Zanussi lo conoscono bene Il mio e lo raccontano amico...

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DOMENICA 6 FEBBRAIO 2005 D omenica La di Repubblica le storie I bimbi schiavi dei cammelli da corsa GABRIELE ROMAGNOLI i luoghi Las Vegas, la città capovolta VITTORIO ZUCCONI le tendenze La vita è un giro di tavolo MICHELE SERRA l’inchiesta Orfanotrofi, addio alla favola triste FILIPPO CECCARELLI e MARIA NOVELLA DE LUCA il racconto Le feste e l’odio nella Gerusalemme inglese SANDRO VIOLA La sua malattia tiene in allarme il mondo. Ma chi è davvero Papa Wojtyla? Jerzy Kluger e Krzystof Zanussi lo conoscono bene e lo raccontano Il mio amico Karol S e fosse un racconto di Singer, Wadowice sarebbe un grande villaggio e i protagonisti della nostra storia due bambini leggeri come un quadro di Chagall. Se fosse un dramma di Bernanos, ve- dremmo le due stesse figure camminare con gli oc- chi pieni di domande in mezzo a quegli anni terri- bili che scossero le certezze e resero alla fine la fede più sal- da. Jurek e Lolek si conobbero all’età di cinque anni. Era il 1925. Jurek e Lolek erano i soprannomi di Jerzy Kluger e di Ka- rol Wojtyla (sopra in una foto recente con la nipotina di Klu- ger). Non conoscevano nulla l’uno dell’altro. Non sapevano che erano destinati a fare un lungo tratto di strada assieme, poi a perdersi e infine ritrovarsi. Ma così è la vita: imprevedi- bile. Come trovarsi un papa per amico. Oggi Kluger ha 84 an- ni, la stessa età del pontefice. È un uomo che sembra avere sulla vita una presa particolare. (segue nella pagina successiva) ANTONIO GNOLI « N on ne parleremo mica solo perché ha un raffreddore…», scherza il regista polacco Krzystof Zanussi, 63 anni, amico personale di Wojtyla e autore dell’unico film biografico su di lui. Lo scherzo è più di una scaramanzia. È l’esorcismo di chi ha fatto abitudine all’autunno infinito del grande vecchio, alla sua infermità vittoriosa esposta come una bandiera. È l’ansia di un popolo che in pochi mesi ha perduto due grandissimi — Czeslaw Milosz e Jacek Kuron — e ora non si rassegna al tramonto di chi gli ha dato luce do- po un secolo di piombo. Zanussi lo conosce come pochi. Ha riso con lui, ascoltato i suoi silenzi, misurato da regista i to- ni della sua voce e i riflessi del suo corpo. Ha mangiato zup- pa di rape rosse alla sua tavola, assistito alle sue preghiere, imparato a memoria i tempi del suo humour “differito”. (segue nella pagina successiva) PAOLO RUMIZ FOTO CRISTIANO LARUFFA/AGF

Transcript of Zanussi lo conoscono bene Il mio e lo raccontano amico...

DOMENICA 6 FEBBRAIO 2005

DomenicaLa

di Repubblica

le storie

I bimbi schiavi dei cammelli da corsaGABRIELE ROMAGNOLI

i luoghi

Las Vegas, la città capovoltaVITTORIO ZUCCONI

le tendenze

La vita è un giro di tavoloMICHELE SERRA

l’inchiesta

Orfanotrofi, addio alla favola tristeFILIPPO CECCARELLI e MARIA NOVELLA DE LUCA

il racconto

Le feste e l’odio nella Gerusalemme ingleseSANDRO VIOLA

La sua malattia tiene in allarmeil mondo. Ma chi è davvero

Papa Wojtyla? Jerzy Kluger e KrzystofZanussi lo conoscono bene

e lo raccontano

Il mio amico Karol

Se fosse un racconto di Singer, Wadowice sarebbeun grande villaggio e i protagonisti della nostrastoria due bambini leggeri come un quadro diChagall. Se fosse un dramma di Bernanos, ve-dremmo le due stesse figure camminare con gli oc-chi pieni di domande in mezzo a quegli anni terri-

bili che scossero le certezze e resero alla fine la fede più sal-da. Jurek e Lolek si conobbero all’età di cinque anni. Era il1925. Jurek e Lolek erano i soprannomi di Jerzy Kluger e di Ka-rol Wojtyla (sopra in una foto recente con la nipotina di Klu-ger). Non conoscevano nulla l’uno dell’altro. Non sapevanoche erano destinati a fare un lungo tratto di strada assieme,poi a perdersi e infine ritrovarsi. Ma così è la vita: imprevedi-bile. Come trovarsi un papa per amico. Oggi Kluger ha 84 an-ni, la stessa età del pontefice. È un uomo che sembra averesulla vita una presa particolare.

(segue nella pagina successiva)

ANTONIO GNOLI

«Non ne parleremo mica solo perché haun raffreddore…», scherza il registapolacco Krzystof Zanussi, 63 anni,amico personale di Wojtyla e autoredell’unico film biografico su di lui. Loscherzo è più di una scaramanzia. È

l’esorcismo di chi ha fatto abitudine all’autunno infinito delgrande vecchio, alla sua infermità vittoriosa esposta comeuna bandiera. È l’ansia di un popolo che in pochi mesi haperduto due grandissimi — Czeslaw Milosz e Jacek Kuron —e ora non si rassegna al tramonto di chi gli ha dato luce do-po un secolo di piombo. Zanussi lo conosce come pochi. Hariso con lui, ascoltato i suoi silenzi, misurato da regista i to-ni della sua voce e i riflessi del suo corpo. Ha mangiato zup-pa di rape rosse alla sua tavola, assistito alle sue preghiere,imparato a memoria i tempi del suo humour “differito”.

(segue nella pagina successiva)

PAOLO RUMIZ

FOTO CRISTIANO LARUFFA/AGF

la copertinaIl Papa malato

ANTONIO GNOLI

22 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 6 FEBBRAIO 2005

“Il mio amico Karol Wojtyla”(segue dalla copertina)

Ha esplorato la sua biogra-fia, costruito film su di lui emesso in scena le sue ope-re giovanili. Ancora lavoraalla sua azienda, gioca atennis. Rievoca un lonta-

no torneo di Wimbledon cui partecipònel 1947: «Nel singolo fui eliminato alprimo turno», dice. Il ricordo lo distoglieper un attimo dall’apprensione per l’a-mico Karol. Pensa al peso delle respon-sabilità, alla malattia che lo ha infragili-to fino al punto da metterne a repenta-glio la vita. Apprende con sollievo che ilbollettino medico è favorevole. Guardauna foto che lo ritrae con il pontefice, inuna visita di tanti anni fa. Hanno l’ariadistesa, quasi sorridente. Accanto a unabambina — la nipotina di Kluger — sem-brano due vecchi ragazzi cresciuti infretta, complici le strade di Wadowice, ilcampetto di calcio, il piccolo teatro, do-ve Karol amava recitare.

Come vi siete conosciuti?«Vivevamo nella stessa città, andava-

mo nella stessa scuola, frequentavamo

la stessa classe. Così ci siamo conosciu-ti: come due bambini curiosi l’uno del-l’altro, felici di frequentarci. Karol vive-va vicino a una grande piazza, in un ap-partamento di un palazzo che apparte-neva a un ebreo. Il proprietario era unostrano personaggio che vendeva bici-clette. E ricordo quante volte io e Lolekabbiamo desiderato averne una perpotercene liberamente andare in giro».

Abitavate nello stesso palazzo?«No, vivevo all’estremo opposto del-

la piazza. Con i miei genitori occupava-mo il primo piano di un edificio che ap-parteneva a mia nonna».

La sua famiglia era ricca?«Mio padre era un avvocato, la fami-

glia di mia madre aveva un commerciodi liquori».

E com’era Karol a cinque anni?«Non deve pensare a un bambino

speciale. Faceva le cose che l’infanziadettava. C’era in lui, forse, una maggio-re consapevolezza, una maturità pre-coce. Ma amava come tutti noi giocaree divertirsi».

Che genere di giochi praticavate?«A me piaceva sciare e giocare a ten-

nis. Lolek amava le escursioni in mon-tagna e il calcio. Ricordo che durante ilginnasio avevamo allestito un squa-dretta che sfidava le altre classi».

E Karol in che ruolo giocava?«In porta. Si arrabbiava quando nella

concitazione del gioco, o magari davantia qualche scorrettezza, qualcuno esplo-deva con ingiurie, in particolare se quel-le ingiurie avevano un tono antisemita».

Nella Polonia dei primi anni Trentac’erano forme di antisemitismo?

«C’erano, ma a Wadowice non eranocosì forti. Lo diventeranno in modo tra-gico dopo il 1935, con la morte del Ma-resciallo Pilsudski».

Com’era la famiglia Wojtyla?«Non era una famiglia ricca, se è que-

sto che vuole chiedermi. Decorosa, sì,con un padre straordinario».

Che cosa aveva di straordinario?«Era stato un ufficiale dell’esercito

austriaco che dopo il crollo dell’impe-ro era entrato nell’esercito polacco. Lasua salute cagionevole lo obbligò adandare in pensione molto presto. Cre-do che passasse molto del suo tempo aleggere. Era un autodidatta, ma ricordo

le sue lezioni di storia. Io e Lolek stava-mo ore a sentirlo raccontare le vicendedella storia polacca. Nessun professoredel ginnasio che frequentavamoavrebbe saputo creare un interesse al-trettanto forte in noi ragazzi quanto ilsignor Wojtyla con i suoi racconti».

Aveva anche un nome?«Ovviamente, ma per noi era il signor

Capitano».Karol era figlio unico?«No, aveva un fratello più grande,

che morì quando Lolek aveva undicianni. Diventato medico, fu chiamato inun istituto di ricerca a Bielsko, nella Sle-sia. Nel suo laboratorio sperimentava-no vaccini contro la scarlattina. E fu ilcontagio di questa malattia a portarse-lo via. Per Karol fu un colpo terribile.Anni prima aveva già perso la madre eora il fratello. Tornò a scuola dopoqualche giorno e mi colpì la sua grandematurità nel sopportare il dolore».

Avete percorso assieme un lungo trat-to scolastico. Com’era Karol a scuola?

«Bravo, in particolare nelle materieumanistiche, nelle quali eccelleva. C’èun episodio che mi torna alla mente e

che riguarda il nostro passaggio al gin-nasio, per il quale occorreva un esameche sostenemmo. Seppi del risultatofavorevole per entrambi e volli comu-nicarglielo. Quella mattina Lolek si tro-vava in chiesa a servire messa. Così en-trai per la prima volta in una chiesa e lovidi che svolgeva le sue funzioni».

Che cosa accadde?«Mi fece cenno di aspettare la fine. E

in quel momento una vecchia beghinami scrutò chiedendomi se ero il figliodell’avvocato Kluger, capo della comu-nità ebraica. Io dissi sì. E lei sbottò di-cendo che non capiva per quale motivoun ebreo entrava in una chiesa. Non ri-sposi e mi allontanai. Quando finì lamessa Lolek si avvicinò e gli comunicaiche entrambi eravamo stati ammessi alginnasio. La notizia lo lasciò indiffe-rente. Mi chiese, invece, che cosa miavesse chiesto quella donna e quandoglielo riferii, rimase turbato. Quelladonna non ha capito, così disse, chesiamo tutti figli di uno stesso Dio».

Si è spesso ricordato l’amore delPapa per il teatro, al punto che se nonavesse fatto il prete probabilmente

Krzystof Zanussiè il regista dell’unicofilm biografico sulPontefice: “Amico?Ho conosciuto altripapi, questo è il soloche conosce me.Il primo che mi invitaa mangiare accantoa lui. Ed è sempreun’emozione”

(segue dalla copertina)

orride e racconta dell’amico Karol, un Papamediatico che in realtà è un grande scono-sciuto. Uno che non «mette in vendita» la suaanima profonda, mistica e di raccoglimento.

Da quanto conosce il Papa?«Da decenni. Da quando lui era vescovo di

Cracovia e io studenteuniversitario, nella stessacittà. Ci siamo conosciutiin casa di un mio compa-gno di studi, che aveva ilpadre professore. Una fa-miglia di origine italiana,come la mia, ma moltopiù antica. Vetulani sichiamavano. Immigratiin Polonia nel Medioevo».

Si considera suo amico?«Ci sono quaranta mi-

lioni di polacchi che sisentono amici del Papa, eio sono uno di loro. Cer-to, ho mangiato alla suatavola. Ma non vogliovantarmi di un rapporto

personale, che tale deve restare. In fondo ho cono-sciuto direttamente anche Giovanni XXIII, Paolo VI,Giovanni Paolo I. La differenza è un’altra».

Mi dica, qual è la differenza?

sentito. Poi, mezz’ora dopo, arrivava la risposta, il com-mento, sempre molto spiritoso, sorprendente. Conun’autorità come la sua, il ping-pong di un’intervista èimpossibile. Sceglie sempre lui quando replicare».

Un esempio…«Non mi sembra giusto rivelare conversazioni private.

Il rischio di essere strumentalizzati è molto forte, la di-screzione è indispensabile. Posso parlare solo della tec-nica, del suo modo di porsi».

Come lo giudica da regista?«Wojtyla ha fatto teatro, e si vede. È un grande comu-

nicatore che sa fare anche l’attore. L’impostazione dellavoce, il dominio dello spazio, i ritmi: tutto questo lo ave-va già in mano fin da sacerdote».

Parli della sua voce.«Era magnifica, ricchissima di toni, e sapeva usarla.

Oggi non è più così, e per lui è una grande limitazione.Colpa del Parkinson e delle medicine che prende. Incompenso scrive, più di prima».

E il suo modo di abitare il corpo?«Mi piace il modo che ha di esporre senza imbarazzo

malattia e vecchiaia. È curioso, i vescovi devono andare inpensione a 75 anni, i cardinali smettono di votare il Papa a80. Gli unici che restano a oltranza sono i parroci e il Papa.Il basso e l’alto della piramide. Oggi Wojtyla è l’unico gran-de vecchio al mondo che si assume un ruolo di guida».

Anche per i non credenti?«Anche. Il bisogno di una guida va oltre le confessioni.

Gli ortodossi l’hanno capito. Il culto della forza fisica èuna malattia della modernità. L’Occidente non capisceche la vecchiaia non è un ostacolo nella fede. Può esser-

«Questo è il primo Papa che conosce me. Il primo che miinvita a mangiare accanto a lui. Una volta, anche quandoinvitava un re, il Papa sedeva a un tavolo separato».

Di lui si sa tutto, anche cosa mangia.«Si è scritto anche questo. Mangia polacco e italiano.

Una simbiosi naturale, perché l’Italia ha influenzato lanostra cucina da secoli. L’uso delle verdure l’abbiamo im-parato da voi. Ancora oggi si chiamano “roba italiana”».

Esisterà pure un Wojtyla segreto.«Un lato invisibile di lui è il suo essere profondamente

uomo di preghiera. Il Papa mistico non è mai diventatofigura mediatica. È un aspetto di lui che non appare e nonsi vende. Ed è il suo volto più vero, forse».

Lo ha conosciuto quel volto?«Sì. Parecchie volte. In momenti di grande stanchezza,

di grande pressione. Allora preferiva pregare, perché la pre-ghiera lo ritemprava, più del riposo. La preghiera è il suo ri-fugio. Quando prega, qualsiasi altra attività lo infastidisce».

Uomo dai sentimenti forti.«Questa è la parte di lui che si vede. Tutti abbiamo vi-

sto la sua irritazione, nel primo viaggio in Polonia. E la suagrande allegria, in altri momenti. Un giorno rise fino allelacrime, senza controllo, davanti agli artisti di circo e ailoro giochi di prestigio. C’era autoironia, in questo…».

Cioè?«L’uomo che doveva vagliare i miracoli veri, quelli dei

santi, rideva dei miracoli falsi, dei saltimbanchi…».Com’è il Papa nell’intimità della conversazione?«Ha un senso dell’humour molto particolare, che viag-

gia su una reazione sfasata. A volte certe mie frasi cade-vano nel silenzio, ho quasi creduto che non mi avesse

“Un misticoche sa riderecon i clown”PAOLO RUMIZ

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Jerzy Kluger ha passato la giovinezza a Wadowice accantoal piccolo “Lolek”, poi lo ha reincontrato a Roma da papa.Ora racconta la scuola, lo sport, il teatro, le infatuazionidi due ragazzini polacchi alle soglie della guerra. E gliincontri di oggi tra un ebreo e il pontefice dei cattolici,uniti non dal “compromesso” ma dalla “comprensione”

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 23DOMENICA 6 FEBBRAIO 2005

avrebbe fatto l’attore. È vero?«Non credo che avrebbe mai potuto

fare qualcosa di diverso da ciò che glidettava la sua vocazione profonda-mente religiosa. Certo amava il teatro erecitava straordinariamente bene conuna voce meravigliosa. Aveva avuto co-me maestra di recitazione Ginka Beer,un’affascinante ragazza di qualche an-no più grande di noi, molto bella, dellaquale c’eravamo un po’ invaghiti. A uncerto punto lei lasciò la Polonia. Eraebrea e sionista e per questo aveva de-ciso di andare a vivere in Palestina».

Quando le vostre strade si sono se-parate?

«Alla fine del ginnasio. Lui andò al-l’Università di Cracovia per studiarestoria e io al Politecnico di Varsavia perfare ingegneria».

Sentiva di aver perso un amico?«Non avevo l’impressione di averlo

perso. Ma gli anni ai quali andavamoincontro erano terribili».

