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DOMENICA 28 DICEMBRE 2008 D omenica La di Repubblica MICHELE SMARGIASSI Q uali siano state le parole dei dieci decenni del No- vecento si può stabilirlo solo grazie a (e nei limiti di) un gioco. Bisogna dunque darsi dei criteri. Contano le parole allora più comuni? Le parole più significative? E chi lo decide? Soprattutto co- me non confondere le parole con le cose, e siste- maticamente elencare le invenzioni più significative del de- cennio (che sarebbe un altro gioco, del tutto diverso)? Per co- modità di computo cercheremo, invece, la parola che, entra- ta nel lessico italiano in uno dei dieci decenni, viene ancora oggi usata con frequenza massima. La prima regola del gioco impone che vengano vagliati so- lo i vocaboli che sono entrati nel lessico nel decennio di vol- ta in volta considerato, e questo a discapito di due fatti. (segue nelle pagine successive) STEFANO BARTEZZAGHI cultura L’invenzione dell’“Isola del Tesoro” GIACOMO SCARPELLI e ROBERT LOUIS STEVENSON spettacoli Warner Bros, una storia americana CLINT EASTWOOD e ANTONIO MONDA l’incontro La vita verticale di Riccardo Cassin EMANUELA AUDISIO la società Il ritorno dei giochi da tavolo il fatto Addio al teorico dello scontro di civiltà FEDERICO RAMPINI e VITTORIO ZUCCONI MARINO NIOLA e ALESSANDRA RETICO U n pronostico da quattro soldi. Facile come in- dovinare che Barack Obama sarebbe stato l’uomo dell’anno di Time. Quale volete mai che sia la parola regina dell’orribile anno che verrà? È già sui gradini del trono da mesi e, proprio co- me Obama, attende impaziente di insediarsi a pieno diritto, di prendere possesso della sua annata, e diven- tarne eponima. Cinque lettere, due sillabe che scricchiolano e sibilano, ecco a voi la parola del 2009: crisi. Banale, vero? Ma inevitabile. Smilza come uno spiffero, la infili in qualsiasi ti- tolo; polisemica, prende sottobraccio qualsiasi oggetto, ma- teriale o morale: crisi dell’auto, crisi morale, crisi politica in- ternazionale… Statisticamente ha già vinto: sulla carta e da- gli schermi sarà ripetuta migliaia di volte. (segue nelle pagine successive) Obama, crisi sobrietà, automobile, orizzonte. Proviamo a interpretare l’anno che viene attraverso il vocabolario di un gruppo di “saggi” 2009 Le del Parole Repubblica Nazionale

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DOMENICA 28DICEMBRE 2008

DomenicaLa

di Repubblica

MICHELE SMARGIASSI

Quali siano state le parole dei dieci decenni del No-vecento si può stabilirlo solo grazie a (e nei limitidi) un gioco. Bisogna dunque darsi dei criteri.Contano le parole allora più comuni? Le parolepiù significative? E chi lo decide? Soprattutto co-me non confondere le parole con le cose, e siste-

maticamente elencare le invenzioni più significative del de-cennio (che sarebbe un altro gioco, del tutto diverso)? Per co-modità di computo cercheremo, invece, la parola che, entra-ta nel lessico italiano in uno dei dieci decenni, viene ancoraoggi usata con frequenza massima.

La prima regola del gioco impone che vengano vagliati so-lo i vocaboli che sono entrati nel lessico nel decennio di vol-ta in volta considerato, e questo a discapito di due fatti.

(segue nelle pagine successive)

STEFANO BARTEZZAGHI

cultura

L’invenzione dell’“Isola del Tesoro”GIACOMO SCARPELLI e ROBERT LOUIS STEVENSON

spettacoli

Warner Bros, una storia americanaCLINT EASTWOOD e ANTONIO MONDA

l’incontro

La vita verticale di Riccardo CassinEMANUELA AUDISIO

la società

Il ritorno dei giochi da tavolo

il fatto

Addio al teorico dello scontro di civiltàFEDERICO RAMPINI e VITTORIO ZUCCONI

MARINO NIOLA e ALESSANDRA RETICO

Un pronostico da quattro soldi. Facile come in-dovinare che Barack Obama sarebbe statol’uomo dell’anno di Time. Quale volete mai chesia la parola regina dell’orribile anno che verrà?È già sui gradini del trono da mesi e, proprio co-me Obama, attende impaziente di insediarsi a

pieno diritto, di prendere possesso della sua annata, e diven-tarne eponima. Cinque lettere, due sillabe che scricchiolanoe sibilano, ecco a voi la parola del 2009: crisi. Banale, vero? Mainevitabile. Smilza come uno spiffero, la infili in qualsiasi ti-tolo; polisemica, prende sottobraccio qualsiasi oggetto, ma-teriale o morale: crisi dell’auto, crisi morale, crisi politica in-ternazionale… Statisticamente ha già vinto: sulla carta e da-gli schermi sarà ripetuta migliaia di volte.

(segue nelle pagine successive)

Obama, crisi sobrietà,automobile, orizzonte. Proviamo

a interpretare l’anno che vieneattraverso il vocabolariodi un gruppo di “saggi”

2009Le

del

Parole

Repubblica Nazionale

(segue dalla copertina)

Senza dirci nulla di utile. Comeun gas venefico che satural’atmosfera, la crisi (la parolae l’idea) è ovunque e in nes-sun luogo preciso. Appartie-ne a quel numero di parole

che, per risuonare troppo, finiscono pernon significare più nulla, se non l’eco pa-rodistico di loro medesime. Prevediamoil revival dell’immortale strofetta di Ro-berto De Angelis: «Ma cos’è questa crisi,paraparapappappappapà». Era l’hit del‘33, quando il crollo di Wall Street sbarcònella vecchia Europa. Ma se parliamo percapire, per risolvere i problemi, allora«crisi non ci serve», è la sentenza di ungrande amico delle parole, il linguistaTullio De Mauro, «non ha una sua perso-nalità, in sé può anche non essere una pa-rola negativa: ci sono anche le crisi di cre-scita». Ma quando le cose vanno male di-venta una parola parassita, che rovina iconcetti a cui s’abbarbica. «Siamo in unodi questi periodi pessimisti. Lo si vede dalmutamento di significato di una paroladerivata da crisi: criticità. Dovrebbe volerdire: capacità di usare senso critico. Inve-ce è utilizzata ormai solo come sinonimodi punto debole. Una forza è diventatauna fragilità».

Il gelido vento della paura fa diventarele parole fragili come la superficie ghiac-ciata di uno stagno. Abbiamo provato adomandare quali parole useremo, qualisostantivi ci servirà avere a portata di ma-no l’anno prossimo, a un piccolo panel diosservatori della società. Nel vocabola-rietto che abbiamo raccolto prevalgonodue generi di parole: quelle che finisconoin — one, e quelle che finiscono in — à. Leprime sono le parole della paura: reces-sione, deflazione, stagnazione. Le secon-de sono le parole della controffensiva: so-

brietà, solidarietà, creatività. Parole vi-ziose contro parole virtuose. La guerra ci-vile del dizionario. Per abitudine profes-sionale, la psicologa Anna Oliverio Ferra-ris preferisce le parole reattive a quellepassive, infatti per l’anno prossimo lepiacerebbe veder trionfare resilienza,che però riposa ormai nelle soffitte deidizionari, quindi accetta il sinonimopiù comprensibile di forza d’animo:«Avremo bisogno tutti di un Io più forte,e non lo otterremo descrivendo la crisicon le parole della crisi: chi parla solo illinguaggio della crisi resta fermo al “quiè tutto uno schifo”». Però aggiunge che«non è un buon segno quando sono piùimportanti le parole dei fatti. Nella miacittà, Biella, se vuoi criticare qualcunodici “è uno che parla”». Il suo ottimismodella volontà lessicale include moltilemmi accentati: flessibilità, creatività,«parole che producono cose, anticorpisociali». Sconsigliate, vietatissime tuttele parole della politica, il regno di “quel-li che parlano”: «Smetterei di usare an-

che casta: descrive una realtà ma noncrea un futuro».

Chissà qual è il futuro di casta, sul di-zionario: a giudicare dalle cronache, for-se è un passato: tangentopoli, mani puli-te. «No, non credo che torneranno le stes-se parole di allora», risponde l’economi-sta Michele Salvati, addolorato per latempesta che scuote il Partito democra-tico in cui crede: «Non è lo stesso scena-rio, non c’è lo stesso clima. Forse propriosu questo nascerà una di quelle paroleche ora sono imprevedibili». Visto che inomi propri non sono esclusi dal gioco, ilsociologo Domenico De Masi prova abuttare lì, illuministicamente, Monte-squieu: come sinonimo di separazionedei tre poteri, «ma oggi la terna è cambia-ta, oggi si chiamano: economico, media-tico, politico», e si capisce chi ha in men-te. Un nome proprio, perché quelli co-muni gli sembrano sdruciti. «Prenda eti-ca: potrei anche dire che sarà una parolachiave del 2009, ma perché si usa tantonell’Italia di oggi? Perché prevale il suo

contrario. Usiamo parole che sono l’op-posto di quel che pensiamo, siamo unpopolo di trasgressori che adora parlaredi santità».

Se è per questo, alcune parole della po-litica, di quelle cioè che rimbalzano comeun tormentone nei titoli dei tigì di primasera, dovrebbero essere squalificate perdoping. Un uomo di fede come EnzoBianchi, priore del monastero di Bose, eun politologo anti-ideologico come il di-rettore del Mulino Piero Ignazi, separata-mente convergenti, denunciano la piùdopata degli ultimi tempi, dialogo, quasicon le stesse parole: «Finta, da abolire, sipronuncia la parola per negare la cosa» (ilprimo); «Banale e ipocrita, si usa in realtàper ottenere il contrario» (il secondo).Anche padre Bianchi è a favore delle pa-role volonterose, e come potrebbe nonesserlo nei suoi abiti: «Mi dispiacerebbeveder prevalere parole che nutrono ladittatura delle emozioni. Parole comeimpoverimento, ad esempio, sembranofatte apposta per paralizzare ogni reazio-

MICHELE SMARGIASSI

24 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28DICEMBRE 2008

Come chiamarel’anno che verrà

LE IMMAGINI

Le parole che illustrano queste

pagine

sono ricavate

da Abc con fantasia

di Bruno Munari, un set

di linee dritte e curve

per costruire le lettere

dell’alfabeto

(Edizioni Maurizio Corraini)

I disegni sono

di Giorgio Carpinteri

la copertina Alcune parole ormaici sono familiarie continueremoa usarle, altrele useremoa sproposito, altreancora nascerannoa sorpresa e vivrannodi vita propria

Alle soglie del 2009abbiamo chiestoa esperti e studiosicome descriveremoil mondo prossimoventuroTra significatiperduti, ritrovati,ambigui e l’eternoscontro tra la libertàdel linguaggioe il potere

Repubblica Nazionale

(segue dalla copertina)

Che non tutti i dizionari concordano nel datare una parolae che ci sono parole già note che nel tempo possono pren-dere nuovi significati e nuova importanza (basti pensare

che sino a metà degli anni Novanta la parola sito era da conside-rarsi quasi arcaica, o tecnica per discipline come la balistica o labiologia). Seconda decisione: si considerano solo le parole cheancor oggi fanno parte del lessico italiano fondamentale: quellamanciata di vocaboli che ricorrono e formano il novanta per cen-to dei nostri scritti e discorsi (sono poco più di quattromilacin-quecento per il dizionario Zingarelli, della Zanichelli, e circa sei-mila, divisi in fondamentali, di alta disponibilitàe di alto uso, peril Grande Dizionario Italiano dell’Uso di Tullio De Mauro, Utet:le due opere su cui abbiamo svolto il gioco).

Diciamo subito che il primo decennio, quello che va dal 1900al 1909, ci riserva una grande sorpresa. È il decennio di anarcoi-de, agnosticismo, apolitico, aspirina, borsavalori, motocicletta,trucco (inteso come artificio) e turismo, ma è anche il decennioin cui gli italiani, si suppone molto pochi, incominciano a parla-re di televisione: a volte le parole nascono prima delle cose.

Gli anni Dieci, con il loro bagaglio politico (bolscevico, fasci-smo), sociale (autoveicolo, centravanti, scoutismo), ci hanno re-galato soprattutto cinema, nonché radio. Arbitrariamente sce-gliamo: vitamina. Gli anni Venti portano autostrada, pallacane-stro, campeggio: ma soprattutto tuta, divisa prima costrittiva eora simbolo di tempo libero. Gli anni Trenta sono quelli di fan egol: in ottemperanza all’autarchia linguistica allora in voga ci ri-volgeremo a un termine coevo, e intermedio fra questi: tifare. Glianni Quaranta sono divisi fra la tragedia dell’atomica e la buonanovità dell’antibiotico. Per distrarci fra la catastrofe e la salvezzasceglieremo fumetto. Gli anni Cinquanta hanno un altro sapore:supermercato, asciugacapelli, telegiornale, jeans, autostop. Ma

come non scegliere la plastica? Negli anni Sessanta si affaccia l’al-tro significato di trucco (quello di maquillage), come il primo de-stinato all’altissimo uso dei parlanti della lingua italiana. Ma frastereo e telefonino (non ancora il cellulare, ovviamente), fra can-tautore e scongelare, persino l’epocale mini dovrà lasciar passa-re le prime attestazioni di computer.

