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la domenica DI REPUBBLICA DOMENICA 8 MARZO 2015 NUMERO 522 Cult ERSO LE UNDICI, Lucille Hender- son, appurato che la sua festa stava veleggiando all’altezza giusta, e graziata da un sorriso di Jack Delroy, si costrinse a guardare in direzione di Edna Phillips, che dalle otto era seduta sulla grossa poltrona rossa a fumare una sigaretta dopo l’altra e a gorgheggiare saluti, con uno sguardo radio- so che i ragazzi non si degnavano di cogliere. Visto che la direzione di Edna era rimasta la stessa, Lucille Henderson tirò un sospiro profon- do quanto glielo consentiva il vestito, e poi, intrecciando quello che restava delle sue so- pracciglia, lanciò un’occhiata in giro per la stanza ai giovani che aveva invitato a sco- larsi lo scotch di suo padre. Poi frusciò decisa fin dove era seduto William Jameson Junior, intento a mangiarsi le unghie e a puntare una biondina seduta sul pavimento con tre ragazzi della Rutgers. «Ehilà» disse Lucille Henderson, artiglian- do il braccio di William Jameson Junior. «Vieni con me» disse. «C’è qualcuno che vorrei farti conoscere». «Chi?». «Questa ragazza. È uno schianto». E Jameson la seguì attraverso la stanza, cercando allo stesso tempo di dare il colpo di grazia a una pellicina sul pollice. «Edna, baby» disse Lucille Henderson. «Non sai quanto mi piacerebbe che cono- scessi Bill Jameson, davvero. Bill… Edna Phil- lips. O vi conoscete già, voi due?». «No» disse Edna, prendendo atto del naso- ne di Jameson, la bocca molliccia, le spalle strette. «Sono tremendamente felice di conoscer- ti» gli disse. «Sì, già, io pure» rispose Jameson, con- frontando mentalmente gli attributi di Edna con gli attributi della biondina dall’altra par- te della stanza. >SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE CON UN ARTICOLO DI NADIA FUSINI Salinger L’attualità. Valentino Parlato, souvenir di Libia L’inedito. I taccuini ritrovati di Basquiat Spettacoli. Iñárritu, ho vinto l’Oscar perché non mollo mai Sapori. Ma i veri masterchef non sono gli uomini L’incontro. Dada Masilo: “La mia danza è violenza” J.D. SALINGER La copertina. Il classico del cinema Straparlando. Piero Gelli: “Che stress la Fallaci” Mondovisioni. Nel ghiaccio di Nuuk V Il grande scrittore americano aveva vent’anni quando firmò il suo racconto d’esordio Eccolo per la prima volta in Italia Il giovane DISEGNO DI GIPI PER “REPUBBLICA”

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la domenicaDI REPUBBLICADOMENICA 8 MARZO 2015 NUMERO 522

Cult

ERSO LE UNDICI, Lucille Hender-son, appurato che la sua festastava veleggiando all’altezzagiusta, e graziata da un sorrisodi Jack Delroy, si costrinse a

guardare in direzione di Edna Phillips, chedalle otto era seduta sulla grossa poltronarossa a fumare una sigaretta dopo l’altra e agorgheggiare saluti, con uno sguardo radio-

so che i ragazzinon si degnavanodi cogliere. Vistoche la direzione diEdna era rimastala stessa, LucilleHenderson tiròun sospiro profon-

do quanto glielo consentiva il vestito, e poi,intrecciando quello che restava delle sue so-pracciglia, lanciò un’occhiata in giro per lastanza ai giovani che aveva invitato a sco-larsi lo scotch di suo padre. Poi frusciò decisafin dove era seduto William Jameson Junior,intento a mangiarsi le unghie e a puntareuna biondina seduta sul pavimento con tre

ragazzi della Rutgers. «Ehilà» disse Lucille Henderson, artiglian-

do il braccio di William Jameson Junior. «Vieni con me» disse. «C’è qualcuno che

vorrei farti conoscere».«Chi?».«Questa ragazza. È uno schianto». E Jameson la seguì attraverso la stanza,

cercando allo stesso tempo di dare il colpo digrazia a una pellicina sul pollice.

«Edna, baby» disse Lucille Henderson. «Non sai quanto mi piacerebbe che cono-

scessi Bill Jameson, davvero. Bill… Edna Phil-lips. O vi conoscete già, voi due?».

«No» disse Edna, prendendo atto del naso-ne di Jameson, la bocca molliccia, le spallestrette.

«Sono tremendamente felice di conoscer-ti» gli disse.

«Sì, già, io pure» rispose Jameson, con-frontando mentalmente gli attributi di Ednacon gli attributi della biondina dall’altra par-te della stanza.

>SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE

CON UN ARTICOLO DI NADIA FUSINI

SalingerL’attualità. Valentino Parlato, souvenir di Libia L’inedito. I taccuini ritrovati di Basquiat Spettacoli. Iñárritu, ho vinto l’Oscarperché non mollo mai Sapori. Ma i veri masterchef non sono gli uomini L’incontro. Dada Masilo: “La mia danza è violenza”

J.D. SALINGER

La copertina. Il classico del cinemaStraparlando. Piero Gelli: “Che stress la Fallaci”Mondovisioni. Nel ghiaccio di Nuuk

VIl grande scrittore americanoaveva vent’anni quando firmòil suo racconto d’esordioEccolo per la prima volta in Italia

Il giovane

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la Repubblica

DOMENICA 8 MARZO 2015 30LA DOMENICA

<SEGUE DALLA COPERTINA

J.D. SALINGER

ILL È UN CARISSIMO AMI-CO DI JACK DELROY» an-nunciò Lucille.

«Non è che lo cono-sco poi tanto» disseJameson.

«Bene. Adesso de-vo filarmela. A dopo,voi due».

«Prenditela cal-ma!» le gridò Edna.Poi: «Non ti siedi?».

«Boh, non so» disse Jameson. «È tipo tutta la sera che sto seduto». «Non sapevo che fossi un caro amico di Jack Delroy» disse Edna.

«È una gran persona, non credi?». «Sì, già, è a posto, immagino. Non è che lo conosco poi tanto. Non

ho mai bazzicato molto il suo gruppo». «Davvero? Pensavo di aver sentito Lu dire che eri un suo caro ami-

co». «Sì, già, l’ha detto. Solo che non lo conosco poi tanto. Adesso però

dovrei proprio andare a casa. Ho questo tema che devo fare per lu-nedì. Non pensavo neanche di tornare a casa per il weekend».

«Ma la festa è ancora giovane!» disse Edna. «È il clou della sera-ta».

«Il che?». «Il clou della serata. Cioè è ancora presto».«Sì, già» fece Jameson. «Ma non pensavo nemmeno di venire sta-

sera. Per via di ‘sto tema. Sul serio. Non so proprio perché sono tor-nato a casa questo weekend».

«Ma, insomma, è ancora così presto!» disse Edna. «Sì, sì, lo so, ma…».

«Su cos’è il tuo tema, comunque?».All’improvviso, dall’altra parte della stanza, la biondina scoppiò

in una risata stridula, subito imitata dai tre ragazzi della Rutgers.«Su cos’è il tuo tema?» ripeté Edna. «Boh, che ne so» disse Jameson. «Su questa descrizione di una cat-

tedrale. Una cattedrale in Europa, tipo. Non so».«Cioè, cos’è che devi fare?».«Non lo so. Dovrei scrivere un commento, o roba del genere. Me

lo sono segnato da qualche parte». Di nuovo, la biondina e i suoi amici scoppiarono a ridere. «Un commento? Allora l’hai vista?».«Visto cosa?» disse Jameson.«Questa cattedrale».«Chi, io? Ma va’».«Scusa, ma come fai a scrivere un commento se non l’hai mai vi-

sta?».«Ah già. Ma mica io. È questo tizio che l’ha scritto. Io dovrei com-

mentarla partendo da quello che ha scritto lui, tipo». «Mmmh. Capisco. Roba tosta».«Che hai detto?».«Roba tosta, ho detto. Lo so bene. Non hai idea di quante volte mi

è capitato di fare a botte con quella roba». «Eh già». «Chi è il tipo che l’ha scritta?» chiese Edna. Altro scoppio d’esuberanza dalla postazione della biondina. «Cosa?» disse Jameson.«Ho detto, chi l’ha scritta?».«Boh, che ne so. John Ruskin».«Ragazzi!» disse Edna. «Allora stai fresco».«Che hai detto?».«Ho detto che stai fresco. È roba tosta, insomma».«Eh già. Mi sa di sì».

«Chi stai guardando?» chiese Edna. «Conosco quasi tutta la ban-da che c’è qui stasera».

«Chi, io?» fece Jameson. «Nessuno. Mi sa che andrò a prenderequalcosa da bere».

«Ehi! Mi hai tolto le parole di bocca».Si alzarono simultaneamente. Edna era più alta di Jameson e Ja-

meson era più basso di Edna. «Penso che ci sia della roba là fuori in terrazza» disse Edna. «Qual-

che schifezza ci dev’essere. Non sono sicura. Possiamo provare. Tan-to vale prendere una boccata d’aria».

«D’accordo» disse Jameson. Si spostarono verso la terrazza, Edna piegando leggermente le

ginocchia e spazzando via della cenere immaginaria da quello che,dalle otto, era stato il suo grembo immobile.

Jameson la seguì, guardando indietro e mordicchiandosi l’indicedella mano sinistra.

Per leggere, cucire o fare cruciverba, la terrazza degli Hendersonnon aveva un’illuminazione adeguata. Infilandosi con leggerezzaattraverso la porta a zanzariera, Edna avvertì quasi subito un mor-morio di voci sommesse provenienti da un angolo vicino molto piùbuio alla sua sinistra. Ma andò dritta in fondo alla terrazza, si ap-poggiò pesantemente alla ringhiera bianca, tirò un profondo re-spiro, poi si girò a cercare Jameson.

«Sento qualcuno parlare» disse Jameson raggiungendola.«Shhh… Non è una notte favolosa? Prova a fare un respiro profon-

do». «Dov’è il carburante? Lo scotch?»«Solo un secondo» disse Edna. «Dai, fa’ un respiro profondo. Solo

una volta».«Sììì. Fatto. Forse è là in fondo». La lasciò e andò dritto verso un ta-

volo. Edna si girò a guardarlo. Per lo più in controluce, vide la sua sa-goma sollevare e posare oggetti sul tavolo.

«Non c’è più niente!» le gridò Jameson. «Shhh. Non così forte. Vieni qui un minuto».Lui la raggiunse. «Che c’è?» chiese. «Guarda il cielo» disse Edna. «Sì, già. Sento qualcuno parlare da quella parte. Tu no?».«Sì, scimunito».«Come sarebbe scimunito?».«Certa gente» disse Edna «vuole starsene in pace».«Ah. Ho capito». «Non così forte. Ti piacerebbe se qualcuno ti rovinasse tutto?». «Sì, già. Certo» disse Jameson.«Io penso che potrei uccidere qualcuno, tu no?».«Boh, forse. Immagino di sì».«Allora, cosa fai tutto il tempo quando sei a casa per il weekend?»

chiese Edna.«Chi, io? Non so». «Vai in giro a far danni, eh?».«In che senso?» chiese Jameson.«Lo sai, a rimorchiare, le solite idiozie dei ragazzi del college». «Naa. Non so. Non molto».«Sai una cosa?» disse Edna di punto in bianco. «Tu mi ricordi un

sacco questo ragazzo con cui uscivo l’estate scorsa. Cioè il tuo aspet-to eccetera. E Barry aveva il tuo fisico, tale e quale, sai. Asciutto».

«Ah sì?».«Già. Era un artista. Oddio!».«Che c’è?».«Niente. Solo che non dimenticherò mai quella volta che voleva

farmi un ritratto. Mi diceva sempre — serio come la morte, oltre-tutto: “Eddie, tu non sei bella secondo i canoni convenzionali, ma c’èqualcosa nella tua faccia che voglio catturare”. Serio come la mortelo diceva, oltretutto. Bene. Ho posato per lui solo quella volta».

