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DOMENICA 30 OTTOBRE 2005 D omenica La di Repubblica BOULDER A ll’ombra di tre monti piatti come un trittico d’al- tare, la bambina pallida si butta dentro un torna- do. Un vecchio con occhi lacrimosi guarda bru- ciare il mondo e io scuoto la sfera della Terra fra le dita, spostando correnti in quota, nubi, pioggia: che faccio, ina- ridisco la Francia o inondo il Sahara? Per un’ora, tra i giochi seri e le simulazioni scientifiche, noi siamo i signori del tempo, del vento, dei ghiacci e della pioggia, qui dentro il santuario delle nuvole e del sole dove anche i turisti possono giocare a dio con il clima, diventare quel dio collerico del 2005 che ha martellato l’America di tempeste come mai aveva fatto prima, 23, addirit- tura più dei 21 nomi previsti per battezzarle, visto che dopo l’ul- timo uragano, Wilma, si è dovuto ricorrere alle lettere greche, Alpha, Beta. Tuoni lontani scendono dalle pale d’altare e roto- lano verso questo altipiano del Colorado intriso di sangue in- diano. Scuotono le vetrate dell’edificio che I. M. Pei costruì qua- rant’anni or sono alla maniera degli Anasazi, dei Pueblo In- dians, di quei “selvaggi” che cinquemila anni or sono sapevano già quello che oggi noi stiamo costretti a riscoprire con i super- computers e i satelliti: che della Terra noi non siamo i padroni, ma i custodi. E che stiamo facendo un pessimo lavoro. Su una delle gibbosità rocciose che in Colorado chiamano “boulder”, sta appollaiato il più importante centro di ricerca, di- vulgazione e predicazione atmosferica del mondo, lo Ncar. Con- tiene la più grande biblioteca meteorologica del sistema solare, con l’equivalente di 3,6 miliardi di libri come quelli di Harry Pot- ter, aperta a tutti, splendida come sa essere l’America quando è ancora l’America che amiamo. Solitario e un po’ superbo, come i nidi delle aquile che qui ancora volano e non sono finite impa- state sui biglietti di banca, il National Center for Atmospheric Re- search, lo Ncar appunto, è il Vaticano della meteorologia e della climatologia. È il contenitore nazionale nel quale 66 università americane riversano e poi si contendono a borsettate, come col- tissime comari al mercato, gli spiccioli dei finanziamenti pub- blici concessi alla ricerca da un governo indifferente. Si arran- giano con un budget annuale ridotto a 150 milioni di dollari, pea- nuts. Meno di quanto costa una settimana di guerra in Iraq, per rispondere alla più semplice e fondamentale delle domande per la sopravvivenza dell’umanità: che tempo farà domani? Venire in pellegrinaggio fino al castello color sabbia e roccia che consacrò il nome di Pei nel mondo dell’architettura quattro decenni or sono, per chiedere se domani pioverà, può sembra- re blasfemo come violare un Conclave per chiedere chi sarà il nuovo parroco di Piazza Brembana. (segue nelle pagine successive) con un servizio di ANTONIO CIANCIULLO Che tempo farà i luoghi Viaggio nella Los Angeles emiliana CARLO LUCARELLI il reportage Le quattro vite del barbiere di Pechino FEDERICO RAMPINI il racconto Matti da fotografare, cent’anni in mostra UMBERTO GALIMBERTI e MICHELE SMARGIASSI spettacoli L’occhio di Kubrick prima di Kubrick ENRICO FRANCESCHINI e MARIA PIA FUSCO VITTORIO ZUCCONI cultura Gli anni del Made in Italy autarchico NATALIA ASPESI le storie Recanati, il collezionista dei suoni ATTILIO BOLZONI Uragani, siccità, Terra sempre più calda In Colorado 200 scienziati e il mega-computer Blue Vista studiano il clima futuro Siamo andati a interrogarli FOTO ZEFA Repubblica Nazionale 29 30/10/2005

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DOMENICA 30 OTTOBRE 2005

DomenicaLa

di Repubblica

BOULDER

All’ombra di tre monti piatti come un trittico d’al-tare, la bambina pallida si butta dentro un torna-do. Un vecchio con occhi lacrimosi guarda bru-ciare il mondo e io scuoto la sfera della Terra fra le

dita, spostando correnti in quota, nubi, pioggia: che faccio, ina-ridisco la Francia o inondo il Sahara? Per un’ora, tra i giochi serie le simulazioni scientifiche, noi siamo i signori del tempo, delvento, dei ghiacci e della pioggia, qui dentro il santuario dellenuvole e del sole dove anche i turisti possono giocare a dio conil clima, diventare quel dio collerico del 2005 che ha martellatol’America di tempeste come mai aveva fatto prima, 23, addirit-tura più dei 21 nomi previsti per battezzarle, visto che dopo l’ul-timo uragano, Wilma, si è dovuto ricorrere alle lettere greche,Alpha, Beta. Tuoni lontani scendono dalle pale d’altare e roto-lano verso questo altipiano del Colorado intriso di sangue in-diano. Scuotono le vetrate dell’edificio che I. M. Pei costruì qua-rant’anni or sono alla maniera degli Anasazi, dei Pueblo In-dians, di quei “selvaggi” che cinquemila anni or sono sapevanogià quello che oggi noi stiamo costretti a riscoprire con i super-computers e i satelliti: che della Terra noi non siamo i padroni,ma i custodi. E che stiamo facendo un pessimo lavoro.

Su una delle gibbosità rocciose che in Colorado chiamano“boulder”, sta appollaiato il più importante centro di ricerca, di-vulgazione e predicazione atmosferica del mondo, lo Ncar. Con-tiene la più grande biblioteca meteorologica del sistema solare,con l’equivalente di 3,6 miliardi di libri come quelli di Harry Pot-ter, aperta a tutti, splendida come sa essere l’America quando èancora l’America che amiamo. Solitario e un po’ superbo, comei nidi delle aquile che qui ancora volano e non sono finite impa-state sui biglietti di banca, il National Center for Atmospheric Re-search, lo Ncar appunto, è il Vaticano della meteorologia e dellaclimatologia. È il contenitore nazionale nel quale 66 universitàamericane riversano e poi si contendono a borsettate, come col-tissime comari al mercato, gli spiccioli dei finanziamenti pub-blici concessi alla ricerca da un governo indifferente. Si arran-giano con un budget annuale ridotto a 150 milioni di dollari, pea-nuts. Meno di quanto costa una settimana di guerra in Iraq, perrispondere alla più semplice e fondamentale delle domande perla sopravvivenza dell’umanità: che tempo farà domani?

Venire in pellegrinaggio fino al castello color sabbia e rocciache consacrò il nome di Pei nel mondo dell’architettura quattrodecenni or sono, per chiedere se domani pioverà, può sembra-re blasfemo come violare un Conclave per chiedere chi sarà ilnuovo parroco di Piazza Brembana.

(segue nelle pagine successive)con un servizio di ANTONIO CIANCIULLO

Che tempo farài luoghi

Viaggio nella Los Angeles emilianaCARLO LUCARELLI

il reportage

Le quattro vite del barbiere di PechinoFEDERICO RAMPINI

il racconto

Matti da fotografare, cent’anni in mostraUMBERTO GALIMBERTI e MICHELE SMARGIASSI

spettacoli

L’occhio di Kubrick prima di KubrickENRICO FRANCESCHINI e MARIA PIA FUSCO

VITTORIO ZUCCONI

cultura

Gli anni del Made in Italy autarchicoNATALIA ASPESI

le storie

Recanati, il collezionista dei suoniATTILIO BOLZONI

Uragani, siccità,Terra sempre più calda

In Colorado 200 scienziatie il mega-computer Blue

Vista studiano il clima futuroSiamo andati a interrogarli

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(segue dalla copertina)

Ma i duecento sacerdoti delle nuvole chelavorano qui dentro mi disingannanosubito dal pregiudizio che indovinare leprevisioni del tempo sia quell’esercizioche i telegiornali italiani affidano alleformule marmoree della «possibilità di

precipitazioni anche a carattere temporalesco sui rilievi»,cioè forse, magari, ma non è detto, pioverà. La previsionedel tempo è uno dei problemi più complessi e sostanzial-mente insoluti nella storia dell’umanità, come ognuno dinoi terricoli può testimoniare quando, inzuppati di piog-gia sulla spiaggia con la moglie furiosa e il bimbo in lacri-me, malediciamo le previsioni «che non ci prendono mai».

L’enigma del clima e del tempo, parola che nelle lingueromanze non distingue, a differenza dell’inglese, del te-desco, del russo fra “tempo atmosferico” (weather) e“tempo cronologico” (time) affonda le radici nella “teoriadel caos”, popolarizzata nella immagine della farfalla inAmazzonia che battendo le ali produce pioggia in Ucrainao siccità in Oklahoma e dunque rende astronomiche lepossibili variazioni. Il problema di valutarle tutte già affa-scinò il genio della matematica francese Poincarè. Attras-se il primo teorico riconosciuto del caos, Lorenz e appas-sionò i padri della cibernetica. Von Neuman, colui che in-ventò il linguaggio binario di “zero” e di “uno” che ogni cal-colatore parla, pensò immediatamente di applicare ilcomputer alle previsioni del tempo. Il suo ritratto, mi fanotare il dottor Joe Tribbia, che tra i sacerdoti delle nuvo-le è appunto il teologo del “caos”, osserva corrucciato lasala riunioni dello Ncar dalla parete.

In questo autunno 2005, nell’America tramortita da unnumero straordinario di uragani feroci oltre le profeziepiù pessimistiche, attonita dalla morte di una città comeNew Orleans, costretta a vedere che mai da quando si ten-gono con cura le temperature (1880) si vide un settembrecosì caldo nel mondo, una processione di convertiti e pe-nitenti dell’“effetto serra”, persino politici di grande cali-bro come la senatrice californiana Barbara Boxer che te-lefona continuamente per avere notizie, hanno bussato aqueste porte come villici terrorizzati da una nuova pesti-lenza, per chiedere lumi e rimedi. Come se questi uominie queste donne, che spendono una vita soltanto per stu-diare le minuscole bollicine d’aria imprigionate da mil-lenni nei ghiacci dei poli e capire così che cosa respiras-sero Giulio Cesare o Gengis Khan, fossero alchimisti conla formula in tasca.

Cosa che fa infuriare due volte i sacerdoti delle nubi.«Primo — si rannuvola il dottor Trenberth, che della “mu-tazioni climatiche” è qui il massimo esperto — , perchétutti ci ignorano quando il tempo è perfetto e poi ci invo-cano quando piove troppo o troppo poco. Secondo, per-ché eventi come Katrina, Rita o l’aumento nel numero enella potenza degli uragani sono facilmente fraintesi co-me segnali di catastrofi climatiche ormai in atto, mentrein realtà la prossima stagione potremmo non averne, inteoria, neppure uno e questo finirebbe per assolvere tuttidai peccati precedenti. La tragedia non è Katrina, è l’au-mento del 30 per cento delle polveri sospese nell’atmosfe-ra a causa del petrolio bruciato».

Il punto dal quale Trenberth ci chiede di partire per noncadere nella tentazione del panico o nella ostinazione del-lo scetticismo, è tanto ovvio (per lui) quanto ignorato. «Ilpubblico fa confusione tra tempo e clima. Il tempo è quel-lo che si vede fuori dalla finestra. Il clima è la situazione at-mosferica globale che deve essere valutata sui lunghi pe-riodi, almeno di cinquant’anni in cinquant’anni. Si puòavere un’estate rovente, senza che questo indichi nessunmutamento di clima; o un inverno statisticamente nor-male che nasconda invece mutamenti profondi di clima.Paradossalmente, per il consumatore, sembra più facileazzeccare il tempo di domani che il clima fra cento anni einvece è il contrario». Nessun meteorologo vero osa spin-gere una previsione attendibile oltre i tre giorni. Sei, sette,è il confine massimo per i più temerari.

Bene, allora mi faccia le previsioni del clima per la mat-tina del primo settembre del 2105, quando i nipoti dei ni-poti dei miei nipoti andranno per la prima volta a scuola.«Farà caldo, sicuramente più caldo, dai due ai quattro gra-di centigradi in più». Soltanto? «Soltanto?» sorride il clima-

tologo. «Lo sa quanto è la temperatura media del nostropianeta?». Ovviamente, non lo so. «È di quindici gradi cen-tigradi. Dunque tre gradi in più significherebbe il 20 percento di aumento, un disastro». Per colpa nostra? «Ancheper colpa nostra. Tutti i nostri modelli ci dicono che, se to-gliamo i fattori di inquinamento atmosferico, le proiezionicambiano tutte e sempre, e semmai la tendenza naturaledella Terra sarebbe verso il raffreddamento. Non è dettoche eliminando tutti i gas e le polveri da combustibili fossi-li che oggi vomitiamo nell’atmosfera tutto si invertirebbe,perché basta l’eruzione di un grande vulcano per cambia-re il clima per alcuni anni. Ma è certo che, senza cambiarei nostri comportamenti e prevedendo lo sviluppo indu-striale della Cina e dell’India le cose peggioreranno. Suquesto, nessuno scienziato serio può avere dubbi».

Strano come il tempo, nel senso del “piove o non piove”,sia divenuto materia per il consumo di massa proprio orache tanta parte dell’umanità vive come mai prima in bolleartificiali, riscaldate, condizionate, appunto “climatizza-te”, e il maltempo è al massimo una seccatura. Rimorso?Ansia? Timore di essere diventati, come sorride maliziosoJoe Tribbia, una sorta di «virus» che l’organismo Terra stacercando di scrollarsi di dosso con spallate sempre più vio-lente, prima che noi virus impestiamo e uccidiamo lei? For-se, ma questi scienziati non sono Cassandre da talk show,sono osservatori e preferiscono evitare quel catastrofismosbeffeggiato da Michael Crichton, il romanziere degli scet-tici, nel suo Stato di Paura o prediche ideologiche.

Certamente, qui è inutile perdere tempo a cercare tifo-si di Bush e del suo stizzoso «no» al trattato di Kyoto firma-to dai suoi predecessori democratici. «Questa in carica dal2001 è la Presidenza più antiscientifica che abbia visto nel-la mia vita», tuona Trenberth. E Tribbia, l’uomo del caos,è appena più moderato nella forma, non nella sostanza:«Kyoto non era gran cosa ma era il primo segnale che i go-verni avevano finalmente capito che un problema esiste eche può essere affrontato soltanto da tutte le nazioni, enon alla spicciolata. Sarebbe prudente, prudent, cioè sag-gio, cominciare a cambiare i nostri comportamenti e i no-stri consumi». Ma cambiare i comportamenti è qualcosache nessun governo vuol fare, soprattutto in un’Americadrogata dal petrolio a basso prezzo, perché puntando suquei comportamenti ha vinto elezioni e potere. «Già»,mormora lo studioso del caos, allineando soprappensie-ro come matite in un astuccio le patate fritte sparse sulpiatto, nel caos della colazione.

C’è una sorta di malinconia amara dietro questi scien-ziati che ogni giorno vedono e misurano lo stupro dellaTerra e non possono fare altro che pubblicare studi con-dannati a sfumare nella nostra attenzione, e dunque nel-la sensibilità dei politici, quando il cielo si rasserena. «Il cli-ma sta cambiando per colpa nostra» scoppia uno dei “mo-dellisti” del clima, «ci sono specie animali, insetti,rettili, uccelli, che avanzano da sud verso norde che troviamo dove mai avevano abitatoprima; e gli animali non fanno politica,non votano. Altre specie, come il rospod’oro del Guatemala si sono estinteperché la protezione delle nubi d’al-ta quota dove vivevano si è dissolta.Tra il 1950 e il 2000 si è registrata latemperatura media più alta degliultimi mille anni e anche comin-ciando ora a ridurre l’anidride car-bonica dovremmo aspettare alme-no un secolo per vederne i benefici

perché il CO2 ha una vita di cento anni. Stiamo già assi-stendo a grandi movimenti di popolazioni spinti dal cli-ma mutato. Nei fenomeni delle grandi migrazioni umanenon si tiene mai conto dell’effetto del clima sui movi-menti umani. Anche l’Impero Romano conobbe diffi-coltà climatiche crescenti che influirono sulla capacità disfamare i suoi sudditi. Poiché tutto è così terribilmentecomplesso, è sempre facile trovare qualcosa a cui appi-gliarsi per negare», mi dice mentre mi porta a incontrareil personaggio più importante, il Papa blu di questo Vati-cano del cielo azzurro. «Lui ci darà risposte ancora piùprecise e speriamo definitive».

«Lui» sono cinquanta armadi collegati tra loro e natu-ralmente battezzati e antropomorfizzati, come lo Hal 2000dell’Odissea nello Spazio. Si chiama “Blue Vista”, blue co-me il nomignolo della Ibm che ha costruito questo super-computer capace di 8,3 Teraflops, otto milioni di milionidi operazioni matematiche al secondo. Ciascuno dei pro-cessori di “Blue Vista” ha cento volte la potenza del più ve-loce calcolatore personale e ne funzionano, in questi sot-terranei, migliaia in parallelo. Questo è il Pontefice, l’Ora-colo, la Risposta. Forse già un sospetto di dio.

La finestra per guardare nella mente di “Blue Vista” è unmonitor al plasma da 50 pollici, sopra il quale, come lapietra del Sinai, il Signore invia le sue decisioni. La miaguida batte sulla tastiera e appare l’immagine della nostraTerra come era nel 1870, quando la rivoluzione indu-striale esplose. Vedo la sua pelle cominciare ad arrossar-si a fine Ottocento, come il sederino irritato di un neona-to, prima a piccole chiazze nell’Europa e nell’Americadelle prime ciminiere. Poi le chiazze rosse sulla Terra si al-largano, divengono un eczema, a est, a ovest, a nord. Men-tre il calendario avanza, il rosso consuma regioni dellaterra, l’azzurro intenso dei mari impallidisce verso il rosaattorno alle coste e il velo bianco dei Poli si ritira offeso.Quando “Hal” disciplinatamente si ferma, nel 2100, laTerra è un unico lago rosso, dalla Siberia all’Antartide. «Ighiacciai — butta lì la mia guida — sono come aerei in au-topilota». Prego? «Se scatta il meccanismo che li fa scio-gliere e ritirare, si scioglieranno sempre di più». Ora han-no raggiunto il “tipping point”, il punto critico. Volano inautopilota verso l’autodistruzione.

Deve essere l’altitudine, ma qui manca un po’ il respiro.Usciamo sulle terrazze che Pei costruì, copiando gli India-ni Anasazi, per ricevere il vento dai monti detti del “Ferroda stiro” ed evitare l’aria condizionata (ma non il riscalda-mento, gli inverni qui sono duri). Nel dopo tempesta l’ariaè perfetta. Visibili come un cartone animato, all’orizzontesi alzano i grattacieli di Denver. «Sa quanto distano? Di-ciannove miglia, trentuno chilometri appena. Poco, vero,sembra di poterli toccare quando l’aria è trasparente».Una pausa e arriva la “punch line”, come si dice in teatro,

la battuta chiave. «La distanza che ci separa da queigrattacieli è esattamente lo spessore di quella

parte di atmosfera, la troposfera, che man-tiene la vita sulla Terra, tutto qui. Sottile,

le pare?». Sulla terrazza ci hanno rag-giunto la bambina pallida che avevaabbracciato il tornado dentro la mac-china che li produce in miniatura, ilvecchio con gli occhi sempre lacri-mosi, gli altri turisti della apocalisseatmosferica. Respiriamo tutti abocca aperta, inghiottendo grandiboccate di aria, come se volessimofare il pieno. Finché ce n’è.

la copertinaEmergenza meteo

A Boulder, sulle montagne del Colorado, dentro un edificiocostruito a somiglianza dei pueblo indiani, sorge lo Ncar,il centro di studi climatologici più avanzato al mondo.Duecento scienziati tengono sotto controllo l’effetto serra,il riscaldamento della Terra e le sue conseguenze. Siamoandati a chiedergli che tempo farà nell’autunno del 2105

I sacerdoti del clima impazzitoVITTORIO ZUCCONI

SEMPRE PIÙ CALDOIl 1998 è stato l’anno più

caldo, ma il 2005 ha buone

probabilità di superarlo.