Gli anni Settanta sono dominati dalla lattina (di cui però En-nio Flaiano aveva già parlato nel 1947) e dal modulo, nel nuovosenso di elemento singolo di una struttura (come per il modulolunare, o per il modulo abitativo). Si sentono anche per la primavolta i nomi del telefilm e del telecronista, ma i dizionari concor-dano nel dire che la parola a tutt’oggi più frequente tra quelle na-te allora è pennarello. Anzi, incrociando i due strumenti lessicaliche stiamo usando, è l’ultima parola ad altissima frequenza chesi riscontra. Gli ultimi decenni del Novecento, infatti, tanto sonostati prodighi nelle invenzioni anche linguistiche tanto poco so-no riusciti (almeno per il momento) a imporre le loro creature allessico comune più condiviso, cioè a quella porzione del patri-monio di parole che, secondo i calcoli di Tullio De Mauro, è l’os-satura dei discorsi e degli scritti italiani. A questa ristretta élite diparole gli anni Ottanta hanno contribuito con i soli anglismi ab-breviati di cd e cd-rom. Negli anni Novanta c’è solo Internet.

Rimettiamo in fila le nostre scelte: televisione, vitamina, tuta,tifare, fumetto, plastica, computer, pennarello, cd, Internet. Det-to che chiunque avrebbe scommesso in una minore anzianità ditelevisionee in una maggiore di pennarelloo tuta (sorprese dellabizzarra storia delle parole), ne viene un ritratto totalmente pri-vo di politica, di automobilismo e meccanica e con più intratte-nimento e, soprattutto, tecnologia del plausibile. In parte dipen-de dall’arbitrarietà del nostro gioco, nelle sue regole e nel modoin cui l’abbiamo condotto. Ma se fosse, invece, che le nostre pa-role non coincidono con quello che abbiamo in testa? O quelloche pensiamo di avere in testa?

ne positiva attraverso la paura». Doven-do scegliere in positivo, il priore votereb-be anche lui qualche parola in — à, ma sirende conto di quanto siano deboli; allo-ra dopo un minuto di meditazione nesceglie una insolita: «Orizzonte: la lineache divide quel che vediamo da quel chepossiamo solo immaginare». Un auspi-cio, questo, non un pronostico. Può an-che darsi che si parli di orizzonti (cupi) suigiornali prossimi venturi, ma per Ignazi«bisogna essere concreti: temo proprioche tra le parole più usate ci saranno, ahi-noi, licenziamenti e debiti». «Ammortiz-zatori, pensioni», completa l’elenco Sal-vati. In positivo? Ignazi ne ripesca una daun vecchio vocabolario politico: alterna-tiva.

L’esperienza però insegna che alle pa-role, paurose o speranzose che siano,non si comanda. I lettori di Repubblica.ithanno da poco votato quelle che secon-do loro meglio descrivono il 2008: in cimaalla classifica non ce n’è nessuna che fos-se anche solo di striscio prevedibile nel

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 25DOMENICA 28DICEMBRE 2008

STEFANO BARTEZZAGHI

Il Novecento da “Vitamina” a “Internet”

dicembre dell’anno scorso, quando ma-gari avremmo scommesso su olimpiadio sicurezza. Ai primissimi posti si sonopiazzate due parole imposte dall’alto,due parole di potere: l’impertinentecomplimento abbronzato di Berlusconia Obama; e l’insolente epiteto fannullo-ni, lanciata sul mercato delle parole da unserio studioso, Pietro Ichino, ma diven-tata best-seller solo quando è stata bran-dita dal ministro Brunetta come un lan-ciafiamme contro gli impiegati statali.Sconfitte però entrambe sul filo di lana,questo è consolante, da una contro-pa-rola creata dal basso: l’onda degli stu-denti anti-Gelmini. Parole virtuose comebellezzahanno invece raccolto solo spic-cioli di gradimento. Ma è ovvio: le “paro-le ministeriali”, con l’accesso che hannoall’amplificatore mediatico, partonosempre favorite nella corsa, anche quan-do nascono da una battuta senza inten-zione, ricordiamoci i bamboccionidi Pa-doa Schioppa. «La politica ha sempreproposto parole nuove», spiega De Mau-

ro, «ora sono sprezzanti, ma in altri tem-pi potevano essere feconde. Purtroppol’austeritàdi Berlinguer fu infelicementescelta: sarebbe stata più bella ed efficacesobrietà». Tradotta nel suo “falso amico”anglofono austerity, degradò a marchiobanale delle domeniche senz’auto. Daescludere un suo revival: potrebbe persi-no sembrare troppo morbida di fronte al-le rinunce che ci vengono prospettate.

Ma se è una crisi solida, di cose, di be-ni, vogliamo provare a dare nomi di cosealla crisi? Automobile, propone Giam-paolo Fabris, studioso dei consumi. Os-sia l’oggetto concreto che sta all’incrociofra due parole più astratte: «Spendere,l’imperativo che ci verrà proposto con in-sistenza come grande rimedio alla reces-sione; e energia, la materia prima di cuisentiremo sempre più il bisogno e la scar-sità». Comprare automobili e risparmia-re carburanti, qualcosa non torna. Maautomobileè candidata anche da Rober-to Vacca, scienziato, divulgatore, futuro-logo. Una parola che vide giorni miglioriquando era associata al benessere. «Neriparleremo tantissimo, perché è adessoche l’auto si gioca tutto: o cambia o muo-re, proprio come il sistema produttivo dicui è stato il prodotto-simbolo». Nel suopronostico lessicale, Vacca mette altreparole della crisi: ad esempio Pil, «il ter-mine economico-politico più citato emeno compreso». Poi la tempra del futu-rologo apocalittico di Medioevo prossi-mo venturo, profetico romanzo fantapo-litico datato 1971, la spunta: «Spero pro-prio che la parola che sentiremo di più nel2009 non sia guerra». Probabilità? «Hosolo una speranza: il mio “medioevo”esplodeva da una condizione di eccessi-va complessità, ma la complessità è figliadella ricchezza e dello sviluppo, la crisiinvece è una grande semplificatrice».

Forse ha ragione: l’orizzonte che piacea Enzo Bianchi sembra restringersi comei budget delle multinazionali. Per trovareun osservatore che peschi le sue parolenel vocabolario della globalizzazione bi-sogna arrivare a uno che parla quella lin-

gua per mestiere, Lucio Caracciolo diret-tore di Limes. «Voterei Obama: la novità èlui, il mondo s’attende molto da lui, quin-di il suo nome risuonerà sempre sullascena mondiale». C’è solo da sperare, ag-giunge, che non se la giochi con un altronome proprio, di paese: Iran, perché vor-rebbe dire che i timori di Vacca hannotrovato un catalizzatore. Vogliamo anda-re fino in fondo e sfidare il tabù? «Pensoproprio che una delle parole che torne-ranno sulle prime pagine sarà atomica».Più come bomba che come energia. Iran,India-Pakistan. Tensioni, corsa alle ri-sorse scarse. «Gas sorpasserà petrolio»,scommette Caracciolo.

Il cerchio, insomma è stretto. Crisi è lamadre di tutte le parole paurose, e si pre-vede un anno molto prolifico. Per scan-sarla serve una specie di ammutinamen-to morale: l’ultima provocatoria parolache ci offre Enzo Bianchi è silenzio. Op-pure un atto di ottimistica disinvoltura:«Se vuoi vincere alle corse, gioca sui ca-valli meno favoriti», propone De Mauro,che è un appassionato lessicografoesploratore. A lui piacerebbe che esplo-dessero parole ora completamente out-sider come connettoma, la mappa delpensiero umano in fase finale di traccia-tura, o extimità, l’inverso di intimità, oenergicoltore, il contadino eco-compati-bile. Ma le parole non decidono da sole ilproprio destino né il proprio senso: la ge-stione del nostro vocabolario non dipen-de «da quanti significati possiamo darealle parole», come pensa l’ingenua Alicedi Lewis Carrol, ma, come le rivela l’odio-so Humpty Dumpty, «dipende da chi co-manda».

Ci sono due generi:quelli che finisconoin “one” e quelliche finiscono in “à”I primi sono la paura:recessione. I secondila controffensiva:solidarietà

Repubblica Nazionale

26 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28DICEMBRE 2008

il fattoIdeologi

Èmorto l’ottantunenne Samuel Huntington, intellettualeamericano, già professore ad Harvard, diventato celeberrimoper il suo libro sullo “scontro delle civiltà”che precedettedi cinque anni l’attentato alle Torri gemelle. Spesso citatoa sproposito, fu un conservatore rigoroso, lontano dai “neocon” e un ferreo critico dell’impresa militare in Iraq

WASHINGTON

In un mondo che sembra avereperso ogni senso e ci confonde eterrorizza con la sua irrazionalecomplessità, il successo dei

grandi semplificatori, come il professo-re americano Samuel Huntington mor-to ieri a 81 anni, è assicurato. Con il suoarticolo del 1993, poi divenuto libro tra-dotto in 29 lingue nel 1996, nel qualeaveva ipotizzato che il futuro apparte-nesse allo «scontro delle civiltà», Islamcontro Occidente, Cina contro India,Africa e America Latina contro Russiaortodossa, tutti contro tutti nel nomedei propri altari e della propria cultura,Huntington sembrò offrire a un’Ameri-ca e a un Occidente sbigottiti dopo l’11settembre, la formula magica per capi-re l’inconcepibile. E per rispondere alladomanda che George Bush, e tanti deisuoi concittadini,si posero quel gior-no: «Perché ciodiano?».

La risposta chefece di questo intel-lettuale spesso pro-vocatorio, garbata-mente acido, moltoprofessorale e tantodetestato quantovenerato, un feno-meno reso istanta-neamente globaledalla coincidenzafra l’attacco del2001 e i proclami diOsama bin Laden, ètalmente semplice echiara da avere en-tusiasmato i prose-liti e insospettito icritici. «La mia ipo-tesi — scrisse su Fo-reign Affairs nel1993 — è che la cau-sa fondamentale diconflitti nel nuovomondo emerso dal-la fine del comuni-smo, sarà culturale. Lo scontro delle ci-viltà dominerà la politica globale e le lineedi scontro non saranno fra potenze e na-zioni stato, ma fra civilizzazioni. Le ideo-logie e gli interessi nazionali sono finiti, alloro posto si formeranno gruppi di nazio-ni e di popoli legati dalla comune religio-ne o civiltà».

Un’ipotesi che parve materializzarsicon lancinante evidenza quella mattinadi settembre, quando diciannove figli delmondo arabo e musulmano, inviati daun’organizzazione di mistici del terrorechiamata al Qaeda, dichiararono guerra auna nazione, gli Stati Uniti, senza ragioniterritoriali o ideologiche. Ma soltanto percondurre quella che Osama bin Ladenchiamò, quasi avesse letto Huntington,«una guerra di civiltà». «Bin Laden è statoil miglior agente pubblicitario che Hun-tington avesse potuto avere», commentòun altro politologo americano ovviamen-te invidioso, Benjamin Barber, autore dellibro Guerra santa contro McMondo.

Il professore harvardiano, che per duevolte si era vista respingere la candidatu-ra all’Accademia delle scienze americanacon l’accusa di praticare «una falsa scien-za utilizzando falsi modelli matematici»,

Il crociato del dopo-guerra freddaVITTORIO ZUCCONI

Per un casonon si imbarcòsull’aereoche si sarebbeschiantatosul World TradeCenter. L’ultimacampagnaper contenerel’immigrazione

BATTAGLIAQui sopra, un recente ritratto

di Samuel Huntington

A centro pagina, un’antica

raffigurazione di un episodio d’armi

della Quinta crociata

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come spiegò il relatore d’opposizione,ebbe la propria rivincita. Non soltantosull’Accademia, ma sul proprio allievoprediletto, quel Francis Fukuyama cheaveva in quello stesso periodo ottenutoun sensazionale trionfo mondiale ipotiz-zando l’esatto contrario, che la fine del-l’Urss avrebbe comportato «la fine dellastoria» e il mondo si sarebbe avviato aun’era di collaborazione e di progressodiffuso, forse un po’ noiosa, ma pacifica.«Piacerebbe anche a me che Francis aves-se ragione — lo bocciò il suo ex relatore ditesi — ma purtroppo si sbaglia».

La guerra nei Balcani, condotta nel no-me di supremazie etniche lungo le crepedella diverse «culture» affastellate in Ju-goslavia, e poi l’11 settembre, garantiro-no il successo di Huntington e la smenti-ta, in verità fin troppo ovvia, all’ottimi-smo di Fukuyama, passato poi nella pat-tuglia dei neocon prima di distaccarsenedopo il fiasco iracheno.

Indimostrabile, se non episodicamen-

te, e irrisa da chi, come Graham Allisoncollega a Harvard, fa notare che i conflit-ti più acuti avvengono semmai «all’inter-no delle civiltà e delle culture, non all’e-sterno», la formula Huntington divenneun magnete irresistibile per politicantiche cercassero qualche supporto intel-lettuale alto al proprio localismo. Parolecome «valori» e «identità» divennero ne-gli anni Novanta, e soprattutto nel nuovosecolo, la moneta corrente e inflazionataspacciata in propagande elettorali e inautopromozioni pubblicitarie. Anche seHuntington rifiutò sempre di nobilitarel’attacco del 9/11 come «guerra di ci-viltà».

Con la sua enfasi semplificatrice, mavidimata da credenziali accademiche eda una lunga carriera anche nell’Ammi-nistrazione americana come consulentedel Pentagono durante il Vietnam, quan-do sosteneva appunto che la vittoria sa-rebbe arrivata soltanto raggruppandonegli stesi villaggi abitanti con legami di

famiglia e di tradizioni, Huntington die-de autorità e gravitas a tutti gli orec-chianti del localismo e della xenofobiache si appropriano del suo pensiero inOccidente. Lui stesso, negli ultimi annidella vita, aveva rivolto all’interno degliStati Uniti la lente dello «scontro delle ci-vilità», appoggiando pubblicamente leproposte per ridurre drasticamente il nu-mero di immigrati legali, dagli 800 mila diadesso a 500 mila. Per impedire che l’A-merica stessa divenga «terra di scontrofra civiltà entro i proprio confini».

