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la domenicaDI REPUBBLICADOMENICA 12 APRILE 2015 NUMERO 527
NEW YORK
LA DOMANDA-CHIAVE. Decine dicittà e di stati se lo sono chiesti dacentosessantaquattro anni inqua. A volte la domanda si è tintadi angoscia, di fronte al conto da
pagare. Che cosa resta di un’Expo? A parte,s’intende, i processi per tangenti o le pole-miche sui cantieri incompiuti, almeno nelcaso milanese.
La prima Esposizione universale a porta-re questo nome si tiene a Londra nel 1851.Come spiega Renzo Piano nell’intervista chesegue nelle pagine successive, quell’eventosegna la storia dell’architettura moderna, ilCrystal Palace in vetro-acciaio ne è una pie-tra miliare. Così come lo sarà la Tour Eiffel aParigi, anch’essa creatura-trofeo di un’Expo
(1889). Vale un po’ anche per l’Atomium diBruxelles, per quanto appaia anacronisticaquella rappresentazione trionfale dell’ener-gia nucleare, eretta nel 1958 quando il ri-cordo di Hiroshima era ancora fresco. Dun-que, le tracce possono restare eccome: dure-voli, simboliche, bandiere di un’epoca. Cer-to, non è detto che la costruzione di un edifi-cio destinato a diventare icona (come laTour Eiffel o le guglie spaziali di Seattle 1962e Brisbane 1988) basti a provare un lascitoduraturo; ma può essere almeno un buon in-dizio che l’Expo abbia intercettato un’ideaforte. In certi casi l’evento espositivo può ad-dirittura suonare profetico, annunciare lavocazione futura di una città: come la Pan-americana di San Francisco di cui comme-moriamo il centenario proprio quest’anno.
Nel 1915, mentre l’Europa sprofondava nel-la Prima guerra mondiale, la California nonsi limitava a festeggiare l’inaugurazione delCanale di Panama che le avrebbe dato unruolo enorme nei commerci mondiali, ab-battendo i tempi del trasporto navale traAtlantico e Pacifico. L’Esposizione Pan-ame-ricana propose San Francisco come vetrinad’invenzioni, prefigurando quel ruolo di tec-nopoli, capitale della Silicon Valley, che eraancora di là da venire: ci sarebbe voluto l’at-tacco giapponese a Pearl Harbor, la neces-sità di spostare nel 1941 la ricerca militareverso la West Coast, gli investimenti del Pen-tagono nell’elettronica. Tant’è, l’Expo diSan Francisco con la costruzione del Palaceof Fine Arts (oggi sede dell’Exploratorium)fu una specie di faro acceso sul futuro, l’an-
nuncio visionario di quel che sarebbe diven-tata la California.
Per rispondere alla domanda su “cosa re-sta” di un’Esposizione universale, bisognatenere conto del contesto: le aspettative na-te attorno all’evento, la missione che gli èstata assegnata. Almeno durante i primi cin-quant’anni della loro storia, le Esposizioniuniversali furono perfettamente racchiusenella definizione del filosofo tedesco WalterBenjamin: “Siti di pellegrinaggio per il feti-cismo della merce”. La teoria del feticismodella merce l’aveva costruita Karl Marx nelsuo Capitale. Per Benjamin nelle Esposizioniquell’idolatria della produzione materialetrovava il suo tempio e la sua apoteosi.
>SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE
CON UNA INTERVISTA A RENZO PIANO
Il racconto.MauroCorona
e i segretidella
montagnaSpettacoli.
Vacanzeromane
con NanniMoretti
Next.Citizen
scientist
La copertina. Abbiamo ancora bisogno di UmanesimoStraparlando. Giuliana Lojodice, la vita è palcoscenicoMondovisioni. Il quadrato nero che inghiottì la Russia
Dalla Tour Eiffel all’Albero di Milano
breve storia del mondoquando il mondo si mette in mostra
Cosa restadi un’ Expo
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FEDERICO RAMPINI
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la RepubblicaDOMENICA 12 APRILE 2015 28LA DOMENICA
<SEGUE DALLA COPERTINA
FEDERICO RAMPINI
OMINCIANDO DALL’EVENTO inaugu-rale di Londra, pensato dal mo-dernista Principe Alberto, e finoalla Prima guerra mondiale, leExpo interpretano a perfezioneun’èra di fiducia nel progresso,ottimismo sul futuro, adorazionedella tecnica. Quei raduni inter-nazionali per visitatori curiosi ac-compagnano processi ben piùprofondi e strutturali in molte na-zioni avanzate: come le riforme
scolastiche che introducono una formazione professionaleadeguata ai nuovi mestieri industriali. È un’epoca che prean-nuncia e poi coincide con il Secolo Americano. Non a caso tan-te Expo si susseguono in tutte le metropoli manifatturiere de-gli Stati Uniti, comprese alcune città oggi “arrugginite” daldeclino industriale: Philadelphia nel 1876, Chicago nel 1893,Buffalo nel 1901, Saint Louis nel 1904. New York ne ospiteràa ripetizione. L’Expo di quei tempi è un evento così impor-tante che spesso diventa il palcoscenico per presentare almondo una nuova invenzione rivoluzionaria, come il telefo-no di Alexander Graham Bell: collaudato in pubblico all’Expodi Philadelphia nel giugno 1876, ha tra i suoi primi testimoniaffascinati l’imperatore del Brasile Pedro II. A San Francisconel 1915 s’inaugura la prima linea telefonica con l’altra costa,che consente ai newyorchesi di ascoltare il rumore delle on-de dall’Oceano Pacifico. Il Museo Leonardo da Vinci, a Mila-no, elenca altri esempi di invenzioni o nuovi prodotti “lancia-ti” in occasione delle Expo: il visore stereoscopico nel 1870, lamacchina da scrivere Remington nel 1890, il fonografo, il ci-nematografo, il pallone aerostatico, la ferrovia sopraelevata.
Le tragedie delle due guerre mondiali costringono l’Occi-dente a un traumatico riesame della
sua idea di progresso. Già nelconflitto del 1914-18 è evi-
dente quanto la tecnicapossa mettersi al servizio
della barbarie: la Ger-mania sperimentale prime armi di di-
struzioni dimassa (gas)
e i primib o m -barda-menti
Con monumenti-simbolo
le Grandi Esposizioni
hanno segnato le epoche
Nel bene e nel male
questa è la loro storia
La copertina. 1851-2015
deliberati sulle popolazioni civili (Londra), attirandosi poirappresaglie della stessa natura. Da quel periodo anche le Ex-po escono trasfigurate. Più che celebrare le vittorie della tec-nica, si entra in una fase dove le Esposizioni sono esse stesseun terreno di battaglia dei nazionalismi. Il fascismo ci provacon Roma nel 1942, ma resta l’unica Expo cancellata per unaguerra; caso raro di un intero quartiere (l’Eur) costruito perun evento che non si terrà. Dopo la Seconda guerra mondialeil filone prosegue ma deve correggere il tiro: l’Expo rimaneuna vetrina per promuovere il “marchio” di una nazione a con-dizione che il contesto sia improntato alla comprensione trai popoli, alla cooperazione, alla pace. L’America post-ken-nedyana dà praticamente in appalto alla Walt Disney tuttal’Expo di New York del 1964, che adotta come slogan “It’s asmall world” (il mondo è piccolo), il tema musicale che tut-tora si può ascoltare nel parco tecnologico di Epcot-Di-sneyworld a Orlando, in Florida. Di nuovo segno dei tempi, leExpo possono perfino favorire i primi passi del disgelo Est-Ovest (Montréal 1967, Osaka 1970). La Spagna nel 1992 a Si-viglia celebra la sua appartenenza all’Unione europea, intempi in cui questa destava un entusiasmo generale.
Un caso particolare — quasi un ritorno alle origini — èShanghai 2010. Visitata da settantatré milioni di persone, unrecord nella storia di questi eventi, Shanghai è stata a suo mo-do una riedizione del “feticismo” di cui parlava Benjamin: nelsenso che è servita a presentare soprattutto a decine di mi-lioni di cinesi delle province i fasti della globalizzazione e del-la modernità. Un altro aspetto di Shanghai che invece ci ri-porta a vicende più attuali: si tratta dell’ultimo grande even-to globale organizzato dalla Cina sotto il potere di Hu Jintao,e quando era ancora forte il “clan shanghainese” del prede-cessore Jiang Zemin. Tutti e due investiti dall’offensiva delsuccessore, l’attuale presidente Xi Jinping. Che s’installa alcomando nel 2012, lancia una serie di inchieste sulla corru-zione, e smantella pezzo dopo pezzo le correnti avversarie delPartito comunista.
Shanghai è rappresentativa anche per il vento del Terzomillennio che soffia su tutte le Expo, Milano inclusa. Da unaparte c’è l’austerity: dal 2000 (Hannover) in poi molti go-verni cominciano a mostrare riluttanza verso i costi elevati.Gli Stati Uniti aprono la strada nel delegare a sponsor priva-ti la loro rappresentanza: tant’è che sia a Shanghai sia a Mi-lano la partecipazione Usa è stata in forse fino all’ultimo, per-ché il Dipartimento di Stato ormai si limita a fare da coordi-natore dei finanziatori privati. Sul fronte delle idee in tutte leExpo del nuovo millennio, da Hannover ad Aichi (Giappone),da Shanghai a Milano, la sostenibilità diventa il tema domi-nante. La tecnologia di fronte alla sfida di salvare un pianetain pericolo grave: un problema che i visitatori del Crystal Pa-lace nel 1851 avrebbero faticato a immaginare.
Il mondo
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utile per chi concepisce questi eventi. Abbiamo datoa Genova la “piazza” che non aveva mai avuto, el’abbiamo ricavata in quella che era la vera fabbricadella città, cioè il suo porto».
Nei centosessantaquattro anni della loro storia, le Espo-
sizioni universali si possono rileggere come un tracciato
delle nostre relazioni con l’idea di progresso. C’è una dif-
ferenza evidente tra la fiducia e l’ottimismo della secon-
da metà dell’Ottocento, poi il trauma delle due guerre
mondiali, infine la fase post-moderna dove uno dei temi
dominanti è l’ambiente.
