la sua vasta e avventurosa famiglia. C’è persino chi s’introduce furti-vamente a Buckingham Palace, pur di rubare attimi di intimità regali.

D’altra parte, i re oggi diventano popolari se si parla tanto dei loroaffanni, se si condividono con essi problemi, apprensioni, drammi etragedie. Transfert collettivi di emozioni. Solo che ispirare simpatianon basta, devono saper comunicare rispetto. E questo è sempre piùdifficile: la vita da re comporta sacrifici, s’intende, sacrifici dorati, do-ratissimi, ma pur sempre incombenze regali che non possono esse-re eluse. Di recente, Elisabetta si è recata come ogni anno alla gran fe-sta del Commonwealth di cui lei è istituzionalmente alla testa. Anzi,di più. Di 15 dei 54 Stati membri di questa alleanza, lei è ancora il ca-po di Stato: la sua effigie compare sulle monete, sulle banconote, neifrancobolli. Sfoggiando il suo più bel soprabito rosa e un coraggiosocappello a cloche rosa e viola, abbinato con l’abito, si è recata in Rol-ls Royce all’abbazia di Westminster per celebrare il Regno Unito e lesue molteplici culture. L’accenno alla vettura non è casuale.

segue nella pagina successivaservizi di PAOLO FILO DELLA TORRE e LAURA LAURENZI

spettacoli

Se Hollywood conquista BroadwayANTONIO MONDA

l’inchiesta

“Le camerette della nostra vita doppia”MARIA STELLA CONTE

FEDERICO RAMPINI

il viaggio

Alla scoperta del popolo Miao

l’incontro

Paolo Rossi: ricomincio da capoRODOLFO DI GIAMMARCO

LEONARDO COEN cultura

L’eterna guerra per l’Arca perdutaELENA DUSI e GUIDO RAMPOLDI

Gli ultimi

Re

Il matrimonio di Carloe Camilla in Inghilterrae la morte del principeRanieri hanno accesoi riflettori sulle monarchie.Siamo andati a vedere comevivono e quanto contanooggi i sovrani d’Europa

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la copertinaCorone d’Europa

Sono ricchi, in alcuni casi come la regina Elisabettad’Inghilterra ricchissimi. Tranne rare eccezioni, comeJuan Carlos di Spagna, contano ormai pochissimo.Oggi stare sul trono è diventato sempre piùun mestiere normale. Ma è indispensabileuna specializzazione nelle pubbliche relazioni

Ci sono quattro re, treregine,due principie un granduca. Setteregni fanno partedell’Unione Europea,due, Monacoe Liechtenstein,sono paradisi fiscali.E fra i paesi piùricchi del mondoquattro su diecisono tuttora rettida monarchi

LAURA LAURENZI

30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 10 APRILE 2005

Quando essere Re è un lavoro(segue dalla copertina)

Per ragioni di sicurezza, innanzi-tutto. Incombe, poi, un’altra re-gola scolpita nel marmo di ognistatuto monarchico: l’auto delre deve essere un modello par-ticolare. Limousine corazzate,

alte ed agevoli. Capaci di rendere l’entratae l’uscita dall’abitacolo un gesto semplicee disinvolto. Nel garage della regina Elisa-betta sono parcheggiate otto vetture: treRolls Royce, tre Daimler e due Bentley. È la“flotta” automobilistica ufficiale della co-rona inglese. Lord Donoughue, simpatiz-zante del Labour Party di Tony Blair, so-stiene che costano troppo all’erario e ognivolta che può lo denuncia in Parlamento:1,2 milioni di sterline l’anno, compreso ilsalario di tre autisti. Due milioni di euro. Laregina, tuttavia, in privato preferisce gui-dare una grossa Jaguar Estate (targata Y694COU), oppure una Vauxhall, mentre Car-lo, più spericolato, ama l’Aston Martin.

Eh, sì. I sovrani costano. Auto, yacht, ae-rei. Residenze. Personale di servizio rigo-rosamente selezionato. Sorveglianza. Lemonarchie costituzionali sono un lusso.Persino il lillipuziano Principato di Mo-naco concede un lauto appannaggio ai

Grimaldi, Ranieri (fino alla sua recentemorte), Alberto e Stephanie (non Caroli-ne) ricevono — in quote diverse — alcunimilioni di euro l’anno.

I soldi sono un capitolo a parte, nellasaga delle dinastie. In tutto il mondo, nesono rimaste 29 a regnare: il 15 per cen-to dei Paesi membri dell’Onu. Nel clubdelle trenta economie nazionali più ric-che, l’Ocse, le monarchie sono il 40 percento. Solo dunque i Paesi con tanto de-naro possono mantenere adeguata-mente una famiglia reale? Sembra di sì.In Europa sul trono ci stanno ancoraquattro re, tre regine, due principi e ungranduca. Sette di questi regni fannoparte dell’Unione Europea. Due dei treche ne stanno fuori, sono consideratiparadisi fiscali: Monaco e Liechtenstein.

I re incassano, ma lavorano sodo, al-meno a sentir loro: cominciano da picco-li. Spediti nei college più riservati e severi,se non addirittura nelle accademie mili-tari. Elisabetta II, per esempio, assommanella sua persona un cumulo di cariche edi funzioni impressionanti: capo di statodel Regno Unito di Gran Bretagna e NordIrlanda, capo dell’esecutivo, capo dellamagistratura, comandante in capo delleforze armate e governatore supremo del-la Chiesa d’Inghilterra, senza dimentica-re il Commonwealth. In pratica, il Regno

Unito è governato dal governo di SuaMaestà nel nome della Regina (le maiu-scole in questo caso sono un obbligo), laquale agisce su consiglio del governo. LaRegina partecipa ancora ad alcuni atti im-portanti del governo. Fra questi, la convo-cazione e lo scioglimento del Parlamento,l’assenso reale alle leggi, le nomine delpremier e dei ministri, di giudici, verticidelle forze armate, governatori, diploma-tici, vescovi della Chiesa d’Inghilterra. Perlo svolgimento di questi impegni ufficialiriceve un appannaggio dal governo di 7,9milioni di sterline all’anno. Briciole, ri-spetto al patrimonio personale.

Le spese milionarieTanto per avere un’idea, ogni anno Eli-sabetta II paga 103 milioni di sterline so-lo come imposte dirette. È consideratauna delle donne più ricche del mondo,se non la più ricca: può permettersi dispendere miliardi (delle vecchie lire) peracquistare splendidi cavalli o per imple-mentare la sua preziosa raccolta filateli-ca, la più importante del mondo.Quand’era più giovane, assieme al con-sorte principe di Edimburgo, partiva perlunghe crociere sul suo Britannia, unoyacht grande come una nave.

Il mare è la passione sfrenata di tantimonarchi. Più di tutti, del sessantaset-

tenne don Juan Carlos, re di Spagna dal1975, velista provetto e regatante di va-glia. A differenza della regina Elisabetta,Juan Carlos ha un modesto patrimonio.Per mantenere la Casa Real, lo Stato spa-gnolo gli assegna 6,74 milioni di eurol’anno, di cui può disporre liberamente.Non ci sono appannaggi né per la reginané per i principi ereditari. In compenso,Juan Carlos ha giocato un ruolo decisivonella restaurazione della democrazia,da lui difesa quando, nel 1981, fu tenta-to un putsch militare: il suo drammaticoe coraggioso discorso alla nazione, tra-smesso in diretta tv, sbarrò la strada ainostalgici del regime fascista di Franco.Gli spagnoli, anche i più irriducibili re-pubblicani, ebbero per lui il più granderispetto: aveva saputo cristallizzare at-torno alla sua figura «sopra le parti» l’i-dentità e l’orgoglio del Paese. Le sue nonsono competenze puramente formali,in quanto capo dello Stato e capo supre-mo delle forze armate. Ha la facoltà dipromulgare le leggi, convocare o scio-gliere il parlamento e convocare elezio-ni e referendum, proporre e nominare ilcapo di governo (anche dimetterlo), imembri del governo (su proposta delpremier), ha il compito di manifestare ilconsenso per i trattati internazionali equello di dichiarare la guerra (o la pace).

LEONARDO COEN

Come e quanto stiano cambiando le monarchie europee lo si deduce so-prattutto dai matrimoni. E che matrimoni. Impensabili fino a non mol-ti anni fa, oggi ormai la norma. Incredibile: ci si sposa per amore. E al

diavolo la ragion di Stato, al diavolo i matrimoni di convenienza, gli intreccifra casati, le alleanze dinastiche, le nozze inter pares. È un vento liberatorioche spazza tutte o quasi le corti del continente. I matrimoni programmati atavolino appartengono ormai soltanto ai libri di storia, morti e sepolti sottopagine incartapecorite. Gli eredi al trono si sono imborghesiti. Anzi: spesso iborghesi si rivelano più attenti e più calcolatori dei principi del sangue, nel-l’acquisire e moltiplicare tramite nozze oculate patrimoni considerevoli. I fu-turi re, onore al merito, si dimostrano per niente arrampicatori, sposandosemplicemente le donne di cui si sono innamorati: amandole — come in unfotoromanzo o in una soap opera — per quello che sono. Fanciulle senza bla-sone, dal curriculum non sempre specchiato.

Non si tratta di fisiologici impulsi giovanili. E a dimostrarlo urbi etorbiè l’e-rede al trono più prestigioso (o per lo meno così era) del pianeta, cioè Carlod’Inghilterra. Ormai prossimo alla sessantina, è riuscito ieri a coronare il suosogno d’amore che dura da oltre tre decadi con una coetanea di scarsissimaavvenenza. Ha impalmato la sua amante storica contro tutto e contro tuttipersino a rischio abdicazione. Per un semplice motivo: la ama. Certo: agli spo-si manca le phisique du rõle, ma si tratta di una storia estremamente roman-tica. Lui le ha offerto un dono di gran classe e di principesca eleganza, rifiu-tando di farle firmare un contratto pre-matrimoniale e disobbedendo così adavvocati e consiglieri. Il nostro è un matrimonio basato sulla fiducia, ha fattosapere l’erede alla corte di San Giacomo, e dunque honi soit qui mal y pense,come si legge nello stemma dell’Ordine della Giarrettiera. E al diavolo ognipatto pre-nuziale, meschineria da piccolo-borghesi attenti al soldo.

Guardando al passato, non fu invece un matrimonio d’amore, per lo me-

no all’inizio, quanto una strategica operazione promozionale, quello fra Ra-nieri e Grace Kelly, che i sudditi monegaschi nei primi tempi ribattezzarono«Glace» per la sua non calorosità. Fu il socio-amico poi nemico Onassis a sug-gerire al sovrano Grimaldi di portare all’altare un’attrice, meglio, una diva, cheavrebbe calamitato doviziosa pubblicità internazionale e selezionati flussituristici. Resasi innocua — vuole la leggenda — Marilyn Monroe — la secon-da scelta cadde su Grace Kelly, assai racée per essere un’attrice, la quale ac-cettò di buon grado quel matrimonio combinato, interpretando così bene laparte di principessa da finire per crederci.

Tornando alla generazione dei principi sposo-chi-mi-pare, quello che hacompiuto il gesto più clamoroso è stato senz’altro Haakon Magnus di Norve-gia. Nell’agosto del 2001 è riuscito a portare all’altare la ragazza che aveva for-se meno requisiti nell’intero regno per diventare un giorno regina. Mette-Ma-rit Tjessem Hoiby non soltanto non è aristocratica, non soltanto è un’ex fre-quentatrice di droga party per i quali fece pubblica ammenda in tv alla vigiliadelle nozze, non soltanto ha un padre semi-alcolizzato e uno zio condanna-to per spaccio di cocaina, ma è anche una ragazza madre. Ha portato in doteun figlio, Marius, di quattro anni, avuto da un pregiudicato, anche lui con pre-cedenti penali nel ramo stupefacenti.

Il re Harald e la regina Sonja (anche lei una borghese, detta «la camiciaia»)hanno fatto l’impossibile perché il loro figlio maschio abbandonasse una ra-gazza così imbarazzante, ma hanno dovuto capitolare. Haakon era dispostoanche a rinunciare al trono pur di sposare la donna che ama. Tanto impetomerita il lieto fine: a fare compagnia a Marius è nata una bambina, IngridAlexandra, che un giorno cingerà la corona di Norvegia.

È stato certamente un matrimonio d’amore anche quello, celebrato nelmaggio dell’anno scorso, fra Felipe di Spagna e la rampantissima Letizia Or-tiz, la plebeya col nonno tassista e la mamma infermiera-sindacalista che il

Nozze d’amorele monarchiecambiano così

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31DOMENICA 10 APRILE 2005

Pacifista convinta è la sessantacin-quenne Margrethe II regina di Dani-marca dal 1972. Divenne erede al tronoufficialmente nel 1953, grazie ad unemendamento costituzionale che per-metteva anche alle donne l’accesso allacorona. È quindi la prima regina di Da-nimarca, regno le cui radici affondanonel X secolo. La responsabilità regalenon la distrae dalla sua attività preferita:quella di dipingere. È infatti una pittricedi talento, conosciuta sotto lo pseudo-nimo di Ingahild Grathmer: ha illustra-to un’edizione danese del Signore degliAnelli. Laureata a Copenaghen in Scien-ze politiche, ha seguito dei corsi di ar-cheologia a Cambridge, ha frequentatola Sorbona e la London School of Econo-mics. Forse sognava una cattedra all’u-niversità. Sopporta il (fortunato?) desti-no di sovrana intellettuale, col portafo-glio gonfio. Ha infatti due castelli, unochalet in Norvegia e un discreto patri-monio, che amministra oculatamente.È ricca, ma non tanto quanto Elisabettao la regina Beatrice d’Olanda, figlia diGiuliana. Nonostante il ruolo assoluta-mente simbolico, le passano un sostan-zioso appannaggio, 5 milioni di euro.

Anche Carlo d’Inghilterra dipinge:languidi paesaggi, in stile neoromanti-co. In genere, però, i sovrani amano

comprarli i quadri, commissionarli,possederli. Ranieri di Monaco l’ha fatto:l’arte vista come collezione (e magarifruttuoso investimento). Nessuno,però, può vantare la competenza diHans-Adam II, principe del Liechten-stein, unica monarchia a non erogare al-cun appannaggio. Grandissimo espertodel Rinascimento, Hans-Adam possie-de una favolosa raccolta di dipinti delvalore di 500 milioni di euro (Raffaello,Mantegna, Cranach, Van Dyck), la LGTBank, terreni in Austria per 20mila etta-ri, palazzi a Vienna.

L’impegno ecologicoHans-Adam è il Paperone dei re d’Eu-ropa. Lo scorso agosto ha abdicato a fa-vore del figlio Alois che ha frequentatol’accademia militare di Sandhurst(Gran Bretagna), ed ha in seguito servi-to nella guardia britannica a HongKong e a Londra, per concludere aVienna gli studi di diritto. Anche il gran-duca Henri di Lussemburgo è passatoper l’accademia di Sandhurst. ComeAlberto di Monaco, è un ardente difen-sore della natura. Con un pallino fisso:salvaguardare l’ecosistema delle Gala-pagos. Per contribuire a questo scopo,attinge alle sue cospicue proprietà.

C’è modo e modo di rendere immor-

tale e rispettato il proprio nome. CarloXVI Gustavo, re di Svezia dal 1973, haoperato per l’Agenzia internazionalesvedese di sviluppo e di cooperazionecon l’Africa. E in seguito, durante i Giochidi Monaco del ’72, conobbe un’interpre-te della delegazione tedesca e la sposòquattro anni dopo. Coronò, nel vero sen-so della parola, una storia d’amore. Allagente piacciono i principi e i re romanti-ci che sfidano le convenzioni dinastichee si comportano secondo i canoni hol-lywoodiani, compiendo gesti che gli per-mettono di superare qualunque ostaco-lo. Piace chi, come Alberto del Belgio unmese fa, fa quello che non hanno avutoil coraggio di fare i suoi ministri, va cioèa bussare per la seconda volta alla portadi Rik Van Nieuwenhuysen, direttoredell’impresa di cibi precotti Remmery, aLedegem. Il signor Rik, ex poliziotto, hadato lavoro a un’operaia musulmana.Un gruppo xenofobo estremista lo haminacciato più volte di morte. Albertogli ha detto che il Belgio civile, antirazzi-sta e democratico sta dalla parte sua edell’operaia musulmana. Come sonoremoti i tempi di re Leopoldo I che con-quistava il Congo e lo considerava im-pero privato, o dell’altro re Leopoldo III,arresosi senza condizioni alle truppenaziste che invadevano il Belgio.

principe delle Asturie ha imposto a re Juan Carlos, formidabile incassatore, ealla sconfortata regina Sofia. I cattolicissimi re di Spagna hanno dovuto ac-cettare, facendo buon viso a cattivo gioco, una nuora divorziata. E pensareche Sofia la pretendeva addirittura di sangue reale: non si sarebbe acconten-tata di un’aristocratica qualunque. Figurarsi una giornalista televisiva, per dipiù già sposata. E munita di vari scheletri nell’armadio, giudicati più o menodisdicevoli. Per esempio la copertina di un Cd messicano in cui la bella Leti-zia appare a seno nudo. Per esempio certe foto che la ritraggono nelle vesti didistributrice ambulante di sigarette a un congresso a Guadalajara.

Anni spensierati in cui nulla lasciava presagire un destino dinastico tantoimpegnativo. Che sembra generarle stress e angoscia, per lo meno secondo iroyal watchers, i quali non mancano di sottolineare la sua magrezza crescen-te (è ormai una taglia 36), le rughe premature, l’espressione tirata dietro il vol-to dell’ufficialità. Che soffra di anoressia? Dalla Zarzuela, circostanza senzaprecedenti, si sono affrettati — e abbassati — a smentire. Fin troppo facile li-quidare la sua apparente infelicità non tanto con l’insofferenza al cerimonia-le di corte, quanto con la disperazione per la mancata gravidanza. Letizia co-me Soraya, si sono precipitati a scrivere i rotocalchi. Un po’ presto: Felipe &Sofia sono sposati da nemmeno undici mesi.

Chi dal sangue borghese sembra avere attinto nuova linfa, entusiasmo,energia, oltre a una doppia discendenza (aspettano il secondo bambino) èGuglielmo d’Orange Nassau, il futuro re d’Olanda. Anche lui ha dovuto su-dare sette camicie per imporre la donna prescelta: una che sulla carta sem-brava una vera catastrofe. Maxima Zorreguita, di Buenos Aires, era la fidan-zata venuta dal golpe. Non soltanto straniera, non soltanto drasticamente pri-va di sangue blu, non soltanto cattolica, ma anche figlia di un ministro dellagiunta golpista di Videla. Gli scontri politici furono accesissimi, ad Amster-dam si arrivò persino a sfiorare la crisi di governo. Il parlamento alla fine po-

se come condizione che il padre della sposa si tenesse alla larga dalle nozze edal Paese. Lanci di vernice bianca, il colore delle madri della Plaza de Mayo,bersagliarono il corteo nuziale il 2 febbraio del 2002. A tre anni di distanzaMaxima si è rivelata un’ottima scelta, è amatissima dai sudditi per la sua per-sonalità, la sua comunicativa e il suo temperamento latino.

È osannata dalle folle anche Mary Donaldson, la bruna «Venere della Ta-smania» che il principe Frederick di Danimarca, lineamenti infantili ma unarobusta fama da playboy, ha sposato lo scorso maggio, commuovendosi finoalle lacrime in mondovisione. Una commoner anche lei, naturalmente, agen-te immobiliare e consulente finanziaria in carriera conosciuta alle Olimpiadidi Sidney nel 2000.

Sposerà probabilmente il suo personal trainer Vittoria di Svezia, che ungiorno sarà regina, «figlia d’arte» in quanto il padre convolò a nozze con unahostess congressuale. «La sola cosa che conti è che io sia innamorata e felice»,ha dichiarato la principessa, non più sofferente di anoressia, al fianco dell’in-traprendente Daniel Westling, proprietario di una palestra a Stoccolma. Ècorredato di fidanzata platealmente borghese anche William d’Inghilterra,primogenito di Carlo e Diana, che ormai da due anni fa coppia fissa con unacompagna di facoltà della St Andrew’s University, in Scozia. Lei si chiama Ka-te Middleton, e non appare poi così marginale se la regina Elisabetta ha ri-chiesto il piacere della sua compagnia al ricevimento di nozze tra Carlo e Ca-milla. Un bel segnale. In fin dei conti a fare eccezione è Filippo del Belgio, l’u-nico o quasi fra gli eredi al trono che abbia sposato un’aristocratica. Mathilded’Udekem d’Acoz, definita dal ministro degli esteri belga «un dono del cielo»,è impeccabile: bella, bionda, di rango, dal passato integerrimo, con indefes-se doti di generosità nel volontariato, ha già dato alla corona due figli. Forsetroppo perfetta per essere vera: difatti appare paradossalmente come un per-sonaggio scialbo. Di scarsissimo interesse.

“Ma un sovrano

deve avere stile”

Parla lo storico Peter Furtado

PAOLO FILO DELLA TORRE

«Sembra un paradosso ma proprioper il suo declino come centro dipotere, la monarchia britannica

può cavarsela persino dinanzi alla prospet-tiva di Camilla regina».

Peter Furtado, direttore di History To-day è un accademico di origine portoghe-se esperto di questioni costituzionali bri-tanniche. Dice: «Io sarei per un cambia-mento delle istituzioni. Servirebbe a mo-dernizzare il paese. A renderlo menoschiavo delle tradizioni. Tuttavia mi ren-do conto che è impossibile intravedereuna Repubblica britannica. Le dinastiesono cambiate ma le radici istituzionalisono profonde. Se ne rendono conto i la-buristi. Anche Tony Blair che non perdeoccasione per mostrare in pubblico la suadevozione alla regina Elisabetta».