Era in fondo molto poco «americano»,nel suo profondo pessimismo storicoorwelliano («il futuro dell’umanità è sol-tanto dolore» dice uno dei protagonisti di1984) rispetto all’ottimismo di Fukuya-ma, e in totale dissenso da Kissinger, fe-dele al «concerto delle potenze» metter-nichiano, Huntington non fu mai assimi-lato ai neocon di Paul Wolfowitz, che do-minarono il pensiero ufficiale dell’Am-ministrazione nello shock dell’11 set-

tembre. Neppure George Bush, che pureaveva fatto propria la dottrina del «cam-bio di regime» accettò mai, pubblica-mente, la formula dello «scontro delle ci-viltà», preoccupandosi sempre, a suogrande merito, di distinguere fra il «fon-damentalismo» e l’Islam, quel mondoche invece Huntington definiva come«sporco di sangue fuori, perché le sue vi-scere sono gonfie di sangue».

Troppo idealistici, dunque troppo ot-timisti per lui, erano i neocon e Bush nel-la loro illusione della «democrazia espor-tabile» come vaccino preventivo controle guerre di civiltà, che lui consideravainevitabili, con una punta di fatalismostorico e forse privato. Fatalismo che eb-be una conferma proprio la mattinadell’11 settembre 2001, quando, anzichéandare a lezione a Harvard, decise di vo-lare a Washington. «Mi imbarcai sull’ae-reo che decollò prima del mio, il volo 11dell’American Airlines, quello dirottatosulle Torri Gemelle».

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 27DOMENICA 28DICEMBRE 2008

Sobbalzò quando provai a de-finirlo un neoconservatore.Non amava essere messo nelmucchio con Paul Wolfowitz,William Kristol e Richard Per-le, cioè quei falchi che ebbero

un ruolo cruciale nel teorizzare la guerrain Iraq. Nell’ultimo colloquio che ebbicon lui per Repubblica, nel 2004, volle chemettessi nero su bianco la sua presa di di-stanza. «Io mi definisco un conservatoretout court — mi disse Samuel Hunting-ton — Anzi, scriva pure che sono un con-servatore all’antica. Il termine neocon siriferisce a persone e idee impegnate apromuovere un’economia liberista e a ri-durre l’intervento dello Stato. In politicaestera negli anni Settanta e Ottanta i neo-con predicavano il braccio di ferro conl’Urss. Ispirarono Ronald Reagan e Mar-garet Thatcher. Dal crollo dell’UnioneSovietica in poi, essi hanno voluto un’A-

Ma con Bush non fu mai d’accordoFEDERICO RAMPINI

I LIBRI

LA TEORIA

“La prossima guerra,

se ci sarà,

sarà una guerra

tra civilta”. La prima volta

che Huntington

scrive l’abbozzo

della sua teoria

è in un articolo del 1993

su Foreign Affairs

IL SAGGIO

Nel saggio Lo scontro

delle civiltà e il nuovo

ordine mondiale

del 1996 Huntington

approfondisce

la sua teoria e parla

di "faglie culturali"

contrapposte come

Occidente e Islam

L’IMMIGRAZIONE

Il suo ultimo saggio

importante è Who

Are We? (Chi siamo?)

del 2004. Huntington

lancia l’allarme

sull’immigrazione

incontrollata in America

e i pericoli

per l’integrazione

L’ALLIEVO

Uno dei migliori allievi

di Huntington è Francis

Fukuyama, un altro

politologo che ha coniato

un’espressione divenuta

uno slogan famoso

come quello di scontro

di civiltà: il concetto

di “fine della storia”

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ES

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IVE

S

merica attiva nel diffondere la democra-zia e l’economia di mercato in tutto ilmondo. Un conservatore tradizionalecome me vede il mondo in termini diequilibrio di poteri, e non ha simpatie perle potenze imperiali».

Più ancora dell’etichetta neocon, ri-cordo che lo preoccupava il processo mo-rale a cui era stato sottoposto dopo l’11settembre 2001. La sua più celebre intui-zione era stata rovesciata contro di lui, di-ventando quasi un corpo di reato. L’opi-nione progressista e liberal lo additavacome il vero ispiratore dei toni da crocia-ta usati da George Bush nelle prime rea-zioni dopo l’attacco alle Torri gemelle. Ilsuo libro del 1996 Lo scontro delle civiltà eil nuovo ordine mondiale (pubblicato inItalia da Garzanti), fu riletto come unateorizzazione dell’inevitabilità del con-flitto tra Occidente e Islam. Come spessoaccade in questi casi, il successo ha unprezzo: la sua opera più famosa venne ci-tata regolarmente, e polemicamente, da

chi non l’aveva mai letta. Il suo “scontrodelle civiltà” venne riscoperto come laclassica profezia che si autoavvera: l’ideache il conflitto tra “noi” e “loro” è inelut-tabile, quindi in ultima istanza la visionedi Bush di una guerra mondiale tra il benee il male. Huntington mi offrì una confu-tazione sdegnata. «Nessuna profezia ècapace di avverarsi da sola, tutto dipendeda come la gente reagisce alla profeziastessa. Mi spiego: negli anni Cinquanta eSessanta molti leader politici intelligenti,diversi diplomatici ed esperti militari pre-vedevano l’inevitabilità di una guerraatomica tra Stati Uniti e Unione Sovietica.La guerra non avvenne perché quella pro-fezia fu presa così sul serio da provocareuna serie di rimedi preventivi e contromi-sure: politiche di controllo degli arma-menti, una linea rossa di comunicazioned’emergenza tra la Casa Bianca e il Crem-lino, più alcune regole di comportamen-to che bene o male furono seguite dalledue superpotenze durante la guerra fred-

da. Nel mio saggio sullo scontro delle ci-viltà ho indicato alcuni conflitti che all’e-poca apparivano minori, e ho avvertito ilpericolo che essi degenerassero fino a di-ventare grandi conflitti. Concludevo quellibro proprio esortando i governi ad agireper prevenire quello scenario».

A conforto di quelle parole ricordo lasua netta dissociazione dal conflitto inIraq, una scelta per la quale Huntingtonruppe i legami con quasi tutta la destraamericana (rimase però legato fino all’ul-timo a Francis Fukuyama, il suo allievopiù fedele anche nella condanna della po-litica estera di Bush-Cheney). Quella rot-tura Huntington ebbe il coraggio di con-sumarla in tempi non sospetti: nel 2002,quando l’America era ancora compattanel sostenere il suo presidente, e perfinomolti leader democratici (da Hillary Clin-ton in giù) si apprestavano ad appoggiarel’invasione di Bagdad. «Esattamente unanno prima che cominciasse l’attacco —mi disse — io mi opposi ai piani che già ve-

nivano discussi alla Casa Bianca. Alloraprevedevo che avremmo avuto non unama due guerre. La prima, contro Saddam,l’avremmo vinta rapidamente. La secon-da guerra invece ci avrebbe opposti al po-polo iracheno». Altrettanto decisa fu lasua condanna di Guantanamo e Abu Gh-raib. «Le fotografie delle torture, in parti-colare le umiliazioni sessuali, rafforzanonei Paesi arabi la convinzione di esserevittime, il senso di rivolta contro un Occi-dente depravato».

Pensatore austero, analista rigorosodelle relazioni internazionali, Hunting-ton non era a suo agio nel ruolo di star.Dopo aver rotto con l’intellighenzia di de-stra non fece nulla per accattivarsi le sim-patie della sinistra. Al contrario, il suo ul-timo saggio importante, Who Are We?(Chi siamo?) — gli creò intorno un vuotodi consensi. Quel grido di allarme controil pericolo che un’immigrazione incon-trollata alterasse l’identità e i valori dellanazione americana non era accettabile in

campo democratico, ma neppure tra lamaggioranza dei repubblicani (da Bush aMcCain tradizionalmente favorevoli al-l’immigrazione perché sensibili agli inte-ressi delle imprese).

Ma anche quel saggio fu in larga partefrainteso. Che non fosse un banale ma-nifesto xenofobo o isolazionista lo dimo-stra ciò che Huntington mi disse sull’im-migrazione islamica in Europa. «La bas-sa crescita demografica europea non vilascia alternativa, se non quella di cerca-re di assimilare gli immigrati. L’espe-rienza americana del Novecento offre avoi europei delle lezioni importanti perle politiche di integrazione. Gli immigra-ti che provengono da culture diverse de-vono essere dispersi nel territorio. Biso-gna spezzare le loro comunità, allo sco-po di diffonderli e mescolarli con il restodella popolazione, negli stessi quartieridove abitate voi. In passato per gli immi-grati cattolici o ebrei in America la di-spersione ebbe un ruolo notevole». Ri-maneva convinto però che un blocco deiflussi in entrata potesse diventare neces-sario in certi periodi storici. «L’assimila-zione degli immigrati che erano giuntiqui in America dall’Europa del Sud o del-l’Est prima della Prima guerra mondiale,fu aiutata dal fatto che negli anni Venti cifu un vero e proprio blocco delle frontie-re. I flussi migratori verso gli Stati Unitifurono stoppati per legge durante un pe-riodo consistente. Quindi quegli immi-grati che c’erano già, anziché essererafforzati dal costante arrivo di altri con-nazionali, dovettero fondersi nella so-cietà americana».

Dopo l’11 settembresi vide in lui il teoricodell’inevitabilitàdel conflitto tra Islame Occidente.Luinegava con forza:“La mia è solo unamessa in guardia”

Repubblica Nazionale

le rovine, degli stagni e dei traghetti, e ma-gari sul cocuzzolo un menhir o un circolodi pietre druidiche: ecco un’inesauribilefonte di seduzione per ogni uomo con dueocchi per guardare e due soldi d’immagi-nazione per capire. Nessun bambino puòfare a meno di poggiare la testa sull’erba di-pinta di una mappa e di sbirciare nell’infi-nitesimale foresta per figurarsela popola-ta di magiche armate. Così, in qualche mo-do, mentre indugiavo sulla mia mappa deL’Isola del Tesoro, i personaggi del futuro li-bro cominciarono ad occhieggiare nellaboscaglia immaginaria. I volti abbronzatie le armi scintillanti di costoro facevano ca-polino da zone inaspettate, mentre anda-vano avanti e indietro combattendo e allacaccia di un tesoro nascosto, in quei pochicentimetri quadrati di proiezione piana.

Il mio successivo ricordo è l’immaginedei fogli sui quali ero intento a stendere l’e-lenco dei capitoli. Quante volte l’avevo fat-to in altre occasioni e la cosa non avevaavuto seguito! Tuttavia adesso sembravavi fossero possibilità di successo. Dovevaessere una storia per ragazzi: niente psico-logia né bello stile. E avevo un ragazzo aportata di mano per usarlo come pietra diparagone. Le donne erano escluse. Nonero capace di manovrare un pesante bri-gantino (questo l’Hispaniola doveva esse-re), ma ritenevo che veleggiando come sitrattasse di una piccola goletta sarei riusci-to a cavarmela senza infamia. E poi ebbiun’idea per John Silver, grazie alla quale miripromettevo parecchio divertimento:prendere a modello un mio amico […],privarlo di ogni sua buona qualità e di ogni

più leggiadro tratto del carattere, lasciarlocon nient’altro che la sua vitalità e il suo co-raggio, la sua prontezza e il suo acume, etutto ciò con le sembianze di un rozzo ma-rinaio. Questo tipo di amputazione psichi-ca è, credo, un modo alquanto frequente di“creare un personaggio”, anzi al dunque èl’unico modo. […] Bisognerà poi inseriredelle immaginarie particolarità seconda-rie, preferibilmente tutte negative. Coltel-lo alla mano, si dovranno comunque indi-viduare e sfoltire le arborescenze inutilidella natura del personaggio, ma del tron-co e dei pochi rami superstiti bisognerà es-sere assolutamente convinti.

In una fredda mattina di settembre, ac-canto a un allegro focherello, mentre lapioggia batteva sui vetri, cominciai a scri-vere Il cuoco di bordo [The Sea Cook], que-

sto era il titolo originale. Avevo iniziato (efinito) un bel numero di libri, ma non ram-mento di essere rimasto seduto a lavoraread altro con maggiore soddisfazione. Delresto, non c’è da meravigliarsi, perché l’ac-qua rubata disseta di più. […] Non c’è dub-bio che il pappagallo della mia storia unavolta appartenesse a Robinson Crusoe.Non c’è dubbio che lo scheletro io l’abbiaprelevato da un racconto di Poe. Mi preoc-cupo poco di questo, sono sciocchezze edettagli. E nessun uomo può pretendere diavere il monopolio degli scheletri o l’esclu-siva degli uccelli parlanti. La palizzata, misi dice, deriva da Masterman Ready[di Fre-derick Marryat]. Può darsi, non me ne im-porta un fico secco. Alcuni utili scrittorihanno messo in pratica il detto del poeta:allontanandosi, costoro hanno lasciato

Stevenson

“Ogni uomo nasce con svariate manie: la mia, fin dall’infanzia,fu di trasformare serie di eventi immaginati in un gioco”Così Robert Louis Stevenson spiega, in un testo mai pubblicato

in Italia, la genesi del suo capolavoro. Tra pappagalli rubatia Daniel Defoe, scheletri a Allan Poe e molti oggetti “di proprietàdi Washington Irving”, ecco il racconto di un racconto

CULTURA*

28 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28DICEMBRE 2008

e l’isola che non c’era

ROBERT LOUIS STEVENSON

Per la verità L’Isola del Tesoronon è stato affatto il mio primolibro, in quanto non sono uni-camente un romanziere. Tut-tavia, sono ben consapevoleche il mio ufficiale pagatore, il

Grande Pubblico, considera altri miei la-vori con indifferenza, se non con avversio-ne. Si interessa di me solo come di un per-sonaggio familiare e consueto. E quandomi si chiede di parlare del mio primo libro,non ci sono dubbi che s’intenda il mio pri-mo romanzo.

