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DOMENICA 6 AGOSTO 2006 D omenica La di Repubblica i luoghi Un museo per ricordare Ustica BEPPE SEBASTE cultura Il gesuita che inventò il nome di Dio MARCO POLITI e FEDERICO RAMPINI la lettura La morte di Justina, inedito di Cheever JOHN CHEEVER SAN JUAN DE PORTORICO S e a fare la fama e il prestigio di un leader è il po- tere, e non l’opera costruttiva, l’ottuagenario Fi- del Castro — oggi costretto ad affidare al fratel- lo Raúl il “timone del regime” perché ricoverato in ospedale — è un trionfatore. Quando giunse all’Avana nel 1959 dichiarò di avere l’età di Cristo: 33 anni; ma se fos- se vero che è nato il 13 agosto 1925 (e dalle sue biografie ri- sulta venuto al mondo nel 1926), tra una settimana compi- rebbe ottantun anni d’età e quarantasette di potere asso- luto. Un record: la dittatura più lunga della storia. La Cuba di oggi — proprietà e opera sua, nonché sua di- struzione e rovina, prigione e cimitero — ha fatto di Castro una frode universale. Il guerriero trionfa distruggendo i suoi nemici, ma il politico che sa solo distruggere è un di- sastro. Prima di Castro, Cuba era un paese in via di svilup- po, con allevamenti che producevano latte e carne a basso prezzo e grandi coltivazioni di caffè sulle montagne; pos- sedeva la prima industria zuccheriera del mondo e una buona produzione agricola, che sopperiva al 75 per cento del consumo interno, mentre il rimanente fabbisogno era coperto dalle esportazioni. (segue nelle pagine successive) la memoria I 300 anni di Pietro Micca, eroe-travèt MAURIZIO CROSETTI e GIANNI OLIVA le forme Slot machine, l’azzardo middle class PINO CORRIAS CARLOS FRANQUI MIAMI F orse Fidel non scherzava lo scorso 26 luglio quando minacciò di vivere cent’anni (venti più di quelli che ha ora), ma, chiarendo in un solo di- scorso agli americani e al resto dei suoi nemici che non aveva intenzione di trascorrerli governando fino alla fine, rivelava un proposito. La notizia che i mezzi d’informazione ufficiali dell’Avana davano pochi giorni dopo, lunedì 31 luglio, alle 8,45 della sera, ora cubana, che il Comandante era stato sottoposto a un intervento chirur- gico d’urgenza e soprattutto che cedeva i suoi incarichi e re- sponsabilità al fratello Raúl e ad altri suoi compagni, con- ferma, al di là della battuta, che ci troviamo davanti a un fat- to pianificato. Chi si vanta di conoscere Fidel e gli aspetti misteriosi della sua condotta sa che questo è il suo modo di elaborare le idee: gli gira intorno, come a un vaso di creta sul tornio, accenna argomenti che lascia sospesi, per vede- re come reagiscono i suoi interlocutori. Certo, se lo hanno portato d’urgenza in sala operatoria per quello che lui stes- so ha definito un «incidente di salute», questo non è stato premeditato, specialmente se teniamo conto del suo ca- rattere superstizioso. (segue nelle pagine successive) NORBERTO FUENTES spettacoli Il jazz, la musica col diavolo in corpo GINO CASTALDO FOTO GAMMA Le prigioni Fidel di Cominciò nelle galere di Batista, poi riempì le sue di oppositori. Ora la malattia e il passo indietro alla vigilia degli ottant’anni riaprono i giochi a Cuba Repubblica Nazionale 29 06/08/2006

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DOMENICA 6 AGOSTO 2006

DomenicaLa

di Repubblica

i luoghi

Un museo per ricordare UsticaBEPPE SEBASTE

cultura

Il gesuita che inventò il nome di DioMARCO POLITI e FEDERICO RAMPINI

la lettura

La morte di Justina, inedito di CheeverJOHN CHEEVER

SAN JUAN DE PORTORICO

Se a fare la fama e il prestigio di un leader è il po-tere, e non l’opera costruttiva, l’ottuagenario Fi-del Castro — oggi costretto ad affidare al fratel-lo Raúl il “timone del regime” perché ricoverato

in ospedale — è un trionfatore. Quando giunse all’Avananel 1959 dichiarò di avere l’età di Cristo: 33 anni; ma se fos-se vero che è nato il 13 agosto 1925 (e dalle sue biografie ri-sulta venuto al mondo nel 1926), tra una settimana compi-rebbe ottantun anni d’età e quarantasette di potere asso-luto. Un record: la dittatura più lunga della storia.

La Cuba di oggi — proprietà e opera sua, nonché sua di-struzione e rovina, prigione e cimitero — ha fatto di Castrouna frode universale. Il guerriero trionfa distruggendo isuoi nemici, ma il politico che sa solo distruggere è un di-sastro. Prima di Castro, Cuba era un paese in via di svilup-po, con allevamenti che producevano latte e carne a bassoprezzo e grandi coltivazioni di caffè sulle montagne; pos-sedeva la prima industria zuccheriera del mondo e unabuona produzione agricola, che sopperiva al 75 per centodel consumo interno, mentre il rimanente fabbisogno eracoperto dalle esportazioni.

(segue nelle pagine successive)

Trent’anni fa, dal garage di una casa californiana, uscivaun nuovo tipo di computer destinato a cambiare il mondo

la memoria

I 300 anni di Pietro Micca, eroe-travètMAURIZIO CROSETTI e GIANNI OLIVA

le forme

Slot machine, l’azzardo middle classPINO CORRIAS

CARLOS FRANQUI

MIAMI

Forse Fidel non scherzava lo scorso 26 luglioquando minacciò di vivere cent’anni (venti piùdi quelli che ha ora), ma, chiarendo in un solo di-scorso agli americani e al resto dei suoi nemici

che non aveva intenzione di trascorrerli governando finoalla fine, rivelava un proposito. La notizia che i mezzid’informazione ufficiali dell’Avana davano pochi giornidopo, lunedì 31 luglio, alle 8,45 della sera, ora cubana, cheil Comandante era stato sottoposto a un intervento chirur-gico d’urgenza e soprattutto che cedeva i suoi incarichi e re-sponsabilità al fratello Raúl e ad altri suoi compagni, con-ferma, al di là della battuta, che ci troviamo davanti a un fat-to pianificato. Chi si vanta di conoscere Fidel e gli aspettimisteriosi della sua condotta sa che questo è il suo modo dielaborare le idee: gli gira intorno, come a un vaso di cretasul tornio, accenna argomenti che lascia sospesi, per vede-re come reagiscono i suoi interlocutori. Certo, se lo hannoportato d’urgenza in sala operatoria per quello che lui stes-so ha definito un «incidente di salute», questo non è statopremeditato, specialmente se teniamo conto del suo ca-rattere superstizioso.

(segue nelle pagine successive)

NORBERTO FUENTES

spettacoli

Il jazz, la musica col diavolo in corpoGINO CASTALDO

Lettere d’amore

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FideldiCominciò nelle galere di Batista, poi riempì le suedi oppositori. Ora la malattia e il passo indietroalla vigilia degli ottant’anni riaprono i giochi a Cuba

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Nongli piace affatto stuzzicare malattie e cattivi presagi, tanto meno quelli re-lativi ai suoi stessi funerali. Ma se scartiamo la possibilità che sia già morto,l’incidente di salute non ha fatto altro che anticipare il piano operativo. Que-

sto incidente ha confermato quan-to abbia fatto bene a prevederequesta eventualità tenendo unpiano di risposta già pronto. La cri-si intestinale acuta e la grave emor-ragia non erano nei calcoli. Sonosolo elementi circostanziali o sem-plicemente molto ben sfruttati.

Il fatto è che l’incertezza si èimpadronita di Cuba, degliStati Uniti e del mondo appe-na è apparsa la notizia. Comeavviene sempre con Fidel, da

cinquant’anni, la notizia è andata in prima pagina e lui è stato nuova-mente al centro degli avvenimenti mondiali, superando perfino la guer-ra in Libano, anche se solo per alcune ore. E come avviene solitamente nelsuo regno, dove non c’è posto per far filtrare notizie, è sorto il dubbio chela notizia fosse vera, o non fosse che la copertura di una tragedia. Intanto,mentre per le strade di Miami la gente esulta e grida, a L’Avana domina-

no la scena il silenzio o i capannelli di chi commenta sottovoce i fatti. È loscenario che si poteva prevedere: Fidel ha ancora la situazione sotto con-trollo e questo è reso evidente da due fattori determinanti. Carlos Valen-ciaga, membro del Consiglio di Stato e segretario dell’ufficio presiden-ziale, il giovanotto che ha letto il messaggio attribuito al capo, è un suo uo-mo, un uomo “di Fidel” notoriamente detestato da Raúl Castro, e non sa-rebbe stato scelto per rendere pubblico un comunicato come questo se illíder máximo non fosse al comando; del resto, Valenciaga, con la sua ca-micia leggera a quadri e la sua tranquilla espressione da adolescente, nonera proprio l’immagine di uno dei delfini del castrismo al funerale del suobenefattore. Questo senza contare il modo in cui è scritto il comunicato,in cui si sente la mano e lo stile di Fidel.

La procedura. Nel caso che l’operazione si sia svolta domenica scorsa,probabilmente si è atteso che passassero gli effetti dell’anestesia, che sisvegliasse e si capisse che stava bene, per fare il passo successivo: rende-re pubblico il comunicato. (George W. Bush, in campagna politica a Mia-mi, è stato colto di sorpresa come il resto dell’umanità mentre dimostra-va che cosa intende quando parla di “apertura democratica” dell’isola, in-contrando solo i suoi amici tra le fila piú reazionarie dell’esilio cubano).Un altro elemento viene dal comunicato firmato di suo pugno da Fidel:annunciando interminabili settimane di riposo, lascia nella massima in-certezza un paese e una regione, e rimanda i festeggiamenti del 13 agostoper i suoi 80 anni al 2 dicembre, cinquantesimo anniversario dello sbar-co del Granma. Dovranno passare cinque mesi in cui tutto il mondo re-

30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 6 AGOSTO 2006

la copertinaCarceri cubane

Il líder máximo compie 80 anni,da 47 detiene il potere assolutoa Cuba, ma oggi il paese dovegli oppositori sono diventatiesuli o detenuti è a una svoltastorica. E la protesta cresce

4 APRILE 1954

Ho il sole per diverse ore tutti i pomeriggi, e il martedì,il giovedì e la domenica anche la mattina. Un cortile grandee solitario, chiuso interamente da una galleria. Ci passo oremolto piacevoli (...). Sono le 11 di sera. È dalle 6 del pomerig-gio che sto leggendo un’opera di Lenin, Stato e rivoluzione,dopo aver terminato Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte e Leguerre civili, entrambi di Marx, tre opere con molti legami fradi loro e di valore incalcolabile.

Ho fame e ho messo a bollire un po’ di spaghetti con cala-mari ripieni (...). Non ti avevo detto che venerdì ho messo inordine la mia cella (...). Ho messo a posto le mie cose e regnal’ordine più assoluto (...). Mi sto facendo due bagni al giorno,“obbligato” dal caldo. Come mi sento bene quando ho fini-to! Prendo il mio libro e per qualche attimo sono felice. Mi so-no stati di grande aiuto i miei viaggi nel campo della filoso-fia. Dopo essermi scervellato un bel po’ su Kant, perfinoMarx mi sembra più facile del padrenostro. Sia lui che Leninavevano un terribile spirito polemico, e io qui mi diverto, ri-do e me la spasso leggendoli (...). Adesso ceno: spaghetti concalamari, cioccolatini italiani per dessert, caffè appena fil-

trato e poi un H Uppman 4. Nonmi invidi? Mi accudiscono (…).Mi faranno credere di essere invacanza! Che direbbe Carlo Marxdi rivoluzionari del genere?

Le prigioni di Fidel

2 DICEMBRE 1953

Viviamo in una galleria di circa 40 metri di lunghezzaper 8 metri di larghezza, situata in un’ala dell’infermeria, ungrande edificio a un solo piano. Pareti di calce bianca che re-spingono la luce di tre lampadine appese al soffitto per illu-minare l’ambiente (...). Il bagno sta a un’estremità della stan-za, e all’altra estremità c’è una piccola mensola di marmo chefunge da cucinino per il caffè (...). Da un’estremità all’altra,due file di letti allineati in perfetta formazione; sono 27 in to-tale, e ora, con le zanzariere, sembrano tende da campo in cuici proteggiamo dall’esercito di mosche e zanzare (...). Corti-le interno di 20 metri per 12; intorno a tutto il cortile un am-pio portico (...). Vicino alla porta di uscita che dà sul cortile,nel portico, due tavole lunghe per pranzare e cenare, e cheutilizziamo anche per le lezioni. Non c’è nessuna apertura dacui si possa vedere il paesaggio esterno; tutte le finestre stan-no a più di 9 piedi di altezza. Abbiamo diritto al cortile dalle10 alle 10.30 della mattina e dall’una alle quattro del pome-riggio. Tutte le mattine, dalle 9.30 alle 10.30, faccio lezione,un giorno di filosofia e un giorno di storia universale; le lezio-ni di storia di Cuba, di grammatica, di aritmetica, di geogra-fia e di inglese le tengono altricompagni. La notte mi tocca l’e-conomia politica, e due volte allasettimana oratoria, o per megliodire, qualcosa che le assomiglia.

che Cuba fosse comunista per colpa de-gli Stati Uniti, finché il Comandante hafermato tutti con una frase, pronuncia-ta negli anni Ottanta alla tv spagnola. Al-la domanda sulle responsabilità degliStati Uniti ha risposto: «Cuba è comuni-sta per un atto della mia volontà; di que-

sto gli Stati Uniti sono stati soltantocomplici».

E su Granma Castro ha dichiarato, ri-spondendo a una domanda sul bloqueo(l’embargo): «Quand’anche gli ameri-cani lo sospendessero, sarebbe più con-veniente per noi commerciare con l’U-

nione Sovietica piuttosto che con loro».L’economista Ramos è in carcere peraver ripetuto questa frase.

Per chi si chiede come mai i cubanisopportino un tale orrore senza ribellar-si, la risposta va ricercata in una serie dicifre allucinanti: nel corso di una decina

di ondate di terrore massiccio, più di unmilione di cubani sono stati condanna-ti a pene tra i tre e i cinque anni di carce-re, per un totale di oltre tre milioni di an-ni di detenzione nelle orribili carceri ca-striste e nei gulag tropicali, che AmnestyInternational ha definito disumani.

Non vedo il paesaggio Ma io qui mi diverto

La libertà è dietro le sbarre

La manovradi Castro

NORBERTO FUENTES

(segue dalla copertina)

Oggi, se un turista si muoves-se con sguardo attento nel-le città e nelle campagne diCuba sco-prirebbeche la tes-

sera annonaria, intro-dotta fin dal 1962, con-cede razioni alimenta-ri miserabili, appenasufficienti al sostenta-mento nei primi quin-dici giorni del mese.Quel turista vedrà che aCuba le case sono per lopiù cadenti, i trasportinon funzionano, lascarsità d’acqua e icontinui tagli della cor-rente elettrica rendonola vita insopportabile.Chiunque guardi la te-levisione o legga lastampa ufficiale si puòrendere conto dellaferrea censura, dellemenzogne, del trionfa-lismo e dell’onnipre-senza del Caudillo su-gli schermi. Ed è questatragedia che alcunibenpensanti chiama-no «paradiso sociali-sta!»

Camminando perCuba si penserà che inverità è quasi un para-diso — ma solo per glistranieri in possesso divaluta: Varadero, laspiaggia più bella delmondo, e tante altre; iristoranti che offronomanicaretti appetitosi;i cabaret, le sale giochi,i negozi con prodotti ditutto il mondo. Ma seper strada si chiede aun bambino cosa vuolfare da grande, ci si sen-te rispondere: lo stra-niero.

Le cliniche medichedove si paga in dollarisono provviste di tutto,mentre gli ospedalinon hanno nulla, e nel-le farmacie popolarinon si trova neppurel’aspirina. Anche se Ca-stro mantiene più dicinquantamila medici,offrendo assistenza aipaesi del mondo pove-ro. Per sopravvivere, icubani sono costretti a rubare a tutti i li-velli, a vivere di espedienti; sono indottialla doppiezza, alla menzogna e persinoalla prostituzione. Lo testimoniano leparole con cui il Comandante reclamiz-za il turismo sessuale, pubblicate suGranma e ripetute a Montevideo, Uru-guay: «Lo fanno perché a loro piace; so-no molto preparate e non hanno l’Aids».La crisi morale e spirituale della societàcubana è anche più grave della sua rovi-na materiale.

Per gli stranieri c’è tutto, mentre ai cu-bani il «socialismo» — espressione criti-ca di Raúl Castro — non dà quasi nulla.Che paradosso! In passato si era detto

CARLOS FRANQUI

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31DOMENICA 6 AGOSTO 2006

I prigionieri di Fidel

Vivo in una cella senza aperture. È unrettangolo di 3,3 metri di larghezza per 10 me-tri di lunghezza, divisa in due aree. In una c’èil dormitorio, con una lunghezza di 7,7 metrie un’area totale di 25,4 metri quadrati. Vi sitrovano due file di letti a castello, ognuno a trepiani, dove dormono 18 persone. I letti han-no una superficie di 1,95 metri per 70 centi-metri. I letti a castello occupano un’area di 8,2metri quadrati, lasciando libero un corridoiocentrale tra le due file di letti, con un’area di17,2 metri quadrati, il che consente a ogni de-tenuto di disporre in teoria di 90 centimetriquadrati di spazio per stare in piedi quandonon è steso sulla sua branda.

I letti a castello sono mobili metallici conassi o intelaiatura in legno, dove proliferanogli scarafaggi, che sono tollerati perché evita-no la moltiplicazione delle cimici, delle pulcie di altri insetti infestanti.

Víctor Rolando Arroyo, giornalistaindipendente condannato a 26 anni

Miei cari fratelli e sorelle dell’oppo-szione al regime totalitario che da poco più di47 anni opprime la mia nazione, l’isola di Cu-ba, e che vi trovate in esilio, nelle prigioni diquesto arcipelago o apparentemente in li-bertà per le strade cubane. Voglio ringraziar-vi e dirvi quanto mi abbiano commosso tuttele lettere e le petizioni per farmi rinunciare aquesto sciopero della fame e della sete perchéinstallino in casa mia un collegamento diret-to a internet. Tuttavia, nonostante la mia sod-disfazione nel vedere quanta umanità ci sia invoi, miei fratelli negli ideali e nella lotta per ot-tenere l’unica democrazia autentica (...), de-vo respingere le vostre petizioni per salvare lamia vita (...). Devo dimostrare insieme a voi, acoloro che mi reprimono, che un dissidentecubano è capace di offrire la sua vita per le sueidee (...). Penso che il miglior esito che possaavere la mia protesta sia la notizia della miamorte perché costituirebbe una smentita al-le calunnie castriste contro gli oppositori.

Guillermo Fariñas Hernándezdal Reparto terapia intensiva della clinica

universitaria Milián Castro

Tra il 1960 e il 1961, ventimila opposi-tori, quasi tutti di origine rivoluzionaria,— chiamati los Plantados per la loro co-raggiosa resistenza — furono condan-nati a vent’anni di carcere, per un totaledi oltre quattrocentomila anni. Ancorarecentemente, nel 2003, più di settanta

oppositori pacifici e giornalisti indipen-denti hanno subito condanne da quin-dici a vent’anni, per una somma di oltremilleduecento anni di detenzione. Diquesti, solo una quindicina — tra cui ilpoeta Raúl Rivero — sono stati scarce-rati per malattia o in seguito a pressioni

internazionali. Gli altri sono dietro lesbarre da oltre tre anni, nonostante leproteste internazionali.

Decine di migliaia di oppositori e di-rigenti sono stati fucilati — come il co-mandante Sori Marín o il maggiore ge-nerale Ochoa. Il ministro della Sicurez-

za José Abrahantes,che fin dal 1959 era vis-suto giorno per giornoa fianco di Castro, èmorto in carcere nel1989.