«Tutta la prima fase nella storia delle Esposizionisembra una gara di prodezze. È lo specchiodell’Ottocento, il secolo delle scoperte, l’invenzione agetto continuo di nuove tecniche. In questo senso, piùancora del Crystal Palace, “l’oggetto” piùrappresentativo di quella fase resta la Tour Eiffel. Poiarriva il Novecento e nell’ultima parte di quel secolo leExpo diventano anche un tracciato della
globalizzazione,servono amisurarel’enormeampliamentonegli orizzonti,il balzo in avantinelle relazionieconomiche tranazioni e tra
continenti. Con il Terzo millennio, l’imperativo diventaquello di salvare la Terra. Dopo il secolo delle prodezze,dopo le guerre mondiali, dopo la globalizzazione, oggisiamo nell’èra della fragilità. Constatarlo non devetradursi in angoscia o senso d’impotenza; deve invecediventare una fonte d’ispirazione».
Alla fine, che cosa resta di un’Expo?
«Come minimo dobbiamo pretendere che ci lasci ineredità degli edifici saggi. E poi che sia un momento ditrasformazione delle nostre città verso un futurosostenibile».
(f. ramp.)
ENNI COINVOLTO NELLA PREPARAZIONE
dell’Expo di Genova 1992,dedicata al cinquecentenarioamericano di Cristoforo Colombo.Cominciammo a prepararla anni
prima, direi nel 1987». Renzo Piano ricorda il periodo incui iniziò a studiare la storia di questi eventi per capirneil senso, trovare un percorso e una vocazione.
Qual è l’Esposizione universale che più l’appassionò in
questa sua esplorazione del passato?
«Londra 1851, la prima, soprattutto per via del CrystalPalace costruito originariamente a Hyde Park,progettato da Sir Joseph Paxton. È un’area che conoscobene, da tempo lavoro in quella parte di Londra.Quell’edificio — poi smontato e ricostruito altrove —segna la scoperta della leggerezza nella costruzione.Non a caso, fu ispirato dai botanici. Acciaio più vetro:una combinazione che dava un’apparenza effimera, inrealtà si rivelò durevole. Una gigantesca serra, infondo, con una visione avveniristica che ci insegnaqualcosa anche oggi: l’essenzialità, l’arte di nonsprecare, l’importanza del riutilizzo».
Ne fece tesoro per Genova 1992?
«Da buon genovese mi feci guidare dalla nostraleggendaria parsimonia. Che non è avarizia, è arte difare le cose con poco, rispettando una terra scarsa dirisorse. L’idea base nel ‘92 fu quella di recuperare ilporto antico proprio come si recupera una fabbricadismessa, senza sprecare nulla. Bisognava fare inmodo che una volta finita l’Expo, un pezzo di cittàvenisse restituita ai cittadini. Credo che sia un principio
Le Esposizioni universali(numero di visitatori in milioni)
in vetrinaRenzo Piano.Ci lascino almenoun edificio saggio
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Hanno solo due regole: si giocano in gruppo e rigorosamente all’aperto,
quasi una bestemmia nell’epoca dei videogame.Eppure dal Trentino
alla Sardegna, con i loro nomi in dialetto e gli strumenti d’un tempo che fu,
ancora resistono. Anche grazie alle ottocento comunità locali
che si divertono a non farli sparire. E che ora li hanno rintracciati e catalogati
MICHELE SMARGIASSI
DELL’EPICO DERBY INTERCONTINENTALE e interculturaleazteco-langarolo non abbiamo notizie precise. Sap-piamo solo che la partita si giocò una sera dello scor-so settembre in un campo non precisato alla peri-feria di Verona. Si trattava di un gioco di palla-pe-lota: ma come siano riusciti, gli indios messicani e ipaesani piemontesi, a ibridare le regole dei rispet-tivi giochi secolari, è un mistero. Ignoto pure il ri-sultato. Ma non conta. Fu una partita ufficiosa, nonprevista, un fuori-programma spontaneo e gratui-to di Tocatì (“tocca a te”), il festival dei giochi po-polari che trasforma per una settimana la città di
Giulietta nel paese di Cuccagna. «Era pura voglia di giocare, a dispetto di tutto,regole, tradizioni, ufficialità», giubilano all’Associazione Giochi Antichi, collet-tivo che parla a voce collettiva, «ed è questo il nostro spirito: giocare, poi torna-re a giocare, per il piacere di giocare».
Sì, l’antropologia. Sì, le tradizioni. Va tutto bene. Ma se non c’è vera voglia digiocare, ogni albero della cuccagna o sfida in costume diventa folclore da prolo-co, o colta noia accademica. Una dozzina d’anni fa l’Aga nacque per questo: nonper imbalsamare i giochi di strada, ma per farli vivere come “resistenza all’o-mologazione”, come detta il Manifesto scritto nel 2008 e riverito come un giu-ramento della Pallacorda. E la garanzia che lo siano davvero, vivi e non impa-gliati, è solo questa: che qualcuno li giochi per il piacere di farlo. Le chiamano “co-munità di gioco”, sono oltre ottocento in Italia, coinvolgono almeno centocin-quantamila persone, a gruppetti disseminati. Ci sono voluti quattro anni per se-lezionarne una trentina, dalle Alpi allo Ionio,andando a trovarli di persona, parlando conloro e, naturalmente, giocando con loro,riempiendo i taccuini di appunti su date mo-di luoghi, e di nomi misteriosi, Truc, Fiolet,Bijé, Tsàn, Ciaramèla, Bbrigghja, Zachègn,Stù, che solo gli affiliati sanno decifrare, avolte neanche loro. Provando a ricostruireanalogie, fili segreti tra pezzi d’Italia lonta-ni, perché le grandi famiglie dei giochi distrada in fondo sono sempre le stesse in mil-le variazioni: i giochi di bocce, di birilli, di lot-ta, di mazza, di ruota, di cibo, e ovviamentedi palla, la sferica madre di tutti i giochi.
E così questo volume, Giochi Tradizionalid’Italia. Viaggio nel Paese che gioca (a curadell’Aga, Ediciclo edizioni, 192 pagine, 18euro) non è una ricerca antropologica, non èun catalogo etnografico né una guida turi-stica. È il racconto di un viaggio di trenta-quattro tappe in quel Paese dei Balocchi qua-si clandestino che si materializza in certigiorni dell’anno, in certi anfratti della mo-dernità, in un cortile, un tronco di stradina,magari dietro un parcheggio, che non haquasi mai bisogno di divise, di insegne, disponsor, di discorsi delle autorità, ma di un
po’ di sole e di qualche attrezzo approssimativo: anche questa è resistenza allaserialità industriale. E poi chi se ne frega se sono o non sono “i giochi di una vol-ta”, se sbürla la rôda di Fossacaprara, nel cremonese, una corsa con le rotoballedi fieno, è una tradizione inventata, perché le rotoballe sono roba da agricoltu-ra meccanizzata e con le macine da mulino di cui vi diranno vagamente lì forsenessuno ha mai giocato; che cosa importa se la balìna di Santa Lucia ai Monti,tra Veneto e Lombardia, non è più fatta di stracci ma è una comune pallina datennis; cosa conta se le lavre di Barcola, vicino a Trieste, non sono più schegge dipietra ma vennero sostituite, negli anni del benessere, dalle piastrelle di plasti-ca, sì, quelle tonde e colorate, da spiaggia (ormai sono archeologia pure quelle,non le fabbrica più nessuno, chi ne possiede se le tiene care come lanterne etru-sche). Ci si può giocare? Bene, basta così.
E giocare, qui, torna a essere quella cosa “più antica della cultura” che ci ha de-scritto Johan Huizinga, un pezzo di vita disinteressato, privo di utilità biologicae sociale, lo scopo che si lotta allo spasimo per raggiungere e poi non serve a nien-te. Il decoubertinismo naturale del gioco di strada non è l’ipocrisia del “parteci-pare non vincere”, si gioca sempre per vincere, e che diamine: sta nella impre-vedibile elasticità delle regole, rigide fino alla minuzia eppure malleabili (inquanti giochi non importa il numero dei giocatori, magari dispari fra le duesquadre, né la forma precisa del campo o le misure esatte della mazza), nella li-nea a volte sfumata, contrattabile sul campo, fra lecito e non lecito, nella disin-voltura con cui si accettano perfino i trucchi (pare che nella ciuccetta di Monte-falco, scontro tra uova dove vince l’uovo che resta intero, alcuni giocatori arric-chiscano di calcio la dieta delle galline nelle settimane precedenti la gara, perrinforzare i gusci), perché il gioco vero è incontro, relazione, essere insieme.
Poi, se volete metterci un po’ di fantasystorico-etnografica, accomodatevi. Certoche il raggelntrentino o la s’istrumpadi Ol-lai nel nuorese sono la sublimazione dellefuriose zuffe fra pastori per i pascoli; certoche i birilli di Farigliano, nel cuneese, a cuipossono giocare solo le donne, con quel bi-rillone al centro, portano l’eco di un rito difertilità; certo che tutti i giochi di ruzzola(gioco che corre come un brivido lungo laschiena appenninica della Penisola, e perforza: serve un pendio), dove non sempre laforma di formaggio è stata sostituita da di-schi di legno, o le battaglie di noci di Mon-terosso ligure (dove chi vince si porta a ca-sa il commestibile) erano rituali, darwinia-ne redistribuzioni di cibo alle famiglie piùforti… Ma se la funzione simbolica si è per-duta, e invece il gioco è rimasto, cosa vorràdire? Qual era davvero il nucleo resistentedi quei riti, se non il divertimento puro delgioco? E se le spiegazioni funzionali, socia-li, religiose del gioco non fossero altro cheuna crosta seriosa, inventata per masche-rare l’imbarazzo dell’homo ludensche vuo-le tornare bambino?