«Sì, già» fece Jameson. «Ehi, potrei entrare e portarti fuori qual-cosa…».

«No» disse Edna. «Fumiamoci una sigaretta piuttosto. È gran-dioso qua fuori. Voci amorose e tutto, come dici?».

«Non credo di averne ancora. Ne ho un po’ nell’altra stanza, pen-so».

«No, lascia perdere» gli disse Edna. «Io ne ho qualcuna con me».Aprì la borsetta da sera e tirò fuori una scatoletta nera decorata distrass, la aprì e offrì una delle tre sigarette a Jameson.

Prendendola, Jameson ribadì che doveva proprio andare, cheglielo aveva detto di questo tema che doveva fare per lunedì. Alla fi-ne trovò i fiammiferi, e ne accese uno. «Comunque» disse Edna, ti-rando boccate dalla sigaretta, «mi sa che la festa finirà presto. Hainotato Doris Leggett, a proposito?».

«Qual è?». «Terribilmente bassa? Biondastra? Che stava con Pete Ilesner?

Ma sì, devi averla vista. Era seduta sul pavimento, come al solito, erideva a crepapelle».

«Ah, è quella lì? La conosci?» chiese Jameson. «Bah, più o meno» gli disse Edna. «Non è che l’abbia mai bazzica-

ta molto. In realtà la conosco soprattutto per quello che Pete Ilesnermi raccontava di lei».

«E lui chi è?».«Petie Ilesner? Non conosci Petie? Oh, è un grande. È uscito con

Doris Leggett per un po’. E secondo me lei lo ha fatto nero. È statatremenda con lui. Semplicemente schifosa, dico io».

«In che senso?» chiese Jameson. «Che vuoi dire?». «Be’, lasciamo perdere. Mi conosci. Odio metterci bocca quando

non sono sicura e così via. Non più. È solo che, in ogni caso, non cre-

La copertina. Il giovane SalingerNew York 1935, i ragazzi fanno i grandi: molte chiacchiere, molto scotch, parecchia solitudine

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aspettando

la Repubblica

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do che Petie mi mentirebbe. Perché mai, voglio dire».«Lei non è male» disse Jameson. «Doris Liggett?».«Leggett» disse Edna. «Suppongo che Doris sia attraente per gli

uomini. Non so. Però penso che mi piacesse di più — il suo aspettointendo — quando aveva i capelli naturali. Cioè, i capelli ossigenati— per me almeno — hanno sempre un che di artificiale quando li ve-di sotto la luce o che so io. Potrei anche sbagliarmi. Lo fanno tutte,immagino. Oddio! Penso che papà mi ucciderebbe se mai tornassi acasa con i capelli ritoccati anche solo un po’. Tu non conosci papà. Èterribilmente all’antica. Non che iovogliafarmeli ritoccare, alla finfine. Ma sai com’è. A volte si fanno delle pazzie. Oddio! Papà non èl’unico! Penso che anche Barry mi ucciderebbe se lo facessi».

«Chi?» chiese Jameson.«Barry. Questo ragazzo di cui ti ho parlato». «È qui stasera?».«Barry? Per carità, no. Non riesco a immaginarmelo Barry a una

di queste festine. Non conosci Barry».«Va al college?». «Barry? Mmmh, ci andava. A Princeton. Pensosia uscito nel tren-

taquattro. Non sono sicura, però. In realtà non vedo Barry dall’e-state scorsa. O, meglio, non gli parlo. Alle feste e roba del genere,riuscivo sempre a guardare dall’altra parte quando lui guardavame. Oppure mi precipitavo al gabinetto o che so io».

«Pensavo che ti piacesse, il tipo».«Mmmh. Sì, fino a un certo punto».«Io mica ti capisco».«Lascia perdere. Preferisco non parlarne. Pretendeva troppo da

me, tutto qui». «Ah» fece Jameson.«Io non sono una santarellina né niente. Non so. Forse lo sono. È

solo che ho i miei princìpi, e nel mio piccolo cerco di rispettarli. Me-glio che posso, comunque».

«Occhio alla ringhiera» disse Jameson. «È un po’ traballante».Edna disse: «Non è che non mi renda conto di come si sente un ra-

gazzo dopo che è uscito con te tutta l’estate e ha speso soldi che nonha nessun diritto di spendere per biglietti di teatro e locali notturnie così via. Cioè, posso capire. Lui sente che gli devi qualcosa. Ma ionon sono così. Suppongo di non essere fatta in quel modo, tutto qui.Dev’essere la cosa vera, per me. Prima, capisci. Cioè l’amore ecce-tera eccetera».

«Sì, già. Però, cioè, dovrei proprio darmi una mossa. Ho questo te-ma per lunedì. Accidenti, avrei dovuto essere a casa da ore. Quindipenso che entrerò a farmi un drink e comincerò ad andare».

«Sì» disse Edna. «Va’ pure». «Tu non vieni?». «Tra un minuto. Va’ pure avanti». «Be’, ciao, eh» disse Jameson. Edna, alla ringhiera, cambiò posizione. Si accese l’ultima siga-

retta rimasta nella sua scatola. Dentro, qualcuno aveva acceso la ra-dio, forse era aumentato di colpo il volume. Una giovane cantantestava intonando con voce roca l’ultimo motivetto di uno show cheormai anche i fattorini cominciavano a fischiettare. Non c’è portache sbatta più forte di una porta a zanzariera.

«Edna!» esclamò Lucille Henderson.«Ehi, ehi» disse Edna. «Ciao Harry». «Come butta?» .«Bill è dentro» disse Lucille. «Prendimi da bere, ti spiace, Harry?».«Vado». «Cos’è successo?» volle sapere Lucille. «Non avete ingranato tu e

Bill? Sono Frances e Eddie quelli là in fondo?». «Non lo so. Lui doveva andar via. Aveva un sacco di lavoro per lu-

nedì».«Sarà, comunque per ora è là dentro, sul pavimento con Dottie

Leggett. Delroy le sta infilando le noccioline nella schiena. Quelli làsono proprio Frances e Eddie».

«Il tuo piccolo Bill è un bel tipetto». «Ah sì? Come sarebbe?» disse Lucille.Edna risucchiò le guance e scosse la cenere dalla sigaretta. «Un filino focoso, se posso dire».«Bill Jameson?».«Be’» disse Edna. «Sono ancora tutta intera. Ma tieni quel tipo lon-

tano da me, chiaro?».«Mah. Vivi e impara» disse Lucille Henderson. «Dove diavolo si è

cacciato quel tonto di Harry? A dopo, Ed».Finita la sigaretta, anche Edna si decise a entrare. A passi veloci,

andò dritta su per le scale nella parte della casa della madre di Lu-cille Henderson vietata a giovani mani che brandivano sigarette ac-cese e bicchieri da cocktail gocciolanti. Rimase di sopra quasi ventiminuti. Quando scese, tornò in soggiorno. William Jameson Junior,un bicchiere nella mano destra e le dita della sinistra in bocca o nel-le vicinanze, era seduto a qualche testa maschile di distanza dallabiondina. Edna si piazzò sulla grossa poltrona rossa. Nessuno l’ave-va occupata. Aprì la borsetta da sera e tirò fuori la scatoletta nera,decorata di strass, ed estrasse una di dieci o dodici sigarette.

«Ehi!» gridò, picchiettando la sigaretta sul bracciolo della poltro-na rossa. «Ehi, Lu! Bobby! Vedete un po’ se riuscite a trovare qual-cosa di meglio alla radio! Insomma, come si fa a ballare con questaroba?».

(Traduzione di Delfina Vezzoli) ©2014, Three Early Stories originally published

by The Devault-Graves Agency, Memphis, Tennessee, U.S.A.©il Saggiatore S.r.l., Milano 2015

NADIA FUSINI

L FETICISMO ESISTE. È una forma deviata dell’amore. Inletteratura si manifesta nel fanatismo accanito deilettori che oggi corrono sulla Rete per scaricare racconti“rubati” di J. D. Salinger. A loro non bastano quelli chel’autore ha voluto donarci mentre era in vita, che ha

curato e limato, ossessivo com’era nel suo minimalismosublime. Mentre altri li ha giustamente scartati, forsedimenticati; oppure trasformati, perché un libro di racconti,un romanzo, nascono anche grazie alle parole e alle frasi chelo scrittore elimina, in cerca di una perfezione che avvienesoprattutto in virtù della fondamentale arte dellasottrazione. Così senz’altro nasce Il giovane Holden, il piùimportante libro di Salinger — a tutt’oggi il migliore.L’irripetibile manifesto in cui si sono riconosciute piùgenerazioni.Ma la passione incalza e il devoto feticista in unasopravvalutazione dell’oggetto d’amore non si stanca discovare altri frammenti da adorare, a dimostrazione che ilsuo è un amore plastico, niente affatto spirituale. E non sinutre del bene e del bello, ma dell’oggetto erotizzato al di làdel suo valore. Conta la fascinazione immaginaria, non lacosa in sé. Così sono spuntati in internet raccontiscannerizzati “rubati” dalle casseforti delle biblioteche in cuiviene custodito il patrimonio Salinger. Amo Salinger, ma non ho voglia di partecipare alla caccia.Capisco che la sua riservatezza «quasi egiziana» possainvitarci allo stalking, ma rispetto la volontà dello scrittoresottrattosi al mondo in serrata clausura. «Amo scrivere» disseSalinger nel 1974; «scrivere per il mio proprio piacere. C’èuna straordinaria pace nel non pubblicare». Scrivere e nonpubblicare: se questo ha fatto il nostro eroe per anni della suavita nelle colline del New Hampshire, un tesoro sicuramenteci attende negli anni avvenire. Aspettiamo...Intanto, però, del tutto legalmente possiamo leggere treracconti inediti che escono in italiano per i tipi del Saggiatorenella traduzione di Delfina Vezzoli. Del primo che quianticipiamo, I giovani, che dà il titolo alla raccolta, rinforzataanche nel numero delle pagine da un saggio entusiasta diGiorgo Vasta, colpisce come fin da subito lo scrittoreamericano abbia chiaro in mente il suo pubblico e il suo tema.I lettori a cui si rivolge sono the young folks e il tema èl’adolescenza. Nella letteratura americana il raccontod’iniziazione ha già una tradizione, e che tradizione! Pensatead Huckleberry Finn di Twain, a Flora e Miles di James, a NickAdams di Hemingway — racconti in cui le angosce legate alrito di passaggio dall’adolescenza all’età adulta lascianosegni indelebili nel protagonista e nel lettore. Eun’inquietudine non solo generazionale, ma universale. In Salinger il motivo è ripreso e modulato in arabeschi diestenuante ricerca della leggerezza intesi a descrivere provedi crescita che abortiscono in solitudine. Crescere èsenz’altro un problema per the young folks del primoracconto mai pubblicato da un Salinger poco più cheventenne. Ma Edna, la giovinetta incaricata in questo caso diesprimere tale difficoltà, nelle circostanze ambientali datatedi un cocktail-party in un appartamento della New York deglianni Trenta, non sboccia in un vero e proprio protagonista.Edna non è ancora Holden, ma va nella direzione di crearequel prototipo a firma Salinger a prova di brevetto di unaindividualità umana, sentimentale e emotiva, che aspira aun’esistenza più autentica, più vera. E si ritrovacontinuamente immerso nella phoniness, nella falsità,nell’inautenticità della vita americana.