Molti sono affogati ofiniti in pasto agli squa-li per sfuggire al paradi-so castrista: più di duemilioni tra esiliati eemigranti hanno la-sciato Cuba. Queste ci-fre incredibili, che pro-vano la resistenza cu-bana al castrismo, sipossono constataresfogliando la stampaufficiale, o leggendo idiscorsi dello stesso Fi-del Castro, che alcunianni fa ha dato di que-sti crimini la spiegazio-ne più chiara. Ai colon-nelli portoghesi in visi-ta all’Avana ha infattidichiarato: «In situa-zioni di crisi, il potere simantiene col terrore econ la fame».

L’assalto alla caser-ma di Moncada, primoatto importante di Ca-stro, causò più di centomorti. Nessun’altraazione iniziale nellastoria di Cuba — com-prese le due guerre diIndipendenza e la rivo-luzione del 1933 — ave-va fatto scorrere tantosangue. Ma quello fusolo il battesimo dellasua natura violenta.

È nota la frase pro-nunciata da Castro nel1953 dopo la sentenzaper i fatti di Moncada:«La storia mi assol-verà». Ma la storia locondanna, come già hacondannato Hitler,che prima di lui avevaespresso questo con-cetto, come risulta daMein Kampf.

Castro comanda, manon governa. Il suo ter-rore non ha potutoporre fine allo sconten-to popolare, alle prote-ste, alla lotta dell’op-

posizione pacifica e del giornalismo in-dipendente per la libertà e la democra-zia.

Cuba entra ora in una difficile e peri-colosa fase di successione. Lo stessoRaúl Castro teme che sull’isola si ripetaquanto è avvenuto nell’Unione Sovieti-ca dopo la morte “dell’insostituibile”padre padrone.

Traduzione di E. HorvatLe due lettere di Fidel Castro

e quella di Victor Rolando Arroyo sonostate tradotte da Fabio Galimberti,

quella di Guillermo FariñasHernández è stata tradotta

da Luis Moriones

sterà in sospeso, in attesa di una resurrezione.Le notizie che giungono da lunedì sembrano essere scritte sulla pietra.

Frattanto, a L’Avana si respira la calma abituale, non ci sono poliziotti neipressi della Sección de intereses(la rappresentanza diplomatica degli Sta-ti Uniti), non c’è uno spiegamento di carri armati nelle strade. I festeggia-menti di Miami per la morte che già danno per certa non hanno nessunsignificato pratico per i loro protagonisti, anche se dimostrano un altramossa strategica indovinata de L’Avana, perché Fidel sposta la controri-voluzione verso l’esterno.

Il futuro immediato dovrebbe essere prevedibile per chi ha familiaritàcon i problemi cubani, anche se con delle varianti. Fidel è vivo. Ma ha ce-duto il potere (primo fattore nuovo, molto nuovo). E non tornerà. O alme-no questo è ciò che suggerisce la logica. Se le cose stanno così, si tratta diuna manovra perfetta e ci rivela un aspetto inedito della sua personalità.Fa ciò che nessuno pensava che avrebbe fatto: mollare il potere. La data dalui stesso annunciata per il suo ritorno — il 2 dicembre di quest’anno — dàquattro mesi di prova al nuovo gruppo di governo di Cuba. Nuovo nel sen-so che Fidel non è a capo del gruppo. Quello sarà un laboratorio. Lui ha da-to il potere a Raúl, ma ha anche distribuito gli incarichi piú importanti traaltre persone. Continua a vegliare su tutto ciò che accade e manda all’ariatutti i piani di transizione di Miami, della dissidenza e degli americani. Co-me quando Don Vito Corleone cede il potere a Michael. Il boss dà consiglial figlio, lo prepara perché possa assumere il potere nella famiglia, ma nonesce completamente di scena. Andando avanti con la sequenza, un gior-

no Fidel morirà tra i peperoncini del suo giardino mentre corre dietro auno dei suoi nipotini. Ma quello che abbiamo, per ora, è che il comunica-to della sera di lunedì attutisce non la notizia della sua morte, ma la rivela-zione che si è ritirato dal potere, e senza sparare un colpo. Fidel ha cedutoil potere a Raúl e anche Raúl dovrà cederlo tra poco. Sta succedendo quel-lo che Raúl ripeteva a una cerchia di amici intimi su ciò che pensava del fu-turo che alla fine degli anni Ottanta sembrava, se non impossibile, impro-babile: «Quando ci ritireremo, ci ritireremo, ma sempre con un piede nel-la staffa. Non scenderemo mai dal tutto dal carro». Una manovra scon-certante per l’opposizione, battuta di nuovo. Quello che ha fatto Fidel èstato prolungare e rendere eterno il regime.

Un’ultima cosa. Fidel ha visto la caduta di Batista e conosce la cadutadi Machado e sa che se l’esaltazione a cui si assiste nelle strade di Miamiscoppiasse a L’Avana costerebbe il collo a tutta la sua famiglia, a sua mo-glie e ai suoi figli, a suo fratello e a tutti i suoi seguaci piú vicini. Adesso lista proteggendo con questa manovra, lasciando un margine di tempoperché le cose si assestino. La pressione su di lui diminuirà con il passaredelle settimane. Lui continuerà a vivere nel suo ambiente, in condizionifavorevoli di sicurezza, di tranquillità, mentre gli altri cominceranno a te-nere le redini del potere. Per un leader rivoluzionario con le sue caratteri-stiche è molto difficile lasciare le strutture della sua costruzione. Soprat-tutto per ciò che per lui significa lasciare il comando, ovvero la morte: pro-prio come i suoi nemici hanno auspicato per quasi mezzo secolo.

Traduzione di Luis Moriones

LA FAME

Prigionieri politici

in un carcere

a Cuba. In alto:

la lettera scritta

da Guillermo

Fariñas dopo

più di 40 giorni

di sciopero

della fame

In copertina,

una foto

di Fidel Castro

detenuto

nel luglio del 1953

In cella, senza aperture Sciopero fino alla morte

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2003PRIGIONE DI GUANTÁNAMO

SANTA CLARA14 MARZO 2006

LE LETTERELe due lettere di Castro (sopra a sinistra) furono scritte da Fidel

alla sua compagna Nadi Revuelta dal carcere di Ilas de Pinos

dove stava scontando 15 anni dopo l'assalto alla Moncada del 1953

Nel 1955 fu però amnistiato dal colonello Batista. Le lettere furono

consegnate a Carlos Franqui nel 1964 e pubblicate in varie edizioni

internazionali. Le altre due lettere (sopra a destra) sono

di noti oppositori incarcerati dal regime castrista

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la memoriaStoria e leggenda

Trecento anni fa, la notte del 29 agosto 1706,un soldato-minatore chiamato “Passapertut”accende una miccia troppo corta e saltain aria con i francesi che stanno espugnandoTorino. E così un “operaio della battaglia”diventa martire di una patria di là da venire

32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 6 AGOSTO 2006

mi e quello del piccone e della miccia. Ilproblema era capire dove scavasse il ne-mico, e dove avesse messo i cannoni e imortai che martoriavano la città (si cal-cola che in quattro mesi caddero su Tori-no 90mila palle di cannone e 25milabombe di mortaio esplodenti). Perché loscopo dello scavo di contromina era si-stemare i barili di polvere da sparo (il “for-nello”) proprio sotto il sedere degli attac-canti.

Narra la leggenda che gli uomini talpaportassero tamburi nei cunicoli, e vi ada-giassero manciate di legumi: la vibrazio-ne dei cannoni avrebbe indicato il luogogiusto per piazzare le bombe. E poi eraprezioso l’orecchio: nel silenzio della ter-ra, bisognava capire dove picchiassero lepale del nemico. Qui dentro si tirava dimoschetto, volavano granate e si crepa-va soffocati. Sopra, intanto, la città ago-nizzava. Dal selciato erano stati divelti la-stroni di pietra e cubi di porfido, per im-pedire alle palle di cannone francesi dirimbalzare nelle vie moltiplicando mor-te. I tetti delle chiese erano stati scoper-chiati per fondere, col loro piombo, altremunizioni. I condannati a morte veniva-no spediti a rimuovere i cadaveri e la ter-ra nelle gallerie, insieme agli orfanelli del-l’Ospedale della Carità. Più eri piccino,più eri disperato e solo al mondo, megliofunzionavi. Il crudele realismo dellaguerra non conosceva ostacoli, ed erauna lotta di nobili generali con tricorno ecodino, ma soprattutto di umili protago-nisti: come le vedette civili che si faceva-no cannoneggiare dall’alto della torre di

San Gregorio, pur di osservare i movi-menti del nemico e riferirli. Dall’oceanoanonimo della storia emergono detriti dinomi, come quello di Pietro Maggia, «fa-chino». Attorno all’antro orribile, comevenivano chiamate la gallerie, si muove-va anche l’esercito dei disperati, misera-bili e disoccupati, un battaglione di po-veri ricompensati con «quattro soldi algiorno per caduno».

Perché mancava tutto. Il cibo, la polve-re da sparo, l’amato vino: un piemontesenon combatte da astemio nessuna batta-glia. Eppure c’era la forza naturale diquelli che facevano tutto, compresa laguerra, come un inevitabile mestiere, glioperai della battaglia, non diversi dalmontatore di gru Libertino Faussonedella Chiave a stella di Primo Levi, gli uo-mini che sono tali in virtù di un lavoro benfatto. E questo, probabilmente e prima diogni altra cosa, fu Giovanni Pietro Miccada Sagliano Biellese. Non un eroe, ma un

metterla al sacco, come il duca La Feuil-lade aveva promesso ai suoi soldati, bi-sognava passare di lì. Ma soprattutto c’e-ra, e ancora c’è, quello che non si vede: ilsistema di gallerie scavate in poco più diun anno, dalla primavera del 1705 all’au-tunno del 1706, dove si svolse la guerradelle talpe e dove Pietro Micca rischiò didiventare il primo kamikaze della storia:non lo fu, invece, perché morire e immo-larsi era l’ultimo dei suoi pensieri, anchese andò proprio così.

Il signor Giuseppe Galliano è un vo-lontario dell’Associazione amici del mu-seo Pietro Micca e dell’assedio di Torinodel 1706, nome quasi più lungo di un as-sedio, in effetti. Pensionato come il suoamico Francesco Caviglia, che ci accom-pagna con un’altra lanterna, ha la pas-sione della storia («è anche un modo persentirsi legati alleproprie radici, aquesti nostri luo-ghi») e ogni giornoguida scolaresche,turisti e curiosi nel-la pancia della città.Dei ventuno chilo-metri di gallerie ori-ginarie, da sette aquattordici metri diprofondità, ne sonorimasti nove, e circaquattrocento metrivisitabili. Alla finedegli anni Cin-quanta la specula-zione edilizia stavaper seppellire tutto,c’erano da scavarele cantine dei palaz-zi finanziari nellazona di Porta Susa,ma prima che il ce-mento calasse persempre un militaretestardo, allora capitano dell’esercito,Guido Amoretti, riuscì a identificare laleggendaria scala di Pietro Micca, fecel’archeologo di un’idea e di una scom-messa e riportò tutto alla luce. La scala èstata la sua tomba di Tutankhamon e ilcapitano, diventato generale, ci costruìun museo, una storia e una memoria delsottosuolo che ancora tocca a lui custo-dire, alla bella età di ottantasei anni: lun-go e ritto come un soldato del duca Vitto-rio Amedeo II, il Savoia che seppe resiste-re al Re Sole e cacciarne le truppe, primadi morire pazzo e incarcerato dal figlio.Dinastia disgraziata, quella.

Scendere è emozionante. C’è una pri-ma scalinata in cemento, più moderna, epoi la galleria perimetrale di mattoni. Al-tezza media, un metro e ottanta. Eranopiccolini, nel Settecento. Piovono gocced’acqua dalla volta bombata, si apronorami laterali e nicchie dove tremolano lu-ci bianche. È un dedalo di cunicoli so-vrapposti e paralleli. Funzionava così: ilnemico scavava per minare gli assediati(gallerie di mina), i difensori scavavano aloro volta per far saltare in aria il nemico(gallerie di contromina), e siccome daPietro Micca a Marcello Lippi la storia di-mostra che vince chi si difende, i tenacipiemontesi ebbero la meglio anche se al-l’inizio dell’assedio erano appena 10.270contro 40.800 “gallispani”. La peggiorsorte era appartenere, come lo sventura-to Passapertut, alla Compagnia Minato-ri di Sua Altezza, perché quelli erano topie soldati insieme, portavano il segno deidue lavori più ingrati, il mestiere delle ar-

Qui sotto sono ancoravisibili i segnidella morte: il soffittoa cratere, i murilisciati dallo scoppio,due coroncinedi fiori per ricordaretutti i soldati uccisi

Oggi, sotto Torino,dei 21 chilometridi gallerie originariene corrono ancora 9,a una profonditàtra i 7 e i 14 metri

Pietro Micca, l’eroe-travètalla “Guerra delle talpe”

TORINO

Ecco, è qui. La lanterna del si-gnor Giuseppe allunga om-bre sulle pareti della galleria,sugli spigoli di mattone

sbrecciato che da trecento anni raccon-tano la storia di un eroe, di un povero cri-sto, di un soldato minatore, di GiovanniPietro Micca detto “Passapertut”. E leombre ballano, prendono forme un po’spaventose nel buio freddo di questa ta-na di talpe. C’è la scala che scende nel cu-nicolo più basso, c’è il varco della portache in quella notte tra il 29 e 30 agosto1706 era sprangata e i francesi la stavanoabbattendo a colpi d’ascia, c’è la nicchiaper i due barilotti di polvere da sparo, 150libbre in tutto, circa 55 chili, c’è la facilitàdi immaginare la scena: qui sotto nonmanca davvero la suggestione.

E ci sono i segni indelebili della morte,che quando passa rimane: il soffitto acratere, i muri allisciati dall’esplosione,una coroncina di gigli bianchi per ricor-dare i soldati del Re Sole che saltarono inaria quando l’eroe, il povero cristo acce-se una miccia troppo corta, facendo ma-ledettamente in fretta perché il suo ami-co, il suo compagno minatore Cordin(solo il soprannome resta, cordino, spa-go, ma lui si salvò) non ne era capace,enorme il terrore che fa tremare la mano,e allora Pietro Micca afferra il buttafuo-co, lo strumento che innesca la primascintilla, dicendo forte in dialetto pie-montese: «Ti it ses pì long che ha giornàsensa pan. Scapa», tu sei più lungo di unagiornata senza pane, scappa. Cordinoinfila le scale e sprofonda verso la salvez-za, Passapertut prova a fare lo stesso, ifrancesi sfondano e non si accorgononeppure di essere morti. Pietro Micca ègià nella galleria che potrebbe salvargli lapelle, l’ha risparmiato lo scoppio ma nonl’onda d’urto che lo farà volare per unaquarantina di metri sbattendo contropareti e soffitto. Morirà poco dopo, vitti-ma del coraggio e dell’errore, della ne-cessità e della fretta. Anche a sua memo-ria hanno messo una corona di fiori, ro-se rosse, il colore dei duchi di Savoia. Ilcorpo verrà gettato in una fossa comune,la guerra non lascia tempo alla sepolturadegli eroi e dei poveracci.

Centodiciassette giorni era duratol’assedio di Torino, aperto il 13 maggio1706 e chiuso il 7 settembre, con la batta-glia finale che darà la libertà ai piemon-tesi e un trono al duca Vittorio Amedeo IIdi Savoia: all’orizzonte, remoto ma nontroppo, il Risorgimento e l’unità d’Italia.I francesi e gli spagnoli volevano pren-dere la città che si era schierata contro diloro nella lotta di successione in Spagna,il «bel giardino» ai piedi dei monti nelquale Luigi XIV era sicuro di farla da pa-drone. A quel tempo Torino aveva appe-na 42mila abitanti, era un luogo periferi-co e oscuro con numerosi tratti ancoramedievali, però era tosta, serrata comeun pugno, orgogliosa e tenace, riparatain parte dalla natura (montagne, colline,fiumi) e in parte dalle fortificazioni cheEmanuele Filiberto aveva cominciato aerigere dal 1564. Puntata verso la Franciac’era la “Cittadella”, una specie di ba-stione pentagonale tutto pieno di con-trafforti, murate, trincee e fossi, una stel-la corazzata a protezione della cinta mu-raria che avvolgeva Torino con i suoi di-ciannove bastioni. Per entrare in città e

MAURIZIO CROSETTI

L’ANTICO LABIRINTOQui sopra, un particolare

della camera della mina

numero 20. Nelle pagine,

una serie di immagini

delle gallerie basse

del Bastione Beato Amodeo,

della mezzaluna

di San Lazzaro e del Soccorso

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 6 AGOSTO 2006

MOSTRA E BATTAGLIA IN COSTUME

I trecento anni dall’assedio e dalla battaglia di Torino

(1706-2006) vengono celebrati dallo scorso mese

di giugno fino al prossimo ottobre. Tra le iniziative,

la mostra “Torino 1706: l’alba di un regno” che aprirà

l’8 settembre al Maschio della Cittadella e al Museo

Pietro Micca di Torino. Il 10 settembre avrà luogo

la rievocazione in costume della battaglia,

alla Cascina Continassa

Il gesto di Pietro Micca suscita da subito curiosità e in-teresse. L’azione si presta alla divulgazione imme-diata perché presenta gli ingredienti di una storia dal

forte richiamo popolare: l’oscurità misteriosa delle gal-lerie, l’azione temeraria del nemico, il sacrificio di unumile minatore che salva la città, disegnano i contorni diuna vicenda insieme semplice ed eroica, che si carica disuggestione con la spettacolarità scenografica dell’epi-logo, tra mine, polveri, micce ed esplosioni. Ricordatonelle cronache coeve del conte Solaro e del sacerdotedon Francesco Tarizzo, ripreso da successivi compilato-ri di memorie storiche, il gesto di Pietro Micca attraver-sa il Settecento radicandosi nell’immaginario popolare.

Dopo la parentesi dell’occupazione napoleonica delPiemonte, durante la quale i riferimenti ad azioni anti-francesi sono ovviamente rimossi, il mito del minatorebiellese viene rilanciato con nuovo vigore e nuovi signi-ficati dal re Carlo Alberto. Consapevole della funzioneaggregante che le memorie patrie possono assumere,egli si sforza di legittimare la dinastia sabauda attraver-so un’operazione ambiziosa di recupero del passato,nella quale il ruolo dei sovrani assuma centralità. Inquest’ottica, Pietro Micca viene riproposto non comeesempio di eroismo spontaneo, ma come modello diobbedienza del suddito che sacrifica senza esitare lapropria vita al suo sovrano. Sul mito scende così un’i-poteca fortemente dinastica, che esorcizza ogni rischiodi interpretazione popolare: in questa dimensione, ilminatore biellese viene proposto dalla pittura, dallascultura, dalla poesia, dalla storiografia ufficiale.

Dopo il 1861, realizzata l’unificazione nazionale, lamemoria di Pietro Micca si arricchisce di significati ul-teriori. La frase attribuita a Massimo D’Azeglio, «l’Italiaè fatta, ora bisogna fare gli Italiani», esprime un’esigen-za avvertita tanto tra i moderati quanto tra i conserva-tori e individua l’educazione patriottica dei giovani tragli obiettivi prioritari del nuovo Stato. In sintonia conl’atmosfera culturale dell’Europa di metà Ottocento,dove le «patrie» si liberano e si difendono con la forza, lanozione di patria proposta nell’Italia liberale non èquella di una madre premurosa e comprensiva che ac-coglie nel suo seno tutti gli italiani, ma, all’opposto, èuna parola di guerra e di stato d’assedio, una parola chemobilita, che chiama alle armi e che esige il sacrificio su-premo. In quest’ottica, Pietro Micca rappresenta unsimbolo perfettamente funzionale: l’obbedienza dina-stica dell’età carloalbertina, si trasforma in obbedienza«alla patria e al suo re», in sacrificio affrontato senza esi-tazioni sul campo di battaglia per salvare la propria ter-ra dagli aggressori, in dedizione umile e assoluta di unuomo del popolo che, diventato soldato, consacra sestesso a un ideale superiore. Sfruttando la flessibilità deltermine «patria» (che nell’Ottocento indica di volta involta una città, una regione, uno stato preunitario), l’e-roe sabaudo Pietro Micca si trasforma così in eroe ita-liano, associandosi nell’immaginario collettivo ad unaltro eroe settecentesco reinventato dalla propagandarisorgimentale, l’adolescente genovese Giovan BattistaPerasso “Balilla”.