P’ZZ’CANTÒ
REGIONE: CAMPANIA
ORIGINI: DAL MOTIVETTO
CANTATO
DURANTE IL GIOCO
IN QUANTI: DIECI PER OGNI
TORRE
SCOPO: FORMARE
UNA TORRE UMANA
CHE RUOTA
AL RITMO
DI STROFE
CHE ALLUDONO
AL PERICOLO
DI UN
CAPOVOLGIMENTO
SOCIALE
PERIODO: ULTIMA DOMENICA
DI MAGGIO
IL SIMBOLO
L’ALBERO DELLA CUCCAGNA IN UNA ILLUSTRAZIONE D’EPOCA
Benvenutinel paese
Sbürla la rôda, truc e raggeln. Un’antologia per i giochi perduti
L’attualità. Non virtuale
dei balocchi
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TRAMPOLI
REGIONE: MARCHEORIGINI: DAGLI STRUMENTI (I TRAMPOLI)
UN TEMPO USATI PER PASSAREGUADI E SUPERARE OSTACOLI
IN QUANTI: 25 ADULTI E 20 BAMBINIDIVISI IN CINQUE RIONI
SCOPO: CAMMINARE SUI TRAMPOLIFINO AL CENTRO STORICODEL PAESE
PERIODO: TERZO FINE SETTIMANADI GIUGNO
CORSA CON LA CANNATA
REGIONE: LAZIOORIGINI: DAL RECIPIENTE DI TERRACOTTA
CHE SI USAVA PER ATTINGEREL’ACQUA
IN QUANTI: SQUADRE DI SOLE DONNESCOPO: PERCORRERE 280 METRI
CON LA “CANNATA”BEN SALDA SULLA TESTASENZA L’AIUTO DELLE MANI
PERIODO: PRIMO FINE SETTIMANADOPO FERRAGOSTO
PALO DI SAPONE
REGIONE: CAMPANIAORIGINI: VARIANTE DEL PALO
DELLA CUCCAGNA,SOLO CHE QUI L’ALBEROÈ COSPARSO DI SAPONE
IN QUANTI: QUATTRO PER SQUADRASCOPO: SALIRE IN CIMA AGGRAPPATI
AL PALO GLI UNI SOPRA GLI ALTRI.TERMINA QUANDO TUTTI I PREMISUL PALO VENGONO STACCATI
PERIODO: METÀ GENNAIO
S’ISTRUMPA
REGIONE: SARDEGNAORIGINI: DA “ISTRUMPARE” CHE SIGNIFICA
BUTTARE A TERRARUMOROSAMENTE
IN QUANTI: DA UNA A PIÙ COPPIE DI AVVERSARISCOPO: UNA LOTTA NON VIOLENTA FATTA
DI ABBRACCI ASFIASSANTICHE SI INTERROMPE QUANDOUNO DEI DUE CONTENDENTICADE A TERRA
PERIODO: AGOSTO
GOAßLSCHNÖLLEN
REGIONE: TRENTINO ALTO ADIGE
ORIGINI: DAL SUONO (SCHNÖLLEN)
CHE FACEVA LA FRUSTA USATA
CON GLI ANIMALI AL PASCOLO
IN QUANTI: PIÙ SQUADRE
SCOPO: FARE PIÙ PUNTI
DEGLI AVVERSARI IN BASE
A POSTURA, INTENSITÀ
DEL SUONO E VELOCITÀ
CON CUI GIRA LA FRUSTA
PERIODO: ESTATE
SBÜRLA LA RÔDA
REGIONE: LOMBARDIAORIGINI: IL NOME SIGNIFICA “SPINGI
LA RUOTA” E RICHIAMA IL LAVORO DEI MUGNAI LUNGO IL PO
IN QUANTI: SEI PER OGNI SQUADRASCOPO: FAR ROTOLARE UN’ENORME
BALLA DI PAGLIA DI CIRCADUECENTOCINQUANTA CHILIDI PESO LUNGO UN PERCORSOSTABILITO
PERIODO: QUARTA DOMENICA DI AGOSTO
FERRO
REGIONE: PIEMONTEORIGINI: FAMIGLIA DELLA RUZZOLA,
RISALE AL MEDIOEVOIN QUANTI: FINO A SESSANTA A SQUADRASCOPO: LANCIARE CON FORZA
E PRECISIONE UN CERCHIODI METALLO MONTATOSU UN DISCO DI LEGNOFACENDOLO ROTOLAREIL PIÙ LONTANO POSSIBILE
PERIODO: PRIMAVERA
NOCI
REGIONE: LIGURIA
ORIGINI: ANTICA GRECIA
SCOPO: PORTARSI A CASA PIÙ NOCI
POSSIBILI, UN TEMPO RARE
E COSTOSE. SI FANNO DUE FILE
PARALLELE CON LE NOCI.
POI SE NE LANCIA UNA.
LE NOCI COLPITE SONO
DEL CONCORRENTE
CHE HA TIRATO
PERIODO: SETTEMBRE
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MAURO CORONA
QUANDO STAVANO SULLE RADURE circondate dai boschi oscil-lanti alle brezze, si palesavano folletti e gnomi, driadi eoreadi. Ninfe dei monti e delle selve volavano sui torrentiad animare la natura e la pace della sera. Bisogna averleconosciute da bambini queste presenze per poterle av-vertire anche da grandi. I ragazzi le sentivano, bisbiglia-vano là intorno, con un po’ d’attenzione potevano perce-pirne i respiri, captarne le voci. Suggestioni? Può darsi, maa loro pareva di intuirle e questo era grandioso. Sensazio-ni umide di rugiada, forti da far tremare il cuore, freschedi albe taglienti, pomeriggi assolati, notti brevi piene disuoni. Era l’estate dell’infanzia, quella che passa in fretta
e abbronza l’anima per sempre. Le presenze circondavano il bosco, seguivano i loro pas-si, davano le dritte, li facevano crescere. Nelle radure si palesavano più nitide. E loro ascol-tavano. Ascoltavano la voce delle montagne. Finché a un certo punto tutto taceva di col-po, come se intorno la natura e i suoi abitanti si fossero adagiati nella siesta. O addor-mentati. Oppure spaventati da qualcosa,perché no. Allora i bambini facevano sssst,e camminavano in punta di piedi, e tratte-nevano persino il respiro per non destaregli spiriti assopiti. Il bosco emanava un odo-re di sacro, si metteva il saio di intoccabile:il mistero a quel punto s’infittiva, la mon-tagna stringeva al petto i suoi segreti e nonli faceva trovare. In quella pace solennesenza tempo, pareva che la natura fosseammutolita d’improvviso, come se unamano possente le avesse chiuso la bocca.
Ma presto dalle vette veniva giù quel ven-to che pareva trascinare frasche e la mon-
tagna ripigliava a muoversi e parlare. Cala-va improvviso a stordire le foglie, frullarle,farle cantare. Muoveva il sottobosco di sus-sulti, come a cercare qualcosa di smarrito.Portava sulle mani voci di falchi e aquile,poiane e gracchi. E portava la polvere deimonti corrosi dal tempo e dalla vita, limatidalle intemperie.
I monti cambiavano pelle anno dopo an-no, come le bisce. Affidavano al vento la pol-vere della loro consunzione, giorno dopogiorno, fino a smagrire ed estinguersi neimiliardi di secoli. Ma questo i bambini nonlo sapevano. A loro sembrava che il mondofosse eterno e che in ogni lato ci fosse una vi-ta nascosta, che si poteva udire, sfiorare,
palpare. Strane voci percorrevano le valli.Voci piene di mistero s’adagiavano sui bo-schi, che le filtravano facendo toccare il suo-lo una a una, come noci che lasciano l’albe-ro d’autunno. Quelle fiabe arrivavano aibimbi. Le portava il vento.
Il vento portava quella polvere impalpa-bile dei monti, un pulviscolo di fiati, un su egiù di suoni e note. Qualcuno sfiorava i tastidella natura, suonava l’immenso pianofor-te con le dita affusolate delle stagioni. Que-sto era il vento. E anche lui, come l’eco, di-ventava un personaggio misterioso dal vol-to imperscrutabile. Un viso da immaginare,cercare, vedere. Nel suo estroso vorticare, avolte gioioso, spesso irritato, ogni tanto lu-natico o cattivo, c’era un via vai di gente in-visibile. E occhi dappertutto. Il segreto delvento stava nella voce: dentro quel fiato so-lido prendeva forma un volto, un ghignoche cambiava a seconda dei toni. Poteva es-sere rabbioso da far paura, quando tiravaspallate a porte e finestre e spaccava i tron-chi degli alberi e liberava quel grugnito pos-sente che tagliava in due le montagne. Eraviolento, rabbioso, cattivo. E insisteva. Inquelle sfuriate la sua fisionomia acquisivasembianze malvagie, come di uno che vuolfar male senza motivo. Però a volte si pale-sava piano, calava nelle radure, verso sera,quando tutto era tranquillo e riposato. Ve-niva a far girare le foglie e le erbe secche sol-levandole in un imbuto circolare che vaga-va rasoterra. In quelle occasioni il vento eraeducato e gentile e non faceva rumore. Siudiva solo il leggerissimo contatto di pa-gliuzze e foglie secche, che si scontravanonel vortice. Agitate dalla brezza rotonda,scricchiolavano e crepitavano come un fuo-co senza fiamme. I bambini fissavano am-mutoliti quello spettacolo affascinante. Adifferenza dell’eco, il vento circolare si po-teva vedere: il materiale da lui raccolto for-mava un cono che camminava qua e là, co-me una trottola. Tutto accompagnato dalprofondo silenzio della natura.
Quel leggero brusìo di folische era la vocedel vento buono e gentile. Quell’alito fine ti-
Il racconto.
Dove nasceil vento
Quei ragazzini alla scoperta dei misteri
della montagna: folletti, ninfe, presenze
Mauro Corona, alpinista e scrittore,
ha raccolto in un libro i protagonisti
dei luoghi a lui più cari.Eccone uno
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midamente calava dai monti, intrufolando-si nei boschi a portare le foglie dell’autunnonel girotondo della vita. In paese tali gira-volte venivano chiamate strie, streghe. Manell’affascinante imbuto che girava, nonpotevano annidarsi le streghe, non era lo-gico né bello. Questo pensavano i bambini,e mai vollero accettare la spiegazione deivecchi. Alla stregua dell’eco, anche il ventoera qualcuno che aveva volto. Nel vorticeche danzava per la radura, i piccoli scorge-vano un viso, ne udivano la voce, sentivanoil respiro. Era la magia della montagna, deiboschi, dei ruscelli. La magia dell’infanzia,e i bambini ne rimanevano incantati.