Lo scrittoreche ai cocktailpreferì la vita

Il racconto d’esordio dell’autore del “Giovane Holden” per la prima volta pubblicato in Italia

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NON È CHENON MI RENDA CONTODI COME SI SENTEUN RAGAZZO

DOPO CHE È USCITO CON TETUTTA L’ESTATEE HA SPESO SOLDICHE NON HA NESSUNDIRITTO DI SPENDEREPER I BIGLIETTIDEL TEATRO. CIOÈ, POSSOCAPIRE. LUI SENTECHE GLI DEVI QUALCOSA.MA IO NON SONO COSÌ.SUPPONGODI NON ESSERE FATTAIN QUEL MODO, TUTTO QUI.DEV’ESSERE LA COSA VERA,PER ME. PRIMA, CAPISCI.CIOÈ L’AMOREECCETERAECCETERA

IL LIBRO“I GIOVANI”DI J.D. SALINGER,CON TRE RACCONTIINEDITI, IN LIBRERIADAL 12 MARZO(ILSAGGIATORE,80 PAGINE,12 EUROTRADUZIONEDELFINA VEZZOLI)

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la Repubblica

DOMENICA 8 MARZO 2015 32LA DOMENICA

L’attualità. Vicini di guerraL’INVASIONE

NEL 1911 GIOVANNI GIOLITTIDÀ INIZIO ALLA CONQUISTADELLA “QUARTA SPONDA”:L’ANNO DOPO IL TRATTATO DI LOSANNA RICONOSCEL’OCCUPAZIONE ITALIANA

LA RESISTENZA

TRA GLI ANNI VENTI E TRENTALA RESISTENZA ANTI-ITALIANA.A OMAR AL-MUKHTAR SARÀ DEDICATO UN FILM(CENSURATO IN ITALIA) CON ANTHONY QUINN

L’IMMIGRAZIONE

NEL 1934 MUSSOLINI CREA IL GOVERNATORATO DI LIBIA CON A CAPO ITALO BALBO: INIZIA COSÌL’IMMIGRAZIONE DEI COLONI

ITALIANI

IL DOPOGUERRA

CON LA FINE DELLA SECONDAGUERRA MONDIALE L’ITALIAPERDE TUTTE LE COLONIE E ANCHE LA LIBIA CHE PASSA DI FATTO SOTTO L’INFLUENZA INGLESE

Le parate di Italo Balbo

viste dal terrazzo di casa, la fugain campagna

dai nonni, la scopertadella politica e infineuna nave per l’ItaliaValentino Parlato

ricorda il paesedei suoi primi vent’anni

“E di quando Gheddafi...”

IL REGNO DI LIBIA

NEL 1952 L’ONU RICONOSCEL’INDIPENDENZA DEL REGNODI LIBIA: PER GLI ITALIANI DI LIBIA INIZIA UN DIFFICILEPERIODO CHE SI CONCLUDE CON LA CACCIATA DAL PAESE

L’AUTORE

VALENTINOPARLATO, NATO A TRIPOLIOTTANTAQUATTROANNI FA, VIVE A ROMA. HA FATTO MOLTIMESTIERI. DA GIORNALISTAHA LAVORATO A “RINASCITA”, A “L’UNITÀ” ED È STATO TRA I FONDATORIDEL QUOTIDIANO“IL MANIFESTO” CHE HA PIÙ VOLTEDIRETTO

la Repubblica

DOMENICA 8 MARZO 2015 33

VALENTINO PARLATO

SUL FINIRE di quella not-te di novembre del1951 i poliziotti ingle-si entrarono in casanostra. Erano armati,la perquisirono e miarrestarono. Io avevovent’anni. Non appe-na li vidi, prima anco-ra che fossero dentro,buttai dalla finestratutte le pubblicazioni

visibilmente comuniste che tenevo in casa. Ave-vo paura della prigione, e invece quando capiiche l’auto militare mi portava in direzione delporto trassi un sospiro di sollievo. Espulsione, enon galera.

All’imbarco, sul piroscafo Celio, trovai ErricoCibelli, Antonio Caruso, Giovanni e GiuseppeRusso, Bruno Mangani, vecchio anarchico.Quando presi la sua valigia per aiutarlo, il brac-cio mi volò per aria: dentro c’erano solo due cra-vatte Lavallière. Quelle degli anarchici.

Ma perché arrestati ed espulsi? In sostanzaperché stavamo facendo un buon lavoro politi-co. Il Corriere di Tripoli diede la notizia titolan-do: “Sei persone rimpatriate per attivismo co-munista sovversivo”. Il Sunday Ghibli, più spic-cio, annunciò: “One way ticket”, biglietto di so-la andata.

Avevamo costruito — promotore soprattuttoCibelli, il notaio più prestigioso di Tripoli, non-ché il capo della banda — un sindacato italo-libi-co con il compagno libico Mohamed Buras che di-resse uno straordinario sciopero del porto, il pri-mo in cui italiani e libici parteciparono insieme.Per il Primo maggio riuscimmo a realizzare an-che un corteo piuttosto imponente. Del lavorosindacale si occupavano in particolare i fratelliRusso e Nino Caruso, che oggi è un protagonistadell’arte della ceramica (proprio in questi gior-ni espone alla Galleria nazionale d’arte moder-na). La diffusione del sindacato, l’infiltrazionedel Partito comunista e, cosa forse più impor-tante, l’Associazione per il progresso della Libiache rivendicava una Libia indipendente e de-mocratica, trovarono l’opposizione non solo del-l’Autorità militare britannica che occupava ilPaese ma anche della comunità italiana che pen-sava che la Libia dovesse tornare all’Italia. Valela pena ricordare che quasi contemporanea-mente alla nostra cacciata non a caso fu riman-dato in Egitto Bashir al Sadawi, che dirigeva ilComitato di liberazione della Libia e con il qualela nostra associazione aveva stretti rapporti.

Ci riunivamo nell’elegante studio notarile diErrico Cibelli. Io ero il più giovane, dovevo di-stribuire i volantini nelle buche delle cassettepostali. Ma partecipavo anche attivamente, conMario Mazzarino, alla redazione di due giornalisuccessivamente chiusi d’autorità: Il Pinguinoeil Corriere del lunedì per cui curavo la rubrica“Visto da destra e visto da sinistra” — dove ov-viamente gli argomenti “visti da destra” eranopiuttosto stupidi.

Sono passati più di sessant’anni da allora e so-no convinto che questa mia giovanile esperien-za libica è quella che mi ha incamminato primaverso il Pci e poi verso il manifesto. Ma non è l’u-nica ragione per cui provo affetto per questoPaese oggi così drammaticamente devastato —e a mente fredda è difficile negare che l’inter-vento militare del 2011 abbia prodotto l’attualedisastro. La tragedia cui assistiamo in tv ha la ca-pacità di riaccendere la mia memoria anche su-gli anni precedenti quelli del mio impegno poli-tico, gli anni in cui ero ancora soltanto un bam-bino nato a Tripoli nel febbraio ‘31 da giovanis-simi genitori italiani.

Uno dei miei primi ricordi è il giorno in cuiMussolini doveva arrivare a Tripoli per impu-gnare la “Spada dell’Islam”. Allora era governa-tore il maresciallo dell’aria Italo Balbo (poi ab-battuto dalla contraerea italiana nel cielo di To-bruk). Per l’accoglienza del Duce organizzò se-rate e serate di prove con marce, sfilate, cavalli,dromedari. Per noi bambini era una festa. La re-sidenza del governatore, che era vicina a casanostra, era una specie di palazzo reale con tre cu-pole e un parco. Lì si svolgevano feste sfarzoseche noi guardavamo dal terrazzo come fossimoal cinema. La domenica, altro avvenimento: lamessa ufficiale alla quale Balbo si faceva con-durre da una berlina trainata da quattro cavalli.Entrava nella cattedrale sotto la navata centra-le e sfilava tra due fila di giovani fascisti che pre-

sentavano le armi. Dovevano restare immobiliper tutta la durata della messa. Alcuni sveniva-no, ed erano prontamente allontanati.

L’Italia entrò in guerra nel 1940, e noi tuttidella quinta elementare venimmo promossi. Mainsieme con la “promozione di guerra” arrivaro-no anche le bombe di guerra sganciate dagli ae-rei inglesi. Mio padre mandò tutta la famiglia —mia madre e noi tre figli — dai nonni Giuseppe eAnna nella campagna di Sorman, un paesino asessanta chilometri a ovest di Tripoli e a pochichilometri da Sabratha, l’antica città romana,tra i più suggestivi siti archeologici, a picco sulmare. Fu qui che mi trasformai in contadino agliordini di mio nonno. Lui mi insegnò a curare glianimali, a montare a cavallo, a raccogliere le ara-chidi. Scopro così che le noccioline americane

nascono sotto terra e imparo anche che gli ani-mali hanno una memoria: una volta un cammel-lo al quale avevo appiccato un fuocherello sottola pancia per farlo alzare, l’indomani mi sferròun calcio che mi sbatté per terra.

Tutto il lavoro agricolo era fatto da bracciantilibici, noi li chiamavamo tutti “arabi”. L’uccisio-ne del maiale e la festa del vino, invece, la face-vamo noi. Gli arabi abitavano in capanne di le-gno, tela e lamiere che si chiamavano zeribe. Ioli frequentavo, e con loro imparai anche qualcheparola di arabo. Appresi che si dividevano in ka-bile, le fazioni oggi — credo — protagoniste de-gli scontri. In campagna frequentai anche i sol-dati italiani, prima in avanzata e poi in ritirata.Accampati nelle zone vicine venivano da miononno per comprare il vino. Si sistemavano sot-to gli alberi davanti casa. Ero io che portavo loroil vino e — curioso — mi fermavo ad ascoltarliparlare. Parlavano dei loro paesi, della guerra, epiù spesso di donne. Io che avevo tra gli undici ei dodici anni ero tutt’orecchi. Grazie all’esercitomi feci anche una cultura, seppur alquanto stra-vagante. Quando il campo d’aviazione fu smobi-litato il comandante regalò infatti a mio nonnola loro biblioteca. Mi tuffai nella lettura: lessi Tol-stoj, Palazzeschi, romanzi d’amore, ma anchedizionari e manuali su come si curavano le ma-lattie veneree.

Con la ritirata arrivarono i tedeschi. Una serafecero un’esibizione di fuoco antiaereo, poi unodi loro che parlava italiano disse a mio nonno chegli ufficiali avrebbero gradito cenare al coperto.Ovviamente mio nonno accettò. Fu preparata lacena, e mentre eravamo tutti a tavola — c’eranoil comandante del reparto, l’ufficiale medico chemi sedusse perché aveva due coniglietti in unagabbietta sull’auto, il sergente Springhorumche parlava italiano — la radio, che avevano por-tato, annunciò la sconfitta di Stalingrado. Calò ilgelo sulla tavola, e un cupo silenzio. Poi tutti al-zarono i bicchieri e l’indomani all’alba partironoper la Tunisia.

Se i tedeschi se n’erano andati, gli inglesi an-cora non si vedevano e mio nonno, preoccupatodi essere in balìa dei libici, decise di armarci tut-ti. Mi insegnò a sparare, ma per fortuna non suc-cesse niente: era il ‘43 e per noi la guerra era fi-nita. Tornammo a Tripoli. Le autorità inglesiavevano riaperto la pubblica amministrazione emio padre, che era funzionario, tornò al lavoro.Io invece non tornai a scuola, studiai privata-mente, saltai le medie e mi iscrissi direttamen-te all’unico liceo scientifico di Tripoli. Qui entronel giro di Cibelli, qui comincio a interessarmi dipolitica e sempre qui assisto al tragico pogromdel 1945. Gli inglesi, ostili alla creazione di unostato di Israele, il 4 novembre lasciano partireun ferocissimo pogrom che dura tre giorni, fa132 morti e 365 feriti. Per tutta la durata delleviolenze la polizia e le forze armate inglesi re-stano consegnate in caserma. Ho ancora il sensodi colpa per non aver accompagnato in quei gior-ni, insieme agli altri studenti italiani, i nostricompagni di scuola ebrei a casa.