Per la Nasa la temperatura

media crescerà di 0,4 gradi

fra il 2000 e il 2030 e di un altro

grado tra il 2030 e il 2100.

Negli ultimi 100 anni era

cresciuta solo di 0,2 gradi

AVANZA IL DESERTOIl deserto di Gobi in Cina

si sta espandendo al ritmo

di 10 mila km quadri

all’anno: nel 2080 tra il 20

e il 38% della popolazione

europea meridionale si

ritroverà a vivere in zone

con risorse idriche insufficienti

GLI ANIMALI A RISCHIOMolte specie sono

a rischio, tanto che

gli esperti parlano di nuova

estinzione di massa.

Il riscaldamento del clima

ha già modificato rotta

e periodi di partenza

degli uccelli migratori.

IL VERDE IN CITTÀE IN CAMPAGNA

Nel 2080

nelle città italiane

scompariranno

specie di alberi

come il pino marittimo,

quello di Aleppo,

la quercia da sughero

e il leccio. Entro il 2080

la superficie coltivabile

in Europa diminuirà

del 6,4 - 10,7 %

30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 30 OTTOBRE 2005

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Dalle cronache emerge il moltiplicarsi di al-larmi climatici che vanno dalla violenzadegli uragani al collasso della calotta artica;

e la maggior parte degli scienziati indica il model-lo energetico basato sui combustibili fossili e sul-la deforestazione come i colpevoli di questo dis-sesto atmosferico. Eppure il partito dei negazioni-sti, il fronte convinto che l’attuale oscillazione delclima sia un fatto naturale, ha scritturato recente-mente un nome di peso come Michael Crichton.Chi ha ragione?

«La dinamica dell’atmosfera è un sistema tal-mente complesso che attualmente non siamo ingrado di dare una risposta matematicamente cer-ta a questa domanda», risponde Pascal Acot, filo-sofo, ricercatore di storia delle scienze presso ilCnrs e autore di vari libri sulla storia dell’ecologiae del clima. «E perciò, rimanendo in un ambito for-male, è possibile alimentare un dibattito».

Perché formale?«Perché è un dibattito possibile solo sul piano

astratto, come indagine intellettuale sui confinidella nostra capacità di previsione scientifica. Difatto è una discussione inutile perché si concen-tra sui dettagli ed elude i due punti centrali delproblema. Primo: è estremamente probabileche gli esseri umani stiano modificando il clima.Secondo: le conseguenze che si profilano sonospaventose. Non è serio confondere i limiti del-l’analisi teorica con un’incertezza reale sul chefare. Invece di perdere tempo bisognerebbe tro-vare le strategie utili per frenare il cambiamentoclimatico mantenendolo entro limiti in cui idanni siano sopportabili».

Cosa rischiamo andando avanti così?«L’ipotesi di un riscaldamento che arrivi a quat-

tro gradi entro la fine del secolo sta guadagnandoconsistenza. Sarebbe un processo sei volte più ra-pido di quello che ha segnato il ventesimo secolo.Al di là dell’impatto immediato e drammatico del-la risalita dei mari bisogna pensare alle conse-guenze sul complesso degli ecosistemi. La vita do-vrebbe spostarsi, lasciare gli habitat non più adat-ti per colonizzarne di nuovi. Ma gli alberi possonomigrare solo molto lentamente, guadagnandopoche decine di chilometri in un secolo: molti si-stemi ecologici e molte specie non resisterebberoa una pressione come quella che deriverebbe daun aumento di tre o quattro gradi. Inoltre la desta-bilizzazione climatica, se l’aumento raggiunges-se quei livelli, provocherebbe una catena di con-seguenze decisamente spiacevoli: dall’estendersidelle aree soggette alle malattie tropicali fino al-l’incubo perenne di disastri stile New Orleans».

L’allarme è stato lanciato già all’Earth Summitdi Rio de Janeiro, nel 1992. Nel 1997, a Kyoto, èstato siglato il protocollo che rappresenta il pri-mo passo in direzione di un cambiamento delmodello energetico. Ma l’innovazione ambien-tale procede a ritmo lento.

«Il rifiuto americano di adottare politiche di pre-venzione del disastro climatico e la mondializza-zione dell’economia hanno ridotto sensibilmentegli effetti positivi di quei passi diplomatici. La ve-rità è che nessuno è pronto a fare quello che è ve-ramente necessario, cioè smettere di usare i com-bustibili fossili che sono la radice del problema.Anzi la strategia geopolitica sta andando in dire-zione opposta: con il pretesto della democrazia sicerca di impossessarsi dei luoghi in cui è custoditociò che resta delle grandi riserve di petrolio. Ieri èstato l’Iraq, domani potrebbe toccare all’Iran».

Siamo ancora in tempo per cambiare rotta?«Dipende qual è l’obiettivo. Se l’obiettivo è

mantenere il clima attuale, la risposta è negativa.La quantità di carbonio che è già stata immessanell’atmosfera bruciando petrolio e deforestandoha messo in moto un meccanismo inarrestabile.Se però l’obiettivo è ridurre la portata del cambia-mento climatico, cioè abbattere sensibilmente idanni, allora siamo ancora in tempo. A patto diagire subito perché il sistema climatico ha un’i-nerzia formidabile. È come se viaggiassimo su uncamion che, una volta schiacciato il pedale del fre-no, ha bisogno di 50 o 100 anni per bloccarsi. E noinon abbiamo ancora cominciato a frenare».

Lo storico dell’ecologia e del clima Pascal Acot

“Cambierà l’habitatdella vita di tutti”

ANTONIO CIANCIULLO

COS’È UN URAGANOÈ una tempesta accompagnata da venti

che soffiano a 300 km/h, da nubifragi

e inondazioni. Si forma nelle regioni tropicali

quando la temperatura del mare supera i 26 C°.

Nasce da una perturbazione che ha origine

quando l’aria calda e umida a contatto

con il mare inizia a salire

TEMPESTE IN ARRIVOGli uragani diventeranno sempre più frequenti:

i cicloni tropicali di forza 4 o 5 sono quasi

raddoppiati in 35 anni. Nell’agosto 2005

si sono avuti 12 tempeste e 4 uragani, la media

dello stesso mese degli altri anni è stata di 4,4

tempeste e 2,1 uragani. Secondo “Science”

stanno aumentando gli uragani di forza 4 e 5

LE NUOVE ONDEDEL MAREUno scioglimento

totale dei ghiacciai

farebbe salire

il livello del mare

di 7 metri. Le attuali

stime delle Nazioni

Unite fanno prevedere

una crescita del livello

delle acque di circa

un metro nel 2100.

Negli ultimi 100 anni

il livello dei mari

è salito di 10-20 cm

LE VITTIME E I DANNISecondo l’Onu tra il 1994 e il 2003

le catastrofi naturali hanno provocato

oltre 600mila morti e una perdita

economica di oltre 500milioni di euro.

Gli uragani sono tra i principali responsabili,

qui sotto le loro cinque categorie

PIOGGE SPARSENei prossimi 20 anni

l’Europa si avvicina

ad essere spaccata

in due: a nord

si registrerà

una crescita

delle precipitazioni

a un ritmo di 1-2

per cento ogni dieci anni,

mentre a sud, si avrà

una diminuzione dell’1

per cento a decade

LE MONTAGNESENZA NEVE

Entro la fine del

XXI secolo la linea

delle nevi sulle

Alpi si sposterà

dai 1300 metri di

oggi a 1500-1750.

Dal 1850 a oggi

metà del volume

dei ghiacciai alpini

è scomparso

CATEGORIA 1/MINIMOVenti tra 120 e 153 km/h,

rischi leggeri

per le abitazioni

CATEGORIA 2/MODERATOVenti tra 154 e 177 km/h,

tetti sollevati,

coste inondate

CATEGORIA 3/ESTESOVenti da 178 a 209 km/h,

molte case distrutte,

alberi sradicati

CATEGORIA 4/ESTREMOVenti tra 210 e 249 km/h,

gravi danni alle case.

Evacuazione consigliata

CATEGORIA 5/CATASTROFICOVenti oltre i 250 km/h,

molte case distrutte, danni

sino a un km dalla costa

POVERI POLIAttualmente la calotta artica

si assottiglia al ritmo

di 5 centimetri all’anno.

L’area ricoperta da ghiaccio

al Polo nord è in calo

per il quarto

anno consecutivo

Venti fortissimi(corrente esterna)

Direzionedello spostamento

Venti forti(flussi superiori)

TESTI A CURA DI ELENA DUSI

E ILARIA ZAFFINO

ILLUSTRAZIONE

DI MIRCO TANGHERLINI

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31DOMENICA 30 OTTOBRE 2005R

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il reportageProtagonisti segreti

Jing Qui ha 91 anni, da 77 radee pettina i suoi concittadiniHa visto passare Kuomintang,giapponesi, Mao Zedong, nuovaCina. Ora un film sugli antichiquartieri lo ha reso celebre

PECHINO

Le dita mi accarezzano il cra-nio, i polpastrelli premonosulla nuca con lenti movi-menti circolari, massaggia-

no le tempie, le orecchie, affondano finoa distendere le vertebre del collo, poi piùgiù, finché un movimento secco mi stirail gomito ed è come se uscissero scosseelettriche. Eccomi posseduto dagli in-cantesimi di un vecchietto, un ominoprodigioso nato a un’epoca in cui Pechi-no ancora pullulava di mandarini dellaburocrazia imperiale decaduta.

Mi ero solo prenotato un taglio di ca-pelli dietro l’angolo di casa. Un appun-tamento col bisnonno di tutti i barbieridella Cina: Jing Qui, il novantunenneche da 77 anni rade e pettina i pechine-si. Jing è stato testimone di rivoluzioni,invasioni straniere, guerre civili e guer-re tout court. La sua vita è un libro di sto-ria che attraversa le tragedie del Vente-simo secolo. Di recente il regista-pro-duttore Shi Runjiu ne ha fatto il prota-gonista di un documentario sul centrostorico della capitale, l’antico quartiereche ha resistito intatto allo shock dellamodernizzazione, e così a novant’anni“il barbiere di Pechino” è diventato unacelebrità. Ma nulla è cambiato nei ritmiausteri della sua vita. La giornata è scan-dita sempre dai servizi a domicilio per isuoi clienti fedeli (solo una ventina so-no ancora vivi, sui quattrocento che luiricorda per nome e cognome), appun-tamenti ai quali Jing Qui arriva peda-lando su un triciclo antidiluviano. Loattendono regolarmente gli habituéscome il Signor Zhang, 71 anni, padro-ne di una bettola sul lago Houhai: si faaccorciare i capelli nell’angusto retro-bottega e intanto descrive problemi disalute, rivela pettegolezzi di quartiere,si sfoga di piccoli drammi familiari,chiede consigli al venerabile barbiereche è un confessore e maestro di vitaper generazioni di anziani.

Il vicolo vicino al parcoJing Qui vive nel vicolo Gao Wo vi-cino al parco imperiale Jingshan.Per arrivare da lui bisogna adden-trarsi nei “bassi”, imboccare unvialetto angusto tra casupole mo-deste e fatiscenti, farsi strada trabarriere di biancheria appesa adasciugare. È un salto nel tempo, unviaggio a ritroso che immergenell’atmosfera dei romanzi delgrande Lao She ambientati nelprimo Novecento, come la trilo-gia delle Quattro generazionisotto un tetto. La Pechino deglihutong (vicoli) ha conservato quasiintatta nel suo cuore quella città-vil-laggio di una volta, che era la vera prota-gonista delle storie di Lao She. C’è anco-ra lo stesso dedalo di stradine e cortili, itetti di tegole verniciate, le case basseperché nessuna poteva superare l’altez-za del trono dell’imperatore, i giar-dini interni affollati di ma-gnolie e melograni,

acacie e mimose. Ci sono il dialetto argu-to e beffardo dei pechinesi, i riti dei me-stieri tradizionali, la melodia dei grilli e ifischi dei piccioni ammaestrati, i muriumidi e ammuffiti che sembrano fattiper nascondere gli intrighi di corte.

Sua figlia Jing Xiufen, 60 anni, offre il tèe fa accomodare l’ospite su uno sgabel-lo, nella minuscola cameretta che è il va-no unico dell’abitazione, camera da let-to e cucina, salotto e lavanderia, stiratoioe ripostiglio per gli attrezzi del lavoro, inun disordine razionale e accogliente.Jing Xiufen è cordiale e divertita ma si in-dispettisce di colpo quando la conversa-zione sfiora l’argomento del terzomatrimonio del padre — par di capireche sia stata regolarizzata una lungaconvivenza con la domestica —, presu-mibile fonte di rancori per il “lignaggio”insufficiente della nuova moglie e di fu-turi litigi sulla misera eredità. Final-mente compare il padre, di ritorno daun taglio a domicilio: piccino e magris-simo, porta i capelli insolitamente lun-ghi e bianchi per un cinese. Si presentacon la giacchetta bianca che è la tuta dilavoro, i pantaloni che sembrano un pi-giama, le espadrille blu. Dietro questadignitosa povertà si nasconde il vetera-no di una corporazione vastissima, ilpiccolo patriarca di un esercito di bar-bieri di strada che vedi al lavoro a tuttele ore sui marciapiedi della Cina, nellemetropoli moderne e nei borghi rurali.Con il rasoio dalla lama d’argento, la ba-cinella laccata a fiorellini, la sedia di le-gno per il cliente, il polso rapido e la lin-gua sciolta, sono i confidenti e gli psico-logi della nazione. Qualche volta affian-cati da assistenti in un’altra antica e de-licata mansione: i pulitori di orecchie.

Il racconto di una vitaÈ allegro Jing Qui, ha occhi vivaci chescrutano lo straniero. Sorride e raccontala storia, che comincia con una specie diriassunto della sua semplice filosofia:«In vita mia ho tagliato i capelli ad alti uf-ficiali della dinastia Qing, a diplomaticigiapponesi e perfino a un rappresentan-te personale del loro imperatore, ma an-che a tutti i poveri del quartiere, e nessu-no di loro può dire di essere stato tratta-to peggio». I ricordi coprono l’arco di«quattro dinastie», dice il barbiere allu-dendo ai cambi di regime. «Quando arri-vai a Pechino dai sobborghi di campa-gna avevo quindici anni, pare che la cittàavesse un milione di abitanti (oggi ne ha17, ndr). Il quartiere tra le mura imperia-li, qui vicino alla Torre del Tamburo, eracome un paesone tranquillo, la vita scor-reva lenta, non c’era tutta la gente e l’a-nimazione di oggi. Il cortile dove abito ioera occupato da una famiglia sola, ora cene sono sei. L’imperatrice Cixi era mor-ta, a Pechino governavano i nazionalistidel Kuomintang e tra i miei clienti ci fuanche un Signore della guerra, il genera-le Fu Zuo Yi. Poi arrivarono i giapponesie all’inizio avevamo paura di loro. A furiadi conoscerli la paura sparì. Sotto l’occu-pazione non era molto diverso dal Kuo-mintang. Almeno qui a Pechino i giap-ponesi non fecero danni, non distrusse-ro né costruirono granché. Perfino du-rante la guerra la vita nella capitale con-tinuava quasi come prima, il fronte deicombattimenti era lontano da noi. Del1949, l’anno della rivoluzione comuni-sta, ricordo che si mangiò di più, c’era fi-

Il barbiere di Pechinoe il rasoio della StoriaFEDERICO RAMPINI

32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 30 OTTOBRE 2005

È il patriarcadi un esercitodi artigiani che vedial lavoro a tutte le oresui marciapiedi cinesiPolso rapidoe lingua sciolta,sono i confidentie gli psicologidella nazione

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nalmente la farina. Per i giovani appren-disti barbieri la vita divenne migliore,scomparve l’abitudine dei padroni dipicchiarli. Mao fece tirare giù le muraimperiali, un lavoro lunghissimo, manessuno aveva da obiettare. Nel 1966 ilgoverno proibì tutte le attività private,anche le piccole botteghe come i bar-bieri dovevano essere dello Stato. Fum-mo tutti espropriati, e un solo membroper ogni famiglia veniva poi assunto dal-lo Stato per continuare lo stesso mestie-re, come impiegato pubblico. Alloratoccò a mia moglie essere assunta,quindi io non potevo continuare a eser-citare. Così cominciai a fare servizio adomicilio. Di preferenza andavo a ta-gliare i capelli fuori dalla cinta urbana,c’erano meno controlli, non rischiavo difarmi chiedere la licenza. Da quel mo-mento è cominciata la mia nuova vita dabarbiere indipendente, sempre in viag-gio da un cliente all’altro».

Il figlio dietro la portaIl figlio Jing Changming, sessantenne,stava origliando da tempo nel vialetto,sulla soglia della casupola. È a questopunto che si intromette di for-za. Dà sulla voce al padre,si agita, discute. Inter-vengono una sorel-la, poi anche un’al-tra, per proteggerel’anziano e allon-tanare con fermez-za l’intruso dallanostra conversazio-ne. La lite fra i tre fi-gli si allontana, glischiamazzi vanno aspegnersi in fondoal vicolo. Si capisceche l’uomo non sop-porta di sentire dalpadre una versionedella storia edulcorata.Dopo il ‘66, a quanto pare,il barbiere fu cacciato da Pe-chino e deportato nel villaggio na-tale. Ci sarebbe di che lamentarsi,magari anche accampare qualchepretesa di indennizzo, per quella botte-ga mai più recuperata.