Il fenomeno dell’imbuto si palesava so-prattutto nelle sere d’estate, prima del-l’imbrunire. O a inizio autunno, quando lerondini partivano. Era affascinante seguirecon gli occhi il vortice magico. «Chissà doveva, chissà quanto dura» si chiedevano. A uncerto punto, in silenzio com’era arrivato, ilvento mollava la presa e filava via. In quelmomento il cono rotante rimaneva sospesoun batter di ciglia e poi cadeva al suolo spar-pagliandosi tra l’erba. Tutto finiva.
Apparivano poco le girandole di vento, sipalesavano di rado, ma quando capitava, ibambini rimanevano incantati per ore.
Appena grandicelli, qualcuno si premuròdi chiarir loro il mistero del vento in cerchio.Frequentavano le medie. Era un fenomenosemplice, spiegabile scientificamente. Dis-sero proprio così: scientificamente. E lospiegarono. Ma gli adolescenti non ci casca-rono. Dimenticarono la spiegazione e se-guitarono a cercare il volto del personaggioche abitava il vento circolare. Volevano an-cora sentirne la voce, vederlo girare nel-l’imbuto. Avevano capito presto che gliadulti soffiano via gli incanti, frantumano isogni, rovinano le cose. Soprattutto bana-lizzano i segreti. Cercano persino di spiega-re Dio. Gli adulti sono così, vogliono spiega-re Dio. Invece non c’è niente da spiegare. Discientifico, dentro i segreti della monta-gna, non c’è nulla. Prevale il mistero, quellosì. Il mistero che avvolge il mondo. Per chi ci
crede, ovviamente. Come per Dio. «Dove nasce il vento?» chiedevano i bam-
bini. La mitologia lo vuole in una grotta dal-la quale scappa ogni tanto per raggelaregente, far volare cappelli, strappare tegole,scompigliare orti, rovesciare ombrelli. Airagazzi, quel vecchio che pareva un lariceaveva insegnato diverso. Il vento sale dallespaccature della terra. È fatto delle animedei defunti. Molte di queste anime erano ri-maste serene anche dopo la morte, nono-stante una vita tribolata. Molte, dannate esenza pace, da vive non furono contente, cel’avevano con tutti, niente gli andava bene,al minimo sgarro si vendicavano. Anime di-sperate che avrebbero voluto un corpo eun’esistenza diversi. Un destino migliore.Più successo, più denaro, più bellezza. Ani-me invidiose finite assieme alle altre dentrole spaccature della terra. Laggiù, nel pur-gatorio di roccia, aspettavano. Ogni tantouscivano fuori, e salivano sulle vette per av-vicinarsi a Dio. E chiedergli se era il mo-mento di accoglierle in Paradiso. «Non an-cora» rispondeva. Allora le anime buone ca-lavano dai monti a vagare un po’ nei luoghidove erano vissute. Si fermavano nelle ra-dure, a far girare le foglie, ondeggiare lefronde, carezzare i volti, raccontare storie.Anche le anime dannate calavano dai mon-ti. Si buttavano giù arrabbiate più che mai,a sradicare alberi, strappare tegole, far vo-lare cappelli, scompigliare orti, rovesciareombrelli. E, qualche volta, divellere tetti, eporte.
«Così non guadagnavano il Paradiso»sentenziava il vecchio.
«Ma quelle buone sì» osservavano i bam-bini.
«Quelle sì» diceva il vecchio, «ma nel frat-tempo altre persone erano morte. Molte al-tre persone, buone e cattive. E allora i ven-ti, buoni e cattivi, esisteranno sempre comele persone» così concludeva il vecchio.
Ma c’era un “ma”. Nemmeno la sua spie-gazione convinceva i bambini. Nel vento diqualsiasi tipo, immaginavano un solo per-sonaggio, unico, misterioso, invisibile.
Schivo a tal punto da non farsi mai vedere.Questo era il segreto del vento, essere qual-cuno senza far sapere chi. Come gli uomini.
Una volta i bambini decisero di darsi co-raggio e toccare per una volta l’imbuto ro-tante.
«Alla prossima lo prendiamo con le mani»disse il maggiore. Aspettarono parecchimesi finché un pomeriggio d’estate, allabaita dell’eco, il vento circolare arrivò. Co-minciò a far girare, come sempre, foglie, pa-gliuzze, fili d’erba e muschi.
«Eccolo!» bisbigliò il maggiore.Saltò al centro del prato e infilò un brac-
cio nella minuscola tromba d’aria. Sentì lefoglie crepitare sulla pelle, lo pungevanocon dei tic. Quel contatto piuttosto banalefu deludente. Scappò indietro e spinse il piùpiccolo a ripetere il gioco. Era molto giova-ne il fratello minore, mostrava qualche ti-tubanza. Allungò la mano e la ritirò velocis-simo. Anche lui tornò indietro, però esulta-va del suo coraggio. Toccava a quello di mez-zo, ma doveva far presto, l’imbuto magiconon sarebbe durato a lungo. Il ragazzinonon si mosse. Rifiutò d’infilare le mani nel-l’imbuto vorticante. Pensarono che avessepaura, invece non ne aveva. Semplicemen-te voleva conservare intatta la visione affa-scinante che appariva nelle radure. Tuttoqui. Non voleva mettere le mani nel segretoe rovinarlo. Gli bastava osservarlo. Vederlogirare nel vortice della sua breve vita, pri-ma che sparisse. Disse: «No, non lo tocco,non voglio». E non lo toccò. Preferì sognare.Toccarlo significava rompere il giocattoloper vedere cosa c’è dentro. Quel ragazzino,morto a nemmeno diciotto anni, non volevatrovarsi in mano una manciata di cocci.Questo il maggiore lo capì molti anni dopo.Troppo tardi. I segreti vanno cercati ma la-sciati dove stanno. Sapere che ci sono, sco-prirli, goderli, evitando di umiliarli, rubar-li, smontarli. Così quel giovane se ne andòsenza conoscere la delusione del vento cir-colare sulle braccia. E forse, fu meglio così.
©2015 Mondadori Libri
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Dimenticarono
la spiegazione
degli adulti
e seguitarono
a cercare il volto
del personaggio
che abitava tra
le foglie volanti
Volevano ancora
sentirne la voce,
vederlo girare
nell’imbuto
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IL LIBRO
“I MISTERI DELLA MONTAGNA”
DI MAURO CORONA
(MONDADORI,
240 PAGINE, 19 EURO),
DA CUI È TRATTO IL RACCONTO
CHE QUI PUBBLICHIAMO,
È ORA IN LIBRERIA
Repubblica Nazionale 2015-04-12
la RepubblicaDOMENICA 12 APRILE 2015 34LA DOMENICA
PAOLO DI PAOLO
ROMA
ENTRANO LE PANCHINE, qualche fontana,c’entra-no spesso le case e le scuole, da fuori e da den-tro. C’entra l’estate. Nessuna scenografia turi-stica, maestosa. Nessuna terrazza mondana,poca grande bellezza. Se c’è l’imponente SanPietro, è perché qualcuno vuole fuggirne. Sec’è il Circo Massimo, è perché qualcuno ci fi-nisce letteralmente dentro, in macchina.In attesa di vedere il suo ultimo film, Miamadre, nelle sale da giovedì, viene voglia diattraversare la Roma di NanniMoretti insieme a Nanni Mo-
retti. Chiedergli che rapporto ha con la città in cui vive da sempresenza esserci nato (è nato a Brunico) dice che è come chiedergliche rapporto ha con sua madre. «Tua madre è tua madre, èquella che ti ha dato la vita». La sua Roma è vissuta, più checontemplata; persa di vista, perché la vita distrae, e poi scopertao riscoperta per caso: “Spinaceto, pensavo peggio! Non è per nientemale”. Basta montare su una Vespa nei giorni più assolati e deserti di ago-sto, come fece nel ’93, perché la città stessa diventi un film, il film. «Pensa-vo a un corto», spiega adesso, «da proiettare solo nel mio cinema». Vago per la città, an-nunciava in Caro diario: dal Gianicolo a Prati, dai Parioli alla Garbatella, anche solo perosservare le case degli altri; o per misurare su un metro — come accade in Aprile — iltempo che resta. E per andare a cercare i luoghi “di quando ero bambino”, senza troppanostalgia: la scuola elementare Leopardi a Monte Mario, la piscina al Foro ita-lico, il parco Nemorense. “Non mi fanno particolare effetto... Non mi viene dapiangere né da scrivere una brutta poesia”. L’area dei set dei primi film — Iosono un autarchico, Ecce Bombo— è quasi tutta compresa nella zona sotto ca-sa, anche la camera da letto dell’alter ego Michele Apicella è presa in prestitodalla vecchia abitazione dei Moretti, via San Tommaso d’Aquino, fra Prati eTrionfale. Quando uscì Ecce Bombo, marzo ‘78, a una settimana dal sequestroMoro, molti — ricorda oggi Moretti — scrissero che era un film troppo roma-no, «anzi un film su Roma nord, anzi sul quartiere Prati, anzi su piazza Mazzi-ni. Ma è successo perché quello era il luogo dove io vivevo». E comunque spes-so, aggiunge, più si parte dal particolare, più si ha la possibilità