Paradossalmente è proprio dal lavoro politicodi quei miei primi vent’anni — venni espulso dal-la Libia che Gheddafi ne aveva appena nove —che quasi cinquant’anni dopo il Raìs mi invitò aTripoli. Gli avevo fatto avere i documenti dellanostra Associazione per il progresso della Libiainsieme agli articoli sulla mia espulsione. E men-tre agli italiani nati in Libia era proibito tornare,Gheddafi non solo mi invitò ma mi concesse an-che un’intervista per il manifesto. Lo incontraialtre volte. Era un dittatore, aveva una culturanotevole. Pubblicammo un suo libro di sugge-stivi e raffinati racconti. Fuga all’Inferno. Nonpoteva immaginare che la Libia si sarebbe tra-sformata in un inferno.

IL COLPO DI STATO

NEL 1969 IL COLONNELLOGHEDDAFI CON UN COLPO DI STATO ROVESCIA RE IDRIS,NAZIONALIZZA LE IMPRESE E CACCIA GLI AMERICANIDALLE BASI MILITARI

LA VENDETTA

IL 7 OTTOBRE 1970 CON IL “GIORNO DELLA VENDETTA”GHEDDAFI ORDINAL’ESPULSIONE DEGLI ITALIANIRESIDENTI IN LIBIA E CONFISCA I LORO BENI

LA VISITA IN ITALIA

NEL 2008 BERLUSCONI FIRMACON GHEDDAFI UN TRATTATODI AMICIZIA E COOPERAZIONE.L’ANNO DOPO IL LEADERLIBICO È PER LA PRIMA VOLTAIN VISITA NEL NOSTRO PAESE

LA GUERRA CIVILE

NEL 2011 SCOPPIA ANCHE IN LIBIA LA GUERRA CIVILE: LA VIOLENTA REPRESSIONEDELLE PROTESTE DA PARTE DI GHEDDAFI DÀ IL VIA ALLA NATO PER INTERVENIRE

LA FINE DI GHEDDAFI

DOPO OTTO MESI DI GUERRACIVILE, FUGGITO A SIRTEGHEDDAFI VIENE BRACCATOE CATTURATO DAI RIBELLICHE LO UCCIDONO IL 21 OTTOBRE 2011

LA CRISI DIPLOMATICA

IL 15 APRILE 1986 GHEDDAFILANCIA SENZA CAUSAREDANNI DUE MISSILI CONTROLAMPEDUSA: L’ATTACCOAPRE UNA GRAVE CRISIDIPLOMATICA CON L’ ITALIA

Lamia Libia© RIPRODUZIONE RISERVATA

ALBUM

IN ALTO VALENTINO PARLATO IN BRACCIO AL NONNO TRA I SOLDATI ITALIANINELLA CAMPAGNA LIBICA. QUI SOPRA: A SINISTRA CON I NONNI, IL FRATELLINOE LA MAMMA; A DESTRA A TRIPOLI MENTRE FA IL SALUTO ROMANO

la Repubblica

DOMENICA 8 MARZO 2015 34LA DOMENICA

l’alieno dell’hip-hop e delle bombolettespray la cui pittura aveva la forza di unamusica primitiva e feroce, sapeva far vola-re i pensieri come farfalle per poi fermarlidi colpo sui fogli di carta dei suoi blocchet-ti. “Una preghiera, la nicotina cammina suigusci d’uovo, medicati, la terra era un vuo-to amorfo — annotava Basquiat nel 1987su una pagina in cui figurano molti riferi-menti al Vecchio Testamento —. Buio, buiovolto del profondo spirito attraverso l’ac-qua e luce fu. Era cosa buona. Alitare neipolmoni dell’uomo, 2000 anni di amianto”.

«Dai taccuini emerge la facilità con cuiBasquiat usa le parole e la scrittura comeelementi visivi al pari delle rappresenta-zioni figurative — ci spiega Dieter Bu-chhart, curatore della mostra con TriciaLaughlin Bloom — con il suo approccio èstato un predecessore della società dellaconoscenza e della generazione del copia eincolla, quasi anticipando la cultura delweb e dell’ipertesto. Ha realizzato innu-merevoli combinazioni di oggetti identici edi sequenze con costellazioni di significati,ispirato da fumetti e cartoon, dai disegnidei bambini, dalla pubblicità, dalla pop art,dall’arte azteca, africana, greca, e dalla vi-ta sulla strada». Un frullatore sparato allavelocità massima, fuori controllo.

Era già così fin da giovanissimo, quandoscappava di casa o dalla City-as-School diManhattan dove conosce Al Diaz, con cuiinizia a vergare con lo spray la criptica tag“SAMO©” sui muri o sui vagoni della me-

tropolitana di New York, per poi approda-re alle gallerie d’arte come quella di Anni-na Nosei, che ospita la sua prima persona-le newyorchese nel 1981. «Come giusta-mente ha osservato Mary-Ann Monforton(l’editore della storica rivista d’arte BombMagazine, ndr), Basquiat ha utilizzato og-getti di tutti i tipi che appartengono allaquotidianità — aggiunge Buchhart — mache con il suo intervento si trasformano eacquistano nuovi significati per diventarearte. Quando il critico Jeffrey Deitch lo in-contrò nel 1980, la prima cosa che notò fuun frigorifero malandato che Basquiat ave-va completamente ricoperto di disegni, pa-role e simboli. Ai suoi occhi risultò uno deipiù sorprendenti oggetti d’arte che avessemai visto». Non meno stupefacenti appaio-no oggi gli appunti stralunati che custodi-va nei suoi diari e di cui a volte cancellavaalcuni passaggi o singole parole tirandocisopra un mucchio di righe rosse. “Guardò ilsuo terzo occhio per il salone, sotto le pal-me in un villaggio vacanze sulla spiaggia —scriveva nel 1980 sulla pagina di destra diun quaderno a righe che oggi fa parte dellacollezione privata di Larry Warsh — attra-verso l’acqua il suo occhio diventò mendi-cante in Spagna di fronte a una trappolaper turisti la sua voce pappagalli un gemi-to di carta vetrata sulla telefonata. Dormi-re su sei treni tornare a casa in aereo guar-dare le ali tremare”.

GUIDO ANDRUETTO

N COLLAGE DESTRUTTURATO DI IDEE, visioni e segni. Una sinfoniadisturbata di parole e pensieri che si susseguono disordina-tamente da una pagina all’altra, come un flusso di segnali aintermittenza. È il caos che esplode con il suo ritmo e il suosuono nei taccuini di Jean-Michel Basquiat. Per la prima vol-ta saranno mostrati al pubblico al Brooklyn Museum di NewYork (dal 3 aprile al 23 agosto), dove al quarto piano dellospazio Morris A. and Meyer Schapiro Wing si sta ultimandoin questi giorni l’allestimento dell’esposizione Basquiat.The Unknown Notebooks. Si tratta di una corposa selezionedi centosessanta pagine estrapolate da otto dei quaderni eblocnotes su cui l’irrequieto artista e graffitista newyorche-

se di sangue haitiano e portoricano, scomparso nel 1988 per un’overdose di eroina, a so-li ventisette anni, aveva riportato frammenti di delirio e di poesia, enigmatici giochi diparole, schizzi e pittogrammi. Su alcune di queste pagine compaiono a volte soltanto nu-meri di telefono o indirizzi, come quello della Sperone Westwater Gallery a SoHo; oppu-re nomi di amici, come “Clemente”, l’artista Francesco Clemente con il quale Basquiatcollaborò insieme ad Andy Warhol nel 1984 per un progetto collettivo di pittura a sei ma-ni dal titolo Collaborations.

Per quasi otto anni, dal 1980, Basquiat riempì pagine su pagine di appunti e piccoli di-segni di volti deformati, teschi, maschere e figure umane stilizzate, alternando l’uso dipennarelli, matite e pastelli. Il giovane angelo nero della Downtown scene di New York,

“E poi guardare le ali tremare”In mostra a New York le poesieancora sconosciute dell’artistache portò la strada dentro i musei

Tutti potevano leggere negli anni Ottantaquello che scriveva sui muri del LowerEast Side o sui vagoni della metropolitanaAltri incubi li confidava ai suoi blocnotes

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i taccuinidi

L’inedito.

Basquiat

U

la Repubblica

DOMENICA 8 MARZO 2015 35

Non eranole solitestronzate

HENRY LOUIS GATES JR.

“MI SENTO comefossi uncittadino. È orache torni a fareil vagabondo”.

Jean-Michel Basquiat si è fatto strada acolpi di bomboletta nella coscienzapubblica. Si firmava SAMO©, ma imessaggi che scarabocchiava sui palazzifatiscenti del Lower East Side eranotutt’altro che “the same old shit”, le solitestronzate. Facevano inchiodare persino inewyorchesi, incuriositi. Chi è questosciamano dell’era dei graffiti, questoautore dallo pseudonimo protetto dacopyright? Samo© non provoca il cancro neglianimali da laboratorio.Samo© per la cosiddetta avant-garde.Samo© come agglomerato di geniolatente. Samo© interrompe il blues dell’orario diufficio del ho preso la laurea e del nonstasera tesoro.Non si capiva cosa esattamente volessedire o dove sarebbe riapparsa la suafirma, ma i bene informati sapevano cheJean-Michel Basquiat sarebbe stato unavoce — e una mano — tra le piùinnovative della sua generazione e ditutte le altre. Al suo esordio, a fine anniSettanta, godeva di un anonimatoimpensabile per un ragazzo di oggi,nell’era di Facebook e Twitter. Eppureaveva l’ambizione di entrare nel gothadei massimi artisti di tutti i tempi — purconsapevole di dover lottare per arrivare.Si stava ancora facendo le ossa, lavoravaalle ore più impensate e su ognisuperficie possibile. Ma aveva chiaro ilsuo obiettivo. Dalla natìa Brooklyn Basquiat erapassato a quella vera e propria frontieradi cemento armato che era in quegli annil’East Village. Distava solo qualchefermata di metropolitana, ma era unaltro mondo. Attraversando l’East RiverBasquiat attraversò il confine metafisicotra rimbambimento e libertà,alienazione e innovazione,disapprovazione dei genitori e creatività.Fu fondamentalmente un atto diemancipazione nel solco della tradizioneafroamericana.Oggi non è esagerato dire che è stato unodegli artisti americani più importantidegli anni Ottanta e uno dei visual artistneri più grandi di tutti i tempi — alcunicritici, lo definiscono “il più grande”, allaMuhammad Ali. Johnny Depp, l’attore,nel 2003, dopo aver visto la mostra diBasquiat a Parigi scrisse che “l’arte èquestione di centrare o mancare ilbersaglio. E quando questo figlio diputtana colpisce va giù duro”. È così. Ecosì le sue opere sono straordinarie,abbaglianti, disorientanti, ricche didettagli, frutto della mente di un genio —inquieto, originale, innovativo, brillante,che dà l’illusione del miracolo infantilepur essendo invecchiato prima deltempo.