E che tipo di amicizia era stata fra voidue fino a quel momento?

«Era un’intesa molto bella fra due ra-gazzi cresciuti assieme».

Ma lei ebreo e lui cattolico. Dov’erail punto di compromesso?

«Compromesso è una parola inade-guata. Preferirei parlare di compren-sione. La comprensione nasce dall’a-more, il compromesso dall’interesse. Edue ragazzi come noi avevano dell’a-micizia un’idea disinteressata».

Vi separaste nel 1938, quando vi sie-te rivisti?

«Fu durante il Concilio Vaticano II,appresi da un giornale che a Roma, do-ve nel frattempo io mi ero stabilito, eraarrivato un certo Karol Wojtyla, arcive-scovo di Cracovia».

E lei che fece?«Telefonai e presi un appuntamento.

Ricordo che alloggiava nel convento disuore di via Cavallini. Ci vedemmo inun pomeriggio di primavera. Non lotrovavo molto cambiato, salvo forse perla veste che indossava e che gli conferi-va un’autorità particolare. Passeggia-mo a lungo per le strade limitrofe al con-vento. A un certo punto fummo invasidalla tristezza al pensiero di coloro chenon ce l’avevano fatta a sopravvivere al-le atrocità del nazismo e della guerra.

Ricordo la commozione che ci avvolsequando parlammo del nostro amico diinfanzia Tadek Czuprynski che saltò suuna mina alla fine della guerra».

E come apprese della sua elezione aPapa?

«Ero dal dentista, sulla stessa poltro-na dove nel 1960 sedeva Cassius Clayper curarsi un improvviso mal di denti».

Perdoni la digressione che c’entra ilpugile Clay?

«Il fatto è che nel 1960 io ero uno de-gli interpreti ufficiali accreditati alleOlimpiadi e accompagnai il pugile daldentista. E il dentista, più di vent’annidopo, rievocando l’episodio di Clay, al-l’improvviso mi dice: “Senti? hannoappena eletto il Papa”. La radio stavatrasmettendo questa bella voce chemandava un messaggio. Il dentista dis-se: “Ma che razza di pronuncia ha?” Eio: è la lingua di Wadowice. E lui: “Macome fai a dirlo?” Abbiamo fatto la stes-sa scuola, risposi».

Con il Papa avete continuato a vedervi?«Sì, con regolarità e compatibilmen-

te con i suoi numerosi impegni inter-nazionali».

Le grandi responsabilità lo hannocambiato?

«Cambiato non è la parola giusta. An-gosciato sì, per tutto quello che è acca-duto e che sta accadendo nel mondo».

Le ha mai parlato dell’attentato chesubì in piazza San Pietro?

«Non ne ha mai voluto parlare, alme-no con me».

Che immagine può darci di KarolWojtyla privato?

«Di un uomo straordinariamentepiacevole. Scherzoso, conviviale, conun senso raffinato dell’umorismo. Econoscendo questo lato, mi addoloraprofondamente vederlo oggi così fragi-le ed esposto alla malattia».

Le ho chiesto prima qual è il modoper un ebreo e un cattolico di incon-trarsi. E lei ha parlato di comprensio-ne. C’è solo questa?

«Non penso che mi debba sofferma-re sulle differenze fra le due religioni.Quando Karol è diventato papa ha fattoil possibile e l’impossibile per colmareil divario delle incomprensioni e mipiace pensare che a questo abbia con-tribuito la sua gioventù a Wadowice».

lo per un manager. Ma il vescovo di Roma non è un ma-nager, e può delegare la gestione del potere. La sua auto-rità morale, invece, resta intatta con l’età».

Un Papa guerriero?«Sicuramente la sua figura non è pacifista, se essere pa-

cifisti significa tollerare la violenza applicata agli altri, quel-la che non tocca il nostro orticello. Noi polacchi abbiamosofferto di questo, quando nel 1938 i pacifisti europei nonbloccarono sul nascere l’espansionismo di Hitler. La guer-ra è un male assoluto, ovvio. Ma a volte è il male minore».

Il Papa combatte ancora? O segue la corrente del fiume…«Essere cristiani significa essere all’opposizione, e lui

resta controcorrente. Due anni fa disse no alla guerra inIraq, e non credo che abbia cambiato idea. Anche la suaposizione contro il consumismo è immutata. Wojtyla èpiù vicino ai giovani scontenti che a qualsiasi potente cuiil mondo va benissimo».

Non vede un Papa prigioniero?«Di che cosa?»Del Vaticano, di Roma, del portone di bronzo di San

Pietro.«La sua risposta a questo rischio è stata immediata: i

viaggi. Nessun Papa ha viaggiato tanto. Le sue trasfertenon erano solo il modo per evangelizzare. Erano anche ilsuo modo per evitare la dipendenza dall’apparato. Unmodo per dire: non sono un amministratore sedentario.Sono uno che cerca la gente, senza mediazioni».

Un nomade inquieto...«Noi polacchi per cinquant’anni non abbiamo potuto

viaggiare, in noi il nomadismo è una reazione alla clau-strofobia da regime. Ma il Papa ha viaggiato da sempre, fin

da quando era vescovo di Cracovia. Credo che in lui sia unistinto speciale. Quello di cercare lontano per immedesi-marsi nell’Altro. E per mettere in discussione se stesso».

Il suo è stato un papato spettacolare, televisivo. Nonvede dei rischi in questo?

«Altri papi hanno scoperto la forza della radio, o dellacarta stampata… No, non parlerei solo di rischi. Ci sonoanche i vantaggi. La parola scritta ha portato alla laiciz-zazione del mondo; l’audiovisivo invece consente uncontatto più sensuale, meno intellettuale, con la gente, eva al cuore dei sentimenti. Questo Papa dice di più con isuoi passi, i suoi sorrisi, con le sue fermate, che con le sueencicliche e le parole».

Di nuovo il tono della sua voce.«Ah, ricorda il suo urlo in Sicilia contro la mafia? Attra-

verso quell’urlo è passata una scarica di emozioni chenessuna carta stampata poteva convogliare. Lo dico dauomo dell’audiovisivo».

Ma la Tv non intercetta le penombre, i misteri della fede.«Il rischio che spariscano sarebbe reale se la vita della

gente si riducesse allo schermo televisivo. Ma così non è.Questa possibilità non esiste. La Chiesa stessa non è vi-deo-dipendente».

Il Papa ha conosciuto l’amore fisico pieno?«Non posso dirlo. Certo la mascolinità di Wojtyla è evi-

dente, completa, multiforme. Il suo libro sulla sessualitàfa capire che il celibato è stato per lui una scelta sofferta.È uno dei pochi sacerdoti che hanno capito fino in fondol’immenso potenziale del rapporto uomo-donna».

Il primo che guarda alla teologia dell’amore attraver-so il corpo.

«Una cosa è sicura. La divisione manichea tra corpo eanima che ha segnato la Chiesa per secoli sicuramente inWojtyla non si presenta».

Cosa ha capito facendo film su di lui?«Ho imparato l’impossibilità di raccontare artistica-

mente un simile personaggio da vivo. Non lo si può espor-re in modo interrogativo, investigare sulle sue decisioni.Così ho lavorato su tutto il resto. Sulla Polonia, prima che sudi lui. Per questo il film si chiama Da un Paese lontano».

La Polonia lo ama. Ma lo capisce?«In che senso?»Nel senso che non lo prendono troppo sul serio quan-

do attacca il consumismo neo-liberale.«È più facile capire la condanna di un regime, come

quello comunista, che vivere seguendo inflessibilmentei dieci comandamenti, così come vorrebbe lui. Ma a di-scolpa dei polacchi voglio dire che è facile cadere nellatrappola del consumismo, se per cinquant’anni non haiconsumato».

Le cose cambiano?«Il primo decennio di libertà è stato di consumo sfre-

nato. Oggi le cose cambiano. La nuova generazione ca-pisce che esistono altri valori. I giovani sono molto piùprofondi dei loro padri. E capiscono meglio il Papa».

Questa Chiesa non è troppo Wojtyla-dipendente?«Tra il Concilio di Trento e il secolo ventesimo non ci

sono stati papi importanti. Le grandi figure sono una co-sa recente. Anche Giovanni XXIII è stato una figura for-te… Anche alcuni grandi mistici del medioevo… Il ri-schio di uno smarrimento, dopo, effettivamente può es-serci. Ma la Chiesa è millenaria… Si ancora a ben altro…».

COMPAGNI DI CLASSENella foto grande qui sotto,

Wojtyla (cerchiato a sinistra)

e Jerzy Kluger (cerchiato a

destra) in quarta elementare.

A sinistra, il giovane Karol

(secondo da destra

in prima fila) durante il servizio

di leva nel 1939.

A destra, Lech Walesa.

Nella pagina accanto,

Kluger e, sotto, Krzystof

Zanussi e una scena del film

“Da un paese lontano”

LECH WALESA

Sono passati appena duemesi dal mio ultimo in-contro con il Santo Padre.

Due mesi fa in Vaticano, egli miapparve in buone condizioni. Eora eccomi qui a pregare per luiogni momento. Perché abbia-mo ancora bisogno di lui che ciinsegnò a non avere paura, dilui senza la cui forza noi nonavremmo vinto. Lui senza il cuisorriso sereno e coraggiosol’Europa di oggi non sarebbel’Europa senza muri.

Ricordo ancora quell’ulti-ma delle tante volte che c’in-contrammo in questi ventiset-te anni. Era dicembre, laggiùda voi a Roma. Fui invitato perun’udienza privata, ed egli michiese di trattenermi a cola-zione. Parlammo a lungo, diDio e degli uomini, della Polo-nia e del mondo. Uscii con unagrande gioia da quell’incontroin Vaticano. Perché con miasorpresa, una sorpresa gioiosache porto ancora nel cuore,egli mi sembrò lucido, attento,e molto più sano, forte, vigoro-so di quanto non mi fosse ap-parso un anno prima, alle cele-brazioni per il suo venticin-quesimo anno di pontificato.

Mentre prego commossoper lui, mentre il mio cuore è alsuo fianco sperando nella suaguarigione, riguardo alla suavita straordinaria e special-mente ai suoi ultimi anni. Iocredo che il Santo Padre chie-da troppo a se stesso. Il mio au-gurio, la mia speranza è cheadesso, quando si sarà ristabi-lito, sappia concedersi un po’di riposo, una tregua. Non peregoismo, ma perché c’è anco-ra molto che egli può fare pernoi. Per tutti noi: non solo pernoi cattolici, per noi cristiani.Per tutti egli sa essere la massi-ma autorità morale.

Mentre prego, ripenso aquesti anni straordinari per lamia Polonia e per il mondo,questi anni con lui alla guidadella Chiesa. Ricordo le primeudienze che egli concesse a mee ai miei compagni nella lottaper la libertà. Eravamo incerti,spesso confusi. Fu lui a dirci dinon avere paura, fu lui a inse-gnarci il coraggio e l’ottimi-smo, lui fece capire a tutti laforza della non violenza. Sen-za di lui non avremmo sconfit-to il comunismo, senza di luiBerlino sarebbe ancora divisadal Muro, senza di lui la nostrapatria e tutte le nazionidell’“altra Europa” oggi nonsarebbero libere. Senza que-st’uomo straordinario, lascia-temi insistere, in questa partedel mondo non sarebbe maiavvenuto nulla. Le conquiste ele vittorie di noi leader politici,di semplici uomini come me,non sarebbero state possibili.Nulla è a volte l’azione, se nonha dietro di sé il Verbo.

Questa è l’immagine delSanto Padre forte e vincitore,che abbiamo nei cuori. Oggi ilsuo ruolo di massima autoritàe guida morale non è certo me-no importante, né facile di ieri.E oggi, chi ricorda il Papa fortee vincitore di allora ama questogrande uomo ancora di più. Unsentimento quasi di tenerezza,di affetto per l’uomo anziano eprovato, rendono l’amore perlui e il suo messaggio ancorapiù grandi. L’altro giorno, aDanzica, alla festa della Can-delora le chiese erano ancorapiù piene del solito. Anche danoi in Polonia la società si fa piùlaica, ma questa evoluzionenon affievolisce i sentimentiverso di lui. Seppe insegnarci ilcoraggio, l’ottimismo, il valoredella vita allora e sa farlo ancheoggi mentre soffre. Proprio perquesto, spero che egli sappiaconcedersi un po’ più di respi-ro anziché esigere ancora trop-po da se stesso.

(testo raccoltoda Andrea Tarquini)

L’ex presidente polacco

“Ma ora devedarsi tregua”

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l’inchiestaFine di un’epoca

Conto alla rovescia per gli “istituti per i minori”:alla fine del 2006 i 24mila ragazzini ospitidovranno essere trasferiti in case famigliao in famiglie affidatarie. Ma sono troppie molti sindaci stanno già pensando agli “affidiprofessionali”, una forma moderna di baliatico

Per alcuni che cel’hanno fatta, daNenni a Rizzoli e aDel Vecchio, nonsi contano i bimbiinfelici destinatia diventare uominiancora più infelici

24 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 6 FEBBRAIO 2005

Il massimo della tristezza, il mas-simo della poesia. Lungo questidue estremi, attraverso fiabe diriscatto e letteratura da foglietto-ne, orrori di cronaca ed esorci-smi cinematografici, si tenta, o ci

si illude forse di misurare l’immagina-rio orfanotrofico italiano. Immagina-rio in via di esaurimento, si spera.

Picchi e abissi della memoria, intan-to. Dall’antica “ruota” dei conventi aigradini delle chiese, fino ai cassonetti;dalle prime istituzioni della carità reli-giosa ai bigi casermoni dell’assistenzia-lismo statale; e poi le botte dei maestri, ilibretti rossi dei «trovatelli», o «esposti»,«gettatelli», «proietti», «bastardelli» : co-sì vennero a lungo chiamati i piccoliospiti. Le loro neredivise troppo lar-ghe o strette, tozzidi pane induriti, icori delle bambineco, di fronte a que-sta materia la pietàè un prezzo chenessun’anima, néalcun impegno ci-vile riuscirannomai a sperperare.Perché l’orfano-trofio non sembrasolo storia morta,ma anche ricordovivente, e lumino-sa letteratura, e in-crocio di vicendepersonali con i de-stini di un’intera società e dei suoi illu-stri protagonisti.

Magro e minuto, all’indomani dellamorte del papà, per intercessione di unacontessa, Pietro Nenni entrò a cinqueanni nell’orfanotrofio di Faenza. Era l’i-nizio del secolo scorso: «Mi fu messa lacorda al collo in un’età in cui niente èmeno tonico di una disciplina servile».Giudizio senza speranze: «L’orfanotro-fio fu per me una galera». E peggio, o me-glio, forse: «A quella clausura devo uncerto complesso di rivoltoso che non miha più abbandonato». E ancora oggi il ri-verbero di quell’acerba prigionia suonacome una maledizione biblica: «Dei de-litti della società — scrisse Nenni — nes-suno è più atroce di quello di cui essa simacchia privando tanti fanciulli dellavoglia di vivere».

Vero è che il giovane ribelle prese ascappare, di notte, d’accordo con il giar-diniere, di fede repubblicana, che gli fa-ceva trovare la scala appoggiata al murodell’ospizio. Però un giorno scoprironosotto il materasso di Nenni opuscoli diMazzini e altre diavolerie propagandi-stiche. Fu dunque cacciato. Era il 1908,eppure mai la libertà riuscì a placare inlui quell’«alito di tempesta».

Nenni è uno che ce l’ha fatta. Ne esi-stono altri, per cui il solo fatto di venire

dall’orfanotrofio, e ciò nonostante diaver avuto successo nella vita, costitui-sce la prova di una forza morale enorme,sigillo e compimento di una autenticafavola di redenzione sociale. CesareMori, «il Prefetto di ferro», uno dei po-chissimi che per conto dello Stato diedeun colpo terribile alla mafia, è venuto suin un orfanotrofio di Pavia, riconosciu-to dai suoi genitori naturali soltanto asette anni. Angelo Rizzoli, mecenate,produttore, capostipite di una dinastiaeditoriale, l’uomo che trasformava inoro tutto quello che toccava e chiedevaa Federico Fellini di mettere sempre «unraggio di luce» nei suoi film, uscì anchelui dall’orfanotrofio, a Milano. Era un“martinitt”, proprio come è stato “mar-tinitt”, in tempi più recenti, un perso-naggio di straordinario ingegno e vo-lontà come Leonardo Del Vecchio, clas-se 1935, fondatore e guida della “Luxot-tica”, uno dei 55 imprenditori più ricchidel mondo.

Sono esempi che valgono nella loropiù misteriosa eccezionalità. Mentre ibimbi infelici, destinati a divenire uo-mini ancora più infelici, purtroppo nonsi contano.

Inevitabile destino. La miseria, la fa-me, l’ignoranza, la vergogna, la vita sel-vaggia: tutto questo è alla base del brefo-trofio. La guerra, com’è ovvio, ci mettedel suo, instancabile fabbrica di piccolidisgraziati, ma anche di santi che se nefanno carico, li accolgono, li ricoverano,s’improvvisano portentosi organizza-tori di cura, di amore. E qui senz’altrovale ricordare i don Gnocchi, i don ZenoSaltini, i don Minozzi. Quest’ultimo,prete amatriciano, nel dicembre del1950 si carica una croce in spalla e porta1.500 orfanelli a Roma, visita a San Pie-tro, poi al Quirinale, da Einaudi. Strug-genti appaiono anche solo le descrizio-ni delle immagini del cortometraggioIncom, utilmente disponibile on linesull’archivio dell’Istituto Luce (www.archivioluce.com): «I bambini in fila en-trano ordinatamente nel Palazzo. Salada ballo del Quirinale. Guardano constupore il soffitto, i lampadari di cristal-lo, le cornici dorate, si fermano a parla-re con i corazzieri. Siedono attorno alletavole imbandite. Una suora con cap-pello bianco si aggira tra i bimbi. Uno diloro mangia di gusto un piatto di lasa-gne. Il presidente Einaudi poggia la ma-no sulla spalla del bambino...». Era un’I-talia a suo modo dignitosa e affamata,piena di necessità e di sogni. Di solito so-no proprio le istituzioni chiuse, i luoghidi pena, a misurare il destino, le speran-ze, i peccati di un paese, di un popolo.