Jing Qui sorride divertito e scrolla lespalle, mentre il figlio viene portato viadalle sorelle. Non si arriva a 91 anni percaso, e in questa forma. Il barbiere di Pe-chino ha imparato quell’arte della so-pravvivenza che consiste nel purgare lamemoria da tante esperienze avvilenti,tristezze e brutture. Il suo racconto sci-vola quieto sugli avvenimenti più tragi-ci. La grande Storia gli scorre davanti agliocchi senza agitarlo, è un paesaggiosbiadito o un rumore di fondo che si staaffievolendo. Kuomintang, giapponesi,Mao Zedong, cita questi nomi come senon lo riguardassero più. Con il tempo sifanno più nitidi quei piccoli dettagli del-la vita che contano veramente. I costumie le acconciature cioè il lavoro di un par-rucchiere. Il cibo. I quattrini. «Quandoero ragazzo molte case erano fatte di fan-go, gli uomini e le donne portavano le tu-niche lunghe tradizionali, i changpao e iqipao. I poveri rammendavano e rattop-pavano all’infinito i loro stracci, adessotutti buttano via vestiti seminuovi solo

perché sono passati di moda. Da ap-prendista dovevo studiare solo tre stili ditaglio: corti con la riga in mezzo, cortisenza riga, rapati. Adesso gli stili sonocosì tanti che è difficile stargli dietro. Gliapprendisti lavoravano gratis per impa-rare, quando misi su negozio il primo ta-glio costava due centesimi, ora facciopagare cinque yuan (mezzo euro, ndr)».Quali sono stati i più grandi cambia-menti nella sua Pechino? «La costruzio-ne di tutte quelle strade, e il fatto che c’ètanto da mangiare». Si accende una si-garetta, la seconda da quando è arrivato— «ho cominciato a fumare a sedici an-ni e non ho mai smesso per altri settan-tacinque» — e il viso si illumina al mo-mento di rivelare la sua dieta. Si lancia inun lungo e minuzioso elenco di sempli-ci dolciumi, tipo biscottini e caramelle.Scoppia a ridere di gusto quando provoa suggerire il fumo e lo zucchero come gliingredienti della sua longevità. La veraricetta della sua salute, naturalmente,andrebbe cercata piuttosto nel sorrisogioioso da ragazzino: «Esclusi forse glianni da apprendista, per via di tutte le

botte che mi pigliavo, oggi posso direche la mia vita è stata

una bella vita.Tutto è an-dato per ilverso giu-sto. Hoavuto damangiare,non possolamentar-mi diniente. E il

periodo piùbello forse è

questo, sì, pen-so proprio di non

essere mai statocosì bene».

Il colloquio staper concludersi. La

grande sorpresa è ri-servata per la fine. Jing

Qui mi studia con losguardo professionale.

«Da apprendisti la prima cosa che ci in-segnavano era il massaggio. Lo abbia-mo sempre fatto gratis, anche se forse èpiù importante del taglio». Poi scandi-sce bene le sue ultime parole: «Io so co-me rimettere le tue ossa». L’eterno sor-riso da bambino svanisce di colpo. JingQui chiude gli occhi per concentrarsi. Ilvolto del vecchio diventa una masche-ra immobile scolpita di rughe profon-de. Appena mi afferra la testa le sue di-ta diventano artigli di acciaio. Per tren-ta lunghissimi minuti di massaggio, dalcorpo di quell’omino esile e minuto di91 anni si sprigiona una forza sorpren-dente. Mentre le mie vertebre vibranoe schioccano come le corde di uno stru-mento musicale, il canuto barbiere diPechino si trasfigura in un santone zen,in un frate guerriero shaolin, in un cul-tore di kung-fu. Mi abbandono al pote-re magico, nelle mani del sacerdote diun’arte antica e misteriosa. Sogno cheda un personaggio come questo sia na-ta un giorno la leggenda dei monaci ul-tracentenari di Shangri-La, custodi delsegreto dell’eterna giovinezza.

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 30 OTTOBRE 2005

LA TRADIZIONENella foto grande, il rito

del taglio dei capelli

in una immagine

di inizio Novecento

Nella pagina accanto

Jing Qui nella sua bottega

a Pechino

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34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 30 OTTOBRE 2005

il raccontoArte e malattia

Gli scatti dentro i manicomi accompagnano l’evoluzione della scienzamedica: da quelli ottocenteschi usati come strumento totalizzante,oppressivo, all’irruzione negli anni Settanta dei reporterdi denuncia oltre il “muro dell’indifferenza”, fino alla recentestagione che ritrae “i diversi tra noi”. Ora una grande mostraa Reggio Emiliaraccoglie quel mondo di immagini

Le ultime foto raccontano di pazientidispersi nel mondo, terrorizzatima anche appesi alla mano amicadi un’infermiera volenterosa

MICHELE SMARGIASSI

La verità nelle faccedei matti da fotografare

tografia Jean-Martin Charcot riuscì a “inventare” l’isteria alla Sal-petrière), per il medico psichiatra funzionava come salutare di-stanziamento rispetto ad un malato tra i più imbarazzanti, peri-colosi, squilibranti, «poveri esseri che vegetano» e tuttavia sem-pre «guardati con misterioso terrore». Dolore assoluto, senza fre-ni, la sofferenza del malato mentale rischiava (rischia ancora) inogni momento di coinvolgere e di travolgere chi la osserva: dolo-re pietrificante come lo sguardo di Medusa. E come lo specchio diPerseo, la fotografia fece da schermo, prelevando la pazzia dalpazzo e mettendola a disposizione, spettro ormai inoffensivo,sulla scrivania del professore; mentre il suo originario possesso-re, ormai inutile, poteva “dar di matto” quanto voleva, ben legatoal letto di contenzione.

Perché potesse accadere, il fotografo dei matti doveva esserepiù artista che burocrate. Emilio Poli, semplice responsabile delguardaroba a cui Tamburini affidò il gabinetto fotografico del SanLazzaro, si rivelò tale. Il cortile del severo palazzo alla periferia del-la città si mutò in teatro di posa, sul cui palco, a credere al Tamas-sia, «accorrevano i poveri malati colla massima docilità», recitan-do senza copione la loro demenza, inscenando in un libero cano-vaccio di gesti ora patetici, ora drammatici, ora violenti, il loro mi-sterioso, surreale squilibrio. Dovrebbero parlarci, queste imma-gini sopravvissute, nascoste e ora riscoperte, di un dramma delcontenimento e della sorveglianza; riescono piuttosto a calarci inuna scena magica di pietà sublimata.

C’è da dire che il pazzo è il cliente ideale del fotografo. Le «bu-gie diplomatiche» del ritratto borghese, le sue finzioni identitarie,i petti rigonfi, gli sguardi artatamente fieri, i «poveri dementi» nonli conoscevano. Affrontavano l’occhio di vetro del Poli «senzacontraffare l’espressione del loro viso», senza cercare «quelle po-sizioni buffonesche, o tragiche, in cui vediamo drappeggiate lamaggior parte delle fotografie dei sani». Bugiarda per vocazione,convenzionale per obbligo, la fotografia per assurdo guadagnò lasua libertà nel luogo dell’assoluta illibertà.

Il paradosso si riallineò presto. All’alba del Novecento, conl’affermarsi della moderna psichiatria, la fiducia nella diagnosivisuale della malattia mentale andò rapidamente in crisi. L’in-conscio, il subconscio, non impressionano le lastre ai sali d’ar-gento. Ma la fotografia non uscì dalle mura dei manicomi, cam-biò semplicemente mestiere: da aiuto medico a sorvegliante.Traslocò dall’ambulatorio alla portineria. I degenti venivano fo-tografati non più nella libera, perfino anarchica espressione del-la loro follia, ma nella razionalità panottica della posa frontale,che omologava ogni individualità nel tipo universale del Pazzo,icona della nostra cattiva coscienza. Spillata sulla cartella clini-ca, la fotografia del malato non era più la sua radiografia menta-le, ma un attrezzo tecnico per il riconoscimento rapido. Aprì lastrada, assieme alla cugina fotografia poliziesca, al moderno do-cumento d’identità. Può essere spiacevole saperlo, ma la fotoche ci guarda dalla nostra patente è la foto di un pazzo: quanto-meno, la sua nipote.

Morte della nosografia creativa, inizio della fotografia poliziot-ta: al San Lazzaro l’operazione diventò così standardizzata e ri-petitiva che la si poté affidare addirittura ad un degente. Resurre-zione della fotografia anti-psichiatrica: negli anni Sessanta furo-no a volte gli stessi ricoverati a far entrare i fotografi oltre il porto-ne proibito, spacciandoli per pazienti in visita. Quei reporter che

REGGIO EMILIA

«Pazzo melanconico» lo avevano classificato imedici del Manicomio di Reggio Emilia. Unadelle molte fantasiose etichette della pignolanomenclatura positivista della malattia men-

tale. Pazzo, chissà: di certo non era tanto stupido, dal momentoche si ribellò con tutte le sue forze, imprecando, all’obbligo di far-si fare il ritratto fotografico, rito d’ingresso a cui era sottoposto perdecreto ogni degente. Gridava, il melanconico, protestava che«col ritratto si avrà il modo di perseguitarlo di più». Di lui, ricove-rato attorno al 1870, sappiamo troppo poco (un vago accenno nelresoconto di un noto clinico in visita, Arrigo Tamassia) per capi-re quanto consapevole fosse la sua impavida ribellione. Di sicuroera fondata più delle risate dei medici che lo compativano. Avevaragione, il melanconico: la fotografia perseguitò i matti. Peggioròla loro segregazione. A lungo, e con metodica pervicacia. Cometutti gli oggetti e i saperi coinvolti nel funzionamento di un’istitu-zione totale, anche la fotografia della follia fu uno strumento to-talizzante, oppressivo, usurpatore di diritti. Arma tagliente, qual-che medico se ne rendeva conto: Henri Legrand du Saulle, in que-gli stessi anni, vietava la circolazione delle foto dei suoi pazienti diRouen, e faceva distruggere le negative.

Dovette trascorrere più di un secolo perché la fotografia dei mat-ti riuscisse a liberarsi da quel marchio d’infamia mutandosi nel suocontrario: uno strumento di liberazione. Una mostra, proprio aReggio Emilia, dove l’ospedale psichiatrico San Lazzaro fu unacittà nella città (duemila ricoverati) fino agli anni Settanta, rac-conta ora tutta la sofferta, contraddittoria parabola della fotogra-fia psichiatrica, dalle immagini che legano a quelle che sciolgono,dagli ordinatissimi “gabinetti fotografici” dei manicomi ottocen-teschi all’irruzione dei reporter basagliani oltre «il muro dell’in-differenza»; fino alla terza stagione, la più sconosciuta e recente, eanche la meno sicura di sé: la fotografia del dopo-riforma, la foto-grafia dei “matti tra noi”, che paradossalmente ribalta tutte le cer-tezze, rimette in causa le precedenti, facendoci apparire un po’meno arrogante la prima, un po’ meno trionfale la seconda.

Al San Lazzaro, uno dei più antichi manicomi italiani (lo volle ilduca Francesco III d’Este nel 1755), la fotografia era stata am-messa precocissimamente, nel 1878, da un direttore, AugustoTamburini, che aveva l’occhio attento alle novità terapeuticheeuropee. Il pioniere britannico Hugh Welch Diamond aveva spe-rimentato l’uso della fotografia come ausilio frenologico appenaun ventennio prima, nel suo ospedale del Surrey. Ma la moda ave-va fatto breccia un po’ ovunque, quasi che la scienza della mentedeviata non aspettasse altro che il suo strumento mancante: l’u-nico in grado di offrire ai medici della psiche, ancora incerti sullaconsistenza e i metodi della propria disciplina, qualcosa di para-gonabile a ciò che per i colleghi del corpo era l’anatomia: un cor-po da osservare, un oggetto fisico da misurare. La fotografia inve-rava il sogno, anticipato dalla fisiognomica di Lavater e Lombro-so (anch’essa in attesa del Grande Strumento), di dedurre scien-tificamente la psiche dal soma, insomma l’anima dal volto.

Inoltre, se al medico la fotografia offriva la possibilità di astrar-re la malattia universale dal malato particolare (solo grazie alla fo-Rep

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 30 OTTOBRE 2005

RASSEGNA SULLA FOLLIAIn queste pagine: una serie

di fotografie dalla mostra

“Il volto della follia, un secolo

di immagini del dolore”

in programma a Reggio

Emilia dal 13 novembre 2005

al 22 gennaio 2006. La rassegna

ospitata a Palazzo Magnani

e Palazzo dei principi

di Correggio (e curata

da Sandro Parmiggiani),

documenta la vita all’interno

degli ospedali psichiatrici

e il difficile processo

di inserimento nella società

degli ex degenti

Un lungo cammino dalle galere della fisiognomica alla attuale contenzione chimica

Animali, delinquenti, angeli caduti: il riscatto della follia

Nel poderoso Archivio dell’“Ospedale dei pazzi”, aperto aRoma nel 1561 e poi denominato “Santa Maria dellapietà”, c’è un libro dell’epoca dove le fisionomie dei paz-

zi sono messe a confronto con quelle degli animali con conse-guente attribuzione al folle della caratteristica più terribile pro-pria di ogni animale. La filosofia sottesa a questa curiosa fisio-gnomica è quella rinascimentale che concepisce l’uomo comebestia e angelo; e quando la parte alta, spirituale, angelica è di-vorata dalla follia, resta la bestia, i cui tratti somatici indicano laspecificità dell’aberrazione che pervade il folle.

Quando la follia da fatto demoniaco divenne disturbo so-ciale, quando uscì dall’interpretazione teologica per esserecompresa nell’interpretazione giuridica, il folle, per il suocomportamento, fu assimilato al criminale e perciò rinchiu-so, al pari del delinquente, in prigione. A questo punto la com-parazione fisiognomica mutò: non più il confronto del follecon l’animale, ma la comparazione dei tratti somatici del fol-le con quelli del delinquente.

Dobbiamo attendere il 1793 per vedere sorgere a Parigi il pri-mo manicomio ad opera di Philipe Pinel che liberò i folli dalleprigioni in base al principio che il folle non può essere equipa-rato al delinquente. Con questo atto di nascita la psichiatria sipresenta come scienza della liberazione dell’uomo. Ma fu un at-timo, perché il folle, liberato dalle prigioni, fu subito rinchiusoin un’altra prigione che si chiamerà manicomio.

Di questa reclusione in manicomio ne approfittò CesareLombroso, non tanto per studiare l’insorgenza delle malattiepsichiche e le più opportune terapie, quanto per esercitarsi,con l’aiuto della fotografia di cui non disponevano gli psi-chiatri del Settecento, a trovare le corrispondenze tra il pazzoe il delinquente. Nel Museo di antropologia criminale di Ce-sare Lombroso, istituito con una delibera dell’Università diTorino del 1892 e oggi illustrato da un bel libro di Giorgio Co-lombo dal titolo La scienza infelice (Bollati Boringhieri, 2000),Lombroso, con l’uso della fotografia fornisce alla polizia

scientifica le corrispondenze fisiognomiche tra folli e delin-quenti con un elenco così dettagliato: «Fig. 31 Donna omici-da. Labbra tumide, fisionomia virile. Fig. 32 Donna parricida.Archi sopraccigliari e seni frontali assai sviluppati, rughe stra-ne, fronte sfuggente, zigomi e mascelle molto sviluppate, lab-bra sottili. Fig. 33 Conjugicida. Tumidezza delle labbra. Fig. 34Feritore. Mascelle e orecchie voluminose. Fig. 35 Omicida.Fronte sfuggente, submicrocefalia, archi sopraccigliari enor-mi, mascelle, zigomi e orecchie molto voluminose. Fig. 36 As-sassino. Orecchie ad ansa, stenocrotafia, asimmetria del viso,strabismo, labbra assai sviluppate».

A partire da questa catalogazione, nel 1902 viene istituita aRoma la Scuola superiore di polizia scientifica sotto la dire-zione di Salvatore Ottolenghi, assistente di Lombroso, che sipropone di «trasformare radicalmente i mezzi di lotta controquesti prodotti della degenerazione, della intossicazione, delproletariato, onde ammansire le più feroci belve umane, i co-siddetti bruti del Codice Penale».

Oggi le cose sono cambiate molto? A giudicare dai tipi uma-ni che affollano le carceri direi di no, quei luoghi così simili al-le carceri che sono i manicomi sono stati quasi tutti assegnatiad altra destinazione, ma quanta follia oggi si agita ancora nelchiuso delle pareti domestiche e quanta nell’aperto delle no-stre strade, dove come al solito miseria e follia si confondono?

Certo ai metodi di contenzione esterni, così truculenti e in-digesti a vedersi, si sono sostituiti i metodi biochimici a con-tenzione interna. Tutto è più educato e più morbido, più civi-le e accettabile. I volti dei folli non hanno più l’aspetto chehanno sempre avuto il proletariato e il sottoproletariato.Lombroso sarebbe confuso di fronte ai volti della follia di og-gi: volti normali, fotocopie di volti televisivi. Una sola cosa liaccomuna ai volti spaventosi catalogati da Lombroso: la soli-tudine della loro mente, a cui nessuno si rivolge se non con leparole inutili della pietà che sta al posto di un’infinita comu-nicazione mancata.

avevano letto Laing e Goffman si chiamavano Carla Cerati, Gian-ni Berengo Gardin, Luciano D’Alessandro, Gian Butturini, Ulia-no Lucas, tutti a vario titolo e misura affascinati dallo “slegamat-ti” Franco Basaglia. Le immagini che si susseguirono in quegli an-ni sui libri e sui rotocalchi, terribili e affettuose, strazianti e tene-re assieme, volutamente spogliate da ogni estetismo per puntareal cuore dell’emozione, furono il colpo d’ariete su cui lo psichia-tra triestino contava per «usare l’istituzione contro se stessa» eaprire quelle porte inchiodate. Morire di classe, il pamphlet pro-gettato da Franco e Franca Basaglia per la celebre “serie politica”Einaudi, con le foto di Cerati e Berengo, divenne il “libretto viola”della battaglia contro i manicomi: ma era fatto solo di immagini,intercalate a evocatrici citazioni da Brecht, Swift, naturalmenteFoucault. La legge 180 è forse l’unica riforma sociale ad avere con-tratto un debito di gratitudine con la cultura visuale.

Eppure anche su quelle immagini è giunto il momento di ra-gionare criticamente. Senza nulla togliere al coraggio, alla gene-rosità, alla passione dei fotografi che le realizzarono, la mostra diReggio (in particolare il saggio dello psichiatra Cosimo Schinaia,nel volume che è molto più di un catalogo di mostra) ne coglie, perla prima volta, forse grazie alla distanza storica, un rischio para-dossale: la conferma dello stereotipo del pazzo. Un “matto da sle-gare”, beninteso: ma per mostrare a “quelli di fuori” l’ingiustiziadelle sue sofferenze era necessario semplificarne l’immagine,uniformarla, mettere in ombra le facoltà “sane” ed esporre soloquelle “malate” e sofferenti alla pubblica e politicamente impe-gnata indignazione. Crani rasati, teste fra le mani ossute: il più ce-lebre scatto di Carla Cerati è diventato icona della follia: non del-la liberazione.

Ma è possibile fotografare la malattia mentale senza ingab-biarla di nuovo, seppure in una griglia di compassione? Ci si è pro-vato. Ma è stato necessario mettere da parte ogni retorica, ancheliberatoria, abbassare il tono e lo sguardo. “Fotografia debole” èforse quella del dopo-Basaglia, priva della sicurezza che le dava-no le teorie più o meno scientifiche prima, le battaglie politiche eumanitarie dopo. Incerto è l’occhio che ha seguito le tortuosestrade di una riforma che ha rivelato i suoi affanni e incontratomolti avversari ben felici di amplificarli. I “matti tra noi”, terza ca-tegoria storica dell’iconografia della follia, non appaiono più co-me una classe omogenea da segregare o da liberare in blocco, macome uno sciame di naufraghi dispersi nel mondo in cui siconfondono, si mescolano, svaniscono. Seguirli uno per uno, rac-contare storie sempre più uniche e divergenti è stata la scelta deifotografi del “dopo”. Qualcuno (Giovanni Sesia) ha sentito il bi-sogno di ripartire da capo, di andare a cercare i ritratti seriali de-gli antichi malati del San Lazzaro, per risarcirli della perduta sog-gettività, quasi raschiando via a colpi di pennello la patina foto-sensibile che li imprigionava. Altri hanno raccontato, semplice-mente, i percorsi di vita dei “liberati”.