In questa versione «nazionale», Pietro Micca attraver-sa i decenni. Elementi di incrinatura vi sono all’inizio delNovecento, in occasione del bicentenario dell’assedio diTorino, quando esponenti della sinistra laica e massoni-ca cercano di contrapporre l’originario Pietro Micca po-polano, eroe per scelta, al Pietro Micca soldato, eroe perobbedienza (il comitato per i festeggiamenti giunge a di-vidersi e ad organizzare due diverse celebrazioni, una amaggio e una a settembre): si tratta tuttavia di contrap-posizioni che non mettono in discussione l’immagineufficiale, veicolata dai libri di testo e dalla pubblicisticadi ogni tipo. Come mito dell’obbedienza alla patria, Pie-tro Micca può così transitare nel repertorio retorico del-l’Italia fascista, dove la cultura patriottica dell’età libera-le viene ripresa ed esasperata.

Nella cultura dell’Italia repubblicana, il minatorebiellese ha ovviamente trovato poco spazio. In occasio-ne del trecentesimo anniversario della battaglia di Tori-no, torna ora alla ribalta in un’ottica completamente di-versa: il Pietro Micca storico (vero o presunto) non hapiù nulla da insegnare, ma la creazione e l’evoluzionedel suo mito, l’uso politico che ne è stato fatto, le crisi ele rinascite che ha attraversato, sono elementi di forteinteresse per rileggere il passato e le identità che esso ha,di volta in volta, proposto.

Sabaudo e italianomito per tutte le stagioni

Lo storico: un gesto e tante letture

GIANNI OLIVA

travèt: il che rappresenta, in fondo, il ve-ro eroismo. Anche se risorgimento e fa-scismo lo avrebbero trasformato in iconaretorica, anche se sarebbe diventato per-sino protagonista di fotoromanzi e fu-metti, il vero Pietro Micca si riconosce quisotto, vicino alla pietra che si chiama co-me lui.

Sembra quasi di sentirne i passi, nelbuio e tra le ombre, nelle “filure” d’ariagelata che scendono dai pozzi. Il suo ami-co Cordino che è troppo affannato, luiche prova a tenere la mano ferma ma cal-

cola male la lunghezza della miccia, i col-pi dei francesi contro la porta che sta ce-dendo, i due barili neri dentro la nicchiamessi lì per salvare, messi lì per uccidere.I gradoni della scala sono sbrecciati, nac-quero così come astuta forma difensiva,per far tribolare gli eventuali invasori co-stretti a calarsi impacciati di corazza, mo-schetto e munizioni, ma adesso è il pove-ro Pietro Micca a inciampare nella corsa,altri dieci passi e forse porta a casa la pel-le, altri dieci passi ed eccolo inghiottitodalla caverna e dalla storia.

RITRATTI ARTISTICIA destra: Pietro Micca

(1677-1706) nell’atto

di accendere

la miccia che bloccherà

l’ingresso ai francesi

a Torino durante

la battaglia del 1706

La litografia è tratta

dal dipinto di Andrea

Gastaldi del 1858,

il quadro è di proprietà

della fondazione

Torino musei Gam

Qui sopra: una cartolina

commemorativa che ritrae

Pietro Micca, 1935

In basso, la mappa

di Torino nel 1706

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ve, raccontato da John Fante,e dell’America proibizionistache il crac di Wall Street ha ap-pena ridotto in bancarotta,riempiendo di passeggeri itreni merci che viaggiano ver-so Ovest.

Mentre le miniere di fangoaurifero & speranze chiudo-no i pozzi, le Slot Machine diSin City, la città del peccato,aprono i loro. Diventano, coni tavoli verdi dell’azzardo ap-pena legalizzato, il solo oro aportata di mano: basta unquarto di dollaro e un colpo dileva. Poi un altro, e un altroancora. Facile. O almenosembra. Perché poi il grossodella polpa finisce in tasca aBugsy Siegel, ex contrabban-diere di Lucky Luciano, cheun giorno a metà degli anniTrenta si lascia alle spalle lapioggia e la polizia di New

York, apre il primo casinò dell’età deljazz e dei gangster, il Flamingo Hotel, loriempie di ragazze, allibratori, whiskycon ghiaccio e Slot Machine. Le ruotegirano. Frank Sinatra incanta. Le starscintillano. I clienti pagano. Fino allanotte del 6 giugno 1947 quando il con-

spari. Blaise Pascal, il filosofo,e Rene Lagrange, il matemati-co, formalizzarono quei nu-meri inventando il calcolodelle probabilità sul qualehanno campato, oltre agli in-namorati, gli agronomi, gliastrofisici e le compagnie diassicurazioni sulla vita. Lecarte del poker sono pur sem-pre mappe del tesoro da com-pletare e trincee dalle qualipartire alla ventura. Il blackjack contiene perimetri me-morizzabili dentro ai quali re-sistere o soccombere. I dadihanno sei facce. I cavalli quat-tro zampe. La scommessadue chance. Ma le Slot Machi-ne con venti e più variabili suogni rullo, moltiplicati per ilnumero degli ingranaggi,hanno migliaia di combina-zioni e nessun appiglio. Sonovertigine istantanea e senzariparo. Pura polvere che precipita fer-mandosi forse qui, forse là.

È sulla polvere di molti sogni fa che illoro regno ha cominciato a scintillare.Proprio nel cuore di una città inventatadai cercatori d’oro, Las Vegas, Nevada,lungo i bordi neri del deserto del Moja-

34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 6 AGOSTO 2006

le formeGiochi pericolosi

PINO CORRIAS

TRENTA PEZZI RARI

“Cento anni di slot”,

mostra dedicata alla storia

e all’evoluzione delle slot

machine, è aperta fino

al 30 settembre nella sala

esposizioni del Casinò

di Sanremo. Trenta slot

machine da collezione

ripercorrono l’origine –

nell’ultimo decennio

dell’Ottocento –

e lo sviluppo del gioco

d’azzardo più popolare

del mondo

Facile cascarci dentro. Le SlotMachine stanno sempre al-l’entrata dei casinò e non so-no mai una via d’uscita. I lo-ro colori funzionano comeun miraggio. Ma a differen-

za dei miraggi sono solide, non spari-scono, e contengono l’acqua di tutti itesori. Metà del tesoro sta in fondo agliocchi dei giocatori. Si chiama deside-rio, si chiama azzardo. L’altra metà stain cima ai tre rulli che un giorno di cen-to anni fa, a San Francisco, California, ilmeccanico di automobili Charles Feyinfilò dentro al ferro cromato della suaprima Liberty Bell.

Le liberty bell, campane della libertà,sono il segnale della vincita. Suonano adistesa quando, allineandosi, comin-cia la pioggia metallica che ripaga il gio-catore con il jackpot. In realtà è la mac-china che davanti alla platea degliadepti e ai soft drink delle hostess esul-ta per i propri incassi futuri. Perché iltripudio generale rafforza il fascino deisuoi prossimi inganni. I quali puntanosempre sulla più comune sfortuna diogni giocatore, quella di credersi fortu-nato.

La fortuna ha più o meno l’età del-l’uomo. I dadi hanno cinquemila anni.Le prime ruote numerate duemila. Ladivinità delle religioni monoteiste so-vrintende il destino degli uomini, manon amministra la fortuna. TommasoD’Aquino, il santo, lo deduce rifletten-do sulle partite a dadi tra i guerrieri cro-ciati e quelli musulmani, durante lepause dei massacri in Terra Santa. En-trambi qualche volta vincono. E qual-che volta perdono. Dunque se Dio am-ministrasse il caso, compreso quelloche governa le partite a dadi, nessunavittoria dei musulmani sarebbe am-missibile. Perciò, se Dio ha altro da fa-re, il caso ha «un suo corso naturale».Dunque la stoffa dei giochi è l’imprevi-sto. E chiunque ci punti un po’ di soldilo trasforma in un azzardo.

Le Slot Machine sono la forma più ca-suale e meno calcolabile dell’azzardo.Nessuna aritmetica delle probabilitàpuò intercettare le sue combinazionivincenti. Le ciliegie, i limoni e la scon-fitta rotolano lungo i suoi rulli come fo-glie dentro a un vento perenne. Nonesistono sistemi, previsioni, cabale, in-tuizioni, strategie come negli altri gio-chi che hanno sempre una chiave, oquasi.

I trentasei numeri della roulette, conlo zero che complica gli incroci, hannosolo due colori da scovare e un alfabe-to, non illimitato, di inganni pari e di-

to tocca a Siegel e la sua ruota della for-tuna si inceppa in un agguato. Con dueproiettili, uno per occhio. Addio. Sicontinua.

Perché il banco non chiude mai. Ilbanco vince sempre. Le Slot Machinedipinte a mano, cromate come i sogniin Cadillac, dilagano istantanee come imatrimoni lampo nelle Wedding Cha-pel, lungo lo Strip, il boulevard centra-le che ha luci rosa e filanti come lo zuc-chero delle chewing gum, dove si affac-ciano tutti i cristalli e le fontane che ir-radiano la notte multipiano dei casinò.Il Bellagio e il Cesar Palace. Il GoldenNugget e il Tropicana. Fino all’immen-so Desert Inn dove il multimiliardarioHoward Hughes, proprietario di altriquattro casinò, langue depresso nellasuite dell’ultimo piano. Solo. Ammala-to di tutte le fobie. Rannicchiato dentroa un letto al centro del salone. Per diecianni. Senza mai più tagliarsi le unghie,né farsi toccare. Fino a tempo scaduto.

Nei saloni del casinò il tempo degliuomini e delle donne in carne e ossanon scade mai. Non ci sono orologi dacontrollare. Né finestre da aprire. La lu-ce è bianca. La temperatura costante.La musica dell’orchestra è perpetua,soffice come la moquette. Quello chescivola via dalla clessidra è solo il tem-po dei giocatori e del gioco. Misurabilein fiches di finto avorio, gettoni e verti-gine. «E domani? Domani tutto finirà»,dice il protagonista del Giocatoredi Do-stoevskij.

L’azzardo sta lì, tra il pieno e il nulla.Tra l’adrenalina e la noia. In quella ter-ra senza mai buio sulla quale tutti i gio-catori galleggiano, aspettando il brivi-do dell’ossigeno o il naufragio. La SlotMachine ne produce a milioni di picco-lissimi naufragi. E in questo sta il suo se-greto e la sua grandezza.

La sua grandezza è già nel colpo d’oc-chio dell’entrata. Quella soglia, che peri giocatori significa confine del mondonuovo, e che un americano su quattrovarca almeno una volta nella vita,schiera sempre le Slot come scogliere.Con signorine d’altri tempi aggrappateal loro secchiello di monete. E leve in se-quenza. Alle quali appendere il biancodella solitudine, il brusio senza parole,il cuore. In attesa che una doppia cilie-gia vinca sui ricordi.

L’ipnosi di quella schiuma scivolasull’Atlantico. Riempie i casinò d’Euro-pa — Baden Baden, Montecarlo, San-remo — ingioiellati dai tempi della Bel-la Epoque, verdi di panno per lo Che-min de Fer, lisci come la prosa di Tom-maso Landolfi e Antonio Delfini a rac-contarne il vuoto e i patrimoni dissipa-ti in una sola metamorfosi notturna.

Slot, l’azzardo middle class

HEAD HORSE 1938A ROULETTE 1901 LA COMETE 1906

Stanno come scogliere all’ingresso delle case da gioco,i loro colori e le loro cromature sono una fabbrica di miraggiOra una mostra al Casinò di Sanremo racconta la loro storia,dalla fine dell’Ottocento ai nostri giorni, dalla Las Vegasdei cercatori d’oro ai jackpot elettronici dell’odierna Macao

ALL STAR COMETE BELL 1943

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Così le Slot Machine sbarcano, a iniziosecolo, tra i nobili velluti della vecchiaEuropa e i suoi saloni bisbiglianti. Co-prono il rumore dei calici con le libertybell da classe media americana in festa.Diventano il nuovo divertimento abuon mercato che non ha bisogno di ri-ti e di troppa educazione. La versionefordista del gioco d’azzardo, ripetitivoe veloce quanto le linee di montaggiodelle automobili appena parcheggiatedove un tempo sostavano le carrozze acavallo.

Da allora le ruote delle Slot hannomacinato il mondo. Globalizzate cometutto il resto — le migrazioni e l’imma-ginario, il lavoro e il tempo libero — neinuovi casinò dell’ex Est e oltre, NovaGorica, il Montenegro, fino alla Cina,riassemblate in versione neon e magarianche on line. Tasselli del Gioco Perpe-tuo. Che prevede tessere fedeltà e pastigratuiti e abbonamenti a ragazze intransito e promesse di jackpot miliona-ri, mimando avventure d’elite, anche sequasi sempre in versione low cost.

Il Gioco Perpetuo in Italia brucia30 milioni di euro l’anno. Senza trop-pi drammi. Salvo che per 700mila ita-liani, dicono i dati, per i quali la giostradiventa una trappola e una patologia:il gioco che non fa più dormire e chedissolve famiglie. Che moltiplica i de-

biti e innesca l’incubo degliusurai.

Adesso tocca a Macao rifa-re il miracolo che fu di Las Ve-gas. Replicare le sue Slot Ma-chine, i suoi peccati, la suanotte perpetua. Governare18 milioni di giocatori l’anno.E mettere in fila le limousinedei milionari cinesi sulla per-fetta copia dello Strip lungo ilquale lampeggiano i neon deiventuno casinò nuovi di zec-ca. Moltiplicare il turismo.Arricchire le casse di Pechi-no. E quelle di Stanley Ho, il recinese dell’azzardo, che pro-getta due grattacieli l’anno. Odell’americano Steve Wynn,che è pronto a acquistarebuilding e licenze per mezzomiliardo di dollari.

Le Slot Machine ora indos-sano microchip. Ruotano inelettronica. Perfezionanooblii. Ma sempre danzandosul solito trucco. Infrangibi-le. Come i sogni dei cercatorid’oro senza miniere. Come il

rimpianto dei vecchi giocatori alla pe-nultima moneta. Serve solo un colpo dileva. Poi un altro e un altro ancora.Cascandoci dentro. Facile.

ROL A TOPIn uso negli Stati Uniti

dal 1936, questa slot,

deve il proprio nome

alla presenza

del dispositivo

rotante che mostra

le ultime nove monete

giocate a garanzia

della sicurezza

del gioco

In basso a destra,

un particolare

della slot “Sun Chief”

del 1949

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 6 AGOSTO 2006

WAR EAGLE 1931

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i luoghiMisteri d’Italia

Alla periferia di Bologna, nel vecchio deposito tranviario, prendeforma il museo che ricorderà la tragedia del 27 giugno 1980In realtà gli uomini che adagiano con cura i brandelli del Dc9 Itaviae li ricompongono come pezzi di un collage lavorano al più anticodei rituali della nostra era: una “deposizione”. L’aereo acquista quiqualcosa di definitivamente umano, come se fosse esso stesso un corpo

36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 6 AGOSTO 2006

Ustica, così cresce il

BOLOGNA

Arrivo all’appuntamento nel quartiereNavile, via di Saliceto 1. C’è una pale-stra, c’è una mensa, c’è la sede del quar-tiere. A fianco di quest’ultima entriamo,

Daria Bonfietti e io, seguendo un’antica rotaia di tramrimasta sul selciato, nello spazio di quello che era unavolta il deposito tranviario di Bologna. Sotto il sole dimezzogiorno, guidati dai rumori, ci avviciniamo alluogo deputato alla memoria della tragedia di Ustica.Un pezzo della carlinga dell’aereo Dc9 dell’Itavia, ina-bissatosi il 27 giugno del 1980 in seguito a «un atto diguerra», è ora davanti a miei occhi, su un camion a ri-morchio: una struttura circolare sventrata, lembi dimetallo pazientemente ricomposti e adagiati, comefiori rampicanti sulla rete circolare di un gazebo. Perquanto credessi di essere preparato, quello che vedoè bruscamente troppo forte. I vigili del fuoco lavoranoalacremente nelle loro divise rosse. Oltre al camion,una gru, un caterpillar, rumori di motori.

Saluto Andrea Benetti, il compagno di Daria, e ciaggiriamo insieme nella luce che stordisce. Guardia-mo come bambini i pezzi di aereo della tragedia e i vi-gili del fuoco che li spostano con la gru, metalli con-torti e sformati; anche questa nostra contraddizione«è un atto d’amore», dice Andrea notando il mio im-barazzo. Osservo la fiancata di una fusoliera, il rossoe il bianco dell’Itavia, e solo i buchi dove prima c’era-no gli oblò suggeriscono la forma originaria, l’uso ori-ginario. Qual è “l’uso” di un relitto aereo, mi chiedo.Forse lo stesso di un corpo morto. E mi accorgo chenella loro concentrazione assorta i vigili del fuoco la-vorano al più antico dei rituali della nostra era: la de-posizione. Adagiare con cura pezzi dell’aereo di Usti-ca, amorevolmente ricomposti pezzo dopo pezzo co-me un collage, è pietà in atto. (E noi chi siamo? Testi-moni, visitatori del cantiere della memoria).

Il sole è cocente, e resto attonito a guardare nel fra-gore le vestigia dai colori sbiaditi, sotto un cielo cosìazzurro che ricorda lo sconcertante dialogo nel filmShoah di Lanzmann («C’era un cielo così azzurro an-che nel ‘43-’44, ad Auschwitz?» «Oh sì, anche più az-zurro, signore»). Andrea e Daria mi raccontano laprocessione, il convoglio dei pezzi del relitto da Pra-tica di Mare a Bologna, fino al deposito dei vigili delfuoco a una dozzina di chilometri da qui. Lo hannofatto viaggiare lungo l’autostrada secondo la logicadella forma ricomposta, la “testa” davanti, la cabinadi pilotaggio, poi i pezzi centrali e la coda. Hanno por-tato finora i pezzi più riconoscibili, in questa che saràla sede del Museo della memoria di Ustica, vecchiodeposito degli omnibus a cavallo, come ricordano learcate della antica scuderia. Mancano parte del tettoe delle mura, e in questo nostro entrare e uscire restaaperto e sospeso, in noi primi visitatori, il pathos del-la memoria.

Ci sediamo all’ombra, su un gradino. Daria Bon-fietti è la fondatrice e l’anima dell’associazione dei fa-miliari delle vittime di Ustica. Già senatrice della Re-pubblica, ha spinto con tenacia e pazienza la batta-glia per la verità su questa strage denegata, fino alla(parziale) vittoria della sentenza del giudice RosarioPriore. Lungo il cammino ha raccolto solidarietà e so-stegni importanti, e al comitato fondato nel 1990 ade-rirono rappresentanti insigni della società civile e delmondo politico-istituzionale. Lei e Andrea Benettiparlano quasi all’unisono. «Abbia-mo cominciato questa battaglia co-me cittadini qualunque, contro leomertà di generali e apparati milita-ri che si trinceravano dietro una ba-nalizzazione sistematica delle cose,che dicevano di non sapere chi fossepresente al lavoro, o che leggevanoTopolino. Preferivano passare peridioti che assumersi delle responsa-bilità. L’informazione, i giornali, cihanno molto aiutato, tanti hanno ca-pito e condiviso il bisogno di verità.Altri si sono inseriti nella vicenda so-lo per dire cose sensazionali, indi-pendentemente dalla verità. Oggisentiamo il bisogno di raccontare piccole storie, coseche “non fanno notizia” secondo la logica drogatadell’informazione, che implicano quindi un mododiverso di raccontare. Il museo della memoria nascedal bisogno di riprendere l’intera vicenda e farne uninsieme di tante cose normali, un luogo dove si in-crociano le vite, piccoli episodi e brandelli di storie,allo stesso modo paziente in cui è stato ricostruitol’aereo ed è stata condotta l’inchiesta. Non ci siamomai scagliati contro qualcuno, abbiamo capito chearrivare alla verità era un processo lungo e comples-so, e solo mettendo insieme tassello dopo tassello,pezzettino dopo pezzettino di verità, si poteva rico-struire il puzzle, fino alla verità non scontata cui è per-venuto il giudice Priore: un giudice normale che si ècomportato in modo normale, contro la totale noncollaborazione dei vari ufficiali, avieri e addetti radardell’aeronautica».