(Traduzione di Emilia Benghi)Scrittore e critico letterario,

direttore del W.E.B. Du Bois Institutefor African and African AmericanResearch alla Harvard University

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LE IMMAGINI

IN ALTO, “SENZA TITOLO”, 1986, COLLAGEDI ACRILICO E OLIO SU CARTA E TELA.A SINISTRA, “SENZA TITOLO (CORONA)”, 1982:UN ALTRO COLLAGE DI ACRILICO, INCHIOSTROE CARTA; DUE PAGINE DAI TACCUINIDI BASQUIAT, 1980-’81. QUI SOPRA,L’ARTISTA SUL SET DEL DOCUFILM“DOWNTOWN 81” DI EDO BERTOGLIO.TUTTE LE IMMAGINI, COME PURE L’ARTICOLODI HENRY LOUIS GATES JR., SONO TRATTIDAL CATALOGO DELLA MOSTRA “BASQUIAT.THE UNKNOWN NOTEBOOKS” DAL 3 APRILEAL BROOKLYN MUSEUM DI NEW YORK

QUESTO NON È UN ELOGIODEL VELENO /

AVVELENARMIIN ATTESA CHE VENGANOLE IDEE / ME / NON È UNELOGIO DEL VELENO /NON È / NESSUNO È PULITODALLA CARNE ROSSAAL VELENO BIANCO /IL PIÙ GRANDE AFFARE /BRUTTO, GRASSOCOME UN PORCO /IL CLIENTE A NEW YORKCHICAGO DETROIT

SIGNORE E SIGNORIVI INVITOALLA VISIONE

DEL NUOVO EPISODIODE “L’EROINOMANEFAMOSO” LO SPETTACOLOALL’INSEGNADELL’ “OH, NO!NON PUÒ ESSERE LUI.CHI L’AVREBBEMAI DETTO”A. ERA UN TOSSICOB. È ANCORA UN TOSSICOC. STA TENTANDODI SMETTERE

la Repubblica

DOMENICA 8 MARZO 2015 36LA DOMENICA

JUAN MARTÍNEZ AHRENS

CALGARY (CANADA)

ANCORATA nel porto diVeracruz, la Toluca,un mercantile, ar-ruolò nel 1980 un ra-gazzo di diciassetteanni dai capelli ne-rissimi che cercavadi mettere un ocea-no tra il suo passatoe il suo presente. Po-chi mesi primaAlejandro González

Iñárritu era scappato di casa con una donna piùgrande di lui. La fuga fu un disastro: lui si smarrì, fuespulso da scuola e, sotto il sole tropicale, finì per im-barcarsi sulla Toluca dove ti davano cibo e traspor-to se pulivi il ponte e davi il grasso in sala macchine.A bordo della nave risalì il Mississippi, scoprì Bar-cellona e toccò la Toscana e la Sicilia. Poi arrivò a Bil-bao, vendemmiò a Toledo, dormì all’aperto nel Par-co del Retiro di Madrid e, alla fine, andò in Marocco.Senza saperlo, dentro di lui si era disegnata la geo-grafia della sua opera. L’impronta sulla quale si sa-rebbe mosso, nel corso degli anni, il seme dei suoifilm. Quella donna, non l’ha più rivista.

Sono passati quasi trentacinque anni, la Tolucada tempo è stata demolita e quel ragazzo, coi suoicinque film, ha ottenuto ventuno nomination agliOscar vincendone quattro con l’ultimo Birdman,dopo aver conquistato il premio per la regia a Can-nes con Babel nel 2006, unico messicano nella sto-ria della Palma d’oro. Dice: «La competizione nel-l’arte è assurda. Non voglio attribuirgli una logica edire: “Sono il migliore e vinco perché lo merito”. Sepensassi così finirei col perdere la testa».

Sulle rive del fiume Bow, nella grande piana ca-nadese di Calgary, il sole sembra appena uscito dalcongelatore. La temperatura sarebbe intorno ai 30sotto zero, se non fosse per il caldo chinook, l’unicovento in grado di frenare le terribili masse d’aria ar-tiche. Il suo soffio agita i pioppi nudi, sotto la cui om-bra si svolge un simulacro di morte. Sulla neve c’èun sangue troppo rosso per essere sangue, un fan-tasma indiano imbrattato di cenere a cui piace, nelpomeriggio, ascoltare la musica un po’ noiosa diHerbie Hancock e, soprattutto, un tipo con gli occhiacquosi e i capelli biondi che sembra Leonardo Di-Caprio, e recita (o almeno ci prova) come lui, manon è Leonardo DiCaprio. Sono solo sosia, come ilsangue o il fantasma, ma che oggi, sotto la brezzadel chinook, servono per preparare le scene che sigireranno quando arriverà il vero DiCaprio. Alejan-dro González Iñárritu dirige sulle rive del Bowghiacciato. Ha cinquantuno anni ed è ancora im-barcato nel suo viaggio interiore. Bronzeo, con unabarba alla Velázquez, la sua voce potente tira i filidella trama. Oggi bisognava girare un massacro inun villaggio indiano, un dialogo tra due cacciatorinel 1823 e un incubo con fantasmi e teste scuoiate.Tre scene che fanno parte di The Revenant, il suoprossimo film. Un pre-western con spazi aperti e si-lenzi tesi. Il suo primo film storico, girato in condi-zioni estreme. Dice: «Mi eccita poter fallire».

Al suo fianco cammina il direttore della fotogra-fia Emmanuel Lubezki, già vincitore di un Oscar perGravity e ora di un altro per Birdman. Tra loro sichiamano con i rispettivi soprannomi: Negro (Iñár-ritu) e Chivo (Lubezki). Due vecchi amici di Cittàdel Messico. Si rivolgono alla troupe in un perfettoinglese, ma quando devono discutere degli aspettifondamentali si appartano e, in piedi in mezzo allaneve, parlano in spagnolo mentre gli altri membridella troupe, immobili, attendono la decisione che

Spettacoli. Da Oscar

IñárrituFaccio filmall’ultimosangue

la Repubblica

DOMENICA 8 MARZO 2015 37

poi eseguiranno sotto gli ordini del solo Iñárritu.«Sono molto duro, molto militante, molto esigente;mi temono più di quanto non mi amino. La troupesa che non ci sarà tregua. Però riesco a entrare incontatto con loro, perché non pretendo nulla che iostesso non dia e perché l’esperienza crea una ca-tarsi, porta a una profonda conoscenza delle capa-cità di ognuno di noi. Chiunque può fare un film, mariuscire a farne uno buono è dichiarare una guerraall’ultimo sangue, soprattutto a se stessi. Per que-sto mi fa paura ogni volta che ne comincio uno. Per-ché non lo mollo».

La notte è chiara a Calgary. Nel centro della città,Iñárritu si è installato al venticinquesimo piano diun edificio in vetro e acciaio. È un appartamento contonalità sul marrone, asettico e funzionale. L’arre-damento, senza pretese, denota una comoda prov-visorietà, perfetta per un nomade sceso in calzinidal Suv che lo ha riportato “a casa” dal set. Si serveun Campari con molto ghiaccio, tira fuori una siga-retta elettronica che collega al Mac e si mette co-modo sul divano per rispondere alle domande. Lesue frasi sono articolate. La voce, profonda, tradisceuna modulazione radiofonica ma suona sincera. Avolte, prima di parlare, medita. Lunghi secondi fin-ché cesella l’idea. Poi la snocciola sicuro.

Come spiega il suo successo?«È difficile da spiegare, non posso essere obietti-

vo. In un mondo in cui regna l’ironia, dove ci si deveseparare, proteggere e ridere di tutto ciò che è one-sto o abbia una carica emotiva, io scommetto sullacatarsi. Mi piace investire emotivamente nelle co-se. E la catarsi, quando si tocca la vena emotiva, è ca-pace di aprire le porte anche di quelli che si proteg-gono».

Anche se Birdman trabocca di umorismo, i suoipersonaggi si muovono nell’amarezza. Lei è pes-simista, disincantato?«Si può definire l’intelligenza come la possibilità

di avere due idee opposte simultaneamente e ave-re la capacità di agire. Vivo con una contraddizionecostante che si traduce nel mio lavoro. Mi possosvuotare rapidamente e riempire di un vuoto esi-stenziale. In questo senso, sono un uomo che vedepiù le perdite che i guadagni, sono ossessionato dal-la perdita, perché mi fa male perdere quello che hoavuto».

Iñárritu batte l’indice sulla sua sigaretta dall’a-spetto galattico. Aspira, dà un altro colpetto, aspi-ra. Niente. Non funziona. La ricollega al Mac. «Ci ri-proveremo dopo». Non sembra darsi per vinto fa-cilmente. Quelli che lo conoscono dicono che non lofa mai. Forse è una forza che ha ereditato dal padre,un banchiere che fallì e si rimise in piedi vendendofrutta, o dalla propria esperienza iniziatica, nellaquale esorcizzò un amore attraversando l’oceano.È stato conduttore radiofonico, ha diretto la più im-portante stazione musicale della capitale e si è de-dicato alla musica («sono più musicologo che cine-filo»). Ma né avere una sua band, né comporre la co-lonna sonora di sei film gli bastava. Non era un vir-tuoso. «Ho le dita goffe», confessa. Il cinema gli ap-parve come l’unica soluzione. Annunci pubblicita-ri, cortometraggi, televisione. Le ore trascorse allaCineteca Nacional a impregnarsi di neorealismoitaliano, il Dna del suo cinema, fecero il resto. Stu-diò regia teatrale con il leggendario Ludwik Mar-gules, un tirannico maestro che gli ha inculcato lanecessità di tenere sotto il suo stivale ogni millime-tro della scena e di farlo con uno spirito rinasci-mentale. «Nulla può sfuggire, sono responsabile ditutto, devo sapere tutto». Cominciava a emergereil demiurgo. L’alleanza con lo sceneggiatore Guil-lermo Arriaga completò questo processo. Nel 2000ci fu la prima dello straziante Amores perros, poivenne 21 grammi (2003) Babel (2006), Biutiful

(2010) e ora Birdman. Il tempo lo ha reso più posa-to. Il suo sguardo vulcanico si acquieta. Può sedersi,come spiega, «sulla riva del fiume a guardare il tra-volgente flusso dei pensieri e dei sentimenti. Dice-vano che i quarant’anni erano duri, anche se nonme ne sono nemmeno accorto quando li ho com-piuti. Ma con i cinquanta sono entrato in una profon-da malinconia. Continuo a navigare in quella nubedove cominciano a spegnersi le luci della festa. Manon mi preoccupa il passato, quanto ciò che perderònuovamente».

Birdman è figlio di questo crepuscolo. Nell’avvi-cinarsi al mezzo secolo di vita, Iñárritu ha cercatoun porto nella meditazione Zen. Ha partecipato aun ritiro. Si è messo in ascolto delle sue voci interio-ri, soprattutto quella che fa di lui il centro dell’uni-verso nelle riprese, dalla quale si irradia quel fasci-no magnetico che i suoi amici gli riconoscono.«Quella voce inquisitrice», spiega il regista, «che iochiamo il Torquemada interiore, uno che ogni casoche gli presenti te lo manda al rogo, un terroristacon il quale è impossibile qualsiasi trattativa». Que-sta voce è la chiave di Birdman. Sulla sua improntaIñárritu ha costruito un film quasi sperimentale,impostato su giganteschi piani-sequenza, in conti-nuo movimento sull’orlo del baratro.

La sua è una commedia agrodolce (lei dice “a nonfunny commedy”) in cui c’è un forte ripasso del-la sua vita: un attore che negli anni passati era di-ventato un divo interpretando un supereroe sigioca tutto in uno spettacolo teatrale aBroadway, ma con l’avvicinarsi della prima,quest’uomo, che ha ormai superato i cinquanta,tormentato dalla sua voce interiore, affronta ilsuo passato, la sua famiglia, se stesso. La per-plessità dell’arte.«Birdman è un film che ha ali che mi hanno libe-

rato. Ho cambiato il modo di affrontare gli argo-menti, ma questi rimangono gli stessi: chi diavolosiamo, che senso ha e che cos’è questa vita. È un filmper tutti noi che sentiamo questi problemi. Parla delbisogno di essere riconosciuti, del confondere l’am-mirazione con l’amore; del capire troppo tardi cheera amore quello che abbiamo avuto e non ce nesiamo resi conto, e che era questa l’unica cosa dicui avevamo bisogno. Noi esseri umani siamocreature patetiche e adorabili. In ognuno di noic’è un po’ di Birdman».

Che cosa cercava quando ha scelto Kea-ton/Batman per interpretare Riggan Thom-pson/Birdman?

«La metarealtà che Michael Keaton aggiungevaal film era molto importante, ma anche un fattoredi rischio elevato. E non era l’unico: Edward Nortonha la stessa reputazione del personaggio che inter-preta, l’attore di New York che è stato sulla scenateatrale, pesante, dominante e superintellettuale.Sul set ha regnato questo: il piacere di potersi rap-presentare nudi e senza vergogna. Si è affrontatoquesto in modo onesto, non intellettuale, non iro-nico. Questo film è sincero. Lì dentro ci sono io e quel-le sono le mie miserie, le mie realtà. Sono stato tut-ti questi personaggi. O sono stato io o ho lavoratocon loro o sono stato una loro vittima. Quello è statoil mio mondo. Questa è stata la scommessa. E sonoscelte reali, non è l’attore che interpreta degli atto-ri falliti; no, è l’attore che ci è passato».