Era destino che prima o poi ne portassia termine uno. Ed è superfluo chiedereperché. Ogni uomo nasce con svariate ma-nie: la mia, fin dall’infanzia, fu di trasfor-mare serie di eventi immaginati in un gio-co; non appena fui in grado di scrivere, di-venni buon amico dei fabbricanti di carta.Risma dopo risma, passai dalla stesura diRathilleta quella de La rivolta di Pentland,da Il perdono del re(ovvero Il parco di Whi-tehead) a Edward Daven, da Una danzacampestre a Una vendetta nel West. Miconforta pensare che quella carta adesso ècenere ed è stata riassorbita dalla terra. […]

Chiunque può scrivere un racconto —un brutto racconto, intendo — chiunquepossieda sufficiente intraprendenza, car-ta e tempo; pochi però possono sperare discrivere un romanzo, anche se brutto. Lalunga distanza uccide. Il romanziere auto-revole è libero di portare il suo romanzo inalto in alto e poi di lasciarlo affondare, cosìcome di passare giorni a lavorarci senzacostrutto. E può non scrivere più di quan-to abbia agio di asciugare con la carta as-sorbente. Non così il principiante. La na-tura umana esige certi diritti: l’istinto — l’i-stinto di conservazione — proibisce chetaluni (non allietati e sostenuti dalla con-sapevolezza di una precedente vittoria)debbano sopportare la miseria dell’insuc-cesso letterario oltre un breve periodo. Lasperanza va in qualche modo alimentata.Il principiante deve poter contare sulla di-rezione del vento o scovare una vena for-tunata, oppure riuscire a trovarsi in uno diquei momenti felici in cui le parole vengo-no da sole e le frasi raggiungono un loroequilibrio. E dopo aver trovato l’incipit,che terrificanti occhiate in avanti bisognalanciare prima che il libro sia finito! Perlungo tempo la direzione del vento non de-ve cambiare, la vena non deve interrom-persi, per lungo tempo bisogna padroneg-giare la raggiunta qualità dello stile, perlungo tempo le tue marionette devono ri-manere vive, sempre coerenti, sempre di-namiche! [...]

Fu nell’anno predestinato che tornai avivere con mio padre e mia madre a Kin-naird, al di là di Pitlochry. Mi inoltrai a pas-seggio nella brughiera rossa, a fianco deidorati campi di stoppie. Accadde che l’ariasferzante e pura dell’altopiano vivificassela mente mia e di mia moglie, benché nonci ispirasse nel vero senso della parola. In-sieme, lei ed io, progettammo un volumecongiunto di racconti del terrore. Mia mo-glie scrisse L’ombra nel lettoe io sfornai Ja-net la stortae una prima versione di AllegriCompari. Amo l’aria del mio paese natale,ma lei non ama me: la conclusione di quelgradevole periodo fu un raffreddore,un’infezione della vescica e il trasferimen-to a Castleton di Braemar. Lassù soffiò pa-recchio vento e piovve in proporzione. Ilclima del mio paese era più sgarbato del-l’umana indifferenza e dovetti adattarmi atrascorrere la maggior parte del tempo trale mura di una casa lugubremente nota co-me il Cottage dell’Ultima Signorina Mc-Gregor.

E adesso, attenti a come il destino ci mi-se lo zampino. Nel Cottage dell’Ultima Si-gnorina McGregor c’era uno studente, tor-nato a casa per le vacanze e desideroso di«qualcosa di roccioso su cui rompersi il ca-po». Non pensava alla letteratura, piutto-sto era l’arte di Raffaello cui rivolgeva le sueeffimere aspirazioni. Con l’ausilio di pen-na e inchiostro e di una scatola di acque-relli da uno scellino, aveva ben presto tra-sformato una delle stanze in una galleria didipinti. Il mio dovere immediato nei con-fronti di questa galleria fu di improvvisar-mene imbonitore. Ma a volte succedevache mi distraessi dal compito e mi acco-stassi al cavalletto del cosiddetto artistaper fare quattro chiacchiere con lui, e fi-nissi così per trascorrere il pomeriggio innobile emulazione, realizzando schizzi acolori. In una di queste occasioni, disegnaila mappa di un’isola. Aveva tonalità ricer-cate e d’effetto (almeno così pensavo). Lasua configurazione stimolò la mia fantasiaal di là di ogni dire: possedeva baie adatteall’attracco che mi davano altrettanto pia-cere di un sonetto. Con l’incoscienza delpredestinato intitolai il mio disegno L’Iso-la del Tesoro.

Mi si dice che esistono persone che nonhanno alcun interesse per le mappe, matrovo difficile crederlo. I nomi, la fisiono-mia delle zone boscose, il corso delle stra-de e dei fiumi, le impronte preistorichedell’uomo ancora nitide sulle colline e neifondovalle, le indicazioni dei mulini e del-

Repubblica Nazionale

ogni sera della sua vita, erano perenne-mente popolate di vascelli, locande, bri-ganti, vecchi lupi di mare e commerciantisu navi a vela. [...] Ne L’Isola del Tesoro ri-conobbe qualcosa di affine alle sue fanta-sie, era proprio il genere che lo entusia-smava. E così non solo ascoltava ogni vol-ta deliziato il capitolo giornaliero, ma si of-frì di collaborare. Al momento di rovistarenel baule di Billy Bones, mio padre tra-scorse un’intera giornata a stilare, sul re-tro di una busta, un inventario del suo con-tenuto, cui io mi attenni diligentemente.Alla “vecchia nave di Flint” il nome (Wal-rus) fu appioppato dietro sua personale ri-chiesta.

E adesso chi altri dovrebbe entrare inscena, ex machina, se non il dottor Japp,da quel principe travestito che è, per cala-re il sipario sulla requie e la felicità dell’ul-timo atto? Il dottor Japp portava in tascanon un corno o un talismano, bensì uneditore. […] Ci si accordò per rileggere lastoria dall’inizio, a beneficio del dottorJapp stesso. Da allora ho sempre avuto lamassima ammirazione per le doti critichedi costui, poiché quando si congedò portòcon sé il manoscritto, custodito nel porte-manteau, con l’intenzione di sottoporlo alsuo editore ed amico (e da allora anchemio) signor Henderson — il quale promi-se che lo avrebbe pubblicato nel periodi-co Young Folks.

Ecco, tutto sembrava dunque predi-sposto a tenermi su di morale: compren-sione, aiuto, e adesso anche un ingaggiosicuro. […]Ci lavoraiquindici giorni e sco-dellai quindici capitoli. Poi, ai primi para-grafi del sedicesimo, persi ignominiosa-mente la presa. La bocca secca, non avevopiù parole. E intanto le bozze dell’inizio miattendevano alla locanda “Hand andSpear”! Le corressi, rimanendo per la granparte del tempo in solitudine, passeggian-do per la brughiera di Weybridge, in mat-tine autunnali coperte di rugiada, com-piaciuto per quanto avevo già fatto e piùatterrito di quanto possa esprimere a pa-role per quanto mi restava da fare. Avevotrentun anni, ero capofamiglia ma avevoperso la salute e non ero mai stato in gradodi mantenermi da solo, non ero mai riu-scito a guadagnare duecento sterline l’an-no. Mio padre aveva da poco ricomprato efatto sparire le copie di un mio libro rivela-

dietro di sé impronte che forse un altro —e sono io l’altro! — avrebbe un giorno ri-percorso. È invece il debito con Washing-ton Irving a rodermi la coscienza, e giusta-mente, perché credo che il plagio rara-mente si sia spinto oltre. […] Billy Bones, ilsuo baule e parecchi dettagli materiali deimiei primi capitoli sono tutti, proprio tut-ti, proprietà di Washington Irving. Ma al-l’epoca non me ne resi conto: [...] mi sem-brava originale come il peccato e che miappartenesse come il mio occhio destro.

Avevo contato su un solo ragazzo, sco-prii invece di averne due tra il mio pubbli-co. L’altro era mio padre. Il quale avevapreso fuoco all’improvviso, con tutto il ro-manticismo e l’infantilismo della sua na-tura singolare. Le sue stesse fantasie, incompagnia delle quali si metteva a letto

Ha scritto Pietro Citati che Stevenson «rimase profondamente ragazzo, luiche come nessun altro può insegnare l’arte di diventare maturi». Questaverità, secondo cui non c’è saggezza senza la sapienza del gioco, appare

in tutta la sua evidenza in Il mio primo libro: L’Isola del Tesoro(My First Book: Trea-sure Island, apparso in The Idler nell’agosto 1894), fino ad oggi inedito in italia-no, in cui Stevenson racconta la genesi del suo capolavoro. L’ispirazione gli eravenuta durante un soggiorno sulle Highlands scozzesi, nello schizzare per purodiletto la mappa di un’immaginaria isola dei pirati, mentre era intento a far com-pagnia a un dodicenne aspirante pittore: Lloyd Osbourne, il figliastro di Steven-son stesso, e suo futuro collaboratore.

Il racconto di come si inventa un racconto, della difficoltà di mantenere unostile piano rispetto alla complessità del tema, dell’ansia di arrivare con soddisfa-zione alla fine, tutto questo nelle pagine autobiografiche di Robert Louis Ste-venson costituisce rivelazione della sua fucina mentale, in cui, come si è detto,sapere artistico e creatività infantile formano un fecondo tutt’uno. Confessavacon candore Stevenson che alcuni elementi de L’Isola del Tesoro — dalla figuradel capitano Billy Bones al pappagallo di John Silver, allo scheletro indicatore —li aveva rubati a man bassa: da Lo Scarabeo d’Oro di Poe, da Robinson Crusoe diDefoe e dai Racconti di un viaggiatoredi Washington Irving. Nessuno si scanda-lizzi, l’arte narrativa è qualcosa che va utilizzata non soltanto per farne esame cri-tico o conversazioni in salotto, ma anche per far progredire l’arte stessa.

D’altronde, l’immaginazione fanciullesca era dote della famiglia Stevenson,dal momento che il padre, Thomas, progettista di fari e inguaribile sognatore,suggerì il contenuto della cassa di Billy Bones (tabacco, sestante, pistole, con-chiglie, borsa di dobloni, mappa sigillata e carabattole varie). E Robert Louis eracome un pappagallo miracolosamente sapiente e ciarliero, in possesso di unbaule di tesori carpiti alla letteratura, alla vita e alla fantasia geografica, che ge-nerosamente dispensava ai lettori.

Probabile che in compagnia di quegli Stevenson padre e figlio, giovanili bi-ghelloni, l’unico vero rappresentante dell’infanzia, il dodicenne Lloyd, si sentis-se in minoranza. Del resto, è consueto che un ragazzino tenda ad apparire adul-to, specie se vicino ad adulti che possiedono la grazia creativa di un ragazzino.Tant’è che questa particolarità Stevenson la colse, e improntò sul figliastro la fi-gura di Jim, il punto di vista della storia, un adolescente che cerca di farsi stradanel mondo dei grandi. Per certi versi Jim Hawkins è assai più maturo degli altripersonaggi: non soltanto dei pirati, animati da bramosie primordiali, ma anchedel Signor Trelawney, egoisticamente puerile, e persino del Dottor Livesey, per-vaso da agonismo esistenziale. Forse tutto ciò ha qualcosa a che vedere col per-ché L’Isola del Tesoro al suo apparire a puntate (tra l’ottobre 1881 e il gennaio1882) sulla rivista Young Folksebbe modesto successo. Non era una novella peri bambini soltanto, era un romanzo per i ragazzi di tutte le età. Quando infatti fupubblicato in volume, nel 1883, l’acclamazione fu universale.

L’officina dei sogni di un ragazzo che non volle crescereGIACOMO SCARPELLI

tosi un fallimento; quello che stavo scri-vendo era forse destinato ad essere unnuovo e definitivo fiasco? Prossimo alla di-sperazione, strinsi i denti, e durante il viag-gio verso Davos, dove avrei dovuto tra-scorrere l’inverno, mi rivolsi a pensare adaltro e mi seppellii nella lettura dei roman-zi di Monsieur du Boisgobey.

Una volta a destinazione, un bel matti-no mi sedetti davanti alla mia storia in-compiuta. Ed ecco che all’improvviso essazampillò come si trattasse di una semplicechiacchierata. In seguito a questa secondaondata di felice creatività, di nuovo al rit-mo di un capitolo al giorno, terminai L’Iso-la del Tesoro. […] Ma le peripezie de L’Iso-la del Tesoronon si erano ancora conclusedefinitivamente. Avevo ridisegnato lamappa. La mappa era l’elemento più im-portante della trama. Avevo chiamato unoscoglio “Isola dello Scheletro”, lì per lì sen-za sapere che cosa intendessi dire, alla ri-cerca solo dell’immediata suggestione e,per giustificare il nome, avevo fatto un’in-cursione nel magazzino di Poe e avevo ru-bato lo scheletro indicatore di Flint. Ana-logamente, poiché avevo raffigurato duebaie adatte alla fonda, l’Hispaniola era sta-ta spedita a vagabondare con IsraelHands.

Venne il giorno in cui si stabilì di ripub-blicare: inviai il mio manoscritto, insiemealla mappa, agli editori Cassell. Poi migiunsero le bozze, le corressi, ma dellamappa non seppi nulla. Scrissi per avernenotizie, mi risposero che non l’avevanomai ricevuta. Rimasi sbigottito. Una cosaera stata disegnare una mappa secondol’estro del momento, appuntare in un an-golo una scala eventuale e inventare unastoria a sua misura; un’altra cosa sarebbestata esaminare un intero libro, stilare uninventario di tutti riferimenti contenuti, econ un paio di bussole tracciare faticosa-mente un’altra carta topografica adegua-ta a quei dati. Ma mi toccò farlo. La mappavenne disegnata di nuovo, nello studio dimio padre, abbellita da balene sbuffanti eda vascelli a vele spiegate. Mio padre stes-so mise al mio servizio il suo talento calli-grafico, e forgiò la firma del Capitano Flinte le indicazioni di rotta di Billy Bones. Tut-tavia, per qualche motivo, quella per menon fu mai la vera Isola del Tesoro.