Eppure negli anni Cinquanta Re Farukd’Egitto, dopo aver perso la corona disseche nel 2000 di re sarebbero rimasti soloquelli di cuori, di quadri, di picche, di fio-ri e quello di Inghilterra.

«Aveva torto perché a quell’epoca nonsi poteva prevedere che a Madrid sarebbestata restaurata una monarchia molto piùsolida di quella precedente al regime fran-chista, spodestata dai repubblicani».

Se i tedeschi avessero vinto la guerra cisarebbe oggi una Repubblica britannica?

«Penso che Hitler avrebbe invece im-posto il ritorno sul trono di Edoardo VIII,l’uomo che aveva abdicato per sposareWally Simpson. Lo avevano sacrificatoperché a quell’epoca sposare una divor-ziata significava non essere in sintoniacon la classe dominante, cioè con il Par-lamento, il governo e la Chiesa d’Inghil-terra. Io penso che in ogni caso un uomoimposto dai nazisti come capo di Statoinglese non sarebbe durato molto tempo.Alla prima opportunità sarebbe stato so-stituito magari appunto con un presi-dente della Repubblica».

Lei crede che i re debbano mantene-re un loro stile? Per esempio voi defini-te con disprezzo “monarchie in bici-cletta” quelle di Olanda, Belgio e deipaesi scandinavi.

«Personalmente adoro la mia biciclettaquindi non ho niente contro chi adoperala sua. Tuttavia se un paese deve avere co-me capo di Stato un monarca, questo de-ve apparire almeno nei suoi costumi di-verso dagli altri suoi sudditi. Non vedreifavorevolmente una monarchia in bici-cletta in Gran Bretagna».

Crede che nel prossimo futuro altri pae-si cambieranno la loro forma istituzionale?

«Credo proprio di no perché non preve-do nuove guerre in Europa né terribili ten-sioni sociali o crisi economiche disastro-se. Certamente ci saranno alti e bassi epersino tensioni sociali. Ma per le nostregenerazioni non si intravede la possibilitàdi eventi tali da portare ad una rivoluzio-ne. E poi c’è un grande paradosso».

Quale?«Sono le grandi potenze repubblicane,

a cominciare dagli Stati Uniti fino a Ger-mania e Francia, a garantire il manteni-mento delle corone che non sono cadutené durante le guerre del secolo scorso nénei dopoguerra».

Lei crede che dopo Elisabetta l’Inghil-terra dovrà affrontare forti tensioni sesul trono andrà Carlo con la sua reginaCamilla?

«Non c’è dubbio che è molto difficileper qualsiasi regnante trovarsi in contra-sto con l’opinione pubblica del suo pae-se, specialmente quella che conta. Tuttodipenderà dai tempi della successione aElisabetta che per fortuna della monar-chia sembra poter ereditare la longevitàdella madre. Elisabetta è salita al trono a25 anni ed è il capo di Stato che vi è rima-sto più a lungo».

Qual è la sua forza?«Ha sempre avuto l’abilità di mantene-

re una eccezionale prudenza mettendosial di sopra delle parti, di mostrare di nonvoler interferire. In Spagna il re si è invecerafforzato quando è intervenuto per con-trastare un push militare. Sono certo duestili che appaiono diversi. Ma probabil-mente perché in Inghilterra un colpo diStato è del tutto impensabile».

LE NOZZE DI FELIPEFoto di gruppo delle testecoronate d’Europainvitate al matrimonio delprincipe Felipe di Borbone

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Il re e la regina Albertoe Paola del Belgio

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Il re Carlo Gustavoe la regina Silvia di Svezia

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Il principe Felipe delleAsturie e la moglie LetiziaOrtiz. A sinistra dellasposa re Juan Carlosdi Borbone di Spagna e,a destra del principe,la regina Sofia

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Il principe d’OlandaGuglielmo d’OrangeNassau

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La regina Margrethe IIdi Danimarca con ilprincipe consorte Henrik

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Il re Harald e la reginaSonja di Norvegia

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Il principe Carlo d’Inghilterra7

La principessa Carolinedi Monaco e, a sinistra,Ernst di Hannover

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Quella certa ombra sul muro.I muri della propria infanzia.Eserciti di soldatini in mar-cia. Orchi. Draghi. Onde.Mongolfiere che diventava-no lupi e... E il sonno giù, co-

me una saracinesca. Da bambini, la vo-stra stanza com’era?

Io di stanze ne ho due...Cosa vi era proibito e cos’altro per-

messo? Ennò... qui no, mamma non vuole

che porti sul letto né Gildailconiglio, néAlfioilgatto, né Tiukeilcane; da papà in-vece, posso dormire con Luky il mio co-cher e lasciare tutto in disordine.

Cos’era per voi quella cameretta?Quanto ne eravate gelosi? Quanto vimancava se dormivate altrove?

Vittoria

Mio papà vive a La Spezia, io a Firenzecon la mamma. A La Spezia ci stannoanche i nonni, la moglie di papà e unasorellina appena nata. Mi viene a pren-dere lui i fine settimana, con la macchi-na. La stanza che ho lì, beh sì è piccina,ma quando sono qui, un po’ mi mancal’odore del mare... Vittoria gioca le suecarte di figlia di separati come una chea dieci anni ha già capito il trucco delladoppia opzione: data una certa situa-zione, è possibile trasformare lo svan-taggio evidente, in vantaggio apparen-te. A volte riesce.

Capita magari che per difendermi mivanti con le mie compagne: mi vanto diavere due stanze e di essere più viziata ecoccolata, di avere più regali, più va-canze, il doppio di tutto. Diciamo che èun argomento che uso se mi prendono ingiro, però dentro di me no, non mi sentopiù fortunata degli altri.

Due case. Due famiglie. Due stanze. Quella del lunedì e quella della do-

menica. Quella di tutti i giorni e quelladel sabato sera. Mondi paralleli, manon lo stesso mondo anche se ad abi-tarvi è lo stesso bambino. Perché Vitto-ria è Vittoria. Ma mamma non è papà. Ea Firenze la stanza è grande, con le pa-reti incollate di ricordi: è come entrarein un caleidoscopio. Ovunque disegni,da quelli di quando aveva tre anni inpoi; foto a non finire dell’intera fami-glia: genitori, nonni, zii, cugini; cinquequadretti acquerello che sembrano fo-gli strappati dai libri delle fiabe; il pccon il quale si collega per parlare con ilpapà; videocassette di cartoni animati;pupazzi di pezza, di pannolenci, plasti-ca, peluche sparsi dappertutto, persi-no attaccati alle ante dell’armadio; illetto sopraelevato con la scaletta e sot-to la scrivania; il mappamondo che si il-lumina; i libri di scuola; i quaderni. An-che se non l’avessero descritta loro, siimmagina perfettamente la scenettadella madre che tenta l’estenuante im-presa di insegnare alla figlia come dareun ordine al caos della vita quotidiana.Non come a La Spezia. Dove la stanza ètalmente piccola: casa di bambola. Illetto. L’armadio. I muri che sfumano sumiti alberelli ocra e verdi, dipinti a ma-no tempo fa, con la zia. Il canguro dipezza come bagaglio a mano. Quantobasta. Visto che avere una stanza qui euna là, non è solo questione di duplica-zione dello spazio, ma la possibilità diesprimere comunque il proprio dop-pio, l’altra parte di sé: ordine e disordi-ne; la regola e l’eccezione; i sì e i no; noi,per come gli altri — i genitori — ci con-sentono di essere.

Figli di coppie separate. Le loro ca-merette, in fondo, sono il racconto diun privilegio. Perché sono in pochi apotersi permettere, una volta usciti dicasa, una sistemazione con la stanzadel figlio. Padri, nell’85 per cento dei ca-si. Pionieri di un’era prossima venturase passerà la legge sull’affidamentocondiviso dei figli; se passerà il princi-pio che si può essere una ex coppia, manon più, mai più ex genitori. E allora: sehai un figlio, devi fargli posto non solonel tuo cuore, ma anche nella tua casa.Parole. Ma poi nei fatti — legge o nonlegge, soldi o non soldi — la vita scivolavia tra le ortiche.

Angelica Somigli, madre di Vittoria,anni 35: «La verità è che devo fare gros-si sforzi per mantenere buoni rapporticon Dario, la sua compagna, la loro fi-glioletta; non è facile ma bisogna farlo.Così, per farle un esempio, dopo la na-

l’inchiestaDopo il divorzio

Si chiamano Vittoria, Marco e Davide: sono figlidi genitori separati che si specchiano nelle loro stanze,quella nella casa della mamma e quella nella casa del papà,per raccontare la loro esperienza. Con un gioco di prestigio:trasformare uno svantaggio in un vantaggio apparente

MARIA STELLA CONTE

32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 10 APRILE 2005

scita della bambina li ho invitati tuttiqui a Firenze: ci sono equilibri indi-spensabili per la serenità dei figli e co-stano un’immensa fatica».

Dario Hayun, padre di Vittoria, anni39: «Soprattutto importa che il genitoremeno presente abbia l’umiltà di ascol-tare l’altro e mettersi eventualmente difianco accogliendo il suo punto di vistaper il bene del bambino. Come dire: ec-co vedi? Ti do retta perché lo so, a paritàdi voti, il tuo vale un po’ più del mio».

Marco

Si riparte. Trecentottanta chilometri anord di Firenze. Questa è Colico, sul la-go di Como, che fuori stagione stringeun po’ il cuore. Questa è la casa del papàdi Marco che si chiama Enzo Maffioli eha un’agenzia immobiliare, 44 anni euna nuova compagna. Quella dallaquale siamo appena usciti, invece, è la

casa della mamma di Marco, Laura Si-vilotti, che ha un’agenzia di viaggi, 40anni e un nuovo compagno. Si sono se-parati che il figlio era piccino. Ora è unadolescente con i capelli al gel e una sa-na voglia di non lasciarsi frugare den-tro. Lui è il centro dell’universo per lo-ro. Ma l’universo di Marco a un certopunto si è frammentato quando ha co-minciato ad avere due letti diversi indue stanze diverse in due case diversecon due famiglie diverse. Due. Di tutto.Anche di se stesso. C’è Marco nella so-lare camera della villetta materna, trapile di libri di scuola, cd, la bandieradell’Inter, un disegno sul muro, i trofeidei tornei di calcetto, la tv, una magliasul letto, la bottiglia di coca cola sullascrivania. C’è Marco anche qui. Nellacamera della villa paterna, tutta così or-dinata, così tranquillizzante, con ognicosa così razionalmente allineata al

posto giusto. Qui dove sua madre met-te piede dopo anni per la prima volta«perché ho sempre avuto la sensazioneche a Marco non avrebbe fatto piacere;e infatti, quando lui sta col padre sta colpadre: io non faccio domande né lui miparla mai di quel che fa o avviene di là;poi, quando è qui è qui: sono due vitecompletamente diverse e credo che ilsuo tenerle separate sia un modo pernon soffrire, una strategia di difesa».

È come vedere materializzarsi le pa-role del neuropsichiatra infantile Fran-cesco Montecchi, una vita da primarioal Bambino Gesù di Roma: «La stanza,anzi in questi casi le doppia stanza, rap-presenta la dimensione creativa di unsano sviluppo che non può avvenire aldi fuori dello spazio: esse sono o do-vrebbero essere il luogo rassicurantenel quale il bambino definisce via via lapropria identità. Ciò è possibile, tutta-

via, solo se il figlio ha la garanzia di ave-re un buon rapporto con entrambi i ge-nitori. Viceversa, se non esistono ga-ranzie affettive, le due stanze diventa-no lo spazio dell’angoscia e della scis-sione. Attenzione però: scissione nonsignifica tenere separate le due realtàattraverso il silenzio, che è invece unaimportante modalità protettiva deipropri spazi interiori e di quelli dei ge-nitori; provi solo a immaginare l’emo-tività che si scatenerebbe nel bambinonel raccontare, o peggio ancora nelsentirsi internamente obbligato a rac-contare quel che avviene nell’altra ca-sa. Scissione è il non riuscire a integra-re le parti diverse e in opposizione checiascuno ha dentro di sé, parti che ri-schiano di rimanere scisse per sem-pre, cosa piuttosto frequente proprionei figli di separati».

Una cosa in comune le due stanze di

“Se c’è armonia è una risorsa preziosa”Parla la psicologa Tilde Giani Gallino: “Fondamentale un progetto educativo comune dei genitori”

Tilde Giani Gallino, parliamo di figli di coppie separate e della possibi-lità per alcuni di loro di avere due stanze: una nella casa materna, l’al-tra in quella paterna. Cosa può significare questo per il loro sviluppo?

Un arricchimento o una frantumazione del proprio mondo?«Poiché la cosa migliore sarebbe che i figli di coppie separate passassero

metà tempo con la madre e metà con il padre, ritengo che — in questo caso— sarebbe importante per i bambini avere due camerette. Se i genitori se lopossono permettere, naturalmente. Cosa possono diventare questi spazi,dipende da come i genitori faranno vivere la separazione al figlio: la doppiastanza può tradursi in una opportunità per l’espansione di sé; o rappresen-tare il luogo della mancanza dell’altro genitore. È fondamentale quindi chemadre e padre continuino a vedersi per fissare criteri che consentano alledue stanze di non differenziarsi troppo l’una dall’altra».

Dovrebbero essere camere gemelle?«Assolutamente no. Però bisogna fare molta attenzione: avere un doppio

spazio è un arricchimento nel senso che ho tanto più posto — e non solo fi-sico — per me stesso. Ma se non c’è accordo tra i genitori la stanza può di-ventare uno strumento di ricatto. Se quando sono da papà posso rientrare aqualsiasi ora mentre da mamma no; se lì posso tenere la musica a tutto vo-lume, saltare con le scarpe sul letto, o mangiare davanti alla tv e nell’altra ca-sa no, il rischio non è solo di creare uno stato confusionale, ma di innescareun meccanismo di rivalsa: da papà posso fare questo e quello, da te no... Inquesto senso, avere una strategia educativa comune aiuterebbe genitori e fi-gli a non fare dello spazio un terreno di scontro».

Quando, invece, l’altra stanza può diventare il luogo dell’assenza?«Quando i conflitti dei genitori si riverberano sui figli: allora quel bambi-

no, anche nella stanza più bella del mondo, sarà un bambino molto triste.

Separandosi, è normale che una coppia possa tornare a due progetti di vitadiversi, ma dovrebbe continuare ad avere un solo progetto educativo per i fi-gli».

E chi non è in grado di offrire ai figli questa doppia stanza?«Se non si può, non si può. E del resto sono ancora una minoranza quelli

che se la possono permettere. Se lo spazio è poco, basteranno alcuni sem-plici accorgimenti: in particolare il genitore con il quale il figlio trascorre me-no tempo, dovrebbe creare un angolino che il bambino riconosca come suoe che non gli dia la sensazione di essere di passaggio. Anche intorno ad un di-vano letto si può: basta un armadietto con la chiave; un cesto con i suoi gio-chi; un cassetto con il nome; un ripiano di libreria tutto per lui. Ma soprat-tutto, attenzione: qualora ci fosse un nuovo compagno o compagna, sareb-be giusto di notte garantire al figlio un luogo separato da quello della coppiaper non essere costretto ad assistere anche alle più semplici affettuosità. Ov-viamente, ci sarebbero molte variabili da considerare: età e sesso, la presen-za di fratelli e sorelle...».

Situazioni comunque difficili e fuori dell’ordinario«Sono situazioni anomale sì, ma rispetto ai nostri stereotipi. In realtà non

esiste la famiglia normale. Esiste una condizione ottimale, che è quella dicrescere con due genitori che si amano e ci amano. Per il resto, la famiglianormale dell’Ottocento era diversa da quella normale del Novecento che èdiversa da quella normale del Duemila. Ad ogni mutamento, ci si straccia-vano le vesti dicendo: sarà una catastrofe! Ma catastrofe non è stata. L’unicacosa che può fare una coppia, dunque, è di far vivere al figlio la separazionenel miglior modo possibile, facendogli sentire che ha non solo due stanze,ma due genitori: due sponsor che tiferanno per lui tutta la vita. Insieme».

(m. s. c.)

“Le due camerettedella nostra vita doppia”

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 10 APRILE 2005

Marco ce l’hanno, e non sono solo lecoppe vinte nei tornei di calcio. Hannoin comune un’aria che è la sua: a tratti acolori, a tratti in bianco e nero. Comeadesso che non sembra più quello diprima e dice: «A volte tra amici, soprat-tutto con quelli che hanno i genitori chestanno in crisi, se ne parla. Mi chiedo-no. Com’è dopo? Come si sta? Che ac-cade? Ed io che devo dire: certo sareb-be meglio che non accadesse, anche sepoi penso che essere figli di separati tida una marcia in più, ti fa capire primacome gira la vita. E un po’ è vero, ha ra-gione papà, ti adagi, perché ti senti piùprotetto, più sostenuto da entrambi.Comunque il momento difficile arrivadopo, quando loro incontrano unnuovo amore. Allora bisogna fare unosforzo per accettare la situazione, per-ché è difficile avere una famiglia tantogrande». Con il suo scooter, Marco va

e viene dalle case dei suoi in cinqueminuti. Entra ed esce. Si ferma o se neva. Fa come vuole.

Come dovrebbe essere a 17 anni perqualsiasi figlio «senza barriere, senzaritmi scanditi da un calendario dettatodalla mano di ferro di un giudice se-condo una partitura che fa del conti-nuo salutarsi un eterno addio», riassu-me il professor Marino Maglietta, pre-sidente di Crescere insieme: per quelche lo riguarda la doppia stanza a nullaserve se poi quella cameretta resta qua-si sempre vuota «a testimoniare piùun’assenza che una presenza». Ma quinon è così, qui Marco c’è. Ciao Marco.

Davide

Si va in macchina, da Pontedera a Mon-tecastello. Spicchio di Toscana atipico,eventualmente inadeguato per unospot sulle bellezze regionali. Si va a ca-

sa di Davide, 7 anni, che vive con lamamma, Danielle Miliano, 38 anni, ra-gioniera, e il nuovo marito di lei. Ventiminuti più giù, a Fornacette, c’è la casadel padre, Antonio Ferrucci, 41 anni,socio in un’azienda per macchine daufficio, attualmente senza fidanzata.Fra loro deve essere stata dura subitoprima e subito dopo la separazione, treanni fa; ce ne è voluto per arrivare ad og-gi. A parlarsi sorridendo.

Lei: «Bisogna fare attenzione a nonusare i figli per i propri rancori: quandoci si lascia di rabbia dentro ce n’è sem-pre tanta e non sono gli avvocati, nonè una legge che te la fa passare»; lui:«Eppure una buona legge sarebbed’aiuto a non far sentire un genitoreproprietario dei figli, e l’altro comple-tamente escluso»; lei: «Noi all’affida-mento congiunto ci siamo arrivati allafine. Davide di solito dorme qui, ma la

sua vita si svolge ogni giorno con tuttie due nel senso che io conto su suo pa-dre e suo padre conta su di me. È piùcomplicato a dirsi che a farsi»; lui: «Sì,si deve avere la forza di mettere i figli alprimo posto cercando a tutti i costi unaccordo e una nuova normalità».

Davide intanto corre a destra e a si-nistra. Apre armadi, cassettiere, cestidi vimini, tutti stracolmi di giocatto-li; ti trascina felice per la manica spa-lancando le porte dei suoi tesori,esclamando continuamente... e nonè finita!... E non smette fin quandonon coglie la giusta dose di stuporenel tuo sguardo.

Da grande voleva fare il pagliaccio. Ora gioca a fare Pollicino. «Solo io so dove si nasconde Pollicino

e se tu ci vuoi parlare devi chiedere ame...». Le sue due camere sono molto si-mili tra loro. Piene di qualsiasi cosa un

bambino possa desiderare. Di musica incassette. Di album da disegno. Di grubasse alte medie. Di allegria da paese deibalocchi. E lui ci si muove dentro comese l’una e l’altra fossero una stanza sola.

«Ora Pollicino sta dormendo, nonso se lo posso svegliare... cosa vuoichiedergli?».

Davide sveglia Pollicino. E non ridepiù. Chiude la porta della stanza perchénessun altro entri, e resta così, con lemanine attaccate alla maniglia, di spal-le, mentre ricorda, mentre racconta. Lasua voce è un sussurro che per ascol-tarla devi smettere di respirare. È cosìserio adesso: il bambino più serio delmondo, il più bello, il più solo. Bussa ilpapà. Davide torna a far volare bianchiaeroplanini di carta a quadretti, riden-do. Chissà dove è adesso Pollicino. E inquale stanza dormirà stanotte. E sedavvero Davide lo sa.