Sull’orfanotrofio, in qualche modo,c’è un racconto agghiacciante di Piran-dello, ambientato in un paese neanchetroppo immaginario della Sicilia piùestrema, sulle rive del «mare africano».S’intitola Il libretto rosso e crudamenterivela le modalità con cui, secondo unapratica che ormai s’era fatta abitudine,

il locale ospizio dei trovatelli metteva invendita i bambini. Chi li acquistava — illoro possesso era appunto certificato daun libretto rosso — riceveva 30 lire almese. Ma poi, pur non avendo di chenutrire le creature, gli stessi acquirentirivendevano bimbi e libretti di baliaticoa mercanti di stoffe maltesi che ne face-vano incetta, del tutto indifferenti allasorte del trovatello comprato: «Il quale,se muore, a chi fa male? e chi se ne lagna,se patisce?».

L’ombra dell’immondo e crudelemercato descritto da Pirandello siproietta a lungo nel tempo, fino a lam-bire un paese ormai ufficialmente pro-gredito e comunque toccato dal boom.É l’amara scoperta degli orrori consu-mati da certi frati ai danni dei “celestini”di Prato (1969), come pure le sevizie diSuor Maria Diletta Pagliuca (1971). Sto-rie cupe. Dietro ai nomi degli istituti re-ligiosi, Santa Rita o Maria Vergine As-sunta in Cielo, si nascondono in realtàterribili e avidi aguzzini. Ma partono inquegli anni anche le prime battaglie ci-vili, le denunce dei radicali contro «l’ap-

Orfanotrofi

MARTINITTNelle foto, in alto Pietro Nenni

all’orfanotrofio di Faenza

nel 1903. Sotto, Leonardo

Del Vecchio “martinitt”

nel 1950. Qui in basso,

Angelo Rizzoli senior,

a 16 anni, aspirante tipografo

Trovatelli d’Italiauna favola tristeFILIPPO CECCARELLI

Saranno chiusi per legge il 31 dicembre del 2006. L’Italia dovrebbe dire addio persempre agli “istituti per i minori”, quelle “strutture protette” un tempo albergo de-gli orfani poi sempre di più residenze per bambini e ragazzi provenienti da fami-

glie in difficoltà. La legge che sancisce lo storico cambiamento, già in parte avvenutocon la nascita di piccole comunità che hanno cercato di replicare contesti sempre piùsimili alle famiglie naturali, è stata approvata nel 2001. Ad oggi però, mentre la scaden-za si avvicina, i conti non tornano. Gli ultimi dati Istat disponibili segnalano che tra isti-tuti, comunità e case famiglia, ci sono ancora 23.825 minori in attesa di una sistema-zione diversa, e a questi si aggiungono i piccoli immigrati che arrivano clandestina-mente sulle nostre coste senza genitori, e che la legge classifica come “minori non ac-compagnati”. Dietro il (nobile) progetto di chiusura degli orfanotrofi c’è l’intento di po-tenziare l’istituto dell’affido familiare, ossia l’inserimento di un bambino che ha una fa-miglia d’origine e dunque non può essere dichiarato adottabile in una “famigliaaffidataria”, che si impegni ad allevarlo, a farlo studiare, in attesa, se mai se ne verifi-cassero le condizioni, di restituirlo al suo nucleo parentale.

La realtà però è ben diversa. Le famiglie disponibili, seppure in crescita, sono ancorapochissime rispetto al numero di bambini in istituto, e infatti da alcuni mesi sono parti-te in tutta Italia campagne informative e pubblicitarie sull’affido familiare, mentre inmolti comuni sono stati avviati corsi di formazione per gli “affidi professionali”. Si trat-ta, in concreto, di coppie a cui verrà offerto uno stipendio mensile per prendersi cura dibambini che altrimenti resterebbero in istituto.

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 25DOMENICA 6 FEBBRAIO 2005

DTRIESTE

i sua madre parla con unamore protettivo e tene-ro, come si fa con le perso-ne fragili, di quelle che

nella vita hanno fatto errori e incontra-to amori sbagliati. Si vedono al parco, inbiblioteca, più spesso nei caffè, perchéLaura in casa della madre e del suo con-vivente non può entrare, e in quei mo-menti rubati si dicono tutto, chiacchie-rano a lungo, a volte ridono, a voltescherzano, a volte sono tristi. Quando sisalutano Laura torna al sogno di tutti igiorni: se prima o poi farà fortuna comecantante si comprerà un appartamentoche guarda il mare e andrà ad abitarcicon la madre, una casa solo per loro due,in una pace domestica che insieme nonhanno mai provato.

Laura ha 17 anni ed è una ragazza inaffido. Ha una madre “naturale”, un pa-dre che l’ha dimenticata molti anni fa,una sorella più piccola, ma da quandoaveva sei anni vive con Luciana e Mario,da quando cioè il tribunale l’ha allonta-nata dalla famiglia per farla crescere inun ambiente diverso, e Luciana e Mario,due figli già grandi e oggi addiritturanonni, l’hanno accolta con loro. Una diquelle curve fortunate della vita senza laquale per Laura si sarebbero aperte leporte dell’istituto. Ed è qui, in questa ca-sa ordinata e luminosa al quarto pianodi un vecchio palazzo di Trieste cheLaura torna ad avere 17 anni, quandodiscute con Luciana degli orari di “rien-tro” del sabato sera o ride di cuore aglischerzi di Mario, che ha una faccia stra-pazzata dalle rughe, il dono della battu-ta veloce e dell’ironia in allerta.

«Fin da piccolissima ho capito di es-sere diversa dagli altri bambini. Nonpotevo vivere con i miei genitori, nonpotevo tornare a casa mia la sera. Ave-vo una famiglia, ma abitavo con un’al-tra... La notte mi svegliavo, tutta suda-ta, con una fortissima nostalgia di miamadre. A scuola ero tremenda. Non se-guivo niente, con la testa ero lontana,assente, la mia angoscia la sfogavo atti-rando l’attenzione delle maestre, salta-vo sui banchi, urlavo, ero una delle peg-giori della classe. Poi per fortuna è arri-vato lo psicologo, e piano piano mi so-no abituata a questa doppia vita. Stavoqui, con Luciana e Mario dal lunedì alvenerdì, poi il sabato e la domenica lipassavo con mia madre».

Usa parole asciutte, frasi brevi Laura,come se prosciugare un discorso l’aiu-tasse a mitigare un passato segnato daabbandono e solitudine. Anni di altale-na, di cuore diviso a metà, tra il deside-rio di restare accanto alla madre, in unacasa dove ormai c’era la guerra e doveoggi lei non può più entrare nemmenoper vedere la sorellina, e la serenità deigiorni con Luciana e Mario, una vita“normale” fatta di scuola, compiti,amici, canto, musica, chitarra, volon-tariato, sport, regole e impegni, diverti-mento e rigore. «Ecco la mia stanza, lamia tana, qui studio, leggo, scrivo can-zoni, e Luciana si arrabbia moltissimoperché sono troppo disordinata», diceLaura mostrando un “rifugio” a dire ilvero quasi perfetto, tappezzato di ri-tratti di Bob Marley e pupazzi di pelu-che, con la collezione di cd di WithneyHouston e Laura Pausini, un luogo do-ve convivono infanzia e adolescenza, lepassioni di una teenager e l’orgoglio dipensare «appena trovo un lavoro vadoa vivere da sola».

«Quando sono troppo irrequieta michiudo qui dentro, quando i pensierivanno all’indietro, al mio passato, amia madre, a mia sorella, allora cerco diconcentrarmi e di mettere in pratica ilconsiglio che mi ha dato l’anno scorsoil prof d’italiano, di guardare ogni gior-no davanti a me, al presente e al futuro,come fosse un esercizio per la felicità,oppure se sono davvero giù telefono al-lo psicologo. Mi conosce da sempre, hoiniziato a fare terapia che avevo sei an-ni e ho continuato per quattro anni, èstato un modo per reagire al dolore, perintegrarmi nella società, ora ogni tantopasso a trovarlo».

Laura è la testimonianza di un affidofamiliare riuscito. Una famiglia d’origi-

palto del bambino povero», reso d’oroda convenzioni, assegnazioni e ricoveriche fondano il «racket clericale e demo-cristiano».

Casi sporadici, che però fanno effet-to. Condizioni igieniche disastrose, vi-cende di maltrattamenti, abusi sessua-li. Alcuni bimbi addirittura crepano, lìdentro: «Maurizio, Francesco, Mario...Quanti sono? Non basterebbero tutte lepiazze d’Italia a ricordarli» scrive MarcoPannella nella prefazione di Un ragazzoall’inferno (Napoleone, 1975), l’auto-biografia di Mario Appignani, il futuro“Cavallo Pazzo”, che ha già girato un’in-finità di istituti e fatto in tempo ad as-saggiare le cure della Pagliuca.

A questo torbido mondo rende indi-menticabile testimonianza l’AlbertoSordi de Il Giudizio Universale, il più ci-nico trafficante di bambini che sia datodi ricordare. Il cinema, in effetti, comed’altra parte il romanzo d’appendicecon i suoi intrecci, i suoi scambi di neo-nati in culla, le sue “agnitiones”, da sem-pre gira intorno all’orfanotrofio, fanta-stica risorsa emotiva, perfino da umori-

smo nero, luogo di dolore, certo, ma an-che di tenerezza, terribile e al tempostesso appassionato, irreale.

Così, com’è nelle leggi inviolabili del-lo spettacolo, si ride e si piange. EccoTotò ne I due orfanelli (l’altro è CarloCampanini); ecco la Magnani, soubret-te e rivale d’amore di un’orfanella in Te-resa Venerdì. Ma ecco soprattutto il pro-tagonista di Miracolo a Milano di De Si-ca, la più straordinaria e poetica figuracui abbia dato vita Cesare Zavattini, untrovatello angelico, anzi un vero angeloin divisa da orfanello, abbandonato sot-to un cavolo, cresciuto in orfanotrofio, etuttavia così buono da chiamarsi ap-punto “Totò il Buono”. Una specie diCharlot che saluta tutti togliendosi ilcappello dell’uniforme che lo inchiode-rebbe al suo destino, e a tutti augurabuon giorno, emissario più o meno oc-culto di «un regno dove buon giornovuol dire veramente buon giorno», e perscaldarsi basta appena un raggio di lu-ce, di tanto in tanto, solo quando il solebuca le nuvole e fa un cerchio di caloreper terra.

ne con cui i rapporti sono stabili anchese difficili (la madre abita nello stessoisolato, a cinque minuti di distanza apiedi) e una famiglia affidataria che conl’aiuto dei servizi sociali ha di fatto alle-vato Laura. Una vera e reale alternativaall’istituto, così come prevede la leggeche nel 2001 con un bel po’ di ottimi-smo ha decretato la chiusura degli orfa-notrofi, in nome del progetto (o sogno)di dare ad ogni minore in difficoltà unafamiglia, dei genitori “a tempo” chepossano offrirgli un passaggio versol’età adulta. Qualcosa di molto sempli-ce e di molto grande però, un equilibriodelicatissimo che richiede dedizionetotale, nessun desiderio di possesso e latenacia di occuparsi di giovanissimispesso difficili, diffidenti, chiusi. Sem-plici eroismi quotidiani insomma. Co-me stanno facendo da più di dieci anniLuciana e Mario, che dopo aver cre-sciuto due figli, sempre e soltanto con ilsolo stipendio di Mario, ex idraulicodell’azienda municipale, hanno decisodi occuparsi di Laura.

«Mi fanno da genitori, e per me que-sto è un posto sicuro. Con gli amici nonho problemi, tutti conoscono la mia si-tuazione, e so anche che non c’è nulla dicui vergognarsi. Mia madre dice spessoche vorrebbe riportarmi a casa, ma quicon Mario e Luciana posso costruire il

mio futuro, mi mancano due anni perfinire la scuola, frequento un istitutoprofessionale per i servizi sociali, vorreilavorare con i bambini ma anche conti-nuare con la musica. La chitarra mel’hanno regalata Luciana e Mario, la ta-stiera mia madre, lei sogna di vedermiin televisione, la sera spesso già cantonei locali di karaoke, nei pub, ma so cheè meglio rimanere con i piedi per terra»,e Laura ha uno sguardo indulgente,adulto, quando parla di sua madre,mentre torna ad essere “figlia” con Lu-ciana, in un rapporto che si evince af-fettuoso e dialettico nello stesso tempo.

«Credo che lei ci veda un po’ come isuoi controllori — scherza Luciana —perché qui ci sono delle regole da ri-spettare, ma è consapevole del percor-so fatto, a scuola ha sempre avuto l’in-segnante di sostegno, poi l’aiuto dellopsicologo, figura fondamentale ancheper noi, anzi se in tutti questi anni ab-biamo retto è stato grazie a lui, che si èoccupato anche di andare a parlare coni professori, con i servizi sociali, con lanostra associazione, l’Anfaa. Abbiamoavuto degli aiuti economici, soprattut-to all’inizio, non molto, ma sufficientiper la terapia e i corsi di musica. Adessoi contributi non ci sono quasi più, nellescuole hanno tolto gli insegnanti di so-stegno, così le ripetizioni di matemati-ca e le lezioni di canto le paghiamo noi.L’anno prossimo, a 18 anni, i contribu-ti finiranno del tutto, a meno che i ser-vizi sociali non facciano un progetto adhoc per Laura. Ma davanti a noi ci sonoancora due anni di scuola, e la vita tuttada costruire…».

Dietro questo cammino dunque c’èstata una rete di servizi che ha funzio-nato, un “welfare” che oltre alla gene-rosità di Luciana e Mario ha reso possi-bile il “progetto Laura”. Quegli stessisostegni che oggi però iniziano a man-care, con i tagli fuori e dentro le scuole,nelle asl, nei comuni. Una contraddi-zione di intenti quindi, mentre si avvi-cina la data di chiusura degli istituti, e inogni città partono campagne “pubbli-citarie” per invitare le famiglie ad acco-gliere in casa minori in difficoltà.

«A volte mi sono sentita Penelope —confessa Luciana — ricostruire ognigiorno quello che poteva perdersi inun’ora. Non saprei dire perché Marioed io abbiamo iniziato questa avventu-ra, forse perché avevamo avuto i figlitanto da giovani, ed è stata un’espe-rienza bella, faticosa, appassionante.Certo, ci ha uniti. Io poi ho sempre fat-to la mamma e la casalinga a tempo pie-no e abbiamo sentito che nella nostravita c’era spazio per Laura, e in fondoanche per sua madre, che è un po’ il sen-so dell’affido familiare, non separare,ma laddove è possibile creare un pontetra le famiglie».

Ecco la sfida. Creare per 24mila bam-bini e ragazzi, tanti sono i minori ospi-tati in istituti e comunità, un percorsofatto di “famiglie in rete”. Un’impresaveramente difficile se si pensa che inmolti comuni sono iniziati i corsi per gli“affidi professionali”, ossia coppie cheverranno addirittura pagate per acco-gliere in famiglia dei ragazzi “dismessi”dagli istituti. Ma come si fa a prendersicura di qualcuno senza, in cambio, de-siderarne il possesso, soprattutto se sitratta di un figlio? Luciana alla doman-da sorride e si emoziona. È qualcosa,quel sentimento, con cui si è confron-tata. «Il senso di possesso non l’ho maiavuto, nemmeno per i miei figli. Marioed io siamo cattolici, i figli sono un do-no ricevuto da Dio e noi genitori li ab-biamo in “gestione” con il compito dieducarli e amarli al meglio. Ma c’è unacosa che ho detto in alcune riunionidell’Anfaa e molti si sono scandalizzati:per Laura in certi momenti ho faticatocosì tanto, il mio investimento è statocosì grande, che mi è sembrato, alla finfine, di amarla di più».

La risposta di Laura è una grande vo-glia di vivere e di incontrare il futuro.«La mia alternativa era l’istituto, perfortuna non è andata così. In comunità,lo so, ci si sente soli. Continuo a soffrirequando lascio mia madre, ma adessoho imparato a convivere con tanti affet-ti diversi. Appena posso vado a vivereda sola. Ora — scherza Laura — non misento più diversa dagli altri bambini».