Individui dispersi nel mondo. Sempre appesi a un filo sottile,assediati dal frastuono di un mondo ostile: stringe la testa fra lemani l’ex degente sorpresa da Butturini nell’attimo di terrore chesembra, che è, l’Urlo di Munch. Ma anche appesi alla mano ami-ca di un’infermiera, come in una dolcissima immagine di AlexMajoli: cordone ombelicale, carezza rassicurante di chi non ab-bandona; e allora si può anche, finalmente, riposare, e allora il so-le che illumina il mondo dei sani scalda e basta, non brucia più.

UMBERTO GALIMBERTI

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 30 OTTOBRE 2005

le storieMondi da ascoltare

Ha cominciato 35 anni fa, registrando le note di un organo.E da allora non si è più fermato: il canto degli uccelli,il fischio dei treni, le campane delle chiese e perfinoil pianto del figlio appena nato sono finiti nel suo immensoarchivio. Che ora raccoglie in più di 32mila tracce audiole voci dell’uomo, delle macchine e soprattutto della natura

“Catalogare i rumorimi dà felicità

ma ce n’è uno chenon vorrei mai avere:quello dell’atomica”

neppure i pianti dei bambini, mi fannoorrore», aggiunge. Tranne uno, quello disuo figlio quando è nato: un pianto digioia. Al momento delle doglie la moglieSilvana era in un ospedale di Ancona,Màlleus ha avvolto il suo registratore inuna busta asettica e l’ha fatto portare den-tro la sala parto da un’infermiera. Tra itrentaduemila suoni archiviati c’è ancheil primo vagito di Morgan, che oggi è un ra-gazzo di 22 anni. L’altra figlia si chiamaMicol e di anni ne ha 18.

ATTILIO BOLZONI

RECANATI

Il cielo è nero, su una collina dellabella campagna marchigiana cadeun fulmine. E arriva anche il tuono.L’uomo afferra cavi e microfoni.

Dice che è ora di andare: «Usciamo a sen-tire i rumori del temporale». Sta comin-ciando a piovere. E Màlleus sta comin-ciando a raccontare e a raccontarsi. L’ul-timo suono che ha messo da parte è quel-lo di una lattina che rotola sulla strada,spinta dal vento. L’altra settimana final-mente ha trovato il ruscello che cercava,un torrente che non fosse troppo ripidoné impetuoso, un’acqua placida, lenta. Epoi ha aspettato là in fondo sulla curva, al-l’uscita di quel paese dell’Appennino do-ve era stato alcuni mesi prima e aveva vi-sto passare un vecchio camion che butta-va fumo. Il rombo di un motore sfiatato glimancava. Ha sistemato i suoi microfonisu un muretto, si è infilato la cuffia, quan-do il camion stava entrando nel tornanteha registrato anche il brontolio della suaarrugginita marmitta. Adesso ne ha tren-taduemila di suoni. Di ogni specie. Lenocche di una mano che bussa alla porta,il sibilo di una freccia scoccata da un arco,la goccia che precipita su un vetro, unascarpa che calpesta la ghiaia, un fiammi-fero che brucia, un’onda che si rovescia,gli sci che filano sulla neve. Suoni. Tutticonservati nella memoria di sofisticaticomputer. Un archivio che è la sua vita.

Il vero nome è Enrico, Enrico Ragni. Mada quando ragazzino era batterista in unodi quei gruppi rock degli Anni Settanta, lochiamano Màlleus. Fa musica da sempre.Con la chitarra, il basso, l’armonica a boc-ca, il pianoforte, l’organo a canne. Unavolta era direttore di reparto in un mobi-lificio. Poi si è appassionato alle tecnichedi mixaggio e ha lavorato per i pubblicita-ri milanesi. Da una ventina di anni haaperto l’“Antica bottega amanuense”,uno scriptorium nella Villa Colloredo diRecanati, dimora cinquecentesca che ilComune ha acquistato dalla Santa Casadi Loreto e restaurato. Carta filigranata,raffinate pergamene per i diplomi di lau-rea delle Università del centro nord, pre-gevoli incisioni su pietra. Ma in un ango-lo della villa c’è quello che è lo scopo dellasua esistenza: la “libreria” di suoni.

Ne ha più di chiunque altro in Europa eforse anche nel mondo. Almeno tantiquanti quelli della Lucas film, la societàcaliforniana specializzata nell’acusticacinematografica. A volte Màlleus compradalla Lucas alcune centinaia di “famiglie”di suoni, musicali soprattutto. E anchequelli più difficili da reperire nelleMarche, come certi venti dei de-serti texani che trasportano inaria la sabbia provocando vor-tici stordenti. Molti, moltissimili ha catturati lui, giorno dopogiorno con i suoi strumenti. Liha selezionati, riascoltati, puliti.E poi immagazzinati nel suo te-soro informatico. «Mi dà felicitàaverne così tanti, sapere che inqualsiasi momento possoprenderne uno e utilizzarlo»,bisbiglia Màlleus mentre cimostra le schede, catalogoper catalogo, i cavalli al ga-loppo o al trotto o in carova-na, i fischi vicini e lontani deitreni, le urla in una stanza ele urla in uno spazio aperto,le campane di una piccolachiesa di campagna e lecampane di una cattedrale.

Non è solo un collezioni-sta di suoni Màlleus. È ancheun compositore. Dopo Ope-ra Prima e Opera Totale, stafinendo in questi mesi Le viedel cielo che è il viaggio di unpellegrino nel tempo, un pel-legrino che racconta tutto ciòche vede. Il primo suono l’haarchiviato nel 1970 quandoaveva sedici anni. Le note di unorgano sono finite nel suo Ge-loso, uno di quei vecchi regi-stratori che andavano di modaallora. Ricorda: «Era l’organodella chiesa di Albacina, il paesi-no medievale in provincia di An-cona dove sono nato cinquantu-no anni fa».

Poi ha cominciato a raccoglier-li con metodo. Prima quelli orche-strali, le percussioni, i fiati, gli ottoni. E poitutti gli altri. Quelli della terra, del cielo edel mare. Intorno al 1983 ne aveva già co-sì tanti che ha dovuto farsi spedire dal-l’Australia una prima “macchina” per cu-stodirli. Ricorda ancora: «Era un compu-ter Fair Light serie 1 che costava 83 milio-ni di vecchie lire, pagavo più di 3 milioni al

Come sono i suoni Màlleus? «Sono bel-li, duri, metallici, morbidi, stridenti, ovat-tati, trasparenti, grintosi, leggeri. Sonocome gli uomini e come la vita». Tira fuo-ri altre schede dalla sua “libreria”. Il colposecco di un vecchio fucile, i passi sulle sca-le, lamenti, risate, i respiri, un rogo, ungufo, un usignolo. Spiega: «Per registrareil suono degli uccelli di solito vado in unbosco di querce e piazzo un cavo lungocentocinquanta metri, ci attacco i mi-crofoni con un timer programmato dallequattro del mattino fino alle sette e poiaspetto lontano».

Nel suo studio di Villa Colloredo ci so-no schermi giganti, scorrono immagini,risaltano grafici che sembrano tracciati dielettrocardiogrammi: sono le piste chedisegnano le “forme” dei suoni. Màlleus liferma, li scompone, li trasforma, model-la i suoi suoni come fossero creta. Armeg-gia con i cursori, sposta tasti che illumi-nano spie, mischia rumori naturali e arti-ficiali, gioca con i rumori. Da qualche an-no a Villa Colloredo vanno a trovarlo po-liziotti e carabinieri dei reparti investiga-tivi. Gli chiedono perizie foniche.Vogliono che decifri certi fragori, che iso-li una voce dall’altra per potere captareanche le parole più incomprensibili.

Fuori dal suo laboratorio ascolta tuttocon un orecchio speciale. Quando gli ca-pita di dormire negli alberghi usa i tappi,non sopporta i rumori del traffico. Quan-do torna a Recanati si rifugia subito nelsuo studio di registrazione, lì passa lun-ghe notti: «Il suono è una cosa viva chepermette di trasmettere messaggi agli al-tri senza parlare». Sprofonda in una pol-trona, accarezza con lo sguardo i suoischermi, chiude gli occhi mentre unamusica invade la stanza. E dice: «Sono uningegnere del suono che è riuscito a crear-si una vita come l’ha sempre desiderata».

IL PERSONAGGIONella foto sopra,

Enrico Ragni,

in arte “Màlleus”,

il collezionista

di Recanati.

A sinistra,

l’elaborazione

computerizzata

di un suono

Il collezionista dei suoni

mese di rata, un incubo. Per fortuna ave-vo trovato un buon lavoro a Milano». Fa-ceva il fornitore di suoni per alcuni studipubblicitari. Lo chiamavano su dalleMarche un paio di volte la settimana, glichiedevano di tutto. Per lo spot che stavalanciando sul mercato la Lancia Thema sirivolsero a lui. Della pubblicità e degli ef-fetti speciali si è stancato presto. Per qual-che mese ha collaborato con alcuni can-tanti come Zucchero e Renato Zero, an-che loro volevano i segreti del suo archi-vio. Poi, con il dono di una straordinariamanualità, Màlleus ha cominciato a fre-quentare i corsi di incisione di un famosomaestro inglese, così si è inventato ama-nuense. Ha aperto la bottega che gli per-mette di vivere senza affanni. E intan-to ha continuato a mettereinsieme i suoi suoni.

Uno che non vor-rebbe mai avere èquello dell’e-splosione nu-cleare. «Enon ho

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38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 30 OTTOBRE 2005

DAI COLLI ALL’ADRIATICOL’area misura 16.880 km quadrati

e conta oltre tre milioni di abitanti

LA VIA EMILIALa strada simbolo dell’aerea collega

Piacenza con Rimini

RICCIONEÈ la spiaggia più nota e affollata

della costiera romagnola

LE DISCOTECHEDal Cocoricò al Bandiera Gialla,

la riviera ospita le più famose d’Italia

LA BANDA DELLA UNO BIANCAI suoi crimini hanno determinato

l’atmosfera “noir” della zona

DA LUCARELLI A QUO VADIS BABYNella zona si ambientano “Almost Blue”

e l’ultimo film di Salvatores

i luoghiMappe letterarie

Il primo ad avere l’idea è stato Pier Vittorio Tondelli, poi l’hannostudiata all’università e infine l’ha rilanciata la nuovagenerazione di scrittori noir. L’idea è semplice ed affascinante:considerare la lunga strada che va da Piacenza a Cattolica,come il corso principale di un’unica grande città con milionidi abitanti, la Metropoli emiliano romagnola

Uno dei primi a parlarne era stato Pier Vittorio Tondelli. Oalmeno, molti di noi lo hanno sentito da lui per la primavolta e per la prima volta hanno cominciato a pensare al-la loro città in un modo diverso. Ecco, già il termine cittàè sbagliato. Regione, forse, ma non va bene neanche quel-lo. Zona o territorio funzionano ma sono brutti, roba da

Assessorato alle Attività Produttive, buoni per fotografare cooperativee insediamenti e non per rendere l’anima di qualcosa che forse non esi-ste anche se noi sentiamo che c’è. Chiamiamola metropoli. La metro-poli emiliano romagnola.

«Vorrei semplicemente far notare come l’a-spetto più seducente — soprattutto da unpunto di vista narrativo — fu per me poter am-bientare un romanzo non tanto in una città,ma in una metropoli balneare che non haequivalenti in Europa: una grande città dellanotte e del divertimento che si estende percentocinquanta chilometri di costa e in cui siriversano milioni di persone per celebrare ilrito di quell’unico, vero periodo di derogacarnevalesca che la nostra società odiernaconsente, cioè la vacanza».

Lui, Pier Vittorio Tondelli, aveva appena fi-nito di scrivere un libro che si chiamava Rimini, e aveva in mente so-prattutto la riviera, tra Cattolica, o meglio, Gabicce mare, e i Lidi ferra-resi, e li pensava d’estate. Ma bastava andare un po’ più in su per accor-gersi che si poteva dire qualcosa di simile anche per la parte emilianadella regione, della zona, del territorio, insomma, di questa strana me-tropoli emiliano romagnola. A noi che saremmo diventati i narratori diquesta metropoli, a me che ci vivevo dentro senza ancora accorgerme-ne, succedeva. Dormire a Faenza, studiare a Bologna e andare a diver-tirmi a Rimini come se fosse la stessa città. Prendere il giornale e cerca-re un film, e che lo dessero in un cinema di Ravenna, di Imola o di Lugoera la stessa cosa, come se fossero soltanto nomi di quartieri, uniti dauna strada che poteva chiamarsi via Emlia, Adriatica, A1 o A14 ma era

come se fosse il corso principale di un’unica città.«Metropoli è una parola grossa» dicevano gli autori di una rivista che

si chiamava proprio ME, Metropoli Emilia, che nacque nell’aprile del‘99 e dopo un po’ di tempo, come succede a volte alle riviste, morì. «Me-tropoli è una parola grossa. Metropoli è una città molto grande, con lu-ci, suoni, smog, traffico, grattacieli… Metropoli di notte è una distesa diluci e di sirene. Ah, e criminali, appostati dietro ogni angolo buio… Me-tropoli Emilia ha traffico, criminalità, luci, sirene e smog. In più ha an-che la nebbia. Però è diversa, è lontana da stereotipate immagini inbianco e nero, fumose e tristi». Loro pensavano solo all’Emilia, a Pia-cenza, Parma, Reggio Emilia e Modena, e davano anche i numeri di que-

sta enorme, strana città, e sono davvero nu-meri da metropoli.

1.213.300 ettari di superficie. 135.000 metrilineari di via Emilia che li attraversa. 2.371.921cittadini. 12.415 posti in cui si mangia, di cui4.063 ristoranti. 294 cinema. 148 teatri. 220 lo-cali da ballo e 113 di musica dal vivo. 13.461cuba libre bevuti in discoteca soltanto nelweek end. Facciamo il doppio, aggiungiamola Romagna di Tondelli ed ecco la metropoli,questa cosa strana che va quasi da Piacenza fi-no a Cattolica, una metropoli di duemila etta-ri di superficie e quattro milioni di abitanti,che si estende a macchia di leopardo senza un

vero centro, come Los Angeles, ma tanti, e una periferia diffusa che sichiama Ferrara, Imola, Ravenna o la Riviera.

Esiste davvero questa città? Se lo si chiede a molti dei suoi abitanti di-ranno di no, e se si considerano le scelte amministrative di molti dei suoicomuni si dovrà convenire che no, non esiste. Ma Tondelli aveva dettouna cosa molto giusta, quando aveva parlato della sua metropoli. Ave-va parlato di un aspetto seducente, soprattutto dal punto di vista narra-tivo. Allora, forse non esiste nella realtà, questa metropoli, ma di sicuroesiste nella fantasia, nell’immaginario, è una città invisibile, come quel-le di Calvino, che sono ancora più reali di quelle vere perché sono luo-ghi dell’anima.

Da questo punto di vista, la metropoli emiliano romagnola è una città

Sulla via Emilia, CARLO LUCARELLI

Di giorno le strade sonointasate dai pendolari,

poi quando arriva il buioil popolo della notte

conquista il territorio

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 30 OTTOBRE 2005

DA ELLROY ALLE IENELa città vive in libri come “LA

Confidential” o nei film di Tarantino

LO SCANDALO DEGLI AGENTI RAZZISTIIl pestaggio che portò alla morte

di Rodney King aprì una rivolta razziale

I CLUBI locali notturni di Santa Monica sono

meta fissa dei giovani californiani

MALIBÙÈ la località delle famose spiagge

californiane amate da bagnanti e turisti

incredibile. Intanto cambia a seconda delle ore del giorno e i suoi abi-tanti del mattino non sono gli stessi di quelli della notte. Basta prende-re la via Emilia alle otto, vedere chi c’è in quella lunga fila di macchineche si muove al rallentatore, intasata in un ingorgo eterno, sono il po-polo del giorno, i lavoratori, le colonne portanti del modello emiliano.Ma basta aspettare e col buio la gente cambia e di notte ha un’altra fac-cia, altri vestiti, altre velocità, ed è il popolo della notte, quello che va adivertirsi e anche lui è una delle colonne portanti del modello emiliano,e spesso le persone sono proprio le stesse che avevano percorso quellastrada alla mattina. Una città strana, che esiste solo in certi momenti ein altri no, che la puoi vedere solo a certe ore del giorno e della notte, so-lo in certi ambienti e per certi motivi, solo percerte persone, perché in altre ore, con altragente e in altre situazioni non c’è, ci sono ipaesini, le cittadine, i quartieri, ci sono le piaz-ze, i bar e i campanili, tutti separati l’uno dal-l’altro. È una metropoli virtuale che vive in ununiverso parallelo, visibile e concreta soloquando si manifesta.

È una città di frontiera. Non solo perché cidevono passare tutti, da nord a sud e vicever-sa, per forza, e spesso ci restano, perché que-sta metropoli è come una rete che lascia pas-sare tutto ma trattiene molto. È una città difrontiera anche perché in questa città convi-vono contraddizioni che in altri luoghi sembrerebbero insanabili. Qui,a distanza di pochi giorni e pochi chilometri si passa da un’estate tropi-cale ad un inverno siberiano, dalle torri di Kenzo Tange che fanno del-la Fiera di Bologna una piccola Tokio ai borghetti medioevali delle cit-tadine, dalle porcilaie ai musei, dalla città del lavoro a quella del diver-timento. Basta una strada, come dice Eraldo Baldini, un altro dei nar-ratori della metà oscura di questa metropoli, bastano i pochi metri dilarghezza dell’Adriatica a separare il divertimentificio della riviera, tut-to luci e colori, da una campagna che riesce a passare da un’agricoltu-ra intensiva e industrializzata a punti in cui potresti credere che anco-ra ci sia la malaria e i sacrifici umani di qualche cultura arcaica.

È una città nera, anzi noir, e non per nulla ci sono nati tanti autori di

genere, che cercano di spiegare perché nella nostra cronaca nera si pos-sano trovare esempi da grande metropoli, come la banda della UnoBianca, e anche serial killer ed efferati, inutili omicidi. E Mafia. Ma co-me, non è Bologna, non è Rimini o Modena, non sono piccole cittadi-ne, paesi addirittura, cosa c’entrano questi comportamenti criminalida grande città? C’entrano, se Bologna, Rimini o Modena li concepiscicome quartieri e sobborghi di una metropoli, in cui un gruppo di poli-ziotti assassini può scorrazzare lungo la via Emilia, e anche oltre, anchea Pesaro, come farebbe una gang per le strade di Los Angeles. Non im-porta se non sembra così. Agli scrittori di genere basta la verosimi-glianza, soprattutto se non è banale, e alla realtà basta semplicemente

che accada.Ma non è solo una città nera. È una metro-

poli piena di opportunità e di vita, e questograzie alla sua gente che si è abituata a muo-versi, ad andarsi a cercare quello che gli serve,e non importa se per farlo deve spostarsi in unposto che ha un altro nome, ma solo appa-rentemente, perché spostarsi da Bologna aModena o da Bologna a Rimini non è viaggia-re, è andare. Ed è significativo che ci si spostinon solo per andare a lavorare, per raggiun-gere un ufficio o una fabbrica, ma anche un ci-nema, un pub o un ristorante. Lavorare e di-vertirsi, in continuo movimento. È anche per

questo, forse, che questa metropoli sembra diversa dalle altre.Esiste davvero questa città? C’è chi la studia, anche da un punto di vi-

sta più specifico e competente del mio e chi, dallo stesso punto di vista,ne rifiuta il concetto. Chi la vede come un laboratorio, anche sociale epolitico, e chi la considera soltanto un’occasione perduta, ormai mor-ta. C’è anche chi non si è mai mosso da Mordano, da San Pancrazio o daFormiggine e di tutto quello che c’è fuori, di metropoli e megalopoli,non sa niente, non se lo immagina neanche e forse neanche gli serve.Ma alcuni di noi così la vivono, come una metropoli, e altri così la rac-contano.