LA NUOVA LEGGE

Sta per riprenderealla Camera la discussionedel progetto di leggesull’affidamento condivisodei figli in casodi separazione e divorzio.Il principio della nuovalegge è che i figli — salvoeccezioni — sarannoaffidati dopo la separazionead entrambi i genitori.Madre e padrestileranno un progettoeducativo da sottoporreal giudice per poicondividerlo. Entrambiprovvederannoal mantenimentodel figlio

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DAVIDENella foto qui a sinistra, DavideFerrucci, 7 anni, a casa della madre.A fianco, il bimbo nella suacameretta nell’appartamentodel padre

VITTORIA. Sopra, Vittoria Hayun, 10 anni, nella cameretta a casa del padre. A destra, la bambina nell’appartamento della madre

MARCO. Qui sopra Marco Maffioli, 16 anni, nella cameretta a casa della madre. A destra, il ragazzo nell’appartamento del padre

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il raccontoOltre la guerra

Il primo presidente del dopo-Saddam è il curdoTalabani. Nella terra da cui viene, nell’ultimoanno gli stipendi si sono triplicati e il denaroha cominciato a girare. Così un popolo fino a ieriperseguitato ha capito di poter vivere nel benessere.E ora la parola indipendenzanon è più tabù

“Gli affari nonvanno bene,vanno benissimo”,dice un giovanebusinessman.“Questa è una terraricca e non solodi petrolio. Il futuro?Possiamo puntarepersino sul turismo”

34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 10 APRILE 2005

SERBIL (Iraq del Nord)

herwan indossa un abito diperfetto taglio italiano, soprala camicia rosa e una cravattain tinta. Con un gesto elegante

alza la mano e la protende a magnificarela spaziosa e illuminata hall del nuovoSheraton che da pochi mesi ha sostituitoil vecchio, glorioso ma buio hotel ChwarChra (Quattro fuochi), come punto di in-contro nella capitale del Kurdistan ira-cheno, Erbil. «Gli affari vanno non solobene, ma benissimo — ammette confranchezza il businessman curdo, 35en-ne aitante non ancora accasato, mentremastica con gusto il filetto di pesce prove-niente ogni mattina dal Golfo persico —nel giro di poco tempo il traffico dei mieicamion è decuplicato, trasportiamo ditutto. Questa è la parte tranquilla dell’I-raq, e non ci vorrà molto tempo prima chela regione diventi indipendente».

Bauer ha invece la solita aria sorniona eleggermente trasandata. Pochi mesi fa havenduto la jeep Chevrolet con cui scor-razzava da Tikrit a Suleymania e compra-to terreni attorno alla zona dell’aeropor-to. «Sai — dice — tra un paio di settimanesarà finalmente pronto. È il primo scalointernazionale curdo, e tutta l’area è de-stinata a rivalutarsi. Con i soldi realizzatidopo l’acquisto costruirò delle abitazio-ni». Figlio di un maggiorente del partito diMassud Barzani, il leader locale, ha la-sciato il lavoro di traduttore e si è messo al-le dipendenze di una società di consulen-za con sede a Washington. Nello spazio dinemmeno dodici mesi è stato promossotre volte, e agisce come vice presidentedella filiale d’area. Bauer è svelto e capa-ce. «Sono gli americani che sanno ap-prezzare il lavoro ben fatto — ammettecon malcelato orgoglio — tra poco potròpermettermi un’auto ben superiore aquella che avevo prima».

Goran ha compiuto da poco 28 anni.Lo scorso anno dirigeva un avviato In-ternet cafè in centro, proprio di fianco alcinema Diamante che proietta film unpo’ osé. Il fiuto per gli affari non gli man-ca, e nello spazio di una stagione ha co-struito nel quartiere di Shorsh, dall’altraparte della città, Sky, un centro a tre pia-ni dove ora sciama tutta la gioventù chegravita su Erbil. Design italiano, arreda-mento dalla Turchia, tecnologia daGiappone e Stati Uniti. Il mix è storden-te in un’atmosfera antica come quellache si respira nella capitale curda. Eppu-re funziona. Caffetteria al primo piano,ristorante al secondo, videogiochi all’ul-timo. Assieme a Feisal, 26 anni, insepa-rabile amico d’infanzia, e ai ragazzi delvecchio Internet cafè, Goran preparanuovi progetti. «Voglio costruire un cen-tro di comunicazione senza fili. E poi, traqualche giorno, andremo a Dubai, negliEmirati arabi, per studiare come hannotirato su i grandi complessi commercia-li. È venuto il momento di provarci anchequi, e noi siamo pronti a farlo. Ho tanteidee in testa, cerco di realizzarle una pervolta. Ma quest’anno l’investimentoprincipale riguarda me stesso: vorrei an-dare un anno ad Harvard e specializzar-mi in amministrazione pubblica. Dopo,si vedrà». Goran non porta più i maglio-ni da giovane studente universitario. Halasciato nell’armadio il vecchio guarda-roba e ora indossa solo gessati. ComeFeisal. E tutti i ragazzi del gruppo. Unadivisa. Forse il giovane imprenditorepensa a una futura carriera in politica.«Mio padre lo scorso anno è rimasto uc-ciso nella doppia strage fatta a Erbil daAnsar al Islam: morirono duecento per-sone. Io gli arabi li odio. Questa zona nonha più nulla a che fare con il resto del pae-se. Qui c’è il Kurdistan».

Il miracolo economico

Tre storie diverse, ma simili, e potrebbe-ro essere mille. Benvenuti nell’altro Iraq.Formalmente, una regione ancora at-taccata ai confini nazionali. Nei fatti, enella testa della sua gente, non più. IlKurdistan, ormai, vive di vita propria.Una realtà diversa. Che se ancora da unpunto di vista politico e istituzionale re-sta unita a Bagdad, sotto altri profili,quello economico prima di tutto, è ades-so del tutto slegata.

Insieme con la società civile irachenaemersa dalle elezioni del 30 gennaio, c’è anord uno Stato nascente. Di cui la rapidatrasformazione subita dalle città curde èsolo uno degli aspetti. Ancora un anno fail flusso delle vetture era più simile a quel-lo di un centro di campagna. Oggi lo svi-luppo crescente ha portato il traffico di Er-bil ad aggrumarsi come quello di una me-tropoli europea. E, fiutato il vento, notefabbriche d’automobili tedesche si sonocatapultate in zona aprendo concessio-narie e filiali. Vendono i prodotti a cifre ir-risorie, ma i guadagni ripagano le aziendeampiamente. Il risultato è che adessoogni famiglia curda possiede due, tre, avolte quattro vetture nuove di zecca. El’indotto seguirà. Una buona parte dellestrade è asfaltata, ma altre vie di comuni-cazione vanno migliorate, e tra un po’ ditempo un’autostrada colle-gherà l’aeroporto di Erbil versoovest con la frontiera turca, everso est con l’altra grande cittàlocale, la moderna Suleyma-nia. Nei centri urbani il traffico,aumentato vertiginosamente,però è ancora regolato da spa-ruti vigili. C’è bisogno di se-mafori e segnaletica stradale. Ilprimo imprenditore che faràscalo a Erbil, Suleymania,Dohuk, Dokan, Zakho, Ha-labja, per costruire strade, pa-lazzi, alberghi, stadi, complessicommerciali e residenziali,non c’è dubbio, farà fortuna.

Per molti aspetti, il Kurdistansembra oggi il Far West ameri-cano. Un territorio nuovo, ine-splorato che, pur tra rischi epossibilità di agguati (la situa-zione è pericolosa e ancora al-tamente instabile soprattuttoattorno alle due città di Mosul eKirkuk, immerse nel petrolioma divise fra etnie contrappo-ste), si apre alla conquista. Frot-te di avventurieri ed esplorato-ri stranieri, turchi, tedeschi,americani, si stanno lanciandoalla volta del nord Iraq, spessoconcludendo affari colossali.«C’è bisogno di tutto — spiegaSherwan, che dal traffico di ca-mion sta ampliando il suo rag-gio di azione verso nuovi fronticommerciali — dai semaforiagli alberghi, dalle scuole ai ne-gozi, fino ai cellulari che sosti-tuiscano i costosi telefoni sa-tellitari. E noi qui possiamo of-frire molto. Questa è una terraricca, non solo di petrolio, madi minerali pregiati e di marmibelli come quelli italiani, di ac-que termali e montagne inne-vate dove poter costruire im-pianti sciistici».

Un’azienda vinicola italianaha appena concluso un con-tratto per sfruttare i vigneti col-tivati a nord di Erbil e produrrecosì un buon vino da pasto, be-vanda non disdegnata dallapopolazione locale, di religio-ne musulmana sunnita ma diferme tradizioni laiche. Un go-vernatore locale sta seriamentepensando a promuovere il turi-smo, idea che da lontano, osservando leimmagini sull’Iraq sconvolto dal terrori-smo, potrebbe apparire quanto menobalzana. «La gente trova difficile credereche da queste parti esista una zona sicura— spiega il ministro per le municipalitàcurde Barzan Dezayee — ma dobbiamoconvincerla che non tutto l’Iraq è comeFalluja, che il Kurdistan è tranquillo».

Molti segnali rivelano la svolta. Centripolifunzionali crescono ovunque, e den-tro sembra di essere in una qualunquecittà americana o nord europea. La vita ditutti i cittadini poi, è migliorata. I curdi og-gi fanno spesso più di un lavoro, indossa-no capi d’abbigliamento più pregiati, enello spazio di un solo anno gli stipendi,trainati dal volume d’affari circolante edagli impressionanti introiti derivanti dalpetrolio ancora sotto il loro controllo, sisono triplicati. Il denaro gira, e in grandequantità. Qui nessuno si lamenta. Sonotutti ottimisti. Di più, felici. La guerra, for-temente voluta dai leader Barzani e Tala-bani, poi combattuta a fianco degli ame-

SCENE DI VITAQUOTIDIANAUna veduta aerea diErbil. Sotto, un’anzianadonna che trasportaun sacco per irifornimenti, in bassoancora donne in unsupermarket di Dohuk.Nella foto grande laKhanzad Home: centrodi ascolto e diprotezione per ledonne. Nell’altrapagina in basso unamamma con bambinoin una strada di Halebja

Kurdistan, l’altro Iraqche ha scoperto la felicitàMARCO ANSALDO

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 10 APRILE 2005

ricani, e infine vinta contro il comune ne-mico Saddam, ha sovvertito la situazionedi frustrazione precedente.

L’ora del riscatto

Sì, i curdi sono felici. Un fenomeno di que-sti tempi difficilmente riscontrabile altro-ve. E mostrano una grinta in molte latitu-dini dimenticata. Sono sempre stati glisconfitti della Storia, i battuti da cento trat-tati internazionali che hanno spesso gio-cato a loro sfavore, un popolo alla peren-ne ricerca di un proprio Stato o almeno diuna stabilità politica. E adesso l’onda de-gli eventi internazionali sembra premiar-li, fino a farli apparire come i vincitori.

È ancora presto per dire l’ultima paro-la. Ma i curdi stanno provando a emerge-re dall’imbuto storico in cui erano finiti,usando tutta la capacità e l’intelligenzaforgiate da secoli di batoste. Ci provanointanto da un punto di vista politico. Conabilità e prudenza, alle recenti elezioni ileader si sono presentati alle urne parlan-do di «unità dell’Iraq, all’interno in un si-stema federale che assicuri ampia auto-nomia alle regioni». Si sono così assicura-ti il 25,4 per cento dei consensi nazionali:sono decisivi in Parlamento e soprattuttonel governo di Bagdad (dove detengonoper ora ben sei ministeri in posizioni chia-ve, di cui due assegnati a donne) e cerca-no di amalgamare la realtà locale guidan-do una solida amministrazione pubblicanella zona sotto il loro controllo. Jalal Ta-labani è stato nominato questa settimananuovo capo dello Stato iracheno.

Eppure la questione quasi tenuta na-scosta durante il voto, resa tuttavia palesedal proliferare di tendoni piazzati a fiancodei seggi ufficiali, è quella dell’indipen-denza. Negli scrutini effettuati in via infor-male e del tutto consultiva, ma dall’esitoindicativo, la percentuale di voti favore-voli a un referendum per un Kurdistan in-dipendente è stata del 98,7 per cento. Unplebiscito. Due milioni di voti su nemme-no cinque di popolazione totale. Pare chealle urne si siano presentati in qualche ca-so anche i bambini e non pochi elettoricon una doppia scheda. Ma i brogli mani-festi hanno rafforzato ancor di più la de-terminazione di un obiettivo preciso.

Cautela vuole che i curdi procedano co-munque nella direzione desiderata — ilsogno di un Kurdistan indipendente — pergradi. La cosiddetta no fly zone, l’area dinon volo per dodici anni garantita da Usae Gran Bretagna con gli aerei decollati dal-la base turca di Incirlik, iniziativa nata perproteggere la popolazione da nuovi mas-sacri dopo i gas chimici lanciati dal regime

di Saddam su Halabja, ha regalato all’inte-ra regione un periodo di pace e prosperitàconsiderata oggi come “l’età dell’oro”. Ga-rantendo fino al 2003, allo scoppio del con-flitto, il raggiungimento di un’autonomiadi fatto. Adesso questa autonomia vienereclamata con forza dai curdi, che la pre-tendono scritta nella Costituzione. E si di-cono pronti a bloccare la nuova Carta (pos-sono tecnicamente farlo, avendo ben treregioni a disposizione) qualora le loro ri-chieste non vengano accolte.

Il progetto sperato è ancora lontano.Autonomia non significa per ora indi-pendenza. Ma le basi, economiche e isti-tuzionali, ci sono tutte. I curdi battonomoneta (il dinaro curdo), hanno un eser-cito (i peshmerga, guerrieri come dice ilnome “che guardano la morte in faccia”),un’amministrazione con proprio gover-no e parlamento, rilasciano regolari vistidi ingresso in modo del tutto libero daBagdad. Sulle strade sventola il loro trico-lore con un sole splendente in mezzo, enemmeno per sbaglio si incrocia il vessil-lo nazionale iracheno. I curdi guardanocon fastidio ai vicini arabi, persiani e tur-chi, ben sapendo che proprio da loro, Si-ria, Iran e Turchia giungeranno i veti voltia fermare il sogno di costruire una patria.Ma sono sempre pronti a battersi. Sep-pellendo le tradizionali rivalità tribali cheli hanno costantemente divisi, costrin-gendoli a improbabili alleanze (con Sad-dam persino) e a sconfitte memorabili(diplomatiche e militari).

«Questo non è l’Iraq, è il Kurdistan. Eio sono curdo. I am kurdish people». For-se in modo un po’ sgrammaticato, maogni persona incontrata per stradaesprime chiaramente il suo pensiero. Enon c’è bisogno di ulteriori dichiarazio-ni di appartenenza, che ogni interlocu-tore fa di sua spontanea volontà batten-dosi più volte il pugno sul cuore. A pocoa poco, dietro la spinta della gente ancheil linguaggio dei politici sta cambiando.Fino a ieri i leader curdi si sono pronun-ciati per un Iraq unito e federale, comevuole la dottrina insegnata dagli alleatiamericani. Ma le prime crepe si intrave-dono, persino nella coalizione con gliUsa, invitati ora almeno a considerare dipoter lasciare il paese. «Avere un nostroStato — dice oggi Massud Barzani, a cuila nomina di Talabani a presidente haper ora lasciato campo libero come lea-der unico nel nord — è un nostro dirittonaturale. Non è ancora giunto il mo-mento. Ma spero, nella mia vita, di vede-re il Kurdistan indipendente». Sherwan,Bauer e Goran sarebbero d’accordo.

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Ma il futuro politico è ancora incertoRENZO GUOLO

Strana sensazione quella che si vive nel Kurdistaniracheno. Si festeggia la storica nomina a presiden-te dell’Iraq di Jalal Talabani; ma questo evento, im-

pensabile sino a qualche anno fa, salutato con feste edanze nella regione, non dirada la preoccupazione peril futuro. E ora, che accadrà? È la domanda che si fannotutti. Sin qui la linea seguita della leadership curda ha pa-gato. L’alleanza tra Unione patriottica del Kurdistan diTalabani e il Partito democratico del Kurdistan di Bar-zani, ha ottenuto un ottimo risultato alle elezioni del 30gennaio: il 25,4 per cento dei voti e 75 seggi. E ha trionfa-to nelle tre province di Sulemaniyah, Arbil e Dohuk. So-prattutto, ha vinto nelle province miste di Tamim e Ni-niveh, che comprendono le città di Kirkuk e Mosul.

Eppure la nascita del nuovo Iraq sembra aver segna-to la fine della nuova “età dell’oro” curda. Negli ultimiquindici anni, complice un Saddam lanciatosi nella sui-cida avventura kuwaitiana, i curdi hanno vissuto unasorta di indipendenza di fatto. Hannoformato un esercito, coniato moneta,beneficiato delle royalties petroliferedei pozzi sotto il loro controllo, prati-cato una politica doganale servita davolano alla rinata economia locale.Ora tutto potrebbe essere messo in di-scussione. Un nuovo potere, legitti-mato dalle elezioni, e sponsorizzatodagli Stati Uniti, si instaura a Bagdad.Un governo a guida araba: questa vol-ta sciita. Al quale, per la prima volta do-po lungo tempo, occorre rendere con-to. Come dimostrano i non facili rap-porti con l’Aui, la lista sciita benedettada Sistani che ha conquistato la mag-gioranza assoluta nella Costituente, sin dai primi giornidell’insediamento della nuova assemblea. Certo, l’ob-bligato accordo istituzionale con i seguaci dell’ayatollahdi Najaf, ai quali è andata la guida del governo con Jaa-fari, ha retto. Ma è questa nuova, forzata, sovranità con-divisa che i curdi non amano troppo. Dopo il grande tri-buto di sangue pagato per sottrarsi all’arabità, prodottostorico della divisione forzata della nazione, il timore èche quel fantasma ricompaia nella veste della shi’a. E vo-glia, oltre che uno stato islamico, mettere in discussioneconquiste ottenute con grande sacrifico. Per evitare unanemesi che trasformi la caduta di Saddam in pietra tom-bale delle loro aspirazioni, i curdi reclamano un federa-lismo etnico che assomiglia a una sorta di “cantonaliz-zazione alla bosniaca”. Un federalismo in cui il poterecentrale sia, più che altro un’istituzione di facciata. Ot-tenere questo “federalismo debole” non sarà facile: sul-la richiesta curda si decide l’intero assetto geopoliticodell’Iraq. E già gli sciiti lasciano balenare, a loro volta, l’i-

potesi di costituire una regione autonoma se non vi saràun accordo in materia ritenuto soddisfacente. Per para-re i contraccolpi della difficile transizione i partiti curdi,Pdk e Upk, hanno messo da parte le storiche rivalità e da-to vita all’unità nazionale.

I curdi intendono gettare sul tavolo anche il peso delreferendum, non ufficiale, svoltosi nelle loro provincenello stesso giorno delle elezioni. Referendum che ha vi-sto trionfare, plebiscitariamente, il “si” all’indipenden-za. Anche se la loro “arma di riserva” resta la clausola del-le “tre province”. La nuova carta fondamentale sarà, in-fatti, sottoposta a referendum confermativo e dovrà ot-tenere l’avallo di almeno quindici delle diciotto provin-ce irachene. Il voto di quelle curde, a cui potrebbe ag-giungersi quello delle province sunnite deciseanch’esse a contrastare un forte potere sciita, permettedi bloccare ipotesi sgradite. Anche se un simile scenarioimplica inevitabilmente l’inasprimento del conflitto et-

noconfessionale. I curdi chiedono anche che Kirkuk

sia capitale della loro regione. La cittàcontesa è stata arabizzata da Saddam.L’ex-rais, in una sorta di pulizia etnica,ha costretto all’emigrazione migliaiadi curdi. Lasciando campo libero adarabi e turcomanni, che a loro volta ri-fiutano ora di andarsene. Il “no” chepiù conta viene, però, dall’ingom-brante vicino turco. Ankara considerai turcomanni, gruppo etnico non ara-bo che rappresenta circa il 12% dellapopolazione irachena, autentici tur-chi; e la sua politica estera prevede latutela delle “minoranze turche” fuori

confine. Tanto più quando quella tutela incrocia la stra-da dei curdi. Ma anche Iran e Siria, legate su più fronti aun comune destino, guardano con preoccupazione aquanto avviene nel Nord dell’Iraq. Anche perché temo-no una presenza di Israele nell’area. Nel Nord sono incorso acquisizioni, da parte di ebrei curdi, di terre che gliarabi lasciano per timore di un futuro in ambiente osti-le. Un fatto che manda in fibrillazione siriani e iraniani,turbati dall’incubo di un potenziale yishuv ebraico nelcuore del Medioriente. Preoccupazione chesi intersecacon la questione del petrolio. Quell’oro nero che i curdinon vorrebbero dividere con gli sciiti, e che un giorno unKurdistan autonomo potrebbe pompare in una pipeli-ne che parte da Kirkuk e finisce a Haifa. Una prospetti-va, quella di una nuova rotta del petrolio curda-israelia-na, assai temibile per i paesi islamici dell’area.

Anche se abituati agli angusti spazi delle gole di mon-tagna, è davvero una via stretta e impervia quella da cuidevono ancora passare i curdi.

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36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 10 APRILE 2005

conto. Tornata a Dakar dopo un anno,mi sono messa a studiare malattie infet-tive. Ed eccomi qui».

Quando era ancora ministro, nel2003, Awa Marie Coll-Seck aveva orga-nizzato un “Telethon” senegalese con-tro la malaria e aveva raccolto circa unmilione di dollari. La stessa cifra che,nel gennaio scorso, per la stessa causa,Sharon Stone ha assemblato in pochiminuti al Forum economico mondialedi Davos. «È stata una buona idea»,commenta la signora Coll-Seck. «Ab-biamo molto bisogno dell’Occidente».