‘‘DiversaFin da piccolissimaho capito di esserediversa dagli altri

coetanei. Non potevovivere con mia madreAvevo una famiglia

ma abitavo con un’altra

Doppia vitaPiano piano mi sono

abituata a questa doppiavita. Mia mamma parla

di riportarmi a casa,ma qui posso costruirmiil futuro. L’alternativa

era l’istituto, per fortunanon è andata così

MARIA NOVELLA DE LUCA

Laura.Così ho unitoil mio cuore diviso

È il numero complessivo

fornito dall’Istat sui minori

presenti negli istituti, nelle

case famiglia e nelle

comunità. Le strutture

ospitano bambini e

adolescenti. L’assistenza

finisce con la maggiore età

23.825Secondo la nuova legge

d’ora in poi le strutture per

i minori non potranno ospitare

più di dodici bambini, e

dovranno essere sempre più

simili a “famiglie allargate”

Molti vecchi istituti si stanno

riconvertendo

12L’Aibi, Associazione amici

dei bambini, ha denunciato

che oggi negli istituti ci sono

ben trecento bambini al di

sotto dei sei anni, e sempre

più minori stranieri non

accompagnati, arrivati

clandestinamente in Italia

300

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il raccontoTerra promessa

Il grand hotel è il simbolo del Mandatobritannico in Palestina: lungo i suoisaloni si muovono Lawrence d’Arabia,belle donne, militari e avventurieri. Ma è dietro il sipario di questascintillante vita coloniale, che esplodeil lungo conflitto tra arabi ed ebrei

26 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 6 FEBBRAIO 2005

IGERUSALEMME

l King David fu inaugurato con unmemorabile “garden party” ametà giugno del 1930. Nel giardi-no, la banda d’un reggimento

scozzese suonò un po’ di Haendel, i mo-tivi di qualche canzone allora di moda, econcluse col “God save the king”. L’alber-go era con lo Shepheard del Cairo il piùlussuoso del Medio Oriente. E se loShepheard aveva sul davanti una bellissi-ma vista sul Nilo, il King David ne avevasul retro, dove s’affacciavano la metà del-le stanze, una anche più maestosa: le mu-ra di Solimano attorno alla vecchia cittàaraba, e più lontano, sulla destra, i fumi diGerico e le biancheggianti colline dellaGiudea.

Da qualche giorno sto cercando di ri-costruire, con l’ausilio di qualche libro,d’una raccolta di fotografie dell’epoca ed’un paio di amici che mi guidano per lacittà, gli anni del Mandato britannico sul-la Palestina. Non abito al King David (viabitavo, ogni volta che ero a Gerusalem-me, nei Settanta e Ottanta), ma se la gior-nata è bella e non fa freddo, ci vado ognitanto a prendere un caffè sulla terrazzache guarda le mura. Non c’è infatti un al-tro edificio, in città, che ricordi e riassu-ma come quest’albergo il tren-tennio della presenza inglesein Palestina.

Mi interesso al periodo delMandato per vari motivi. In-tanto perché Gerusalemme fuin quegli anni, riscossasi daltorpore levantino e dall’incu-ria in cui era stata immersa du-rante la dominazione ottoma-na, un va e vieni di personaggistraordinari se non romanze-schi. Una città più cosmopolitache mediorientale, in cui l’im-migrazione ebraica (in speciequella austro-tedesca) trasferìtra i Venti e i Trenta un vasto pa-trimonio di cultura europea.Secondo, perché fu durante ilMandato che prima si posero lepremesse, e poi bruciarono lemicce, del conflitto tra arabi edebrei. Terzo, perché fu allora,col fallimento dei tentativicompiuti dai governi di Londraper arginare il conflitto, che co-minciarono a cedere le fonda-menta della potenza inglese.

Ma torniamo al King Daviddel 1930. Con l’apertura delnuovo albergo, la vita monda-na di Gerusalemme si fece piùintensa. Ai ricevimenti nelle re-sidenze dell’Alto commissarioe del governatore militare, aipranzi in abito da sera al Circo-lo ufficiali o al Sodom and GommorrahGolf club, s’aggiungevano adesso — neisaloni o sulla terrazza del King David — iballi annuali dei vari reggimenti e quellodel Ramle Jackal Hounds — il club dellacaccia alla volpe e allo sciacallo — con gliuomini in giacca rossa e le signore in lun-go. E quando nel ’31 il posto d’Alto com-missario per la Palestina venne preso dalgenerale Arthur Wauchope, uno scozze-se scapolo, molto ricco e con la passionedelle feste (tanto che in un certo mese, fe-ce sapere a Washington il console ameri-cano, Wauchope aveva avuto «non menodi seicento ospiti, e sempre con un fiumedi champagne»), le sere di Gerusalemmedivennero ancora più animate e brillan-ti.

Einstein e gli altri “turisti”

I protagonisti della vita sociale erano ov-viamente gli inglesi, ufficiali e alti funzio-nari, i consoli stranieri e i turisti di mag-gior riguardo. Ma con essi c’erano poi imembri delle famiglie palestinesi più im-portanti, a formare una società per moltiversi anglo-araba. Le personalità sionisteerano invece, sulla scena mondana, piut-tosto rare. Richard Crossman, un notogiornalista e politico inglese, se ne accor-se la sera che venne invitato a pranzo daGeorges e Katy Antonius, una delle cop-pie palestinesi più eleganti. «È evidente -scrisse - che gli inglesi preferiscono l’éli-te araba agli ebrei. Questi arabi sono dicultura francese, molto civili e diverten-ti… Al loro confronto gli ebrei appaionoinvece tesi, e con i tratti tipici della picco-la borghesia centro-europea».

In quel passaggio tra i Venti e i Trenta,giungevano di continuo visitatori famo-si: Albert Einstein, Rudyard Kipling,George Bernard Shaw, Arturo Toscanini,Thomas Mann. E tutti erano affascinatidalla città, dalle immagini che vi si co-glievano, dalla bellezza dei dintorni. I tra-monti sul deserto (il deserto che secondoRenan ha partorito il monoteismo), le

IL BLITZ DI ALLENBY

CONQUISTA LA CITTÀ

Con la disgregazione dell’impero

ottomano, nel dicembre 1917

Gerusalemme viene occupata

dalle truppe del generale inglese

Allenby e passa sotto il controllo

britannico, poi trasformato in

mandato dalla Società delle

Nazioni nel 1922. Londra,

impegnatasi contraddittoriamente

a soddisfare sia le richieste arabe

di uno stato indipendente, sia le

aspirazioni sioniste di uno stato

ebraico, favorisce tuttavia la

continua immigrazione di ebrei

nella regione. Ciò suscita un forte

risentimento tra gli arabi e mette

fine alla pacifica convivenza tra

arabi ed ebrei: si moltiplicano

invece gli scontri, sino alla grande

sollevazione araba del ’36, finché,

nel 1947, incapace di mediare tra

le opposte richieste, la Gran

Bretagna rimette il mandato

all’Onu che decide per la

spartizione della Palestina. Ma gli

arabi respingono la decisione e

attaccano Israele: inizia così la

prima guerra arabo-israeliana

LA VITA SOTTOIL PROTETTORATO

Nella foto in alto,

soldati britannici di

pattuglia per le strade

di Gerusalemme. Qui

sopra, uno scorcio

del quartiere ebraico.

A destra, militari

inglesi cercano di

superare un blocco

degli arabi all’ingresso

della città. A sinistra,

due preti ortodossi

Le feste e l’odio nella

SANDRO VIOLA

King David

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 27DOMENICA 6 FEBBRAIO 2005

ebrei vedevano infatti nella fine ormaiprossima dell’impero ottomano la brec-cia attraverso la quale si sarebbero realiz-zati i propri progetti nazionali. I sionistierano già bene impiantati tra Jaffa, Geru-salemme e Haifa, e pochi mesi prima del-l’arrivo di Allenby avevano avuto da Lon-dra, per bocca del ministro degli EsteriLord Balfour, l’assicurazione che la GranBretagna era favorevole alla nascita d’u-na patria ebraica in Palestina. È vero chela guerra non era ancora finita, e che nonsi sapeva in che modo gli alleati si sareb-bero spartite le spoglie dell’impero turco.Ma ora che l’esercito inglese occupavaGerusalemme, i leader sionisti erano cer-ti che dalle parole della cosiddetta Di-chiarazione Balfour si sarebbe prestopassato ai fatti. Vale a dire una Palestinaebraica.

Nei lunghi anni dell’agonia ottomana,era però sorto un po’ ovunque nei paesidi popolazione araba — dalla Siria all’I-raq, dal Libano alla Palestina — un movi-mento nazionalista che aspirava all’indi-pendenza dei vari territori sottoposti al-l’impero. In Palestina il movimento ave-va avuto radici a Nablus, ma nel ’17 s’eraormai diffuso nelle altre città e cittadine,Gerusalemme compresa. Tanto che giàprima dell’occupazione inglese, i sospet-ti, l’ostilità, i contrasti tra arabi ed ebreis’erano manifestati con un certo numerodi fucilate e di morti.

Ad esasperare gliarabi era il continuoingrossarsi dell’im-migrazione sioni-sta. Dagli ultimi an-ni Ottanta dell’Ot-tocento sino allaGrande guerra, de-cine di migliaia d’e-brei avevano infattiraggiunto la Pale-stina: la «terra senzapopolo» — come ri-peteva la propa-ganda sionista —«per un popolo sen-za terra». Il governoturco aveva pro-mulgato alcune leg-gi per limitare gli ar-rivi e la vendita diterre arabe ai nuovivenuti: ma i funzio-nari locali, pronti afarsi corromperedalle organizzazio-ni sioniste, non leavevano quasi maiapplicate. Sicché inazionalisti arabi speravano che sareb-bero stati gli inglesi, adesso, a stagnarel’afflusso degli immigrati in provenienzadall’Europa centrorientale.

Questo fu l’equivoco che ammorbò laPalestina per tutti i trent’anni in cui ven-ne amministrata dalla Gran Bretagna:ambedue gli avversari, arabi ed ebrei,credettero di poter prevalere gli uni suglialtri con l’aiuto inglese. E i governi di Lon-dra fecero molto poco per rendere menoambigua la situazione. Da Allenby in poi,militari e politici parvero infatti incapacidi cogliere la peculiarità e gravità dellacontesa, e di controllarne — quando eb-bero inizio — le convulsioni.

Certo, come potenza mandataria inPalestina (il Mandato le era stato conferi-to nel ’22 dalla Società delle Nazioni),l’Inghilterra tentò a lungo e paziente-mente di smorzare i primi fuochi dell’in-cendio. Ma se non vi riuscì, fu anche per-ché ondeggiò continuamente da uno al-l’altro versante della contesa senza maidecidersi a una scelta definitiva tra le ri-chieste degli uni e quelle degli altri. Non acaso l’Alto commissario Wauchope, l’in-stancabile organizzatore di pranzi eparty, raccontava di sentirsi come unacrobata da circo costretto a cavalcaredue cavalli allo stesso tempo.

Il nodo più intricato restava quello del-l’immigrazione sionista. Secondo moltidegli alti funzionari del Mandato, la di-chiarazione Balfour aveva messo l’In-ghilterra con le spalle al muro. A Londra ea Gerusalemme ci si rendeva conto, cioè,dei pericoli rappresentati dal continuoaumento degli ebrei che giungevano inPalestina (60.000 nel solo 1933), ma la Di-chiarazione del ’17 obbligava ad un at-teggiamento favorevole verso il progettod’una patria ebraica. Allo stesso tempo,gli imperativi politici e strategici emersinegli anni Trenta — soprattutto dopol’avvento di Hitler al potere — spingeva-no a non alienarsi gli arabi.

Gli inglesi finirono così col procedere atentoni. Partiti dalla dichiarazioneBalfour e dal progetto d’una patria ebrai-ca, passarono invece nel ’37, con la Com-missione Peel, all’idea di due stati indi-pendenti, uno ebraico e l’altro arabo. Manel ’39 l’idea della spartizione venne ab-bandonata, e Londra pubblicò un Libro

passeggiate sui bastioni, le visite ai kib-butz e al primo nucleo dell’universitàebraica. I riti pittoreschi dei cristiani d’O-riente, lo spettacolo dei patriarchi e ve-scovi cattolici, ortodossi, armeni, siriaci,maroniti o copti, preceduti dai servitoriin costumi azzurro e oro che battevano interra le mazze con l’impugnatura d’ar-gento. Ma interessanti erano anche lemésaillances che scaturivano dal parti-colarissimo intreccio etnico, religioso esociale della città: come la relazione d’unricco magistrato palestinese, AbcariusBey, con una bellissima ebrea di trent’an-ni più giovane, Leah Tannenbaum, i qua-li ricevevano frequentemente in una lus-suosa villa di Talbieh dove qualche tem-po dopo sarebbe andato ad abitare il de-posto imperatore d’Etiopia, Haile Selas-sie.

Ma questa scintillante vita di colonianon era che un sipario: dietro il sipario, inquell’avvio dei Trenta, la Palestina era unvulcano prossimo all’eruzione. A Geru-salemme e a Hebron, nell’agosto ’29, l’o-stilità tra arabi ed ebrei aveva prodotto leprime due delle tante carneficine che sa-

rebbero seguite negli anni successivi.Sessantasette ebrei e una decina d’arabierano rimasti sul terreno, i feriti eranostati dozzine: e s’era subito capito quan-to sarebbe stato difficile, per gli inglesi,contenere lo scontro tra i sionisti e il mo-vimento nazionalista arabo-palestinese.Perché di questo, ormai, si trattava: nonpiù di attacchi sporadici e limitati,com’era stato sin allora, bensì d’unoscontro aperto. O per meglio dire, delleavvisaglie d’una guerra inevitabile. Laguerra che sarebbe esplosa nel ’48 — do-po quasi due decenni d’ininterrotto, fe-roce terrorismo sionista e arabo —, almomento della partenza degli inglesi. Eche seppure in forme diverse, dura tutto-ra.

La rinascita della città

Quando il King David aprì i battenti, gliinglesi erano in Palestina ormai da tredi-ci anni. In una fredda e ventosa mattinadel dicembre 1917, dopo che le truppeturche e tedesche si erano ritirate, il ge-nerale Allenby aveva fatto il suo ingressoa Gerusalemme dalla porta di Jaffa, fian-

cheggiato da Lawrence d’Arabia e da ungruppo d’ufficiali francesi e italiani. Lacittà aveva allora circa 55.000 abitanti(due terzi dei quali ebrei) e appariva piut-tosto mal ridotta. Nell’ultimo scorcio digoverno turco, e in particolare negli annidella guerra, le strade, l’illuminazione, ilsistema fognario avevano infatti cono-sciuto un continuo degrado.

Sir Edmund Allenby era un buon cri-stiano, un metodico lettore delle Scrittu-re, e tali erano anche molti dei suoi uffi-ciali. Fu perciò con profonda e malcelataemozione che misero piede nella CittàSanta. L’idea del “metter piede” non fututtavia del Toro, come Allenby venivachiamato dalle sue truppe, ma del Colo-nial Office. Che la sera prima dell’ingres-so a Gerusalemme spedì un telegrammacon cui si consigliava d’entrarvi non a ca-vallo, come avevano fatto lungo i secoli imolti conquistatori della città, ma più ri-spettosamente a piedi. Il consiglio venneovviamente accolto, e anche da esso de-rivò l’accoglienza calorosa che ebrei earabi tributarono agli inglesi.

Paradossalmente, sia gli arabi sia gli

Bianco che prevedeva come assetto defi-nitivo uno stato unico, dunque a maggio-ranza araba. Fu allora che il terrorismosionista prese di mira anche obbiettivibritannici. Anni d’agguati e di bombe, si-no all’attentato del ’46 al King David chene fece crollare un’ala uccidendo novan-ta persone: ed ecco perché dicevo chel’albergo è una specie d’epitome delMandato.

Bene amministrata dai vari governato-ri militari, nei Trenta Gerusalemme s’eraingrandita di nuovi quartieri. Un archi-tetto immigrato dalla Germania, RichardKaufmann, aveva progettato il quartieredi Rehavia e allargato quello di Talbiehinnestandovi gli elementi essenziali del-la lezione Bauhaus. Si trattava di zone de-stinate agli ebrei tedeschi in fuga dal na-zismo, che erano riusciti a portare in Pa-lestina una parte dei loro patrimoni. Lecase erano infatti decorose, in genere didue piani, intervallate dalle ville orienta-leggianti delle grandi famiglie palestine-si cristiane o mussulmane. Case e villeche sono andato a vedere strada per stra-da in questi giorni, e che costituisconoancora (nella via Markus, per esempio,nella Alkalay, nella Hovevei Sion) il me-glio dell’architettura in tutto il versanteoccidentale della città.

Beninteso, il mondo di Rehavia e Tal-bieh costituiva l’élite dell’immigrazione.Mentre diverso era per coloro che sbar-

cavano senza mez-zi, alloggiati dall’A-genzia ebraica inmiseri apparta-menti dei bruttiquartieri che stava-no sorgendo a TelAviv, a Gerusalem-me, ad Haifa. Mabenché differentiper cultura e originisociali, uno statod’animo accomu-nava gli ebrei ricchio poveri che arriva-vano — non per unachiara scelta sioni-sta, ma spinti dalpresentimento del-la catastrofe — all’i-nizio degli anniTrenta.

Quello stato d’a-nimo pervade lun-ghe parti dell’ulti-mo, struggente ro-manzo di Amos Oz,Una storia di amoree di tenebra. Cioè a

dire il doloroso spaesamento di uomini edonne che venivano dai climi freddi, daigrandi boschi, dalle città e cittadine dellaMitteleuropa, e trovavano il caldo infer-nale, le sabbie del deserto, i reticolati chedividevano i quartieri arabi da quelliebraici: e niente caffè di calco viennese,teatri o sale da concerto. Di quest’urto trarealtà tanto diverse, della nostalgia perl’Europa, si poteva morire, e infatti la ma-dre di Oz ne morì.

Né c’era, in Palestina, la sicurezza chegli immigrati erano venuti a cercare. Per-ché per tutti gli anni Trenta, e in speciecon l’insurrezione araba del ’36-’38 sca-tenata dal Mufti di Gerusalemme, HadjAmin el-Husseini, il terrorismo e i massa-cri non conobbero pause. Poi, curiosa-mente, lo scoppio della Seconda guerramondiale portò una certa calma. I leaderarabi (alcuni dei quali erano in contattocon gli agenti dell’Asse) avevano sceltouna posizione attendista, e tra ’41 e ’45 so-lo gli ebrei della banda Stern continuaro-no a piazzare le loro bombe contro arabie inglesi.