«Ora è la politica — continua Daria — che si deve at-

tivare, come per il caso Calipari, e chiedere conto del-la verità anche agli altri Paesi coinvolti: Francia, In-ghilterra, America, forse anche Libia, i cui aerei eranopresenti nei nostri cieli. Quello di Ustica non è unevento di cui non si sa cosa sia successo. La sentenzaordinanza consegnata nel settembre 1999 dal giudi-ce Priore (dopo 19 anni) così conclude: “L’incidenteè occorso a seguito di azione militare di intercetta-mento, azione di guerra di fatto e non dichiarata”. Al-l’interno di questo scenario è avvenuto l’abbatti-mento del Dc9. Il museo della memoria di Ustica nonè il simbolo di una pacificazione avvenuta, ma di una

battaglia per raggiungere la verità, quella di un aereocivile caduto in tempo di pace. Non è più tempo del-l’associazione dei parenti delle vittime, ma del Paese,del governo, di tutti gli Italiani uniti nella volontà disapere la verità su altri civili italiani morti senza unperché».

Ci alziamo. Su dei cavalletti, appena riconoscibile,è appoggiata un’ala del Dc9: una striscia di metallogrigia e liscia, appena ondulata, come il frammentodelle spoglie di un enorme insetto morto e abbando-nato. È il pezzo più intero. Per terra, a fianco, un altropezzo d’ala su cui si leggono le lettere VIA, rosso su

BEPPE SEBASTE

È il simbolo per moltidel bisogno

di capire e ricordare

PRATICA DI MAREI resti del Dc9, oltre duemila pezzi

recuperati a 3500 metri di profondità,

erano stati ricomposti a Pratica di Mare

IL VIAGGIO

CONVOGLIO SPECIALEIl 25 giugno scorso un convoglio

di 15 automezzi e 60 uomini ha portato

tutto, in undici ore, da Roma a Bologna

DESTINAZIONE BOLOGNAIl relitto è stato portato in una caserma

dei vigili del fuoco per essere poi

trasferito al Museo della memoriaRep

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 6 AGOSTO 2006

cantiere della memoriabianco, a ricordare il nome Itavia. Le ali sono salme.Su altri cavalletti sono appesi pezzi di ferro semi-ar-rugginito, vagamente circolari: i due motori dell’ae-reo. Lo sforzo di riconoscere, di vedere. Senza essereun addetto ai lavori, in questo luogo della memoria inallestimento ci si sente ignoranti, quasi indiscreti.Guardo l’altro pezzo di carlinga già deposto provvi-soriamente, il rosso lungo i buchi degli oblò, il biancointorno. Lo sventramento, l’interno che deborda al-l’esterno, a mostrare tutto il vuoto, l’assenza, il nulla.La fragilità di ciò che resta, di ciò che resiste, la nuditàdella struttura, come una devastazione cristallizzata.

Pezzi di aereo come farfalle infilzate, la nudità espo-sta. Ecco, l’aereo acquista qui qualcosa di definitiva-mente umano: quelli che sto contemplando sono gli“amabili resti” di un corpo. Ossa, scheletri. Alcunepagine memorabili di Daniele Del Giudice su Ustica(nel suo libro del ‘94, Staccando l’ombra da terra),elencavano i frammenti di metallo, la minuta tecno-logia di un aeroplano incollato pezzo dopo pezzo sul-la rete che dà la forma della fusoliera. Ogni pezzo, quie ora, superato il primo impatto emotivo, il pugno alcuore, è carico di una dignità immensa. All’ombradella tettoia, tra il suono delle cicale (i vigili del fuoco

hanno spento i motori, è la pausa del pranzo), nellaluce tersa dell’estate, nel silenzio rotto solo dalla mo-notonia delle cicale, mi aggiro e guardo, tra un fuori eun dentro senza soluzione di continuità, il museo del-la memoria a cielo aperto: non ancora salvato in me-moria, non ancora quindi dimenticato, normalizza-to, ma vivo e pulsante. Ogni cosa emana un fortissi-mo shining, come lo splendore, si dice, delle stellespente.

Che la memoria, anche quella più dolorosa, possaessere esperienza estetica, contro l’anestesia che ca-ratterizza la gran parte della nostra vita, è ciò che daanni Christian Boltanski, grande artista della com-memorazione, propone nelle sue esposizioni di voltiingranditi di morti, di oggetti, di abiti dimessi, che co-me fantasmi raccontano la propria individualità ne-gata e perduta. Non è un caso che con Daria Bonfiet-ti e Andrea Benetti ci siamo incontrati la prima voltaa una mostra di Boltanski in corso a Roma. Gli hannochiesto di collaborare al ricordo di Ustica.

«Quando l’artista Christian Boltanski ha sentitoquesta parola — museo della memoria — si è spa-ventato, lui non ama i musei. Non sappiamo comesarà chiamato, ma è la metafora di tutta la vicenda: ilrelitto ripescato, la verità che riemerge, ciò che scom-pare e poi torna alla luce. A noi — dice Daria — non èparso vero che un artista rappresentasse così la me-moria, e abbiamo avuto voglia di contattarlo e di coin-volgerlo, anche se all’idea di questo museo lavoriamoda anni. Dal punto di vista delle perizie, giudiziario,quel relitto non parla, o non parla più — anche se puòescludere ad esempio di avere avuto una bomba abordo o un “cedimento strutturale”. Ma adesso il re-litto parla perché è carico di simboli e di storie: rac-conta la vita e la morte delle persone, una verità cheva a fondo e riemerge, la fatica del ripescaggio, l’im-menso lavoro per metterlo insieme, meccanico e in-tellettuale, e quello altrettanto paziente dell’indagi-ne e del processo. È un simbolo che moltiplica i suoisignificati, e vorremmo che moltiplicasse le sensa-zioni nella gente. Quando è nata l’idea, col secondoripescaggio del relitto, e poi col vederlo ricostruitonell’hangar di Pratica di Mare, non potevamo pensa-re che quei pezzi di aereo che hanno visto gli occhi deinostri cari prima di morire sarebbero finiti in una di-scarica. Non potevamo che portarlo in un luogo co-struito appositamente per mantenerlo. L’ultima do-menica di giugno, a Bologna, molti cittadini lo aspet-tavano emozionati. È un simbolo che vale per molti,di un bisogno di memoria. Il sindaco lo sta vivendocome noi, un evento importante da realizzare insie-me alla città, che sarà inaugurato nel prossimo anni-versario, il ventisettesimo, il 27 giugno 2007. Ricordodella ricerca di giustizia, del bisogno di trasparenza edi verità, e anche di un problema di democrazia: chei cittadini non siano considerati sudditi».

Guardo da vicino i motori, le cinghie di trasmissio-ne, le rotelle, gli ingranaggi, le ventole accostate l’unaall’altra, grandi e spente, come in una didascalia mec-canica. Coll’emozione e il timore di chi si avvicinatroppo a qualcosa che va preservato, da un’estremitàaperta guardo un altro pezzo di aereo. In fondo si in-travede la forma della toilette. Guardo l’interno de-turpato, lo spazio vuoto che fu abitato dalla vita e dal-la morte. Vuoto? C’è il vuoto, l’assenza, intorno a cuila struttura, fragile come nuvola, forma tenuta insie-me dal desiderio ostinato di una forma, racchiude lapreziosa pienezza di questo vuoto circolare. C’è qual-cosa nella forma di una fusoliera che invita alla con-

templazione. E poi ancora un altropezzo di aereo deposto, nella partepiù coperta dell’area: la punta arro-tondata fa intuire la cabina di pilo-taggio. Visto da fuori, questo pezzopiù ancora degli altri sembra un col-lage fatto di tanti frammenti di cartastrappata, rossa e bianca, come iquadri-collage di Mimmo Rotella. Làdentro, come negli altri pezzi di fu-soliera, lo sguardo passa, attraversada parte a parte. Lo sguardo, comel’aria, percorre i resti e li trafigge. Lecicale insistono nel silenzio azzurro.

Difficile è uscire fuori, trovarsi nel-le strade del quartiere, un giorno d’e-

state a ora di pranzo. Do un ultimo sguardo al cantie-re, ai camion rossi e alle gru. Il capannone manterràla struttura originaria ottocentesca, con le vecchieporte e le arcate, tutto il resto di vetro, grazie al lavorodegli architetti di Bologna Letizia e Gianfranco Maz-zucato, che hanno preso a cuore il progetto. Ma comesembra effimero e polveroso il resto della città, cometutto appare fragile e provvisorio uscendo da quelcantiere, allontanandosi dall’aereo, dalla deposizio-ne e ostensione di quel corpo, di quella pietà. Nel cor-tile esterno appoggio lo sguardo su due lapidi com-memorative dei dipendenti dell’azienda di trasportideceduti per cause belliche. Leggo i nomi dei tranvie-ri caduti nelle guerre del Novecento. I nomi, come ivolti, danno il senso di una fratellanza universale, or-dinaria. I volti e i nomi dei morti trovano requie sehanno una storia in cui credere, almeno per i vivi. I no-mi e i volti dei caduti di Ustica, abbattuti in tempo dipace, sono in cerca dell’una e dell’altra.

IL PROGETTO

Il Museo della memoria di Ustica, ospitato nel vecchio

deposito tranviario di Bologna, al quartiere Navile,

raccoglierà, oltre al relitto del Dc9 Itavia ripescato

dai fondali del Tirreno e ai ricordi delle vittime, tutti gli atti

giudiziari, processi e sentenze, sul mistero di quella

tragedia, e tutte le opere d’arte, di musica, cinema

e teatro che Ustica ha ispirato. Per l’inaugurazione

si punta sulla data del prossimo anniversario,

il ventisettesimo: il 27 giugno del 2007

DEPOSITO DELLA ZUCCAL’edificio destinato ad accogliere

il museo è un vecchio deposito

tranviario, il Deposito della Zucca

IL MUSEO

CIELO APERTOI pezzi del relitto più ingombranti

vengono calati nel deposito attraverso

il tetto, che sarà poi ricostruito

STRUTTURA OTTOCENTESCAI portali e le arcate della struttura

ottocentesca del deposito saranno

integrati con pareti di vetro

I morti trovano requiese hannouna storia cui credere

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PECHINO

Qual è il vero nome di Dio in cinese? La domandaè insidiosa. La Cina è la più antica civiltà delmondo eppure non è mai stata conquistata dalmonoteismo. La fede dei cinesi è stata contesa

per millenni dalla filosofia laica e terrena del confucianesi-mo (che concepisce solo un “mandato celeste” come se-gnale di legittimità dell’imperatore), dal buddismo di im-portazione indiana e dal taoismo, due religioni dove l’ideadi divinità è immanente, si confonde con il tutto e con il nul-la, pervade la natura e tutti gli esseri. Se nella lingua manda-rina esistono troppi nomi per evocare la divinità ma non c’èun termine davvero equivalente al nostro Dio è perché nonesiste lo stesso concetto.

È il dilemma che nel 1607 viene sciolto dal gesuita italia-no Matteo Ricci: dopo aver scartato altri possibili nomi il Diocristiano per i cinesi si chiamerà Tian zhu, “Signore del Cie-lo”. A chiarire chi sia questo essere supremo è consacratal’immane fatica linguistica, filosofica e politica che Ricciporta a compimento in quell’anno. È il catechismo cattoli-co spiegato all’Impero di Mezzo: non è un testo tradotto,bensì è inventato appositamente per i lettori cinesi, è riela-borato usando valori e concetti locali, nel disperato tentati-vo di agevolare una evangelizzazione che fino a quel mo-mento era stata un fiasco. Quattrocento anni dopo, solo oraquesto catechismo cinese è tradotto in italiano (Matteo Ric-ci, Il vero significato del Signore del Cielo, Urbaniana Uni-versity Press, Città del Vaticano). Diventa accessibile final-mente un documento prezioso per decifrare i difficili rap-porti fra Oriente e Occidente, l’enorme distanza fra i duemondi, l’impermeabilità tra i linguaggi e le culture.

Personaggio unico nella storia dei rapporti fra l’Europa ela Cina, Matteo Ricci èl’anti-Marco Polo, in sen-so letterale. Il mercanteveneziano alla fine delDuecento aveva raccon-tato il mitico Catai del Ku-blai Khan agli increduli esbalorditi lettori europei;il maceratese Ricci inveceaffronta tre secoli dopo lasfida inversa, tenta di ac-creditare l’Occidente cri-stiano come una civiltàdegna di rispetto da partedi una Cina orgogliosadella propria superiorità.A differenza di Marco Po-lo, che ha conosciuto solola dinastia mongola e nonha mai imparato il cinese,il dotto sacerdote gesuitasi immerge nello studiodella lingua e dei costumidegli Han, l’etnìa mag-gioritaria del paese. E adifferenza dei francesca-ni e domenicani che lohanno preceduto, Ricci èil meno eurocentrico e“colonialista” di tutti imissionari cattolici. Sicambia il nome e diventaLi Madou, più tardi i cine-si lo definiranno Xitai, il maestro dell’Occidente.

Sbarcato nel Sud della Cina quando era trentunenne, nel1583, 24 anni dopo Ricci ha assimilato così bene la civiltàorientale che compie una scelta strategica: dichiara guerra albuddismo e al taoismo, che gli sembrano i due concorrentipiù temibili del cristianesimo, e tenta invece di trovare unterreno d’intesa con i valori del confucianesimo. È un’op-zione in parte dettata dalla certezza che l’etica confuciana hamolti punti in comune con quella cristiana. In parte obbedi-sce a un disegno politico. Il buddismo è una religione diffu-sa nel popolo, i suoi monaci non godono di alcun potere nédi prestigio sociale. Invece il confucianesimo è l’ideologiadella élite, degli intellettuali, dei mandarini. Far breccia tra iconfuciani è la premessa per sperare di convertire la classedominante e un giorno magari lo stesso imperatore.

Il catechismo del Ricci perciò è costruito come un lungodialogo tra due personaggi: uno è un immaginario saggioconfuciano, l’altro è un intellettuale cattolico che natural-mente rappresenta lo stesso padre gesuita. Il confuciano in-terroga, esprime dubbi, perplessità, espone ciò che gli sem-bra contraddittorio o incomprensibile nella dottrina dellaChiesa. Ricci gli risponde pazientemente, dando sfoggio ditutta la sua leggendaria erudizione e di una magistrale abi-lità retorica. Fin dalle prime pagine l’autore sfrutta il rispet-to confuciano per le gerarchie e per l’ordine imperiale, e lo“estende” a Dio. «Ogni stato o paese — scrive il gesuita — hail suo signore; è dunque possibile che solo l’universo non ab-bia signore?». Sapendo che la Cina è uscita da periodi diguerre tra dinastie per emergere come una grande potenzaquando è stata unificata sotto un solo imperatore, Ricci fa le-va sull’aspirazione all’ordine sociale per proiettarla verso ilmonoteismo: «Nei tempi antichi quando un grande nume-ro di eroi si combattevano in un’era di anarchia, e quandoera ancora incerto chi sarebbe dovuto essere il giusto re-gnante, ogni uomo giusto esaminava attentamente chiavrebbe potuto essere il signore legittimo, e moriva per lui».

Non solo il gesuita dà prova di padroneggiare perfetta-mente la lingua, la cultura, i valori del suo interlocutore. So-prattutto, pur di fare proselitismo egli opera uno strappocruciale rispetto ai missionari che lo avevano preceduto.Decide di accettare il culto degli antenati, la più antica dellecredenze cinesi, che gli emissari di Roma fino a quel mo-mento avevano condannato come un rito pagano. Ricci nel-la sua flessibilità arriva a utilizzare il culto degli avi per di-mostrare che il confucianesimo è compatibile con la fedenell’immortalità dell’anima: «Secondo gli antichi riti cinesi— scrive nel catechismo — i figli rispettosi e i nipoti degnidevono tenere i templi degli antenati in buone condizioniper conquistare l’approvazione dei genitori già dipartitisi daquesto mondo. Se la carne e lo spirito di questi genitori si so-

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FEDERICO RAMPINI

no dissolti, non sono in grado di dare ascolto alle nostre ri-chieste. Ovvio che il servire i morti come se fossero ancoravivi — riti importanti compiuti da tutti, dal sovrano della na-zione in giù — sarebbe niente più che un gioco per bambi-ni». Il razionalismo e il senso pratico confuciano servono algesuita per ridicolizzare la visione buddista della reincarna-zione: «Chi può dire se la donna che si prende in moglie nonsia la reincarnazione della propria madre? Chi può dire se iservi che si usano non siano la reincarnazione dei propri so-vrani? Non è introdurre gran confusione nelle regole che go-vernano le relazioni umane?».

Il letterato confuciano di questi dialoghi, essendo un in-terlocutore di comodo partorito dalla fantasia del Ricci, è so-litamente arrendevole di fronte alle tesi cristiane. Capita chequalche volta muova delle obiezioni forti. C’è un passaggioche sembra anticipare la contesa sempre attuale tra teorieevoluzioniste e creazioniste. Il letterato cinese oppone allaGenesi la sua visione pragmatica: «Però, possiamo vedereche l’uomo nasce dall’uomo, l’animale dall’animale, e chetutte le cose si riproducono in questo modo. Così, la nascitadelle cose dalle cose sembra non avere nulla a che fare con ilSignore del Cielo».

La più poderosa controffensiva lanciata dal confucianoimmaginario riguarda il celibato dei preti: «Ma cosa c’è die-tro l’idea di una castità che duri per tutta la vita e di una re-gola che proibisca il matrimonio? Dovrebbe essere difficileastenersi completamente da ciò che è naturale per le crea-ture viventi. L’amore per la vita è il fondamento della natu-ra del Sovrano dall’Alto. Posso eliminare ciò che mi è statotramandato dai miei antenati per centinaia e migliaia di ge-nerazioni? Ci sono cose che segnano un uomo come non ri-spettoso della pietà filiale, e la maggiore di queste è di nonavere progenie». L’obiezione è così efficace che Ricci sem-

bra quasi in difficoltà. Sceglie una risposta non del tutto per-tinente, ma in compenso sorprendente per la sua moder-nità malthusiana, e quasi profetica visto il futuro sviluppodemografico della Cina. Il gesuita giustifica il celibato dei sa-cerdoti come una forma di controllo delle nascite: «I tempisono cambiati. Nei tempi antichi la popolazione eraesigua ed era giusto per il genere umanoproliferare; ora che gli uomi-ni sono diventati così nume-rosi, invece, dovrebbero tem-poraneamente rallentare iltasso di nascite».