Abiti laceriNel piccolo dispensario diGuerew non vedi morire bam-bini, almeno non oggi. Capisciperò perché bisogna fare pre-sto. Questa casa un poco piùgrande delle altre, appena fuo-ri dal centro abitato, potrebbeessere in ogni villaggio africa-no. Anche l’umanità in visita èla stessa. Le donne hanno ifianchi stretti nei pagne, i tes-suti colorati; gli uomini indos-sano gli abiti laceri con i quali siavviano al campo; solo i bam-bini hanno (spesso) il vestitodella festa. C’è la febbre negliocchi di tutti. Le coeur chauffe,il cuore riscalda, dice un adole-scente. È la parola d’ordine. Significamalaria. L’infermiere scrive sul carnet desanté, la metà di un quaderno a quadret-ti tagliato in senso orizzontale. L’infer-

OGUEREW (Senegal)

ttanta chilometri di pista diterra rossa e da Dakar arri-vi a Guerew, un villaggiodella Petite Côte non affac-

ciato sul mare. Poco più di mille anime.Case in mattoni di fango e tetti di lamiera.Non tutte così, quasi. Una parte resta infango e paglia, sorda al programma bri-ques et tôles (mattoni e lamiera) strom-bazzato da anni in molti paesi africani.Ma stamane Guerew ha la sua dignità. Ela sua fortuna. Da una “4x4” impolverataè sceso nientedimeno che Youssou N’-Dour, gloria nazionale senegalese, più ri-spettato, più seguito, più blandito di ElHadji Diouf, Leone della Teranga (lasquadra di calcio del Senegal). La popola-zione lo aspettava da ore sotto il sole inuna situazione istituzionale: una tribunacostruita per l’occasione e, all’ombra, al-cune poltrone in velluto nel pomposo sti-le del mobilio africano, prese in prestitoda qualche salotto buono. Militari, nota-bili. Un microfono. Discorsi ufficiali,molto diversi da quelli che la sera primaYoussou N’Dour aveva fatto da un palco-scenico durante l’ultima delle due seratedel festival Live Africanello stadio Iba MarDiop di Dakar. Ma con lo stesso argo-mento: la malaria. Sotto l’occhio delle ci-neprese (da luglio, grazie a un documen-tario, inizierà una campagna mondiale disensibilizzazione contro la malaria), ilcantante consegna ad alcune donne al-trettante zanzariere impregnate di inset-ticida. Il resto, ancora chiuso nei cartoninella “4x4”, verrà distribuito da volontariper le case del villaggio.

Awa Marie Coll-Seck si infila nel deda-lo delle stradine, lontano dall’eccitazio-ne per l’arrivo della star. Oggi vive a Gi-nevra ed è segretaria generale di RollBack Malaria, associazione creata nel1998 dall’Organizzazione mondiale del-la sanità, dal Programma per lo sviluppodelle Nazioni Unite, dall’Unicef e dallaBanca mondiale. Ma nel 2001 è stata mi-nistro senegalese della Sanità. E unaventina di anni fa ha lasciato il cuore inun dispensario nella brousse, la savana.È in una zona rurale vicino a Saint Louis— seconda città del Senegal — che laprofessoressa Coll-Seck ha fatto il suo ti-rocinio di giovane medico. «Mio padreera dottore, mia madre insegnante. Sinda piccola sapevo che avrei studiato me-dicina. Il mio sogno era la cardiologia. Misembrava che attraverso il cuore si po-tesse curare l’umanità intera. Dopo l’u-niversità mi hanno mandato nellabroussea fare esperienza. E lì mi sono ac-corta che il grande problema del miopaese, e di tutta l’Africa, era la malaria. Incittà si vedeva meno, non mi rendevo

miere si chiama Lavenir, senza apo-strofo. Suo padre l’ha chiamato così per-ché nutriva grandi speranze per il futuro.Ma Lavenir crede che al maiale del suovicino abbiano tirato il malocchio, e co-sì il futuro resta, ancora e sempre, il pas-sato. «Arrivano nei dispensari quandonon ce la fanno più, quando si rassegna-no al fatto che la medicina tradizionalenon possa curarli. Ma spesso è troppotardi. La malaria va presa in tempo, nel-le prime ventiquattro ore, se no sonoguai», dice la signora Coll-Seck.

Nel dispensario è entrata una donna.Ha occhi liquidi di febbre, tra-scina le ciabatte senza staccar-le dal suolo. Sulla guancia de-stra ha una piaga aperta perfet-tamente circolare, un’ustionegrande come il fondo una bot-tiglia. Lavenir le alza la maglia.Il ventre della donna è copertoda minuscole cicatrici. Tagli dilametta. «Fanno così per fareuscire l’aria, perché il corpo re-spiri», dice la Coll-Seck. «Noinon siamo contro i rimedi al-l’indigène, cerchiamo anzi dicollaborare con la medicinatradizionale. Per esempio, daqualche tempo in Benin i me-dici tradizionali rifiutano di cu-rare i bambini, li mandano di-rettamente nei dispensari».

Proprio perché la malaria è ormai soltan-to una malattia dei paesi in via di svilup-po; proprio perché in Africa colpisce tra i

300 e i 500 milioni di persone ogni anno ene uccide più di un milione; proprio per-ché è la prima causa di mortalità dei bam-bini africani sotto i cinque anni, qui si stasviluppando una rete di ong locali. «RollBack Malariaha “antenne” in ogni paeseafricano e nel consiglio di amministra-zione ha rappresentanti di ong specializ-zate nella lotta alla zanzara. Le nostre“antenne” ci informano costantemente.Sono operatori della salute, vivono so-prattutto nelle zone rurali, che sono l’80per cento del continente. Grazie a lorosappiamo che, se non si troveranno nuo-vi farmaci, la malaria diventerà semprepiù mortale, diventerà come l’Aids».

Il nuovo parassitaIl nemico si chiama adesso PlasmodiumFalciparum ed è un parassita (sempretrasmesso dalla zanzara) resistente ai ri-medi classici come la clorochina o l’a-modiachina. «Il sud est asiatico ne è in-vaso, e così l’Africa dell’est e quella delsud. Il Falciparum si sta estendendo alcentro e presto arriverà all’ovest, dun-que in Senegal, in Mali, in Camerun. Conle medicine classiche ancora riusciamoa contenere il Plasmodium Vivax; l’altrosi combatte oramai soltanto con l’arte-misina, derivato dall’artemisia, piantache cresce soltanto nella Cina del sud».Sono cose che neanche Lavenir potreb-be immaginare. Del prodotto cinese hasentito dire, ma dove sia la Cina, questonon lo sa. La compagnia svizzera Novar-tis ha messo in vendita il Coartem, a ba-se di artemisina, già in uso con successoin Sudafrica. Ma siamo alle solite: l’arte-misia è una pianta a crescita lenta e la suacoltura è appena uscita dalla Cina per es-sere sperimentata in Tanzania e inKenya. Quindi una scatola di Coartemcosta due dollari e mezzo. Troppo caraper una signora febbricitante e tagliuz-zata in un dispensario nella savana. E al-lora, signora Coll-Seck?

«E allora non resta che la prevenzio-ne», dice mentre da fuori giunge un granvociare di donne e bambini. Sono arriva-ti i volontari con gli scatoloni e iniziano adistribuire la speranza. Che qui ha l’a-spetto di un tulle bianco che odora di in-setticida. «Sono le nuove zanzariere Oly-set, impregnate di insetticida a lunga du-rata, fabbricate in Tanzania», dice la si-gnora Coll-Seck. «Durano quattro anniinvece di sei mesi. Contiamo di fabbri-carne e distribuirne più di un milione al-l’anno». Se è vero che l’anofele (la zanza-ra che trasmette la malaria) colpisce daltramonto all’alba — quando nella brous-sedi solito si dorme — posare una zanza-riera su quattro bastoni agli angoli del let-to sembrerebbe la scoperta dell’acquacalda. «A noi di città, certo. A voi occiden-tali, pure. Ma nei villaggi africani, primadi tutto, bisognerebbe averlo, un letto».

le storie/1Donne coraggio

Venti anni fa la dottoressa Awa Marie Coll-Seck visitòun dispensario nel Senegal. E lì lasciò il cuore. Decise cosìdi dedicare la vita alla malattia che in Africa uccideun milione di persone l’anno. Siamo andati a trovarlain un piccolo villaggio nella savana, dove l’infezione portatadalle zanzare rischia di diventare più devastante dell’Aids

LAURA PUTTI

I bambini sotto i 5 anni che in Africamuoiono ogni giorno di malaria

3.000

La percentuale della popolazionemondiale minacciata dalla malaria

40%

SHARON STONEIn alto, giovani donne delvillaggio di Guerew. Qui sopra,Sharon Stone a Davos

“La mia lotta contro la malaria”

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Il diplomatico Ferdinando Salleo: “Da piccolo mi ammalai in Sicilia”

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ono in pochi a ricordare di quando la malaria col-piva anche l’Italia, di quando i bambini moriva-no anche da noi, di quando il chinino, unico ri-

medio conosciuto, era monopolio di Stato e si com-prava dal tabaccaio. Ferdinando Salleo lo ricorda be-ne. Perché molto prima di diventare un importantediplomatico italiano, prima di vivere a Parigi, NewYork, Praga, Bonn, Mosca, Washington, Salleo vivevain Sicilia ed era un bambino con la malaria. La zanza-ra, l’anòfele ha sconvolto la sua infanzia. «La malariaera molto diffusa in Sicilia» dice l’ambasciatore. «Io lapresi a sei anni, nel ’42, alla fine della guerra. Eravamorifugiati in un paese in provincia di Messina. Ricordobenissimo il freddo improvviso, la febbre altissimadel terzo giorno. Gli attacchi sono andati avanti percirca quattro anni, ad ogni mezza stagione. Nel ’43,quando sbarcarono in Sicilia, gli alleati portarono ilDdt in quantità enormi, e una medicina della quale

ancora ricordo il nome: Atebrin. A me andò bene, mala sorella di mia madre morì. Aveva preso la malariaperniciosa, la più terribile».

Si moriva nel Lazio (prima della bonifica Pontina),si moriva in Maremma, non solo in Sicilia. «Quandonell’81 diventai direttore generale della Cooperazioneitaliana per lo sviluppo, scelsi Guido Bertolaso comecapo dei servizi sanitari». L’attuale direttore generaledella Protezione Civile è un infettivologo con espe-rienze in Thailandia e in Cambogia. Salleo e Bertolasosi concentrarono sull’Africa. «Iniziammo una campa-gna ispirata dal grande malariologo Mario Coluzzi. Ciunimmo alla Sclavo nella ricerca di un vaccino. C’era-vamo quasi. Bertolaso andò in Cina, nello Yunnan, do-ve cresce l’artemisia che oggi sembra essere l’unico ri-medio contro il parassita. Con i cinesi facemmo unprotocollo d’intesa per poterla utilizzare. Ma ci man-carono i fondi e il sogno del vaccino svanì». (l.p.)

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 10 APRILE 2005

senza tuffarsi, torna verso metà campoindicando di avere subito un contrac-colpo alla coscia sinistra. Uscirà dalcampo piangendo intorno alla metà delprimo tempo, ed è il ricordo più strug-gente di quella partita, perché France-scato sarebbe morto per un arresto car-diaco appena un anno e mezzo dopo, agennaio ‘99. Ma, al di là di questo, alloranessuno se ne rese conto, usciva dalcampo anche il rugby delle stirpi dei

giocatori. Non ci saran-no più in nazionalequattro Francescato,come Bruno, Nello,Ivan e Rino, né loro nénessun’altra famiglia.

Gli ultimi venti metriAdesso c’è da finire lameraviglia, Troncon èin fuga in quel pome-riggio di otto anni fa, ipali sono a una ventinadi metri davanti a lui.Ma pensa di non farce-la e allora si guarda in-torno. Incredibilmen-te c’è ancora un com-pagno pronto a darglisostegno, e forse il piùinatteso, GiambattistaCroci, il lungo numero4, che avanza con il suopasso da cammello.Chissà quale ispirazio-ne ha seguito per veni-re a questo appunta-mento, finora avevadominato nella touche,con la sua aria tranquil-la, la sua benda biancaintorno alla fronte e letre magliette che si èmesso come glieloavesse raccomandatola mamma in una gior-nata fredda.

È passata una vita daquando l’azione è par-tita, laggiù nella pro-pria difesa, e la vita saràdiversa adesso che si fameta. Croci prende ilpallone e corre aschiacciarlo a terra, e ilsuo è quasi un timbrareil modulo d’ammissio-ne al Sei Nazioni. È sta-ta una meta dalla «finedel mondo» come si di-ce di quelle partite dalfondo della propria di-fesa, e l’Italia è capacedi queste meraviglie.

Croci torna lentamente verso la metàcampo, senza esultare, i rugbisti non fe-steggiano sguaiatamente. «Ma io ero unpo’ stanco», racconterà dopo. L’Italiavincerà 40-32, e al fischio finale c’èun’invasione di campo, il ct Coste pian-gerà come un bambino, un francese cheha battuto la Francia, un francese che haportato l’Italia tra i grandi del rugby. Lapartita perfetta è stata giocata, la metapiù bella di sempre segnata.

Sono passati solo otto anni e quelmondo è così lontano. Tre anni dopo,nel 2000, l’Italia faceva l’esordio nelSei Nazioni a Roma contro la Scozia. Inrealtà è già cambiato tutto dal giornodi Grenoble, il ct è un ex pilone suda-fricano, c’è lo stupore di tutti per i nuo-vi riti, gli sponsor, la nuova dimensio-ne dello show planetario alla quale èammessa l’Italia. Giovanelli non è piùil capitano ma viene invitato a tenere ildiscorso prima della gara. «C’è genteche ha pianto per vedere l’ingressodell’Italia nel Sei Nazioni e noi non ab-biamo il diritto di buttare via la parti-ta». I compagni assentono. «E poi ri-cordatevi di Ivan Francescato». I com-pagni sussultano.

L’Italia vinse, con le energie e la pas-sione che erano di tre anni prima. Mas-simo Giovanelli giocò la sua ultima par-tita, in uno scontro di gioco si procuròun distacco della retina, le partite piùfelici dell’Italia sono state marcate daisegnali di qualcosa che si chiudeva. Ilrugby intanto cresce, muta, in manierarapidissima. Lo stadio canta l’inno diMameli, c’è un modo di vivere la parti-ta che ha fatto scuola. Le birrerie intor-no al Flaminio si arricchiscono con itifosi anglosassoni e francesi, a modosuo il Sei Nazioni è una festa europea,di guerrieri solidali. Sono arrivati tantisoldi, forse troppi. I giocatori di Greno-ble vincendo la partita hanno ucciso ilproprio mondo. «Mettimi dove ti parema mettimi la maglia azzurra addosso,questa era la mia filosofia», dice Giova-nelli. Giambattista Croci è fuori dalrugby e lavora in banca.

Questa è la storia delle metapiù bella del rugby italiano.Forse ce ne sono state di piùbelle ma questa è stata an-che la più importante per-ché è quella che ha strappa-

to il rugby italiano dalle parrocchie perconsegnarlo alla Bbc. La meta segnatadopo che il pallone era passato per tut-te le mani dei giocatori che avevano unsogno: portare l’Italia nel Cinque Na-zioni e farlo diventareSei. Il sogno impossi-bile di generazioni digiocatori e di spettato-ri, i quali poi nella sto-ria d’Italia pratica-mente erano la stessagente, padri, figli, ni-poti, di Rovigo, Pado-va, Treviso. «Eravamoun gruppo di ragazziche veniva dal nulla,che aveva il senso delleproprie origini e unobiettivo davanti» rac-conta Massimo Giova-nelli, il capitano diquella squadra, il nu-mero 8. A chi somigliauno così? A uno Spar-taco, un Gattuso o unBraveheart, o un Rive-ra o Giulio Cesare, tuttiinsieme, uno di loro aseconda delle batta-glie del campo. Ma è illeader e il trascinatore.

È il 22 marzo 1997.Tutto inizia propriocon Giovanelli che siritrova in mano un pal-lone da una touche

sbagliata. È il 16’ dellaripresa, la partita èFrancia-Italia, lo sta-dio è quello di Greno-ble, finale di Coppa Eu-ropa. Lo stadio è pienodi italiani, c’è il sole euna lunga fila di pioppisullo sfondo. La Fran-cia ha appena vinto ilCinque Nazioni facen-do anche il GrandeSlam. Schiera i suoimaestri, Sadourny,Saint-André, Merle,Pelous, ma certo i fe-steggiamenti avrannopesato. Andiamo a ve-dere se hanno ancorale bollicine dellochampagne nel san-gue, si erano detti gliazzurri.

L’Italia non ha mai battuto la Francia.L’Irlanda sì, ma la Francia non ancora.Le grandi del Cinque Nazioni la guarda-no ancora dall’alto in basso. Ma Giova-nelli prima del match ha fatto un di-scorso da far arrampicare sui muri perl’elettricità. «Ricordatevi delle fatichedegli emigranti. La loro fatica a farsi ri-spettare. Voi rappresentate questa gen-te. Avete la responsabilità di questa ma-glia». Alla vigilia la squadra era stata neibar di Grenoble, lì aveva incontrato gliemigranti. In campo si presentaronoquindici pazzi scatenati.

Giovanelli è sorpreso per il palloneconquistato, i compagni ancora di più enon gli danno supporto, la palla vienestrappata dai francesi e ricacciata conun calcio profondo verso l’area dei 22azzurra. La partita finora è in perfettaparità, 20-20, l’aggressività azzurra hamesso in seria difficoltà i francesi e le lo-ro bollicine. È una partita che attende lasua svolta. «Si sentiva nell’aria che qual-cosa sarebbe successo», dice Giovanel-li. La vigilia è stata piena di tensione ecombattività.

Dalla Panda alla JaguarIl primo giorno del ritiro, vicino al con-fine francese, Franco Properzi era arri-vato in ritardo inscatolato nella suaPanda. Era uno sgarro alle regole, Gio-vanelli, nel suo ruolo di capitano, lo ave-va affrontato, erano volate parole gros-se, Franco era incavolato perché si eraperso, ci voleva del fegato a mettere aposto quel gigantesco pilone. Poi, dopoavere recitato ognuno la propria parte,si erano calmati e avevano chiarito. Nonlo sapevano ma stava per finire l’era del-le Panda e cominciava quella delle Ja-guar, stavano per lasciare le osterie ve-nete dove si parlava di rugby davanti aun’ombra, il bicchiere di vino bianco,per mettersi il frac ed essere invitati aiparty degli anglosassoni. Finiva il dilet-tantismo, cominciava il professioni-smo, finiva la passione che non chiedeniente, cominciava il lavoro che chiede

le storie/2Momenti di gloria

Grenoble, 22 marzo ’97: l’Italia affronta la Francia. Lorohanno vinto tutto, noi niente. La partita è perfettamente in bilicoquando su una palla persa gli azzurri danno il via all’azionepiù bella, intensa e decisiva della storia della Nazionale. Chequel giorno chiude l’era del dilettantismo, conquista il grandepubblico e trasforma uno sport minore in un fenomeno di massa

CORRADO SANNUCCI

un salario. La palla adesso è nelle mani di Vacca-

ri, nel fondo della difesa italiana. S’im-pappina, gli cade, rischia di perderla, trefrancesi gli sono addosso, li evita sfio-rando la linea laterale. È il segno dellamagia in arrivo. Dalla destra il pallonescorre via verso sinistra e lì c’è la secon-da scintilla, quan-do finisce tra le ma-ni di Javier Pertile,l’estremo italo-ar-gentino. Lo chia-mano il Gatto, ha ilpasso che sembraleggero ma un tem-po d’entrata deva-stante. Crea un bu-co, fa una finta, poiviene stoppato, li-bera la palla. Ades-so ce l’ha Tronconche la allarga a Die-go Dominguez chela allarga ancora aVaccari. Diego è diCordoba, porteràper mano l’Italianel decennio con isuoi calci e la suasaggezza tattica,ringraziando l’Ita-lia per la fiducia in lui che non avevanoavuto i suoi connazionali. L’Italia delDuemila, in compenso, quella dellapancia piena e dei soldi dei diritti tv, gliuserà anche qualche sgarbo, fino aescluderlo di fatto dalla nazionale.

Sugli spalti sventolano le bandiereitaliane. È uno strano innesto questo delrugby nel carattere italiano: perché èsport di combattimento, che non am-mette sotterfugi, che obbliga alla lealtà,dove non c’è spazio per alibi o bugie. Èuno sport dove non puoi sottrarti ai tuoiimpegni, perché la mollezza portereb-be a ferite maggiori. Bisogna lottare an-che solo per non essere distrutti. È unasetta che ha lavorato per cinquant’anniper crescerlo, farlo conoscere, coltivar-selo come una religione segreta, e ades-so sta venendo il momento della rivela-zione.

Adesso la palla è a metà campo, dinuovo nelle mani di Vaccari. «In quei

tempi poteva fare quello che volevacontro ogni nazionale al mondo. Dutti-le, capace di partire a testa bassa comeun pilone, o di fare la terza linea al mo-mento del bisogno», ricorda il vecchiocapitano. Vaccari vede un corridoio, cisi infila, lo allarga, prende venti metri, eimprovvisamente i francesi sono aper-

ti, senza più difesa,in uno stato di al-larme rosso. Lovanno a placcarema ormai la linea èfrantumata e lui fain tempo a dare aMarcello Cuttitta,l’ala, che la toccasolo un istante perpoi consegnarla aTroncon che ades-so può puntareverso la meta, inuna Francia ormaidissolta. In questasquadra che avevauna costola natadalla provincia,Vaccari da Calvisa-no, Giovanelli daNoceto, France-scato dalla Tarvi-sium, i fratelli Cut-

titta, Marcello e il pilone Massimo, cihanno messo la loro infanzia sudafrica-na, un innesto di rugby d’élite, con unacultura di lavoro profonda. E gli stranie-ri erano solo tre, Diego, Pertile e Gard-ner, autore di una meta di forza nel pri-mo tempo. Divertente pensare che laconcione sugli emigranti abbia per pri-mo eccitato un italo-australiano.