di diventareuniversali. D’altra parte, chi avrebbe rimproverato al Woody Allen di Manhat-tan di essere troppo newyorchese? Un recensore d’eccezione, Goffredo Pari-se, scrisse che «i vitelloni rivisitati» da Moretti non avevano niente di provin-ciale, e che «per la primissima volta» Roma perdeva quell’eterna aria da stra-paese. Mettendo «lo humour al posto del comico», il ventenne Moretti taglia-va i ponti con la commedia all’italiana, salutava Risi e Monicelli enon rievocava nessuna dolce vita. Se gli chiedi però a quali film suRoma è legato, Fellini c’è. Fra i nuovi cita Garrone, Estate roma-na, e Gianni Di Gregorio, Pranzo di Ferragosto. Ma la Roma di Mo-retti è davvero e fino in fondo sua, senza ascendenze né parente-le: autarchica. Se c’entra Pasolini, è perché va a cercarlo, fuoritempo massimo, all’Idroscalo di Ostia, il luogo in cui fu ucciso. Operché, per la parrocchia di La messa è finita, sceglie via Cori, pe-riferica Borgata Gordiani, dove era stato girato Accattone. E pro-prio in una scena di La messa è finitaappare l’arena di un cinemadi Trastevere, evocata da Pasolini nella Religione del mio tempo:Largo Ascianghi, Cinema Nuovo, sarebbe diventato nel ‘91 ilNuovo Sacher, gestito tuttora dallo stesso Moretti. Il cui quartie-re d’elezione, poco conosciuto dai non romani, è Monteverde, ap-pena sotto il Gianicolo. In una scena di Aprile un amico, dalla se-greteria telefonica, apostrofa Moretti come «il leone di Monte-verde». Lui sorride. «Mi piace girare in luoghi veri, e magari ri-crearli, adattarli». Il suo apprendistato alla paternità si svolge sul terrazzo di casa, nelcuore del quartiere; ed è fra quelle strade in salita la scuola surreale in cui il protagoni-sta di Sogni d’oro spiega Leopardi ad alunni svogliatissimi — Liceo Manara, via BasilioBricci. È ancora fra quelle strade che Michele e Bianca — Bianca, 1984 — inseguono lafelicità. Si incrociano sulla scalinata che lega via Saffi a via Fratelli Bandiera. “La felicitàè una cosa seria, no?” domanda Michele. E si risponde da solo: “Ecco, allora, se c’è, dev’es-sere assoluta”. Come certe passioni: la musica, che rende quasi esotica la Roma d’ago-sto in Caro diario, le canzoni ascoltate e cantate in macchina, in casa, a tavola, in un vec-chio drive-in di Casal Palocco (La Messa è finita), e perfino nel palazzo apostolico da ungruppo di cardinali, in Habemus papam. C’è una scena danzante in quasi ogni film diMoretti, fino a Mia madree compreso il geniale musical sul pasticcere trotzkista in Apri-le. E a proposito di pasticceri. Una gelateria di Corso d’Italia e una pasticceria di via Sa-botino in Sogni d’oro, dove compare la famigerata Sacher “Torten”; il barattolone di Nu-tella in Bianca; in Habemus papam le bombe alla crema di Borgo Pio, la cui fama è arri-vata anche ai cardinali neozelandesi. Piaceri minimi, abitudini: le costanti dei miei film,dice Moretti, sono anche queste, «i pranzi in famiglia, le telefonate, giocare a pal-letta nella propria stanza, la scuola». Le rovine del passato più remoto non in-gombrano, e quelle del passato prossimo sfumano dentro un presente pieno,toccato spesso dalla grazia o da qualche segno rivelatore. Allora può capitar-ti di aspettare l’alba sulla spiaggia di Ostia, guardando il mare, per accorgertiche il sole sorge dalla parte opposta, e questo diventa appunto “un segno,un invito a capire”. Può capitarti, anni dopo, di passare in Vespa su Pon-te Flaminio — «il mio preferito» — mentre intorno impazziscono i clac-son per una vittoria della sinistra, e tu alzi le braccia urlando: “Quattrochili e 200 grammi!”, il peso di tuo figlio appena nato. O correre anco-ra in Vespa lanciando all’aria vecchi ritagli di giornale. Il pomeriggio èsereno — e Roma ha quella luce, dice Moretti, «che c’è in pochi posti almondo».
“Mi piace girare in posti veri, e magari ricrearli, adattarli”
racconta Moretti.Dal quartiere Prati alla Garbatella, dal Ponte
Flaminio al vecchio cinema Capranichetta del suo nuovo film
COME SONOFATTOMALE!COME SONOFATTO MALE!
Spettacoli. On the road
ECCE BOMBO, 1978 PIAZZA DEI QUIRITI
L’AUTORE
PAOLO DI PAOLO HA SCRITTO
INSIEME A GIORGIO BIFERALI “VIAGGIO A ROMA
CON NANNI MORETTI” CHE SARÀ IN LIBRERIA
PER LOZZI PUBLISHING (176 PAGINE, 12 EURO)
DA GIOVEDÌ16 APRILE
Passeggiata con regista
da un set all’altro
© RIPRODUZIONE RISERVATA
ILLUSTRAZIONE DI ANDREA MAGAGNATO
DOMANIIN REPTV NEWS (ORE 19.45,
CANALE 50 DEL DIGITALE
E 139 DI SKY)
PAOLO DI PAOLO
RACCONTA LA ROMA
DI NANNI MORETTI
C’
Repubblica Nazionale 2015-04-12
la RepubblicaDOMENICA 12 APRILE 2015 35
SEMBRAVACHE TUTTOANDASSE MALEE INVECEMI TROVOA FARE UN FILMSU BERLUSCONI!
LA FELICITÀÈ UNA COSASERIA, NO?ECCO, ALLORA,SE C’È,DEV’ESSEREASSOLUTA
TORNATECON NOI,UN MILIARDODI PERSONEVI STAASPETTANDO!MA NON SI PUÒFARE CHE IOSCOMPAIO?
HABEMUS PAPAM, 2011 TEATRO VALLE
IL CAIMANO, 2006 AUDITORIUM
MIA MADRE, 2015 CINEMA CAPRANICHETTA
VOI GRIDAVATECOSE ORRENDEE VIOLENTISSIME,E VOI SIETEIMBRUTTITI.IO GRIDAVOCOSE GIUSTEE ORA SONOUNO SPLENDIDOQUARANTENNE
MARGHERITA,FAI QUALCOSADI NUOVO,DI DIVERSO.DAI, ROMPIALMENO UN TUOSCHEMA. UNOSU DUECENTO
CARO DIARIO, 1993 PIAZZA SANT’EUROSIA
BIANCA, 1984 VIA AURELIO SAFFI
QUESTA È UNADELLE POCHEPASTICCERIEDI ROMADOVE FANNOLA SACHERTORTEN
SOGNI D’ORO, 1981 VIA SABOTINO
LA MESSA È FINITA, 1985 PALOMBELLA ROSSA, 1989
“CASOMAI QUALCUNO SI CHIEDESSE:
QUESTO, COME VIVE?
CHI LO MANTIENE? HA UNA CASA,
EPPURE NON LAVORA…
COSÌ ABBIAMO CHIARITO, NO?”
IO SONO UN AUTARCHICO, 1976
“IO SONO STATO FELICE E NON HO TANTO
DESIDERIO DI TORNARE NEL VENTRE
MATERNO. PERÒ DI TORNARE LÌ,
ME BAMBINO, CON QUELLE DUE BORSE
A TRACOLLA, SÌ”
“LA GENTE HA TANTI GUAI,
QUANDO MI PARLA
IO MI DISTRAGGO”
Repubblica Nazionale 2015-04-12
Astronomia/Galaxy ZooMILIONI DI IMMAGINI DI GALASSIE TRASMESSE
DAI TELESCOPI SPAZIALI DEVONO ESSERE CLASSIFICATE
SECONDO LA FORMA E IL COLORE
DAI CITIZEN SCIENTIST
WWW.GALAXYZOO.ORG
Etologia/eBirdIL PROGETTO DELLA CORNELL UNIVERSITY
RICEVE 25 MILIONI DI OSSERVAZIONI AL MESE
SUI MOVIMENTI DEGLI UCCELLI MIGRATORI
DI PASSAGGIO NEI CIELI DEGLI STATI UNITI
WWW.EBIRD.ORG
Biologia marina/Secchi diskCON UNO STRUMENTO CHIAMATO “IL DISCO DI SECCHI”
E UNA APP, GLI APPASSIONATI POSSONO INVIARE DATI
SULLA RICCHEZZA DI FITOPLANCTON
NEL MARE CHE STANNO ATTRAVERSANDO
WWW.SECCHIDISK.ORG
la RepubblicaDOMENICA 12 APRILE 2015 36LA DOMENICA
ELENA DUSI
A PROSSIMA SCOPERTA sul bosone diHiggs potrebbe arrivare da te. Ose la fisica non è la tua passione,potresti essere il primo a osserva-re l’esplosione di una supernova,o ad avvistare una cometa dando-le il tuo nome. Chi preferisce aiu-tare chi soffre potrebbe ispirarsiall’esempio di Scott Zacanelli. Chiè costui? Un perfetto signor nes-suno. Eppure questo impiegato diuna fabbrica di valvole del Texas
ha contribuito a disegnare una molecola che è andata insperimentazione come possibile terapia per l’Hiv. Ma cisono anche ambizioni più terra terra da soddisfare, comequella di poter dire “anch’io ho contribuito” al progettosulla biodiversità dell’ombelico: centinaia di cittadinihanno donato alla scienza un cotton fioc strofinato suipropri microbi, consentendo ai biologi della North Caro-lina State University di scoprire che al centro del nostroaddome vivono tante specie viventi quanto quelle di unaforesta tropicale.
C’è posto per tutti nel mondo della citizen science. Nonserve una laurea, ma solo tempo e passione. Dal bosonedi Higgs all’osservazione dell’ambiente, dall’astronomiaalla ricerca sul cancro, sono centinaia i progetti scientifi-
ci fra cui scegliere. Da quando i ricercatori si sono accortiche molti problemi sono troppo difficili da risolvere da so-li — e che i computer spesso sono troppo stupidi per dareuna mano — hanno chiesto aiuto ai cittadini appassiona-ti (a volte semplici studenti di liceo) consentendo loro diaccedere ai dati degli esperimenti in cambio di aiuto. Dal-la Nasa al Cern alle principali università e musei del mon-do, i progetti aperti ai citizen scientist negli ultimi annisono esplosi di numero, portando in molti casi a scoperte,pubblicazioni scientifiche e sperimentazioni di potenzia-li farmaci.