Traduzione di Giacomo Scarpelli

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 29DOMENICA 28DICEMBRE 2008

“E poi ebbi un’idea per John Silver:prendere a modello un mio amico,privarlo di ogni sua buona qualitàe di ogni più leggiadro trattodel carattere, lasciarlo con nient’altroche la sua vitalità e il suo coraggio”

LE IMMAGINILe immagini che illustrano queste pagine sono tratte dall’edizione

de L’isola del Tesoro a cura di Lodovico Terzi di Adelphi (293 pagine, 11,50 euro)

Sono le tavole disegnate da N.C. Wyeth nel 1911 per la casa

editrice Scribner’s di New York (© Illustrations copyright 1911

Charles Scribner's Sons © 1990 Adelphi Edizioni spa Milano)

Repubblica Nazionale

Harry, Albert, Same Jack erano ebreipolacchi sfuggitialle persecuzioniantisemiteNel 1923fondarono la casadi produzioneche con la Paramounte la Mgm fu un pilastrodella meccadel cinemaCon il loro marchiolanciarono capolavoricome “Via col vento”e “Casablanca”ma anche una lungaserie di star, tra cuiil cane Rin Tin Tin,che li salvòdalla bancarottaIn America, un libroripercorre la storiadi quel mitico studio

NEW YORK

Erano quattro fratelli ebreipolacchi e si chiamavanoHirsz, Aaron, Szmul e ItzhakWanskolaser. Riuscirono a

fuggire alle persecuzioni antisemite e,sbarcati nel nuovo mondo, cambiaronoi rispettivi nomi in Harry, Albert, Sam eJack Warner. Erano diversi per indole etemperamento ma avevano un sognocomune: fondare un impero che avreb-be portato il loro nome. Sin dallo sbarcoin America, avevano capito che l’inven-zione dei fratelli Lumiere avrebbe avutoun grande futuro, e nel 1907 acquistaro-no un proiettore e cominciarono a mo-strare pellicole in un “nickelodeon” diNew Castle, in Pennsylvania. Il succes-so fu incoraggiante e investirono i gua-dagni per fondare una società di distri-buzione, con la quale si affermaronosulla costa orientale. Fu Harry ad averel’idea di trasformarsi in produttori e nel1923 fondarono a Hollywood il “WarnerBrothers Studio”, il terzo in ordine ditempo dopo la Paramount e la MetroGoldwyn Mayer.

La straordinaria epopea cinemato-grafica della Warner Bros è diventata ilsoggetto di un libro intitolato You mustremember this in omaggio alla celebrecanzone di Casablanca. Ne sono autoriRichard Schickel e George Perry, chehanno girato anche un documentariodi cinque ore che porta lo stesso titolo.La storia della Warner è un pilastro del-la storia del cinema, ma basta scorrere ititoli dei film per rendersi conto di comelo studio creato dai fratelli Wanskolaserabbia avuto un ruolo determinante nelplasmare l’immaginario del pianeta.Sin dai primissimi anni, Harry, Albert,Sam e Jack compresero che Hollywoodsarebbe diventata la “fabbrica dei so-gni”, e interpretarono meglio di ogni al-tro la duplice anima di questa definizio-ne, intuendo che la solidità industrialeavrebbe garantito i risultati artistici eperfino la libertà espressiva degli auto-

ri: basta pensare a Stanley Ku-brick, che realizzò gran parte

dei suoi film grazie alla War-ner. Tuttavia, la storia di

q u e -

s t oimpero è stata

turbolenta e spesso a rischiodi fallimento. Il primo, enorme indebi-tamento con le banche venne riscattatonegli anni Venti grazie a un cane: fu l’e-norme successo di Rin Tin Tin a salvarelo studio dalla bancarotta. Jack Warnersoprannominò l’animale «il salvamu-tui» e gli assicurò uno stipendio di milledollari a settimana, oltre a un autista e auno chef privati.

Sono gli anni in cui comincia l’irresi-stibile ascesa di Darryl Zanuck, il capodella produzione che mise sotto con-tratto John Barrymore e puntò come re-gista su Ernst Lubitsch. Grazie al suc-cesso di questi due formidabili talenti, laWarner ottenne robusti finanziamentida Wall Street, ma la svolta determinan-te si ebbe nel 1926, quando lo studio de-cise di puntare sui film sonori, nono-stante l’opposizione di Harry, che nelcorso di una riunione urlò: «Ma chi dia-volo credete che voglia sentire gli attoriparlare?». Venne messo in minoranza, elo studio produsse Il cantante di jazz,ma Sam morì il giorno della prima e nes-suno dei fratelli assistette al trionfo cheavrebbe cambiato la storia del cinema.

Il libro è soprattutto una raccolta di

immagini indimenticabili: si va da Ca-sablanca a Capitan Blood, da YankeeDoodle Dandy ai musical di BusbyBerkeley, del quale viene raccontato lostraordinario talento coreografico maanche l’incidente nel quale, guidandoubriaco, uccise tre persone. Non menoevocativa la serie dei ritratti delle starche fecero la fortuna della casa: BetteDavis, James Cagney, Humphrey Bo-gart, Cary Grant... Se le scelte produtti-ve furono demandate a Darryl Zanuck,quelle operative rimasero nelle manidei fratelli: fu Jack, ossessionato dalla ri-duzione dei costi (spegneva personal-mente tutte le luci degli stabilimenti), adecidere di licenziare Douglas Fair-banks Jr, mentre Harry mise sotto con-tratto Michael Curtiz.

Dopo essere sopravvissuta anche aun incendio, la Warner si specializzò infilm di gangster, in netta opposizioneall’escapismo dei musical della Mgm. Si

trattava come sempre di scelte econo-miche, ed è una definizione a dir pocoromantica quella di «working class stu-dio». Tuttavia è vero che molti film ave-vano un’attenzione particolare agliaspetti sociali, un approccio realistico euna concezione amara della vita.Schickel arriva a scrivere: «Nei film del-la Warner l’eroe generalmente muore, oquanto meno viene marginalizzato odisprezzato dalla società perbene».

Negli anni a venire furono realizzatiuna serie di capolavori che rivoluziona-rono l’industria dall’interno, rimanen-do fedeli ai criteri della fabbrica dei so-gni: Sentieri selvaggi di John Ford, oCocktail per un cadavere di Alfred Hit-chcock. E film che sconvolsero la cultu-ra dell’epoca, grazie anche a interpreta-zioni immortali: Gioventù bruciata conJames Dean, e Un tram che si chiama de-siderio con Marlon Brando.

Il libro minimizza il momento in cui

Jack emarginò brutalmente Albert eHarry, e non dà molto spazio alle battu-te politicamente scorrette che lo reserocelebre in vecchiaia («un tempo ero acapo di uno studio, ora sono solo unvecchio ebreo ricco»), privilegiando in-vece la sua capacità di valorizzare talen-ti diversissimi, spesso controcorrente:in pieno Sessantotto la Warner diede fi-ducia a Sam Peckinpah finanziando Ilmucchio selvaggio, e tre anni dopo ap-provò la difficile scommessa di Aranciameccanica. Specie in quel periodo lepellicole riflettono sensibilità artistichee anche ideali politici opposti: è così perLa rabbia giovane di Terrence Malick eDirty Harry di Don Siegel; per Un tran-quillo weekend di paura di John Boor-man e Quel pomeriggio di un giorno dacani di Sidney Lumet. La Warner com-prese l’importanza di alternare generidiversi, dando spazio al cinema d’auto-re (nel giro di poco tempo uscirono L’e-

sorcista, Ma papà ti manda sola? eMean Streets) e finendo per risultare lamajor in grado di assorbire meglio la fi-ne dello “studio system”.

Negli anni in cui i registi reclamavanoindipendenza espressiva, la Warneriniziò una collaborazione artistica, tut-tora viva, con Clint Eastwood, all’epocaun’incognita come regista. Nella listadei grandi film degli ultimi decenni sistagliano operazioni rischiose qualiBlade Runner e Sweeney Todd, ma an-cora una volta colpisce la capacità diimporre un approccio puramente in-dustriale riuscendo a creare riferimen-ti, miti e sogni. Mentre veniva stretto unsodalizio artistico con George Clooney,seguito anche nelle operazioni più arri-schiate, la Warner si specializzava infranchise dallo sbalorditivo successo:Superman, Matrix, Harry Potter e Bat-man, riuscendo in quest’ultimo casoanche a fare del grande cinema.

ANTONIO MONDA

LE IMMAGINIQui accanto, il marchio

della Warner Bros,

le locandine di Casablanca

e Rin Tin Tin, due

tra le produzioni più famose

della major

Nelle stelle qui sotto,

immagini da The Jazz

Singer, Gioventù bruciata,

Arancia meccanica,

L’esorcista, Superman,

Blade Runner

SPETTACOLI

I fratelliche scalarono Hollywood

30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA

Repubblica Nazionale

“Lo spirito di Bogartè rimasto qui”

CLINT EASTWOOD

Arrivai alla Warner Bros nel 1971 per girare un film,Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo. Iniziò cosìun rapporto che continua ancora oggi; nel 1976 la

mia squadra di produzione si trasferì in una villetta in stileispanico (che chiamavamo “The Taco Bell”). Oggi, trenta-due anni dopo, siamo ancora lì: a destra, rispetto al porto-ne d’ingresso, c’è il vecchio edificio degli scrittori; appenafuori dalla porta sul retro, dove c’era il vecchio campo datennis degli studi, oggi c’è un giardino. Da lì si possono ve-dere le finestre dalle quali Jack Warner teneva d’occhio tut-te le attività che si svolgevano negli studi cinematografici: inparticolare, quegli irritanti scrittori che egli sospettava sem-pre di non fare nulla.

Credo di essere rimasto con la Warner Bros più a lungo diqualunque altro attore o regista della sua lunga storia, purnon avendo mai avuto un contratto a lungo termine. Siamosemplicemente passati da un film all’altro, fidandoci e ap-prezzandoci a vicenda. [...] Ma per quanto mi riguarda, nelmio rapporto con gli studi conta anche un altro importan-te fattore: quella sensazione di storia vivente che respiroquando cammino tra le strade degli studi cinematografici.Qui si girano film dal 1926, quasi tre anni prima che la War-ner Bros acquistasse la casa di produzione e si trasferisse daHollywood a Burbank. Oggi, ciascuno dei trentaquattrostudi di registrazioni reca una targa in cui sono elencati i ti-toli dei film che vi sono stati girati: da Casablancaa qualcu-no dei miei. «Se queste mura potessero parlare», verrebbeda dire. Ma credo che, a modo loro, quelle mura parlino. Avolte, mi sembra di sentir sussurrare qualche battuta deidialoghi famosi che furono pronunciati per la prima voltadietro quelle pareti di stucco.

Succede la stessa cosa con i teatri di posa. Quello che sitrova di fronte al mio ufficio era uno di quelli originali e latarga affissa alla parete ci informa che lì furono girate le sce-ne di film come Quarantaduesima Strada, Sogno di unanotte di mezz’estate, Mildred Pierce, La Furia Umana e dimolti altri. Brownstone Street, che si estende tra la mensa elo Stephen J. Ross Theater (il tuo film non risulta mai cosìbello come quando lo proiettano in quel bel cinema), risa-le al 1929. Fu proprio in uno dei suoi atri che Humphrey Bo-gart sparò a Edward G. Robinson, in Le belve della città, del1936. Qui erano stati allestiti anche gli esterni dell’apparta-mento di Murphy Brown. Dietro l’angolo si può vedere la li-breria in cui Humphrey Bogart sedusse Dorothy Malone (oavvenne il contrario?) nel Grande Sonno. A qualche centi-naio di metri c’è la facciata di una casa costruita per Delittisenza castigo, che fu anche la casa in cui James Dean vivevain La Valle dell’Eden.

Oggi, se entrate in uno degli altri edifici, troverete quelloche credo sia il più grande magazzino di costumi che ci siaal mondo: centinaia di migliaia di capi, tutti scrupolosa-mente suddivisi per epoche storiche, sulla fodera di alcunidei quali è stata cucita una targhetta con il nome di Bogarto di Cagney o di Bette Davis, per indicare l’attore che li usòper la prima volta. Se si individua un costume che ha quel-la targhetta, lo si mette da parte per l’archivio degli studi.Non molto lontano c’è un magazzino di tendaggi in cui èpossibile trovare la stoffa utilizzata per The Jazz Singer (Ilcantante di jazz). In quello stesso magazzino si possono tro-vare gli arredi scenici usati per i film che risalgono ai primianni di attività della Warner. Nessun altro studio cinema-tografico attinge altrettanto dal proprio passato per dareforma al presente e all’inarrestabile futuro.

Sì, naturalmente ora gli studi dispongono di nuove strut-ture. Tuttavia, il nucleo di questa attività continua a collo-

carsi nel suo centro fisico, molti elementidel quale risalgono a parecchi decenni fa.A volte si sente parlare del dna della War-ner: qualcosa di indefinibile e tuttavia pal-

pabile che

infor-ma di sé i filmche continuiamo a produrre

qui. È un’idea romantica e indimostrabile. Eppure,sappiamo che questi studi hanno custodito il proprio pas-sato meglio di chiunque altro.