Già, questa è la meta più bella dellastoria del rugby italiano e non la segneràIvan Francescato, un altro dei geni diquesta squadra. «Lo chiamavamo ilGiullare per la sua totale mancanza di ri-spetto nelle situazioni di gioco: oppurel’Animale per la sua capacità di sentire,odorare, quando l’avversario lo sotto-valutava». Francescato era in campo al-l’inizio e aveva dato il via all’impresa az-zurra segnando dopo pochi minuti unameta delle sue, una partenza impreve-dibile e una corsa a coltello nella difesaavversaria. Si fa male toccando in meta

La meta che portòil rugby in Paradiso

IL LIBROLe foto in pagina sono tratteda “Fratelli per forza”, diDaniele Resini (Mondadori).Sopra, gli azzurri prima dellasfida col Galles nel 2003.Sotto, bimbi rugbysti e lasquadra delle isole Tonga

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il viaggioGenti antiche

Sono stati i primi abitanti della Cina e per questoli chiamano anche “aborigeni”. Dominavanole grandi pianure, poi di sconfitta in sconfitta sono staticacciati sulle montagne del sud-ovest. I superstiti oravivono in povertà in un mondo dove il tempo sembraessersi fermato al Medioevo

38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 10 APRILE 2005

Il mistero del popolo Miaoin vista dei villaggi di Shiqiao e Qing-man, poche casette di pietra e legnoscuro che da lontano sembrano chalet,con i tetti appuntiti di tegole nere. È suquesti monti l’ultimo rifugio del popo-lo Miao. Li chiamano gli aborigeni, per-ché furono i primi ad abitare la Cina.Loro preferiscono considerarsi una na-zione. Se quattromila anni fa la storiaavesse avuto un corso diverso avrebbe-ro potuto dominare la Cina, ora la lorocultura sta scomparendo in silenzio. Lastoria di questa etnìa è piena di misteriperché hanno solo linguaggi orali,quelli in cui si tramandano 15.000 versidi canzoni. Praticavano culti totemici,nelle loro leggende compaiono creatu-re metà uomini e metà bufali, nella not-te dei tempi furono probabilmente i ve-ri inventori della tecnica dei batik, lestoffe immerse nei colori vegetali e di-segnate con la cera calda. Formavanouna società agricola egualitaria in cuigli antropologi hanno intravisto unasorta di comunismo primordiale. Aitempi del leggendario capo Chiyouerano i padroni delle grandi pianure trail Fiume Giallo e lo Yangtze, la panciafertile della Cina. Poi arrivarono le in-vasioni degli Han — i cinesi attuali — edi sconfitta in sconfitta ripiegaronosulle montagne; siccome la storia lascrivono i vincitori, furono battezzatiMiao che voleva dire “barbari”. Ne ri-mangono otto milioni, la maggior par-te qui attorno a Guiyang e Kaili nellaprovincia del Guizhou (sud-ovest dellaCina). Altri a furia di fuggire finirono inIndocina dove li chiamano Hmong.Spesso perseguitati in Vietnam e Laos,

alla fine della guerra negli anni Settan-ta furono i primi boat-people: duecen-tomila rifugiati vivono in America.

La più enigmatica delle loro tradizio-ni è un lungo “canto della creazione” inlingua Miao — composto a quanto pa-re prima di ogni contatto con l’Occi-dente — che contiene un’allegoria del-la separazione originaria tra loro e i ci-nesi, ma ha anche strane analogie conla Genesi biblica, perché descrive unasorta di diluvio universale e una torre diBabele. Nei versi iniziali recita:

“In quel giorno Dio creò i cieli e la terra.In quel giorno aprì i cancelli della luce.Sulla terra fece montagne di pietra.In cielo fece le stelle, il sole e la luna.In terra creò il falco e l’aquilone.In acqua il pesce e l’aragosta.Nei boschi mise la tigre e l’orso,fece le piante per coprire le montagne,le foreste invasero l’orizzonte,fece la canna verde e leggerafece il bambù robusto.Sulla terra creò l’uomo dal fango.Dall’uomo formò la donna.Quindi il Patriarca Fango fece una bi-

lancia di pietre.Misurò il peso di tutta la terra.Misurò la grandezza delle stelle.La terra si riempì di tribù e di famiglie.La creazione fu condivisa dai clan e

dai popoli.Si combatterono tra loro sfidando la

volontà del creatore.Allora la terra fu scossa fino alla

profondità di tre strati”.Per salire fino al villaggio Shiqiao bi-

sogna lasciare l’automobile e prose-guire a piedi su un sentiero. Presto arri-

verà fin qui una vera strada, finanziatadallo Stato. La stanno costruendo conle loro braccia, vanghe e picconi, unaventina di donne Miao. Yuan Qizhi, 31anni, sorride felice nel dirmi quanto lapagano. Venti yuan cioè due euro algiorno. Una fortuna per queste conta-dine, finché dura. Dall’alba al tramon-to a picconare: «Non è un lavoro pesan-te in confronto a quello che facciamo disolito nelle risaie, e qui guadagniamomolto di più», assicura Yuan. Scava eparla con le sue amiche, scherzano di-vertite dal raro passaggio di un bianco.Lavorano ridendo e sembra davveroche la fatica sia lieve per queste donne,visto che invitano la mia interprete araggiungerle la sera al villaggio per bal-lare insieme. Più avanti lungo il sentie-ro ci sono i loro uomini che per dodiciore al giorno spaccano pietre. Poi comefantasmi un gruppo di minatori dallefacce nere emergono dal cratere di unapiccola cava di carbone a cielo aperto,a poche centinaia di metri dal villaggio.

A Shiqiao ci accoglie Long Rong-cheng, il più ricco fra i contadini. Ha 47anni, guadagna seimila yuan (seicentoeuro) all’anno, la metà li spende permandare due figli a scuola in città. Longci invita in casa sua. Al piano terra lastanza più spaziosa è quella dove vivo-no i maiali. Ha a fianco la cucina e l’u-nico forno-stufa, che deve bastare percuocere e per riscaldare tutta la casa. Alpiano di sopra sono ammucchiati riso,pannocchie di mais essiccate, pezzi dilardo, strutto e carne di maiale crudache attirano le mosche. I Miao non san-no cosa sia un frigo ma sul tetto Longesibisce un’antenna satellitare, l’unicomodo per captare la tv da queste parti.

LKAILI (Guizhou)

a strada dondola piacevol-mente in mezzo alle collinecarsiche dai profili bizzarri.I prati di colza in fiore sono

una gioia per gli occhi, ogni tanto la te-sta di una donna affiora in mezzo a unadistesa di alti fiori gialli. Sui pendii se-coli di fatica hanno scolpito il paesag-gio elegante delle risaie a terrazza conle loro forme sinuose. Nessuna mac-china agricola è arrivata fin quassù, neicampi ci sono solo contadini curvi nel-l’acqua delle risaie inondate, come aitempi dei nonni dei loro nonni l’unicoaiuto è il bufalo che arranca con la pan-cia nel fango. Per strada si incrocianogruppi che scendono a valle con grandiceste vuote sulle spalle. Camminano fi-no a Kaili dove sosteranno sui marcia-piedi in attesa che qualcuno li affitti.Vendono la nuda forza delle loro schie-ne, se sono fortunati si guadagnerannola giornata trasportando pesi immensi.In città li usano al posto dei camion, sue giù con quelle ceste sgombrano mon-tagne di detriti dei cantieri edili. È lon-tana Pechino, con i suoi problemi dacapitale imperiale, le sue manovre stra-tegiche verso Taiwan o il Giappone. So-no lontane Shanghai e Canton, le loropreoccupazioni di inflazione immobi-liare, le bolle speculative, il “denarocaldo” che arriva a miliardi dall’estero.Kaili, capoluogo di contea, appartienea quella Cina immensa dove non è an-cora arrivato un McDonald’s, un Ken-tucky Fried Chicken, un caffè Star-bucks, né gli ingorghi di Audi e Bmw.

In auto da Kaili dopo due ore si arriva

Per arrivare nei lorovillaggi sperdutinon ci sono strade.L’isolamento hamantenuto tradizionimagnifiche: i costumidelle contadine sonotra i più belli, le festerituali sono unospettacolo. Ma dallerisaie ricavano astento di che vivere

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 10 APRILE 2005

In un angolo vicino alle scorte alimen-tari c’è un largo giaciglio ingombro dicoperte spiegazzate, è il letto di tutta lafamiglia, nonni inclusi. I vestiti sonoappesi a un fil di ferro che traversa il sof-fitto da un angolo all’altro. «Chi sta be-ne qui ha appena di che mangiare e ve-stirsi. I più poveri non guadagnanoduemila yuan all’anno, non possonopermettersi neppure il sale per cucina-re». Long Rongcheng brontola solo perla tassa che il governo gli impone ognivolta che lui macella un maiale: 50 o 60yuan a seconda del peso. Non protestainvece per i 1.500 yuan che ogni figlio glicosta di retta scolastica. È il prezzo per-ché possano fuggire da questo mondo.

Il suo vicino Pan Qingyue, 70 anni, vi-ve in una casa di una sola stanza, con ivestiti gettati per terra in un angolo vi-cino a un mucchietto di patate dolci.Per proteggersi dal vento gelido chesoffia la sera dalle montagne, al soffittoha incollato pezzi di polistirolo, avanzidi imballaggi raccolti nelle discarichein città. A una parete c’è un calendariodove fra tanti ideogrammi si stacca la fi-gura di una croce. Il vecchio Pan sa po-che frasi di mandarino, con fatica spie-ga che un secolo addietro da questeparti passarono un missionario inglesee un francese, da allora un terzo deiMiao sono protestanti. Ci accompagnafino alla minuscola chiesetta, ricostrui-ta vent’anni fa sulle macerie di quellarasa al suolo durante la Rivoluzioneculturale. Si lascia fotografare davantial simbolo della croce, ma di fronte allacuriosità sul passato il suo sguardo siperde nel vuoto e la risposta è laconica:«Abbiamo avuto le nostre punizioni».

Nella povertà i Miao hanno mante-

nuto tradizioni magnifiche. I costumiantichi delle contadine sono tra i piùbelli della Cina: giacche e gonne di setadecorate con sofisticati motivi geome-trici, grembiuli dai ricami colorati, coni bordi di maglia disegnati all’uncinet-to, sfavillanti cinture di cotone. In testaportano turbanti neri o si fasciano i ca-pelli in tessuti a strisce bianche e cele-sti avvolti a foggia di colbacco. I copri-capi più maestosi li tirano fuori per lefeste: ogni donna ha la sua corona ar-gentata, un capolavoro di stelle e fiorilavorati nel metallo, con contorno diorecchini, collari, anelli e pendagli checiondolano tintinnando come miriadidi campanelli. Alla “festa del bufalo”,che è il Capodanno dei Miao, ballano alsuono dei lusheng, i grossi flauti verti-cali di bambù. Alla “festa del riso dellesorelle” si organizzano i futuri accop-piamenti: le ragazze in età di matrimo-nio invitano i giovani maschi, offronoacquavite e paste di glutine di riso. Allafine delle danze e delle libagioni i gio-vanotti ricevono in regalo la pasta di ri-so da portare a casa. Se in mezzo al cibotrovano nascosta una spina, è una pro-posta di matrimonio; se ci sono pistillirossi la ragazza ha fretta di convolare anozze; il peperoncino o l’aglio sono unrifiuto.

Un opuscolo raccolto negli uffici go-vernativi di Kaili vanta tutto il bene chela Cina ha fatto ai Miao: «Prima del 1949(l’anno della rivoluzione comunista,ndr) il 95% della popolazione era affet-ta da malaria, da allora è stata sradica-

ta. 23.000 insegnanti hanno portato l’i-struzione nei villaggi di montagna do-ve regnava l’analfabetismo». Nel pic-colo mondo medievale di Shiqiao l’im-provviso apparire di manifesti di unacampagna contro l’Aids tradisce un’al-tra faccia della modernizzazione: fa-cendo leva sulla miseria di questa gen-te, società private senza scrupoli sonovenute anni fa a comprar sangue. Usa-vano vecchie siringhe già infettate, in-teri villaggi sono stati contaminati.

Lo Stato centrale esibisce con orgo-glio i privilegi demografici che ha con-cesso alle minoranze etniche come iMiao. A differenza dei cinesi Han, per ilpopolo di queste montagne non vale lalegge sul figlio unico. Ai Miao è per-messo avere famiglie numerose, perimpedire che scompaiano. Otto milio-ni contro un miliardo e trecento: la par-tita è persa comunque. Nelle scuole siinsegna il mandarino, lingua naziona-le. «I nonni parlano solo dialetti Miao —dice Long Rongcheng — con i nipotinon si capiscono più».

Anche le migliori intenzioni nascon-dono insidie. Per strapparli alla miseriail governo incita i Miao a scoprire il bu-

siness del turismo. Sono arrivati fin quii primi pulmini di viaggiatori, per orasoprattutto cinesi incuriositi dalla sto-ria delle loro minoranze etniche. Si av-vicina il giorno in cui la cultura e le tra-dizioni affascinanti dei Miao si snatu-reranno in “folclore”, i meravigliosi ve-stiti e le feste danzanti del villaggio a po-co a poco subiranno una metamorfosi,diventeranno una recita per le videoca-mere digitali dei turisti. E poi l’antennasatellitare di Long ha già portato fin quile immagini dell’altra Cina, le sue lucci-canti promesse di benessere. I corteidei Miao che ogni mattina all’albascendono a valle con le ceste vuote sul-le spalle, al ritorno hanno gli occhi chebrillano come le vetrine illuminate deisupermercati in città. A Shiqiao lemamme che puzzano di sudore e di bu-falo alla sera si sono messe lo splendidocostume delle antenate e le coroned’argento, mi hanno offerto la grappadi riso e hanno ballato sulla piazza delpaese. Ma in un angolo le loro figlieadolescenti immusonite indossavanojeans e finte Nike, e sognavano una di-scoteca.

LA VITA NEL VILLAGGIOQui sopra, immagini della vita dei Miao nei lorovillaggi: il lavoro nelle risaie, le feste tradizionalie la tessitura dei loro antichi vestiti.Sotto, due contadini in cammino sullemontagne nel sud-ovest della Cina

INVENTORI DEL BATIK

Vivono in casette di pietra e legnodi pino, allevano polli, tacchinie maiali, che uccidono perfesteggiare l’anno nuovo, olavorano nei campi di riso coltivatia terrazze. Ma i Miao sono famosisoprattutto per i tessuti ricamatidalle loro donne. Probabilmentefurono loro, nella notte dei tempi,a inventare la tecnica del batik.Quarta minoranza etnica di tuttala Cina, hanno fama di essereun popolo indipendente e ribelleche partecipò alla sommossacontro il potere centrale dei Qingdal 1840 al 1870. Originaridel nord, si spostarono dallariviera del Fiume Giallo semprepiù verso sud e, dopo le invasionidegli Han, si stabilirono sullemontagne. Furono battezzatiMiao, che vuol dire “barbari”.Otto milioni in tutto, restanoun popolo senza scrittura,che venera draghi e serpentie che parla tre dialetti

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Da sempre illustri studiosi e spregiudicati avventurieri cercano le tracce dellacassa che custodisce le Tavole della Legge. La Bibbia la descrive e secondola tradizione sarebbe sepolta sotto il Monte del Tempio, il luogo dove sorgono

il Muro del Pianto, sacro agli ebrei, e la moschea di al-Aqsa, sacra ai musulmani. Un saggioricostruisce le vicende tra archeologia, religione e politica sugli scavi degli “infedeli”:i negoziati di pace dovranno occuparsi anche della disputa su ciò che sta sottoterra

40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 10 APRILE 2005

Alla ricercadell’Arca

Le lotte segretenel sottosuolodi Gerusalemme

ÈIL CAIRO

scritto nel Libro dell’Esodoche Mosè, ricevute da dio leTavole della Legge, le fececustodire nell’Aron herit,

l’Arca, una cassa in legno d’acacia. LaBibbia ne offre una descrizione mi-nuziosa, e in un passo di grande in-tensità racconta come re Davide e letribù d’Israele portassero l’Arca incorteo, gridando e saltando, suonan-do e cantando, fino al luogo dove es-sa era venerata. Chi legge tutto que-sto come una metafora può ricavarneche secondo laBibbia la Leggemorale deriva dadio, i suoi precet-ti sono assoluti,dunque “Non uc-cidere” non è unanorma abrogabi-le da una società oda un parlamentoa seconda dellecontingenze. Machi invece prendail testo nel suosenso letterale,deve concludereche l’Arca fu realee dovunque oggisia, contenga unatraccia di divino.Infatti la Bibbiariferisce all’Arcavari prodigi, cosìoriginando la tra-dizione israelitasecondo cui essairradia una certapresenza d’Onni-potente. E in quelc a s o t r o v a r l aequivarrebbe atrovare un’im-pronta di dio,senza dubbio lapiù sensazionalescoperta della storia. Ma al di là dellesuggestioni riservate a chi crede, an-che chi non crede non può restare in-differente alla storia antichissimascolpita nelle Tavole della Legge. Equesto spiega perché da tempo nelsottosuolo di Gerusalemme sia avve-nuto qualcosa che Hollywood titole-rebbe: la ricerca dell’Arca perduta.

A guidarci in questa vicenda favo-losa è un saggio di Paolo Pieraccini(Politica, religione e archeologia inPalestina/Israele dal 1967 al 2000),pubblicato da Letture Urbinati, la ri-vista dell’Università di Urbino. Viag-giando tra l’archeologia e la politicaPieraccini scopre sorprendenti rela-zioni tra lo scontro sotterraneo, lette-ralmente, che oppose archeologi ereligiosi, e le dinamiche politiche chesi sviluppavano, per così dire, in su-

perficie. A ben vedere non potrebbeessere altrimenti, tanto le sante pie-tre di Gerusalemme sono sovraccari-che di simboli. La loro terribile uni-cità risiede in questo: sono le pietredove dio divenne storia. Non la stes-sa storia né lo stesso dio: ma le stessepietre, purtroppo.

Generazioni di pellegrini le hannosmussate strofinandovi le mani o cal-pestandole con i calzari; ma a levi-garle ha concorso anche il passo deiguerrieri che se le disputavano, perfede, per ambizione, per avidità.Grondano santità ma anche sangue.Non sbaglierebbe chi le considerassegli altari sacrificali del dio degli eser-

citi, sempre ala-c r e i n M e d i oOriente. Più esat-tamente sono ilpretesto cui quel-la divinità spessoricorre quando hasete. Così i primigravi scontri inP a l e s t i n a , n e l1929, comincia-rono quando ilGran Muftì di Ge-rusalemme accu-sò gli ebrei di vo-ler distruggere laCupola della Roc-cia, da cui Mao-metto avrebbespiccato il voloper il paradiso.Dalle considera-zioni del GranMuftì, di fatto in-citamenti al mas-sacro, risultò lamorte di duecen-tocinquanta per-sone. Sospettosocome quel diomusulmano sem-bra il dio di queicredi cristiani co-stretti alla coabi-tazione forzata

nel tempio del Santo Sepolcro, spar-tito secondo confini tuttora conte-stati: i suoi sacerdoti da decenni liti-gano, e talvolta si pestano, per il pos-sesso di qualche scalino, di qualchecentimetro quadrato di pietra. Némancano esempi analoghi sul ver-sante israelita.

Negli ultimi decenni l’ingresso incampo degli archeologi avrebbe po-tuto sedare queste risse tra idolatridelle pietre e in futuro, chissà, ripor-tare tutti al dio unico sepolto sotto isassi. Invece col tempo ha preso pie-de un’archeologia d’ispirazione reli-giosa o politica che sembra badaresoprattutto a fondare il diritto stori-co degli uni o degli altri: col risultatodi complicare ulteriormente la con-tesa. Così adesso per arrivare a unapace tra israeliani e palestinesi la

questione da risolvere non è soltantola sovranità sulle pietre visibili, maanche su quelle invisibili e probabili,le pietre che sono, o potrebbero esse-re, sottoterra.

Basti pensare a cosa avvenne nel-l’ultimo negoziato di pace, fallito, tragoverno laburista e Arafat, quando siaffrontò il contenzioso sul complessonoto come il Monte del Tempio, che

include Muro del Pianto, sacro agliisraeliti, e la moschea al-Aqsa, sacraai musulmani. Clinton propose discindere la sovranità sulla superficiedalla sovranità sul sottosuolo: ai pale-stinesi la superficie, agli israeliani ilsottosuolo. È un po’ come se stabilis-simo che venti metri sotto i piedi de-gli italiani comincia la Francia. Inusi-tata e paradossale, l’opzione Clintonoffriva però una possibile soluzioneal conflitto che oppone, ormai daquarant’anni, due avversari acerrimi.Da una parte le autorità islamiche cheamministrano i luoghi sacri ai musul-mani considerano “terra araba” an-che quanto sta sotto, e non gradisco-no scavi archeologici “infedeli”. Dal-l’altra quei settori religiosi israelianiper i quali il Monte del Tempio è sen-za alcun dubbio proprietà della na-zione ebraica, in quanto così affermala Bibbia (in Samuele XXIV, 24, è scrit-to che re Davide l’acquistò dai Gebu-sei per 50 sicli: peraltro l’esistenzastorica di Davide secondo alcuni stu-diosi non sarebbe provata).