Come retrovia della guerra in Africasettentrionale, Gerusalemme visse allo-ra il suo periodo più animato e cosmopo-lita. Con Rommel che avanzava nel de-serto egiziano, l’estate del ’42 giunseroinfatti una quantità di personaggi sinal-lora rifugiati al Cairo: re Giorgio di Grecia,re Pietro di Jugoslavia, Haile Selassie, mi-nistri di vari governi in esilio con mogli eamanti, generali degli eserciti sconfittidalla Wermarcht, ricchi levantini, avven-turieri e spie. In Città alla deriva, un ro-manzo di Stratis Tsirkas che Guandapubblicò tre anni fa, c’è un bel ritratto diquel momento. I pranzi all’hotel Astoriao al Queens, gli incontri al caffè Alaska oal Trocadero, le sere al bar Fink’s, l’unicodi quei posti che ancora sopravviva.

Poi, finita la Guerra mondiale, rico-minciò la guerra tra arabi ed ebrei. Ormaigli inglesi volevano solo andarsene, e ilpiù presto possibile. Lasciarono la Pale-stina il venerdì 14 maggio 1948, mentregià crepitavano le mitragliatrici. Ci fuuna frettolosa cerimonia dinanzi al pa-lazzo dell’ultimo governatore, sir AlanCunnigham, quindi iniziò l’evacuazionedelle truppe. La Città santa era prontaper nuove carneficine.

LA CITTÀ VECCHIADue donne camminano per le vie

del quartiere ebraico della città

vecchia. Sullo sfondo la sinagoga

Nissan Bak

Gerusalemme inglese

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‘‘Lawrence d’ArabiaIo intendevo creareuna Nazione nuova,

ristabilire un’influenzadecaduta, dare a venti

milioni di Semiti la basesulla quale costruireun ispirato palazzodi sogni per il loropensiero nazionale

Da I SETTE PILASTRI

DELLA SAGGEZZA

gazze». Il settore dopo anni di crisi si è ri-preso e ora si lancia nell’esportazione. IlMoulin Rouge ha speso 6 milioni di europer la rivista Feerie e ha chiuso il 2004 conun giro d’affari di circa 40 milioni di euro,il Lido ha investito 13 milioni di euro per ilnuovo spettacolo Bonheur.

Lova Moor non è più tornata al Crazy daquando Bernardin, che aveva sposato, èmorto. Come tutti quelli pieni di vita Alainse l’è tolta, a 78 anni, nel ’94. Rosa Fumet-to andò al funerale. «Ci guardavamo stra-ni, ci chiedevamo: chi di noi sarà il prossi-mo a fare un gesto simile? Era la morte del-

lo strip-tease». Oraci sono i figli,Sophie, Pascal, Di-dier, a mandareavanti l’aziendache ha anche unasuccursale a LasVegas e per la serieshow a domicilio siparla anche diTokyo e Shanghai.«Cerchiamo ar-monia e equili-brio, corpi sottili,ma con curve. Nonvogliamo stimola-re l’occhio, ma lospirito. Il sesso èmagnifico soprat-tutto quando sta intesta» spiegaSophie. Sembra disentire Vargas Llo-sa: «L’erotismo èun atto di creati-vità a cui parteci-pano l’immagina-zione e la cultura».

Sarà, ma se nonti fa dormire di sa-bato sera è me-glio. Fast food chenon ingrassa ildesiderio. E alloravai, con il ballettoVestal’s Desireispirato all’Egittoe con Va-Va-Voom, numerodove sulle ragaz-ze vengonoproiettate lucioptical e i corpiperdono l’anato-mia per diventareun’illusione ditriangoli, pois,rombi. E vai an-che con il magopasticcione OttoWessely che mal-tratta un coniglio

e una colomba di pezza. È il numero piùapplaudito. Sissignori, quello del ma-go. Vestito, vestitissimo, ha anche il pa-pillon. La gente ride, si rilassa, parteci-pa. Rosa Fumetto sostiene che se la gen-te impazzisce per il coniglio che escedal cilindro c’è qualcosa che non va nel-l’equilibrio dello spettacolo: «Va beneche noi oggi chiediamo sempre di più,ma se uno spogliarello ti distende inve-ce di eccitarti non è buon segno».

La morte dell’eros

Allora capisci: l’eros è caduto, vinto,battuto. L’hai appena visto trascinarsistanco sul palco che è stata la sua cullaper un’ora, girarti intorno con parruc-che arancioni, verdi e viola, cercare diconvincerti inutilmente con il fondo-schiena. Uno spettacolo di luce, ma nonqualcosa che ti scalda il sangue, che tirianima voglia e desiderio. Chissà se Ja-mes G. Ballard è passato di qua, in que-sto teatro sull’avenue George V, per ca-pire che bisognava cercare sensi e sen-sualità altrove, quando scrisse Crashtutti si scandalizzarono perché il sessopassava per le auto, per l’identificazio-ne totale corpo-macchina, scontro-amplesso, mentre lui con la dovuta spi-golosità stava solo cercando di provoca-re una reazione, di far rivivere l’eros,morto anche nel tempio del Crazy Hor-se, ucciso dall’abitudine al nudo, dal co-stume di far diventare tutto hard, dallapubblicità dei tostapane a quella delloyogurt. Taboo, si chiude il sipario. Tuttia casa, anzi a nanna, per davvero. Senzasentirsi sporchi o peccatori, ma anchesenza sogni. Se ne va con gli amici ancheKen, il ragazzo a cui la madre ha regala-to la prima notte di trasgressione dagrande. Contento? «Era meglio fare duetiri a pallone». Forse è vero: l’unico mo-do per tenersi una cosa è perderla.

IPARIGI

n fila sotto la pioggia. Avenue Geor-ge V, marciapiede, lato desiderio.Tempio del nudo. Guardi le facce:normali, da provincia del mondo.

Non vedi voglia, eccitazione, desiderio.Solo tiepida stanchezza. Tutti uguali:giapponesi, americani, francesi, italiani.Ieri su questo stesso marciapiede: Fellini eDe Sica, curiosi e vitali; l’altro ieri: Dalì eDuchamp, pazzi e geniali. Stessa gioia dipoter vedere, assi-stere, sognare. Og-gi: gente comune,in giacconi, jeans,maglioni. Ti chie-di: ma questi so-gnano ancora ilnudo? Il triangolo,sì. Del pube. Cheoggi viene classifi-cato come fullfrontal. Quello cheuna volta AlainBernardin, creato-re del Crazy Horse,misurava con pre-cisione. Lui, da ve-ro cultore, ne avevacanonizzato den-sità, colore, misu-re. Alle sue balleri-ne imponeva untriangolo equilate-ro di 12 centimetri,rigorosamente ne-ro, anche in caso dicapigliatura bion-da o rossa.

Leggi il cartelloall’ingresso: «Gliitaliani sono pre-gati di non portarele ballerine a casa».Sorridi, ingialli-scono anche i pec-cati. Pensi a Bran-cati e ai suoi ingra-vidabalconi. Peròquando Boris Vianscrisse «Sputeròsulle vostre tom-be», (processo,condanna, librovietato, multa dicentomila franchi)il desiderio era ros-so color sangue,impaziente, di-sperato come unanota di Sidney Be-chet. Guardi KenAchich, 18 anni,15esimo arrondissement, maman l’haportato qui per festeggiare la maggioreetà. Ha offerto a lui e ai suoi amici un tournell’archeologia della Belle Époque, nelloscandalo che non è più. Hanno lo sguardoserio, i ragazzi, nessun guizzo scurrile. «Ilmistero del mondo è nel visibile, non nel-l’invisibile», scriveva Wilde. Seni, natiche,let’s dance. Quante volte figlio mio? Tan-te, padre, basta cliccare su Internet e restia bocca aperta.

Non serve più il Crazy Horse, per capi-re com’è fatta la donna. E nemmeno leg-gere Henry Miller che andava in giro perle strade decadenti di Parigi fra puttane,alberi tristi e luci fioche, alla ricerca dellemille occasioni per notte. L’esistenziali-smo sessuale non delira più sul destinodell’uomo. Il teatro è a semicerchio, pic-cole sedie di velluto, scomode. Taboo, sichiama lo spettacolo. Balletto d’apertu-ra: God save our bareskin. Dio salvi il no-stro nudo. Il modello sono le guardie rea-li della regina, ciuffo di crine di cavalloche copre e sobbalza sul pube. Non tuttevanno a tempo. Ventinove ragazze, 13 aspettacolo, tra l’1,66 e l’1,72, vietatol’1,74, età tra i 18 e i 26. Francesi, polac-che, russe, rumene, ucraine, francesi,un’italiana con il nome d’arte di LucreceHabanita. Segno zodiacale dominante:Vergine. Nessuna particolare perversio-ne: Karlotta si sta trasferendo a Brugesper dare una mano al marito che apre unristorante, Anja bionda e russa non parlauna parola di francese.

L’età dell’oro

Devi chiudere gli occhi per capire cosa siprovava ad aprirli allora. Anni Cinquan-ta e dintorni. Vadim girava con B. B. E Diocreò la donna, Alain Bernardin la denu-dava. Discuteva di piacere e desideriocon Yves Klein, César, Tinguely, Niki deSaint-Phalle, Arman, Hains, Rotella,

Rauschenberg e Jasper Johns. Di comesvestirlo con Azzaro, Alaïa e Paco Raban-ne che fece esordire i suoi primi modellimetallici proprio al Crazy Horse. Dolcebassa vita. Il locale apre il 19 maggio 1951e fin dall’inizio spoglia in scena le più bel-le ragazze, a cominciare da Miss Fortu-nia (1952) che si esibisce nel numero del-la pulce creato da Max Revolt, per arriva-re al duo Rita Renoir-Rita Cadillac (1953),a Victoria Nankin nel primo esperimen-to di grafica luminosa proiettata sullapelle nuda (1960), a Prima Simphony, ce-lebre per il suo spogliarello sulle note diSvestitemi della Gréco.

Poi la contestazione, anche di quelloche ci si metteva addosso. Il ’68: arrivò,spogliò, liberò. Le rivoluzioni si fannocon il corpo. Sulla barricate a Parigi c’eraRosa Fumetto. Nuda, al Crazy Horse.Sotto il selciato c’è la spiaggia. Lei ricor-da: «Bernardin era un genio, nello spo-gliarello non cercava la volgarità, ma l’ar-te. Usava tutto: cinema, tv, pittura, musi-ca. Aveva un vantaggio, era nato a Parigi,aveva vissuto la guerra, sapeva liberare lavoglia. Era maniacale, controllava tutto,dai camerini alle toilette. Ma per noi c’e-rano i sarti, i disegnatori migliori, maiavuto scarpe così belle. Lo incontrai a Ro-ma in un ristorante, mi offrì il biglietto ae-reo per un provino. Andai, lui osò con ilresto. Inventò la storia di una donna chesi perdeva dentro il Vesuvio. Ero strapa-gata, il teatro allora era piccolo, quandostavi in scena ti sentivi in mezzo al pub-blico, e ti saliva l’adrenalina a mille. Vo-levo essere indispensabile: la gente eracorretta, non allungava le mani, non ri-cordo le persone che ho stravolto, maquelle che hanno eccitato me».

Più ginnastica che seduzione

Lo spettacolo di oggi va avanti, Lezioni dierotismo, ragazza a cavalcioni, su un di-vano rosso a forma di labbra. Più ginna-stica, che seduzione. A muoversi con ve-ra sinuosità sono i camerieri che scivola-no nel buio per le ordinazioni. Pubblico

incerto: dov’è il velluto, la vena sottile diprovocazione che si insinua pian piano,che prende forma in un particolare, checresce con la lentezza, che sa farsi deside-rare a lungo? Dov’è l’atmosfera, la tem-pesta che riaccende una voglia spenta?Tutto era diverso nel ’69 quando LovaMoor a 18 anni arrivò a Parigi da La Ro-chelle, città marinara affacciata sull’O-ceano e roccaforte protestante nel XVI se-colo. Di famiglia povera, Lova studia perdiventare insegnante per bambini diffi-cili, ma il suo sogno è fare la ballerina. Vie-ne scoperta mentre balla in una discote-ca dal coreografo del Crazy Horse che lainvita a fare un provino. Bernardin le fastudiare danza, canto, recitazione. «Alainera geniale nel riunire donne bellissime,nell’esaltarne la bellezza con un gioco diluci particolare, rendendole simili a sta-tue. Severo con noi ragazze, esigente contutti, i suoi balletti nascevano spesso dacoreografi americani. Un suo segreto: ab-bassare il soffitto del palco, in modo chela ragazza risaltasse al centro della scena,apparendo più grande».

Già, il Moulin Rouge era can-can e no-stalgia, il Lido piume e pailettes, il CrazyHorse nudo internazionale. «Il bel mondonon si vergognava di venire, né di farsi ve-dere. C’era spesso Fellini che diceva sem-pre che mi avrebbe fatto fare un film, c’eraAlain Delon, con cui ho avuto un’intensastoria d’amore, ma quella che più mi haimpressionato è stata Liza Minnelli cheuna sera, imbottita di alcol, invaghita deldirettore del locale, salì sul palcoscenicoperché voleva insegnarmi a ballare. Od-dio, anche Tony Curtis non scherzò, mitenne ferma la testa sulla piattaformamentre il mio corpo era in verticale e iocontinuavo a cantare e a muovermi. Ades-so, gli spettatori non sanno più nulla del-l'erotismo. Il sesso visto su Internet non haniente a che vedere con il Crazy Horse e an-che la televisione ha inflazionato la bellez-za femminile. Bernardin accettava le tele-camere una sola volta l'anno per lasciarela voglia e la curiosità di vedere le sue ra-

28 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 6 FEBBRAIO 2005

le storie/1Miti d’altri tempi

Crazy Horse, nude senza peccato

IL PARADISO DELLO STRIP

Il Crazy Horse apre i battenti il 19

maggio 1951, avenue George V,

nel sottosuolo di un palazzo

borghese: lo fonda Alain

Bernardin, pittore senza fortuna,

ammiratore dei saloon americani.

All’inizio non ci sono coreografie,

EMANUELA AUDISIO

L’ARTE DI SPOGLIARSI

INVENTATA DA SALOMÈ

Lo strip-tease ha origini

antiche: dalla biblica danza

dei sette veli di Salomè ai nudi

di Frine o Lady Godiva. La

definizione deriva da “to strip”

(svestirsi) e “to tease”

(stuzzicare). Alcuni storici

indicano il 1889 come data

del primo strip-tease,

realizzato da Blanche Cavelli

al café-chantant parigino LeDivan Japonais sull’aria della

canzone Le Coucher d’Yvette:

la ragazza si spogliava

accanto al letto, di fronte alla

fotografia dell’amato appena

richiamato alle armi. Altri

vedono la teatralizzazione

della canzone napoletana

settecentesca La cammesellacome primo esempio di

spogliarello. La fortuna dello

strip si accresce negli Stati

Uniti tra le due guerre: Gipsy

Rose Lee è la massima diva

dell’epoca. In Inghilterra c’è

Phillis Dixey. In Francia nel

1957 si contano ben 24 locali

in cui vengono presentati

spettacoli di strip

ma un violento nudo integrale. Negli

anni ’60 lo show diventa collettivo. Il

marchio che lo rende famoso nel

mondo è scoprire il corpo delle

ragazze per vestirle con raggi di luce

colorata: una delle massime dive del

Crazy Horse è Lova Moor (nella foto)

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Nel tempio dell’erotismo si potevano incontrareFellini e De Sica. Oggi si vedono solo persone comuni,

spinte dalla curiosità ma non dal desiderio:ecco come si è trasformato il teatro

più trasgressivo di Parigi, dove una tiepidastanchezza ha preso il posto dell’eccitazione

QDUBAI

uando il cammello prese ve-locità il bambino in groppacommise l’errore più gros-so: si mise a urlare. L’anima-le lo considerò un incita-

mento. Più il bambino piangeva e gri-dava, più il cammello accelerava. Uscìdalla curva in testa alla corsa. Gli uomi-ni accalcati in tribuna lo incoraggiaro-no alzando le braccia infilate nellebianche tuniche. Il proprietario dellascuderia sorrise pensando alla vincitaimminente. Poi ci fu uno scossone ditroppo e il minuscolo fantino perse lapresa. Volò sulla pista, nella sabbia. Glialtri cammelli gli passarono avanti,sfiorandolo e facendolo ruzzolare. Glisguardi della folla proseguirono versoil traguardo. Il proprietario della scu-deria spense il sorriso. I suoi sottopostiaccorsero ad accertarsi che non ci fos-sero danni. Al cammello. Qualcunoraccolse il bambino e lo trascinò via,nessun medico lo visitò, sugli spalti sol-tanto un uomo restò a guardarlo men-tre veniva allontanato, poi scese, andòal parcheggio, salì in auto e seguì il fur-gone dove era stato caricato. I gratta-cieli di Dubai scomparvero dal retrovi-sore, sul parabrezza apparve il deserto.Il furgone si fermò dopo qualche chilo-metro. L’accampamento era fatto dipoche baracche con il tetto di lamiera,a rosolare sotto un sole da 50 gradi,senz’ombra. In un recinto si aggiravalenta una dozzina di cammelli. Tra diloro, occupati a sfamarli o lustrarli, unamasnada di bambini di età apparentecompresa tra i due e i sei anni. Qualcu-no faceva fatica a camminare. Si fer-marono un attimo quando il piccolofantino caduto in pista fu scaricato e,per le ascelle, trascinato dentro alla ba-racca. Un grido secco gli fece riprende-re il lavoro, a occhi bassi. Sapevano tut-ti cosa sarebbe successo al bambinoche era caduto. Lo sapeva anche l’uo-mo seduto in auto: per questo dovevaintervenire.