Reprinted by permission from the bookYou Must Remember This: The Warner Bros Story,

ed. Richard Schickel and George Perry. Publishedin the United States by Running Press

(www.runningpress.com), a member of the PerseusBooks Group. Copyright © 2008

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31

IL LIBRO

Il brano di Clint Eastwood che pubblichiamo

in queste pagine è tratto dal libro You Must

Remember This: The Warner Bros Story

di Richard Schickel e George Perry (Running

Press, 480 pagine, 50 dollari). È la storia

di una delle più importanti major di Hollywood:

da Rin Tin Tin a Casablanca a Harry Potter,

ottantacinque anni di produzioni leggendarie;

e di attori e attrici che hanno contribuito a farne

un mito, da Bette Davis a Humphrey Bogart,

Lauren Bacall, Joan Crawford, Marlon Brando,

James Dean, John Wayne; e di registi

come Martin Scorsese, Stanley Kubrick

e lo stesso Eastwood

Repubblica Nazionale

la societàTutti a casa

Altroché zampone e lentic-chie. La rivincita della tra-dizione si è consumata traparole di otto lettere concinque consonanti, dadi,domande di cultura ge-

nerale, carte e case in Vicolo Stretto. È ilritorno dei giochi da tavolo, gli HappyDays della famiglia, complicità e conso-lazione, il vintage del divertimento do-mestico: così Scarabeo che scala le clas-sifiche di vendita è uno dei simboli dellosvago al tempo della crisi. Si passano lefeste in sala da pranzo, come si facevaprima. Un dicembre retrò, gli inglesi lohanno chiamato così per via delle sceltenuove, cioè antiche, che la gente ha fat-to negli acquisti di questo periodo: libridi seconda mano, ingredienti per prepa-rare la cena anziché cibo pronto, lana eferri per cucire e rammendare, Mono-poli e poker. Il mese scorso lo Scarabeo èrientrato nella top ten dei giochi piùsmerciati in Gran Bretagna, il TrivialPursuit è cresciuto del 65 per cento nellevendite, il domino del 74 e il poker addi-rittura del 145. Negli ultimi cinque anni,un aumento complessivo del venti percento di tutto il genere nostalgico.

È nostalgia che si sente: della soli-dità, degli affetti, del divertimentointimo, al riparo dallo sconquassodel mondo. E niente è più sicurodella casa, gli americani que-st’anno si sono inventati unnuovo turismo, la staycation,un viaggio stanziale, casalin-go. Eppure dentro le mura simuovono come fossero al-trove, si divertono con iboard games, appunto i gio-chi da tavolo. La Hasbro,che in Usa detiene Mono-poli e Cluedo, sa che intempi di recessione cre-sce la popolarità dei suoiclassici. È in questi mo-menti che anche l’intrat-tenimento, industria difatturati floridi, si sceglie

low cost: con meno di venti dollari,quanto si paga una scatola, si passa unaserata tra parenti e amici e addioBroadway.

Un Natale che si vuole più certo con-tro questi tempi rapaci. Un modo per ri-trovare anche il tempo che non c’è mai,e spartirlo con gli altri. Il fenomeno an-glosassone è anche un’anticipazioneper noi, che le conseguenze della crisimondiale le sentiamo eccome, ma unpo’ più a rilento. Abbiamo speso il ventiper cento in meno in queste feste, e unmeno dieci l’hanno dovuto subire anchei giocattoli. Ma quelli da tavolo sono al-tra cosa, vengono definiti anticiclici daitecnici, e cioè sostanzialmente stabili,senza impennate o cedimenti.La storica Editrice Giochidi Emilio Ceretti ha l’e-sclusiva nel nostropaese per Mo-nopoli, Ri-siko eScara-beo.

Nel catalogo dell’impresa milanese so-no titoli intramontabili: 400mila scatolevendute ogni anno, il sessanta per centodel fatturato dell’azienda, vale a dire do-dici milioni di euro. «La memoria stori-ca italiana che lega generazioni e gene-razioni al tappeto verde familiare du-rante le festività, non sembra subire gliscossoni degli eventi né i capricci dellemode», spiega Michela Rizzi, productmanager di Editrice Giochi. Monopoli ètra i più amati, 180mila scatole all’annoentrate nelle case italiane. Le versioni sirinnovano spesso, si collegano ai fatti eai gusti del moderno e anche per questor i -

mangono evergreen. La tradizione regge perché non fa la

guerra con la tecnologia, mouse e cartenon si contraddicono, le traduzioni inter-nettiane anzi rilanciano i classici. È il casodel poker. Ci gioca in questi giorni alme-no una volta il 56 per cento degli italiani,l’11 anche sul web, il 39 in più dell’annoscorso, un vero boom. Le carte fannocommunity su Joyamo.it, una specie diFacebook dove si condividono briscola,solitario, flipper, biliardo, Tetris, Pacman.Oltre quindicimila iscritti, più di mille vi-sitatori al giorno. Tornei di Poker TexasHold’Em, lo stile più praticato a livello in-ternazionale, molto di moda anche in Ita-

lia, skill game regolato dallo Stato. Vabene anche lo Scarabeo, versione

web compresa, Scrabu-lous. Inglesi entusiasti

(+47 per cento nel-le vendite), so-

prattutto daq u a n d o

si è sa-p u -

to che Kylie Minogue e Robbie Williams cigiocano nei momenti di noia dei tour.

Le fiches ma anche il videogame. Ra-gazzi e battaglie navali, nonni e Ninten-do Wii. Il videogioco a Natale è affare so-ciale e familiare. Si clicca con i parenti, sifa squadra, fa molto Italia. «Dal punto divista psicologico, esistono moltissimeprove del fatto che genitori e figli traggo-no giovamento dallo stare insieme con-dividendo interessi e divertimenti», diceBrendan Burchell, docente a Cambridgee specialista in psicologia economica.«In un momento di incertezza finanzia-ria come questo, è importante che le fa-miglie trovino espedienti economici perintrattenersi, il che spesso significa starea casa a giocare». I videogiochi in Italiapiacciono, un 2007 da record con un fat-turato di oltre un miliardo di euro. E cre-sceranno. Le stime vedono segni più nelfuturo, siamo neofiti e dunque molto in-namorati, compriamo l’hi-tech che ci fadivertire rinunciando al resto, alle scar-pe, all’ennesima maglietta. Uno deicampi più dinamici dell’intrattenimen-to, secondo gli esperti: fanno girare piùsoldi che il cinema. Marciano veloci tut-ti i prodotti delle corporation dei video-game, ma la Wii della Nintendo più degli

altri: Music, Sport, Fit. Un telecoman-do sensibile e un compagno anche ri-

vale: non ci vuole poi molto per farele star della canzone, i campioni

sportivi, per rimanere in forma.In Europa hanno venduto diecimilioni di pezzi dal lancio didue anni fa fino alla scorsaestate. Andrea Persegati, di-rettore generale NintendoItalia, ha dato una spiega-zione sociologica del feno-meno: giochi così hannofatto crollare il muro de-mografico e anagrafico, iragazzi hanno spalanca-to il ghetto tecno avanza-to delle loro passioni aigenitori. Gli adulti han-no rispolverato lo Scara-beo. Insieme si incrocia-no le parole.

ALESSANDRA RETICO

32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28DICEMBRE 2008

Il gioco torna in famiglia

la spesa degli italiani

per i giochi nel 2007

2,4 mld

le scatole di Monopoli

vendute nel mondo

160 mlnil mercato italiano

dei videogiochi

1 mld

La rivincita della tradizione va a braccetto con la vittoriadella tecnologia. Boom di vendite per Scarabeo,Monopoli, Risiko, domino e mazzi di carte. Ma nello stessotempo dilagano i fan dell’online e dei videogameÈ la crisi - dicono gli esperti - a creare un “effetto-tana”

il fatturato di Risiko,

Monopoli, e Scarabeo

12 mln

Meno travelpiù trivial. È laparola d’ordine diquesto Natale dominatodallo spettro dall’austerità.Che, agitato come uno spauracchio

dalle previsioni degli economisti, si somma alle altre paure e in-quietudini che turbano i sonni degli italiani. Risultato, scatta l’effetto tana. Eprima ancora che l’onda della crisi si abbatta su di noi come un uragano ci preparia-mo in anticipo a fronteggiarla. Meno spese, meno pretese. E tutti a casa a fare il pie-no di certezze, confortati dal calore degli affetti e rassicurati dalla routine delle abitu-dini familiari. Impugnate come un sicuro talismano nei momenti di bisogno.

È questa la ragione del revival dei giochi domestici, da quelli tradizionali come carte,scacchi, tombola e Monopoli a quelli più recenticome Trivial Pursuit e Risiko. O come i videogiochisupertecnologici di ultima generazione dove lamagica onnipotenza del virtuale diventa un place-bo contro la sfuggente complessità del reale.

In fondo i giochi, da che mondo è mondo, servo-no proprio a questo. A rappresentare la realtà at-traverso la finzione. Attraverso un modello in mi-

niatura che riusciamo a manipolare e di cuinon ci sfugge il minimo particolare. Co-

sì abbiamo l’impressione di potercontrollare la realtà proprio come

controlliamo i nostri giochi, e i nostri giocattoli. È per questa ragio-ne che, adulti o bambini, abbiamo sempre bisogno di continuare

a giocare. Non è un caso che l’uomo sia l’animale che gioca piùa lungo. Lo diceva Johan Huizinga, autore del celebre Homo

ludens, rilevando come nella specie umana l’attività ludicaduri praticamente tutta la vita. Se è vero che la nostra esistenza è fatta di regole da impara-

re, da rispettare, da interpretare, allora il gioco, che è il trionfodella regola, rappresenta l’essenza della realtà allo stato puro, la vi-

ta ridotta alla sua grammatica. Ogni volta che giochiamo, proprio nelmomento in cui enunciamo le regole del gioco, ricreiamo di fatto il

principio attivo del legame sociale.Stabiliamo quel che si può e quel che non

si può fare, decidiamo il confine fra lecito e il-lecito. Il nostro «giochiamo a», o il «facciamo che

io» dei bambini, ci fanno assaporare il gusto pieno del-la vita, ci offrono l’illusione preziosa di un mondo dove le

norme e le chances sono uguali per tutti. E dove il successo è di chi selo merita, con appena un pizzico di fortuna. Proprio come nei sogni e nelle utopie,

tutto è come deve essere e il caso non è mai lasciato al caso. Il che in un tempo come ilnostro, dove scommettere sul futuro sembra diventato impossibile e ci limitiamo a na-vigare a vista in un presente problematico, ci fornisce un surplus ludicodi razionalità dove l’imprevisto, l’alea, il colpo di sfortuna ci appaiono nelloro aspetto più inoffensivo, in forme innocue. Perché addolcite dalla

cornice festosamente familiare che ci do-ta di un paracadute affettivo contro la du-rezza del mondo. Almeno fra le pareti do-mestiche mi diverto e se sono fortunatovinco senza far male a nessuno. È la ver-sione soft della competizione sociale.

Questa è la filosofia della tombola,del Monopoli e di altri giochi da tavolo.Dove il divertirsi ritrova il suo significa-to più autentico di deviazione, di di-strazione, di depistaggio dai problemie dalle difficoltà reali attraverso la creazione di

problemi artificiali e di difficoltà in miniatura. In questo senso, vecchi e nuo-vi passatempi natalizi come il sette e mezzo, il mercante in fiera, la brisco-la, lo Scarabeo, il giro dell’oca, il backgammon, abbelliscono i contor-ni della realtà, ci illudono nel senso migliore del termine in-ludere.Che vuol dire appunto trasformare qualcosa in gioco.

Nell’epoca dell’insicurezza diffusa e della vita interinale, il giocoin famiglia diventa così una forma di welfare psicologico. In unmondo che ci fa paura la casa diventa tana e fortezza, baita e pale-stra, ludoteca e ufficio. E i giochi riflettono come uno specchio fe-dele questa autarchia difensiva che fa degli affetti l’ultimo bene ri-fugio.

Il mondo degli affettiultimo bene rifugio

MARINO NIOLA

Repubblica Nazionale

le tendenzeContro il buio

La prima volta brillarono sul set addosso alla Dietrich in pienaGrande Depressione. Come se paillettes, brillanti, strass fosserouna risposta alla crisi. Forse non è un caso che tornino in tempicome questi. Non più polvere di stelle, non più simbolo di lussoanni Ottanta: ora i riflessi del cristallo accompagnano jeanse “street style” per illuminare la normalità

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 28DICEMBRE 2008

La prima a indossarli sul set è stataMarlene Dietrich. In una scena indi-menticabile del film Angel, l’attrice liportava come magica decorazioneper l’abito passato alle cronache co-me il più costoso della storia del cine-

ma. Sono gli strass, le paillettes, i brillanti. Insom-ma i glitter. Traduzione letterale: tutto ciò chescintilla, sfavilla, luccica. L’icona Marlene, nelfilm di Ernst Lubitsch, sconvolse il pubblico conuna cascata di polvere di strass iridescenti inca-stonati in un velo di chiffon. Fece impazzire gli uo-mini e conquistò le donne. Tutte volevano brilla-re come lei. Furono anni d’oro per le mise stellari.

Nella Parigi degli anni Trenta Les Modes, unadelle più autorevoli riviste di moda, nella rubricadi cronaca mondana riportava puntualmentenotizie di nobildonne avvolte in toilettes da so-gno: paillettes apparentemente in grado di illu-minare la vita. Bagliori che riflettevano balli indi-menticabili. Eppure erano gli anni immediata-mente successivi alla crisi del ‘29. Anzi “la Crisi”.Quella raccontata nei libri come la più dolorosadel secolo breve. Ed ora, momento storico in cuiesattamente come allora le banche e i bilanci ditutto il mondo vacillano, il glitter ritorna. Sarà uncaso. O forse la voglia di compensare, con tutto ciòche risplende, una ricchezza che non c’è più. Ec-co dunque pronte a debuttare, per le serate di fe-sta e non solo, donne brillanti come comete. Pol-vere di stelle per accendere, anche se soltanto perpoche ore, un mondo sempre più ammaccato estanco. In verità, dai tempi della Grande Depres-sione a oggi, strass, paillettes e glitter hanno co-nosciuto svariati momenti di gloria. Il primo neglianni Settanta, quando esplosero trascinati dallafebbre glam-rock che, in quel periodo, sembravacontagiare chiunque. E poi ancora sul finire deglianni Ottanta, come simbolo di un lusso sfrontatoe senza freno.