Il dialogo immaginario tra ilfilosofo cinese e il letterato oc-cidentale naturalmente ha unlieto fine: il confuciano, senzarinnegare se stesso, si arrende al-la verità del cristianesimo e siconverte nelle ultime pagine dellibro, dopo 592 scambi di argo-mentazioni. La storia reale fu bendiversa. Il celibato dei preti conti-nuò ad essere una incongruenzainaccettabile per i cinesi, allevatinella venerazione dell’istituto fa-miliare. Poi il gesto fatale per accen-tuare le incomprensioni venne daRoma. La tolleranza di “Li Madou”per il culto cinese degli antenati con-tinuava ad avere nella Chiesa tenaciavversari che lo bollavano come un’e-resia. Dopo la morte del Ricci (nel1610) in Vaticano la contesa dei ritiscoppiò in modo virulento, anche per-ché nascondeva lotte tra fazioni e rego-lamenti di conti contro il potere dei ge-suiti. Nel 1715 papa Clemente XI vietòdefinitivamente il “rito cinese” e mandòun emissario all’imperatore Kangxi peraffermare l’autorità di Roma sui (pochi)convertiti al cattolicesimo. Fu una pretesainammissibile per la Cina — che non ave-va mai conosciuto il dualismo e la rivalitàfra un’autorità religiosa e il potere politico — che sembra ri-petersi nel braccio di ferro attuale fra il regime comunista diPechino e la Santa Sede sulle nomine dei vescovi. L’ereditàdi tolleranza e di comprensione di Matteo Ricci, il primo si-nologo della storia, venne tradita. Resta questo singolare ca-techismo, a testimoniare l’intelligenza di un uomo checercò di costruire un ponte fra due universi lontanissimi.

RicciMatteo

Il gesuita che inventòil nome di Dio in cinese

Esce in traduzione italiana il “catechismo cinese”, scritto quattrocentoanni fa dal celebre missionario con l’ambizione di convertire al cristianesimol’èlite confuciana dell’Impero di Mezzo. Un testo dottissimo e affascinante

in cui il primo sinologo della storia mostra una tolleranza e una comprensione per le culturee le religioni di quelle terre che la Chiesa ben presto sceglierà di rinnegare

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La Compagnia e l’Orienteun’antica vocazione global

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ROMA

Ènella vicenda dell’apostolo dell’Oriente Francesco Save-rio che si racchiude visivamente lo sfolgorante impatto dellaCompagnia di Gesù sulla scena mondiale fin dai primissimi an-ni della sua fondazione. 1540: la Compagnia fondata da Igna-zio di Loyola viene riconosciuta da papa Paolo III. 1542: Fran-cesco Saverio sbarca nella città indiana e colonia portoghese diGoa, nominato dal pontefice come nunzio presso tutti i «so-vrani e signori delle Isole del Mare Rosso, Persiano e Oceanicoe di tutte le Terre al di qua e al di là del Gange». Francesco evan-gelizza a Goa, quindi nel Malabar, poi nel regno di Travankor,dove in un mese battezza diecimila persone. Da lì si sposta nel-le Molucche, nelle isole Moro, nel Giappone. Alla fine volge lasua attenzione alla Cina. Ma muore nel 1552 sull’isola di Shang-chuan, stroncato da una polmonite, al largo delle coste cinesimeridionali. Matteo Ricci ne raccoglierà l’eredità.

Oggi in Cina la presenza dei Gesuiti è discreta ed efficiente. Imembri della Compagnia sono attivi nelle scuole di Macao e

Hong-Kong, sono cappellani degli studenti cat-tolici dell’università di Hong-Konge dirigono nella stessa città il centroMatteo Ricci Hall. A Pechino hannofondato un istituto universitario di“Management, Business, Admini-stration”, dando vita anche ad unCentro di studi cinesi per studiosistranieri. Corsi di inglese sono orga-nizzati nella città di Xiamen e allaCompagnia appartiene uno dei vesco-vi più in vista della Cina popolare: ilpresule di Shanghai Aloysius JinLuxian, novantenne. Un’altra ventinadi gesuiti, suoi coetanei, vivono da pri-vati sparsi nell’immenso paese. «Sonoreduci da venti, trent’anni di prigionianei campi di rieducazione», commenta-no sobriamente alla Curia generalizia diRoma. Semi di testimonianza per il futuro.

Questo è un anno particolare per laCompagnia di Gesù. Si celebrano i 450 an-ni della morte di Ignazio di Loyola e i 500 an-ni della nascita di Francesco Saverio. Di si-curo sono nati subito come esemplari dellaprima “globalizzazione” vissuta dall’Europae dalla Chiesa cattolica. Uomini dell’Era del-le Scoperte, che ha portato alla creazione del-l’Occidente euro-americano come lo inten-diamo oggi e che ha dilatato la presenza euro-pea dall’Africa all’Estremo Oriente. E protago-nisti di un altro allargamento dei confini: la ca-duta delle strutture mentali, culturali e teologi-che del Medioevo e l’avanzare del nuovoconfronto tra fede e ragione titpico dell’Età Mo-derna. In questo sono stati modernissimi. Fede-li sempre al Papa, con un’ubbidienza a corpomorto, perinde ac cadaver, ma allenati ad un usosistematico della razionalità, alieni da uno spiri-tualismo e un fideismo disincarnati, perenne-mente impegnati in una dialettica tenace e fatico-sa con la realtà circostante. Animati dalla passio-ne di misurarsi con fenomeni nuovi — si tratti deiriti cinesi mezzo millennio fa o del marxismo nelsecolo scorso — costantemente in bilico tra lacontaminazione con la società e il desiderio di

piegare le novità ad majorem Dei gloriam. In fondo Loyola hacreato il primo partito dell’età moderna. Un’organizzazione ri-gidamente strutturata, culturalmente agguerrita, capace di«usare» tutti gli strumenti della società per raggiungere gliobiettivi programmati: dall’influenza sulle élites e sui ceti diri-genti all’impatto sulle masse attraverso la letteratura, la musi-ca, il teatro, la pittura (si pensi all’attivismo dei gesuiti nelle sta-gioni della Controriforma e del Barocco).

Oggi i Gesuiti sono in stand-by. Poco meno di ventimila, dicui 13.735 sacerdoti (con un calo di 231 rispetto al 2005). E tut-tavia aumentano i candidati di Africa e Asia. Ma più che i nu-meri contano le mazzate che Paolo VI e papa Wojtyla hanno in-flitto loro. Il primo impedì l’equiparazione tra membri sacer-doti e membri laici nel voto speciale di fedeltà al pontefice, il se-condo commissionò l’ordine per impedire che il padre genera-le Arrupe, considerato troppo progressista, preparasse la suasuccessione. L’accusa era di essere troppo «secolarizzati».

Da allora è chiaro: i Gesuiti non devono pensare in politica,in morale, in teologia oltre i limiti indicati dalla gerarchia ec-clesiastica. Così restano in trincea gestendo iniziative di eccel-lenza: dalla Gregoriana di Roma alla Georgetown University diWashington, al Centro Sévres di Parigi, all’Uca nel Salvador, alLoyola College di Madras, alla Sophia University di Tokio. Conriviste di prestigio come Etudes in Francia e Civiltà Cattolica inItalia (oltre alla Radio Vaticana). E con progetti sociali come l’A-frican Jesuite Aids Network, presente in 27 paesi, e il Jesuite Re-fugee Service, attivo dal Darfourt alla Cambogia.

Finché la «nottata» non sarà passata.

MARCO POLITI

PLANISFEROMatteo Ricci con

il mandarino Siu

Sopra, un planisfero

disegnato da Ricci

e una pagina

del suo “Catechismo”

A sinistra, frontespizio

delle opere del gesuita

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Sabatoil dottore mi ha detto di smettere di fumare e di bere e iol’ho fatto. Non mi metterò a parlare dei classici sintomi dell’a-stinenza, ma vorrei sottolineare che la sera, mentre dalla fine-stra osservavo il tramonto pieno di luce e l’avanzare dell’oscu-rità, anche grazie all’assenza di quei modesti stimolanti, av-vertivo la forza dei ricordi primordiali in cui il manifestarsi del-

la notte con le sue stelle e la luna era apocalittico. Ripensai immediata-mente alle ormai dimenticate tombe dei miei tre fratelli sul fianco dellamontagna e al fatto che la morte è una solitudine molto più crudele di qual-siasi altra solitudine che ci può capitare in vita. L’anima, di questo mi so-no convinto, non lascia il corpo, ma indugia con esso seguendo tutte le de-gradanti fasi della decomposizione e dell’indifferenza, al caldo, al freddo,nelle lunghe notti invernali quando nessuno va a portare una corona o unapianta e nessuno dice una preghiera. A questa spiacevole premonizioneseguì l’ansia. Stavamo andando a cena fuori e ho cominciato a pensare chela caldaia sarebbe esplosa durante la nostra assenza bruciando la casa, chela cuoca si sarebbe ubriacata e avrebbe attaccato mia figlia o mia mogliecon il coltello da scalco e che io sarei morto in un incidente sulla super-strada lasciando i nostri figli orfani e confusi, senza aspettative per il futu-ro se non la tristezza. [...] Mi sentivo come se mi stessero calando con del-le funi nell’atmosfera della mia infanzia. Dissi a mia moglie, mentre attra-versava il soggiorno, che avevo smesso di fumare e di bere. Non sembravache le importasse granché. E allora chi mi avrebbe ricompensato per le mieprivazioni? A chi poteva importare che avevo un sapore amaro in bocca ela sensazione che mi si stesse staccando la testa dalle spalle? [...] Quandogiunse l’ora di uscire ero così stordito che chiesi a mia moglie di guidare.Domenica fumai di nascosto sette sigarette in posti diversi e bevvi duemartini nel guardaroba al piano di sotto. Lunedì a colazione il muffin mifissava dal piatto, intendo dire che “ho visto” un volto sulla superficie sca-bra e tostata. L’attimo del riconoscimento è stato fugace ma profondo e misono chiesto chi potesse essere. Un amico, una zia, un marinaio, un mae-stro di sci, un barista, un capotreno? Il sorriso si dissolse nel muffin ma perun secondo fu lì di fronte ai miei occhi — l’essenza di una persona, di unavita, energia pura di cortesia e biasimo — e sono convinto che il muffinavesse dentro di sé uno spirito. Come vi rendete conto, ero nervoso.

Lunedì Justina, l’anziana cugina di mia moglie, venne a trovarla. Justi-na era una persona piuttosto arzilla anche se doveva essere sulla soglia de-gli ottant’anni. Martedì mia moglie organizzò un pranzo in suo onore.L’ultimo ospite se ne andò alle tre e qualche minuto più tardi la cugina Ju-stina, che sedeva sul divano del salotto con un bicchiere di buon brandy inmano, esalò l’ultimo respiro. Mia moglie mi chiamò in ufficio e io le dissiche sarei arrivato subito, e proprio mentre sistemavo le cose sulla scriva-nia si presentò MacPherson, il mio capo.

«Puoi dedicarmi un minuto?», mi chiese. «Ti stavo dando la caccia, t’hocercato ovunque. Pierce è dovuto uscire prima e voglio che sia tu a scrive-re l’ultima pubblicità dell’Elixircol». «Non posso Mac», gli dissi. «Mi ha ap-pena chiamato mia moglie. Sua cugina Justina è morta». «Devi scriverequella pubblicità», disse. Il suo sorriso era satanico: «Pierce è dovuto usci-re prima perché la nonna è caduta da una scala».

Ora, a me non piacciono i racconti sulla vita in ufficio e ritengo che se sidecide di scrivere roba di narrativa si dovrebbe parlare di montagne da sca-lare, di mari in tempesta, ma sarò proprio io, per un momento, a non osser-vare il mio precetto con MacPherson, considerando pure l’aggravio del suo

rifiuto di rispettare e onorare la morte della cara vecchia Justina. MacPher-son era fatto così e quello fu un buon esempio di come mi trattava. Quantoa MacPherson, posso dire che è un uomo alto, di un’eleganza impeccabile,sulla sessantina, cambia la camicia tre volte al giorno, flirta con la segretariaogni pomeriggio tra le due e le due e mezzo e fa sembrare igienica ed ele-gante l’abitudine di masticare senza sosta la gomma [...]. In quel momentoMacPherson si rifiutava di rispettare o addirittura di riconoscere la solenneevidenza della morte nella mia famiglia e se non mi fossi ribellato sarebbestato come se io stesso avessi ignorato cosa fosse successo.

La pubblicità che voleva che scrivessi era per un tonico denominatoElixircol e doveva essere recitata in televisione da un’attrice né giovane nébella ma che dava l’idea d’essere una ragazza facile; in ogni caso era l’a-mante di uno zio dello sponsor. Ti stai facendo vecchio? Scrissi. Ti stai di-samorando della tua immagine allo specchio?Appena svegliato, il tuo vol-to sembra raggrinzito e segnato dagli eccessi dell’alcol e del sesso e il resto deltuo corpo un ammasso rosa-grigiastro ricoperto di chiazze di peluria? Pas-seggiando nel bosco, in autunno, senti che si è creata un’impercettibile di-stanza tra te e l’odore di legna bruciata? Hai cominciato a scrivere il tuo ne-crologio? Hai spesso il fiato corto? Porti la panciera? Il tuo olfatto perde col-pi, il tuo interesse per il giardinaggio sta scemando, hai sempre più pauradelle altitudini, i tuoi istinti sessuali sono famelici e intensi come sempre matua moglie ti guarda sempre più come un estraneo dalle guance incavateche è entrato in camera da letto per sbaglio? Se tutte o solo alcune di questedomande hanno risposta affermativa allora hai bisogno di Elixircol, il ve-ro elisir della giovinezza. La versione piccola ed economica (flacone in pri-mo piano) costa settantacinque dollari e il flacone gigante formato fami-liare ne costa duecentocinquanta. Un bel po’ di soldi, Dio solo lo sa, ma so-no tempi in cui l’inflazione è alle stelle, e poi chi può dare un prezzo alla gio-vinezza? Se i soldi non li hai, fatteli prestare dallo strozzino del quartiere orapina la banca locale. La quotazione è tre a uno: con una pistola ad acquada dieci centesimi e un pezzo di carta puoi farti sganciare diecimila bigliet-toni da un impiegato che se la fa sotto. Può riuscirci chiunque (si alza la mu-sica poi sfuma). Lo mandai a MacPherson tramite Ralphie, il fattorino, etornai a casa con il treno delle 16,16 attraversando un panorama di asso-luta desolazione. [...]

A Proxmire Manor fui l’unico passeggero che scese dall’imprevedibile,

serpeggiante e inutile treno locale che trascinava i fari malconci nella lucedel crepuscolo come un usciere o un guardiano zoppo che fa il giro di ron-da. Andai davanti alla stazione per aspettare mia moglie e godere del pia-cevole senso di crisi di chi è in viaggio. Sopra di me, sulla collina, si trova-vano casa mia e le case dei miei amici, tutte illuminate e odorose di fra-grante legna bruciata come i templi in un boschetto sacro dedicati alla mo-nogamia, all’infanzia incosciente e alla felicità domestica, ma talmente si-mili a un sogno che sentii con grande trasporto la mancanza di visceralità,l’assenza di quel dinamismo intrinseco che ritroviamo in alcuni paesaggieuropei. In poche parole, ero insoddisfatto. [...]

Le guance di mia moglie erano bagnate di lacrime quando la baciai. Eraaddolorata, certo, e davvero molto triste. Era molto affezionata a Justina.Salimmo in macchina e andammo a casa. Justina era ancora seduta sul di-vano. Vorrei risparmiarvi i dettagli spiacevoli e mi limiterò a dire che sia labocca che gli occhi erano spalancati. Andai nel ripostiglio per telefonare aldottor Hunter. Occupato. Mi versai un drink, il primo da domenica, e ac-cesi una sigaretta. Quando richiamai, il dottore mi rispose e io gli raccon-tai l’accaduto. «Mi dispiace molto per quello che è successo, Moses», midisse, «ma non posso venire prima delle sei, e poi io non posso fare gran-ché. Cose simili sono già successe… ti dico tutto quello che so. Vedi, tu vivinella Zona B, due acri di lotti, nessun negozio e via dicendo. Un paio d’an-ni fa uno straniero acquistò la villa del vecchio Plewett e si venne a scopri-re che aveva intenzione di trasformarla in un’agenzia di pompe funebri. Al-l’epoca non avevamo alcun piano di zonizzazione che ci avrebbe protetto,così a mezzanotte il consiglio comunale ne approvò di corsa uno, e quellicalcarono un po’ troppo la mano. Da quel che ho capito non solo non si puòpiù aprire un’agenzia funebre nella Zona B, ma non ci si può nemmeno sep-pellire nulla, insomma non ci si può neanche morire. È chiaro, tutto ciò èassurdo, ma tutti facciamo degli errori, o mi sbaglio? Ci sono due cose chepuoi fare. Mi è già capitato di avere a che fare con una situazione simile. Puoiprendere la signora, caricarla in macchina e portarla fino a Chestnut Street,dove inizia la Zona C. Il confine è proprio dopo il semaforo accanto allascuola. Quando sei arrivato in Zona C è tutto a posto, basta dichiarare cheè deceduta in auto. Questa è la prima possibilità, ma se la trovi disgustosapuoi chiamare il sindaco e chiedere una deroga alle norme sulla zonizza-zione. Io di sicuro non posso compilare un certificato di morte finché si tro-va nel tuo quartiere e di certo nessun impresario di pompe funebri la toc-cherà fino a quando non avrai un certificato di morte».

«Non riesco proprio a capire», dissi e davvero non capivo. Ma d’un trat-to la possibilità che ci fosse un fondo di verità in ciò che aveva appena det-to mi colpì e mi travolse come un’onda, esasperando soprattutto l’indi-gnazione. «Non ho davvero mai sentito tante sciocchezze in vita mia», dis-si. «Vuoi dirmi che io non posso morire in un quartiere e che non posso in-namorarmi in un altro e mangiare…»

«Moses, stammi a sentire. Calmati. Non sto facendo altro che dirti co-me stanno le cose, e poi ho molti pazienti che mi aspettano. Non ho tem-po per ascoltare le tue invettive. Se hai intenzione di spostarla, chiamamiappena l’hai portata al semaforo, altrimenti ti consiglio di contattare il sin-daco o qualcuno del consiglio comunale», e interruppe la conversazione.Mi sentivo offeso ma questo non cambiava il fatto che Justina fosse anco-ra seduta sul divano. Mi versai un altro drink e accesi un’altra sigaretta.

Sembrava che Justina stesse aspettando me e che si stesse trasforman-do da inerte in una persona che sta per chiederti qualcosa. Provai a im-maginarmi mentre la trasportavo fuori, verso la station wagon, e siccomenon riuscii a portare a termine il compito nella mente ero sicuro che non

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la letturaLa morte di Justina

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Lunedì Justina, l’anziana cuginadi mia moglie, venne a trovarla

Alle tre Justina, che sedeva sul divanodel salotto con un buon brandy

in mano, esalò l’ultimo respiro

JOHN CHEEVER

Come smettere di fumare

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ce l’avrei fatta nella realtà. Decisi allora di chiamare il sindaco. Nel nostropaese quella del sindaco è di fatto una carica onoraria e come avrei potu-to immaginare si trovava nel suo studio legale a New York e non sarebbetornato a casa prima delle sette. Potrei coprirla, pensai, sarebbe una cosadecorosa da fare; salii le scale di servizio diretto all’armadio della bian-cheria e presi un lenzuolo. Stava facendo buio quando tornai nel salotto,e non era una penombra clemente. Il crepuscolo sembrava abbattersi di-rettamente sulle mani di Justina e con il buio la donna acquistò forza e im-ponenza. La coprii con il lenzuolo e spensi la lampada dall’altra parte del-la stanza: la rettitudine del luogo con i suoi mobili vecchi, i fiori, i dipinti etutto il resto risultava annichilita dalla sua statura monumentale. Un’ul-teriore preoccupazione erano i bambini, che sarebbero tornati a casa en-tro pochi minuti. La loro conoscenza della morte, a eccezione dei loro so-gni e del loro intuito di cui non so nulla, è pari a zero e quella figura così au-dace nel salotto li avrebbe traumatizzati. Quando li sentii percorrere il via-letto uscii e dissi loro cosa era accaduto e li mandai nelle loro camere. Allesette mi recai a casa del sindaco in auto.

Non era ancora tornato ma sarebbe arrivato entro pochi minuti e mi mi-si a parlare con la moglie che mi offrì da bere. Cominciai a fumare una si-garetta dopo l’altra. Quando il sindaco arrivò andammo in un piccolo stu-dio o biblioteca dove si sedette dietro una scrivania facendomi accomo-dare nella bassa sedia del supplicante. «Ma certo che sono partecipe deltuo dolore, Moses», disse, «è davvero terribile quello che è successo, ma ilproblema è che non possiamo concedere una deroga senza la maggio-ranza del consiglio comunale, e tutti i membri del consiglio ora sono fuo-ri città. Pete è in California e Jack è a Parigi e Larry non tornerà da Stowe pri-ma della fine della settimana».