Il Monte del Tempio è appunto illuogo dove sarebbe sepolta l’Arca, se-condo la tesi non inverosimile di alcu-ni gruppi religiosi. Il Tempio sorgevasulla sommità della collina, lì doveprima c’era un altare del dio fenicioBaal e oggi la moschea di al-Aqsa.L’Arca era custodita nella stanza piùsegreta, cui avevano accesso solo i piùalti sacerdoti in occasioni particolari.Sparì nel 587 avanti Cristo, in seguito

Legno e oroFaranno dunque un’arca

di legno d’acacia [...].La rivestirai d’oro puro:

dentro e fuori larivestirai [...]. Faraiil coperchio d’oro

puro [...]. Farai duecherubini d’oro [...].Nell’arca collocherai

la Testimonianzache io ti darò

Dal librodell’ESODO, 25,10

GUIDO RAMPOLDI

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 10 APRILE 2005

alla distruzione del Tempio da partedei babilonesi. È possibile che i sacer-doti l’abbiano messa in salvo soloquando fu chiaro che la cittadella sta-va per capitolare; e in quel caso po-

trebbero averla nascosta proprio sot-to il Tempio, dove correvano canali eforse passaggi segreti. Dovunque siafinita, ignoriamo cosa ne sia stato inseguito. Nel 63 avanti Cristo, quandoPompeo arrivò a Gerusalemme perispezionare l’ultima conquista di Ro-ma, visitò il Tempio, nel frattempo ri-costruito, e non vi trovò «una singolaimmagine di dio», come scrive Tacito.I Romani ne furono sorpresi e forse siconvinsero che quel santuario vuotorappresentava un’oscura minacciaall’Impero e alle sue divinità colorate.Lo distrussero due secoli dopo, nel 70dopo Cristo.

Ci sono anche le suggestioni diquesta storia millenaria dietro il forteinteresse dell’archeologia israelianaper il Monte del Tempio. Ambivalen-te invece l’atteggiamento dei religio-si: alcuni arrivarono ad azzuffarsi congli archeologi che intendevano sca-vare l’area a sud del Muro del Pianto,ritenendoli profanatori; altri sterra-rono di propria iniziativa un anticocanale che passava sotto le case delquartiere arabo, anche con l’idea diaffermare la sovranità israeliana suquell’area. Per ottenere che il gover-no israeliano fermasse gli scavi sgra-diti l’autorità religiosa islamica, ilWaqf, argomentò che lo sterro inrealtà aveva lo scopo di far crollare lamoschea di al-Aqsa erodendone lefondamenta, un’antica paura arabaagitata sia dal Gran Muftì negli anniVenti sia da Arafat settant’anni dopo.

Da questo conflitto tra religiosi ar-mati di badile nacque l’epica batta-

glia del 1981, combattuta nelle visce-re del Monte del Tempio. Da una par-te alcuni rabbini e i loro studenti, chescavarono un tunnel lungo il murooccidentale fino a raggiungere unacisterna d’epoca crociata sotto laspianata. Dall’altra il personale delWaqf, che aveva preso a scavare un al-tro tunnel per rintuzzare l’invasione.Respinti gli avversari, in seguito an-che il Waqf si diede da fare per atte-starsi nel sottosuolo. A quindici metridi profondità c’erano le cosiddetteStalle di Salomone, un enorme sot-terraneo di 500 metri quadrati, con 88pilastri su dodici file, fatto costruireda re Erode e successivamente ri-strutturato durante il periodo om-mayade, quando divenne un sito mu-sulmano. Dopo scontri interminabilicon gli israeliani nel 1996 il Waqf riu-scì a trasformare le Stalle in una mo-schea; e sullo slancio di quella vitto-ria, cominciò a scavare due antichitunnel, anch’essi in origine ebraici,senza curarsi di eventuali reperti.

Per lo scandalo dell’archeologiaisraeliana lo scavo venne condottocon bulldozer. Quando si scoprì cheil materiale di risulta conteneva pez-zetti di ceramica risalenti al Primo eal Secondo Tempio, prestigiosi intel-lettuali israeliani chiesero al Waqf difermare quell’“atto irreparabile divandalismo”. Lo scontro è ancoraaperto. Probabilmente non si pla-cherà fin quando una pace tra israe-liani e palestinesi non indurrà reli-giosi e archeologi a fare la cosa piùovvia: scavare insieme.

MITO E REALTÀNella foto qui sotto, una antica illustrazioneche rappresenta Mosé nel tabernacolodell’Arca dell’alleanza. Nella foto in basso,uno scatto d’epoca del Monte del Tempio,il punto di Gerusalemme sacro sia agli ebreisia ai musulmani in cui l’Arca - secondola leggenda e gli studi di alcuni archeologi-potrebbe essere sepolta: nell’immaginesi distingue con precisionela Cupola della Roccia

DIL CAIRO

a Mussolini erede degli imperatori romani aSaddam Hussein che imprimeva il proprio nome suimattoni usati per ricostruire Babilonia, alla manieradi re Nabucodonosor. Salire sulle spalle dei grandi delpassato e guardare il mondo dall’alto della storia:quale modo migliore per legittimare il proprio pote-re? E quale strumento più efficace, per ottenerlo, delpiegare eventualmente l’archeologia a scopi politicio religiosi? Padre Michele Piccirillo, autore di nume-rosi scavi fra Israele, Palestina e Giordania e docentedi Storia e geografia biblica allo Studium BiblicumFranciscanum di Gerusalemme, ha vissuto qua-rant’anni di diatribe archeologiche in Terrasanta.Diatribe che, nel cuore spirituale dei tre monoteismi,hanno visto ebrei laici, ebrei religiosi, musulmani,cristiani cattolici e protestanti l’un contro l’altro ar-mati, pronti ad alzare le pale contro i colleghi-nemi-ci.

Quando iniziano i problemi in Terrasanta?«Con gli esordi dell’archeologia biblica nell’800. I

primi archeologi cristiani hanno iniziato a lavorarecon il preciso intento di documentare i fatti narratinella Bibbia. Poi, con il tempo, abbiamo iniziato a sca-vare più serenamente, ma il problema si è ripropostocon la nascita del sionismo. A quel punto archeologiae attualità, religione e politica hanno iniziato a in-trecciarsi fra loro. La ricerca delle vestigia del passatoda un lato e l’interpretazione dei testi sacri dall’altrosono diventati un fatto nazionale, legato alle vicendedei giorni nostri più che a criteri di scientificità. Peresempio, l’uso di alcuni termini come «periodo israe-litico» in alternativa a «età del ferro» è un elementofuorviante. In Terrasanta troviamo infatti reperti delperiodo israelitico, ma appartenenti a popolazioniben diverse dagli israeliti, come aramei, idumei, feni-ci o altri. Analogamente, bisogna mettersi d’accordosulla definizione dell’antica regione della Palestina: isuoi confini si estendevano a nord solo fino al monteCarmelo, poi si entrava in territorio fenicio. Sarebbescorretto fare paragoni con la Palestina attuale».

Com’è la situazione oggi sulla spianata del Tem-pio, e soprattutto nel sottosuolo?

«C’è una relativa calma, dopo anni terribili. Ricor-do quando gli israeliani scavavano per aprire la se-conda porta del tunnel che corre lungo il Muro occi-dentale. Il mio convento è a pochi metri di distanza, edi notte sentivo i martelli pneumatici trapanare la ter-ra. Oggi il tunnel è tranquillamente visitato dai turisti,ma l’apertura della seconda uscita nel 1996, sotto ilgoverno di Netanyahu, scatenò violenze terribili fraisraeliani e palestinesi. Anche la moschea di Marwanè frequentata quotidianamente. Si trova nel sotto-suolo, esattamente sotto la al-Aqsa, ed è diventata unluogo di preghiera riservato alle donne. Questo am-biente immenso storicamente ospitava le cosiddetteStalle di Salomone. Certo, vederlo trasformato in unlocale tutto marmi e luci al neon può non corrispon-dere al nostro gusto estetico, ma non credo che lì sot-to sia stato commesso alcuno scempio archeologico».

La guerra dell’archeologia rimane confinata soloa ebrei e musulmani o coinvolge anche i cristiani?

«Alcuni episodi spiacevoli coinvolgono anche noi,ma difficilmente fuoriescono dall’ambito religiosoper toccare quello politico. Penso all’invenzione dialcuni siti di pellegrinaggio o all’esagerazione del-l’importanza di alcuni reperti. Così una barca del pri-mo secolo ritrovata accanto al lago di Tiberiade è di-ventata la barca di Gesù. I presunti siti della “NuovaEmmaus” ormai si sprecano. Una cisterna recente-mente pubblicizzata come luogo di preghiera di Gio-vanni il Battista sembra non avere nulla a che fare conil personaggio. Mentre gli scopritori di un ossario conun’iscrizione relativa a Giacomo, fratello di Gesù, orasi trovano davanti ai giudici».

IL DIPINTOSopra, l’Arca in undipinto muraledi Luigi Ademolloa Palazzo Pitti

Le stalle di Salomone

trasformate in moschea

Parla lo storico Michele Piccirillo

ELENA DUSI

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VITA DI

SAUL BELLOW

JAMES ATLAS

www.librimondadori.it

La sparizione

Il circolo Bellarosa

Quello col piede in bocca e altri racconti

I conti tornano

Il re della pioggia

Herzog

Ne muoiono più di crepacuore

L'uomo in bilico

Le avventure di Augie March

La resa dei conti

Il dicembre del professor Corde

Ravelstein

LE OPERE DI SAUL BELLOW

NEGLI OSCAR MONDADORI

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Il musical dei Monthy Python sulla leggenda di re Artù continua a fareil tutto esaurito. E sui più prestigiosi palcoscenici di New Yorksi alternano interpreti del calibro di Denzel Washington, Jessica Lange,

Kathleen Turner, Billy Crystal, Jude Law, Ralph Fiennes, Liam Neeson. Perché un attoredi fama può garantire il successo al botteghino, ma soprattutto perché per molte star la prosapuò essere una occasione di rilancio, una sfida da vincere o una passione che torna

L’obiettivo di tuttiè ripetere il trionfodi Producers,il film di Mel Brooksla cui messa in scenacon MatthewBroderick haottenuto dodici premiTony e ora faràritorno al cinema

42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 10 APRILE 2005

LNEW YORK

a decisione di una star hol-lywoodiana di calcare i pal-coscenici di Broadway creaun evento mediatico che al-

larga inevitabilmente, ed esponenzial-mente, il pubblico che frequenta i teatriintorno a Times Square. È lunghissima lalista di spettacoli il cui successo è legato al-la presenza di un divo del cinema, o chesono stati salvati dal disastro commercia-le dalla sostituzione del protagonista conuna star scritturata frettolosamente e asuon di milioni. Tuttavia la scelta degli at-tori di privilegiare il teatro sul cinema su-scita tra gli addetti ai lavori giudizi spessovelenosi: si va dall’accusa di tentare di no-bilitarsi e darsi un’aura intellettuale aquella di adattarsi per forza maggiore du-rante un mesto periodo di declino.

A queste valutazioni, basate principal-mente su un dato economico e mediatico(i cachet e la visibilità che offre Broadwaynon sono paragonabili a quelli di Hol-lywood) va aggiunto in alcuni casi un da-to crudelmente anagrafico: il teatro noncontempla i primi piani, e il palcoscenicominimizza i segni del tempo sul volto diuna star che invecchia.

Certo, non mancano casi di grandi dividel cinema nati sulla ribalta e sincera-mente appassionati di teatro al punto daritornarci a costo di pesanti sacrifici eco-nomici (basti pensare allo Shakespeare inthe Parkal quale hanno prestato il loro ta-lento attori del calibro di Al Pacino e MerylStreep); e sono sempre più frequenti i ca-si di attori che individuano nel palcosce-nico un momento di riflessione rispetto alvuoto hollywoodiano.

La recente storia di Broadway, caratte-rizzata in primo luogo dalla cosiddetta“British Invasion” (il boom delle mega-produzioni inglesi, cominciato con Cats),e quindi dalla “Disney Invasion” (iniziatacon Beauty and the Beast), ha visto la ri-duzione sensibile degli spazi dedicati allaprosa ed una parallela diminuzione degliallestimenti dei classici del musical, sosti-tuiti da adattamenti di film di successo(Grease), pellicole di culto (Hairspray),collage di canzoni dichiaratamente“camp” (Mamma Mia, basato sui grandisuccessi degli Abba) o addirittura di spet-

ANTONIO MONDA

Le stelle di Hollywoodsi divertono a teatroLe stelle di Hollywoodsi divertono a teatro

tacoli comici televisivi. L’esempio più eclatante é rappresen-

tato da Spamalot, un esilarante musicalbasato sui personaggi creati dai MontyPython che fa il verso sin dal titolo al mon-do epico di Camelot. Ne sono protagoni-sti attori cinematografici come Tim Curryed Hank Azaria, e non é certamente un ca-so che sia diretto da Mike Nichols, un re-gista nato nel teatro, ma diventato celebrein tutto il mondo grazie alla settima arte.Lo spettacolo, che rielabora in puro spiri-to Python le leggende di re Artù, discendedirettamente dal film Monthy Python andthe Holy Grail.

Anche Spamalotpropone un approccio“camp” caratterizzato da riferimenti allacultura popolare, sfacciati anacronismi evolgarità ripetute al punto da diventareinoffensive. I più attenti riconoscerannoche la voce del Padreterno é quella di JohnCleese, ma l’intera platea si rende conto sindall’entrata in scena che Hank Azaria ot-tiene con questo spettacolo la consacra-zione che ancora non ha avuto ad Hol-lywood. Si ride molto, ma affiora ripetuta-mente la sensazione di una commistionedi generi che ha ben poco a che fare con ilteatro, ed è sintomatico che le critiche sia-no state caratterizzate soprattutto da uninterrogativo puramente economico: riu-scirà a diventare il nuovo Producers?

Il riferimento al fortunatissimo spetta-colo di Mel Brooks ha sigillato un nuovo ca-pitolo nell’ambivalenza tra Broadway e ilcinema. The Producers é infatti un film diMel Brooks che il regista ha adattato in unospettacolo vincitore di dodici premi Tonye che sta per diventare nuovamente unfilm, prodotto dallo stesso Brooks con l’i-dentico cast che ha trionfato a Broadway.Con la lungimiranza di chi è nel mestiereda quasi cinquant’anni, Brooks scritturòper la messa in scena teatrale un divo indi-scusso di Broadway (Nathan Lane) ed unattore cinematografico di successo(Matthew Broderick). I due sono stati ri-chiamati sul palcoscenico ogni volta che lasostituzione con attori meno noti genera-va una flessione nella vendita dei biglietti.

Negli stessi giorni del debutto di Spa-malot, Denzel Washington ha portato aBroadway un allestimento di Giulio Cesa-re nel quale si cimenta nel ruolo di Bruto.L’indubbio “star power” dell’attore ha ge-nerato vendite record, ma anche recensio-ni al vetriolo: sul New Yorker Hilton Als haR

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 10 APRILE 2005

Quando Burtonrecitò ubriaco

Debutti e flop dei divi sul palco

Come ha raccontato in ma-niera immortale Eva con-tro Eva, la più nota pellico-

la dedicata a Broadway, la storiadella «grande strada bianca» chetaglia Manhattan in verticale sinutre della leggenda quotidianadi fiaschi e successi, rivalità vio-lentissime e complimenti al ve-triolo. Accanto ai pochi trionfiche si registrano nel corso di unanno, ci sono una infinità dispettacoli che arrivano al debut-to, come si dice in gergo,«d.o.a.»: «dead on arrival» ovve-ro «morti all’arrivo». La causapuò essere, di volta in volta, unaidea sbagliata in partenza, unadebolezza di regia o di recitazio-ne, oppure un fuo-co di fila di ferocistroncature.

Perfino Kathari-ne Hepburn ebbela sua razione dicritiche al limitedell’insulto, e deci-se di abbandonarelo spettacolo e ri-nunciare al com-penso quando Do-rothy Parker scris-se che le «sue emo-zioni non andava-no oltre il passag-gio dalla A alla B».Tra le stroncatureche più vengono ri-cordate e citate c’èquella che subì Ri-chard Burton, ilquale pensò benedi concedersi qual-che bicchiere di troppo durantegli intervalli dell’anteprima diun Amleto, e lesse il giorno suc-cessivo: «L’effetto dell’alcoolsulla recitazione ha trasformatonegli ultimi due atti il principe inun omosessuale».

Tra i debutti che meno hannolasciato il segno, c’è invece quel-lo di Marlon Brando in I remem-ber Mama (la critica stroncòcompatta e scrisse quasi all’una-nimità di un cast da dimentica-re), mentre il più sorprendente èprobabilmente quello di JamesCagney, che in Every Sailor inter-pretò il ruolo di una ballerina difila, con tanto di parrucca e tutù.

La consapevolezza dell’im-portanza fondamentale della“opening night” ha scatenatoreazioni paradossali nei talentipiù istrionici. L’esempio più cla-moroso viene da John Barrymo-re. Disturbato dai continui colpidi tosse della gente in sala duran-te un’anteprima per la stampa diun suo spettacolo, il celebre atto-re si affacciò alla ribalta all’iniziodel secondo atto con del pesce inmano e lo lanciò in platea, gri-dando: «Divertitevi con questi,maledetti trichechi!».

(a.m.)

LA STRONCATURANella foto,Katharine

Hepburn: dopole feroci critiche

a una suainterpretazione

a Broadway,abbandonò la

parte e rinunciòal compenso

stigmatizzato i manierismi cinematogra-fici della sua recitazione, ed ha scritto che«non è riuscito a diventare Bruto, ma lo hatrasformato in una versione di se stesso».

Come racconta Eva contro Eva, il piùgrande film hollywoodiano mai dedicatoa Broadway, non esiste forma di spetta-colo in cui la critica abbia un potere mag-giore, e sono numerosi i casi in cui unastroncatura sul New York Times abbiacausato la chiusura di uno spettacolo pri-ma dell’apertura ufficiale al pubblico. SeBen Stiller ha preferito optare per il pre-stigioso Off Broadway del “Public Thea-tre” per il testo teatrale di un regista cine-matografico come Neil Labute, JessicaLange e Christian Slater duettano malin-conicamente a Broadway in Zoo di Vetrodi Tennessee Williams. Lo spettacolo èdecisamente modesto, ma le critichehanno riconosciuto il carisma della diva,garantendo il tutto esaurito almeno per leprime settimane di programmazione.

Basta addentrarsi nella quarantacin-

Liam Neeson hanno compreso che il mo-do migliore per conquistare la difficileplatea newyorkese è quello di affidarsi atesti ambiziosi come Indiscretions o aclassici come Amletoe Il Crogiuolo.

Di tutt’altro genere la scelta dell’ameri-cano Alec Baldwin, il quale nell’illusionedi ripercorrere le tracce di Marlon Brandodopo Caccia a Ottobre Rossodecise di noninterpretare più il personaggio di JackRyan pur di recitare in un allestimento diUn tram che si chiama desiderio. Per losconcerto dei produttori, e soprattuttodel suo agente, l’attore rifiutò persino unrilancio miliardario per il film successivonel quale compariva il personaggio crea-to da Tom Clancy, e offrì la propria versio-ne di Stanley Kowalsky accanto a unaBlanche interpretata da Jessica Lange. Lospettacolo si rivelò un clamoroso fiasco,ed il ruolo di Jack Ryan venne affidato adHarrison Ford, che ne fece un eroe cine-matografico ed un personaggio di suc-cesso secondo solo ad Indiana Jones.

quesima strada per assistere al ritorno ateatro di Jeff Goldblum in The Pillowmane di Kathleen Turner in Chi ha paura diVirginia Wolf, mentre al confine della zo-na delimitata da Times Square, John Tur-turro sta per debuttare con la versioneamericana di Questi Fantasmi. Diversoma egualmente sintomatico il caso di Bil-ly Crystal, che con 700 Sundays proponea Broadway un one man-show simile aquelli che lo hanno imposto all’inizio del-la sua carriera, ma che deve in primo luo-go alla sua popolarità cinematografica iltrionfo attuale.

Negli ultimi anni Broadway ha rappre-sentato anche l’occasione per arricchire ilcurriculum di un divo non americano dalanciare sullo schermo: per non rimane-re cristallizzato nell’immagine del Wolfe-rine degli X-Menl’australiano Hugh Jack-man ha debuttato con esiti disastrosi inuna commedia musicale prettamenteamericana come The Man from Oz, men-tre i britannici Jude Law, Ralph Fiennes e

LA STORIA

GLI ESORDI

La grande stagionedi Broadway inizianel gennaiodel 1893 quandoviene apertol’Empire (nellafoto), il primoteatro

IL PULITZER

Nel 1931 per laprima volta unospettacolo diBroadway vince ilpremio Pulitzer: è ilmusical “Of thee Ising” di Gershwin(nella foto)

WEST SIDE STORY

Il debutto delmusical West SideStory, nel 1957 alRivoli Theatre (nellafoto), è consideratouno dei momentisalienti della storiadi Broadway

CATS

Con la prima di Cats(nella foto), il 7ottobre 1982, iniziaa Broadway la“British invasion”:il pubblico premiagli show arrivatidal Regno Unito

DISNEY INVASION

L’ultima ondatariguarda spettacoliteatrali nati dallestorie della Disney;tra essi “Lion King”(nella foto), “Beautyand the Beast”e “Aida”

IL FENOMENOQui sopra, unascena di “Spamalot”,il musical dei MonthyPython che stariscuotendoun successo enormein queste settimane.Nella pagina accanto,dall’alto, JessicaLange e ChristianSlater in “The GlassManagerie”, NicoleKidman e Iain Glenin “The Blue Room”e infine DenzelWashingtonche interpretail ruolo di Brutonel “Giulio Cesare”

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45DOMENICA 10 APRILE 2005

spettacoliGrandi registi

ABUSTO ARSIZIO

pocalypse now a Busto Ar-sizio. Hanno fatto arrivareFrancis Ford Coppola inelicottero con musica wa-

gneriana d’accoglienza, mentre tre ra-gazzotti di Gallarate maniaci di giochi diguerra simulata, vestiti in tuta verde daSettimo Cavalleria, gli facevano il salutomilitare. Il regista, che compie in questigiorni 66 anni, da secoli non gira un film— l’ultimo è stato L’uomo della pioggia—e fa il pensionato in camicia hawaiana coipalmizi, si è accomodato nella sceneggia-tura imbastita dal BA Film Festival, che ie-ri l’ha invitato nel Varesotto, ed è stato algioco.