Insieme a selfie e hashtag, la parola citizen science èstata tra le new entry del 2014 nel dizionario Oxford del-la lingua inglese. La sua definizione è: “Un progetto scien-tifico intrapreso da membri del pubblico generale, spes-so in collaborazione con, o sotto la direzione di, scienzia-ti professionisti e istituzioni scientifiche”.
Se di scoperte di semplici amatori è piena la scienza, og-gi nel dialogo fra ricercatori e cittadini si è inserito un ter-zo interlocutore: il web. Grazie alla Rete la raccolta dei da-ti può trasformarsi in un social network e l’esperimentoin un videogame. Ed è così che l’unione degli scienziati
della domenica può fare la forza. La storia di FoldIt è for-se uno dei casi più limpidi dell’efficacia della scienza fat-ta dai cittadini. I ricercatori dell’università di Washing-ton a Seattle nel 2008 hanno inventato un gioco per com-puter le cui regole altro non sono che quelle della biochi-mica. I concorrenti ci si sono subito gettati a testa bassa,piegando e deformando una proteina per farle raggiun-gere la conformazione con il massimo livello di stabilità.Secondo una formula che è stata ripresa da molti altri pro-getti di citizen science, i concorrenti di FoldIt ricevevanoun punteggio per ogni progresso fatto, potevano consul-tarsi in chat e formare squadre per sfidare altri concor-renti. È qui che Scott Zacanelli si è rivelato il campione nu-mero uno, risolvendo problemi che l’intelligenza di uncomputer non è capace di affrontare. La proteina ottenu-ta è stata poi sintetizzata in laboratorio per essere speri-mentata. Non arriverà probabilmente a curare l’Aids co-me era nelle speranze dei ricercatori di Seattle, ma di cer-to FoldIt ha aperto una strada ai successivi progetti di ci-tizen science. Il più prolifico dei quali è forse Galaxy Zoo,che va avanti dal 2007 all’università di Oxford e chiede aivolontari di classificare a seconda della forma e del colo-re milioni di galassie fotografate da varie generazioni ditelescopi spaziali. A spirale o ellittiche? Scegliere è uncompito per il quale i computer sono pressoché inutili eper evitare che anche i cittadini scienziati diano la rispo-sta sbagliata, la stessa galassia viene fatta valutare da piùpersone contemporaneamente. Finora il lavoro di 150mi-
la appassionati ha permesso di ca-talogare 50 milioni di galassie e dipubblicare decine di articoliscientifici. Un lavoro che gli astro-nomi da soli avrebbero impiegatodecenni a portare a termine.
Il punto di partenza della citi-zen science può essere fissato nel1999. Tutto partì da ETe dall’ideadegli scienziati americani diBerkeley che forse in quel mo-mento nell’universo un extrater-restre stesse facendo “telefonocasa”. Con il progetto Seti@homegli astronomi si misero a cercarevolontari per collegarsi ai lorocomputer e sfruttarne la capacitàdi calcolo nei momenti di inatti-vità. Analizzare tutti i dati dei ra-diotelescopi impegnati nell’a-scolto dell’universo si era rivelatoinfatti un compito troppo pesan-te anche per i calcolatori di unadelle più importanti universitàdel mondo. Anziché limitarsi aprestare i computer, presto i vo-lontari iniziarono a dare una ma-no nell’analisi dei dati, fino ad ar-
rivare al recentissimo “Higgs Hunters”, che permetteagli appassionati di collegarsi al Cern di Ginevra e sfo-gliare le immagini delle collisioni fra protoni lanciati qua-si alla velocità della luce all’interno dell’acceleratore diparticelle Lhc. In alcune di queste collisioni fra i fram-menti si crea anche un bosone di Higgs, la particella daNobel che si disintegra dopo un istante brevissimo (diecialla meno ventidue secondi). Osservare a occhio nudo letracce dei frammenti — il compito assegnato ai cittadiniscienziati — permette ai fisici del Cern di individuareeventi interessanti scartati dai computer perché esconodai loro schemi.
Ma alla citizen science sono assegnati anche compitiutili alla società, non solo alla ricerca. L’University Colle-ge London ha assegnato a un gruppo di volontari in Con-go un telefonino con il gps e delle icone da selezionarequando si imbattono in trappole piazzate dai bracconierio alberi tagliati illegalmente. In quello che è stato defini-to un esempio di citizen science estrema, i telefonini so-no stati dotati di una batteria termoelettrica che si rica-rica davanti al fuoco acceso la sera nell’accampamento.
L
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Citizen
La scienza non sarà più materia solo per addetti ai lavori:
grazie a web, big data e tanta passione, sempre più
semplici cittadini aiutano in mille modi i ricercatori
Contando microbi nel proprio ombelico, osservando
comete o magari disegnando molecole anti-Hiv
La prossima scopertapotresti farla (anche) tu
scientist
Storia/Old WeatherINFORMAZIONI PREZIOSE PER LA STORIA,
IN QUESTO CASO DEL CLIMA, PURTROPPO
ANCORA SCRITTE A MANO: AI CITIZEN SCIENTIST
L’INGRATO COMPITO DI DIGITALIZZARLE
WWW.OLDWEATHER.ORG
Next. Eureka
Repubblica Nazionale 2015-04-12
la RepubblicaDOMENICA 12 APRILE 2015 37
Etologia/Snapshot SerengetiNEL PARCO NAZIONALE DEL SERENGETI
SONO STATE PIAZZATE MACCHINE FOTOGRAFICHEPRONTE A SCATTARE AL PASSAGGIO DEGLI ANIMALI.
LE FOTO VANNO CLASSIFICATE E GLI ANIMALI CONTATIWWW.SNAPSHOTSERENGETI.ORG
Nanotecnologie/NanocrafterDAGLI STESSI REALIZZATORI DI FOLDIT,
NANOCRAFTER È UN GIOCO IN CUI BISOGNA ASSEMBLAREMATTONI DNA PER COSTRUIRE DAI CIRCUITI DI COMPUTER
A MINUSCOLE MACCHINE MOLECOLARIWWW.NANOCRAFTER.ORG
Astronomia/Planet HuntersLA SONDA KEPLERO STA CERCANDO PIANETI SIMILI
ALLA TERRA. PER VALUTARE L’ATTENZIONEDEI VOLONTARI CHIAMATI AD ANALIZZARE I DATI,
LA NASA HA INSERITO ANCHE INFORMAZIONI FALSEWWW.PLANETHUNTERS.ORG
Ambiente/ Lost at NightL’UNIVERSIDAD COPLUTENSE DE MADRID
STUDIA L’INQUINAMENTO LUMINOSO DELLA TERRAGRAZIE ALLE MIGLIAIA DI FOTO SCATTATE
DALLA STAZIONE SPAZIALE INTERNAZIONALEHTTP://CROWDCRAFTING.ORG/PROJECT/LOSTATNIGHT
Neurologia/Eye WireÈ UN GIOCO DELLA PRINCETON UNIVERSITY
IN CUI BISOGNA RICOSTRUIRE LE CONNESSIONIFRA I NEURONI PER DISEGNARE
UN CERVELLO A TRE DIMENSIONIWWW.EYEWIRE.ORG
Psicologia/Baby LaughterPER SCOPRIRE COME SI SVILUPPA
IL SENSO DELL’UMORISMO DEI BAMBINIGLI SCIENZIATI CHIEDONO AI GENITORI
DI INVIARE VIDEO O DESCRIVERNE LE RISATEHTTP://BABYLAUGHTER.NET
Fisica/Higgs HuntersIL PROGETTO COSÌ CHIAMATO PERMETTE DI VISUALIZZARE
LE COLLISIONI FRA I PROTONI DELL’ACCELERATOREDI PARTICELLE LHC AL CERN PER CERCAREPOSSIBILI TRACCE DEL BOSONE DI HIGGS
WWW.HIGGSHUNTERS.ORG
Storia/Ancient LivesNELL’800 IN EGITTO FU SCOPERTA
UNA DISCARICA DI PAPIRI CON TESTI DEI VANGELI,DEI CLASSICI GRECI E LATINI. I FRAMMENTI
VANNO TRASCRITTI CARATTERE PER CARATTEREWWW.ANCIENTLIVES.ORG
Storia/Operation War DiaryLA STORIA DELL’ESERCITO INGLESE
NELLA GRANDE GUERRA VA COMPLETATATRASCRIVENDO 1,5 MILIONI
DI PAGINE DEI DIARI DI GUERRA DEI SOLDATIWWW.OPERATIONWARDIARY.ORG
Medicina/ Reverse the OddsIL CANCER RESEARCH UK HA CREATO
TRE VIDEOGAME PER IL CELLULARE IN CUI OCCORREINDIVIDUARE LE MUTAZIONI GENETICHE
CHE RENDONO IL CANCRO UN NEMICO OSTICOWWW.CANCERRESEARCHUK.ORG
Etologia/Penguin WatchLE FOTO SCATTATE IN ANTARTIDE DA VARIE SPEDIZIONI
DI SCIENZIATI DEVONO ESSERE ANALIZZATEPER ESTRAPOLARE DATI SULLA BIOLOGIA
E LA RIPRODUZIONE DEI PINGUINIWWW.PENGUINWATCH.ORG
Etologia/Canid Howl ProjectAI VOLONTARI VIENE CHIESTO DI ANALIZZARE
REGISTRAZIONI DI ULULATI DI CANI, COYOTE E LUPIIN DIVERSI CONTESTI PER CAPIRNE
IL COMPORTAMENTO SOCIALEHTTP://HOWLCODER.APPSPOT.COM
Repubblica Nazionale 2015-04-12
la RepubblicaDOMENICA 12 APRILE 2015 38LA DOMENICA
Il libro
Sono più di mille e cinquecentole ricette della tradizione
riviste e attualizzate da Gualtiero Marchesi.