È una città che ci piace, anche quando crediamo di odiarla. Se anchefosse soltanto un luogo dell’immaginario, a noi basterebbe.

la nostra Los Angeles

I poliziotti assassinidella Uno bianca, i serialkiller e persino la mafia:comportamenti criminali

da megalopoli

DALLE GRANDI VALLI AL PACIFICOL’area di Los Angeles è ampia 88.000

km quadrati. Gli abitanti sono 17 milioni

LE FREEWAYSIl sistema di arterie con decine

di corsie è l’emblema di Los Angeles

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40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 30 OTTOBRE 2005

Esattamente settant’anni fa nasceva l’Entenazionale della moda, con il compitodi contrastare il dominio degli atelier di Parigi

E così lo stile fu imposto per legge, ma grazie all’inventivadei nostri sarti iniziò l’epoca del Made in Italy

La penuriadi materialitrasformòl’operazione, partitaper esigenzeideologiche,in una necessitàMa le resistenzedelle italiane furonofortissime e il Ducedovette metterein moto la macchinadella propaganda

Quando è nato il made in Italy, la nostra potente fabbri-ca del lusso? Negli anni Settanta con Giorgio Armani egli altri grandi, o ancor prima con disegnatori comeWalter Albini o Kino Bert, oppure nei favolosi anni Cin-quanta a Roma, quando le dive della Hollywood sul Te-vere correvano a vestirsi dalle sorelle Fontana o da

Schubert? O con Ferragamo negli anni di guerra, quando col ta-lento si sostituiva la mancanza di materie prime e si facevano scar-pe con la stagnola e vestiti con la ginestra?

Esiste una data ufficiale e burocratica che ne sancisce l’inizio, edè il 31 ottobre 1935, quando un decreto legge fonda l’Ente Nazio-nale della Moda, con sede a Torino. E per quanto l’Italia sia entu-siasticamente fascista (ne prendiamo ogni tanto di queste canto-nate, la passione per l’uomo nuovo, per poi pentircene), gli indu-striali lombardi che puntavano su Milano mugugnano; si allarma-no le signore facoltose, abituate a farsi il guardaroba completo a Pa-rigi; si disperano gli 800 sarti e sarte italiani d’alta moda, che com-prano i modelli nell’unico luogo indiscusso dove si inventa ognianno la moda, Parigi: da Chanel, da Schiaparelli, da Molineaux, an-che dal declinante Poiret ormai sull’orlo del fallimento, e con artesublime li riproducono.

È un monopolio straniero che il fascismo non può tollerare. Tral’entusiasmo popolare è già iniziata la guerra d’Etiopia e l’Italia staper diventare un Impero; in più la Società delle Nazioni ha decisocontro il nostro paese sanzioni in verità molto blande e si sta già or-ganizzando una fantasiosa autarchia. Da anni alcune ferventi eroi-ne come Lydia de Liguoro che si definisce «indomabile fantaccinadella nostra moda», lottano inascoltate per affermare un lusso na-zionalista. Tramortita dall’emozione, la signora, il 24 maggio del1930, in una delle tante adunate patriottiche, riesce ad incontrareil suo idolo, il Duce: «Il nostro cuore batteva come il motore di unacento cavalli lanciata sull’autostrada». Le affidano una battaglierarubrica sul Popolo d’Italiae finalmente Mussolini proclama: «Unamoda italiana nei mobili, nelle decorazioni e nel vestiario non esi-ste ancora: crearla è possibile, bisogna crearla».

La nostra industria dell’abbigliamento, che dopo aver sbara-gliato da tempo la supremazia francese oggi regna ancora sul mer-cato del lusso malgrado il “pericolo giallo”, compie domani set-tant’anni, ed è nata fascista, anzi fascistissima. Dapprima auspi-cata dai nazionalisti, poi imposta per ideologia littoria, una modaitaliana diventerà una necessità con la penuria dell’autarchia e ar-riverà a subire le leggi antisemite. Per quanto nata per ideali pa-triottici oltre che mercantili, ha faticato a imporsi: non la volevanessuno, e allora la potente macchina della propaganda si mettein moto. È la stessa che divide i doveri delle donne secondo il lorocenso e i loro compiti. Da una parte ci sono quelle che, escluse dal-le università e dalle professioni, dovranno guadagnare la metà de-gli uomini in lavori comuni, risparmiare, fare figli, non contare.Dall’altra ci sono quelle, pur irrilevanti ma ricche, che dovrannocontribuire all’economia nazionale spendendo fascisticamentein abiti, pellicce, gioielli, domestici, case, arredamenti, viaggi, arte,beneficenza.

In quegli anni i giornali femminili sono una quarantina e tutti alservizio del fascio nella costruzione della perfetta doppia donnamussoliniana. E i massimi pensatori colgono l’ennesima occa-sione, su quotidiani o anche in loro preziosi tomi, per dettare leg-ge alle donne che il regime sta cancellando chiudendole nei ruolidomestici, riproduttivi, decorativi. Le occasioni per infiammarlesono tante, per esempio il dono dell’oro alla Patria in guerra con-tro i selvaggi negri dell’Etiopia, e infatti accorrono generose neiluoghi di raccolta: 180mila fedi a Milano, 250mila a Roma, e per lapatriottica anche se antipatica cerimonia, è stato suggerito a chipuò di indossare «un vestito di velluto di un bel rosso cupo con lar-ghe maniche, con un cordone alla vita, dalla breve scollatura».

Convincere a vestire italiano le signore del regime, le aristocra-tiche, le donne dei gerarchi, le alto borghesi, le nuove ricche, le di-ve del teatro e del cinema, quelle che devono dare lustro alla nuo-va Italia imperiale, appare subito un’impresa titanica. Le sartoriepoi non sanno da che parte cominciare a inventare una moda lo-ro: qualche noioso suggerisce di ispirarsi ai nostri costumi regio-nali, fotografando la principessa di Piemonte addobbata da cio-ciara o meneghina, oppure alla nostra grande pittura. Purtroppol’hanno già fatto a Parigi: la mostra sul Rinascimento italiano al Pe-tit Palais ha suggerito a Chanel e ad altri suoi colleghi grandi cap-pelli leonardeschi, scarpine copiate da quelle di Sant’Orsola delCarpaccio. Alcune signore italiane per fortuna hanno accettato diposare alla mostra e tra loro c’è la bella contessa Nicky Visconti,che un sarto italiano, Ventura, ha vestito come una gentildonnadel Pisanello.

Ma il traffico con la moda parigina prosegue, anche le dame piùfasciste disubbidiscono: non resta che obbligarle per legge a farcontento il Duce. I metodi sono complicati, farraginosi, anche in-timidatori: si inventa un marchio di garanzia che una specialecommissione assegna ai modelli «di ideazione e produzione na-zionale» che le sartorie sono obbligate a inviare a proprie spese per

Modaautarchica

I vestiti di regimedella donna fascistaNATALIA ASPESI

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ottenere l’approvazione politica. Nelle vellutate sartorie in stile ro-cocò oppure razionalista, le collezioni devono presentare dappri-ma il 35%, poi il 50% di modelli con marchio di italianità, gli altriche siano pure di ispirazione francese se non addirittura originaliparigini. Ma la disubbidienza dilaga, le donne, si sa, sono leggere,inconsistenti, non sufficientemente littorie. E per esempio L’Illu-strazione Italiana che, con disciplina, molto si occupa di modascrive nella cronaca di una sfilata: «Le sarte, presentando i model-li italiani confezionati con stoffe e guarnizioni di pura fonte italia-na, davano un’occhiata inquieta e indagatrice alla cliente elegan-te, che mostrava di accogliere l’abito con sacrificio personale e losopportava come se avesse sopportato un saio, per un puro spiri-to di disciplina, mentre tutti i suoi sogni capricciosi di eleganza eso-tica si frangevano là, al confine, contro quelle porte ben chiuse».

Per convincere tutte quelle zuccone disfattiste, l’Ente costitui-sce un corpo di veri e propri funzionari di polizia giudiziaria che ir-rompono nelle sartorie per controllare l’italianità della produzio-ne, stabilendo multe pesanti per gli evasori: 500 lire a chi non de-nunci la sua attività all’Ente, da 100 a 5000 a chi sopprima il mar-chio di garanzia per far credere alla cliente che il modello sia fran-cese, da 500 a 2000 lire a quei sarti con tendenze delinquenziali chemettono in collezione una percentuale di abiti italiani inferiore aquella richiesta dal decreto o che pure, vergognandosene, non limostrano alle clienti nascondendoli in cantina. Tuttavia, anche sedi pura razza italiana, la moda, espressione di autonomia femmi-nile che potrebbe sfuggire all’imperio governativo, preoccupamolte grandi teste del pensiero fascista. E per esempio, in pienacampagna demografica, il numero è potenza, c’è chi si chiede: ildesiderio di eleganza non distoglierà i fragili cervelli delle donnedai compiti riproduttivi? Ai giornali femminili arrivano direttiveper eliminare fotografie e disegni di indossatrici sottili quindi pro-babilmente sterili; alle case di moda viene chiesto di non far più sfi-lare modelle «col passo di levriero e quel curioso atteggiamento distanchezza che incurva le spalle». Ci mette il naso anche lo scien-ziato Nicola Pende, quello che è contro lo sport e la cultura per ledonne, che stabilisce quale debba essere l’indossatrice fascistaideale: altezza 1,56/1,60, peso 55/60. Mussolini già dal ‘32 rivol-gendosi ai medici fascisti, aveva deplorato «la moda del dimagri-mento eccessivo». E adesso studi e congressi demografici stabili-scono che «l’eleganza è nettamente sfavorevole alla fecondità».

E anche la troppa, antipatriottica cura di sé. Infatti ecco il buonesempio di Grosseto dove sono più prolifiche le donne coi dentiguasti, anche se, peccato, su 391 donne prolifiche solo quattro han-no folti baffi. È già cominciato l’ostracismo a tutto ciò che è stra-niero, subito Lidel, Dea, Per voi Signora, Sovrana, La donna, la pro-na stampa fascista femminile, ma soprattutto quotidiani e rivisteculturali, rivolgendosi quasi sempre alle donne, si adeguano: ban-dire il tè e offrire rosolio, non ballare il fox ma riesumare la giga, eli-minare dalla casa tutti i prodotti stranieri, parlare solo l’italiano econ stranieri il latino, non far entrare in casa libri e giornali stranieri.«Meglio l’ignoranza dello snobismo». E soprattutto affidare i figli aistitutrici nostrane, evitando «tutte le mercenarie oltre confine,che iniettano nei nostri fanciulli i primi germi della xenolatria». Loscrive Umberto Notari, cui oggi un comune leghista potrebbe de-

dicare una piazza. Nel settembre del 1936 l’Ente Nazionale della Moda pubblica

un ponderoso, 500 pagine, Commentario Dizionario italiano del-la moda curato dal giornalista Cesare Meano. Il quale suggeriscecome liberarsi dalle parole straniere in un campo, quello dell’ab-bigliamento, in cui il francese e talvolta l’inglese regnano, sosti-tuendole con quelle italiane: per esempio non négligé ma disor-dine, non giarrettiera ma legacciolo, non damier ma scaccato,non jersey ma punto calza, non parure ma finimento, non pied-de-poule ma mille zampe, non tight ma velada, non sweater mavitamaglia, non trousse ma scarabattola, non chignon ma cigno-ne, non popeline ma papalina. Si sorride, ma non troppo: infattioggi le nostre riviste di moda sono per pigrizia e mancanza di fan-tasia praticamente scritte in inglese, come se l’italiano non lo co-noscesse più nessuno o come se il nostro Paese non contasse piùsul mercato dell’eleganza.

C’erano mezzi meno coercitivi per convincere le ricche si-gnore a vestire e parlare italiano? Con scarso successo l’Ente Mo-da pensò a quel mezzo popolare che è il cinema, e nel 1937 Ales-sandro Blasetti che avrebbe girato poi alcuni tra i più bei film an-teguerra, accettò di dirigere La contessa di Parma: un film allorastroncato dai colti critici di Bianco e Nero(«sarebbe bene che Bla-setti si impegnasse a non bazzicare più tra gli aristocratici, gli abi-ti alla moda, i grandi alberghi e le battute di spirito»), che oggi ri-sulta affascinante e percorso da ironia poco fascista. Si svolge inuna casa di mode torinese; la padrona è una milanesona di mo-di spicci; il direttore è un Umberto Melnati un po’ gay che infio-ra i suoi discorsi con termini francesi prontamente corretti dal-la signora; le due indossatrici sono Elisa Cegani e Maria Denis,povere e maltrattate; il ricco calciatore (anche allora!) è AntonioCenta. Magnifici interni anni Trenta, abiti italiani bellissimi. Male spettatrici continuarono ad amare e copiare, finché fu possi-bile, la moda dei film americani, esaltata dalle sottili MarleneDietrich, e Katherine Hepburn, persino da Deanna Durbin chepure vestiva malissimo.

Si sa quali disastri portarono poi alla moda l’autarchia e infinela guerra, anche se proprio in quegli anni di tragedia e penuria, ri-viste di grande eleganza come Bellezzache il regime aveva volutoper sostenere il lusso autarchico, cominciarono a mostrare i pro-gressi, la classe, la fantasia, l’audacia di una moda che avrebbe poiconquistato il mondo. Dal 1938, con le leggi razziali, la moda ita-liana ha un nuovo nemico: non più la moda francese ma quellagiudea, e le giornaliste operose nei loro giornaletti femminili pre-dicano l’eleganza della razza, il buon gusto ariano, segnalandoche le modelle troppo magre devono essere certamente ebree.Molte industrie dell’abbigliamento hanno dirigenti ebrei e sonostate fondate da ebrei: «Il fatto che gli industriali ebrei di Milanonon contino molto nella grande massa laboriosa e intraprenden-te non vuol dire che anche qui non si debba vedere chiaro nei lo-ro riguardi…», scrive il Corriere della Sera di quell’anno.

A guerra iniziata, mentre il governo continua a predicare il do-vere dell’eleganza per sostenere l’industria tessile promuovendomostre di abbigliamento e feste lussuose, ovviamente riservate al-le ricche signore del regime, si intensificano i moralismi di alcuniesponenti fascisti e soprattutto dalla Chiesa. Qualcuno accusa: ilregime non fa abbastanza per difendere il pudore, e con la scusadella necessità di non sprecare tessuto si proibiscono, oltre lo stra-scico, anche i pantaloni femminili. La Donna Fascistagiudica se-veramente i pantaloni, che sono borghesi, volgari e mascoliniz-zano: «L’estate scorsa sono state pure fischiate e costrette a riti-rarsi alcune signore e signorine che per le vie di una città non bal-neare indossavano attillati pantaloncini…». La lunga battagliacontro il peccaminoso corpo femminile ingaggiata dalle gerar-chie cattoliche culmina il 22 maggio 1941, quando Papa Pio XII in-dice «la crociata della purezza». E davanti alle 4000 socie della Gio-ventù Femminile dell’Azione Cattolica parla non della guerra,non dei bombardamenti della flotta inglese su Genova, non dei60mila uomini partiti per la Russia, non della drammatica offen-siva in Grecia, né della perdita di Addis Abeba, tragici eventi degliultimi mesi. Altre sono «le spaventevoli minacce per l’ordine so-ciale e l’avvenire delle nazioni»: per esempio, «non è forse sotto gliocchi di tutti una moda ardita, indecorosa per una giovane cri-stianamente cresciuta?... Non è Nostro proposito di rintracciarequi il triste e troppo noto quadro dei disordini che si affacciano aivostri occhi, vesti così esigue o tali da sembrar fatte piuttosto perporre in maggior rilievo ciò che dovrebbero velare…».

Ma la moda non si arrende, né al Papa, né alla guerra, né alla fa-me, né alla mancanza di tutto, né alla certezza della sconfitta: El-sa Robiola sul numero di novembre del 1944 di Bellezza raccontadel suo perigrinare di sfilata in sfilata, nelle macerie di Milano: «Visono momenti di smarrimento in cui ci si chiede come è possibi-le che tutto ciò esista ancora… Ma tutti soffriamo, e forse la modaesiste perché la sua immagine, di una bellezza che rinasce ognigiorno, ci aiuta a reprimere singhiozzi e lacrime…». Pochi mesidopo la guerra è finita, tutto del fascismo (allora) viene cancella-to. Ma la moda, che pure aveva disubbidito e resistito contro i dik-tat del regime, si scopriva, finalmente, italiana.

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 30 OTTOBRE 2005

MODELLO ITALIANOSotto, sfilata di modelli

in tessuto raion fiocco organizzata

dalla Snia Viscosa nel 1937

Accanto: un manifesto di Dudovich

per “La Rinascente”

(raccolta Bertarelli). A sinistra,

una locandina pubblicitaria

fascista sui prodotti italiani

INNO ALLA SEDUZIONESandalo in rafia creato

da Ferragamo nel 1935

A centro pagina,

un olio su tavola

di Cagnaccio di San Pietro

intitolato “Ritratto

della signora Vighi”

(1930-1936) collezione

privata

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La prossima estate sarà aperto al pubblico l’archivio del grande regista,assegnato alla “University of the Arts”di Londra. Raccoglierà pellicole,sceneggiature, schizzi, manoscritti, libri e strumenti di lavoro. Ma non solo:

fra i materiali esposti ci saranno anche le immagini scattate dall’autore di “2001 Odisseanello spazio” per la rivista “Look” all’inizio della carriera, dalle quali si intuiscel’attitudine a far recitare i suoi soggetti. Anche quando appartenevano alla realtà

42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 30 OTTOBRE 2005

LONDRA

Che cosa ha voluto esatta-mente dire con 2001 Odis-sea nello spazio? StanleyKubrick avrà letto e ascol-

tato questa domanda migliaia di volte,dal giorno del 1968 in cui il suo capola-voro apparve nelle sale cinematografi-che. Se ne aveva voglia, di solito rispon-deva così: «Non ho cercato di esprime-re qualcosa a parole. “2001” è un’espe-rienza visuale, non verbale, un tentati-vo di aggirare il parlato per penetraredirettamente il subconscio con un con-tenuto emozionale e filosofico». È bel-lo pensare che, quando l’Archivio Ku-brick sarà inaugurato l’estate prossimaalla University of the Arts di Londra,studiosi e appassionati di cinemaavranno la sensazione di penetrare ilsubcosciente del grande regista: e fru-gandovi dentro, chissà, forse troveran-no finalmente il pieno significato emo-zionale e filosofico dei suoi film.