Diabolico, Coppola ha poi sabotato l’e-vento — targato centrodestra — da esper-to guastatore. Dichiarando col sorriso piùaperto che non conosceva il festival e nonaveva la minima idea del perché lo aves-sero voluto lì (pagandogli il viaggio): «Laverità? Nessuno mi ha spiegato un belniente, però adesso m’informo». Subitodopo ha rinnegato supposte iniziativeculturali che gli avevano attribuite, an-nunciando come unico suo progettoconcreto l’intenzione di aprire un alber-go a Bernalda, paese natale della sua fa-miglia, nel cuore della Basilicata, vistoche finalmente ha ottenuto il passaportoitaliano e può così avviare iniziative com-merciali nel nostro Paese senza troppiproblemi.

Ma se l’elicottero sembrava uscito daApocalypse now, l’arrivo nella sede del fe-stival è stata una scena de Il Padrino. Ac-canto a Coppola c’era un personaggiomolto abbronzato, giacca coi bottoni d’o-ro, foulard infilato nel collo aperto dellacamicia e sigarone in mano. Si chiamaNunzio Alfredo D’Angeri ed è l’ambascia-tore del Belize: Francis — che in Califor-nia pure lui rappresenta lo Stato centro-americano, dove possiede un esclusivoresort — venerdì notte ha dormito nellavilla di Parabiago di D’Angeri. Alla sinistradi Coppola, invece, c’era Zucchero For-naciari. Vi conoscete? «No». Scavando,viene fuori soltanto che Zucchero stimamolto Coppola, ha fatto uno dei suoi pri-

mi concerti in Basilicata e ha registrato undisco a Napa Valley, vicino alle vigne do-ve Coppola produce milioni di bottiglie diun vino che ha chiamato «Rubicone». En-trambi — ecco svelato il mistero — sonoamici dell’ambasciatore.

Parla un po’ di italiano, Coppola, e di-chiara amore per la nuova patria, soprat-tutto per la Basilicata, «poco famosa nelmondo perché non c’è mafia o camorra».Alle prossime elezioni potrebbe pure vo-tare. Per chi, sempre che abbia nozionidella nostra politica? «Non vedo perchédovrei dirlo». Lui non è un anti-Bush co-me tanti altri dello show-business norda-mericano, e come si poteva arguire davecchie interviste. Lo si scopre per caso,parlando del documentario di JonathanNossiter Mondovino, appena uscito suglischermi italiani. Coppola spiega che nonha voluto partecipare al film, al contrariodi tanti altri personaggi famosi amantidell’enologia, perché non aveva il con-trollo delle immagini: «Quando ti piazza-

no davanti a una telecamera, non sai maicome va a finire». Per illustrare meglio ilconcetto, cita come esempio di film-pa-tacca che distorce la realtà proprio quel9/11 di Michael Moore che è una dellebandiere della resistenza contro il presi-dente repubblicano. Chiamando Moore— apposta, probabilmente — Roger, co-me l’interprete di James Bond.

Di sé, Francis Ford Coppola racconta lamaturità tranquilla e benestante, l’orgo-glio di essere padre di artisti come la figliaSofia («bellissime le scene del suo nuovofilm Marie Antoinette. Ma io non ci homesso il naso»), l’impegno saltuario co-me produttore («spesso l’unica cosa chefa il produttore è piazzare il suo nome neititoli»). Gli ricordano rispettosamenteche da sette anni non fa un film, e lui: «Ve-ramente mi avvicino ai nove. Un artistache comincia molto giovane e diventa fa-moso con le pellicole girate sui trent’an-ni, che fa dopo? Sceglie di ripetersi o di tor-nare all’inizio, come fosse uno studente.

Piuttosto dei film stupidi che mi propo-nevano di girare, ho deciso così. Sono po-chi quelli che fanno belle cose anche davecchi. Penso a Shakespeare — ride di gu-sto — o al vostro Verdi, che ha compostol’Otello che aveva una bella età». Nientestress o nostalgie, assicura: «Col cinemanon devo mantenere la famiglia». Gli ba-stano il vino e gli alberghi. «Beh? Ho un’a-zienda di prestigio che mi dà il privilegiodi poter aspettare l’idea giusta. E poi, i filmdi oggi sono tutti uguali».

Una storia sulla guerra in Iraq le po-trebbe interessare? «No». Perché? Cop-pola si spazientisce, probabilmente daanni lo torturano con questa domanda.Risponde alla Jannacci: «Perché no». Poisi addolcisce in un «preferisco il futurodegli uomini alla guerra». Il vecchio pro-getto Megalopolis, un film su una cittàdell’utopia, per ora è accantonato: «Hoscritto e riscritto la sceneggiatura, ci ho la-vorato tantissimo, ma forse era una cosatroppo ambiziosa e l’ho messa da parte.Se vivo a sufficienza, magari la riprenderòin mano».

Gli organizzatori del festival busteseprovano a fargli dichiarare qualcosinasull’importanza di sostenere il cinemaitaliano, ma Coppola non ci pensa nean-che a pronunciare una frase gradita aisuoi ospiti: «Negli anni ‘50 e ‘60, con glistessi problemi, avete avuto almeno tren-ta grandi registi che hanno creato opereindimenticabili. Ora succede in Iran. Il ci-nema gira, tornerà il vostro momento».Un ragazzo cerca di consegnare a Coppo-la un suo copione, ma il regista ritrae lemani come se i fogli bruciassero: «Nonvoglio». Questione di diritti d’autore: infuturo il simpatico giovane potrebbe ac-cusarlo di avergli rubato un’idea.

Che consiglio darebbe a un registaprincipiante? «Sposati presto». Per lamorte del papa, in Italia, il mondo dellospettacolo si è fermato per giorni e le tv so-no state monotematiche: che ne pensa?Coppola allarga le braccia e risponde soa-vemente: «È il primo papa che muore nel-l’epoca dei grandi media e della Cnn. Le tvci hanno costruito il loro business, che vo-lete farci, anche se l’evento non era poicosì importante».

Coppola.Mi offronosoltanto film stupidi

‘‘Famoso a trent’anniNon giro nulla da quasinove anni: un artista checomincia molto giovane

e diventa famoso atrent’anni che fa dopo?

ENRICO BONERANDI

CAPOLAVORI

Francis Ford Coppolaè nato a Detroitil 7 aprile 1939. Alcunisuoi film fanno partedella storia delcinema: dalla trilogiade “Il Padrino”ad “Apocalypse Now”e “Cotton Club”

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i saporiGusto in tazza

46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 10 APRILE 2005

CaffèLICIA GRANELLO

Portofrancodall’iniziodel 1700,quisbarcavanole navi inarrivo dallepiantagioniper rifornire

i bellissimi caffè dell’imperoasburgico, tradizione rimasta intattain città. L’Associazione Caffè Trieste,nata nel 1891, è ancora operante.

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La tradizionedella tazzinafumante ha ilsuo tempioin piazzaSantoEustachio,con due barche sicontendono

meriti e clienti. Molto diffusa in città,la variante del “caffè al vetro”, servitoin un bicchierino riscaldato e riempitoper un terzo

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LE SUITE DI VIA OTTAVIANO Via dei Gracchi 6Tel. 06-39745602Camera doppia da 75 euro,colazione inclusa

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La tazzulella

‘e cafè ècosìradicatanella culturae nellatradizionecittadina,che la verascommessa

dei bar è fidelizzare i clienti: se latazzina non è caldissima,la miscela profumata,l’abbandono è certo

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CAFFE’ DELIZIAVia Cuma 131 (Bacoli) Tel. 081-8543043

NAPOLETANA

E’ composta di dueparti, con in mezzoun filtro a cestello,

che viene colmato,senza pressare, con

caffè. L’acquariempie la parte

inferiore, alla quale siavvita, a testa in giù,quella superiore, colbeccuccio. Al primo

bollore e a fuocospento, si capovolge

la caffettiera,lasciando che l’acqua

filtri lentamenteattraverso il caffè

Dicono che i baristi sianopersone piuttosto pazienti.Non si spiegherebbe altri-menti come resistere dallesette di mattina a un’oraimprecisata della sera, da-

vanti a orde di clienti che ti chiedono lastessa bevanda — il caffè — in almenouna dozzina di modalità differenti. Con-tare per credere: corto, lungo, doppio intazza piccola o grande, freddo o shakera-to, con latte freddo o caldo a parte, mac-chiato (anche in questo caso freddo o cal-do), allungato con acqua, corretto con i li-quori più diversi (dalla Sambuca al Fer-net, passando per Grappa, Brandy, Ani-ce).

Più che un’abitudine, un rito. Più cheuna bevanda, un premio, piccolo e inde-rogabile, che ci regaliamo da appena sve-gli a prima di coricarci (tutti noi abbiamoalmeno un amico che sorseggia beato ilcaffè dopo cena, «tanto dormo lo stesso»).E siccome davanti al piacere della tazzu-lellanon c’è anatema del ministro Sirchiache tenga, negli ultimi anni l’interesse peril caffè — come simbolo, pretesto, luogod’incontro — è montato come la crema diun espresso fatto come regola comanda.

Così, mercoledì, in contemporaneacon il Salone del Mobile, a Milano verran-no premiati i vincitori del concorso inter-nazionale di idee «Espresso —spazio/tempo del caffè», indetto da Do-

mus e IllyCaffè. Gli oltre 700 concorrenti,designer e artisti under 35 da tutto il mon-do, hanno avuto un anno di tempo perraccontare — progettandolo — il loroconcetto di caffè co-me luogo di consu-mo, ma anche di in-contro, conoscen-za, scambio.

Ben lo sannoquelli di Starbucks,inventori di uno deifenomeni più im-portanti nel mondodel fuori-casa ali-mentare, appenasbarcati in Italia. Aloro, il merito diaver aperto un pri-mo locale, a metàtra il bar per studen-ti e una sala d’attesaferroviaria, aperto— non a caso — inquel di Seattle, rapi-damente assurto aluogo-culto di gio-vani (e meno giova-ni) di tutta America.

Certo, da Star-bucks il caffè è sicuramente migliore diquello offerto negli altri bar (per il livellostatunitense). Comunque, la tazzina di ce-ramica non esiste, i bicchieri di polistirolo

itinerari

Il napoletanoAntonio Tubelliè uno dei piùappassionaticonoscitoridella culturaalimentarecampana. Nel suolocale-cultoTimpàni e Tèmpurapropone solo piattidella tradizionepiù antica

Roma NapoliTrieste

MOKA

Inventata daAlfonso Bialetti nel1933 e ispirata da

un prototipo dilavatrice con bollitore

e cestello perla raccolta dell’acqua.

La moka si basa sulpassaggio dell’acqua

dal basso in alto,ovvero dalla piccola

caldaia, attraversoil cestello-filtro con

dentro il caffè, (graziealla pressione delvapore), alla parte

superiore

L’espresso - macchiato, corretto o allungato -accompagna le nostre giornate e scandisce i nostribreak purché sia fatto come “regola comanda”.L’ultima occasione per celebrarlo mercoledì a Milanodove saranno premiati artisti e designer che hannoraccontato i luoghi d’incontro davanti alla tazzina

È l’anno in cui vieneinaugurato a Veneziail primo caffè pubblico

1570

A tanto ammonta,in euro,il giro d’affari del mercatodel caffè in Italia

712mln

Più che un piacere un rito antico

Il numero di tazzine procapiteche gli italiani gustanoogni anno al bar e in casa

A INFUSIONE

Usata nel nordEuropa, la caffettiera

funziona con unostantuffo che preme

una cialdain carta piena

di macinato all'interno di un vaso di vetro

termico colmod'acqua bollente.Fa un caffè adattoagli appassionati

della tazza grandee della bevanda

leggera.Particolarmentediffusa in Svezia

ventando una moda che coinvolge gran-di aziende e artigiani di nicchia. Si va dalprogetto “Terra!” di Lavazza alle strategiedi supporto allo sviluppo locale dei paesiproduttori lanciata da Illy, giù giù fino ai“Bambini del caffè” di Caffè del Doge, ilmarchio che ha fatto conoscere in Italia ilcaffè “Caracolito” cubano. Perché paga-re il giusto chi produce è sacrosanto,comprare gli scuolabus per i bambini del-le comunità andine meritorio. Ma la qua-lità? Il chicco-perla del caffè cubano cherilascia sentori di cacao o il profumo dizenzero che rinfresca la bocca gustandoun caffè etiope, sono meravigliose ecce-zioni.

È sulle miscele, ovvero la grande mag-gioranza del caffè in commercio, che lespeculazioni dilagano. In pochissimispecificano percentuali e provenienze. Ein pochissimi conservano l’arte del cafe-tiere, il barista specializzato che con il suobraccio allenato è pronto a pressare, ac-compagnare, staccare dalla macchina—

espresso, secondo necessità e intuito.Raccontano che a Napoli,

prima dell’avvento dei bar,al mattino presto le donne

dei “bassi” vendessero sull’u-scio di casa il caffè alla napole-tana, fatto al momento per ipassanti. Se qualcuna è anco-ra in attività, prego, si faccia ri-conoscere.

a contatto con la bevanda calda sprigiona-no odori poco aromatici, il caffè espressoè un parente lontano di quello che bevia-mo nel nostro bar preferito. Ma non è que-

sto il punto.In realtà, il caffè,

con tutte le sue im-probabili varianti(dal Frappuccino alMocaccino) è il pre-testo per entrare inun luogo accoglien-te — spazioso, cal-do, con i bagni puli-ti e le sedie comode— dove con un paiodi dollari puoi tra-scorrere dieci mi-nuti o un intero po-meriggio leggendo,chiacchierando, la-vorando al compu-ter (grazie alla con-nessione wireless)senza che nessunovenga a chiederteneconto. E in più, glia p p r o v v i g i o n a -menti delle materieprime, caffè cacao e

altro, sono fatti in base a scelte social-mente responsabili, tra il commercioequo e solidale e le associazioni no-profit.

Quella dell’irreprensibilità etica sta di-

Eduardo De FilippoA noialtri napoletani,toglierci questo poco

di sfogo fuori al balcone...Io...a tutto rinunciereitranne a questa tazzina

di caffè, presatranquillamente qua,

fuori al balcone ...Da QUESTI FANTASMI

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47DOMENICA 10 APRILE 2005

ARABICA

La più pregiata delle specie del caffècoltivate nel mondoTra le varietà: Moka,Bourbon e Tipica.Necessitano di colturein terreni minerali,meglio se di originevulcanica, oltrei seicento metri dialtezza. Il clima ideale si attesta intorno ai venti gradi

ROBUSTA

Ha caratteristici granipiccoli, più ricchi di caffeina rispettoall’Arabica. Il nomespecifica un’attitudine,quella di crescere anchein terreni poco vocatie di resistere allemalattie. I costi dicoltivazione, quindi,sono inferiori, aromi egusto risultano peròmolto meno eleganti

Il caffè è utile soprattutto a coloro che intendo-no risparmiare il tempo piuttosto che la salute.Lo diceva Linneo, padre delle scienze naturali,

a proposito della bevanda nera appena giunta inEuropa dall’Oriente. Nel mondo arabo fin dall’an-tichità il caffè era una sostanza sacra proprio per-ché rende lucidi, dinamici e favorisce il controllorazionale. Il grande scienziato svedese è dunque ilprimo intellettuale europeo a intuire la ragionedella successiva, travolgente fortuna della miticatazzulella.

Linneo coglie, infatti, una perfetta corrispon-denza tra il ritmo sempre più veloce della moder-nità nascente e le proprietà eccitanti della bevan-da. Nel Seicento si verifica una crescita esponen-ziale della produzione, anche grazie alla tratta de-gli schiavi africani deportati in America Latina perlavorare nelle piantagioni. E il caffè si diffondemassicciamente in Europa.

Il rapporto tra caffeina e lavoro è una costantenella storia dell’Arabica. Co-me dirà a fine SettecentoBenjamin Franklin, il caffè te-nendo svegli i lavoratori, per-mette l’allungamento deltempo operativo e, poiché iltempo è denaro, diventa au-tomaticamente un fattoreproduttivo. Non a caso nei po-sti di lavoro americani il caffèè da sempre a disposizione delpersonale. Dopo la secondametà del Seicento, quando ilnero infuso comincia a im-porsi come consumo di mas-sa, resta strettissimo l’intrec-cio tra il suo gusto amaro e for-te e le lucide emozioni del business.

I primi Caffè nati in Europa sono locali dove ci siriunisce per gustare profumate miscele e insiemeper concludere affari. Il più celebre è il Lloyd’s Cof-fee House di Londra. Apre nel 1687 e diviene benpresto il punto d’incontro di tutte le persone chehanno a che fare con il commercio marittimo. Ca-pitani, armatori, mercanti, frequentano il Caffèper ricevere notizie sul loro settore, sulle condizio-ni del mare, sul buon esito delle loro spedizionipoiché Mr. Lloyd pubblica un notiziario costante-mente aggiornato: il Lloyd’s News. Le cose vannotalmente bene che dal Caffè nascono i Lloyd’s, ov-vero la più grande Compagnia di assicurazioni delmondo.

Il caffè si afferma come il simbolo stesso del di-namismo richiesto dall’economia borghese na-scente. E, soprattutto, diventa luogo della demo-crazia, della mobilità sociale, indispensabili allamodernizzazione di una società che per svilup-parsi ha bisogno di diventare sempre più leggera.Nello spirito ma anche nel corpo. A differenza delcioccolato e del vino che appesantiscono, ingras-sano e rallentano, la bevanda arabica diventa si-nonimo di magrezza perché rende attivi ma nonnutre, non ha calorie.

Con l’Illuminismo e la definitiva affermazionedella borghesia imprenditrice, il caffè divental’emblema di un nuovo modo di vivere, di unanuova classe e di una nuova concezione dell’uomoe del suo corpo. Un corpo leggero, scattante, ner-voso: insomma un corpo moderno.

L’autore insegna antropologia culturaleall’Istituto Universitario

Suor Orsola Benincasa a Napoli

E la caffeina battezzòla civiltà del business

Una bevanda simbolo del dinamismo borghese

MARINO NIOLA

I PAESI PRODUTTORI

BRASILE

E’ il Paese numero uno per quantità. Con la suaproduzione, infatti, coprequasi un terzo dell’interofabbisogno mondiale.La coltivazione è cominciatanel 1729.Tra le due guerreil periodo peggiorea causa dei ripetutieccessi di raccolto

COLOMBIA

Considerato il principaleprodotto agricolo ed’esportazione del Paese,il caffè viene coltivatosulle prime alture andine,intorno ai 1200 metridi altezza. La qualitàdel “tinto”, tazzina di caffènero, varia a secondadelle zone di produzione

PERU’

E’ una terra consacrataalla coltivazione del caffè,anche grazie ai terrenifortemente mineralie al clima particolarmentepiovoso. Chanchamayo,che si trova nel dipartimentodi Junin, è considerata lazona-culto per la raccolta deichicchi più pregiati di caffe’

COSTARICA

Altro Paese benedettoper la coltivazionedell’arabica: suolovulcanico e climatemperato, insiemealla presenza di portiaffacciati sui due oceani,lo collocano ai primissimiposti per quantità e qualitàdi produzione

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La metamorfosi è di casa. Versatile, ecletti-co, adattabile: sono gli aggettivi del nostrotempo, chiave di un mondo che rinunciaa un’identità univoca e si apre all’ibrida-zione e all’incrocio, scegliendo nella stra-tificazione di codici quello giusto in ogni

circostanza. E per quanto riguarda la casa, argomen-to nell’agenda dell’attualità dacché mercoledì co-mincia il Salone del Mobile di Milano, questo è parti-colarmente vero. Nell’idea di riferimento di non ave-re punti di riferimento, ovvero di averne molti, da sce-gliere in relazione ai contesti, confluiscono due im-portanti fenomeni, più significativi nelle grandi città,dove finiscono per ipotecare i comportamenti e lescelte di vita.

Il primo è che si vive in case sempre più piccole esempre più aperte. L’Istat registra che ogni italiano hauno spazio abitativo di 36,8 metri quadrati, un datocon profonde differenze, se si pensa che si va dai 110metri del Veneto ai 29,7 della Campania e si tiene con-to del fatto che soprattutto nelle grandi città le fami-glie hanno imparato a stringersi per sopravvivere al-

l’impennata del costo de-gli immobili e addiritturale persone che vivono inroulotte, camper, contai-ner e baracche è aumen-tato dal 1991 al 2001 del 10per cento. Quindi si ri-nuncia per esempio allacucina non solo perché èdi tendenza il living, maperché diventa inevitabi-le, come ha recentementerilevato una ricerca Core-pla-Makno che indivi-duava la centralità delsoggiorno nelle case degliitaliani, dato confermatoanche dal buon momentodi mercato per divani, pol-trone, chaise longue e din-torni.