Il libro, che si intitola “La Cucina Italiana –
Il grande ricettario” (De Agostini, 1.200 pagine,
49,90 euro),sarà in libreria dal 28 aprile
HA DA POCOCOMPIUTO
OTTANTACINQUEANNI E ADESSO
PUBBLICA UN LIBROIN CUI RIVISITA
BEN MILLEE CINQUECENTO
PIATTIDELLA NOSTRA
TRADIZIONE.DALLA ZUPPA
DI PESCEALLA COTOLETTA
ALLA MILANESE
LICIA GRANELLO
RECITA LA PREFAZIONE: “Oltre alla spinta innovativa che Marchesiha dato alla cucina italiana, va considerato anche un altro im-portante merito. Rivisitando, infatti, le specialità regionali, hacontribuito a nazionalizzarle, a universalizzarle, ossia a ren-derle per tutti e di tutti, estrapolandole dalla loro realtà localeper promuoverle a pieno titolo come piatti della cucina italia-na”. Fabiano Guatteri, enogastronomo e storico amico di Mar-chesi, incornicia con poche frasi la trama di una vita al serviziodella cucina d’autore. Il Grande Vecchio della cucina italianaha da poco compiuto ottantacinque anni, portati con l’orgogliomalandrino di un uomo che non ha mai smarrito la percezionedi sé, del proprio valore, ma anche — per fortuna — dei propri
limiti. Così, pure il cimento del nuovo libro, in uscita a fine mese, è stato affrontato con il giu-sto mix di interventismo e rispetto.
Il mondo è pieno di cuochi, bravi, bravissimi, straordinari, che si sottopongono volentie-ri all’amabile sofferenza di esplicitare su carta il proprio percorso culinario, tra aneddoti ericette, convinzioni personali e riconoscimenti esterni. Ci si misura sul proprio terreno, snoc-
ciolando perle di bravura e creatività comegrani di un rosario gastronomico. Ben piùcomplicato è mettere mano al mare ma-gnum della cucina tradizionale, camminan-do sul bilico pericoloso che divide il ricono-scimento pedissequo del déjà vu — guai a chitocca le lasagne della mamma — dalla ten-tazione di tutto cambiare.
Il cuoco che ha aperto il raviolo trasfor-mandolo in una lasagnetta policroma e hafatto assurgere la pasta fredda a regina dellagastronomia grazie all’insalata di spaghettial caviale, ha preso l’impegno di rivisitare nelsenso letterale del termine, con attenzione esenso pratico. Perché un conto è preparare laparmigiana di melanzane in un laboratoriod’alta ristorazione, tra macchinari, tecnichee processi di ultimissima generazione, altroè muoversi in una cucina di casa. Dove il for-no ventilato e il termomix sono eccezioni e si
spadella con pentole comuni, usando il tem-po e il talento a disposizione, che non sonomai abbastanza.
Nessuna ricetta è stata lasciata orfana diuno sguardo attento, di un pensiero mirato atraghettarla nei gusti e nelle esigenze del ter-zo millennio con leggerezza e buon senso.Una rilettura culinaria che fa bene al cuoreprima che al palato, dalla panna non demo-nizzata ma dosata, alla freschezza del gustorilevata con vino e aceto, mentre alle verdu-re viene riconosciuta piena dignità di prota-goniste dei piatti e non di semplice decora-zione, anche grazie a una ripartizione geo-grafica davvero originale.
Per una volta, infatti, non la regionalitàma il terroir a fare la differenza. Da una par-te la cucina di terra, dall’altra quella di mare.Certo, il primato vegetale di fave e cicorianon è riportabile nell’entroterra del nord, ele lunghe cotture con intingoli appartengo-no più alla pianura padana che al tavolierepugliese. Ma cucinare il pesce attiene alla fa-scia costiere dalla Liguria alla Sicilia, così co-me il maiale si lavora in modo simile sull’ap-pennino bolognese e in Irpinia. Una naziona-lizzazione della cucina regionale che sareb-be molto piaciuta a Pellegrino Artusi, ulte-riore medaglia sul petto del divin Marchesi.
Gualtiero Marchesi.Il Grande Vecchio della cucinache rilegge la tavola degli italiani
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Crema di asparagi
Appassisco la cipollanel burro, bagnandocon l’acqua di cotturadegli asparagi, poi dentrogli asparagi passatial passaverdura e la pannache dà consistenza
Pesci in carpione
Al posto della tradizionalefrittura, ho scelto di dareleggerezza, aggiungendoi pesci crudi al carpione —aceto bianco, scalogni, aglio,carota, sale — in finaledi cottura
Arrosto di vitello al latte
Carne rosolata nel burrochiarificato (privatodell’acqua) e tolta. Nella pentola, la cipollaad appassire. Di nuovodentro la carne e poi il latte.Ridurre il fondo di cottura
Lavarello al vino bianco
Rosolo i filetti in poco burroe li metto da parte. In padellaqualche cucchiaio di vinobianco e il fumetto fatto con le lische, aggiungendopoco alla volta dadinidi burro freddo
Sapori. D’autore
Zuppa di pesce e cozze
Sfiletto il pesce, preparoun fumetto con le lische,lo aggiungo a carote, cipollae sedano appassiti, colorati con la passata. Dentroil pesce e le cozze pulite.Dieci minuti di cottura
Lasagne verdi
Cuocio la pasta, sgoccioloe fodero la teglia. Coprocon ragù, la panna ridottadella metà e il grana. Finitigli strati, distribuisco burroa fiocchetti e infornoper 40 minuti a 180 gradi
8ricetterivedutee corrette
Repubblica Nazionale 2015-04-12
la RepubblicaDOMENICA 12 APRILE 2015 39
Cotoletta alla milanese
Passo le costolette nell’uovosbattuto leggermente salatoe nel pangrattato —il migliore è la mollicadel pancarrè grattugiata —e poi le friggo nel burrochiarificato
GUALTIERO MARCHESI
C’È UN LIBRO DEGLI
ANNI Settanta,credo ancoraletto, che siintitola Lo zen
o l’arte della manutenzione dellamotocicletta. Un bel titolo checito volentieri per questa summadi ricette che rappresenta ilnostro passato culinario. Lo zenriguarda la parte vuota delbicchiere, il contenuto dariempire, non il contenitore. Ilcontenuto che comprende lastoria, la tradizione, imicroclimi, i prodotti, il gusto, èpieno di novità, è ricchissimo disuggerimenti e va, pertanto,curato con la massimaattenzione. Col tempo per me lacucina è diventata un’arte e hasignificato la libertà di viaggiarein moto, di fare manutenzione,aggiornando, tappa dopo tappa,il sapore stesso della vita. Ora ho fatto il punto sulpatrimonio della cucina italiana,osservando con amore quelloche è stato fatto, proponendouna versione aggiornata deipiatti, senza doverli stravolgereper sembrare originale. Rispettoa certe bufale creative, a certiesercizi di stile, all’agonismotelevisivo fine a se stesso,studiare e confrontarsi è la sceltamigliore. Nel grande ricettariotradizionale si avvertel’impronta del mondofemminile, il sapere digenerazioni di madri,l’attaccamento alla terra, cosìattuale in tempi di Expo; c’èsoprattutto quello che predicoda anni: il bello puro è il verobuono, come dice mia figliaPaola. Se ognuno di noi,responsabile della salute altrui,mettesse la bellezza e la verità alcentro del proprio lavoro,lavorerebbe meglio e con piùgioia. Contemplare un belpaesaggio fa bene all’anima.Parliamoci chiaro, la cucina èprima di tutto un impegno, maanche un modo di esprimersi, unlinguaggio, in cui la personalitànon può superare lacompetenza, né la competenzaescludere il talento. Solo chi èresponsabile è veramente liberoe chi è libero aggiunge un po’ dibellezza e di verità a questomondo.
Lo zeno l’artedella bufalacreativa
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IL PERSONAGGIO
GUALTIERO MARCHESI,
OTTANTACINQUE ANNI,
HA FATTO LA STORIA
DELLA NOSTRA CUCINA.
A SINISTRA,
CON GLI ALLIEVI
DELLA SCUOLA
INTERNAZIONALE
DI CUCINA ITALIANA
Sformato di panettone
Faccio bollire succo di agrumi,Gran Marnier e sciroppodi zucchero riducendoa metà e lo aggiungo a cremainglese, colla di pesce,albumi montati, pannae panettoni a dadini
INGREDIENTI PER 4 PERSONE
320 G. DI RISO FINO
250 G. DI FUNGHI MISTI
1 L. DI BRODO VEGETALE
O DI CARNE
30 G. DI BURRO ACIDO
20 G. DI BURRO
20 G. DI PREZZEMOLO
1 SPICCHIO D’AGLIO
SALE
ortate a ebollizione il brodo. Pulite i funghi, pas-sandoli con un panno umido per eliminare even-tuali residui terrosi, e affettate i più grossi; lavateil prezzemolo, asciugatelo, staccate le foglie e tri-
tatele; schiacciate l’aglio e sbucciatelo.Fate fondere 10 grammi di burro in una padella, uni-
tevi l’aglio e fatelo soffriggere dolcemente per cinqueminuti. Eliminatelo, alzate leggermente la fiamma, uni-te i funghi e fateli cuocere per circa dieci minuti, sinquando saranno teneri, salandoli a fine cottura e unen-do il prezzemolo al momento di spegnere la fiamma. Nelfrattempo scaldate il restante burro in un’altra casse-ruola e tostatevi il riso per poco più di un minuto.
Versate il brodo bollente, un mestolo per volta, in mo-do che il liquido copra appena la superficie del riso, e por-tate a cottura; una volta pronto, unite il burro acido e ifunghi. Mescolate e servite.