L’uomo della liberazione

Il suo nome era Ansar Burney. Nato inPakistan, sposato, padre, attivista in di-fesa dei diritti umani. Sedici anni ad-dietro aveva assistito per la prima voltaa una corsa di cammelli. Come moltiaveva pensato, andandoci, che potesseessere una buffa esperienza. «Ma nonguardare gli animali — lo avevano av-vertito — osserva i fantini. E capirai».Quando erano sbucati sulla diritturaaveva strizzato gli occhi: i fantini glierano sembrati piccolissimi. Cresce-ranno avvicinandosi, aveva pensato.Invece no: erano bambini. Il vincitore,quando fu fatto scendere, faticava per-fino a reggersi: avrà avuto due anni.Non ritirò alcun premio, sparì barcol-lando. Da quel giorno Ansar Burney de-cise di liberare i piccoli schiavi del cam-mello. Ci sono molti modi di fare l’atti-vista politico: «La maggior parte si sie-de a una scrivania e butta giù una di-chiarazione. Io vado a cercare di tirarefuori dai guai chi ci è finito. Non m’im-porta se ci casco dentro anche io». Lastrategia gli parve semplice: riprende-re i bambini a chi se li era presi.

La via dei trafficanti

Per prima cosa studiò come funziona-va il traffico. I bambini arrivavano dalsuo Pakistan, dallo Sri Lanka, dall’In-dia, dall’Etiopia, dal Sudan. Destina-zione: gli Stati del Golfo dove, per tradi-zione, si tenevano le corse: Qatar,Kuwait, Oman, ma soprattutto gli Emi-rati. Avevano la stessa nazionalità deidomestici a servizio nelle sontuose di-more, ma entravano illegalmente.Molti venivano rapiti, altri sottratti aigenitori con l’inganno, promettendoche sarebbero stati adottati da una fa-miglia ricca, di cui veniva prodotta lafotografia: eccoli nel giardino di unavilla, con un cucciolo di cane e questa èl’altalena che vostro figlio userà. Nonpoté non ammettere che altrettanti ve-nivano semplicemente venduti, per fa-me: duemila dollari, anche meno.

All’aeroporto passavano i controllidrogati, in braccio a mamme fasulle.Oppure venivano stipati in un contai-

le storie/2Bambini nel deserto

Un giorno AnsarBurney vide Shaid,tre anni, nellabaracca in cui eraprigioniero. Affrontòil guardiano, poi loprese sulle spallee cominciò a correre

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 29DOMENICA 6 FEBBRAIO 2005

GABRIELE ROMAGNOLI

Dubai, i piccoli schiavidei cammelli da corsaner, mentre una mancia entrava nelletasche dei doganieri. Li attendevanocampi di lavoro come quello davanti acui adesso Burney sostava in auto,aspettando il momento per entrare inazione. Ne aveva già visti a decine, sem-pre uguali: baracche e recinti. Nienteelettricità, niente acqua. I bambinidormivano su una stuoia, ammassati.Sveglia alle tre del mattino, ritirata allenove della sera. Nelle altre diciotto oreaccudivano i cammelli e si allenavano.Quando erano troppo piccoli venivanolegati al cammello con strisce di velcro.Se urlavano, la velocità aumentava. Seandavano piano, venivano battuti. Lo-ro, non i cammelli. All’ora del pasto: trebiscotti. Oppure: mezza pagnotta. Nonbastava che fossero leggeri perché pic-coli, li volevano ultraleggeri perciò de-nutriti.

Un bambino salvato da Burney haraccontato di aver assaggiato il cibo de-stinato agli animali. Lo stava gustandoquando è stato scoperto: lo hanno fru-stato e poi collegato a un generatoreprovocandogli scosse a tutto il corpo.Gli allenamenti erano duri e rischiosi. Aquell’età stare per ore in groppa a uncammello in corsa pregiudica un nor-male sviluppo degli organi sessuali. Lecadute erano frequenti, nessun medi-co accudiva i feriti, perché la loro pre-senza era clandestina. Qualcuno eramorto. L’avevano trasportato qualcheduna più in là e sepolto senza lasciaresulla sabbia altro che orme senza me-moria. Ashraf e Akram, due fratelli di 5e 7 anni riportati a Karachi dopo unalunga schiavitù, hanno raccontato:«Farsi male era una cosa comune. Ab-biamo perso sangue dalla bocca, dalnaso, dallo stomaco e l’abbiamo in-ghiottito in silenzio. I guardiani nonvolevano sentire lamentele. Di giornourlavano, di sera tiravano a sorte con

quale di noi divertirsi». Sessualmente,intendevano abbassando lo sguardo.Poi raccontarono anche che cosa suc-cesse a un bambino caduto in gara: «Loriportarono al campo. Lo trascinaronoin una baracca. Più tardi uno venne e,per punizione, gli bruciò una gamba.Dopo, non serviva più». Ansar Burneysapeva che la stessa cosa stava per suc-cedere al bambino che aveva seguito.

Salvarne uno in più

In sedici anni ne aveva portati via qual-che migliaio, 387 nel solo 2004. Avevafatto approvare negli Emirati una leggeche puniva l’uso di fantini sotto i quin-dici anni o i quarantacinque chili. Manon era riuscito a farla rispettare. Allo-ra aveva nascosto una micro-teleca-mera in un accampamento. Da 24 oredi registrazioni aveva tratto un docu-mentario trasmesso con scalpore dallarete via cavo americana HBO. L’annoscorso lo sceicco Mohammed binZayed, che guardava la tv più di quelche succedeva nel suo emirato, decisedi aiutarlo. Inasprì i controlli, creò, adAbu Dhabi, un ostello per ospitare ibambini strappati ai predatori. Il Qatarannunciò che avrebbe provato l’im-piego di mini-robot come fantini.

Ma a Dubai le corse continuano. Gliannunci sui quotidiani arabi presenta-no come una speciale attrazione per ilpubblico la possibilità di vedere i pic-coli spaventati fantini. Per questo Bur-ney era venuto, nuovamente, fin lì: perliberare almeno un bambino in più.Quando davanti alla baracca rimase unsolo guardiano scese e lo affrontò.L’uomo fece resistenza. Burney mo-strò una lettera personale dello sceic-co, citò la legge. Il guardiano ribatté cheil bambino aveva quindici anni. Mo-strò un passaporto e un visto della fe-derazione che erano stati falsificati o,

peggio, rilasciati a pagamento da unfunzionario corrotto. Burney non videaltra soluzione: lo spinse nella sabbia,si caricò il bambino in spalla e scappòportandolo con sé. Ora non gli restavache rimpatriarlo, cercare di riconse-gnarlo alla famiglia, sperando che nonl’avesse venduto.

Il bambino tremava, disse di averetre anni, di chiamarsi Shaid. Burney loportò all’ambasciata del suo Paese. Sa-peva già che non l’avrebbero aiutatovolentieri. Il funzionario scosse la te-sta: «Perché si dà tanto da fare? È inuti-le. Serve solo a mettere nei guai lei enoi». Avevano cercato di incendiare lasua casa e il suo ufficio, preso a sassatela sua automobile. In telefonate not-turne i trafficanti di schiavi avevanominacciato di ucciderlo. E un diploma-tico pigro adesso gli diceva che, con lasua attività, «comprometteva le rela-zioni tra il suo Paese e quelli del Golfo.E le sarà chiaro quanto ne abbiamo bi-sogno». Burney sapeva che cosa dire inquesti casi, l’aveva già fatto altre volte.Chiamò a sé il bambino che era cadutoin corsa. Disse: «Ogni anno ci sonotrentamila corse con i cammelli. Qua-rantamila bambini come questo limontano, rischiando la loro vita, rovi-nandosi le gambe e le palle per far di-vertire tutti quegli uomini ricchi, tuttiquegli uomini tanto religiosi che stan-no a guardarli. Trentamila gare e qua-rantamila bambini. Sa quanti bambiniarabi, quanti dei loro figli hanno maimesso su un cammello da corsa? Nean-che uno. Nessuno, mai». Il funzionariotimbrò il documento.

L’ANNUNCIO SUL GIORNALE«Corsa con bimbi di 6 anni»:

l’ultima gara è stata

pubblicizzata il 15 gennaio

sul libanese Daily Star

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Hanno dai due ai sette anni, vengono comprati a duemiladollari nei paesi più poveri dell’Asia e dell’Africa, portatinel Golfo Persico e trasformati, con la violenza, in fantini.Un uomo arrivato dal Pakistan ha deciso però di dedicarela vita alla liberazione, con ogni mezzo, dei quarantamilabimbi che ogni anno rischiano di morire sulla sella

i luoghiVita d’azzardo

Chi pensa che l’inferno sia buio, non è mai stato qui,dove è il cielo ad essere senza stelle. Questo è il mondoalla rovescia: le cose che si toccano con manosono false, i miraggi sono veri e le donne si vestonoper andare a letto. Un mondo che compie cent’annima non ha mai smesso di essere post-moderno

Quasi quarantamilioni di personearrivano ogni annocariche di sognie se ne vannodopo aver lasciatonegli hotel-casinò ottanta miliardidi dollari

30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 6 FEBBRAIO 2005

Las Vegas la città capovolta

CLAS VEGAS

hi pensa che l’inferno siabuio, non deve essere maistato a Las Vegas. Qui è ilcielo, a essere senza stelle.

La terra è splendente. Ogni volta che ciatterro di notte — e ci sono atterratotroppe volte — ho la sensazione di pre-cipitare verso l’alto, perché Las Vegas èun mondo alla rovescia, dove le stellestanno sotto e il buio sta sopra. Forsel’inferno è un posto così, splendido,scintillante, succulento, topless, maeternamente capovolto. E natural-mente senza vergini, tutte condannateal paradiso. Quest’anno, in maggio,l’infernetto nel deserto compirà 100anni. Non sono proprio l’eternità, mabastano per far male.

Qui, dove quasi 40 milioni di animeentrano ogni anno gonfie di speranzaed escono disperate dopo avere lascia-to 80 miliardi di dollari negli alberghi-casinò (l’accento è del tutto optional),ogni cosa funziona benissimo, ma fun-ziona alla rovescia. La forza di gravitàspinge verso l’alto, nella rincorsa dimostruosità edilizie sempre più enfati-che, Torri Eifell e Statue della Libertà,Minareti e monoliti della Mgm, tendo-ni da circo e ville italiane da 80 piani chestroncherebbero il povero Palladio sele potesse vedere. Empietà architetto-niche che si rincorrono come rilanci aun tavolo di poker. Il più nuovo, il“Wynn Hotel”, intitolato senza più tan-ti fronzoli al nome dell’uomo più riccodella città, Steve Wynn, sarà costato,quando sarà inaugurato questo aprile,circa un miliardo di dollari. Se appal-tassero il ponte sullo Stretto di Messinaa lui, l’avrebbe già costruito, Strettocompreso.

Il peccato all’ingrosso

Il peccato si vende all’ingrosso, al det-taglio, sciolto, a pacchi in confezionefamiglia, con lo sconto e anche gratis,ma l’82 per cento dei residenti si defini-scono nei sondaggi “religiosi” o “moltoreligiosi”. Le donne si vestono per an-dare a dormire, e si spogliano per anda-re a lavorare. La terra, con i suoi 23 milachilometri di luci al neon, illumina ilcielo, dove le stelle non possono com-petere e si nascondono. La notte è ilgiorno, e solo i profughi degli sconti percomitive si muovono sotto il sole cheper nove mesi all’anno rosola i corpi. Lagente vera vive di notte, dopo la una,quando gli alieni del buffet tutto com-preso e i colombi dei 180 matrimoni algiorno nelle cappelle col finto Elvis in-trippato in costumi troppo stretti, sonogià a letto, per digerire il buffet o consu-mare il matrimonio, che all’alba saran-no già passati. Una licenza matrimo-niale instant e solubile nella luce delmattino, costa 35 dollari. Una petizionedi divorzio al tribunale ne costa 450.L’uscita è più cara dell’ingresso, nelmondo capovolto.

Le cose che si toccano sono tutte fal-se, ma i miraggi sono veri. Uno dei ma-stodonti più redditizi di Wynn si chia-ma appunto Mirage. L’acqua non c’è einfatti zampilla da più fontane diquante ne abbia Roma, giurano le gui-de. Il centro della città è in periferia,nello Strip, nel rettilineo dei colossi,mentre la periferia sta in centro, deca-duto e triste. I soldi non servono a nul-la, perché sono troppi, sono semplicisogni, falsi come le moine delle lapdancer, delle ottomila professionistedelle contorsioni erotiche nel grembodei clienti a un millimetro dal naso,che di notte fanno marchette e di gior-no dicono tutte di frequentare la fa-coltà di medicina o di giurisprudenzapresso l’ottima Nevada University pa-gando la retta con le mance degli arra-pati. Una Harvard nel deserto, costrui-ta con i quartini delle slot machine edei dollari infilati nei microslip dellebaiadere.

La ricchezza si misura a miliardi,

due milioni di dollari non compranoniente. Sono bigliettini da Monopoli,Mickey Mouse Money, valuta immagi-naria da Topolinia. Non bastarononeppure per pagare la stanzetta in unmotel da tossici, naturalmente in cen-tro, dove Stu Ungar, tre volte campio-ne del mondo di poker e fresco vinci-tore di due milioni, morì da solo nel1998. Un letto coperto di carte da gio-co sparpagliate sulla coperta a fioronisporchi, con le coronarie ingolfate dalcocktail di cocaina e di tranquillantiche usava ogni giorno per potere vive-re la vita alla rovescia. Quando nac-que, appunto nella primavera del1905, la battezzarono Las Vegas chevuol dire “le verdi pasture”. Chi l’hamai vista qui, una verde pastura, daquando l’ultimo ittiosauro morì, comeStu Ungar, anche lui solo come unabelva estinta?

Welcome to fabulous Las Vegas, ti ac-coglie lo stesso cartello stradale gusto“nostalgia” anni ’50 piantato daFrankie Old Blue Eyes Sinatra e dai suoiamici, Dino, Peter, Sammy, quandonon erano troppo sbronzi per stare inpiedi. Da allora, da quando il Rat Pack,i topi di Frankie si ubriacavano con Jfke le dames, le ragazze dei mafiosi, alSands, al Riviera, al Dunes, nei vecchialberghi demoliti e scomparsi come idinosauri e gli indiani Paiute che una

volta erano padroni di questa valle, tut-to è cambiato e tutto è rimasto lo stes-so. Non cambia mai la materia prima, ilcarburante, il motore che fa girare ilpianeta capovolto e la voglia di degu-stare un sorso di deliziosa dannazione.«Certo che se questo è l’inferno» diceva“Dino”, Dean Martin, prima di stra-mazzare ubriaco addosso qualche cor-po di donna senza nome, «il paradisodeve essere una noia terribile». Tra pa-rentesi: quel cartello che augura il“benvenuto a Las Vegas” non sta nep-pure a Las Vegas, ma fuori, nella conteachiamata — non avranno molto buongusto ma l’ironia non manca — “Con-tea del paradiso”.

I primi umani ad arrivarci, nel sensodei primi non Indiani nativi, perchéquando in America si dice i “primi”, de-gli Indiani ci si scorda sempre, furonodue spagnoli, Antonio Armijo e RafaelRivera, che inciamparono in un’oasiper caso. Avevano talmente sete dascambiarla, nel loro entusiasmo, peruna verde pastura. Ma di loro è rimastosoltanto quel nome, che nel mese dimaggio del 1905 venne appiccicato algrumo di baracche, di stalle, di bordel-li, di bische, di cisterne per le locomoti-ve a vapore della prima linea ferrovia-ria proveniente da Salt Lake City cheosò attraversare il nulla verso la Ca-lifornia, quando il signor Clark, barone

delle ferrovie e della speculazione suiterreni, decise di nobilitare il villaggio efarne ufficialmente una incorporatedtown, una città.

I primi “anglo”, i primi colonizzatoribianchi non spagnoli, alla fine dell’Ot-tocento erano stati, sempre per restarenel mondo del viceversa, quanto di piùlontano si possa immaginare da ciò cheLas Vegas sarebbe diventata. Furono iMormoni ad arrivarci, setta tardo cri-stiana di insaziabili moralisti, astemi ri-gorosi, accaniti non fumatori, non gio-catori, indossatori di cilicio, missionariimplacabili, ma con un solo vizietto,che forse aiuta a spiegare quanto sareb-be accaduto dopo: la poligamia. La leg-genda delle favolose “divorziate”, deglisciami di signore fresche di sentenza li-beratoria che si gettano fameliche suLas Vegas per riguadagnare il tempoperduto, quella leggenda che crolla nel-l’umiliazione del «sono 500 dollari (mi-nimo) tesoro», forse nasce dagli stuolidi ex mogli che i Mormoni si dovetterolasciar dietro, quando la poligamia di-venne illegale e dovettero trovare dacampare.