Il secondo fenomeno èil nomadismo. Vite preca-rie legate alla crisi econo-mica e al nuovo mercatodel lavoro, inquietudine

professionale di un terziario di manager, spesso sin-gle o single di ritorno. Bisogni e ambizioni che si mi-surano con la ricorrente necessità di trasferirsi e cam-biar casa, anche con spostamenti all’interno dellostesso centro urbano o poco oltre.

In questo scenario le persone, costrette a sacrificicon gli immobili, cercano di risolvere i loro problemicon i mobili. Oggetti adattabili, polifunzionali, modi-ficabili nella forma, robusti, eclettici, capaci di accor-darsi con occasionali compagni di arredo. E sottoquesto ampio tetto di aggettivi c’è spazio per gli umi-li ma utilissimi sgabelli che si chiudono e le poltronegonfiabili, come per la piccola geniale cucina a scom-parsa, esemplare per contenuti di qualità e servizio, oil pouff-tavolino del grande designer. Un curiosomelting pot che senza snobismi fuori tempo e so-prattutto fuori luogo, compone in amichevole conti-guità l’alto e il basso, il costoso e l’economico. Unaglobalizzazione dell’arredo che sembra proprio lanuova democrazia del bello.

48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 10 APRILE 2005

le tendenzeAbitare oggi

AURELIO MAGISTÀ

TrasforMobili

Volumi vuoti e assenze. La sottra-zione contro l’accumulo. Ogget-ti che si ripetono e ripetono fino

all’indistinto in un movimento che ri-consegna al reale un po’ di semplicità.Il numero gli importa, il seriale. Pezzounico e stile offendono “l’etica” pro-gettuale di Vico Magistretti.

Architetto, ambienti sempre piùmescolati, case provvisorie, oggettidall’identità incerta, trasformabili. Ildesigner come entra in queste case?

«Togliendo. Abitiamo sempre piùspaesati e nomadi. Per questo in casaabbiamo necessità di trovare un luogo.Anche transitorio, ma che c’è. Dal pun-to di vista architettonico questo esser-ci della casa si traduce in volumi, spaziaperti e campo sgombro di inutilità.Cose che servono e fanno bene, sem-plici semplici. La decorazione in unacasa è l’esatto contrario del mio mododi lavorare».

Ce lo racconti.«È quando uno va in un negozio e di-

‘‘Alessandro Mendini

Oggi la diffusionedel design ha creato

una maggiorequalità...le creazioni

sono tutte menobelle ma di qualità

ragionevole

Così la casa diventa nomade

UNA SEDUTA

A BOLLE BLUSi chiama Bubbles,ed è una suggestivapoltrona gonfiabilesalvaspazio. Prodottada Maiuguali

PROFILO INCONFONDIBILEDal profilo inconfondibile, si confermapoltroncina che si chiude (o sgabello)

Comoda e dal design di grande efficaciaRavello è firmata Poltrona Frau

Arredi ridotti, multifunzione, pieghevoli,reversibili: il mercato continua a proporresoluzioni per risolvere i problemi del viverein appartamenti sempre più piccoliEcco le novità, in rassegna da mercoledì,al Salone del Mobile di Milano

AMANTE DELLE COMODITA’Due le posizioni che può assumereil comodo Lover di Ligne Roset

IL PIU’ ECLETTICOCu, piccolo monumentoall'eclettismo. Può far datavolino, bordo divano,sgabello. Di Kristalia

SOFA’ PER DUEDivani che diventano letti cene sono moltissimi. Questo haqualcosa in più: si trasformain un letto a castello. Di Clei

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ce questa lampada o questa sedia miservono e sono giusti per me. E dice an-che ma tu guarda com’è semplice per-ché non ci ho pensato prima io. Ecco: èquesto che voglio, che la gente dica chefaccio cose scontate, umane, popolarifino al banale. Quelle cose che non de-vi spiegare perché si spiegano da sé,hanno un concetto dentro, un’inten-zione. E il concetto sta nel contenereuna tecnologia e un fine di riproducibi-lità su larga scala. Il concept design è ildesign che mi piace».

C’è un particolare oggetto suo o dialtri al quale è legato e che racchiudequesta intenzione?

«Miei sì, ce ne sono. Ma vorrei parla-re dell’ombrello. Del fatto che l’om-brello è straordinario e che avrei volu-to disegnarlo io. Mi piace per la suasemplicità, per il suo essere niente e peril suo essere la risposta a una necessità.Pure la sedia Thonet mi piace. Perché ènata nel 1859 e perché è così moderna,dentro ci ha tutta una lungimiranzatecnologica e pratica: il legno curvo erauna sfida che è stata vinta. L’altra no-vità di quella sedia è di aver creato unanuova idea di produzione, industrialee “sporca” rispetto a un’ideologia didesign per pochi».

Quando lei ha cominciato nei ‘60 il

rapporto con l’industria non avevauna connotazione “sporca” però.

«Infatti. Già nel dopoguerra grazie al-l’istinto di alcuni degli industriali, alleinformazioni e suggestioni che arrivava-no attraverso la Triennale, all’eredità delrazionalismo, il design italiano conosceun periodo di fioriture e vibrazioni. Eraun modo di intendere il design come eti-ca, come politica, come qualcosa cheaveva a che fare con la quotidianità, coni problemi veri della gente, con lo sve-gliarsi andare in ufficio e il fare. Quelloche mi interessava era portare in quantepiù famiglie possibili cose che avesseroun senso. L’industria e la produzione in

serie sono stati i mezzi per farlo. E ancheil mio fuoco creativo e la mia disciplina:io posso pensare a un oggetto che mipiace ma sarei un folle se non seguissi ilconsiglio di un tecnico, se rinunciassi ausare meno stampi possibili per ottene-re un prodotto più economico. E non so-lo in un senso monetario, ma concet-tuale, di educazione all’essenzialità e al-l’intenzione. L’industria per il mio lavo-ro è stata ed è una questione di civiltà.Nel senso che la produzione in grandinumeri ti mette in relazione con la vitadelle persone, ti fa stare dalla parte di chivive e non di chi insegna, ti dà la possibi-lità di scambiare cultura e vita. E anchedi espropriarti, che è un bel lasciare perun “creativo”: la mia sedia Selene la pro-ducono negli Stati Uniti con materiali inplastica e la puoi vedere nei bar o nei sa-lotti. L’industria e la gente ti salvano per-ché se tu hai ingenuamente disegnatoun destino per qualcosa, loro lo cambia-no. È quando il tradimento diventa unapossibilità che tu non avevi visto».

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 49DOMENICA 10 APRILE 2005

LA SCOMPARSA DELLA CUCINASembra un armadio ma Tivalì, dietro i battenti, rivelala sua efficientissima anima di piccola cucina. Perfettaper single o per piccole abitazioni, genialmente serveanche da parete divisoria. Prodotta da Dada

PICCOLO

MA GENEROSOPanciuto, ma noninutilmente, il pouffbattezzato conironia Fat fat daB&B Italia: sotto ilcoperchio, che faanche da tavolino,rivela un ventreaccogliente in cuioccultare anchepiccoli disordinidomestici

SPIRITO

LIBEROModifica i connotati

degli spazi in unattimo, aggiunge

un’improvvisa notadi colore tra il neutrodi wengé e il rovere

sbiancato. Il tappetinodi Missoni Home

si compiacedel suo spirito

nomade

ALESSANDRA RETICO

Notte a San SiroIl 14 aprile la Scala del calcio si apre alla creatività: dalle 6

di sera alle 6 del mattinospettacoli, concerti e mostre.Spiega il direttore della rivista

Domus, Stefano Boeri: «Per unanotte la grande astronave del

calcio si aprirà alla varietàe l’indeterminatezza

della città»

EFFETTO POP ARTSarebbe piaciuto ad Andy Warhol,

Cubik, Di Diliddo & Perego

LO SPAZIO E’ SALVOA sinistra, Maitresse di Campeggi, totem luminosoche diventa paravento e lettino

L’ARTE

DI ADATTARSIPiccole cose

spiritose, congrande capacitàdi adattarsi e di

ritirarsi in piccolispazi, sono letazze da cola-

zione in tintepastello

di Maiugualie gli sgabellini

richiudibilidi Viceversa

“Cose semplici, cose per tuttivolevo inventare l’ombrello”

L’architetto-designer Vico Magistretti teorizza “la sottrazione contro l’accumulo”

IL DIVANO CHE NASCONDEPerfetto per case con bimbi: i giochiscompaiono nel cassettone all'internodel divano Discovery. Di Feg

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50 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 10 APRILE 2005

l’incontroNuova vita

RODOLFO DI GIAMMARCOdi scuola. Il vantaggio che avevo su di lo-ro era dato dal dispendio di energie cui disolito mi sottopongo nel rapporto colpubblico, un contatto che però me ne re-stituisce di più, di energia». Lavora datrent’anni, Paolo Rossi: «Ma non capita-lizzo. Slitto per indole dall’emozione al-la riflessione, dalla comicità all’incazza-tura, senza alternare coscientemente.Tutto è dipeso dagli inizi. Avevo qualco-sa nel sangue. Mio nonno, di Corleone,era stato in una compagnia di Rosso diSan Secondo, e dopo vari sperperi era fi-nito nella Solvay di Monfalcone creandouna filodrammatica pirandelliana. Miazia calcava la scena, vinse un concorsoitaliano con uno sketch basato su varidialetti collezionati in treno, le offrironoun contratto, ma la famiglia intimò: “O tisposi o reciti”, lei s’intimorì, fece la casa-linga. Anch’io, con papà che stava allaSolvay come mio nonno, ero destinato afare il perito chimico. Ma mi piaceva dipiù il mondo dello spettacolo. Visto dalbasso. Ho cominciato facendo il tuttofa-re nella compagnia di Gianni e CosettaColla. Come manovratore di marionet-te, addetto alle scene, ai rumori di fondo,e anche come attore. La sera, per 2.500 li-re, m’impegnavo in un teatro sperimen-tale, il Cth di Milano (la sigla stava perCentro teatrale dell’hinterland), unacantina di 70 posti in un condominio diVia Valassina dove regnava l’off e il poli-tico, con pubblico che c’era e non c’era».

Il Paolo Rossi principiante era occu-pato in storie di Barbablù a base di omi-cidi e ladrocini, o faceva le luci in piccolispettacoli a tema. Era il cosiddetto teatrodi base o teatro delle case occupate deglianni ‘70. Guadagnava la mattina con lemarionette, il pomeriggio come favoli-sta per bambini, la sera con l’avanguar-dia. «Con un amico psicologo mettem-mo in cantiere anche psicodrammi, re-clutando Gigio Alberti che era stato miocollega in un corso di recitazione d’un at-tore del Living Theatre, e una biondonapresa con un annuncio sui giornali. Vo-levamo proporre agli alunni delle scuoleun lavoro, e un manager con forte ne-vrosi ci organizzò la vendita di biglietti inalcuni istituti (dal Manzoni al Carducci)per un collage di Prévert intitolato Il pre-vertimento. Dopo tre repliche chiudem-mo. Ma non mi davo per vinto. Frequen-tai la scuola del Piccolo Teatro, i corsi mi-mo di Marise Flach. Lì venne a vedermiDario Fo e mi prese nel cast dell’Histoiredu soldat. Condusse un laboratorio pernoi che eravamo una trentina di ragazzi.Ebbi più parti a rotazione. Con me c’era-no Marco Columbro, Lucia Vasini». Cheè stata una compagna di vita da subitodopo, da quando furono assieme alloStabile di Como, per fare commedia del-l’arte. «Con Lucia c’è stata una storia che,comprese le interruzioni, è durata 12 an-ni e da cui è nato un figlio, Davide, cheadesso ha 17 anni. Pochi mesi fa ho rega-lato a Davide un cellulare che per suone-ria ha il chiasso scatenato dal terzo goldell’Inter alla Sampdoria lo scorso 9 gen-naio, quello segnato da Recoba, quello

plicata spesso: distraendo in tutti i modiBisio in Comedians di Griffiths, facendoincespicare Hendel in un reading...».

Poi, come si sa, il marchio teatrale ve-ro viene impresso sulla pelle di Paolo dalTeatro dell’Elfo e dal Derby, quasi con-temporaneamente. «All’Elfo una coin-cidenza di talenti straordinari introdus-se uno stile nuovo. Al Derby c’era lo sti-molo dato dal sovrapporsi di persona epersonaggio. All’Elfo, nel 1983, per Ne-mico di classedi Williams, violentissimotesto di rottura in un’aula scolastica,Elio De Capitani volle liberarsi in una so-la anteprima di colleghi e amici, chemassacrarono lo spettacolo, mentre icritici fecero un osanna. Ma contò mol-to il passaparola e un clamore sollevatodalla polizia a Pordenone, con un fermofino alle sette del mattino. Da allorasfondammo come i Six Pistols».

E c’è però l’altra faccia dello sfacciatoRossi. Al di là d’un successo sconfinato,all’epoca, con le donne («Stipendio dacamionista ma problemi da Mick Jag-ger»), cova in lui un senso atavico dellafamiglia. «I ricordi corrono alle estati aMonfalcone. Tavolate coi vecchi, coi ni-poti, coi fidanzati. Idee politiche diver-genti all’interno dello stesso ceppo. Sen-sazioni, leggerezze, fragranze. E poi cisono le “mie” famiglie. Dopo il lungo le-game con Lucia Vasini c’è stato quellocon la madre non teatrante di Georgia,che adesso ha 12 anni, e poi c’è stato perla prima volta il matrimonio, quello at-tuale con Nadia, eritrea (un destino, per-ché l’altro mio nonno ha vissuto per uncerto periodo in Eritrea, e decantava labellezza delle donne di lì), danzatrice,con cui ho avuto il terzo figlio, Shoan, didue anni e quattro mesi».

Parla di questo accumulo di affetti conl’aria di un mohicano che a metà della vi-ta ha attraversato epoche intere, ha con-sapevolezza del dare e dell’avere, ha pu-dori e orgogli. E oltre ai vincoli paterniche sono la sua creatività più indicibile,viene fuori che la figura della donna hasempre svolto un ruolo essenziale anchenella sua sfera di uomo pubblico, di sce-na. «Sono cresciuto tra donne. Nonne,zie e mamma. Sono creature diverse danoi uomini, e io ci tengo a sottolineare ledifferenze. Loro devono avere qualcosadi sconosciuto, di un altro pianeta, un mi-stero. Quando mi dicono tu-non-cono-sci-le-donne rispondo che è vero. Io“non” voglio conoscerle».

E di questo passo arriviamo alla cordapiù nascosta, quella della madre, scom-parsa da poco tempo. «Dopo una perditadel genere, uno s’avvicina alla morte inmodo diverso. Ti accorgi che non c’è piùquella che ti ha portato in grembo. Ades-so sei solo. Capisci la labilità delle cose,pensi in modo meno materiale, meno fu-rente. La fantasia viaggia a un’altra velo-cità, e in un’altra direzione. Mia madre eramalata da due anni e io andavo spesso inospedale da lei. A Reggio Emilia, dieci mi-nuti prima dello spettacolo, m’hanno av-visato che era entrata in coma. Avevo da-vanti a me ottomila persone del festival

del 3-2 finale. In casa mia si faceva il tifoper Mazzola padre, quello che morì nel-la tragedia del grande Torino, e la pas-sione s’è poi riversata su Mazzola figlio,quello dell’Inter. A mia volta io ho obbli-gato i miei figli a essere interisti».

Mettendo insieme le prime tesseredelle esperienze di Rossi risalta un mistodi bracciantato artigianale e manova-lanza eclettica. «Io ho fatto teatro en-trando dalla porta di servizio. Il lavorodell’attore — me lo insegnò Checco Ris-sone a Como — prima che un’arte è unmestiere. Ti ci devi guadagnare da vive-re. E il problema mi si pose, dopo una pa-rentesi al Teatro Girolamo di Milano di-retto da Umberto Simonetta, col TeatroStabile di Trieste, dove fui scritturatocon Vittorio Caprioli per Vita di Carl Va-lentin con regia di Pressburger. Mi fece-ro una promessa, non mantenuta. E co-sì finii sottopagato. Cominciai a saltareun pasto al giorno, Caprioli se ne accor-se, si indignò e mi portò sempre a pran-zo con lui, pagando. Io gli rubai una co-sa preziosa: la cattiveria nei camerini.Una volta mi disse “Dai, stasera improv-visiamo”. Una sfida. M’andò bene,strappai un applauso. Mi chiamò nel-l’intervallo: “Bravo, m’è piaciuto, da do-mani però questo lo faccio io”. E questaperfidia del dietro-le-quinte io l’ho ap-

dell’Unità, il produttore m’ha proposto disospendere, ma io conosco le regole del-lo spettacolo, ho capito che non sarei sta-to utile a lei, e sono salito sul palco: un’e-sperienza metafisica col cervello squarta-to in due. Poi per mia madre l’agonia s’èprotratta. Quando l’ho raggiunta, un vec-chio medico m’ha fatto sentire la poesiadella morte, e m’ha tolto la paura».

Che Dio c’è per un attore? ci si chie-de. «Io ho sempre pensato che Arlec-chino fosse un tramite fra i morti e i vi-vi. Se guardo una nuvola penso a miononno. Nei piatti lascio sempre qual-cosa da mangiare: si fa per gli antenati.Più che parlare con Dio, prego e parlocon me, perché secondo me c’è Dio inogni cosa, nel caffè, e anche in me percome sono stato concepito». Il passatoche torna in auge sotto forma di nume-ri e comicità ne Il signor Rossi control’impero del Male ha a che fare col ri-spetto dell’arte dei padri, del triestinoAngelo Cecchelin (già idolo della ma-dre di Paolo), di Totò, Petrolini, Govi. «Imaestri più vicini a me sono Strehler,Cecchi, Fo, Gaber, Jannacci. E io a miovolta riverso qualcosa nei miei figli. So-no cresciuti dietro le quinte, dove c’èsempre educazione, disciplina. Io liaiuto con discrezione a trovare la lorostrada, un lavoro dove non ti capiti diguardare l’orologio perché non vedil’ora di tornare a casa».

Poi ci sarebbe l’argomento soldi.«Col teatro popolare, con una compa-gnia numerosa come quella attuale,non puoi rischiare. Avrei potuto esserepiù ricco come comico solista, ma mi vameglio così. Rammento l’imbarazzoquando portai a casa l’incasso dellamia serata di cabaret: era lo stipendio diun mese di mio padre. Mi piace spen-derlo, il denaro. Ho l’anima del gioca-tore». Una novità: alla lunga (senza mu-tare idee e ideali) la politica, la satira po-trebbero costituire per lui un circolochiuso. «Io faccio teatro anche perquelli che non sempre vengono a tea-tro, e devi essere diretto, devi sapereche in sala c’è pure, magari in mino-ranza, chi è di destra, e devi sapertiprendere in giro. Come ho appreso daJannacci e Gaber».

Amo le donneda sempre, amoil loro mistero, la lorodiversità. E a chimi rimproveradi non conoscerleabbastanza rispondosempre: io non levoglio conoscere

Dopo trent’anni di successi,il comico più eversivo e censuratoha ripreso i libri di teatro. E si èrimesso a studiare, con un obiettivo:ricominciare tutto da capo. Il ragazzo

terribile è diventato unuomo maturo. E adessoci confessa i sentimentipiù intimi, i legamifamiliari, la ricercadi Dio ma anche i pianiper il futuro, di cui dice:la satira politica non

basta più, devo imparare a prenderein giro anche me stesso. Comefacevano Jannacci e Gaber

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Paolo RossiF

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«IROMA

o devo ancora comincia-re. La sfida grossa nonl’ho ancora affrontata.Lo so. E mi sono rimesso

a studiare. Da un anno e mezzo. Libri diteoria, testi teatrali, i dvd di Eduardo, imonologhi di Walter Chiari, e comme-die come L’ispettore generale di Gogol, emanuali di drammaturgia con regoleche sono quasi una matematica. Sonotornato all’esercizio, alla formazione.Forse perché a suo tempo non ho maiavuto un buon rapporto con le scuole.Meglio così: a 23 anni fu maggiore laspinta a buttarmi come praticante nelmondo del teatro. Ma adesso ricomin-cio. Da capo». Il neo-praticante delle re-gole è quello che passa per essere uno de-gli attori italiani più eversivi, anfetamini-ci e censurabili: è il 51enne Paolo Rossi,taglia da kid intrepido e da story-tellerpeso Piuma, jeans e guardaroba dasnowboarder, andatura felpata, occhibuoni che se la ridono, e un qualcosa (adispetto della nomea) di non-polemicoe non-irruento nei toni. Come a dire chedignità e impegno non corrispondono atatuaggi da kamikaze. Anzi. Quest’atto-re scomodoe di culto per maree di giova-ni manifesta oggi una sindrome da pa-lazzeschiano “Fatemi divertire” che ha ache fare anche col privato della vita: lospauracchio della Rai è mosso da pen-sieri per la madre, per i figli, per le com-pagne, per la famiglia naturale che è lasua troupe e con cui replica per l’Italia (fi-nora all’Ambra Jovinelli di Roma) Il si-gnor Rossi contro l’impero del Male.

«Intanto l’età. Questo mestiere ti pri-vilegia, e non ti rendi conto degli anni cheaccumuli. Io posso fare cose che moltevolte un “umano” coetaneo non fa più:viaggiare, avere mattinate libere, uscirela sera con gli amici. A Ferrara, dove hovissuto dai 5 ai 18 anni, vicino al TeatroComunale mi sono sentito chiamare“Paolo! Paolo!”, mi sono chiesto chi fos-sero i due vecchi che si rivolgevano a me,e ho scoperto che erano miei compagni