I glitter di quest’inverno sono più abbaglianti e

seducenti che mai. In versione macro e mini, nel-le classiche varianti argento e oro o in viola, fucsiae verde acido. Paillettes grandi come monete opiccole come punte di spilli. Un glamour eccessi-vo e nostalgico ma sempre, rigorosamente,splendente. Piace perché dona una gradevole lu-ce al volto ma anche perché è per tutte le tasche. Illuccichio, concordano gli esperti, si può compra-re con poco. Strass e paillettes, cuciti con sapien-za su abiti e accessori, offrono proposte per tutti ibudget. Il glitter è democratico: mette d’accordole celebrity e le ragazzine all’uscita della scuola.

Ma la vera novità per il nuovo anno è soprattut-to una brillantezza “street style”. Osare è la rego-la. Stupire una necessità. L’importante è farlosempre e comunque. Vince lo splendore dei cri-stalli abbinato alla ruvidezza dei jeans, la meravi-glia dell’oro tradotto nella semplicità della canot-tiera o della scarpa per tutti i giorni. Persino il truc-co, sapientemente disegnato con spennellaturedi ombretti e gloss, si accende di pagliuzze.

Naturalmente, per chi può permetterselo, bril-lare può anche costare parecchi zeri. Dior ha ad-dirittura proposto una linea di alta gioielleria ediamanti glitter. E poi ci sono i profondi brillantineri di Vhernier e quelli delicati di Chantecler. An-che nell’haute couture, come nel prêt à porter, hasfilato il lusso degli abiti di Kenzo e Armani, dellecalzature di René Caovilla e Sergio Rossi e degli ac-cessori di Marni, Louis Vuitton e Costume Natio-nal. Tutto sta nel non esagerare. Con tante possi-bilità e alternative il rischio di sembrare un alberodi Natale, anche a feste finite, è dietro l’angolo. Incaso di dubbio, la regola vincente è togliere piùche mettere. Insomma, meglio un accessorio inmeno che uno di troppo.

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Repubblica Nazionale

vano sdoganato l’enologia italiana dagli sposalizi stantii con arrosti e pastasciutte perassicurarle un futuro più glamour.

E invece la Grande Rivincita passa da un’inversione di tendenza che unisce gli ap-passionati da una parte all’altra del mondo. Tramontata la moda dei vini muscolari eruffiani (i cui tristi epigoni sono quelli aggiustati con le chips di legno), i piccoli, sber-tucciati autoctoni hanno riconquistato dignità e posizioni, fino a far trionfare il “pic-colo è bello”, che molto meglio si addice alla nostra cultura vinicola.

Certo, il piacere delle bollicine italiane insieme ai crudi di pesce impreziositida salse così poco italiane non stupisce più nessuno. Ma un brivido di piacereenologico corre sul palato quando la scelta cade sui bianchi del sud e su quel-li sardi, uve senza quarti di nobiltà apparenti, ma impudenti e conquistatri-ci al momento di accoppiarsi con i sapori speziati e complessi della cuci-na orientale. Allo stesso modo, vini rossi che dieci anni fa nessuno avreb-be speso lontano dalle ricette del circondario, oggi vengono gustati in-sieme a zuppe e carni dalle ricette elaborate e inusuali.

Andate sul sito Vinitaly e scoprite le tappe del tour mondiale che trapochi giorni porterà i nostri vini a spasso sui mercati del pianeta, contanto di abbinamenti e degustazioni mirate, perfetti per ispirare ilmenù del vostro cenone. Se è vero che gli italiani lo fanno meglio,cibi del mondo e vini nostrani vi faranno cominciare benissimoil 2009. Senza rinunciare alle lenticchie, naturalmente.

34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28DICEMBRE 2008

i saporiFestività

Piatti esotici e bottiglie made in Italy per il cenone di CapodannoÈ il modo migliore per celebrare il successo mondialedella nostra viticoltura, vincente anche sui mercati più lontani

da bere

LICIA GRANELLO

Italians do it better. Il vino, s’intende. Almeno così dicono in giro per il mondo(Francia esclusa). E poco importa se il cibo da accompagnare non è made inItaly. In vista del cenone di fine anno, la contaminazione con le cucine del mon-do non spaventa bianchi e rossi, bollicine e passiti nazionali, ormai in grado diaccompagnare le ricette più complesse, senza timidezze e senza tema di brut-te figure. Sono passati molti anni e qualche miliardo di bottiglie, prima di var-

care i confini con il meglio delle nostre produzioni. Siamo emigrati oltre oceano confiaschi improbabili e bottiglioni senza arte né parte, convincendo il resto del mondoche il nostro vino fosse tutto ruvidezze e bevute per uomini forti (e palati approssima-tivi). Poi sono arrivati Angelo Gaja, le etichette pregiate, il marketing d’alto bordo: vi-ni d’autore, da esibire come gioielli. E infine, storia degli ultimi anni, la conquista del-la cosiddetta fascia media, con prezzi un poco più alti, ma qualità nettamente miglio-re di quanto immesso sul mercato dalle aziende del nuovo mondo.

In un virtuoso rimando tra mercato interno ed estero, gli stranieri hanno scopertoche i vini italiani funzionano anche sulle loro tavole. E se Grant Achatz, strepitoso chefdi Chicago, offre cinque vini italiani nel menù degustazione di tredici piatti servito nelsuo “Alinea”, il made in Italy nel bicchiere riesce perfetto con l’intera gamma della ga-stronomia d’importazione. Un tempo si sarebbe detto che il merito era tutto della nuo-va viticoltura “internazionale”: il lento, inesorabile declino delle uve locali in favoredei vitigni globali — chardonnay, sauvignon, merlot, cabernet — insieme alle nuovetecniche di vinificazione — lieviti superselezionati, barriques, concentratori — ave-

Italia

Brindisiglobalecoi vini di casa

Abbinamento:

Chianti riserva, Badia Coltibuono

Abbinamento:

Villa Bucci, Bucci Wines

Abbinamento:

Nebbiolo Langhe Doc, R. Voerzio

Abbinamento:

Ferrari Brut, Ferrari fratelli Lunelli

Abbinamento:

Boscorosso, Rosa Bosco

Abbinamento:

Tuvaoes, Salvatore Cherchi

Abbinamento:

Fiano Terre di Dora, Terredora

PorterhouseUSA

La celeberrima T-bone steak,

bistecca con l’osso a T,

in versione lusso:

maggiorata nella carne —

doppio spessore,

aspetto marmorizzato —

dimezzata nell’osso

Come con la fiorentina,

il vino è il sangiovese,

meglio se da uve biologiche

Abbinamento:

Anna Maria Clementi, Ca’ del Bosco

YakisobaGIAPPONE

Il prefisso yaki battezza

la frittura degli spaghetti

giapponesi (soba)

con zenzero, cavolo, carne,

pesce, alga nori, hondashi

(fiocchi di sarda essiccati)

e wasabi (rafano piccante)

Vermentino sardo

dai profumi erbacei

per accompagnarli

Sushi & sashimiGIAPPONE

Il trionfo del crudo passa

attraverso tipologie

profondamente diverse —

frutti di mare, crostacei,

pesci —, la presenza

del riso e le salse di contorno

(a base di soia, wasabi, alghe)

Perfetto d’accompagnamento

l’autoctono campano

dai toni agrumati

Abbinamento:

Nova Domus, Cantina Terlan

Dim SumCINA

I deliziosi “bocconcini

tocca-cuore” (in cinese), nati

per rifocillare i viaggiatori

sulla Via della Seta,

comprendono bignè,

gnocchetti, ravioli, involtini

Le bollicine di chardonnay

trentino sottolineano

le diverse fragranze

senza sovrapporsi ai sapori

Anatra laccataCINA

Preparazione complessa

per il re dei piatti pechinesi,

a partire dalla doppia

laccatura con miele, aceto

e sakè. Cottura su fuoco

di legno di pesco e rifinitura

con salsa di soia regalano

aromi speziati,

che il merlot friulano

accompagna soavemente

Pollo TandooriINDIA

Secondo la ricetta originaria

dello stato del Punjab,

il pollo viene cotto

nel tandoor — forno

interrato di terracotta —

dopo marinatura con aglio,

yogurt, limone e spezie

Il campione dei verdicchi

marchigiani in versione bio

armonizza e accompagna

ParathaINDIA

Sottile e croccante, il pane

tradizionale impastato

con il burro chiarificato

(ghee), cotto su una tavola

e impilato dopo farcitura

All’interno lenticchie rosse,

rafano, carne, paprika

Asciutto e fruttato,

lo storico vino piemontese

che pulisce il palato

CavialeRUSSIA

Il simbolo del lusso

alimentare — a rischio

di scomparsa nella versione

“selvaggia” — prospera

col favore di allevamenti

eccellenti (di cui l’Italia

è leader, grazie a Calvisius)

A côté, il principe

degli spumanti, a base

di sole uve chardonnay

Clam ChowderUSA

Nella zuppa di vongole

della West Coast,

le grandi vongole Quahog

sono tagliate, spadellate

con cipolla e pancetta

e cotte insieme a latte

e patate. L’assemblaggio

altoatesino di pinot bianco,

chardonnay e sauvignon

dà freschezza e aromi fruttati

Repubblica Nazionale

Il Valpolicelladi Hemingway

STEFANO MALATESTA

Quando andavamo a zonzo fuori dai confiniitaliani non c’era nessuno che entrando inun ristorante ordinava “maccaruni” e vini

nostrani, che comunque non avrebbe trovato. Ilviaggio non veniva assimilato alla magnata fuoriporta e quando incontravi qualcuno che facevaquel gesto osceno delle tre dita che ruotavano co-me una forchetta sul piatto, per segnalare il biso-gno di mangiare spaghetti, ci davamo alla fugafingendo di non conoscerlo. Se uno coltivava in-teressi gastronomici, questi venivano molto me-glio appagati dalla scoperta di nuove pietanze, daisapori e dagli odori mai sentiti. Semmai un atteg-giamento da evitare era quello contrario: l’ecces-siva disposizione, come si arrivava in un paeseesotico e lontano dall’Europa, a mangiare lungola strada, affascinati dalle verdure multicolore di-sposte in piramidi e circondate da sacchi di iutagonfi di fave, di lenticchie, di semi di cumino e ditutte le erbe aromatiche che rendevano la spesaun’iniziazione ai misteri e ai profumi del paese.Chi fingeva di essere un habitué del posto, com-prando direttamente dai venditori di specialitàlocali e azzannando a morsi la frutta per far vede-re che lui era il più tosto e il più gagliardo, si ritro-vava a rantolare sul letto dell’albergo annientatoda tremende dissenterie.

L’incontro con i vini era totalmente affidato alcaso e non aveva nulla a che fare con la qualità. A

una cerimonia ufficiale nello Yemen,nella quale ero capitato per

sbaglio, venni fermato daun autorevole dignitariodi corte che mi chiesecon tono perentorio:“Venegazzù?”. Per qual-che attimo feci ciondo-lare la testa in attesa chemi arrivasse una qual-siasi illuminazione. Atogliermi dall’imba-razzo arrivò dallecantine una bottigliadi prosecco gelato diVenegazzù. Solomolti anni più tardisono riuscito a dareun senso all’eventosurrealista: durantegli anni Venti un go-vernatore dell’Eri-trea, nato a Vene-

gazzù, aveva assolda-to per l’Africa orienta-

le italiana cinquemilacavalieri yemeniti e da

allora la gratitudine deigovernanti dello Yemen

verso l’Italia, identificatacon Venegazzù, era passata

a tutti gli abitanti di quel pae-se e aveva coinvolto anche il

prosecco.A memoria, i vini in cui mi sono

imbattuto, spesso in contrade lonta-ne da Dio e dagli uomini, sono stati l’E-

st Est Est, senza che ci fosse una ragione ap-parente per un simile primato; il Lacrima Ch-

risti, forse per il suo nome così evocativo; e qual-che rosolio siciliano. Il nome del Valpolicella ave-va fatto il giro del mondo ed era diventato popo-lare per essere la bevanda preferita di ErnestHemingway, che ne trincava otto litri al giorno,secondo la leggenda, mentre stava a Venezia e an-dava a spasso con le signorine Ivana Ivancich e Af-dera Franchetti. I baroli, i barbareschi, i bianchidel Collio, cioè alcuni tra i migliori vini del mon-do, sembrava non esistessero. Fuori dai confininessuno veramente aveva un’idea precisa dellenostre abitudini gastronomiche.

L’unica volta in cui programmaticamente scel-si di bere un vino italiano, il più costoso che riu-scissi a trovare, fu a Montecarlo. Avevo appenaventicinque anni e ero stato invitato da La Sociétédes Bains de Mer e dalla Mondadori a passare unasettimana all’Hotel de Paris di Montecarlo insie-me a due amici per mettere insieme il numero ze-ro di un giornaletto legato alla nascita di RadioMontecarlo, avvenuta pochi mesi prima. La seradel nostro arrivo ci precipitammo al Grill, il risto-rante dove andava sempre Onassis, situato all’ul-timo piano dell’hotel e con una vista famosa sulprincipato. Eravamo ospiti senza limite di spesa econ la protervia degli anni giovanili ordinammouna cena sontuosa, che doveva essere accompa-gnata dal vino più caro. Quando il sommelier sipresentò con la lista dei vini, io la rimandai indie-

tro chiedendo della lista “reserve”; equando questa si materializzò

sulla tavola, feci scorrere il di-to sui prezzi arrestandomisul più alto di tutti, che sta-va accanto a un nome ita-liano. La faccia del som-melier diventò grigia: «Ci

sono solo due bottiglie di que-sto vino», disse. «E lei ne porti

una», ebbi la prontezza di rispondere. Quaranta minuti più tardi, dopo un’attesa in-

terminabile, si presentò una piccola carovanacomposta da tre persone che portavano la botti-

glia dentro un canestro di paglia, e che aveva-no la stessa attitudine ieratica dei sacerdoti

che portano in giro l’ostensorio. Fu un mo-mento che i cattivi scrittori definirebbero«indimenticabile». Appena il sommelierebbe finito di versare qualche goccia del vi-no sul fondo del bicchiere, io buttai in gola,

con un gesto rapidissimo della mano, comefosse una gazzosa, un liquido ambrato che sem-

brava aver perso ogni sapore, mormorando «pasmal». Fu un miracolo che non ci cacciassero a pe-date dall’albergo. Quando ho raccontato questastoria ad uno dei più grandi esperti di vini italiani,mi disse che dovevo essermi sbagliato: quel vinonon poteva essere che francese. Un vino italianonon ha mai raggiunto, né prima né dopo, i prezziriservati a Montecarlo ai vini di casa.