Gli risposi con tono sarcastico: «Allora immagino che la cugina Justinadovrà graziosamente decomporsi nel mio salotto finché Jack non torna daParigi». «Oh no», disse. «Jack non tornerà da Parigi prima di un mese, macredo che tu possa aspettare che Larry torni da Stowe. Allora avremo lamaggioranza, naturalmente nell’ipotesi che tutti approvino la tua richie-sta». «Per amor di Dio», ringhiai. «Sì, sì», disse, «non è semplice ma dopotutto devi capire che questo è il mondo in cui vivi e di contro non possia-mo vivere in funzione della zonizzazione. Guarda, se la deroga alla zoniz-zazione potesse essere concessa da un solo membro del consiglio io ti da-rei in questo momento il permesso per aprire un saloon nel tuo garage,montare le luci al neon, ingaggiare un’orchestra e cancellare all’istante ladivisione in zone e tutti i valori umani e commerciali per la cui salvaguar-dia abbiamo speso tante energie».

«Ma io non voglio aprire un saloon nel mio garage», urlai. «Non voglioingaggiare un’orchestra. Voglio solo seppellire Justina». «Lo so, Moses, loso», disse. «E lo capisco. Ma il problema è che tutto questo è accaduto nel-la zona sbagliata e se faccio un’eccezione per te dovrò fare un’eccezioneper tutti gli altri e questo tipo di morbilità, quando ti scappa di mano, puòessere davvero deprimente. La gente non vuole vivere in un quartiere do-ve cose del genere accadono di continuo».

«Stammi bene a sentire», dissi, «o mi concedi la deroga ora o vado a ca-sa, scavo una fossa in giardino e seppellisco Justina con le mie mani». «Manon puoi farlo, Moses. Non si può seppellire nulla nella Zona B. Non si puòseppellire neanche un gatto». «Ti sbagli», dissi io. «Posso farlo e lo farò. Nonposso fare il dottore né l’impresario di pompe funebri ma sono in grado discavare una fossa e se non mi concedi la deroga è quello che farò». «Tornaqui, Moses, torna qui», disse. «Per favore, torna qui. Ascoltami, ti conce-derò la deroga se mi prometti che non lo dirai a nessuno. Significa infran-

gere la legge, è un reato ma lo farò se mi prometti che manterrai il segreto».Promisi di mantenere il segreto, lui mi diede i documenti e usai il suo

telefono per sistemare tutto. Justina fu portata via pochi minuti dopo ilmio arrivo a casa ma quella notte feci un sogno stranissimo. Sognai chemi trovavo in un supermercato affollato. Doveva essere notte perché lefinestre erano scure. Il soffitto era ricoperto di luce fluorescente-bril-lante, piacevole ma, considerando i nostri ricordi atavici, rappresenta-va l’anello debole nella catena di luce che ci lega al passato. Si sentiva del-la musica e dovevano esserci almeno un migliaio di clienti che spinge-vano i carrelli tra i lunghi corridoi di viveri e vettovaglie. Mi chiedo, c’è ono qualcosa nella postura che assumiamo quando spingiamo un car-rello che ci rende asessuati? Può essere fatto con signorilità? Sollevo laquestione perché quella sera tutti quegli acquirenti mentre spingevanoil carrello sembravano penitenti e asessuati. C’era gente di tutte le raz-ze, perché questo è il mio amato paese. Italiani, finlandesi, ebrei, neri,persone dello Shropshire, cubani, chiunque avesse seguito la voce dellalibertà, ed erano tutti vestiti con quell’entusiasmo suntuario che i carica-turisti europei immortalano con risentito disgusto. Sì, c’erano nonne coni pantaloncini, donne col sedere grosso in pantaloni di maglia, e gli uomi-ni sembravano essersi vestiti frettolosamente in un edificio in fiamme. Maquesto, ripeto, è il mio paese, e secondo me il caricaturista che denigra l’an-ziana signora in pantaloncini denigra se stesso. Io sono un nativo e indos-savo stivali in pelle di daino, pantaloni di cotone color cachi così aderentiche si distinguevano i miei organi sessuali e la camicia di un pigiama dirayon acetato su cui erano stampate le immagini della Pinta, della Niñaedella Santa Maria a vele spiegate. Era una strana scena, come è strano unsogno dove guardiamo gli oggetti familiari sotto una luce tutt’altro che fa-miliare, ma se guardavo più attentamente vedevo che c’erano alcune co-se fuori posto. Non c’erano etichette. Nulla era identificato o riconoscibi-le. Tutti i barattoli e le scatole erano senza scritte. I contenitori dei surgela-ti erano pieni di pacchetti marrone dalle forme talmente strane che non sicapiva se si trattasse di tacchino surgelato o di un pasto pronto cinese. Tut-ti gli alimenti nel reparto ortaggi e i prodotti da forno erano celati in bustemarrone, e anche i libri in vendita erano senza titolo. Anche se nessun pro-dotto era riconoscibile i miei compagni di sogno — le migliaia di compa-trioti abbigliati in modo bizzarro — valutavano attentamente i misteriosi

involucri, come se la loro fosse una scelta fondamentale. Come ogni so-gnatore ero onnisciente, ero con loro ma ero distaccato e quando per unattimo entrai nella scena notai gli uomini alle casse. Erano dei bruti. Ora,capita di vedere in mezzo alla folla quei volti in cui è conclamata l’ostina-ta resistenza agli appelli dell’amore, della ragione e della decenza, volti co-sì lascivi, abbrutiti e incalliti che si preferisce cambiare direzione. Uominidel genere erano stati disposti a ridosso dell’unica via d’uscita e quando iclienti vi si avvicinavano, i pacchetti acquistati venivano aperti — ancoranon riuscivo a vedere cosa contenessero — ma in ogni caso l’acquirente,alla vista di ciò che aveva comprato, mostrava tutti i sintomi del più profon-do senso di colpa, di quella forza che ci costringe a inginocchiarci. Dopoche la merce era stata aperta fino a farli vergognare, i clienti venivano spin-ti, a volte a calci, verso la porta e dietro quella porta vidi una distesa d’ac-qua scura e sentii lamenti terribili e urla. A gruppi, i clienti aspettavano al-la porta di essere portati via con un mezzo di trasporto che non riuscivo avedere. E mentre osservavo la scena, a migliaia continuavano a spingere icarrelli nel supermercato, facevano scelte oculate e misteriose, venivanoinsultati e portati via. Che significato ha tutto questo?

Seppellimmo Justina il pomeriggio seguente, sotto la pioggia. I mortinon sono, Dio solo lo sa, una minoranza, ma a Proxmire Manor il loro mailodato regno si trova in una zona periferica, come una discarica qualsiasiin cui vengono trasportati furtivamente alla stregua di canaglie e furfanti edove riposano in un’atmosfera di perfetto oblio. La vita di Justina era stataesemplare, ma terminandola era come se avesse disonorato tutti noi. [...]

Dopo la funzione tornai in ufficio. La pubblicità era sulla mia scrivaniae MacPherson ci aveva scritto sopra con una matita grassa: Molto diver-tente, guastafeste buono a nulla. Riscrivila. Ero stanco ma non pentito enon ero in grado di forzare me stesso nel conveniente atteggiamento del-la persona efficiente e obbediente. Ne scrissi un’altra. Non rischiare di per-dere i tuoi cari, scrissi, per colpa dell’eccessiva radioattività. Al ballo, nonstartene impalato per colpa dello stronzio 90 che hai nelle ossa. Non caderevittima del fallout. Quando la puttanella sulla Trentaseiesima ti fa gli oc-chi dolci il tuo corpo s’allontana in una direzione e la tua immaginazionenell’altra? La tua mente la segue fin sopra le scale e assapora, con dettagli ri-voltanti, la sua merce mentre il tuo corpo va da Brooks Brothers o all’ufficiocambi della Chase Manhattan Bank? Non hai fatto caso alla grandezza del-le felci, alla rigogliosità dei prati, al sapore acre dei fagiolini e ai disegni bril-lanti sulle ali delle farfalle appena nate? Negli ultimi venticinque anni nonhai fatto altro che respirare rifiuti radioattivi letali?, solo l’Elixircol può sal-varti. La diedi a Ralphie e aspettai una decina di minuti. Me la restituì, an-cora segni di matita grassa. Scrivila, aveva annotato, o sarà la tua fine.Eromolto stanco. Infilai un altro foglio nella macchina e scrissi: Il Signore è ilmio pastore, non manco di nulla; mi sfama sui pascoli erbosi, e d’ora in poimi condurrà verso le acque del conforto. Il Signore ristora il mio spirito e miguida per il giusto cammino, per amore del suo Nome. Se dovessi imbatter-mi nella valle dell’ombra della morte, non temerei alcun male, perché Tusei con me. La tua verga e il tuo bastone mi danno sicurezza. Imbandisci perme la tavola in presenza di coloro che non vogliono il mio bene; ungi di olioil mio capo, il mio calice trabocca. Gentilezza e misericordia mi accompa-gneranno tutti i giorni della vita e vivrò nella casa del Signore per sempre.Lo diedi a Ralphie e tornai a casa.

John Cheever, The Death of Justina da The Stories of John Cheever,Copyright © John Cheever. All rights reserved.

By arrangement with The Wylie Agency.Traduzione di Leonardo Giovanni Luccone, © Fandango Libri

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 6 AGOSTO 2006

Il racconto pubblicato in queste pagine, ancora inedito in Italia,è di John Cheever, uno dei più grandi scrittori americani del Novecento,ed è tratto dalla miniera di novelle e di romanzi che Fandango Libriha deciso di dare alle stampe a tappe: un’opera omnia che ha vistoi primi titoli nel 2000 e che sarà completata nel 2008

con un cadavere sul sofà

Vedi - disse il mio medico - tu vivinella zona B e in base al regolamento

lì non si può morire. Dunque,o la carichi in auto e la porti finoalla zona C, o chiedi una deroga

MAESTRO DEL RACCONTO

Nato nel 1912 e morto nel 1982, John

Cheever è un classico della narrativa

americana. È autore

di cinque romanzi e sette raccolte

di racconti. In Italia lo scrittore è edito

da Fandango Libri.

La casa editrice

completerà entro il 2008

la pubblicazione

dell’intera opera

cheeveriana. A novembre

la prossima uscita col

romanzo Sembra propriodi stare in paradiso.

Gli altri titoli già pubblicati

da Fandango sono, fra i racconti:

Stories of John Cheever, Il nuotatore,

Ballata, Oh sogni infranti!, Il rumoredella pioggia a Roma. Tra i romanzi:

Falconer, Bullet Park, Gli Wapshot,Lo scandalo Wapshot.Il disegno della pagina è di Gipi

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Guance piene di fiato che si converte in una cascata di note,dita frenetiche che amoreggiano col piano o pizzicanoil contrabbasso, schiene che si arcuano e trasformano il sax

in un prolungamento del respiro. Daniela Zedda ha fotografato e raccoltoin un libro i dettagli della musica più nuda. Quella che non mente mai perchél’artista è solo col suo strumento davanti alla platea

42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 6 AGOSTO 2006

Guance piene d’aria che diventano una sequenza di note squillanti,bacchette che volteggiano in mani frenetiche, dita callose che piz-zicano il contrabbasso, labbra gonfie, tumefatte che spremono l’ot-tone dorato della tromba, il fiato tumultuoso che esce dal corpo e sitrasforma in suono, mani delicate appoggiate sulla tastiera del pia-noforte per cercare l’accordo perfetto. Tutto nel jazz sembra parti-

re da un gesto, il corpo proteso in cerca di equilibrio nell’oceano indistinto dellepossibilità, il diaframma che sussulta, la mente che guida e coordina mille picco-li muscoli di braccia e volti. Se il jazz oggi è uscito gloriosamente dal Novecento,che è il suo secolo di appartenenza, col prestigio dell’onore assoluto, quasi un mar-chio di garanzia in mezzo al regno dell’artificio che è diventato il mondo della mu-sica, lo si deve al suo culto primordiale dell’autenticità. Il jazz non mente, non puòmentire, l’uomo è solo col suo strumento, quello che ha da dire è nudo, scoperto,lo stesso processo creativo, la parte più intima e segreta del pensiero di un artista,è offerto alla vista del pubblico. E tutto questo passa per il gesto, che nel jazz è ri-flesso di un movimento dell’anima.

Quando Miles Davis si ripiegava su sestesso, in posizione quasi fetale, con latromba che implodeva nel suo stomacoriportando in dentro quello che dallabocca usciva, era il suo stesso corpo a far-si gesto, disegnava curve struggenti,esprimeva il suo totale disinteresse al fat-to che qualcuno, là fuori, comprendessequello che stava accadendo. Quellasilhouette ricurva si è impressa come unmarchio indelebile nella memoria deicultori. Charlie Mingus col corpo borbot-tava, avvolgeva il contrabbasso, lo usavacon l’agilità di un chitarrino e con unosguardo imponeva al resto del gruppo lanecessità di un crescendo, una riparten-za o una scintilla di follia. Keith Jarrettquando suona il pianoforte sembra stiafacendo l’amore, o meglio, sembra chestia cercando di far l’amore, primaodiando i tasti, poi carezzandoli, sfioran-doli col petto, rabbioso o seduttivo, car-nale o algido, le sue mani sono fatate, vo-lano leggere come fossero possedute,guidate da un’entità soprannaturale.

Ogni strumento impone un suo campionario di gesti. Sulle chitarre il gioco del-le dita è una sinfonia visiva, precede la musica, l’annuncia e la svela. B. B. King hadita enormi, stira le corde per arrotondare e allungare le note, all’opposto DerekBailey era nervoso, le corde le maltrattava, le trasformava con le mani in una geo-metria di frattali.

Notate i batteristi jazz. Spesso guardano altrove, di lato, lasciano che le mani va-dano per loro conto, veloci, guizzanti, gesti da distratti apprendisti stregoni, a vol-te ruggiscono, come faceva Elvin Jones, le rullate per lui erano un terremoto, una

GINO CASTALDO

La musica con il diavolo in corpo

primo piano

I gesti guizzanti e distratti dei batteristi,le mani di Charlie Parker che sembranosimulare la frenesia del volo,le danze tribali attorno al pianodi Thelonious Monk, la silhouette ricurvadi Miles Davis raggomitolatosulla sua tromba in posizione fetale

VISIONI D’AUTORENella pagina in alto: Dizzie

Gillespie a Cagliari nel 1987

Qui sopra, Richard Galliano

nel 2005, e, Dee Dee

Bridgewater nel 1999

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 6 AGOSTO 2006

valanga, altri soffiano sospiri sabbiosi con le spazzole, ruminano sulle pelli deitamburi come se dovessero conciarle.

Forse tutto è cominciato da un gesto, da una mano che si abbatteva selvaggia-mente su un tamburo nelle adunate di Congo Square, la piazza di New Orleans do-ve si radunavano schiavi ed ex schiavi per suonare la loro voglia di libertà. Poi unacornetta fu alzata verso il cielo, gesto potente e sovversivo, come un incipit, un fiatlux degno di una genesi dei poveri. La tromba fu il primo luccicante strumento aemergere dal brodo primordiale della musica afroamericana di fine Ottocento, ri-cordava le marce, chiamava a raccolta, col tempo si scoprì che poteva capitanarela creazione della musica più originale e innovativa prodotta dal melting pot ame-ricano, la nuova arte, la nuova musica che stava per affascinare il mondo. LouisArmstrong era rotondo come la sua tromba, quando le sue note materializzavanoquella nuova inedita bellezza che sorgeva dalle paludi della Lousiana sorridevacontento e il suo sorriso era contagioso, regalava felicità. Il suo erede, Dizzy Gille-spie, riempiva le guance, pasteggiava note prima ancora di emetterle, ma quellierano i tempi del bebop. Il dopoguerra aveva rotto gli indugi. I nuovi jazzisti eranorapidi, insaziabili, acuti, i loro gesti sembravano scorribande di vertigine, CharlieParker su tutti. Il suo fraseggio simulava il volo, voleva rubarne i segreti, poche no-te folgoranti e poi improvvise inafferrabili sequenze con le mani che diventavanoipercinetiche, quasi invisibili, piccoli rapidi movimenti del capo che sottolinea-vano gli scarti, le improvvise deviazioni, un campionario di movimenti che è di-ventato patrimonio comune di tutti i sassofonisti a venire.

I sassofonisti, leader naturali, prepotenti e imperiosi, non fanno nulla per na-scondere che il sax, come del resto capita a ogni strumento, è in fin dei conti unprolungamento del corpo, l’estensione del gesto fisico, una protesi che trasformain note la musica del respiro. Le ance entrano in simbiosi con la bocca, lingua e lab-bra cercano lo spiraglio perfetto, l’umidità del fiato ammorbidisce la tagliente sot-tigliezza delle linguette. Sonny Rollins che ancora oggi, alla sua veneranda età,manda in estasi gli amanti del jazz, usa il sax tenore come una proboscide, un com-plemento naturale, inscindibile dal suo corpo, le note escono veloci, saltellanti,profonde, a volte sembrano far risuonare la caverna che è dentro di lui, altre voltefuggono lontane come creature indisciplinate e ribelli.

Non c’è mai suono jazz senza un gesto che l’accompagni. Thelonious Monk in-filava le dita tra i tasti come se dovesse trafiggerle, vederlo, oltre che ascoltarlo, erauno spettacolo imponente, l’asse spigoloso delle dita sprigionava dissonanzeepocali, certe volte si alzava e inscenava una danza tribale intorno al pianoforte,pazzo e magnifico, come un orso sgraziato e impudente. Ci sono stati pianisti im-ponenti come Oscar Peterson, faccia sorridente, le sue braccia spaziavano con di-sinvoltura lungo la tastiera, facevano sembrare l’improvvisazione un gioco da ra-gazzi, altri più minuti, e con loro il pianoforte sembrava una piazza da percorrerein lungo e in largo, in un caso addirittura c’era il corpicino ferito di Michel Petruc-ciani. Era talmente piccolo, il corpo di un bambino, che dovevano alzargli i peda-li e quando si metteva al pianoforte sembrava impossibile potesse dominare quelmonumento, eppure ci riusciva, dalle sue mani usciva una energia insospettabi-le, i tasti li pigiava con delicata autorevolezza e quando intonava il tema di Estatebastava chiudere gli occhi per immaginarlo grande.

Anche i cantanti hanno avuto i loro gesti. Sinatra non perdeva mai l’espressio-ne da ribaldo, le sue note di velluto le accompagnava con lo sguardo, erano gestida seduttore. Billie Holiday sembrava voler cantare in onore di uno spirito inac-cessibile, chiudeva gli occhi, la bocca si piegava in un sussurro angelico. Ella Fitz-

gerald era monella, la sua faccia guizzava, la sua bocca si perdeva in impossibiliscioglilingua musicali.

Nel jazz ci sono stati re, duchi, conti, e ognuno faceva i conti con i gesti legati alproprio rango. Duke Ellington era sontuoso, elegante, suonava il pianoforte conpochi colpi di grazia, la testa dritta per non perdere mai di vista l’orchestra, che go-vernava con gesti di amorosa precisione.