E come sono state le riprese con questi piani-se-quenza così lunghi?«È stato un lavoro estremamente meticoloso e ri-

schioso, perché se non riusciva non c’era modo dinascondere le mie cazzate. Si sarebbero viste. Mastranamente, per l’entusiasmo e l’incertezza stes-se nel farlo, c’è stato un piacere che non conoscevo.Per la prima volta ridevo a crepapelle sul set. E misentivo anche in colpa. Mi dicevo: “Come posso di-vertirmi sul set, se questo è un lavoro?”. Ho un con-cetto protestante, uno non ride sul lavoro. Ma que-sta volta è stata una liberazione».

Improvvisa sul set o ha già un’idea chiara?«Ho due virtù. Una è il concetto. Vedo con preci-

sione tutto ciò che non deve essere e quello che de-ve essere. La seconda è il ritmo. Per me il ritmo è Dio.Senza ritmo non c’è danza, né architettura, né mu-sica... Le stelle hanno un ritmo, l’universo è ritmi-camente ordinato, l’arte è il palpito di quel ritmo e,se non ce l’hai, è impossibile creare qualcosa. Quelritmo io ce l’ho. Sembra una frase astratta e idiota,ma quando monto una scena so naturalmentequando ci deve essere uno spazio tra una parola el’altra; so quanto tempo deve restare separato unattore dall’altro, e della macchina da presa, so qua-li obiettivi deve usare, so se deve stare più in alto opiù in basso, so la velocità... Nella mia cinemato-grafia c’era un abuso nella costruzione, nella fram-mentazione, mi vergogno di certe cose ora, mi met-tono a disagio, ma dopo Birdmansono un nuovo re-gista. Ha cambiato la mia prospettiva formale».

La sua prospettiva è cambiata, le sue radici re-stano in Messico...«Posso volare dove mi pare ma non posso taglia-

re le mie radici anche se oggi la corruzione è tale daaver raggiunto i più elementari livelli della vita. Pri-ma si sequestravano i ricchi, adesso anche il tizioche vende verdure o bibite per strada, il gommista.I governi non sono più parte della corruzione, lo Sta-to è la corruzione».

E prova paura in Messico? «È una paura simile a quella che ci fanno i lupi. Ne

abbiamo paura perché non li vediamo. Puoi andarein un ufficio a sporgere denuncia e il lupo può esse-re lì, ma non lo vedi. Viviamo in una steppa».

Finisce il suo secondo Campari e sembra essersiscordato della sua sigaretta elettronica. L’intervi-sta, dopo più di due ore, è giunta al termine. Il regi-sta si allontana un attimo per rispondere a una te-lefonata. Poi, con cortesia, scalda la cena nel fornoe stappa una bottiglia di vino rosso dell’Oregon perberla insieme. Domani tornerà sulle rive del Bow.Stringendosi nella sua giacca termica, cercherà lacomplicità di Chivo per mettere a punto nuovi si-mulacri. Entrambi, sotto i pioppi spogli, lascerannole loro impronte sulla neve.

(Traduzione di Luis E. Moriones) ©El País Semanal

THE WINNER IS

ALEJANDROGONZÁLEZIÑÁRRITU, 51 ANNI, È NATO A CITTÀ DEL MESSICO. I SUOI FILM: AMORESPERROS (2000), 21 GRAMMI (2003),BABEL (2006),BIUTIFUL (2010) E BIRDMAN (2014).SOPRA, IL SETCANADESEDEL PROSSIMO FILMCON LEONARDODICAPRIO, THE REVENANT.E, SOTTO, IL REGISTAALLA PREMIAZIONEDEGLI OSCAR: BIRDMAN HA VINTO LA STATUETTA PER IL MIGLIOR FILM,PER LA REGIA, LA SCENEGGIATURAE LA FOTOGRAFIA

SUL LAVORO SONOMOLTO DURO, TUTTI

MI TEMONO. CHIUNQUEPUÒ FARE CINEMA, MA FARLO BENE VUOL DIREOGNI VOLTA DICHIARAREUNA GUERRA: SOPRATTUTTOA ME STESSO. POTER FALLIREMI ECCITA. IN UN MONDO CHERIDE DELLE EMOZIONI IO SCOMMETTO SEMPRESULLA CATARSI

PER ME IL RITMO È DIO.SENZA RITMO NON C’È

DANZA NÉ MUSICA NÉ ARCHITETTURA.LE STELLE HANNO UN RITMO,L’UNIVERSO È RITMATO.E L’ARTE È IL PALPITODI QUEL RITMO. SE NON CEL’HAI È IMPOSSIBILE CREAREQUALCOSA. E, ANCHESE SEMBRA IDIOTA DIRLO,QUEL RITMO IO CE L’HO

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SONO OSSESSIONATODALLA PERDITA.

DOPO I CINQUANT’ANNISONO ENTRATO IN UNAPROFONDA MALINCONIA.NAVIGO IN UNA NUBE DOVE INIZIANO A SPEGNERSILE LUCI DELLA FESTANOI UMANI SIAMO CREATUREPATETICHE E ADORABILI:IN OGNUNO DI NOI C’È UN PO’ DI BIRDMAN

“Vinco perché non mollo mai, ma guai pensare che l’arte sia una gara”Intervista sul set canadese dove il regista messicano, fresco di statuetta, sta girando la prossima opera. E dove svela retroscena e filosofia del suo cinema

la Repubblica

DOMENICA 8 MARZO 2015 38LA DOMENICA

ALESSANDRO LONGO

HAIFREDDO, vuoiaccendere ilriscaldamen-to ma hai pau-ra della bollet-ta? No pro-blem: cliccaqui, sul termo-stato, e ottieniuno sconto delventi per cen-to sulla tarif-

fa. In cambio di cosa? Una quisquilia: accettiche il gestore monitori per un mese, a scopodi marketing, il modo con cui utilizzi tutti gliapparecchi elettrici in casa. In poche paroleno privacy, a meno che tu non sia sufficien-temente benestante: per gli altri arriva ilGrande Fratello. È questo uno degli scenariche potrebbero avverarsi nei prossimi diecianni con l’evoluzione degli strumenti di mo-nitoraggio diffuso. Conseguenza diretta diquella che oggi chiamiamo l’”internet dellecose”, ossia l’aggiunta di una connessione aqualsiasi oggetto della vita quotidiana.

La previsione (anno 2025) è contenuta inun rapporto di PewResearch, uno dei più no-ti osservatori mondiali sull’evoluzione deicostumi. I ricercatori hanno intervistato2.011 esperti — docenti, capi di aziende, gu-ru — e tra le previsioni c’è proprio quella chePew definisce l’alba del privacy divide. Ov-vero la contrapposizione tra iprivacy riche iprivacy poor: ricchezza economica e dirittoall’anonimato tenderanno a coincidere.

«Non ci sarebbe nemmeno tanto da sor-prendersi: già adesso la privacy comincia aessere un lusso. Banalmente nei supermer-cati otteniamo uno sconto se passiamo i pro-dotti con la carta fedeltà, che traccia i nostriacquisti», dice Raymond Wacks, professoreemerito di legge all’università di Hong Kong

e tra i massimi esperti mondiali di privacyonline (ha scritto da ultimo nel 2013 Privacyand Media Freedom, Oxford UniversityPress). Il passo successivo, nei supermerca-ti, è con l’internet delle cose: sensori che, trascaffali, nel carrello o sui manichini, analiz-zano il movimento delle persone nel nego-zio. Lo fanno già le catene americane Wal-Mart e Macy’s. I manichini della startup tec-nologica Iconeme sono entrati a fine 2014nei primi negozi (nel Regno Unito): capisco-no se qualcuno ha guardato a lungo un pro-dotto senza comprarlo. Riescono a dire età esesso del cliente (grazie a un software cheanalizza l’immagine del volto). Tutte infor-mazioni utili a scopo commerciale. Certo, so-no anonime; almeno finché il cliente non de-

cida di associare un proprio profilo utente,tramite app su smartphone, magari in cam-bio di un buono omaggio.

Il rapporto di Pew inquadra una certezzae un’incognita. La prima è che internet siestenderà a un maggior numero di oggetti.La seconda è che non sapremo se nel 2025 cisarà un quadro di regole saldo, a tutela dellaprivacy, contro i rischi di abusi: gli esperti so-no divisi su questo punto. Il 55 per cento diloro ritiene che nemmeno tra dieci anniavremo un quadro di regole consolidate. Delresto che il futuro sia dell’internet delle coseè emerso con chiarezza durante l’ultimo Ces(Consumer electronic show) di Las Vegas, lamaggiore fiera di elettronica al mondo. Tan-tissimi gli annunci dedicati a strumenti per

Next. Sotto controllo

gli utentidi cellularinel 2018

4,8mld

gli utentiinternetnel 2018

3,8mld

le connessioniinternet delle cosenel 2024

3,4mld

Noprivacy

Saremo “sorvegliati” da quando suonerà la sveglia al mattino a quando spegneremo la luce

WEARABLE COMPUTING

SONO I DISPOSITIVIDIGITALICHE SI INDOSSANO,COME I BRACCIALETTIPER IL FITNESS. PRESTOCE NE SARANNODI TUTTI I TIPI E LE FORME

MACHINE TO MACHINE

CONNESSIONICHE VANNODA DISPOSITIVOA DISPOSITIVOSENZA PASSAREDA UN ESSEREUMANO

GLOSSARIO

Ecco perché le grandi aziende(e non solo) sapranno tutto di noi

la Repubblica

DOMENICA 8 MARZO 2015 39

monitorare i nostri consumi domestici o i pa-rametri corporei. E che tutto questo sia unaminaccia mai vista prima per la privacy è ri-sultato dalle parole, sempre al Ces, di EdithRamirez, a capo dell’autorità di settore ame-ricana Ftc (Federal trade commission).«L’internet delle cose può creare un quadrocompleto, profondamente personale e in-quietante delle nostre vite», ha detto. «Quicompresi dettagli sulla nostra salute, prefe-renze religiose, famiglia, storia creditizia».Per esempio, nota Ramirez, se connettiamole tv a uno smartphone (via onde radio), di-venta possibile monitorare i gusti televisividi una persona specifica. Gli smartphone so-no infatti associati a precisi profili utenti(Google, per esempio). «È già tecnicamente

possibile questo tracciamento; se non av-viene è perché manca ancora un contestoeconomico in cui queste informazioni pos-sano essere sfruttate e analizzate commer-cialmente. Ma il contesto ci sarà entro diecianni», dice Wacks.

Di nuovo, si può immaginare un barattofra tracciamento e uno sconto sul canone tv.Inoltre, il tracciamento diventerà anche piùsofisticato e dettagliato. Un ruolo ce l’avran-no le tecnologie di riconoscimento facciale,integrate nelle videocamere: stanno diven-tando sempre più abili a identificare le per-sone. Le tecnologie indossabili, diffonden-dosi, completano il quadro dei nostri dati chepossono essere tracciati: gli smartwatch(orologi intelligenti, a breve è atteso quello

di Apple), i gadget per il fitness e per moni-torare la qualità del sonno stanno uscendo inquesti mesi dalla nicchia di mercato in cuierano relegati. Diventeranno di massa manmano che miglioreranno nei costi e nellaqualità. Un’evoluzione è prevista anche peri cellulari: assolvendo a nuove funzioni, po-tranno tracciare ulteriori abitudini degliutenti. Adesso cominciano a vedersi i primiservizi per pagare nei negozi e sui mezzi pub-blici con i cellulari. «I rischi sono numerosi»,dice Antonello Soro, presidente dell’Auto-rità garante della privacy. «Sarà possibile laprofilazione potenzialmente illimitata diabitudini e comportamenti; come pure rica-vare, all’insaputa degli interessati, infor-mazioni dettagliate anche da insiemi di da-ti o da loro correlazioni, che apparentemen-te non sono personali e utilizzarle per fina-lità del tutto diverse da quelle della origina-ria raccolta». Quindi, che fare? «Il nuovo re-golamento Ue per la protezione dei dati hal’ambizione di incorporare la tutela dei di-ritti direttamente nelle tecnologie, fin dallaloro progettazione», conclude Soro. Vedre-mo chi vincerà la battaglia.