Dalla Cina all’India, dalla Russia all’America. Ecco come le zuppee le carni più “aliene” si sposano alla perfezione con i bianchi,i rossi e le bollicine fatti maturare con sapienza nelle nostre cantine

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 28DICEMBRE 2008

Abbinamento:

Rosato, Castello di Ama

Manuel Vázquez MontalbánÈ mai andato a un concerto

di calypso? L’ho vista prenotarsiper il veglione di fine anno

Il cenone all’Holiday Inn è elegantequasi quanto quello all’Hilton

Da LA ROSA DI ALESSANDRIA

‘‘Bortsch RUSSIA

A base di carne di maiale,

la poderosa zuppa

anti freddo associa cavoli,

cipolle, barbabietole

e pomodori, più aceto

e panna acida

per sgrassare

Al posto della vodka,

un fresco uvaggio

di sangiovese e canaiolo

Repubblica Nazionale

Classe 1909, il prossimo 2 gennaiola leggenda dell’alpinismo mondialecompirà un secolo di vitaAcquistò fama negli anni Trentasalendo vie ritenute impossibili

(e divenute celeberrime)sulle Dolomitie nelle Alpi occidentaliMa soltanto nel 1998è riuscito nell’impresadi ritrovare la tombadel padre, emigratoin Canada e morto

in un incidente sul lavoroÈ stato allora, dice, che “mi sonoriscoperto figlio a novant’anni”

36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28DICEMBRE 2008

l’incontro

‘‘

‘‘A mani nude

LECCO

Apiedi nudi. Sulla monta-gna e sulla vita. «Uno chepassa dappertutto». Sali-re, scendere, risalire.

Mani che non mollano. Occhi che scru-tano e indagano in cerca di un appiglio.Così da un secolo. Riccardo Cassin è ilgrande vecchio dell’alpinismo mon-diale. Un cacciatore di pareti. Il 2 gen-naio compie cento anni. Imprese e ca-polavori: la nord della Cima ovest di La-varedo; la nord-est del Pizzo Badile,una lavagna di granito; la punta Walkerdelle Grandes Jorasses nel ’38, affron-tata senza mai aver visto prima il mas-siccio del Bianco. Ghiaccio, strapiom-bo nero, placche nere. E poi il rudeMount McKinley, in Alaska, 6.194 me-tri di neve, vento, nebbia, e congela-mento a quarantadue sotto zero. Av-venture verticali, le Grigne come pale-stra. Le vie Cassin sono semplici e di-rette, non aggirano, vanno dritte al pro-blema, il resto è volontà e chiodi bestia-li. Non un lord della vetta. Più unmontanaro che un alpinista. Testardo,ostinato, versatile. Forte su roccia, effi-cace sul ghiaccio.

Cassin nasce nel 1909 a Savorgnanodi San Vito al Tagliamento, nel Friuli.Non ama studiare, a dodici anni va a la-vorare, garzone presso la bottega di unfabbro, incudine e martello. A dicias-sette si trasferisce a Lecco, fa il mano-vale e le scuole serali, apprendista mec-canico. All’inizio si arrangia anche co-me muratore e fa anche il pugile, com-batte fino al ‘29 sostenendo quarantot-to match. «Lire poche, anzi nessuna.L’ultimo incontro l’ho perso a Genovaper ko, la montagna mi induriva i mu-scoli, così ho smesso». C’era bisogno di

campare, anche perché il padre, Valen-tino, emigrato all’estero, era morto inun incidente di lavoro. La notizia era ar-rivata con un biglietto: «Deceduto a Ni-comen, Canada».

Cassin cresce, si batte, lavora ancheal sabato. E inizia a fare scampagnatesul Resegone, con degli amici. «A piedio in bici. Ma prima c’era bisogno dellacolletta, una sola corda, i chiodi ce li co-struivamo, da queste parti c’eranomolte fonderie. Si andava su anche apiedi scalzi, io preferivo andare in com-pagnia, prima della discesa in doppiascendevamo a forza di braccia, però in-tanto facevo esperienza e in Grigna inostri martelli facevano rumore».

Nel ‘33 incontra Emilio Comici chegli insegna il sesto grado, le raffinatez-ze della corda a forbice, vanno insiemenelle Dolomiti. Nel ’35, a venticinqueanni, dopo il gigantesco spigolo sud-est della Torre Trieste, Cassin affrontale Tre Cime di Lavaredo: la sud dellaPiccolissima, la parete nord della CimaOvest. Avanza con calma, ma è un uo-mo d’azione, lotta, passa dove gli altrinon riescono, aspetta, non torna indie-tro, non si affanna, studia la meccani-ca, le sue soluzioni hanno l’eleganzadell’essenzialità. Sono gli anni delle ga-re per risolvere gli ultimi grandi proble-mi delle Alpi e anche quelli funestati datragedie: le corde di canapa legate in vi-ta, i pochi chiodi, gli abiti di flanella nonproteggono dalle cadute, dalle pietre,dal freddo. Tra il ‘35 e il ‘38 Cassin lasciail segno e crea il mito. È protagonista,nelle vesti di apritore, anche sui torrio-ni della Grignetta. Le sue prime: due viesulla Guglia Angelina, una sul SigaroDones, una sul Torrione MagnaghiCentrale, una sul Torrione Palma, unasulla Torre Cecilia e due sulla Torre Co-stanza, sulle pareti sud ed est.

Poi c’è la Seconda guerra mondiale.«L’ho fatta da operaio, come figlio diuna vedova mi sono risparmiato il mi-litare, gli altri, gli oppositori, sono an-dati in montagna, io facevo parte delplotone rocciatori, partigiano in città,era pericoloso, c’erano i tedeschi, hoospitato un paracadutista inglese e lamoglie di un capo della Resistenza. Conle forze alleate sono commissario di po-lizia a Dongo, quando nel ‘46 mi arrival’ordine di disarmare i partigiani, nonera una cosa che mi divertisse molto,così lascio l’incarico, avevo un tesseri-no bilingue, e mi butto sul commercio,anche perché nel ‘40 avevo preso mo-glie, Irma, ed erano nati tre figli, Valen-tino, Pierantonio, Guido. Ho contatticon un negozio di suole di scarpe Vi-bram, con il cordificio industriale Siolia Milano e con la Snia Viscosa per unacorda di nylon, prima intrecciata, poiprotetta con una calza all’esterno. In-somma mi dedico all’attrezzatura damontagna e apro un negozio accantoalla stazione di Lecco». Caschi, imbra-gature, chiodi marca Cassin, venduti intutto il mondo.

Mai stato un chiacchierone. Le ono-

capito come risolvere il problema, maDesio non vuole ombre. Cassin ci restamale. E quattro stagioni dopo, nel ‘58, ilnon idoneo all’alta quota, a quaranta-nove anni è capo della spedizione ita-liana (c’era anche Fosco Maraini) checon Walter Bonatti e Carlo Mauri arrivasui 7.925 metri del Gasherbrum IV,montagna del Karakorum. E Cassin, dasolo, in ricognizione risale la crestanord della montagna e sfiora quasi la ci-ma del Gasherbrum III. È la sua rispo-sta, la sua vendetta silenziosa, non fapolemiche con Desio, ma si prende larivincita.

Nel ‘69 guida la spedizione leccheseal Nevado Jirishanca nelle Ande peru-viane. Nel ‘75 i suoi grandi anni si con-cludono con la parete sud del Lhotse.Ma la montagna non è solo l’altezza diuna vita, anche affetto, e provarci sem-pre. Così Riccardo a settantotto anninell’87 ripete due volte la salita sullanord-est del Badile. In compagnia de-gli amici e in ricordo di quelli che non cisono più. Mezzo secolo dopo la primaascensione torna a carezzare la sua roc-cia. Lascia il rifugio alle due, in anticipodi quattro ore sulla sveglia. Ha uno zai-netto grigio e rosso, Ermanno Salvater-ra gli chiede di darglielo, e lui quasi of-feso dice no, che deve portarlo lui. È af-faticato, ma la volontà bestiale è sem-pre quella. Quella che lo faceva starequattro ore per un solo chiodo davantia un traverso.

Ora dice che ha molti progetti perl’anno prossimo. Celebrazioni, spet-tacoli, film per cui si stanno cercandofondi, uscirà nel 2009 anche il libro diGogna, Melesi e Redaelli: RiccardoCassin. Cento volti di un grande alpi-nista. Perché con lui l’alpinismo smet-te di essere uno sport per snob e di-venta passione democratica, un modoper passare il tempo. «Era il nostro di-vertimento, non avevamo altro. An-che oggi questa montagne per la no-stra gioventù funzionano come unciuccio. Ci sono ragazzi molto bravi,soprattutto quelli che non sporcano lamontagna, che portano giù materiali eimmondizia».

Cassin non è servito solo agli altri, aspostare i limiti, a offrire materia pernuove interpretazioni. Ma è riuscito asistemare anche quella cosa in fondo alcuore, non una cima, ma un dolore chestava lì da tempo. Riccardo aveva dueanni e mezzo quando il padre era parti-to emigrante, senza più tornare. Nel ‘61quando aveva conquistato il McKinley,la vetta più alta dell’America setten-trionale, il presidente Kennedy gli ave-va chiesto cosa volesse per regalo. E lui:«L’aiuto della Casa Bianca per cercarela tomba di mio padre». Ma non gli dan-no troppo ascolto.

La vera ricerca di Valentine Cassini,nei documenti il nome è storpiato, ini-zia nel maggio ‘98 quando Riccardo alFestival del cinema della montagna diTrento incontra dei giurati canadesiche si mettono d’impegno e trovano su

rificenze non gli mancano. Le primesono state le quattro medaglie d’oro alvalore atletico del ventennio fascista.«Ogni regime autoritario premia chi glifa propaganda, ma se non avessi fattola Walker o la ovest del Badile le meda-glie non le avrei avute». Gli occhi da lu-po spiegano il resto. Un giorno nel ‘50c’è un incidente alla comitiva di un ora-torio nei pressi di un campeggio dei Ra-gni di Lecco. Cassin e gli altri recupera-no un ragazzo. Di sera un giovane sa-cerdote si presenta per ringraziare del-l’aiuto: «Grazie a Dio è andato tutto be-ne». E Cassin: «Guardi che il ragazzol’abbiamo salvato noi, Dio non c’en-tra».

Cassin c’entra invece con il K2, nel‘53 fa parte della spedizione che va in ri-cognizione in Pakistan con Ardito De-sio, che però lo tratta male, lo umilia, losottopone a trenta ore di viaggio in tre-no e poi lo esclude dal gruppo per una«non idoneità fisica» mai provata. Laverità è che Riccardo è un leader, che ha

un vecchio atlante la località ormai ab-bandonata di Nicomen, British Colum-bia, il cui nome significa Ni-kaomin,posto tagliato dall’acqua, nella linguadegli indiani Sto-lo. Ritagli di giornaleraccontano l’esplosione di una minanella cava del Coyote Hole e della tragi-ca fine di due operai italiani scesi in fon-do alla terra troppo presto. Era una mi-niera di pietrisco, lì si lavorava per ilraddoppio della Canadian Pacific, la li-nea ferroviaria lunga settemila chilo-metri.

Quando invitano Cassin al Festival diBanff, in Canada, non ci sono dubbi.Parte tutta la famiglia, intanto il curatodella vecchia parrocchia fa sapere chelassù c’è un cimitero sgangherato, conil cancello in ferro, soprannominato«prato dei pionieri». Gli emigrati chemorivano venivano seppelliti lì. Latomba 19 è quella di Valentino. L’11 no-vembre ‘98 Riccardo, con il figlio Guido,raggiunge il vecchio cimitero, con inmano dei crisantemi rosa comprati dauna fioraia ucraina a Calgary. «Abbia-mo avuto un’ottima accoglienza, unafamiglia abruzzese ci ha ospitati, noiabbiamo inviato un crocefisso in bron-zo, che è stato messo in chiesa. Il sinda-co aveva fatto sistemare e ripulire letombe, ora quel cimitero è monumen-to nazionale. Con molta discrezione cihanno lasciati entrare da soli e io mi so-no riscoperto figlio a novant’anni».

La solita via Cassin, ostinata e diret-ta. Ma stavolta anche commovente:«Eccomi qui papà dopo ottantasetteanni, mamma Emilia è morta nell’83,novantenne, ma è sempre rimasta inlutto per te. Abbiamo vissuto tutti a lun-go, forse anche i tuoi anni e perché spe-ravamo di ritrovare la tua tomba. Ci so-no riuscito, ci vediamo presto». Queltestone del Riccardo, mai che molli lapresa.

Si andava in rocciaanche a piedi scalzi,ma prima c’erabisogno della collettaper la corda. I chiodice li costruivamoLa montagna erail nostro divertimentoNon avevamo altro

EMANUELA AUDISIO

Riccardo Cassin

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Repubblica Nazionale