L’archivio comprende pellicole, fo-tografie, sceneggiature, schizzi, mano-scritti, appunti, lettere, mappe, libri,schedari, più una enorme quantità dimateriale vario, dalle sue prediletteboccette d’inchiostro marrone a unasterminata collezione di cartoline, percitarne un paio: Kubrick non gettavamai via niente. Gli archivisti della Uni-versity of the Arts hanno impiegato ot-to mesi a catalogare tutto quanto, lavo-rando da dodici a quindici ore al giornonella sua fattoria dello Hertfordshire,nella campagna a nord della capitale,ma nessuno di loro sarebbe stato cosìfolle da lamentarsi. L’Archivio Kubrickè uno dei più straordinari tesori dellacinematografia mondiale: due decinedi università e centri studi internazio-nali speravano di accaparrarselo, spe-cialmente negli Stati Uniti, dove il regi-sta era nato e cresciuto. Soltanto neigiorni scorsi la vedova, Christiane, ha

preso la decisione di assegnarlo invecea un ateneo in Inghilterra, dove Ku-brick si trasferì nel 1969 con la famigliae da cui non si mosse più per trent’an-ni, rimanendovi fino alla morte, avve-nuta nel 1999, quando aveva set-tant’anni e da pochi giorni aveva termi-nato di montare Eyes Wide Shut. Lascelta è caduta così sulla prestigiosauniversità londinese che riunisce cin-que “collegi” dedicati alle arti: nessunodei quali, tuttavia, disponeva di unospazio abbastanza grande per ospitaredegnamente il monumentale archivio.Nel dubbio, la University of the Arts hapreferito costruire da zero un edificioapposito, a Elephant and Castle, chesuona come il titolo di un film mentre èsolo un quartiere a sud del Tamigi.

In attesa che l’Archivio Kubrick spa-lanchi le porte, a una data ancora im-

precisata dell’estate 2006, ci si può giàfare un’idea di che cosa conterrà con-sultando un magnifico, ingombrante epesantissimo volume, The Stanley Ku-brick Archives (Taschen Editore), pub-blicato all’inizio di quest’anno negliStati Uniti e ora in uscita anche a Lon-dra e nel resto d’Europa. Tra la corri-spondenza privata con la moglie di Vla-dimir Nabokov, l’autore di Lolita da cuiKubrick trasse l’omonimo film, le boz-ze di progetti mai realizzati, come quel-lo di una pellicola su Napoleone, le let-tere inviategli dai fans, con le copie del-le sue risposte («caro mister William,grazie per avermi scritto. No commentsu Arancia meccanica. Dovrà decidereda solo cosa pensarne. Sinceramentesuo, S. K.»); tra le immagini che lo ri-prendono sul set accanto a Kirk Dou-glas in Spartacus, a Peter Sellers in Dot-tor Stranamore, a Malcom McDowellin Arancia meccanica, a Ryan O’Neal inBarry Lindon o a Jack Nicholson in Shi-ning; tra le registrazioni delle sue inter-viste più famose, come quella lunghis-sima al mensile Playboy, le correzionivergate a mano su testi dattiloscritti, letestimonianze di critici, colleghi, ami-ci, le raffiche di battute che ad essi re-galava («se è vero che Hemingway eraubriaco anche quando scriveva, dovròprocurarmi una di quelle bottiglie emandarla ai miei sceneggiatori»), lecinquecento e passa pagine del librosembrano effettivamente un viaggionella psiche del regista. Riassumerlo dacima a fondo è impossibile, nello spa-zio di un giornale: è un viaggio che sipuò fare soltanto visitando l’archivio dipietra, non appena sarà pronto, o al-meno sfogliando quello di carta.

È però possibile rivisitare, attraverso illibro, un capitolo della sua storia: il pri-mo. Che racchiude una sorpresa, alme-no per i non addetti ai lavori che cono-scono Kubrick soprattutto tramite i suoifilm. Il regista aveva fama di recluso, ap-partato, solitario: eppure iniziò la suacarriera come fotoreporter, nella febbri-le redazione di un grande giornalenewyorchese. Kubrick era nato nelBronx, in una famiglia ebraica. A diecianni, suo padre, medico con la passione

Amava metterein posa i personaggicome attori sul setper fargli assumerel’espressione giusta:spesso piùche semplici “click”i suoi eranoveri e propri “ciak”

ENRICO FRANCESCHINI

Lo sguardo

Kubrickdi

Il primo talento del giovane Stanley

della fotografia, gli regalò una macchinafotografica, e fu un segno del destino.Stanley la teneva sempre in mano o ap-pesa al collo. Insieme a un amico con lamedesima passione, imparò a sviluppa-re e stampare fotografie in una rudimen-tale camera oscura. I suoi primi scatti fu-rono per il giornale della high-school:piacquero, e divenne un’abitudine. Ascuola era un disastro, marinava le lezio-ni, prendeva pessimi voti, rifiutava distudiare: ma una volta gli fecero un testper il quoziente d’intelligenza e risultòche ce lo aveva più alto di tutti i suoi com-pagni. Aveva 16 anni nell’aprile del 1945,poche settimane prima della fine dellaseconda guerra mondiale, quando l’A-merica fu scioccata dalla morte del pre-sidente Roosevelt. Stanley stava andan-do a scuola, con l’inseparabile macchinafotografica a tracolla, e rimase colpitodall’immagine di un edicolante con l’a-ria triste, il volto incorniciato dalle lo-candine dei giornali che annunciavanola scomparsa di Roosevelt. Scattò una fo-R

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 30 OTTOBRE 2005

to, ma anziché proporla al giornale dellascuola ebbe l’impudenza di andare a of-frirla giù a Manhattan al caporedattorefotografico di Look, la rivista che compe-teva con Life per il fotogiornalismo mi-gliore di quell’epoca. Gliela compraronoper 25 dollari, senza sapere che l’imma-gine non era del tutto spontanea: Stanleyaveva messo in posa l’edicolante, siste-mandolo nella posizione giusta, gli ave-va spiegato che espressione doveva as-sumere. Insomma: lo aveva diretto, co-me un regista con un attore sul set. Erastato il suo primo “ciak”.

Uscendo estasiato dagli uffici diLook, quel giorno del 1945, Kubricknotò l’arena, come si chiamava in ger-go la stanza in cui i fotografi free-lancestavano ad aspettare un incarico. Benpresto entrò anche lui a far parte diquell’arena; e a nemmeno 18 anni,quando si diplomò con un voto cosìbasso che la maggior parte delle uni-versità lo avrebbero rifiutato, venne as-sunto come apprendista fotografo a

Look. Ci rimase quattro anni, salendorapidamente di gradino in gradino finoa diventarne uno degli astri nascenti,uno dei giovani fotoreporter a cui sipronosticava un grande futuro. Foto-grafava di tutto: pugili sul ring, clientinella sala d’aspetto di un dentista, pas-seggeri sulla metropolitana, zoo e gal-lerie d’arte, circhi e jazz bands, BabbiNatale e ballerine di night-club, mo-nelli di strada e celebrità. Il suo model-lo di riferimento era Arthur Fellig, uneccentrico paparazzo dei tabloid po-polari più noto col nome d’arte di“Weegee”, di cui si diceva che riuscivaad arrivare sulla scena di un delitto an-cora prima della polizia. La specialità diWeegee era cogliere l’attimo fuggente,l’istante in cui il suo soggetto abbassa-va la guardia e rivelava se stesso: e Ku-brick imparò a imitare la pazienza el’invisibilità del suo maestro. Intantoaffinava il suo stile visuale, il suo sensodella composizione e del movimento,cambiando angolazioni, creandomontaggi, alternando primi piani ecampi lunghi, come se fra le mani aves-

Un paranoico è qualcuno inpieno possesso dei fatti:era uno dei motti preferiti

di Stanley Kubrick, la risposta achi si stupiva dei dodici cartelli in-timidatori — Keep out, No entry,Watch the dog, Go away, Strictlyprivate, Don’t stop… — appesi inevidenza sul cancello della villanello Hertfordshire, per altro lon-tana dalla strada principale, iso-lata. Kubrick era «un cinico con-vinto che il peggio dovesse anco-ra venire», come dice di luiAlexander Walker, uno dei pochigiornalisti con cui ebbe un lungolegame di amicizia, sia pure ca-priccioso, come quando Walkerricevette un’aspra telefonata not-turna dal maestro che lo accusavadella partecipazione al festival diManila e del sostegno ad un regi-me corrotto: fu punito con dueanni di silenzio.

La paranoia e l’estrema diffi-denza di Kubrick erano ancorapiù impressionanti se si aveva ilprivilegio di essere ammessi al-l’interno. Prima di tutto la cucina,grandissima, con un gigantescotavolo rettangolare, usato sia perle riunioni di lavoro sia per i pasti,nei quali la cucina italiana era fre-quente, in particolare gli spaghet-ti alla puttanesca, ai quali lo ave-va introdotto Riccardo Aragno,l’amico scrittore a cui affidava ildoppiaggio italiano dei suoi film.Naturalmente con il massimo delcontrollo, era lui a scegliere le vo-ci che Aragno gli inviava registra-te ed era lui che, con lunghe te-lefonate Roma-Londra, ascoltavai dialoghi doppiati e selezionava.Non conoscendo l’italiano, giu-dicava non dalle parole bensì dal-l’armonia dei suoni. È leggendal’attenzione pignola ai dettagli:quando Arancia meccanica fu in-vitato a Venezia, mandò alla Mo-stra i suoi macchinari per la proie-zione; e quando seppe che in uncinema di Tokio, dov’era in pro-gramma un suo film, lo schermoera troppo vicino alla platea, feceeliminare le prime due file di pol-trone.

Se nella cucina il clima era ingenere conviviale e la conversa-zione teneva conto delle caratte-ristiche degli ospiti — agli italianiera richiesta ogni informazionepossibile sul lavoro, i film e i pro-getti di Fellini — il passaggio nel-l’immenso salone ricreava in-quietudine: comode poltronesparse senza ordine, spazi inter-rotti da alti scaffali, alcuni colmidi dischi e cassette, altri con le piùmoderne attrezzature video e au-dio, e un numero incalcolabile diarmadi alle pareti, scuri, pesanti,misteriosi. Con un prezioso slan-cio di cordialità, il maestro svela-va che le file di adesivi scritti a ma-no su un paio degli armadi eranoper il film su Napoleone, divisecon maniacale precisione in se-quenze interne ed esterne, con osenza dialoghi, con uno o più per-sonaggi, con animali o senza.

Mentre parlava, il suo sguardomagnetico si accendeva, seduce-va gli ospiti, ma guai a chiedergli ilcontenuto degli altri armadi, era-no l’archivio personale di una vi-ta, solo sua moglie Christiane neconosceva i segreti. Con gli ospiti,se mai, si divertiva ad illustrare icodici segreti che inventava percomunicare con i collaboratoridurante le riprese di un film, per-ché «è bene non fidarsi», diceva.«Su un set si infiltrano spie e ma-scalzoni, come su un campo dibattaglia. Se Napoleone avesseusato più cautela nel comunicarecon i suoi generali, il suo destinoforse sarebbe stato diverso».

In quelle carteun genialeparanoico

MARIA PIA FUSCO

se già una cinepresa. Un giorno se ne procurò una e decise

di girare sotto forma di cortometraggiodi sedici minuti il reportage fotograficosu un pugile che aveva fatto per Look. Ilbudget fu di appena 3.500 dollari, rag-granellati sommando tutti i suoi rispar-mi a un prestito del padre e dello zio.Dopo varie tribolazioni riuscì a vende-re il suo Day of the Fight (Giorno delcombattimento) alla Rko, una casa didistribuzione cinematografica, cheaveva bisogno di brevi documentari datrasmettere prima dei film nelle sale ci-nematografiche: ne ricavò un profittodi appena cento dollari, ma con l’ag-giunta di un contratto per un secondocortometraggio. Si licenziò da Look,abbandonò la macchina fotografica,imbracciò la macchina da presa: e il re-sto è storia. Come diavolo le è venuto inmente il finale di “2001”?, gli chieseromolti anni dopo. «Non lo so», risposeStanley Kubrick. «Come viene in men-te qualunque cosa a chicchessia?».

I RITRATTI

Le foto in queste pagine sono tratte dal volume

“The Stanley Kubrick Archives”, edito

da Taschen e uscito negli Stati Uniti nella prima

metà di quest’anno. Sotto, i provini a contatto

di una serie di autoscatti del regista. A sinistra,

il regista con la macchina fotografica sul set

del film “Spartacus”. In basso e nella pagina

accanto, foto scattate da Kubrick negli anni

della sua attività da fotoreporter e pubblicate

dalla rivista americana “Look”

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spettacoliOpinion maker

Il padre-padronedi Radio Deejay

oggi compie 48 anni“Più invecchio

e più divento zen:non mi arrendo

alla curva, non deviessere un barbaro

per avere successo”

DIRETTORE ARTISTICONella foto sopra, Linus

(Pasquale di Molfetta),

direttore artistico

di Radio Deejay

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45DOMENICA 30 OTTOBRE 2005

ANTONIO DIPOLLINA

MILANO

Si è alzato, stamattina, hapreso atto del 48esimo annod’età compiuto e poi, più omeno come sempre, si è

messo a correre. E come spesso accade,c’erano anche molte altre persone checorrevano con lui. Domenica prossi-ma, saranno alcune decine di migliaia,ma quella sarà la Maratona di New Yorke lì, insomma, è piuttosto facile racco-gliere le iscrizioni. Quella di stamatti-na, invece, a Milano in zona San Siro èla prima edizione della Deejay Ten, ov-vero la maratonina di dieci chilometriche Linus ha organizzato in proprio,chiamando a raccolta amici e ascolta-tori della radio per dimostrare che nonce n’è, si può essere il dj radiofonico piùfamoso d’Italia della radio più ascolta-ta, ma quando prende l’impallinamen-to per qualcosa — e la corsa è tra le piùinnocue del mondo — non ci sono san-ti che tengano.

Quindi il buon Linus è indaffaratissi-mo e tutto mentre il panorama radiofo-nico italiano sta vivendo un periodo disobbalzi come non si registrava da tem-po immemorabile. Entrano grandigruppi in gioco, si anima un mercato —quello dei conduttori — che prima nonc’era e così via. Roba vera? «È una fasedelicata, sono arrivate due nuove radiodi impronta generalista, il rischio è cheinvece di diversificare l’offerta si vadaverso la marmellata di stampo televisi-vo, con un’omologazione molto forte.Il rischio, insomma, è di sentire ovun-que la stessa musica». Ma non era giàabbastanza così: «Un po’, ma non c’è li-mite al peggio, se lo si vuole».

Poi è successo che in piena estate laridefinizione del quadro abbia scoper-chiato qualche pentola: le radio hannopreso a rubarsi i conduttori l’un l’altra,in questi passaggi sono volate polemi-che e frasi pesanti finite sui giornali e al-la fine, in quelli che hanno seguito le vi-cende, è emersa la figura di un Linus de-finito come un mezzo despota, o anchedi più. Va da sé che le accuse arrivava-no da chi se ne andava dalla radio, mainsomma il padre-padrone di RadioDeejay prendeva a entrare nell’icono-grafia ufficiale come uno cattivo, catti-vissimo: «Su questa rappresentazionedi me stesso ci ho sempre giocato, inrealtà, e chi mi conosce bene lo sa. Do-podiché ho un ruolo da allenatore e de-vo fare delle scelte. A quel punto scattala sindrome da fidanzata delusa, equelli che rimangono bocciati hannosolo due alternative: una è quella di di-re che se ne sono andati loro». E l’altra?«Di dire che sono uno stronzo». Ecco.

«Io non ricordo di aver mai litigato dav-vero con nessuno. Solo una volta, annifa, forse, con Enrico Silvestrin, una co-sa pesante. Poi è finita subito, siamo inbuonissimi rapporti oggi». L’allenato-re, diceva: «Si è capito che il migliore,per me, è Fabio Capello?». Non solo perquestioni di Juventus, giusto? «Il basto-ne e la carota, ben alternati, sarannoanche un metodo banale e antico, ma èquello che funziona di più. Altrimentinon sarai mai capace di far rendere unocome Cassano e subito dopo uno comeIbrahimovic».

A onta della quasi mezz’età portata dicorsa, Linus continua a essere uno deipiù ricercati quando si vuole un pareresul pubblico, giovane e meno giovane,e tendenze varie. Il suo posto d’osser-vazione fisso, quello della mattina inradio, quandova in onda conNicola Savinoe si fionda sul-l’attualità intutte le sue for-me, e dall’altraparte piovonomail e sms, ec-co, quello è dasempre rite-nuto un postod’osservazio-ne privilegia-to, anche se lamedia d’etàdegli ascolta-tori tende fa-talmente a sa-lire. E che stasuccedendo,ora? «Il cam-biamento piùforte è in peg-gio, inutile ne-garlo: sento una u m e n t osproporziona-to della fazio-sità e dei toniforti. Controtutto e tutti,purché si siacontrapposti.E tutto nascedall’incrociodell’aumentodi superficia-lità nel valuta-re quello chesuccede, unitoa quella che èormai un’or-gia di comuni-cazione, dipossibilità diaccesso im-mediato fa-cendosi senti-re: i messaggini, le mail, il voler esserci.E tutto porta ad aumentare il tifo da sta-dio, quello becero, le fazioni contrap-poste a prescindere. Con regolarità midanno del comunista di m... oppure

dello schiavo di Berlusconi, così tantoper fare qualcosa. Succedeva ancheprima, chiaro, ma negli ultimi tempi laquantità di ultras della situazione staaumentando a vista d’occhio».

Bene, anzi male, malissimo. Come siresiste? «A seconda della propria indo-le. In radio c’è uno come Platinette cheprende la questione in maniera fronta-le, se arriva una mail di insulti la legge esi mette a discutere. A me, nel corso del-la mattinata, arrivano almeno duemilamessaggi, io metto dei paletti, la perso-na che mi seleziona le mail sa che devecestinare quelle rissose a prescindere.E questo nasce anche dal fatto che piùinvecchio è più divento zen, sto nelmio, faccio il mio, come si dice, non minego un’opinione su nulla, batto sul-l’attualità e sulle cose che succedono e

non mi arren-do alla curva,agli insult icontrapposti».

Ma la radionon era un’i-sola fel ice?«Dipende, lo ènel momentoin cui possia-mo esprimereopinioni mol-to forti o pe-santi su qual-cosa: in quelmomento dal-l’altra parte hopiù ascoltatoridi certi pro-grammi televi-sivi, ma la me-desima cosadetta in tv sca-tenerebbe ma-gari interroga-zioni parla-mentari, in ra-dio non succe-de nulla». Ilpunto è che laderiva di cuiparla ha chia-rissimi accentitelevisivi: «Se-condo me lacausa princi-pale è questos t r a b o r d a r edella possibi-lità di accessoda parte delpubblico. Poi èchiaro, il mo-dello è quellodel dividersitra Albano e laLecciso, o ledialettiche deireality, in par-

ticolare quelli più scemi. Ma anche suquesto tendo a manifestare tranquil-lità: facciano come credono, io faccio ilmio, non è necessario essere barbariper avere successo».

No? «È una questione di volontà, in tvne hanno poca». Giusto, e la tv in sensopiù ampio? «Non me ne faccio un pro-blema, tra poco lanceremo un esperi-mento di radio in tv ma sarà nello spiri-to giusto, per fare qualcosa di diverso,magari innovativo, con idee forse unpo’ matte. Il problema in tv è che i mat-ti non ci sono». Ne è certo? «Quelli chefanno del bene, come Enrico Ghezzi inRai. La Rai, almeno ha lui. Mediasetnon ha nessuno così». Ma come, e il di-rettore di Italia Uno Tiraboschi? «Nonscherziamo, lui la sua follia la sfoga al-l’esterno, disegnando bei fumetti escrivendo libri. Nel momento in cuitorna in ufficio, il suo gruppo comico diriferimento rimane la Premiata Ditta».