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le tecnologieindossabilinel 2018

118mln

La differenza col Grande Fratello di Orwell? Che saremo proprio noi a volerlo

INTERNET DELLE COSE

LA TECNOLOGIACHE CONSENTEAGLI OGGETTI COMUNI(DAL TELEVISOREAL FRIGORIFERO)DI COLLEGARSIA INTERNET

SMART CITIES

CI PUNTANO TUTTI I PAESIEVOLUTI, COMPRESAL’ITALIA. AVRANNOUN CONTROLLOINTELLIGENTEDEL TRAFFICOE DEI CONSUMI ENERGETICI

SMART WATCH

GLI OROLOGI CHE SI COLLEGANO AGLI SMARTPHONE SONOL’ULTIMA FRONTIERADELLE TECNOLOGIEINDOSSABILI, SU CUICONTANO TUTTI I BIG

DOMANI L’INTERNETDELLE COSE POTRÀCREARE UN QUADRO

PROFONDAMENTEPERSONALE, COMPLETOE INQUIETANTE, DELLE NOSTRE VITECOMPRESI DETTAGLI SULLA NOSTRA SALUTE, LE PREFERENZE RELIGIOSE, LA NOSTRA FAMIGLIA E LA STORIA CREDITIZIA

EDITH RAMIREZ, A CAPO DELL’AUTORITÀ DI SETTORE

AMERICANA FTC (FEDERAL TRADE COMMISSION)

INFO

GR

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la Repubblica

DOMENICA 8 MARZO 2015 40LA DOMENICA

Sapori. Cuoche rosa

10 nomipiattie ristoranti

L’iniziativaPer l’8 marzo, Conad diventa

vetrina per la vendita di 380milabraccialetti sartoriali “Made

in carcere”, realizzati nelle carcerifemminili da Officina Creativa.

In produzione anche porta-bicchieri e tovagliette.

Il ricavato andrà a DiRe (Donne inrete contro la violenza)

Lo studioLa nuova ricerca Doxaper Assobirra svela che

sei italiane under trentacinquesu dieci bevono abitualmente

birra, numero triplicatonell’ultimo quarto di secolo,

il più alto d’Europa. A loro è dedicata la nuova

campagna “Birra, io t’adoro”

Il personaggioAppassionata di cucina

buona&sana, Michelle Obama si è fatta ritrarre sull’ultimacopertina di “Light food”,

il magazine di “Time”,con un piatto di spaghetti

mediterranei. Il 77 per centodegli americani mangia pasta

almeno una volta alla settimana

UNA VOLTA ERANOLE REGINE

DELLA CUCINA,POI GLI UOMINIHANNO AVUTO

IL SOPRAVVENTO.MA ORA, ANCHE

A COLPI DI MENÙBIOLOGICI,

INIZIANOA PRENDERSI

QUALCHERIVINCITAE DICONO:

“LORO PENSANOA STUPIRE,

NOI PRIMA DI TUTTOA NUTRIRE”

Annie FeoldeNizzarda di nascita e fiorentina d’adozione,ha trasformatouna mescita di buon vinonella più prestigiosaenoteca-ristorante del pianeta, tra sorrisi e ricette charmant

ENOTECA PINCHIORRI

VIA GHIBELLINA 55FIRENZE

TEL. 055-242777

Anne-Sophie PicUnica cuoca francese con tre stelle Michelin (il ristorante di famigliale vanta dal 1930). Nipotee figlia d’arte, cavalieredell’Ordine della Legioned’Onore, ha sparso filialitra Parigi e New York

MAISON PIC

285 AVENUE VICTOR-HUGO

VALENCE (FRANCIA)TEL. (+ 33) 4-75441532

Elena ArzakFiglia di Juan-Mari, padrenobile dell’alta cucinabasca, si è formatacon Pierre Gagnairee Ferran AdriàNel tristellato ristorantedi famiglia, l’80 per cento dei dipendenti è donna

ARZAK

AV. ALCALDE ELÓSEGUI 273SAN SEBASTIÁN-DONOSTIA

TEL. (+34) 943-278465 Da Firenzea New Yorkle dieci donnecon più stelledietroi fornelli

Grandi chef.

LICIA GRANELLO

“ILCIBOTRASFORMALANOSTRAVITA.Per questo, dobbiamo essere re-sponsabili e offrire una cucina coscienziosa, che preservi il si-stema alimentare”. E ancora: “I piatti devono raccontare dellestorie, la gastronomia deve essere emozione”. Il decalogo del-la nuova eco-cucina declinato al femminile appartiene alla cuo-ca Roberta Sudbrack, prima donna a condurre le cucine del pa-lazzo presidenziale in Brasile. Il suo ristorante a pochi passi dalgiardino botanico di Rio de Janeiro è un bell’esempio di alta ga-stronomia a supporto dei piccoli produttori virtuosi. Le sue pa-role sono state coperte dagli applausi durante i lavori del Para-bere Forum, l’assemblea mondiale di donne&cibo, che si è svol-ta nei giorni scorsi a Bilbao. Piccole cuoche crescono, e tanto pic-

cole non sono più. Ancora pochi anni fa, un evento come quello di Bilbao sarebbe stato impen-sabile. E invece, grazie al coraggio visionario della giornalista-scrittrice spagnola Maria Cana-bal, che ha inventato e organizzato il forum, trecento tra scienziate, contadine, ristoratrici,produttrici da ventisei paesi si sono confrontate per mettere a punto la prima piattaforma in-ternazionale no-profit di alimentazione al femminile. “Sebben che siamo donne”, come canta-vano le mondine un secolo fa, e come ribadisce Nadia Santini, storica tre stelle Michelin a pochi

Gabrielle HamiltonAutrice di “Sangue, ossae burro. L’educazioneinconsapevole di una cuoca riluttante”,sforna piatti consapevoli e golosi, premiati da Michelin e James BeardFoundation

PRUNE

54 E 1ST STREET

NEW YORK

TEL. (+1) 212-6776221

Pici con le briciolePasta senz’uova,spadellata con aglio,erbe e pane avanzato

Piselli burro di wasabiMix di taccole e pisellini primizia Rifinitura con miele

Scampi e rabarbaroPer completare, succodi sedano fresco e pepe di Tasmania

Agnello al malto di birraSalsa di soia e aceto di riso per rinforzarela birra scura

Hélène DarrozeIspirata dalle ricette di entrambe le nonne,che considera monumentialla gastronomia,pratica una cucina di gusto e personalità,dividendosi tra Parigi,Londra e Mosca

HÉLÈNE DARROZE IN PARIS

4 RUE D’ASSAS

PARIGI

TEL. (+33) 1-42220011

Capesante in vinaigretteInsalata croccanted’indivia, finocchio e mela verde à côté

la Repubblica

DOMENICA 8 MARZO 2015 41

GUIA SONCINI

IA NONNA FACEVA damangiare. Tutto ilgiorno, tutti i giorni.Sfamava la famiglia,anzi la ingozzava: quel

«ma non hai mangiato niente», allaquarta portata, che chiunque abbiaavuto una nonna conosce. La famiglia,gli amici, chiunque passasse di lì. Erauna donna dei primi del Novecento, e ledonne del suo tempo nutrivano. Pervocazione, per obbligo sociale, perabitudine. Certo non perchépensassero di farne una carriera, operché la ritenessero un’attività di unqualche prestigio sociale. Poi, friggere è diventato glamour.Dev’essere stato il perfezionamentodelle cappe aspiranti, o l’avvento deicuochi a tutte le ore su ogni retetelevisiva, o il cambio di verbo. Fattosta che è diventata un’occupazione chedà lustro, e quindi ambitissima dagliuomini. Sembra la stessa cosa di unsecolo fa, ma non lo è: mia nonnafaceva da mangiare, gli uominicucinano. L’ha detto impeccabilmente Paolo Poli:pensavo fosse il secolo del sesso, einvece è il secolo dei cuochi. Sono i sexsymbol che ci toccano nel presente, chesiano intellettuali come MassimoBottura, o si facciano fotografare conun dentice a coprire le vergogne comeCarlo Cracco, comunque hannosostituito gli attori e i cantanti e glisportivi come soggetti da guardare.Non fanno da mangiare: fannoimmaginario. E sono uomini. Perchéfinché c’era da spignattare andavanobene le mamme e le nonne, ma se sitratta di fare delle cucine un’industriadello spettacolo, beh, quando il gioco sifa remunerativo i maschi iniziano agiocare. La donna può starsene lì: nuda,tra Cracco e il dentice. La televisione dei cuochi, un genereormai dominante, è iniziata inInghilterra con una donna, NigellaLawson (sì, in Italia avevamo avutoVissani negli anni di D’Alema, ma erapiù colore da pagine politiche che unvero segnale dell’imminentestrapotere degli chef). Nigella è unache cucina come se posasse per uncalendario scollacciato: mugolando,leccandosi le dita, in vestaglia. Nessunodegli uomini che sono venuti dopo, sialì sia qui, ha avuto bisogno diammiccamenti sessuali perché ilpubblico lo trovasse interessante: chetu sia Gordon Ramsay o Carlo Cracco, ilcaratteraccio e un set di tegami tirenderanno sexy. E dominante rispettoalla donna, che infatti a Masterchefarriva terza. Una napoletana sconfitta,nella prova di piatti napoletani, da unveneto e un lombardo. Mia nonnaavrebbe tirato un mestolo al televisore.

Spodestateda quandofriggereè glamour

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M

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Nadia SantiniSilenziosa e incrollabile,è la monaca zen dell’altacucina tradizionaleitaliana. Nata e cresciutanella campagnamantovana, vanta tre stelle Michelin e due mani sapientissime

DAL PESCATORE

LOCALITÀ RUNATE

CANNETO SULL’OGLIO (MN)TEL. 0376-723001

Luisa ValazzaLaureata in lettere con la passione della pittura, ha tradotto in ricette i coloridei suoi quadri, creandouna raffinata enclavedi sapori elegantinell’alto Piemonte

AL SORRISO

VIA ROMA 18SORISO (NO) TEL. 0322-983228

Valeria PicciniMix talentuoso di radicicontadine e tecnicaaggraziata, per la signoradella cucina maremmanad’autore, oggi impegnataanche nel ristorante di uno degli hotel-culto di Firenze

DA CAINO

VIA DELLA CHIESA 4MONTEMERANO (GR)TEL. 0564-602817

Clare SmythPrima cuoca inglese ad aver conquistato tre stelle Michelin e 10/10nella Good Food Guide, è chef e coproprietariadel Restaurant GordonRamsay a Chelsea, dovelavora da diciassette anni

GORDON RAMSAY

68 ROYAL HOSPITAL ROAD

LONDRA

TEL. (+44) 020-73524441

Helena RizzoAppassionata di cibo da sempre, ha lavoratocome modella per pagarsi le scuole di cucina Si alterna ai fornelli col marito, conosciutodurante uno stage al Celler de Can Roca

MANÍ MANIOCA

RUA JOAQUIM ANTUNES 210SAN PAOLO (BRASILE)TEL. (+55) 1130854148

chilometri da Mantova, rivendicando l’originalità della cucina femminile, anche ai livelli più al-ti, «perché gli uomini pensano a stupire, noi prima di tutto a nutrire».