La prostituzione naturalmente èproibita a Las Vegas, nella contea delParadiso e nella contea di Clark, dun-que è praticata con produttività cine-se. Tutto alla rovescia. Per trovare gliultimi bordelli autorizzati, gli scanna-

VITTORIO ZUCCONI

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31DOMENICA 6 FEBBRAIO 2005

toi come quel “Mustang Ranch”, il ran-ch delle cavalline selvatiche (femmini-ste astenersi) già quotato a Wall Street,ci si deve avventurare molto fuori, im-boccare la strada del nord verso la so-rellastra racchia di Las Vegas, Reno.Stanno dove zampettano gli scorpionie scondizolano i rattlers, i serpenti a so-nagli, e il deserto duro nasconde i ca-daveri di molti bravi ragazzi che aveva-no pescato la carta sbagliata e fecero lafine di Bugsy Siegel, il capetto troppoambizioso della “Jewish Mafia”, la fa-miglia mafiosa ebrea di Lansky, che co-struì il primo hotel, casinò, resort, il“Flamingo”, sprecando troppi capitalie pestando troppi piedoni suscettibili.

Il sindacato della mafia

Oggi la mafia non controlla più Vegas(così la chiama il popolo della notte, Ve-gas, senza articolo). Non spadroneg-giano più i fondi pensione del sindaca-to camionisti, i micidiali “Teamsters”,che negli anni ’50 e ’60 costruivano edemolivano a piacere, fino a quando illoro presidente Jimmy Hoffa scompar-ve e il suo cadavere non fu mai trovato.Forse sta qui, tra le tarantole e le mi-gnotte, se non è embedded, incastona-to nei piloni di cemento di un ponte. Ivecchi pit boss, i capetti che controlla-no i croupier, i dealer, i giocatori e, guar-da la coincidenza, si chiamano ancora

in tanti Toni, Vinny, Carmelo, Salvato-re e li riconosci subito dal capello coto-nato, laccato e richiamato per coprirela piazza, lamentano, quando scopro-no che sei «’taliano puro te» e hai persoabbastanza soldi per meritare duechiacchiere, che ormai è tutto un «bise-nisse». È tutta un’industria senza cuore,pacchetti azionari e big corporationquotate in Borsa, consigli d’ammini-strazione e master in economia, con-trollate da quegli incorruttibili e oc-chiuti revisori dei conti che già certifi-carono con tanto rigore i bilanci dellaEnron, di Cirio e di Parmalat. La pro-messa di Micheal Corleone alla moglie,«tra cinque anni la famiglia sarà legitti-ma» si è avverata.

Il sindaco Oscar Goodman, il 19esi-mo da quando esiste Vegas, si mette asibilare come un serpente se gli parli diMafia. Poi leggi la sua biografia e ti ac-corgi che ha fatto i miliardi come avvo-cato difensore di tutti i principali“piezz’e Novanta” di Cosa Nostra,Mayer Lansky, lo sponsor del giustizia-to Bugsy Siegel, compreso. «Difendereun assassino non fa dell’avvocato unassassino» sibila lui, giustamente. Ma imiliardi delle sue parcelle, avvocato,da dove venivano, da una colletta inchiesa? «Ci sono 160 chiese a Las Vegas,altro che inferno». Amen, amen, ma cisono 1701 case da gioco autorizzate.

Croupier batte Reverendo dieci a uno.E i casini rendono quasi 10 miliardi didollari in entrate fiscali alle casse disindaco, ogni anno. Le chiese, che so-no tutte non profit, ciccia. A chi an-dranno le simpatie del primo cittadi-no?

La torta più grande

La Camera di Commercio, dove il mon-do sembra per un momento raddriz-zarsi e tornare alla normale banalitàdella propaganda ufficiale, vanta la glo-ria di questa città nel nulla che crescepiù di ogni altra metropoli americana,sessantamila residenti legali in più al-l’anno, più i clandestini, totale un mi-lione e mezzo di abitanti. Qui vive lospirito della frontiera, diranno nelprossimo mese di maggio quandoWynn preparerà «la torta più grande delmondo» (vai poi a controllare) per ilcentenario, prosperano l’individuali-smo del cercatore d’oro, la tenacia dei49ers, i disperati che attraversarono apiedi il deserto nel 1849 per arrivare, isuperstiti, alla California. Ronald Rea-gan era adorato e proprio da Las Vegas,dal motel casinò “Thunderbird”, il dioindiano del tuono, lanciò (lo so, c’eroanche io, naturalmente non per gioca-re, per lavorare) la propria corsa alla Ca-sa Bianca. Repubblicani di ferro, dun-que, tutti Dio, patria, ballerine in to-pless, tavolini da gioco e bombe atomi-che guardate dai tetti dei caffè mentrele esplodevano, crepino le radiazioni,dunque? E il mondo alla rovescia, lo ab-biamo già scordato? Alle elezioni delnovembre scorso, questa fu l’unicacittà del Nevada e di tutta la frontieradel West che votò per John Kerry. Forseperché, come mi disse una brava madredi famiglia di mezza età, divorziata contre figli, che distribuiva le carte a un ta-

volo di black jack, «noiqui i bari li riconosciamoappena si siedono». Oforse i bravi Vegans si ri-cordano che se il loro pia-neta assurdo esiste e ra-mazza dollari, non lo de-ve allo spirito dell’inizia-tiva privata, ma a quelladiga voluta da Hoover ecostruita da quel “comu-nista” di Roosevelt cheferma il Colorado e ali-menta con elettricità abuon mercato tutti ineon e tutti i condiziona-tori d’aria della città.Senza lo statalismo roo-seveltiano, qui ancoracorrerebbero indistur-bati gli Indiani Paiute.

Un inferno privato ali-mentato dai soldi deicontribuenti. Una seriedi gironi concentrici chesi alzano verso il cielo, fi-no alle “balene”, allewhales, come nel gergodei casinò si chiamano i

giocatori, quasi sempre cinesi, giappo-nesi o arabi che perdono almeno un mi-lione di dollari e le cui carcasse sonoamorevolmente accudite con pasti,suite, ragazze di scorta (non armata), li-mousine, biglietti aerei a spese dell’al-bergo. Ci sono ormai voli di linea nonstop di jumbo da Londra, Francoforte,Tokyo, Taipei. L’acqua della globaliz-zazione finisce in questo imbuto.

Una sera del 2000 feci qualche manodi poker da Binion’s, la Betlemme dovenacque il mondiale, con Doyle Brun-son, il vecchio maestro malato, dimen-ticando la Prima Legge del Poker («senon riesci a individuare il pollo sedutoal tuo tavolo, vuol dire che il pollo seitu»). Si degnò di rivolgermi anche la pa-rola e di farmi notare ridendo qualcosache io — il pollo — non avevo mai nota-to. Che c’è un solo Re, tra i quattro nelmazzo, senza i baffi, ed è il Re di Cuori.E che vuol dire? Vuol dire che lui aveva itre coi baffi e io l’unico glabro. Prese ilpiatto e io uscii nella notte, a riveder lestelle sulla terra.

I MILLE VOLTI DI LAS VEGASDalla piramide di Luxor al casinò di Bellagio,

da New York a Parigi al Canal Grande di Venezia:

così Las Vegas ripropone il mondo in una città

Sono i residenti che si

definiscono religiosi o

molto religiosi. A Las Vegas

ci sono 160 chiese: altro che

inferno. Molte di più però

sono le case da gioco

82%Sono i dollari che, ogni anno,

lasciano negli alberghi-casinò

i quasi 40 milioni di turisti che

entrano in città: 37 milioni i

visitatori nel 2004. Sono 1701

le case da gioco autorizzate

80miliardi

‘‘Da Holy City di NICK TOSCHES

Dante non ha scritto all’epoca dei centricommerciali, ma avrebbe riconosciuto Las Vegas

per quel che è: una religione, una malattia, unincubo, un paradiso per una razza bastarda

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gente che non ama l’arte contem-poranea». Spesso i giornali popo-lari li irridono. Polemizzano sui lo-ro budget astronomici. E finisco-no sempre per chiedersi, com-mentando le opere: a quale scopo?O addirittura: cosa significano?

Per il pubblico, più semplice-mente, sono «quelli che impac-chettano le cose». Il che è quasi deltutto vero. In una quarantina di an-ni, perlustrando il mondo, assecon-dando il loro sguardo vorace, lui e leihanno impacchettato oggetti e con-cetti di differenti dimensioni, comin-ciando da un telefono, una sedia, unalbero. Per arrivare, nel 1983, a ungruppo di isole della Baia di Biscayne,in Florida, coperte di stoffa rosa. Poi alPont Neuf a Parigi. Infine all’interoReichstag a Berlino, anno 1995, tra-sformato dalla stoffa bianca in una gi-gantesca, indimenticabile, torta nu-ziale del dopo Muro.

Non solo. Hanno steso sipari di coto-ne tra le montagne del Colorado, e in-stallato 3.100 giganteschi ombrelli in Ca-lifornia e Giappone. Hanno fatto sparirele Mura Aureliane a Roma, una torre me-dioevale a Spoleto, la statua di VittorioEmanuele a Milano. E hanno fatto appa-rire un muro di 13mila barili di petrolio aOberhausen, in Germania.

In una quarantina di anni, lui e lei, han-no costruito giocattoli immensi per direuna cosa magari piccolissima, ma talvol-ta di vitale importanza: ogni oggetto con-serva un mistero. Nasconderlo, lo svela fi-nalmente allo sguardo. Lo sguardo diven-ta il nostro specchio. Lo specchio rifletteuna nuova traiettoria che corre verso ilgrande enigma della vita.

La vita di Christo e Jeanne-Claude è undoppio enigma arrivato a coincidere per-fettamente. Lui è di origine bulgara. Lei ènata a Casablanca da famiglia di militarifrancesi. Tutti e due sono venuti al mondolo stesso giorno dello stesso anno, 13 giu-gno 1935. La coincidenza è sempre statainterpretata da Jeanne-Claude come undestino: «Ci siamo incontrati a Parigi nel-la primavera del 1958 e da quel giorno nonci siamo più lasciati. Col tempo, siamo di-ventati una cosa sola». Unica al punto che,una decina di anni fa, a un cronista curio-so della loro età hanno risposto: «Abbia-mo appena compiuto 120 anni».

Abbandonati i cieli di Parigi, si sonotrasferiti a New York nel 1964. I primitempi lui firmava le opere, lei le cene.Nessuno sfuggiva ai loro inviti: MarcelDuchamp, Jasper Jones, Leo Castelli,Frank Stella. Inviti così assillanti che ungiorno il critico David Bourdon ha scrit-to: «A quei tempi organizzavano le lorodannate cene. Metà della impopolaritàche li circondava dipendeva dall’arte diChristo, l’altra metà dalle bistecchetroppo cotte di Jeanne-Claude».

Ambiziosi, arrivisti? Probabile. Però an-che geniali. E perfettamente liberi. Il loromodo di finanziarsi, vendendo ai collezio-nisti i disegni preparatori, i collages, glischizzi firmati, li ha resi autonomi, noma-di e infinitamente pazienti. Quando pro-posero la prima volta The Gates alle auto-rità di New York era il 1976. Gli risposero,più o meno, se erano matti. Loro viaggia-rono altrove, Europa, Oriente, crearono al-trove e aspettarono. Dieci anni dopo ripre-sentarono il progetto. E quando uno del-l’amministrazione gli offrì zone meno cru-ciali di Central Park, magari un’alternativatipo Coney Island, Jeanne-Claude saltò su

32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 6 FEBBRAIO 2005

Il 12 febbraio settemilacinquecento drappi colorarancio montati su settemilacinquecento “cancelli”saranno srotolati e vibreranno al vento tutti insieme,

marcando un sentiero effimero, lungo 37 chilometri, nel cuore verdedi New York. Il progetto chiamato The Gates è costato 20 milionidi dollari e durerà appena sedici giorni ma sta richiamando nella cittàamericana centinaia di migliaia di nuovi turisti

DNEW YORK

ice Christo: «Sarà come unfiume dorato che appare escompare, tra i rami. Saràun percorso luminoso.

Un’onda calda. Un nuovo cielo». Saràunico, immenso, irripetibile.

Immaginare l’evento da questo puntopreciso, la Billy Johnson Playground, ac-canto a Fifth Avenue, all’altezza della 67thStreet che taglia in due Central Park: 7.500drappi color arancio che vibrano al vento.Il mondo che si ferma per guardare stu-pefatto. E loro due, Christo e Jeanne-Claude, gli autori, gli artisti, che si tengo-no per mano come adesso, appena finitol’ultimo sopralluogo.

Nessun messaggio, nessuna simbolo-gia, solo arte temporanea. L’arte di pas-seggiare sotto a un nuovo mondo di stof-fa e di luce. Per l’esattezza 37 chilometri dinuovo mondo, lungo i sentieri spogli, eadesso innevati, di Central Park. Ai piedidel cielo atlantico di New York. Dentro al-le ferite di New York. Lungo la memoria diNew York. E ai bordi delle ombre precipi-tate l’11 settembre di tanto tempo fa, nonsolo qui, a New York.

Christo e Jeanne-Claude, gli ideatoridel primo grande evento artistico del2005, lavorano al progetto da 26 anni. Ilprogetto si chiama The Gates, i cancelli. Ècostato migliaia di pagine scritte, migliaiadi foto, centinaia di disegni, decine di so-pralluoghi e 20 milioni di dollari tondi.Come tutti i progetti di Christo e Jeanne-Claude anche The Gates è completamen-te autofinanziato: nessun dollaro pubbli-co, nessuno sponsor, nessun finanziato-re. Dice Christo: «A eccezione di noi, nes-suno può comprare i nostri progetti, ven-derli, modificarli, scegliergli un destino».

I cancelli hanno a che fare con i sogni,ma poggiano su solide basi di acciaio, ehanno la struttura indeformabile del vini-le. Sono alti 4,8 metri. Sono 7.500. Ognu-no è stato fissato lungo i sentieri del parcoalla millimetrica distanza di 3,6 metri dal-l’altro. Ogni gate, ogni portale, regge undrappo di stoffa arancio. Tutti i drappiverranno srotolati nel medesimo istanteil prossimo 12 febbraio, come una gigan-tesca trappola orizzontale per l’immagi-nazione e i nuovi sogni degli umani.

La trappola durerà solo 16 giorni. Cioèuna manciata di istanti, in proporzioneagli anni di lavoro impiegati per idearla,disegnarla, e ai 20 milioni di dollari neces-sari per costruirla. La sproporzione fa par-te dell’opera, quanto la stoffa e lo stupore.Perché tutto deve essere inimmaginabileprima e indimenticabile dopo. Dice Jean-ne-Claude: «Tutto è temporaneo, irripe-tibile. Pensi all’arcobaleno. Pensi alla ver-sione terrestre della Cometa di Halley». Ecome tutti i minuscoli segni del cielo, unavolta precipitata sulla Terra, anche la lorocometa arancio produrrà nuovi pensieri,nuove equivalenze, una nuova prospetti-va carica di spaesamento.

Christo e Jeanne-Claude sono i formi-dabili maghi del perfettamente inutile.Sono geniali, scenografici, mediatici. Leloro magie producono eventi planetari.Gli eventi generano fama e polemiche.Dice Jeanne-Claude: «Lavoriamo sapen-do che migliaia di persone cercherannodi aiutarci e che altrettante proveranno afermarci». Un critico americano ha dettoche Christo e Jeanne-Claude «recitano ilruolo degli artisti contemporanei, per

Un’onda d’orosu Central Park

LE OPERE

THE UMBRELLASI 3100 ombrelli di

forma ottagonale

per collegare le due

coste del Pacifico:

1340 blu a Ibaraki in

Giappone e 1760

gialli in California

WRAPPED REICHSTAGUno dei maggiori

successi, iniziato nel

1971 e completato

nel ’95: realizzato con

100mila metri quadri

di tessuto e 15mila

metri di corda blu

SURROUNDED ISLANDSUndici isole nella

Biscayne Bay, vicino

Miami, sono state

ricoperte con 60 ettari

di tessuto colorato

per soli 15 giorni.

L’opera risale al 1983

Christo

È la prima volta che l’artista di origine bulgara e suamoglie Jeanne Claude, “quelli che impacchettano lecose” lavorano nella città in cui vivono. E lei dice:“Sono emozionata come per la nascita di un figlio”

PINO CORRIAS

furiosa e disse: «Le farò una domanda stu-pida, signore. Lei ha sposato la donna chesi è scelto o una donna alternativa?».

Con l’arrivo di Michael Bloomberg sin-daco, nonché loro collezionista, le cosehanno cominciato a raddrizzarsi. Il via li-bera è stato firmato nel gennaio del 2003.Da allora sono stati risolti una infinità diproblemi. Nessun portale danneggerà glialberi. Le basi saranno ancorate dal loropeso, e non più dalle 30mila viti che avreb-bero bucherellato il parco. Tutti i mate-riali, e specialmente i 98mila metri qua-drati di stoffa, saranno riciclati.

Messa in moto la macchina, Christo siè occupato dei 20 milioni di dollari da ra-strellare. È salito su al quarto piano dellaloro casa-studio che affaccia su CanalStreet, quartiere di Soho, e ha cominciatoa disegnare, ritagliare, incollare foto epezzi di stoffa. I disegni hanno prezzi pro-porzionati alle dimensioni, vanno da30mila a 600mila dollari. Christo disegna17 ore al giorno. Scende un paio di volte algiorno per masticare una decina di spic-chi di aglio, sorbire uno yogurt e qualche

volta un bicchiere di latte di soja. Jeanne-Claude sta al piano terra. Cac-

cia via i curiosi, sgrida i fotografi e mette infila i collezionisti. I collezionisti arrivanoda mezzo mondo e sono ammessi solo suappuntamento. Jeanne-Claude parlacon apprensione del progetto, dice: «So-no emozionata come per la nascita di no-stro figlio». Il figlio vero, l’unico, si chiamaCyril Christo, fa il poeta e vive molto di-stante da qui, a Santa Fe, New Mexico.