La tv è anche quella attuale del ciclo-ne Celentano. Lei, nel 2001, è stato tragli autori di 125 milioni di c…zate. Vistoda fuori, ora? «A me ha fatto molto ride-re la questione del paladino della sini-stra e della libertà d’espressione». Sì?«Riferito a Celentano, al suo personag-gio, c’è da ridere, certo. Lui è naif, èsempre lo stesso, si appassiona a quel-lo che vede, non sa nulla di quello chenon vede. È stato per trent’anni al cen-tro della scena, poi i problemi della no-torietà lo hanno costretto a vivere comeun recluso. Si è adattato: guarda la tele-visione e parla con la televisione. Cioè,un po’ lo facciamo tutti, ma lui esagera.E quando ogni tot di anni ha il pro-gramma, butta dentro tutto quello cheha accumulato, ma è per forza di cosesuperficiale, fuori c’è tutto un mondoche lui non sa nemmeno com’è fatto.Ecco, a Celentano manca un bar, infondo, dove andare a discutere con gliamici come faceva da giovane: se si po-tesse sfogare ogni tanto al bar, in tv po-trebbe andare a fare ben altro». Micamale. «Lui ha una forza espressiva fuo-ri dal comune, però piange il cuore a ve-derlo esaltare la Milano degli anni Ses-santa: quella Milano faceva schifo, malui non è mai uscito da lì, dalla viaGluck, che era brutta anch’essa». Ma iltema che riguarda per esempio Santo-ro non era superficiale… «Lui sa cheSantoro portato lì in quel modo fa col-po, sa che se ne parlerà. Ma la sinistrache lo esalta per quello, e la destra chelo attacca per gli stessi motivi, beh, lorofanno ridere». Ma il rock e il lento han-no funzionato, no? «Una buona trova-ta. E finisce lì. È quel genere di arma-mentario mediatico che funziona suimedia, appunto, e che poi va a sbatterenella realtà. Immagino che se l’avessefatto prima delle Primarie del centrosi-nistra, quello rock sarebbe stato Scalfa-rotto. Che poi prende lo 0,4 per cento. Omagari che quello lento è Cofferati chedifende la legalità. Invece Cofferati èrock, altroché se è rock…».

Linus.Ho un’idea pazzauna radio dentro la tv

L’IMPERO DEEJAY

RADIO DEEJAY

L’emittente nasce

a Milano il 1° febbraio 1982

dalle ceneri di Radio Music.

Il fondatore è il dj Claudio

Cecchetto (foto). La prima

voce a parlare è quella

di Ronny Hanson

DEEJAY TELEVISION

Nel 1983 esplode

la trasmissione a base

di videoclip. Il conduttore

storico è Linus

Tra i personaggi lanciati

anche Gerry Scotti,

Fiorello e Jovanotti (foto)

DEEJAY TV

La nuova formula televisiva

continua con il lancio

del canale satellitare

in chiaro Deejay Tv,

che inizia le trasmissioni

il 25 dicembre 2000.

Nella foto Albertino

Stylos Pasha de Cartier

www.cartier.com

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i saporiAutunno in tavola

Considerato da sempre “cibo povero”, l’ortaggio più robusto(e tra i meno calorici) della natura vive domani, nottedi Halloween, il suo momento di gloria. Ma non sarà l’unicoRiscoperta dai grandi chef, la sua polpa arancioneè diventata negli ultimi anni protagonista di prelibatissimiprimi piatti e di spumeggianti dessert

46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 30 OTTOBRE 2005

Marina di Chioggia La zucca di Cenerentola

(cucurbita maxima)

in versione mini

ha la caratteristica forma

globosa, schiacciata

ai poli. Verde scuro,

ha polpa asciutta. Adatta

per la cottura al forno

e per il ripieno dei tortelli

Trombetta ligure Coltivata a pergolato

e raccolta acerba in estate,

quand’è ancora piccola

(tipo zucchina), tenera

e dolce, vanta una forma

allungata, ingrossata

a una estremità. Verde

chiaro-nocciola, è tipica

della zona di Albenga

Piena di Napoli La campionessa

delle zucche torte

(cucurbita moschata),

simile a una lunga clava

è di un bel verde striato

d’arancio, ha polpa gialla,

farinosa e dolciastra.

Matura in inverno. Si usa

nelle minestre campane

Ornamentale Varietà come la Quintale

americana, la Turbante

e la Lagenaria sono

perfette per decorare

Già i Romani utilizzavano

la zucca del Pellegrino,

dopo averla essiccata

e svuotata, come

borraccia o per ciotole

LE VARIETÀ

Potete comprarla già pronta. Oppure optare peril kit fai-da-te con tutto il necessario già dosato,un po’ come le parole crociate facilitate. Se in-vece siete maestri d’intaglio, affilate il coltelli-no: domani è Halloween, trick or treat, scher-zetti o dolcetti?

Tutto ruota intorno alla zucca, il vegetale più fertile del-l’immaginario collettivo infantile. Quale ex bambina non hasognato di salire sulla carrozza di Cenerentola, con o senzascarpina? Quale bambino non si è crogiolato nell’idea di in-filare la testolina in una mega-zucca e stordire di paura mae-stro e compagni di classe?

La festa d’importazione americana ci appartiene pochis-simo: l’abbiamo subita come una moda vagamente scom-biccherata, facendola nostra senz’altro scopo che disegnareorbite vuote in un paio di vecchi lenzuoli per il più scontato,finto-macabro travestimento da festa notturna.

Ci appartiene molto, invece, la zucca, che vive i suoi gior-ni di gloria con l’addentrarsi dell’autunno nel tempo piùprossimo all’inverno: dicono i contadini d’antan che la zuc-

ca più prelibata, ovvero asciutta, soda, dolce, farinosa, devestaccarsi naturalmente dal picciolo. E che questo succedepiù facilmente dopo la prima gelata.

Aspettiamo che faccia freddo davvero? Possiamo tampo-nare gli effetti di questo autunno semi-tropicale comprandoquelle più piccole e pronte, magari lasciandole qualche not-te sul terrazzino. Pratica che però ci farà rinunciare al sup-porto meritorio dell’ortolano (se gentile), pronto a spaccarela zucca — ortaggio di rara durezza, roba da far invidia allecarote più robuste — e tagliarla a pezzi, così da risparmiarcipericolosi incontri ravvicinati con il coltello più grosso, e ri-schioso, della cucina di casa.

Il gioco vale la candela, anzi la zucca. Perché se è vero che,come per quasi tutti gli ingredienti “poveri”, abbiamo di-simparato a utilizzarla limitando il consumo ai fiori (quelli sìdifficili da rendere gustosi), recuperarne le ricette è un eser-cizio benefico. Lo scrittore Giuseppe Pederiali sostiene chenegare a un affamato l’esistenza della zucca è come negare aun uomo l’esistenza di Dio, cioè togliergli la fede e la speran-za per continuare. Come dargli torto?

Intanto lei, la zucca, è robusta e indipendente: si difendebenissimo dai parassiti senza bisogno di additivi chimici, e

cresce su tutti i terreni, compresi quelli meno vocati, riman-dando al mittente anche i fertilizzanti. E poi è sana, sanissi-ma: una vera miniera di sali minerali, zuccheri, vitamine, an-tiossidanti, potassio, selenio, betacarotene. Il tutto, con uncarico calorico risibile, 17 kc per etto (i condimenti natural-mente vanno calcolati a parte): se siete a dieta, la crema dizucca è tra i piatti ipocalorici che meno vi faranno sentirereietti e depressi… In più, rispetto alle verdure biologiche,che vanno comprate fresche perché marciscono in un amen,e a quelle convenzionali, a rischio-pesticidi, la zucca la com-pri e te la dimentichi: purché lasciata intera, infatti, si con-serva per intere settimane.

Ci si allestisce un menù intero. E di grande soddisfazionegustativa: crocchette, minestra, tortelli, puré, torta. Oppureun piatto solo, che però vale il pasto: il risotto “all’onda”, ar-ricchito di volta in volta con salsiccia, taleggio, fegatini è ununicum in grado di mandare contemporaneamente in orbi-ta neuroni del palato e trigliceridi. Non a caso, i migliori chefin circolazione costruiscono intorno alla zucca le più golose,irresistibili ricette invernali.

Vuoto come una zucca, dicono. Che marchiano errore divalutazione.

LICIA GRANELLO

Zuccala

La specie si chiama“cucurbita maxima”,cresce facilmentesu tutti i terrenisenza pesticidi,ed è una vera riservadi sali mineralizuccheri e vitamine

Èmagica, basta da sola a fare un menù

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47DOMENICA 30 OTTOBRE 2005

Lo chefIgles Corelligestiscea Ostellatoinsiemealla moglie Piauna locanda

di rara bellezzanaturalistica e di golositàlegata al territorio: piatticome i cappellacci di zuccacon sesamo e aranciatestimoniano la passioneper erbe, spezie, fiori e frutti

Appoggiato

sulle alture

di Genova

Bolzaneto,

nella Valle Polcevera,

fa parte della World

Pumpkin Federation,

che riunisce i luoghi

del mondo votati

alla cultura della zucca. Nel secondo e terzo weekend

di novembre ospita “Dalla A alla Zucca”

DOVE DORMIREAGRITURISMO DU SUI

Via Belgrano 13-15, Bolzaneto

Telefono 010-7170068

Camera doppia da 80 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREANTICA OSTERIA A NINA

Via Fratelli Canepa 40, Castagna

Tel. 010-75165

Chiuso domenica, menù da 25 euro

DOVE COMPRAREORTOFRUTTA NASSO

Mercato Coperto Box 13-14

Via Oldoini

Tel. 010-7457407

Murta (Ge)La cittadina natale

di Maria Goretti,

circondata

da una bellissima,

intatta, cerchia

di mura che risale al XV

secolo e iscritta

tra i cento borghi

più belli d’Italia, ospita

ogni fine ottobre la “Festa delle Streghe”, che l’anno

scorso ha avuto 70.000 visitatori

DOVE DORMIREI TIGLI

Via Del Teatro 31

Tel. 071-7975849

Con cucina

DOVE MANGIAREAI 9 TAROCCHI

Via Dietro le monache 8

Tel.0717-976277

Chiuso mercoledì, menù da 25 euro

DOVE COMPRAREAZIENDA AGRICOLA BIOLOGICA

S.LORENZETTO

Via S. Lorenzetto 18/A

Tel. 333-4315453

Corinaldo (An)Fondata dai romani

a un passo dal Po,

ospita l’oasi naturale

delle Vallette, estesa

tra l’Idrovia ferrarese

e i canali

della bonifica,

con oltre 150 specie

di uccelli. L’evento

“Zucca a tavola…e in piazza!” coinvolge la città

e i suoi dintorni nei weekend di novembre

DOVE DORMIREVILLA BELFIORE (con cucina)

Via Pioppa 27

Tel. 0533-681164

Camera doppia da 90 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIARELOCANDA DELLA TAMERICE (con camere)

Via Argine Mezzano 2

Tel.0533-680795

Chiuso lunedì e martedì, menù da 40 euro

DOVE COMPRARE COOPERATIVA AGRICOLA

BOTTEGA DELLE VALLI

Via Argine Mezzano 1

Tel. 0533-680757

Ostellato (Fe)

itinerari

Culla e sepolcro, un simbolo ambiguoSud America, Cina, Europa, Stati Uniti: la “cucurbita” è protagonista

MARINO NIOLA

Simbolo universale di stupidità e al tempostesso nutrimento essenziale dell’intelli-genza. La zucca è un tipico esempio del-

l’ambivalenza dei simboli. Nata in Sud Ameri-ca, la regina delle cucurbitacee si è diffusa intutto il mondo conservando sempre unastraordinaria capacità di colpire l’immagina-rio. Un po’ per la sua forma, talvolta sferica tal-volta fallica, un po’ per le sue dimensioni im-ponenti che le hanno valso fra i botanici il no-me di cucurbita maxima.

È la somiglianza con la testa umana la ragio-ne principale dell’associazione tra la zucca el’intelligenza. Se infatti l’esterno della cucurbi-ta non è che un contenitore, una calotta protet-tiva, quel che conta è ciò che si trova dentro: insenso reale la polpa, in senso figurato il senno.Dal Messico alla Cina, dall’Africa Nera al Medi-terraneo i semi di zucca vengono da sempreconsiderati il carburante del cervello, un vero eproprio moltiplicatore di materia grigia. Unconcentrato di potenza, materiale e spiritualeche ha dato vita a un’infinità di miti e credenze.

Gli stregoni hawajiani catturavano le ani-me, le imprigionavano nelle zucche e le dava-no in pasto, dietro lauto compenso, a coloroche volevano incrementare la loro perfor-mance psico-fisica. E ancora oggi gli sciama-ni sudamericani fanno risuonare la voce deglispiriti agitando i loro sonagli di zucca pieni disemi. Gli Apinayé, e altri popoli amazzonici,fanno addirittura discendere l’uomo dallazucca. Secondo il loro mito cosmogonico, in-fatti, in principio erano le zucche che, gettatenell’acqua dal Sole e dalla Luna, divennero iprimi uomini. Ma se in Sud America la cucur-bitacea è la grande madre dell’umanità, nel-

l’Estremo Oriente essa non è da meno. Anchegli antichi abitanti del Laos si ritenevano natida una zucca. E secondo un mito cinese l’eroeFu-Hsi scampò al diluvio universale salendosu una grande zucca galleggiante, come Noèsull’Arca.

Anche nelle tradizioni popolari europee ilfrutto dalla polpa gialla era considerato unasorta di contenitore soprannaturale, di ricet-tacolo delle anime dei defunti. Di questa anti-ca credenza pressoché universale la notte diHalloween è solo l’esempio più conosciuto.Ma nell’Italia contadina l’uso di zucche conocchi, naso, bocca e tanto di lumino acceso al-l’interno era largamente diffusa ben primache la mascherata made in Usa colonizzasse ilnostro immaginario. Un esempio per tutti: lafesta delle lucerne di Somma Vesuviana, nel-l’entroterra napoletano, in cui i morti si mani-festano sotto forma di teste di zucca che bril-lano nelle tenebre.

La differenza è che le tradizioni contadineerano delle tipicità rituali, espressioni di unterroir e di una cultura particolari. Halloweeninvece è un sabato del villaggio globale, un McDonald della paura. Il trionfo di questo sabbaplanetario fa dimenticare le ragioni e le radicidelle biodiversità festive esattamente comeavviene per quelle alimentari, messe fuorimercato dal dilagare di un prodotto confezio-nato altrove e distribuito su scala multinazio-nale. Il trionfo di questo merchandising ceri-moniale conferma così il valore simbolico del-la zucca, che diventa emblema della sorte del-le culture locali. Svuotate progressivamente eriempite di una polpa standard. Senz’anima,né sapore.

Crema La minestra più morbida

si ottiene dalla zucca

tagliata a tocchetti

e rosolata in extravergine

con porri e patate

a rondelle. Una volta

coperta di brodo e portata

a cottura, si frulla con poca

panna liquida, sale e pepe

Tortello La pasta ripiena

più gloriosa della cucina

mantovana prevede

un ripieno di zucca cotta

in forno e amalgamata

con amaretti, mostarda,

parmigiano, noce

moscata. Condimenti:

burro fuso e parmigiano

Al forno La merenda dei bambini

di ieri si prepara tagliando

e affettando la zucca

Una volta infarinate

e disposte sulla placca

unta d’olio, le fette

si fanno dorare in forno

a 200 gradi per un’ora

con sale e rosmarino

Risotto Due scuole: zucca

a dadini, imbiondita

in olio e scalogno, cotta nel

brodo, frullata e aggiunta

a metà cottura del risotto.

Oppure zucca cotta con

il risotto. Nei due casi, si

serve morbido, mantecato

con burro e parmigiano

LE RICETTE

Le tonnellate di zucca

prodotte in Italia

45mila

Il peso della zucca record

del 2005, coltivata a Udine

391kg

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le tendenzeConsumi di moda

Abiti, accessori e mobili designrealizzati apposta per il cliente:spopola tra i grandi marchiil bespoke. Un modo di orientarele scelte e soddisfare il desideriodi avere qualcosa di speciale

su misuraGlobal

Lo scorso agosto la Nike ha aperto un curioso negozio temporaneo nel cuore del quartie-re di Soho, a Londra. Una villetta georgiana con grandi caminetti di marmo sempre ac-cesi, pavimenti di legno e sontuosi sofà in pelle. Niente a che vedere, insomma, con queifantasmagorici e ultramoderni templi dello shopping globalizzato, meglio noti comeNiketown. Lo scopo? Invitare un numero ristretto di clienti “speciali” e guidarli nella scel-ta online delle loro scarpe da ginnastica su misura. Le cosiddette “Nike I.D.”, versione per-

sonalizzata dell’oggetto più popolare del mondo: le sneakers.Poco tempo prima, a New York, la Levi’s aveva lanciato Intellifit, uno scanner elet-

tronico a onde radio che, in soli dieci secondi, studia la figura del corpo e suggerisce iljeans più adatto. La politica dei due colossi americani, noti in tutto il mondo per le lorocampagne di marketing sempre all’avanguardia, è la punta dell’iceberg di un fenome-no molto più ampio: la rinascita del “su misura”. Il cosiddetto bespoke, ovvero quel-l’oggetto particolarmente prestigioso, abito o borsa, scarpa o cappello, realizzato ap-positamente per una persona.

Una volta, fino agli anni Settanta, il “su misura”, era la norma. Almeno nel campo del-l’abbigliamento. Poi, è arrivato il prêt-à-porter, la cosiddetta democratizzazione dellamoda e il boom delle griffe. E sarti e artigiani sono stati messi in disparte per un perio-do. Almeno dal grande pubblico. Oggi però il mercato sta cambiando di nuovo. Sarà acausa della contrazione dei consumi. O forse solo perché ormai c’è troppa scelta. Mauna cosa è certa: per sopravvivere il mondo della moda deve avviare un processo dicambiamento. Secondo una previsione della banca d’affari Merrill Lynch, infatti, i con-sumi di beni di lusso che oggi negli Stati Uniti rappresentano il 25 per cento del totalediminuiranno nei prossimi dieci anni di sette punti. In Europa si passerà dal 26 al 20 percento. Perché? Le grandi firme sono ormai troppo diffuse. Le si può acquistare a prez-

zo pieno nelle migliaia di boutique e department store di tutto il mondo. O accontentarsi delle imitazioni,vendute a poche decine di euro dalle grandi catene del basso costo, da Zara a H&M. «Cosa fare allora per nonperdere quei clienti che vogliono a tutti i costi possedere qualcosa di speciale?», si devono essere chiesti i gu-ru del marketing. La risposta è apparsa evidente: bisogna fare un passo indietro. E riscoprire l’oggetto uni-co, quello che ci fa sentire speciali e diversi da tutti gli altri. Che ci offre, insomma, un’esperienza sensoriale.

Ecco allora che tutte le grandi marche hanno cominciato a offrire un servizio bespoke. Nelle boutique Guc-ci si possono ordinare abiti, ma anche mocassini. Versace produce l’alta moda e una collezione di borse suordinazione. Giorgio Armani ha lanciato la linea Privè. Ermenegildo Zegna, oltre ai suoi celebri abiti, vendeuna collezione personalizzata di uniformi per yachts. Il designer di gadget in pelle Bill Amberg nel suo nuo-vo negozio londinese ha persino realizzato un bespoke bardove i clienti possono scegliere ogni minimo det-taglio, dal colore del filo alla finitura della pelle. E Brioni ha inaugurato nel 2003 un vero e proprio laborato-rio, dove per ogni abito sono necessarie 32 ore di lavoro.