Attraverso il gesto si potrebbe raccontare una storia nella storia del jazz. Gestiche erano istrioneschi, compiacenti, poi diventati duri, assorti, acuti, spiritati, poiperfino ostili quando l’avanguardia degli anni Sessanta arrivò a sconvolgere ognicertezza. Ornette Coleman e Don Cherry proclamarono l’avvento del free jazz, main fondo quella libertà il jazz l’aveva sempre cercata, si trattava di estremizzarla,mostrarla al di là di ogni dubbio, e in scena erano sfacciati, provocatori, soffiava-no nei loro strumenti come se dovessero forzarli, trasformarli in qualcosa d’altro.E dopo di loro fu il diluvio. Archie Shepp era rodomontesco, torrenziale, il suo cor-po voleva dominare la platea, quelli dell’Art Ensemble of Chicago uscivano ma-scherati, la faccia dipinta con segni primitivi, gli strumenti li offrivano in pasto alpubblico come totem, Anthony Braxton intitolava i pezzi con formule matemati-che e in scena sembrava un professorino saccente. Gesti e ancora gesti, segni in-confondibili che ci portano come una strada di memorie fino ai nostri giorni. Og-gi, a restaurazione compiuta, il jazz si preoccupa soprattutto della sua rispettabi-lità, rivendica con forza il suo privilegio d’onore, essere la più antica, la più classi-ca delle musiche che ancora portano il musicista a una sfida con se stesso, senzaveli, senza trucchi, nel regno dell’autenticità. E a vederli oggi i gesti dei jazzisti so-no più conformisti, sfuggono al marchio della lucida follia, vogliono essere classi-ci, per bene, in attesa di una prossima rivoluzione che, ci si può scommettere, por-terà una nuova gestualità.

IN LIBRERIA

È in libreria Solitude, raccolta di ritratti dei grandi personaggi

del jazz firmati dalla fotografa sarda Daniela Zedda. Il volume

testimonia gli incontri della Zedda con i grandi della musica jazz

in venti anni d’attività, dal 1986 al 2005. Concentrati

sull’approfondimento psicologico, gli scatti della fotografa

- tutti in bianco e nero - catturano le espressioni di diverse

generazioni jazzistiche: da Ray Charles a John Cage,

da Miles Davis a Youssou N’Dour

Il libro, 208 pagine, è edito da Imago. Prezzo: 50 euro

DANZA DI MANISembra che danzino

sulla tastiera le mani

immortalate da Daniela

Zedda in Solo Piano,la foto (in alto) del 1986

che apre il suo libro

Qui sopra: la mano di Lucille

sulla chitarra elettrica (1988)

e quella di Buster Williams

mentre pizzica il contrabasso

La foto, dal titolo Timing,

è stata scattata nel 1987

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i saporiGioielli da cantina

Giovedì prossimo si celebra “Calici di stelle”, manifestazioneche incrocia la notte di San Lorenzo con i riti dell’enoturismoUn’occasione per fare i conti con i propri desiderie per gustare le nuove bottiglie d’estate, reducidalle polemiche europee sull’uso disinvolto dei truciolidi legno per dar sapore e importanza a prodotti mediocri

44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 6 AGOSTO 2006

d’agosto

Daniela Barbera, giovanee intraprendente viticultricesiciliana, tre anni faha fondato con la sorellaMarilena una piccola aziendaa Menfi, Agrigento.Il suo vino bianco è già statoinserito tra i migliori dell’isola

gli appuntamenti

LICIA GRANELLO

L’appuntamento è di quelli che segnano un’estate intera:giovedì notte tutti naso all’insù a cercare la stella che dise-gnando il cielo con la sua scia esaudirà il più impellente deidesideri (almeno si spera). Gli organizzatori di “Calici distelle” — Città del vino, Movimento turismo del vino,Unione italiana astrofili — sostengono che la magia rad-

doppierà con un bicchiere di vino in mano. Perché non provarci?La notte di San Lorenzo è diventata negli anni un momento-simbolo del-

l’offerta turistica mirata all’enologia nazionale. Sarà per il suo cadere con-temporaneo nel cuore dell’estate e alla massima distanza tra Vinitaly e ven-demmia, ma l’idea di celebrare le stelle con un buon brindisi piace davve-ro a tutti. I numeri sono importanti: quasi mezzo milione di turisti — ognianno il vino ne muove complessivamente quattro milioni, per un giro d’af-fari di quasi tre miliardi di euro — l’anno scorso ha riempito i luoghi di de-gustazione e racconto.

Quest’anno si prevede siano anche di più. Perché le stelle affascinano e la-sciano pieni di domande mute. Esattamente come quando si gusta un vinointeressante, senza riuscire a spiegarlo oltre il «buono, mi piace». Raggiunge-re una delle oltre duecento piazze dedicate, giovedì sera, consentirà di ascol-tare, capire e chiedere, senza sentirsi vagamente stupidi e inadeguati.

L’occasione, insomma, fa l’uomo bevitore e curioso. A maggior ragione in unmomento dell’anno dove più di qualsiasi valutazione organolettica, più degli ab-binamenti e del legame al territorio, vale il piacere di un bicchiere fresco, beveri-no, gradevole. Che disseti senza intorpidire, rallegri la tavola o l’aperitivo senza im-pegnare in discussioni tra pretesi sommelier, accompagni il cibo e le chiacchiere sen-za lasciare tracce spiacevoli — bruciori, emicranie, senso di pesantezza — spesso as-sociate al consumo di vini bianchi. Un dazio pagato per troppi anni, dal quale i produt-tori più bravi, attenti, seri hanno saputo emanciparsi col tempo, affinando la sapienzia-lità enologica e riducendo al minimo l’utilizzo della solforosa, conservante utilizzato perallungare la vita a vini altrimenti destinati a spegnersi dopo pochi mesi.

L’altro grande atout usato con parsimonia sempre maggiore è il legno. Proprio nei gior-ni della grande lotta tra produttori savi e furbetti sull’utilizzo dei trucioli, ultima scorciatoiaper rendere ruffiane bottiglie mediocri, molti vignaioli hanno aderito alla diaspora dalla barri-que. Vini fatti maturare in materiali considerati obsoleti — dalla terracotta al cemento — o pochis-simo influenti come l’acciaio, hanno prodotto il miracolo: il legno, anche quello nobilissimo di rove-re francese, non è più considerato il passaporto obbligatorio per la longevità e la preziosità di un vino.

Così, al contrario di Assoenologi, che per salvare i trucioli ha inventato la strampalata definizione «legnoonesto», mettendo sullo stesso piano chips e doghe di botti grandi e piccole, le Città del Vino e Legambientehanno lanciato una petizione popolare. Obbiettivo, avversare la decisione dell’Unione europea di autorizza-re il nuovo trucco per indurre l’invecchiamento artificiale del vino. O almeno obbligare i produttori che ne fan-no uso a dichiararlo in etichetta.

Ma a San Lorenzo, più che i trucioli conteranno le briciole cangianti in caduta libera da una parte all’altra del cie-lo. Tra le città dei calici (l’elenco è sui siti degli organizzatori) scegliete i comuni piccoli, con ridotto inquinamentoluminoso, e state in zona telescopio, per afferrare al volo le traiettorie razzenti degli astri. Nel caso, un buon bic-chiere di vino vi aiuterà a formulare rapidamente il più ardito dei desideri.

Quei mille brindisialle stelle cadenti

Le città del vino

in cui si svolge

“Calici di stelle”

200I vitigni autoctoni

presenti

in Italia

300Il numero

degli enoturisti

in Italia

4milioni

Trentino-Alto Adige

Dalle strade della Valpolicella

alla provincia veneziana: spettacoli,

mostre e assaggi. Sulle rive del lago

di Garda, a forte Ardietti, il Lugana Doc

verrà presentato coi prodotti della zona

DOVE DORMIRESWEET HOUSE

Via Oberdan 3

Peschiera del Garda (Vr)

Tel. 045-6400065

Camera doppia da 75 euro

LA CANTINACA’ RUGATE

Via Pergola 72

Montecchia di Crosara (Vr)

Tel. 045-6175082

SOAVE CLASSICO MONTE FIORENTINECosto 8 euro

VenetoDegustazioni guidate a Barolo

e Ghemme. A Castagnole Monferrato

saranno di scena astrofili, clown

e giocolieri. A Cocconato d’Asti,

protagonisti Freisa, Barbera e Grignolino

DOVE DORMIRE

LOCANDA MARTELLETTI

Piazza Statuto 10

Cocconato (At)

Tel. 0141-907686

Camera doppia da 95 euro

LA CANTINA

VIGNETI VALTER MASSA

Piazza Gapsoni 10

Monleale (Al)

Tel. 0131-80302

COLLI TORTONESI DERTHONACosto 14 euro

Piemonte

Vini

In Trentino, fra Isera e Mezzolombardo,

saranno protagoniste le locande. Il centro

di Bolzano, invece, diventa passerella

dei vini locali. Via dei Portici (dalle 18.30)

sarà una cantina a cielo aperto

DOVE DORMIREHOTEL KOHLERN

Località Colle 11, Bolzano

Tel. 0471-329978

Camera doppia da 132 euro,

con mezza pensione

LA CANTINAPRODUTTORI COLTERENZIO

Strada del vino 8

Cornaiano (Bz)

Tel. 0471-664246

ALTO ADIGE SAUVIGNON PRAILCosto 10 euro

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45DOMENICA 6 AGOSTO 2006

Da anni gli appassionati di vino più esigenti trattano i vini maturati in barrique — pic-cola botte da circa duecento litri — con distacco ironico, quando non con apertofastidio. Le mode nel settore del vino si susseguono con la stessa spietata volubilità

che governa il mondo dell’abbigliamento. I vini affinati in barrique fanno oggi la partedelle spalle imbottite dei vestiti anni Ottanta. Perfino nell’enologia statunitense, la piùbarricaiola di tutte, si trovano sempre più etichette che sbandierano “not barrique aged”,vino non invecchiato in barrique.

Nel generale clima di condanna senza appello sono finite varietà di uva compagneclassiche della barrique, Chardonnay e Cabernet Sauvignon in testa. In questo mo-mento in Italia furoreggiano i vini ottenuti da uve locali, altrimenti dette autoctone. Me-glio se vinificate con tecniche tardomedievali, o romane, o greche, o fenicie. In un tripu-dio di orci di terracotta e dolia (sorta di grosse anfore) dell’antica Roma, per un anacro-nismo paradossale la moderna barrique è ormai un ferrovecchio; o almeno lo è per l’a-vanguardia degli snob e per il produttore al passo con i tempi.

Ma l’orticello degli enomaniaci è piccolo, poche migliaia di esperti spocchiosi. Incompenso, ad aumentare la confusione del normale consumatore, ecco la polemicasull’uso dei trucioli, una specie di surrogato a basso costo della vera barrique. Per aiuta-re a districarsi tra vini «barricati», vini non barricati e vini che per brevità potremmo chia-mare «truciolati», ecco qualche semplice linea guida, mirata ai bianchi, vini “estivi” per

antonomasia. Tanto per cominciare, la barrique è uno tra i tanti strumenti a disposizione dell’enologo,

non per trasmettere al vino sentori di legno (variamente descritti come speziati, dolci, di to-statura, eccetera), ma per stabilizzarlo, rendendolo cioè più equilibrato e più adatto ad attra-

versare il tempo in bottiglia, senza alterarsi. La cessione di aromi è un dettaglio secondario, enei vini migliori si percepisce appena. Per cui, se mettendo il naso in un bianco barricato ci sen-

tite quasi soltanto note di vaniglia, di cannella, o quant’altro, siete in presenza di un bianco fur-betto, non certo di grande livello. Diffidate poi dell’equazione «bianco in barrique uguale bianco di classe». Esistono centinaia di

bianchi ottimi, pur senza passare dal legno. Bianchi che stanno in contenitori d’acciaio, o al massi-mo di cemento. Qui gli esempi, da nord a sud, si sprecano: dai vini dell’Alto Adige (dal Sylvaner al Vel-tliner) ai profumati Vermentino di Sardegna, passando per decine di tipologie impossibili da elenca-re, l’Italia è piena di bottiglie non barricate che offrono freschezza acida (fondamentale per non es-sere stanchi dopo un solo sorso di vino) e delicata aromaticità.

Quanto ai trucioli, dei quali una recente direttiva europea ha consentito l’uso, è presto detto: è unespediente modesto per scimmiottare gli aromi più volgari dei cattivi bianchi in barrique: una dol-cezza stucchevole sia nei profumi che al gusto, completamente scissa dal corpo del vino, quindi ri-conoscibile anche da un bevitore poco esperto. Scandaloso per i vini che costano più di 5 euro a bot-tiglia, autolesionistico per quelli che costano più di 8 euro, è un impiego tollerabile per i prodotti difascia bassa e bassissima: quelli più vicini a una bevanda industriale che a un vino vero. Anche se, one-stamente, rappresentano un ripiegamento triste per la millenaria cultura del vino italiano, che purein passato non si è fatta mancare intrugli e bassezze assortite.

Gli autori, membri italiani del Grand Jury Européen du Vin,curano per l’Espresso la guida “Vini d’Italia”

Sicilia

Concerto di ottoni a Cupramontana,

visita notturna al museo degli utensili

di Morro d’Alba. A Osimo, tour virtuale

del planetario, a Belvedere Ostrense

esplorazione del cielo

DOVE DORMIRE

NOTTI SULLE MURA B&B

Via Spaldi16 - 60035

Tel. 329-7645533

Jesi (An)

Camera doppia da 50 euro

LA CANTINA

UMANI RONCHI

SS.16 km 310

Osimo (An)

Tel. 071-7108019

VERDICCHIO CASTELLI DI JESI VILLA BIANCHICosto 7 euro

MarcheA Campiglia Marittima, vini della Val

di Corna in passerella. David Riondino

si esibisce a Castelnuovo Berardenga

A Pitigliano, visita delle antiche cantine

scavate nel tufo del centro

DOVE DORMIRE

LA CASA DEI CARRAI

Via S. Francesco 68, Pitigliano (Gr)

Tel. 338-6773242

Camera doppia da 60 euro

LA CANTINA

AZIENDA PERAZZETA

Via della Piazza

Località Montenero

Castel del Piano (Gr)

Tel. 0564-954158

MONTECUCCO ALFENO (Sangiovese)Costo 6 euro

ToscanaAppuntamenti con la musica dal vivo

nell’antica Rocca Venezian

di Brisighella, a Castelvetro di Modena

e a Faenza, dove la Torre di Oriolo

dei Fichi ospiterà una visione con astrofili

DOVE DORMIRE

LOCANDA PARADISO

Via Gallo Marcucci 49

Faenza (Ra)

Tel. 0546-23400

Camera doppia da 60 euro

LA CANTINA

DREI DONÀ

Via del Tesoro 20

Tel. 0543-769371

Forlì

NOTTURNO (Sangiovese)Costo 8 euro

Emilia Romagna

Vino & stelle verranno celebrati

dalle cantine-simbolo della regione,

Caprai e Lungarotti, ma pure sul sagrato

della chiesa. A Montefalco degustazioni

e festa per “Sagrantino sotto le stelle”

DOVE DORMIRE

B&B IN VILLA

Località Belvedere

di Montefalco (Pg)

Tel. 0742-379338

Camera doppia da 70 euro

LA CANTINA

DUCA DELLA CORGNA

Via Roma 236

Tel. 075-9652493

Castiglione del Lago (Pg)

GAMAY DIVINA VILLA ETICHETTA BIANCACosto 8 euro

Umbria

Canti e cori locali a Dorgali, musiche

di gruppi etnici a Jerzu. A Monti (Ss),

il vermentino di Gallura “bagna” il fritto

di pesce. A Sennori (Ss), percorso di vini

e prodotti con musica jazz

DOVE DORMIRE

LOCANDA S’ISCALA

Ss. 200 km. 6

Scala de Todde, Sennori (Ss)

Tel. 079-351496

Camera doppia da 60 euro

LA CANTINA

CAPICHERA

SS. Arzachena-Sant’Antonio km 5,

Arzachena (Ot)

Tel. 0789-80612

VERMENTINO VIGNA N’GENACosto 15 euro

Sardegna

Brindisi in anticipo oggi a Lecce,

nei giardini di palazzo Celestini. A Sava

di Taranto, invece, domenica con musica

e raccolta fondi per la lotta alla leucemia

A Trani si parla di legami tra osteria e città

DOVE DORMIRE

SAN PAOLO AL CONVENTO

Via Statuti Marittimi 111

Trani (Ba)

Tel. 0883-482949

Camera doppia da 130 euro

LA CANTINA

AZIENDA CANDIDO

Via Armando Diaz 46

Sandonaci (Br)

Tel. 0831-635674

CAPPELLO DI PRETE (Negroamaro)Costo 7 euro

Puglia

I produttori della “Via Etnea”,

che si snoda alle falde del vulcano,

organizzano molte degustazioni

Ad Acicastello, la festa si sdoppia

in due giorni, tra assaggi e concerti

DOVE DORMIRE

IL BALCONE SULLO IONIO

Via Tripoli 160

Località Ficarazzi

Acicastello (Ct)

Tel. 095-279798

LA CANTINA

AZIENDA BENANTI

Via Garibaldi 475

Viagrande (Ct)

Tel. 095-7893438

ETNA BIANCO DI CASELLECosto 10 euro

Così è finita la moda del barriqueERNESTO GENTILI e FABIO RIZZARI

E intanto si riscoprono le tecniche enologiche romane e medievali

GlossarioAutoctoniVarietà di uve legate

a un certo territorio

BarriqueBotticella da 225 litri

in quercia di rovere

BouquetL’insieme dei profumi

che si sprigionano

dal bicchiere

ChipsI trucioli di legno usati

per aromatizzare il vino

TanniniSostanze conservanti

presenti in bucce,

vinaccioli e legno

VanigliaIl sentore più diffuso

tra i vini “barricati”

le tendenze

Vestiva un cappotto interamente fo-derato di pelliccia, Henriette d’An-geville, per salire sul Monte Biancoall’inizio di settembre del 1838. Enel bagaglio della signorina di Pari-gi, issato sulle spalle di sei guide e al-

trettanti portatori, c’erano ventagli, acqua di co-lonia, un calzascarpe di corno. Una mole di mate-riale che oggi s’immagina appena per una spedi-zione extraeuropea. Era lo spirito del tempo: inmontagna con lo stesso comfort delle città da cuisi muovevano i viaggiatori appassionati d’alpini-smo. Nella lista di due inglesi che scendono per laVal d’Aosta a fine Ottocento, concedendosi faciliascensioni per insaporire il Grand Tour verso ilsud, non manca un cilindro, da calzare nelle fotodi vetta.

Dopo un secolo e più si va leggeri. Nessuno in-dossa il vecchio, pesante maglione rosso di lanafitta, tocco di colore nelle immagini anni Sessan-ta delle guide di Chamonix. Anche loro preferi-scono una giacca in poliestere nello zaino, quat-tro etti per stare caldi quando soffia il vento dellealtezze. La lana però è tornata, merito di Arc’-Teryx, Icebreaker, SmartWool, ma nel filato finis-simo di merino delle calze e della biancheria, nul-la a che vedere con le vecchie, ruvide magliettedella salute, sopportate solo dalle pellacce duredei montanari. Patagonia osa perfino il cachemi-re, indifferentemente sui sentieri delle Tofane e incorso Italia a Cortina: lo in-dossava anche Mallory nelsuo ultimo tentativo all’Eve-rest. Capi multiuso, comel’originalissima — e un filoesagerata — Macabi Skirt,gonna maschile cucita dal-l’omonima azienda di SaltLake City, per l’escursioni-smo, il ciclismo, il kayak. Unsolo capo e via, per un’interavacanza nella natura.

Fast and light, suggerisco-no i siti outdoor, veloci e leg-geri, anzi veloci proprio per-ché leggeri. Dalle scarpe,basse sulla caviglia se desti-nate ai sentieri fin troppocurati del Trentino o dellaVal d’Aosta, allo zaino, sem-pre più semplice, solo un sacchetto senza fronzo-li, una cerniera impermeabile per caricarlo, la re-te robusta nelle tasche e sul dorso permette di eli-minare il tessuto in eccedenza. Non serve nem-meno troppo capiente, a esser capaci di ridurrel’equipaggiamento. In fondo basterebbe seguiregli insegnamenti degli escursionisti americaninegli anni Cinquanta, che si attenevano rigida-mente ai ten essentials, dieci pezzi e non di più,dalla carta topografica ai fiammiferi, dal coltelloalla torcia elettrica. Ma anche senza estremismi,l’offerta del mercato permette davvero di rispar-miare alle nostre spalle certi carichi da sherpa.Oppure si scelga il Tour du Mont Blanc che le gui-de francesi propongono con mulo al seguito, unadozzina di tappe per circumnavigare il massicciosenza pesi. E qualche soddisfazione in meno.