Il mio risotto ai funghiun classico senza tempo
La ricetta
P
PREPARAZIONE: 15 minuti COTTURA: 25 minutiDIFFICOLTÀ: media
Repubblica Nazionale 2015-04-12
la RepubblicaDOMENICA 12 APRILE 2015 40LA DOMENICA
Mimo, ballerino, coreografo, attore, regista. Raggiunse una straor-
dinaria fama nella Londra anni Settanta con i suoi spettacoli visio-
nari: “Mi abbandono sempre alla musica, come un albero s’abban-
dona alla brezza”. È stato poi maestro di leggende del rock, come
Mick Jagger e soprattutto David Bowie: “Con lui fu amore a prima vi-
sta, peccato che ancora non sapesse muoversi sul palco”.Oggi, a set-
tantasei anni, vive a Livorno in
una casa straripante di ricordi. E
ancora fa teatro: “Per essere un
grande danzatore devi essere un
grande cantastorie.L’arte è dare
forma all’emozione per poi co-
municarla al pubblico ”
LindsayKempADRIANO ERCOLANI
LIVORNO
FASCIATO IN UN’AMPIA, RAFFINATISSIMA VESTE DA CAMERA, ci accoglie con cor-tesia d’altri tempi. L’eleganza ipnotica del suo eloquio è squisitamen-te british, pregno di reminiscenze letterarie, facile farsi incantare daisuoi ricordi sempre narrati con fascinoso aplomb. Artista fuori dal-l’ordinario, Lindsay Kemp ha attraversato ormai quasi cinquant’anni
di cultura che da underground è diventata mainstream grazie anche ai suoi “al-lievi”, da Nureyev a Fellini, da Mick Jagger a Ken Russell. Ma, soprattutto, haesercitato un’influenza determinante sulla storia del rock: Kate Bush, Peter Ga-briel, David Bowie, che più di tutti ha dichiaratamente subìto la sua influenza,sono stati solo alcuni tra i suoi seguaci.
Lo incontriamo nella sua ultima residenza italiana, nel cuore di Livorno, a po-chi passi dal mercato popolare, tra colori, fragranze e incontri multietnici, qua-si una quinta vivente del suo immaginario barocco. Kemp, oggi settantaseien-ne, ha un legame profondo con l’Italia: ha vissuto per anni a Roma (città che amafin dagli anni Sessanta, quando Fellini veniva a vedere i suoi spettacoli di stra-da a Piazza Navona), zona Monti, poi è andato a abitare in una chiesa sconsa-crata, a Todi, infine si è stabilito nella città toscana dove collabora con il tea-tro cittadino intitolato a Goldoni. Ogni sua battuta, ogni sfumatura o allusio-ne, è amplificata in modo memorabile dall’incanto continuo della sua mimi-ca facciale e dal giocoso trasformarsi della voce, ora beffarda, ora commossa,ora profonda, toccante. È reduce dal ritornosulle scene a Roma e Genova col suo ultimospettacolo, Kemp Dances Inventions andReincarnations, antologia che lui però non in-tende affatto come un commiato di fine carriera:«Sì, è vero, in alcune parti ripropongo dei vecchipezzi. Ma ogni volta che salgo su un palco è co-munque sempre una reinvenzione. Per questo il
sottotitolo della produzione è Invenzioni e reincarnazioni: sono la-vori che io amo eseguire ma che ogni volta interpreto in maniera dif-ferente: raccontano sempre un oggi, non un ieri». Così Kemp riper-corre alcune celebri interpretazioni della sua carriera: il diavolo tenta-tore ne l’Histoire du Soldat di Stravinskij, la follia mistica del leggen-dario Nijinskij, la morte straziante de La Traviata, il volo celeste del-l’Angelo, che trascina il pubblico nella sua danza circolare, come un der-viscio etereo vestito di trascendenza. Un processo di identificazione neisuoi personaggi e di trasfigurazione che avviene in uno stato quasi di tran-ce: «Tutte le mie lezioni iniziano con un momento di pace e silenzio, una for-
ma di meditazione. E poi la musica. Mi abbandono alla musica, come un alberos’abbandona alla brezza, consentendo alla musica di trasportarti in un altromondo. E così improvvisamente… siamo in Giappone! O in Spagna! Spero sem-pre che in questo stato di trance si liberi quello che García Lorca chiamava il“Duende”, l’altra faccia della luna che è in noi. Io non recito, vivo effettivamen-te l’esperienza. Come i bambini quando giocano, per loro quella è la realtà. Nonrecitare, sii te stesso. Se riesci a seguire questo principio, non sei mai ripetitivo.Sei reale». Il rapporto tra realtà e illusione è la dialettica costante e intermina-bile di un artista che ha fieramente incarnato sulla scena il diverso, l’oltraggio-so, l’impossibile. Una serie di reincarnazioni interpretate attraverso la ma-schera cangiante del suo volto: «Quando mi trucco, dipingo con la mia immagi-nazione cosa vedo nello specchio, ciò che immagino sul mio volto. Credo sia unpo’ come portare all’esterno l’interiorità e portare all’interno ciò che è esterno.Rendere visibile ciò che è invisibile».
La casa di Kemp è un museo privato di memorie: magnifici costumi di scena,rarissime locandine di spettacoli consegnati alla storia, volumi e volumi di sag-gi dedicati alla sua arte, gli scatti del fotografo Guido Harari. Tutto, l’arredo in-cluso, è testimonianza della sua traboccante personalità e dei suoi innumerevoliricordi. La sua più grande scoperta, e l’allievo più famoso dell’artista inglese, èuna delle icone fondanti del rock: David Bowie. Celebre la loro storia d’amore,che segnò di fatto l’incontro fra gli artisti che avrebbero reso il glam la cifra sti-listica dominante degli anni Settanta: «Bowie venne a vedere un mio spettaco-lo in un piccolo teatro. Qualcuno mi aveva dato il suo Lp, il giorno prima, quellochiamato proprio David Bowie, dell’etichetta Deram. Mi ricordo la canzone:When I Live My Dream. M’innamorai subito della sua musica, della sua voce.Suonai il disco prima dello show e poi feci la mia entrata in scena. Lui era pre-sente e fu molto lusingato. Venne a trovarmi in camerino, e fu davvero amore aprima vista. Il giorno dopo ci vedemmo nel mio appartamento a Soho e comin-ciammo subito a pianificare tutto quello che avremmo potuto fare insieme. Siinnamorò del mio mondo, rimase incantato soprattutto dal mio Pierrot. Co-minciò a venire alle mie lezioni al centro di danza il giorno dopo, e preparammoinsieme lo spettacolo Pierrot in Turquoise. La mia storia con Bowie è lunga edrammatica, di solito non amo parlarne. Quando lo faccio la reinvento un po’ co-me voglio, ricordandomi solo i momenti più belli». Kemp fu anche la mente delpiù celebre spettacolo del cantante, Ziggy Stardust. Dopo la fine della loro sto-ria d’amore, Bowie si sposò con Angela “Angie”, cantata anche dai Rolling Sto-nes (celebre coppia aperta, lui ricordò che si conobbero «perché frequentavamolo stesso ragazzo»), ma mantenne un profondo legame artistico con Kemp. Co-me lui ben ricorda: «Abbiamo condiviso la stessa passione per la cultura giap-ponese, in particolare per il teatro Kabuki e Nô. Soprattutto, come lui ha poi ri-conosciuto, gli ho insegnato a muoversi sul palco. Aveva, certo, una grazia na-turale, era favolosamente carismatico e aveva un talento versatile, ma come bal-lerino non è che si sapesse muovere egregiamente, almeno all’inizio. Una serain camerino venne sua moglie Angie e mi chiese da parte di Bowie di dirigereZiggy Stardust. Mi portò il nastro con le canzoni che Bowie avrebbe voluto uti-lizzare, includendo Waiting for my Mandi Lou Reed, le cover di Jacques Brel (cheavevamo scoperto insieme), Lady Stardust e molte altre. Mi chiese di dirigere
lo spettacolo e di esibirmi, soprattutto, come dire di… assemblarlo.Quello che ho fatto è dare una forma al tutto».
Ma non solo Bowie, anche Kate Bush, Peter Gabriel, Mia Farrow so-no stati allievi di Lindsay Kemp. Nel suo camerino si potevano incon-trare leggende come Rudolf Nureyev e Mick Jagger: «Nureyev venne
a vedere Flowers quando ero a Londra. Diventammo amici e recipro-ci ammiratori. Venne a moltissimi miei spettacoli. Avevamo tanti pro-
getti insieme, sarei dovuto andare al-l’Opéra di Parigi per danzare conlui in una serata di gala. Stavamo
per mettere in scena Le Spectrede la rose insieme, lui avrebbe inter-
pretato Rose e io la ragazza. Purtropponon potemmo farlo a causa della sua tragi-
ca malattia. Anche Mick Jagger venne a tro-varmi durante la prima edizione di Flowersa
Londra, nel 1974. Divenne un mio grande am-miratore, e quando ci trasferimmo a Broadway mi
mandò un bouquet di centouno gigli bianchi. Almeno credo fos-sero centouno, ogni volta che racconto questa storia aumento ilnumero. Alcuni giorni dopo fui intervistato da una rivista impor-tante, e mi feci fotografare mentre abbracciavo quel bouquet. Hotenuto quei fiori finché non sono completamente appassiti».
Kemp è giocoso, beffardo, teatrale in ogni gesto, magnifica-mente bugiardo. Eppure, alla sua costante finzione poetica è sot-tesa una visione profondamente autentica dell’arte: «Nella danza
di oggi mi manca troppo spesso il racconto, le emozioni, la comu-nicazione del rapporto con il pubblico. I veri, grandi, danzatori con-temporanei, come Martha Graham, sono in primo luogo grandi can-tastorie. Del resto che cos’è l’arte? Per me è dare forma all’emozioneper comunicarla al pubblico».
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QUELLA SERA SUONAI PRIMA “WHEN I LIVEMY DREAM”, POI FECI LA MIA ENTRATAIN SCENA. LUI ERA PRESENTE, POI VENNENEL MIO CAMERINO E IL GIORNO DOPONEL MIO APPARTAMENTO A SOHO...
IO NON RECITO,NON L’HO MAI FATTO
VIVO DAVVEROQUELL’ESPERIENZA
UN PO’ COMEI BAMBINI
QUANDO GIOCANO,PER LORO È QUELLA
LA REALTÀ.QUANDO MI TRUCCO
DIPINGOIMMAGINANDO
COSA VEDONELLO SPECCHIO,
CIÒ CHE IMMAGINOSUL MIO VOLTO
L’incontro. Pierrot
ANCHE NUREYEV VENNE A VEDERE “FLOWERS”,DIVENTAMMO AMICI E RECIPROCI AMMIRATORIAVEVAMO MOLTISSIMI PROGETTI INSIEME, SAREIDOVUTO ANDARE ALL’OPÉRA DI PARIGI PER DANZARECON LUI. PURTROPPO CI MANCÒ IL TEMPO
Repubblica Nazionale 2015-04-12