Quello che rende il nuovo bespokemolto diverso da quello di una volta è però il fatto che, oggi, si può per-sonalizzare praticamente qualsiasi cosa: dalle sneakers ai profumi, dallo snowboard alla bicicletta, dallastoffa usata per tende o poltrone al passeggino per bambini. E ancora: carta da lettere e attacchi per gli sci,biancheria intima e portapassaporti, sacchi a pelo e tavolini. Ma non è finita qui. Per farlo, non sono più ne-cessarie cifre da capogiro. Anzi. Basta saper usare la fantasia. E soprattutto i nuovi canali tecnologici. Inter-net in testa. Che hanno reso l’intero processo molto più semplice. E democratico.

JACARANDA CARACCIOLO FALCK

L’emozione di sentirsi unici

INCONFONDIBILISono tre i modelli

di mocassini

Gucci disponibili

per il servizio

“made to order”

In coccodrillo

o in vitello hanno

le iniziali del cliente

stampate in oro

VARIAZIONI SUL TEMANike I.D., ovvero la versione

personalizzata delle sneaker

più popolari del mondo prodotte

dalla Nike. Si sceglie online

SEDUTA PERFETTASi chiama Size. È disponibile

in tre misure (small, medium

e large) e in una serie

di combinazioni la poltrona

disegnata da Luca

Scacchetti

per Poltrona Frau

Da Nike a Levi’s,da Armani a Versace,

da Gucci a Zegna:sempre più spessole collezioni sonopersonalizzabili

48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 30 OTTOBRE 2005

FIDO É CHICBurberry offre ora un servizio

per animali, “Custom canine”

Si sceglie tessuto, fodera

e colore dell’imbottitura

e in sei settimane

si ha il trench per Fido

con monogramma

ESCLUSIVALa New D-bag

di Tod’s è ora

disponibile

(solo su richiesta)

in coccodrillo,

in pitone e in struzzo

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Cacciatori di originalità senza trasgressioneL’altra faccia della globalizzazione: cercare il tratto distintivo ad ogni costo

LAURA LAURENZI

Un altro campo in cui deteniamo il primato. Il neo individua-lismo, il desiderio di non lasciarci schiacciare e omologare.«Da vent’anni faccio profumi su misura e posso dire per

esperienza personale che gli italiani, più di ogni altro popolo, sen-tono dentro di sé la necessità di esprimersi attraverso qualcosa chesia assolutamente unico», afferma Laura Tonatto, uno dei nostri“nasi” più celebri e quotati. La notizia è che il su misuraormai è al-la portata di tutti, o quasi. Non sa più di antico e solo artigianale,semmai si coniuga con le nuove tecnologie e con l’industria. Stan-chi, standardizzati, oppressi dall’omologazione, cerchiamo diemergere senza tuttavia avere il coraggio di evadere completa-mente dalla gabbia.

Il neo-individualismo promuove personalizzazioni ad ampioraggio. Per dire: puoi far stampare la frase o il nome che vuoi(purché non superino due righe di 27 caratteri) sull’I-pod e puoipersino avere la foto degli sposi “serigrafata” sui petali delle ro-se o dei tulipani che addobberanno il banchetto senza farli ap-passire. Puoi personalizzare addirittura le M&M’s, o lenti dicioccolato, con il motto che credi o, se in Canada, puoi persinofar stampare dei francobolli del tutto validi e regolari con la fotodel nipotino o del cane, basta pagare. È personalizzato addirit-tura il paracadute come peraltro il libro di fiabe, dove all’im-provviso compaiono fra i personaggi anche i nomi dei picciniche volete voi. E il telefonino? Si salvi chi può dalle nuove suo-nerie che squarciano l’aria col vagito del figlio, il miagolio delgatto, la ola dello stadio a quel particolare gol, e vai con le colon-ne sonore della nostra vita. Nostra e solo nostra.

E a ben vedere non è forse bespoke anche il caffè come lo chie-diamo noi italiani al bar: lungo-ristretto-macchiato-schiumato-alvetro? Per chi ama navigare ecco il nuovo gioco online di sceglierela scarpa da ginnastica unica al mondo, fatta solo per noi, combi-

nando noi stessi i colori, la linguetta, il tipo e la lunghezza dei lac-ci, la suola, la fodera, le sospensioni secondo il nostro personalecapriccio chiamato bespoke: ma in qualche angolo della nostrasneaker ci sarà sempre il logo, il marchio di fabbrica dell’azienda.Piccolo, non esibito magari, ma rassicurante.

Il su misura è diventato trasversale e hi-tech, e viene praticatoanche dai giovani e non è più soltanto un lusso per gli “happy few”.Sostiene Laura Tonatto: «Il bespoke ormai non è più una cosa le-gata soltanto al censo e al potere d’acquisto, un privilegio riserva-to a chi può permetterselo. È sempre più diffusa, sempre più co-mune, la voglia di sognare un sogno proprio, e non altrui».

Il punto è tutto qui: che il sogno non si tramuti in un incubo. Cer-care ad ogni costo il tratto distintivo all’interno di una globalizza-zione imperante può produrre mostri, ed essere comunque unapratica molto faticosa. Si parte dalle piccole cose: per esempio ilcalendario o gli auguri di Natale con la foto dei bambini, per arri-vare a vertici di narcisismo e auto-celebrazione che vengono indi-scriminatamente imposti agli altri. Mia e solo mia è quella borsacon riprodotta una certa (non discreta) lettera d’amore, o una fo-to privata. Il bespokedi massa o quasi fa leva sul culto del nostro egoe anche sul desiderio di essere creativi, e di non sottostare per unavolta a quei tiranni del gusto che sono gli stilisti.

L’effetto paradosso però è che, di fronte a una paletta di possibi-lità così ampia, la mente si frastorni, la mano si paralizzi. Il mousenon sa su cosa cliccare: troppa scelta, troppe versioni possibili,troppe probabilità di sbagliare. Allora ci si blocca, allora si vagheg-gia, come una sorta di paradiso, il tutto bianco, il tutto grigio, il mi-nimal chic, il non protagonismo, il basso profilo in questo infernodi iniziali, cifre intrecciate, frasi tatuate, numeri chiusi, pezzi unicionly for you. Questa massima libertà di scelta ci rende diversi maanche tutti uguali & omologati, di nuovo al nastro di partenza.

IL TUO PROFUMOL’incontro

tra Lorenzo

Villoresi

e un nuovo cliente

che richiede

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dura due ore

Poi Villoresi

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nel suo atelier

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Calderara

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è un vero libro dei ricordi personalizzato. Del quale si può scegliere formato,

carta e layout delle immagini. Oltre ai testi, ovviamente

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 49DOMENICA 30 OTTOBRE 2005

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si chiama “Be a

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dall’inglese Anya

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50 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 30 OTTOBRE 2005

l’incontroStar normali

PARIGI

«Èlei Michel?». La signo-rina inglese ha un belvisino, pallido e appe-na sfiorito, taglio alla

Jean Seberg. Il sorriso scopre bruttidenti piantati in bocca alla rinfusa. «Miscusi», mormora, «stavo aspettando unsignore che ho conosciuto in chat ierisera, lei corrisponde alla sua descrizio-ne». Il Cafè de Flore di Saint-Germain-des-Près non si è arreso alle mode,niente Happy Hour dalle 18 in poi, nes-sun segno di postmodernismo. Ha unatradizione da difendere, come tuttoquel marciapiede del Boulevard che ar-riva fino al Deux Magots, pochi passipiù in là. Un frammento di Parigi cheSartre e gli esistenzialisti scelsero cometempio del loro pensare.

Giovanna Mezzogiorno aspetta nel-la saletta del primo piano, seduta da-vanti alla finestra oscurata da minu-scole foglie di bambù. Appoggiata a unvecchio schienale a muro dove un tem-po, magari, la Greco s’incontrava clan-destinamente con Miles Davis. Gli arti-sti sono abili, fanno sempre in modo dirimanere in penombra rispetto ai lorointerlocutori. La Coppa Volpi che lagiuria di Venezia le ha conferito per lasua interpretazione nel film La bestianel cuore, di Cristina Comencini, è robadi un’altra epoca. A Parigi è già su un al-tro set, dentro un’altra storia. Sta giran-do Les murs porteurs con Cyril Gelblat,regista esordiente di 28 anni. «Parla diquattro personaggi le cui vite s’incro-ciano, una storia affascinante. Poi saròla protagonista di Lezioni di volo diFrancesca Archibugi, nei panni di unmedico impegnato in una organizza-zione internazionale. Sono passati duemesi da Venezia, ma sembra l’annoscorso. Non lo dico per falsa modestia,ma questo premio non pensavo lo des-sero a me. Dopo la proiezione ero tor-nata a Parigi, avevo disfatto le valige,avevo fatto la doccia, ero andata dalparrucchiere per cambiare il colore aicapelli e prepararmi a una scena delnuovo film. Invece il giorno dopo mihanno richiamata».

Era perfetta anche all’aeroporto diVenezia, quel giorno in cui una tempe-

sul lettino dello psicanalista, anchequelli più suggestivi con kilim e lampa-de déco. «Abbiamo trascorso tanti annia Parigi. Mio padre era costantementeimpegnato con cinema e teatro, ce lovedevamo passare davanti ogni tanto eraramente riuscivamo ad afferrarlo. Ioe mia madre trascorrevamo interi po-meriggi al cinema. A nove anni avevogià visto La strada, Il Vangelo secondoMatteo. E Brasil di Terry Gilliam, cheuscì nel 1984, quando avevo dieci anni.Ne rimasi traumatizzata, non parlai peruna settimana intera. Io ho sempre vi-sto film da grandi. Sono figlia di un at-tore e di un’attrice, mi sono nutrita dicinematografo, eppure mai una voltami sfiorò l’idea che io potessi entrare inquel mondo. Ero ossessionata, anzi, daquelli che venivano a casa e dicevano:come sei bella Giovanna, anche tu vuoifare il mestiere di mamma e papà? Era-no parole che mi stordivano, perchécreavano delle aspettative che ero sicu-ra avrei disatteso».

Nel 1994, Vittorio Mezzogiorno morì

sta di pioggia si è abbattuta sulla Lagu-na e tutti i voli sono stati ritardati. Stret-ta nel suo impermeabilino bianco dicotone masticato, una matita per tene-re i capelli raccolti dietro la nuca, mol-te buste di patatine sparse sul tavolo. Apoco servirono le esortazioni del suoaccompagnatore: «Se dai un’occhiata aquello che contengono smetti subito dimangiarle». E lei, continuando a sgra-nocchiare: «Basta non leggere...». Fi-nalmente chiamarono il suo volo e lei,proprio come una bella ragazza qua-lunque (non fosse stato per il set di Vuit-ton, con dentro quei cd, sempre quelli,che si porta in giro per il mondo: «Unodi canzoni napoletane, quattro di mu-sica classica, Elis Regina, A love supre-medi John Coltrane e Pino Daniele, chemi ricorda la mia infanzia»), si dileguònella pioggia. Rilassata, un po’ annoia-ta, per niente segnata da un ruolo comequello di Sabina, una donna che dopoun incubo notturno si trova a ripercor-rere i sentieri di un’infanzia molestatache come un tarlo comincia ad intacca-re il presente.

«Sono un’attrice semplice. Non micovo dentro tormenti profondi per en-trare in sintonia col personaggio chesoffre, gli permetto semplicemente diabitare in me. Il cinema è un doppio as-soluto, al personaggio presto la casa,poi lui sparisce e non lascia traccia. E iomi rituffo nella confortevole banalitàdel quotidiano. A un certo punto devistaccare, devi interrompere quel flussodi sentimenti forti che altrimenti ti di-struggerebbe. Soprattutto se arrivi daun film come La bestia nel cuore, che inqualche modo ha cambiato la mia rou-tine di attrice. In altre storie mi sono ri-trovata sola sul set: in Virginia (la mo-naca di Monza), nella storia di Ilaria Al-pi (Il più crudele dei giorni), ne La fine-stra di fronte. Nel film della Comencini,invece, Sabina si relaziona con tutti glialtri personaggi della storia».

Arrivano i caffè («i francesi lo fannomalissimo»), dalla finestra si scorgonoi tavolini del Flore sparsi sul marciapie-de. La casa di Giovanna è a due passi.Quando ci venne ad abitare da Casal-palocco (Roma) con il papà e la mam-ma, l’attore Vittorio Mezzogiorno el’attrice Cecilia Sacchi, aveva nove an-ni. «Da piccola volevo diventare balle-rina, ho studiato danza classica per 17anni. Dentro di me non accettavo di fa-re questo lavoro, mi creava molta soffe-renza. Se non fosse stato Peter Brook adarmi la spinta definitiva, se non miavesse detto “Vai!” in quella manieracosì categorica, forse oggi non sareiqui. Lavoravo, registravo, facevo stagee spettacoli, vedevo che quel che face-vo piaceva, sentivo che sul palcosceni-co stavo bene e riuscivo a entrare in unaparte senza grandi difficoltà, però nondicevo mai “voglio fare l’attrice”, anzimi negavo a quel mestiere».

Il caffè è da dimenticare, ma il primopiano del Flore è un luogo ancora ma-gico. Ci si racconta più volentieri che

a un’età, 52 anni, in cui un attore avreb-be ancora mille personaggi da far vive-re. Giovanna aveva appena vent’anni, ecol papà non aveva ancora mai parlatodella possibilità di diventare attrice.«Già, sull’argomento cinema non cisiamo mai confrontati. È il mio piùgrande rimpianto: ho cominciato a la-vorare due anni dopo la sua morte. Nonmi ha mai visto in scena e non ha maineanche saputo che io avrei voluto faresul serio il suo stesso lavoro. Questi so-no gli scherzi atroci che a volte il desti-no ci riserva. È assurdo, ma è andata co-sì». La finestra incornicia uno sguardotriste, gli occhi di Vittorio ora incasto-nati in un malinconico, dolcissimo visodi donna che cerca di ricacciare indie-tro le lacrime. I ricordi parigini riaffio-rano. «Non ho mai avuto un idolo. Erouna strana adolescente senza poster incamera. Ma posso dire di aver appresopiù dagli attori maschi. Un’attrice peròmi ha segnato con la sua mostruosabravura, in un film che ancora rivedo enon finisce di stupirmi: Meryl Streep inKramer contro Kramer».

Ha trentun anni, ma non pensa dimetter su casa. Eppure è nata in una fa-miglia equilibrata... «Equilibrata… Esi-stono famiglie equilibrate?», incalza.«Ho ricevuto una buona educazione,senza moralismi, senza assurdi valorisociali, ma con un’etica profonda e unantidoto efficace contro il consumismo.Anche oggi lo shopping è l’ultima cosa dicui ho voglia. I miei genitori, nei loro mo-menti di difficoltà, sono sempre statiaperti e onesti, tra di loro e nei miei con-fronti, fin da quando ero molto piccola.Ma nella famiglia come istituzione ionon ci credo. Non mi sono mai sposatae non lo farò, perché non credo nel ma-trimonio inteso come raggiungimentodi uno status. La famiglia, secondo me, èil luogo più insidioso della società. La be-stia nel cuore mi ha fatto capire meglio acosa si è disposti pur di non rompere unafamiglia, pur di andare avanti, pur dinon ammettere sconfitte, nevrosi e ma-lattie. Non sempre una moglie e un ma-rito sono disposti a chiedersi: quantomale ci facciamo? quanto ne facciamo ainostri figli? perché ci stiamo spegnendoa vicenda e non facciamo nulla per por-ci rimedio? Anche io da adolescente eromolto autolesionista, oggi invece, se ve-do allarme rosso, me la do a gambe. Microgiolavo nel sacrificio e nel dolore:nell’amore, nell’amicizia, ma anche nellavoro. A un certo punto, invece, biso-gna smetterla di remare nel deserto,continuare a far fatica anche quandol’acqua non c’è».

C’è una deformazione professionaleche “condanna” attori e attrici a razzo-lare nel pollaio, a confrontarsi senti-mentalmente solo con gente del pro-prio ambiente. Una soap opera dell’a-marsi tra belli che si perpetua da de-cenni ed è sempre in voga. La Mezzo-giorno è stata la compagna di StefanoAccorsi (entrambi protagonisti de L’ul-timo bacio di Muccino), che ora vive

con una ragazza non proprio della por-ta accanto, Laetitia Casta. «Io ho dato eho chiuso», taglia corto Giovanna. «Maè vero: le persone che vivono a un certolivello hanno paura di uscire dal pro-prio limbo. Lì, in quell’agonia che li de-vitalizza, si sentono al sicuro. Lo fannoper snobismo e per classismo. Un part-ner normale, non del tuo status, po-trebbe svalutarti, questo è il pensierocomune, roba da fiera di paese».

Roba da Hollywood, forse. Ormaidietro l’angolo: La bestia nel cuore è ilfilm italiano selezionato per l’Oscar.«Hollywood? Che orrore. È un mondospietato, non credo valga la pena ven-dersi l’anima per un posto al sole. Noncapisco tanti attori che pur di avere incurriculum un film americano, accetta-no indegne particine di dieci minuti».Meglio la televisione? «Ho un rapportopessimo con la tv, non la guardo mai, aparte il Tg3 e Blob. La ringrazio per aver-mi dato l’opportunità di Virginia, unfilm in costume che il cinema nonavrebbe mai potuto permettersi, manon voglio esagerare. I reality show, i va-rietà domenicali per me sono (lo dico infrancese così è più chic) merde».

La parte di Virginia sembrava tagliataper lei, per il suo carattere ombroso, perla sua indole riservata, per lo sguardoinnocente che i registi si sbizzarrisconoa riempire di sentimenti contrastanti.Anche se di quel tormento mistico nel-l’attrice non c’è ombra. «Sono insoffe-rente a qualsiasi disciplina religiosa.Credo nelle persone, la vera spiritualitàè dentro ognuno di noi. In Italia il catto-licesimo, come la famiglia, è uno status:il matrimonio in chiesa, battezzare i fi-gli, andare a messa la domenica. È la so-cietà che te lo chiede e tu ti metti sull’at-tenti, per non sentirti un outsider».

Si avvia verso casa, direzione DeuxMagots, jeans baggy, cinturone heavymetal. La signorina inglese, non più dasola, fa un cenno di saluto che vuol di-re: «È tutto ok, lui è qui». Troppo presadalla sua storia per prestare attenzionea una star in incognito. «Star? Ma scher-ziamo? Non sono una che esce e i fan lestrappano i vestiti di dosso. La mia no-torietà non scatena isterismi. Privi del-lo star system all’americana, noi italia-ni non siamo divi, ma solo attori che lagente guarda nei film. Dei miracolati acui è ancora concesso di lavorare».

Diva? Ma nonscherziamo. Non sonouna che esce e i fansi strappano i vestitidi dosso. Per fortunala mia notorietànon scatena isterismi:noi italiani lavoriamocon tranquillità

Ha vinto il premio come migliorprotagonista femminile a Venezia,guiderà l’assalto italiano agli Oscardi Hollywood, è la più contesadai registi, che le ritagliano ruoli

complessi e inquietanti,eppure lei ci confessa:“Sono un’attricesemplice, non covotormenti profondiAl personaggio prestola casa, poi lui spariscee io mi rituffo nella

confortevole banalità del quotidiano”.Con un solo rimpianto: “Aver persoil padre prima di iniziare a recitare”

GIUSEPPE VIDETTI

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