Certo è difficile, sfogliando i cataloghi, rinun-ciare ai mille accessori sciorinati di stagione in sta-gione. Ce ne sono di quasi indispensabili: il saccolenzuolo, obbligatorio per dormire nella maggiorparte dei rifugi alpini, di seta per essere piegato inun pacchetto di sigarette; i bastoni allungabili perrisparmiare le ginocchia in discesa o il sistema diidratazione Platypus, appena un velo in polietile-ne di venti grammi, così lontano dalle borracce dialluminio ricoperte di feltro, di derivazione mili-tare. Poi ci sono i gadget gradevolmente inutili: sipuò ordinare via Internet negli Usa il pallone Gra-nite Gear in cordura da riempire di calzettoni, faz-zoletti e mutande, per giocare sul muro del rifugio.E chi non rinuncia a una bottiglia di buon vino nel-lo zaino, forse vorrà caricarsi pure i calici smonta-bili in Lexan. L’ombrello no, quello non lasciateloa casa. Magari non è necessario sia di titanio, ma èl’unico modo per ripararsi seriamente dalla piog-gia. Lo sanno bene i pastori che non lo abbando-nano mai, nel loro girovagare sulle montagne.

Belli, supertecnici e dal sicuro comfort: gli abiti d’altaquota hanno cambiato aspetto. Dimenticati i ruvidimaglioni di lana e i pesanti accessori da escursionedi una volta, gli appassionati di trekking si preparanoa riempire zaini “light” e a indossare scarpe coloratissimeche garantiscono l’arrampicata perfetta

PASSEGGIATA IN PIANURAAdatte a escursioni “calde”, le Geo Mid

Xcr di Aku, con inserti laterali in Air 8000

per migliorare la traspirabilità

SOGNANDO LA CIMADisegnati per escursioni impegnative,

gli scarponcini da donna Attiva Gtx

di Asolo, con membrana in Gore-tex

PESO PIUMALe Cromo Low di Tecnica, basse

sulla caviglia, con suola Vibram e fodera

in Gore-tex, pesano solo 400 grammi

SENZA TROPPO IMPEGNOAdatta a trekking non troppo

impegnativi, la scarpa Juliette

di Trezeta, nei colori pastello

L’ORA DI PARTIREL’orologio da trekking T-Touch Titanium

di Tissot, con altimetro, bussola

e sveglia per mettersi presto in cammino

OCCHIO AL SOLEÈ disponibile anche con lente scura

per la marcia sui ghiacciai, l’occhiale

pieghevole Egg Square di Carrera

46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 6 AGOSTO 2006

Svelta e leggerad’estate la modascala la vettaLEONARDO BIZZARO

GUSTO RÉTRONello stile degli escursionisti americani,

il completo in cotone di Woolrich,

giacca e short, adatto ai più modaioli

NEL SEGNO DELLA RESISTENZAResistente all’acqua, con spallacci

ergonomici, tasche in rete per borracce

e telo estraibile. È l’Airtime della Eastpak

MODELLO TRASPIRANTEImpermeabile e traspirante, la High

Revelry Hoodie di Columbia, giacca

in fleece con pannelli elastici sui fianchi

SERATA AL RIFUGIODi Marlboro Classics il maglione

con le trecce e la zip corta,

da indossare la sera al rifugio

CALDO SULLA PELLELa lana è tornata in montagna

con la biancheria in filato di merino

come l’Oasis Crewe di Icebreaker

APPESI A UN FILOSulle vie ferrate con l’equipaggiamento

adeguato: il casco Helium e i guanti

Fixed Rope Climbing di Salewa

Ferie in montagna

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47DOMENICA 6 AGOSTO 2006

Sentieriandare

per

Trekking è uno dei tanti inglesismi chefanno ormai parte del nostro vocabola-rio e definisce qualcosa che già cono-

scevamo, insegnavamo e in alcuni casi espor-tavamo nei paesi che poi ci hanno regalato iltermine accattivante con cui oggi lo definia-mo. Fare trekking significa fare escursioni inambiente naturale, non necessariamente insalita e con mille variabili dettate dal livello,dalla durata, dalla compagnia, dalla stagione,dal ritmo, dall’obiettivo e dalle mille altre no-stre personalissime scelte. Significa spostar-si a piedi, tornare alla più antica e infallibiletecnica di conquistare le distanze.

Oggi tutti noi viviamo in un mondo dovespostarsi è sinonimo di utilizzo di un mezzoper farlo. Nella nostra furiosa e intensissimaquotidianità arriva poi l’estate, la vacanza, ilfine settimana con giornate calde e lunghe. Esono sempre di più coloro che hanno comin-ciato a mettere al centro delle loro scelte unacosa spesso inascoltata, non percepita: noistessi e la nostra libertà. Evadendo dunquedalle «comodità» molti decidono di tornareall’inizio e riprendono a camminare, a ricon-quistare quello che ormai consideravano su-perfluo. Così nell’ultimo decennio si è torna-ti a praticare l’escursionismo, a scoprire queiluoghi che solo a piedi si riescono a raggiun-gere e gustare.

Facendo trekking si entra in un mondo a rit-mo d’uomo, dove il lento progredire ci dàtempo di ascoltare ed ascoltarci, di guardaree guardarci. Di percepire il nostro battito car-diaco, la qualità dell’aria che ci entra nei pol-moni. Il profumo dell’erba tagliata, i rumoridi una mandria al pascolo, di un rapace chevolteggia nel cielo. Per fare tutto ciò si deveperò evitare di esportare le nostre abitudini dicittà in quota. Il primo sforzo è quello di spo-gliarci delle nostre certezze e infilare nellozaino una buona dose di buon senso edumiltà.

Io stesso, nonostante le oltre trenta spedi-zioni sulle più alte montagne della terra, con-tinuo a sentirmi uno studente e non un pro-fessore in montagna. L’alpinismo è stato perme un mezzo e non il fine della mia esistenza.È stato il mezzo con cui ho conosciuto mestesso, i miei limiti, la mia vulnerabilità. Hovinto, ho perso, ho gioito, ho sofferto, pianto,pregato, sognato. Voglio continuare.

Per fare trekking non basta la pur indispen-sabile attrezzatura ma è bene seguire una se-rie di precauzioni. Procuratevi sempre unacartina del posto in cui ci si muove e impara-te a leggerla. Analizzatela prima di iniziare l’e-scursione. Informatevi sull’itinerario chie-dendo anche della possibilità di trovare ac-qua, consultando le indicazioni in loco o par-lando con le guide alpine. Informatevi sem-pre sulle previsioni meteo. Non partite maitroppo tardi: i temporali pomeridiani sonofrequenti in montagna. Non sopravvalutatele vostre capacità, soprattutto se conduceteuna vita sedentaria. Avvisate sempre qualcu-no delle vostre mete. Scegliete un’attrezzatu-ra essenziale. Consiglio di acquistare e utiliz-zare materiali leggeri e di avere con sé una pi-la frontale e un piccolo pronto soccorso.

I ritmi che dovete tenere sono quelli che vipermettono di chiacchierare ed osservare ilmondo intorno a voi. Vedo troppa gente conil cuore in gola che guarda l’orologio per bat-tere il proprio record. Io stesso mi alleno cor-rendo in montagna, ma un conto è una sedu-ta di allenamento e un altro una salutare egioiosa camminata. Un suggerimento perevitare la fretta è quello di portare al collo unamacchina fotografica e divertirsi a cercaresoggetti per i vostri scatti. Altro suggerimen-to è quello di non riempire lo zaino solo di ci-bo, meglio un panino in meno che non avereuna borraccia d’acqua. Sappiate che farsi ac-compagnare da un professionista non è da“sfigati” ma da gente sveglia e accorta. Glispavaldi finiscono troppo spesso col chiama-re il soccorso alpino.

Un’ultima raccomandazione. Ricordateviche le rinuncia non è un limite, ma una virtù,sintomo di maturità e saggezza. Sembraun’ovvietà, ma ho visto troppi colleghi scom-parsi sulle alte vette a causa di una cieca am-bizione o per non aver dato ascolto alla timi-da voce dell’ovvio.

L’autore, uno tra i più noti alpinisti italia-ni, ha scritto diversi libri sulla montagna

Il vademecumdel camminatore

Cosa è il vero escursionismo

SIMONE MORO

MACABI SKIRT

LA GONNA PER L’UOMO

Negli Stati Uniti è un must,

in Italia non è ancora

sbarcata. I produttori

della Macabi Skirt,

dallo Utah, la definiscono

«versatile come un coltello

svizzero», capace

di passare con disinvoltura

dall’escursionismo al kayak,

dalla bicicletta al passeggio

in città. Un nastro, che parte

dalla cintura, permette

di ridurre la lunghezza

secondo la necessità

I vantaggi? Incalcolabili,

a giudizio degli utilizzatori

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48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 6 AGOSTO 2006

l’incontroShowmen

VIAREGGIO

Nel panorama delle glorietelevisive più o meno re-centi, Neri Marcorè è unodei pochi destinati a du-

rare. La ragione è che non si ripete, co-me quasi tutti gli altri. Ogni anno ag-giunge qualcosa al proprio bagaglio ditalenti, imitatore geniale, intelligenteconduttore, comico originale, attoredrammatico di sorprendente intensitàe chissà, forse un giorno scrittore.Quando si deciderà a pubblicare i rac-conti che accumula fin da ragazzo neicassetti. Non è tanto la voglia di stupireo d’apparire eccentrici, già stimabilenel casellario dello spettacolo italiano,dove alla fine sono tutti caratteristi.Quanto l’ambizione di una libertà asso-luta. Neri recita, scrive, fa satira «pernon essere incluso», come avrebbe det-to Ennio Flaiano.

La libertà è la chiave delle sue scelte eanche la ragione per cui lo incontro alFestival Gaber di Viareggio, dove Mar-corè ha ricordato il grande Giorgio conuna memorabile versione di canzoni emonologhi, da L’uomo che perdeva ipezzi a La democrazia. «Gaber l’ho sco-perto tardi ma ricordo l’emozione for-tissima alla notizia della sua morte, ilsentimento di una perdita profonda. Mipiaceva quella sua voglia di rinnovarsisempre, d’inventare nuove strade, col-tivando il dubbio e l’ironia. La forza in-tellettuale che esplodeva poi in metafo-re artistiche formidabili, come l’uomoche perde i pezzi epperò continua ad

stretta la definizione di comico. «Un po’è vero, anche se capisco di essere cono-sciuto soprattutto per questo. Il fatto èche ai comici si chiede di ripetere i nu-meri di maggior successo all’infinito e ame questo non piace, non mi diverte.Preferisco fare poco, una cosa ogni tan-to, quando ho voglia. Non rinnego nul-la, ci mancherebbe. Pippo ChennedyShow e Ottavo nano sono state espe-rienze esaltanti. Ma non mi va di rifareancora una volta Alberto Angela o Ga-sparri. Mi guardo intorno, vedo se c’èqualcosa di nuovo che mi stimola. Sonoattratto dall’eccentricità, da quella folliache tutti hanno sotto gli occhi e nessunonota. Tornerò con Corrado Guzzanti aParla con me ma vorrei passare a un al-tro genere di comicità, magari più fisico,come per esempio lo Zapatero che hoprovato a fare già la scorsa stagione».

«Vuole la verità? A me la televisione fapaura. Ne ho fatta tanta, in questi anni,

andare avanti. C’è qualcosa di più at-tuale?».

Cinema, televisione, teatro. L’autun-no di Marcorè è ricco d’impegni. Ma in-tanto per l’estate non ha voluto girareper i teatri, rinunciando a tutto pur diabbandonarsi al grande svago, alla veravacanza: la lettura. Meglio ancora: la ri-lettura. «Ho portato una valigia di libri eho cominciato con due: L’uomo senzaqualità di Musil e Lezioni Americane diCalvino. Calvino è uno dei miei autori diriferimento, lo rileggo di continuo. Laleggerezza, la capacità di guardare lecose del mondo da una distanza ironi-ca, come quel personaggio magnifico,Palomar, costituiscono una vera lezio-ne di vita». Sarebbe fra l’altro un perfet-to Marcovaldo. Tempo fa Giorgio Gal-lione, uno dei migliori registi teatraliitaliani, gli propose di ridurlo per le sce-ne. «Sì, Giorgio dice pure che assomi-glio a Calvino, fisicamente intendo. Lacosa mi lusinga. Voglio dire, meglio as-somigliare a Calvino che a Briatore. Manon è ancora il tempo giusto. Con Gal-lione per ora riprendo un monologo diPennac, molto bello, una satira sulmondo dei medici».

È uno degli impegni di un autunnocaldissimo. A settembre sarà alla Mostradi Venezia con l’ultimo film, Baciamipiccina, per la regia di Ciampanelli e lasceneggiatura degli Scarpelli, padre e fi-glio. «È la storia di un brigadiere a caval-lo dell’8 settembre del ‘43. Un film stori-co, dunque, ma secondo me di estremaattualità. L’8 settembre è una data pe-riodica della storia italiana, dove è sem-pre in agguato il grande ribaltone, ilcambiamento di fronte e di alleanze,l’urgenza di dover cambiare in fretta ladivisa».

A ottobre comincia la scommessa te-levisiva più affascinante di Marcorè chevestirà i panni di Papa Luciani, Giovan-ni Paolo I. Un papato durato soltantotrentatré giorni ma denso di dubbi, leg-gende, misteri. Francis Ford Coppola,nella terza parte del Padrino, sposò inpieno la teoria del complotto fra mafia efinanza vaticana per uccidere il nuovo«papa buono» che voleva far pulizia nel-le intricate trame dello Ior. Pare difficileche la fiction di Raiuno possa adottareuna tesi così radicale. «E infatti non saràcosì. Ma neppure è accreditata la versio-ne ufficiale. La fine di papa Luciani ri-mane un enigma. Ancora più importan-te però è indagare su quanto Luciani hadetto in vita. Con la sua apparente fragi-lità, era un personaggio fortissimo. Haaffrontato più direttamente di qualsiasialtro pontefice il futuro della Chiesa, in-dicando la strada di un cattolicesimocome religione dei poveri, degli emargi-nati della terra. Ed era un grande comu-nicatore, capace di diventare subito po-polarissimo, pur sostenendo ideetutt’altro che rassicuranti e tradizionali-ste».

La satira sembra passare quasi in se-condo piano, come se gli stesse un po’

ma continua a farmi paura come quan-do ci sono arrivato, per puro caso, dallaprovincia profonda. Ho conservato l’at-teggiamento di stupore misto a diffi-denza. Ero uno che faceva le imitazionial bar di Sant’Elpidio fra amici e mi sonoritrovato a vincere un concorso e ad af-frontare una platea di qualche milionedi persone. Ma vedevo gente che diven-tava famosa e poi spariva tranquilla-mente. A lungo ho pensato che sarei tor-nato al mio diploma di traduttore parla-mentare, a lavorare in qualche casa edi-trice traducendo testi inglesi o tedeschi.Quando ho capito che avrei fatto questomestiere, ho cercato di allargare l’oriz-zonte, d’imparare a recitare. Ho fattocorsi di doppiaggio, di teatro, ma sem-pre con l’idea che forse non sarebbe sta-to per sempre. Per sopravvivere in tele-visione senza diventare l’imitazione dise stessi occorre un solido senso dellamisura, il coraggio di sparire ogni tan-to».

Il senso della misura, piuttosto raro, èquello che ha colpito nella sua interpre-tazione del protagonista di Il cuore al-trove di Avati. Fra tanti attori italiani chegigioneggiano, ecco un quasi esordien-te, per giunta comico di etichetta, cherecita senza smorfie, tic, urla. «Il perso-naggio e la storia erano talmente fortiche non serviva aggiungere, semmai to-gliere. Devo molto anche a Pupi Avati,che è un maestro di recitazione».

Al cinema passa da un dramma all’al-tro, dal sarto disperatamente innamo-rato di Avati al brigadiere sbandato nel-la disfatta italiana dell’8 settembre. Pri-ma o poi arriverà anche una commedia?«Magari. Non è mica una scelta mia. Èche ti propongono robaccia. In Italia or-mai la commedia non esiste quasi più. Sigirano storie di periferia violente, dovetutti s’insultano e si menano dal princi-pio alla fine e non c’è mai una battuta dispirito. Oppure i film dei Vanzina e simi-li. Con tutto il rispetto, soprattutto pergli incassi, non mi troverei a mio agio.Finché riesco a pagare i mutui preferi-sco scegliere».

Come chiamarla, la felicità dell’outsi-der? «Mi piace, la felicità e anche la li-bertà dell’outsider. Non m’interessa es-sere al centro della scena, preferisco sta-re un po’ di lato. Almeno fino a quandoin Italia continuerà l’equazione fra po-polare e volgare».

Con la nuova stagione politica, qual-cuno si aspetta dei cambiamenti anchenella cultura. Forse ci vorrebbe un de-creto Bersani per spiazzare le lobbies deisoliti produttori, i monopoli televisivi, lecorporazioni che hanno strangolato inquesti anni il cinema e la televisione. Nelfrattempo invece qualche satirista la-menta la perdita del berlusconismo cheoffriva tanto materiale di lavoro. «Mano, quello no. È vero che Berlusconi da-va lavoro ma ne toglieva anche parec-chio, pensi all’editto di Sofia. L’aspettoche mi divertiva di più, nella stagionedella destra al potere, era l’improbabi-

lità di certi personaggi, l’incredulitàemanata da loro stessi. Gasparri che sistupiva d’essere ministro («Io? Ma chestai a di’…») era l’istantanea di una cor-te di miracolati. Per il resto, non è che inuovi non offrano spunti interessanti.Questa rissa fra Mastella e Di Pietro, perdirne una…».

Sulla possibilità di grandi cambia-menti in televisione, Marcorè sembrainvece meno ottimista. «Non sono tan-to i nomi, le faccione solite, quanto i co-stumi consolidati. Mi spiego. Secondome, un vero fattore di corruzione del cal-cio in Italia è stata la televisione, il mododi usare i diritti ma anche lo stile delletrasmissioni, la rissa continua, l’inde-cenza intellettuale. Ebbene, ora è spari-to Biscardi, per via dello scandalo, e checosa è cambiato? Nulla, si fanno semprei “Processi” con altri conduttori. Anni fac’era una bellissima trasmissione di cal-cio, con Gigi Garanzini e Gianni Mura,intelligente, colta, piena d’ironia. Ma siè deciso che al pubblico del calcio nonpiaceva, che volevano soltanto il san-gue, l’insulto, il delirio in diretta. In tvfunziona quasi tutto così. Il modo di fa-re informazione da ciambellano di cor-te che guarda nel buco della serraturadentro il Palazzo non l’ha inventato mi-ca Bruno Vespa. È nel dna dell’informa-zione politica italiana. Nel nostro picco-lo, su Raitre, facciamo da anni un quizanomalo, dove invece di dare l’aiutino alconcorrente per vincere i milioni allalotteria, si parla di romanzi coi ragazzi esi vincono libri. Alla fine, gli ascolti nonvanno male. Ma a chi importa la qua-lità?». Meglio continuare a fare l’outsi-der? «Meglio non illudersi troppo».

Rileggo di continuoItalo Calvino:la sua leggerezza,la sua capacitàdi guardare il mondocon distanza ironica,sono una autenticalezione di vita

Conduttore, imitatore, comico, attoredrammatico. Sembra destinatoa durare, perché è uno che non amaripetersi. E soprattutto perché ammirachi sa coltivare il dubbio e l’ironia

“Per sopravvivere in tvsenza diventarel’imitazione di se stessi -dice - bisogna avereil coraggio di sparireogni tanto. Mi piaccionola libertà e la felicitàdell’outsider: non mi

interessa il centro-scena, preferiscostare di lato. Finché riesco a pagarei mutui, voglio essere io a scegliere”

CURZIO MALTESE

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