Non tutte le donne e non tutte le cuoche, naturalmente. Ma se esiste uno specifico che ab-braccia gran parte delle professioniste dei fornelli, riguarda la sensibilità speciale connessa alruolo genetico: partorire, allevare, tramandare. Non a caso, moltissime tra loro, dalle mensescolastiche all’Olimpo delle guide gastronomiche, scelgono di approvvigionarsi a fonti biolo-giche. La francese Dominique Crenn, per esempio. Prima executive chef donna di tutta l’Indo-nesia all’hotel Intercontinental di Jakarta, quasi vent’anni fa. E poi in California, responsabiledei catering privati di politici e star, da Al Gore a Sharon Stone. Capace, tra un premio e l’altro,di trovare tempo e risorse per inventare “A Moveable Feast”, un calendario di feste mobilidi cu-cina a quattro mani con illustri colleghi, cucinando solo prodotti di fattorie biologiche locali.Una scelta di campo confermata nel suo ristorante di San Francisco, “Atelier Crenne”, dove haconquistato la doppia stella Michelin, unica donna in tutti gli Stati Uniti. Oppure l’inglese Cla-re Smyth, arrivata ventenne alla corte di Gordon Ramsey, tra i risolini sarcastici della brigata.«Non durerà una settimana», dicevano. È ancora lì, head chef e socia del terribile Gordon nel lo-cale di Chelsea, unica cuoca inglese con tre stelle Michelin. I numeri, per una volta, premianol’Italia, con le sue 47 chef stellate su 110 del totale mondiale. Una responsabilità che si sdoppiaquando dividono la cucina con uno o più maschi, insegnando loro a cucinare senza lasciare i for-nelli come dopo uno tsunami. E non solo al ristorante.

Tortelli di zuccaA renderli unici,amaretti e mostardad’anguria bianca

Fassone al BarbarescoCon cannolo di verzae raviolini di midolloin consommé

Tortelli di Cinta senese Con brodo di gallina,castagne e verdure al balsamico

Halibut marinatoSopra, granchio, cous cous di cavolfioree brodo speziato

Nuova insalata WaldorfCon gelatina di mele,gorgonzola e nocicaramellate

la Repubblica

DOMENICA 8 MARZO 2015 42LA DOMENICA

“Ero ancora una bambina eppure ero già schizzata, avevo sempre i

nervi a fior di pelle, non riuscivo mai a stare ferma. È praticamente

da allora che ballo”. Oggi la coreografa e danzatrice sudafricana ha

trent’anni, gira il mondo con la sua “Carmen” stuprata e il suo “Lago

dei cigni” fatto di maschi neri ed effemminati. Ed è ricordando la

sua infanzia in una Soweto violenta che riesce a raccontare dove na-

sce la forza esplosiva dei suoi

spettacoli. “Io porto in scena i

problemi degli esseri umani. Chi

viene a vedermi non potrà più di-

re di non aver saputo come van-

no le cose”

DadaMasilo

LEONETTA BENTIVOGLIO

ROMA

IN SCENA È UN GUIZZO, un disegnino denso di spessore, una presenza emo-zionante e ludica che sa parlare di preistoria e di modernità: Eva genera-ta dalla costola di Adamo, il Puck shakespeariano immerso nell’inchio-stro, un ibrido tra un’adulta e una bambina. Coreografa-danzatrice ga-loppante sull’onda del successo, la sudafricana Dada Masilo trasmette un

mix di rabbia, fantasia, ritualità e impulsi avveniristici. È una promessa di fu-turo e la memoria di un passato doloroso. Come la sua terra. «Ballo per lottarecontro le sopraffazioni», spiega seduta al tavolo di un bar romano. «Fin da ra-gazzina ho sentito il desiderio di combattere le violenze domestiche, una tra lepiù orrende piaghe che affliggono il mio Paese. Avevo anche un gran bisognodi esorcizzare nell’arte la mia storia familiare, una storia pesante». Nel corsodella conversazione la racconterà, in modo sincero e pudico.

Approdata nei mesi scorsi in Italia come ospite del festival Romaeuropa, do-ve ha portato la sua Carmeniconoclasta, Dada Masilo, a soli trent’anni,ha guadagnato la fama di voce artistica tra le più originali e accla-mate dell’Africa contemporanea. Quando danza è un fuoco d’in-telligenza teatrale, come ha capito il geniale artista visivo suda-fricano (bianco) William Kentridge, che l’ha incoronata star di Re-fuse the Hour, raffinatissima opera da camera presentata alcunianni fa anche a Roma: un amalgama di filmati, musica, coreogra-fia e recitazione che non smette d’essere applaudito in giro per ilmondo (tra le tappe di quest’anno c’è New York). All’interno di que-sta giostra visionaria, Kentridge dà alla Masilo un ruolo fonda-mentale, espresso in un turbine di vitalità rapinoso e capace di sfi-dare il principio della scansione temporale, argomento-chiavedel pezzo. Dada si autodefinisce «il perno danzante del co-

smo magmatico di Refuse the Hour, dove si accavallano im-magini e testi». E aggiunge: «La collaborazione con Williamè stata così arricchente per entrambi che adesso sto parte-cipando alla realizzazione del suo nuovo progetto, dedica-to alla rivoluzione cinese. Un incontro che mi ha aperto gliocchi sul piano creativo, togliendomi da zone comode dime stessa e introducendomi in un universo generoso disollecitazioni».

Nata nella township di Soweto e oggi coreografa del-la compagnia “Dance Factory” di Johannesburg, città

in cui vive quando non è in tournée («nel mio appartamento domina il caos, lotrovo assai più stimolante di un ordine eccessivo»), Dada corre nel pianeta apassi da gigante mettendo in scena personalissime versioni di titoli senza tem-po come Romeo e Giulietta, Il lago dei cigni, Carmen. Di volta in volta esploraprovocazioni linguistiche, divertendosi a intrecciare le tecniche di danza eu-ropee con i moduli inaspettati, la frenesia catartica e la ritmicità furiosa dei bal-li africani: «Sono una materia piantata con forza profonda nella terra, mentreil balletto classico va alla ricerca di una grazia volatile nell’intento di cancella-re il peso e la sensualità. Ho impiegato un mucchio di tempo per identificare lamaniera di assemblare queste due dimensioni opposte. Intendevo tracciare unterritorio che ne accogliesse i conflitti. Mi sembra che l’energia dei miei spet-tacoli sia il frutto del duello». Anche l’esercizio plurilinguistico e l’adozione d’in-numerevoli vocabolari (anche verbali) appartiene alle sue radici: «Ci sono un-dici lingue ufficiali in Sudafrica. Nella compagnia parliamo inglese, afrikaans,zulu, tswana e tosa. La mia lingua materna è lo tswana, che fino alle scuole ele-mentari era l’unico codice con cui sapevo comunicare. Quando sono andata al-la high-school ho dovuto imparare faticosamente l’inglese».

Nella sua testa tonda e liscia come una boccia («rasarmi a zero è stata unadecisione sapiente, la mattina mi alzo, faccio la doccia e sono pronta. Senza ca-pelli le giornate di una ragazza si semplificano») campeggia un obiettivo: of-frire al pubblico un suo stile vigoroso e socialmente impegnato abbattendo lebarriere tra discipline artistiche e i tabù ancora impronunciabili della sua cul-tura, vedi l’omosessualità, gli amori interrazziali e la diffusa sofferenza fem-minile. «Sono cresciuta in un ambiente dove le aggressioni nei confronti delledonne erano all’ordine del giorno. Per questo, nei miei balletti, mi piace darespazio a eroine potenti e in grado di difendersi. Mio padre era violentissimo conmia madre, e io da piccola sono stata coinvolta in situazioni di abusi dolorosi.Avevo pochi anni quando ho chiesto di essere mandata ad abitare con mia non-na. Ero schizzata, danneggiata e coi nervi a fior di pelle: non riuscivo mai a sta-re ferma. Sono rimasta così fragile fino al momento in cui la danza è giunta asalvarmi la vita». Iniziò a ballare per gioco con un gruppo di strada chiamato i“Peacemakers”: «Ci riunivamo ogni pomeriggio per agitarci forsennatamentesulle canzoni di Michael Jackson. Nel 1996 Suzelle LeSueur, direttrice della“Dance Factory”, cioè di quella che sarebbe divenuta la mia compagnia, ci sco-prì e ci propose un metodico training di danza. Presi a studiare balletto acca-demico, danza contemporanea, “contact improvisation”… Era confortante ve-nire introdotta in un sistema formativo strutturato, prima di allora avevo igno-rato del tutto le regole. Superai un’audizione all’Arts School di Johannesburgdove mi diedero la possibilità di frequentare il liceo». Quindi vola coraggiosa-mente a Bruxelles: «Volevo entrare nella scuola di danza e teatro della celebrecoreografa fiamminga Anne Teresa de Keersmaeker: un migliaio di aspirantierano arrivati da ogni continente. Ne selezionarono una trentina. Io ero fra lo-ro».

Il resto è un viaggio in ascesa, lungo il quale Dada edifica via via una scrit-tura scenica orientata verso una prospettiva fusion («miscelo sempre varietecniche di movimento, in Carmen ho inserito anche il flamenco»), mentre silancia nell’indagine e reinterpretazione delle più mitiche trame classiche:

«Non amo la danza astratta, preferisco la concretezza narrativa. Certe vicen-de eterne sono intriganti e colme di spunti da sviluppare, e io voglio esporle

secondo la mia concezione. Per esempio Carmen, nel mio spettacolo, alla fi-ne non muore, ma subisce uno stupro, un’altra forma di morte, poiché vio-lentandola le rubano l’anima. Ora sto pensando di rimontare anche Gisel-le e La sagra della primavera in ottiche “altre”, soggettive e fertili di mes-saggi sociali». Al centro del suo Lago dei cigni ha messo un principe gay:«Mi sono ispirata al resoconto gestuale di un mio amico che risultò esila-rante quando mimò per me l’outing fatto con sua madre. Episodio buffis-simo e tragico». L’uomo che balla, spiega la Masilo, non deve soltanto sor-

reggere la sua partner e fungere da porteurdella ballerina: «Odiole gerarchie degradanti della danza tradizionale». Non haavuto la minima difficoltà nel convincere i maschi del suo en-semble, in occasione di quel Lago specialissimo, a indossa-re scarpette con le punte e tutù. Parevano nubi candide spic-canti su pelli scure: «Il plot mi ha condotto a misurarmi coltema dell’omofobia: mostro il principe Sigfrido più attrattoda un aitante cigno-nero maschio che dalla protagonista ci-gno-bianco. Le persone devono poter essere liberamente ciò

che sono, senza venire mai giudicate “diverse”». Col suo sorriso ardente e la sua passione inesau-ribile, Dada crede che l’arte possa far galleggia-

re nelle tempeste della vita le creature più vul-nerabili, «perché quello che si legge o si ascol-ta o si vede in teatro induce la gente a riflet-tere e a discutere. A volte la fa arrabbiare, da-to che la produzione artistica, per sua natu-ra, minaccia pregiudizi e fanatismi, e mette

in crisi chi si rifiuta di cambiare idea. Ma dopoaver assistito a un’opera votata ai più autentici problemi umaninon si potrà più dire di non aver saputo come vanno le cose».

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IL BALLETTO CLASSICO RICERCA UNA GRAZIA CHE CANCELLA PESO E SENSUALITÀ. QUELLOAFRICANO È INVECE PROFONDAMENTE ANCORATOALLA TERRA. IO VOLEVO UN LUOGO CHE POTESSEACCOGLIERE E RAPPRESENTARE QUESTO DUELLO

RASARMI A ZERO È STATA UNA DECISIONEDAVVERO SAPIENTE. LA MATTINA MI ALZO,FACCIO UNA DOCCIA E SONO GIÀ PRONTASENZA CAPELLI LE GIORNATEDI UNA RAGAZZA SI SEMPLIFICANO

LA DANZA È VENUTADA ME E MI HA

SALVATO LA VITAHO COMINCIATO

IN STRADACON UN GRUPPO

DI AMICI.CI CHIAMAVAMO

I “PEACEMAKERS”.OGNI POMERIGGIO

CI AGITAVAMOCON MICHAEL

JACKSON

L’incontro. Toste