In questi ultimi giorni di gestazione, luie lei fanno brevi incursioni al Central Park.Navigano lenti con limousine e autista.Poi scendono, seguiti dagli assistenti. Di-ce Jeanne-Claude: «È la prima volta che la-voriamo senza jet lag. Èla prima volta chelavoriamo a New York. Sono felice». NewYork li ripagherà. Dicono arriveranno fo-tografi e televisioni da tutto il mondo. Di-cono che almeno 500mila turisti stianomodificando le rispettive traiettorie viag-gianti per entrare sotto al loro cielo tem-poraneo, gentile, arancione. Ci sarà il tem-po di una passeggiata, un po’ di ricordi epoi un addio per sempre. Come la vita.

WRAPPED TREESSono 178 gli alberi

coperti da 55mila

metri quadri di

polipropilene e 23

chilometri di funi:

opera realizzata nel

1998 vicino a Basilea

THE PONT NEUFL’impacchettamento

del Pont Neuf a Parigi

dal 20 settembre al

4 ottobre 1985: usati

40mila metri quadri di

tela e 1300 di corda.

Il progetto è del 1974

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 6 FEBBRAIO 2005

Se l’arteè nomade

Come una festa barocca

ACHILLE BONITO OLIVA

Si può negoziare il bello? Si può. Sipuò negoziare il bello nella natura enella città? Certo che si può. Nego-ziare significa comunicarlo esteti-

camente al corpo sociale, costi compresi.Nella società di massa mediante interven-ti in scala larga col paesaggio urbano equello naturale, bucando la disattenzionecollettiva e piegando l’attenzione indivi-duale verso uno stato di concentrazione esorpresa.

Christo e Jeanne-Claude, due corpi euna sola mente ormai, riescono a tantocon il bello della diretta. Sviluppano unastrategia di occupazione ed oscuramentodi spazi pubblici e privati con una tecnicasemplice e lampante, il packaging. Ogget-ti comuni, edifici storici, alberi e vallatevengono sottratti allo sguardo della col-lettività e messi in sonno sotto larghi stra-ti di tela ruvida ed industriale che ne im-pedisce per lunghi periodi il riconosci-mento. Prima di arrivare a questo eclatan-te e produttivo ossimoro (svelar celando),Christo, artista del Nouveau Réalisme,realizza da solo opere nelle quali già mo-difica il concetto stesso di arte e del pro-cesso creativo per arrivarvi. All’inizioadopera la realtà per quello che è, senzaalcuna alterazione, semmai dando misu-ra all’oggetto quotidiano: le cataste di fu-sti vuoti di benzina, definite secondo laforma geometrica del triangolo. Inizia co-sì la sua occupazione di suolo pubblico,stabilendo un’apertura verso l’architet-tura e scardinando il concetto di ricono-scibilità dell’oggetto artistico.

Se la tradizione e il mito dell’avanguar-dia poggiano sulla sfacciata e esibita fron-talità del quotidiano, seppure riconverti-to ad altro uso, Christo ne intuisce già lacaduta a merce, a oggetto tranquillizzan-te. L’artista decide così di operare attra-verso il rilevamento dell’oggetto e la suaesclusione mediante l’impacchettamen-to che interdice ogni significato ed occlu-de il conseguente alone. L’involucro ac-compagna e ricalca la forma, estroverten-do l’ossatura dell’oggetto sottostante esospendendone ogni funzionale presen-za. Il velo progressivamente steso su ognirealtà da Christo e la moglie Jeanne-Clau-de, produttori ormai di un’arte a respon-sabilità familiare, non è certamente unvelo pietoso. Piuttosto un intervento ma-croscopico sempre più aperto verso l’ar-chitettura che vuole intercettare, secondoi canoni di una moderna comunicazione,l’attenzione di massa nella società mo-derna.

La monumentalità dell’intervento è di-rettamente proporzionale al bisogno diglobalizzare una visibilità culturale, so-ciale economica e mediatica. L’impac-chettamento non produce nessun’auraper l’oggetto messo al riparo ed assuntonella sua pura grammatica di ingombro.Qui il problema non è certamente quellodi dare significato al mondo, riqualifican-do l’oggetto attraverso la citazione, ma dicircoscrivere l’area di occupazione delproprio intervento. Si dà così voluta espettacolare visibilità a tutte le procedureche preparano il progetto e l’esecuzionedell’opera. Ormai è avvenuto il salto. Or-mai non ci si collega più a microstruttureorganizzative (gallerie e musei), ma allemacrostrutture (città, grandi parchi e isti-tuzioni pubbliche) che possono disporredi grandi mezzi adatti agli interventi perprogetti sul paesaggio artificiale e natura-le.

Il lavoro (dall’ideazione all’esecuzione)implica rapporti con l’immaginazione el’economia, architetti ed operai tutti alservizio di un movimento creativo in cui ipartecipanti sono produttori diretti diesperienze, ognuno con un proprio ruoloautonomo. Lo sforzo comunitario sembrariprendere le cadenze della bottega rina-scimentale o della festa barocca romana,dove la divisione del lavoro fa di tutti i par-tecipanti autori e spettatori insieme. Le7500 porte volanti e svolazzanti, modula-ri e capricciose, in sinuosa e provvisoria fi-la indiana nel Central Park di New York,indicano un’idea nomade dell’arte, unaleggerezza di appropriazione del suolopubblico forse più consona alla GrandeMela dopo l’11 settembre, sicuramentepiù della stabile superbia verticale deinuovi grattacieli.

FINANZIATO DAI DISEGNI

Qui sotto, un fotomontaggio mostra

la mano di Christo intenta a

completare uno degli schizzi

preparatori che, venduti ai

collezionisti di tutto il mondo, hanno

finanziato il progetto The Gates. A

destra, un altro disegno

Parlano Christo e Jeanne Claude: The Gates nasce dall’amore per New York e per i suoi abitanti

“Quarant’anni per battere la burocrazia”NEW YORK

erché Central Park?«Quando siamo arrivati a New York nel 1964 con nostro figlio Cyril,che aveva quattro anni, restammo molto colpiti dalla skyline, dai

grattacieli di Manhattan. Ci sarebbe piaciuto “impacchettarne” uno e cosìandammo dal proprietario di un grande edificio downtown per chiedere ilpermesso».

Che grattacielo era? «Si trova al numero 20 di Exchange Place e al numero 2 di

Broadway, molto, molto downtown. Lui ci rispose che eravamopazzi; andammo da un altro e ci rispose allo stesso modo. Con-tattammo il proprietario del grattacielo sulla 42esima, TimesSquare, niente da fare. Chiedemmo il permesso di impacchetta-re il Museum of Modern Art (MoMA) e il Whitney Museum, nien-te, nessun permesso».

E allora cosa avete fatto?«Impacchettammo il primo palazzo a Berna, in Svizzera, nel 1968».Cosa rappresenta New York per la vostra arte? «Visto che nei primi anni Settanta lavoravamo molto lontano da New York,

in Australia, in Colorado o in Northern California, quando pensavamo a NewYork, quando tornavamo a New York da posti così lontani capivamo che ilnostro interesse artistico non era più per i palazzi di New York ma per la gen-te di New York. New York è la città al mondo dove si cammina di più. E l’uni-co posto dove i newyorchesi camminano per piacere e non di fretta è nel par-co. Per questo nel 1979 nacque il progetto dei “gates” per Central Park».

Perché “gates”?«Central Park è completamente circondato da palazzi, è tagliato fuori da

ogni forza naturale. Quando 150 anni fa la città di New York comprò un gran-de pezzo di terra per costruire il parco, lo circondarono con un muro. Ovvia-mente costruirono degli ingressi e li chiamarono “gates” perché uno degli ar-chitetti ci voleva mettere dei cancelli di acciaio che chiudessero il parco du-rante la notte».

Cancelli che non esistono più?«I cancelli non vennero mai messi, ma il nome “gates” rimase, tanto che

ancora oggi si chiamano così. Ogni “gate” ha un nome perché nel dicianno-vesimo secolo la città di New York creò una commissione per il parco e uncommissario voleva dare a ogni ingresso il nome di un santo. Gli altri disse-ro no, perché New York non è una città religiosa. Così li chiamarono il “gate”degli emigranti, degli artisti, dei soldati, dei ragazzi, delle ragazze. Solo uno— per fare contento quel commissario — venne chiamato il “gate di tutti i

santi”».Come avete sconfitto la burocrazia di New York?«Nel 1981 ricevemmo dalla commissione del parco un rifiuto

che ci venne spiegato con un volume di 140 pagine:140 pagine so-lo per dire no. Da allora non abbiamo più cercato il permesso».

E cosa è successo?«Che l’ufficio del sindaco di New York Michael Bloomberg ci

contattò nel marzo 2002. Poi ci incontrammo con il sindaco, chefece venire con sé il nuovo commissario del parco. Fu lui a dirciche il progetto “si poteva fare”».

Qual è il vostro rapporto con New York?«È la città dove abbiamo scelto di vivere. Noi abbiamo da 41 anni un unico

e solo indirizzo, che è qui a Manhattan, per la precisione downtown Manhat-tan. Abbiamo scelto New York perché Parigi non è più da tempo il centro delmondo dell’arte, questo centro è diventato New York».

Eravate qui l’11 settembre?«No, eravamo a Berlino per una nostra grande esibizione. Tornammo so-

lo il 17 settembre perché non fu possibile trovare un aereo prima. Fummofortunati, la nostra casa non ebbe danni, non puzzava di fumo, né era copertadi polvere».

Avete mai pensato di fare qualcosa sulle Twin Towers, ovviamente pri-ma dell’11 settembre?

«No, mai, assolutamente mai».Dopo Central Park lavorerete ancora a New York?«No, in estate faremo un altro “work in progress” che si chiama “Over the

River”, un progetto sul fiume Arkansas in Colorado».

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ALBERTO FLORES D’ARCAIS

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Feste leggendarie e interminabili,statuette appoggiate distrattamentesul tavolo o dimenticate nella toilette,

come accadde a Meryl Streep. Gioie, eccessi e retroscenadel super gala di Hollywood raccontati da GraydonCarter in un libro fotografico che ne celebra il mito.Le immagini dei vincitori esprimono gioia, eccitazionee potere, ma anche malinconia e un profondo senso di vuoto

Uno sguardodietro le quintedella premiazionepiù gloriosadel cinema Usa,spiando decenniodopo decennioi re di celluloidenel momentodel trionfo

34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 6 FEBBRAIO 2005

NNEW YORK

ella mitologia e nella quo-tidianità hollywoodiananon esiste nulla di lonta-namente paragonabile

all’importanza degli Oscar, e nulla cheserva in eguale misura a consacrare unmondo luminoso ed insulare, che pro-mette di essere alla portata di tutti mache sta ben attento a dimostrarsi irrag-giungibile. Dalla lunghissima paratasul “red carpet” sino alle feste successi-ve alla premiazione, che competonoper glamour e presenze di star, la nottedegli oscar vive nella celebrazione con-tinua del suo stesso mito, ed omologa lepersonalità di ogni partecipante: an-che le rarissime ribellioni e gli atteggia-menti anticonformisti fanno parte delgioco, e si trasformano, nel baglio-re dei flash e nella rincorsa dellediverse telecamere, in unaforma di spettacolo squisita-mente hollywoodiano.

Un libro monumentale edivertente, intitolatoOscar Night, testimoniaattraverso fotografie edaneddoti il fascino dellanotte delle stelle, con losguardo dell’insider chevuole condividere alcuniretroscena ma è ben felice diribadire come nella realtà siauno dei protagonisti (il testo ècurato da Graydon Carter, diretto-re di Vanity Fair). Se l’arrivo delle“stretch limo” di fronte al Kodak Thea-tre e la sfilata sul tappeto rosso sono vis-sute ad uso e consumo delle telecame-re e la cerimonia immortala in mondo-visione l’eterna ripetizione di spasmi,giubilo e commozione, la notte è sol-tanto per coloro che dalla fine della pre-miazione sino alle prime luci dell’albasentiranno l’ebbrezza di essere al cen-tro dell’universo e vivranno il ritualedelle feste impareggiabili, degli Oscarappoggiati distrattamente sul tavolo oaddirittura dimenticati nella toilette,come accadde a Meryl Streep dopo lavittoria per Kramer contro Kramer.

La storia delle premiazioni enumerauna lunghissima serie di esclusioni cla-morose, scelte causate da motivazioniprettamente industriali ed episodi disconcertante miopia culturale, ma il te-sto preferisce celebrare gli altrettantonumerosi momenti di gloria, ed il sapo-re di festa per pochi eletti. In una vec-chia foto in bianco e nero che immorta-la il ballo al Biltmore vediamo un’attri-ce di nome Margarita Carmen Cansinoabbracciata all’agente e marito EdwardJudson, che le suggerì di cambiare il no-me in Rita Hayworth. Sembra una cop-pia che si amerà in eterno, e la futura di-va sorride con un’innocenza che nonpotrebbe mai far prevedere l’esplosio-ne di Gilda né i matrimoni con OrsonWelles ed Ali Kahn.

Nella festa leggendaria offerta dal-l’Academy nel 1941, James Stewart sor-ride di fronte all’unico Oscar vinto incarriera (per Scandalo a Filadelfia)mentre esita di fronte a un caffè che inrealtà non ha nulla di particolarmenteinvitante. Maurice Chevalier canta consguardo languido un brano in francesedi cui nessuno capisce le parole, men-tre Paul Newman, che esibisce un ele-

gantissimo frac, danza abbracciato al-la moglie Joanne Woodward.

Sono gli anni della Hollywood leg-gendaria, dove anche le battaglie piùsanguinose erano combattute conclasse. Dopo un rapporto sul set segna-to dal reciproco disprezzo, Bette Davisottenne una candidatura come prota-gonista per Che fine ha fatto Baby Jane?,lasciando a bocca asciutta JoanCrawford, la quale si complimentò ca-lorosamente in pubblico con la rivaleed iniziò in privato una capillare cam-

pagna pubblicitaria nella quale elogia-va la magnifica interpretazione di AnnBancroft in Anna dei miracoli, la qualefinì per vincere a sorpresa l’Oscar. LaDavis, che vinse due volte su undici no-mination, fu la prima a complimentar-si per l’inaspettata vittoria e citò peren-nemente l’interpretazione della Ban-croft come la migliore del decennio.

Scorrendo le immagini che immor-talano la notte dei premi è quasi im-possibile distinguere cosa ci sia di sin-cero e quanto sia fatto ad uso e consu-

OscarANTONIO MONDA

STELLE DI OGGINella foto qui

sotto, un

giovanissimo

Leonardo

DiCaprio con

Sharon Stone e

Ellen Barkin,

fotografati durante

una festa a Los

Angeles in

occasione degli

Oscar del 1994

STELLE DI IERINella foto qui sopra,

Warren Beatty

con la sorella Shirley

MacLaine durante

un ricevimento

per gli Oscar

del 1966. A sinistra,

Audrey Hepburn

stringe in mano

la statuetta: la diva fu

premiata come

migliore attrice

nel 1953 per

“Vacanze romane”.

Nelle altre immagini

di queste pagine,

inviti alle feste

e memorabilia

dei party entrati

nella storia

del cinema

L’album segretodella notte più lunga

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 6 FEBBRAIO 2005

Il rito della grande notte ha un ruolotalmente importante nella mitologiahollywoodiana che ogni parola assumeuna importanza strategica ed econo-mica. Dopo la delusione della mancatavittoria per Mask, Cher salì sul podioper Stregata dalla luna ma dimenticòdi ringraziare gli agenti, i produttori edil manager. Il giorno seguente fu co-stretta ad acquistare tre pagine di pub-blicità su Variety nelle quali si scusò

mo dell’obiettivo: l’esplosione di gioiadi Sophia Loren in compagnia di CarloPonti è accompagnata da una didasca-lia che ricorda che Clark Gable disse dilei «ti fa venire in mente i pensieri piùproibiti», mentre Warren Beatty e Shir-ley MacLaine si abbracciano come senon fossero fratello e sorella. C’è qual-cosa di autenticamente principesconel gesto che fa Grace Kelly di fronte aduno dei premi più sorprendenti dellastoria degli Oscar: i pronostici eranotutti per l’interpretazione di Judy Gar-land in Ènata una stella, ed era stata or-ganizzata persino una diretta con l’o-spedale Mount Sinai dove quest’ulti-ma aveva dato alla luce il giorno primail figlio Joey. Ma i membri dell’Aca-demy preferirono la futura principessaalla diva con problemi di alcolismo, enella sera della vittoria per La ragazzadi campagna Dominick Dunne profe-tizzò che Grace Kelly era «una ragazzaricca destinata a diventare una stella».

Una leggenda hollywodiana raccontache la vittoria di Marisa Tomei per Miocugino Vincenzo sia dovu-ta al fatto che uno sbronzoJack Palance, incaricato diconsegnare il premio, ab-bia letto il suo nome al po-sto di quello di Judy Davis,e nessuno ebbe il coraggiodi rettificare. L’imbarazzodel momento si tramutò ingioia quando fu chiaro atutti che la giovane età del-la Tomei rappresentava uninvestimento molto piùproficuo di quello legatoalla vittoria della straordi-naria attrice australiana,data per trionfatrice certadella serata.

Molto diverso il caso diJulie Andrews, caratteriz-zato per una volta da una solidarietàcorporativa da parte dei votanti dell’A-cademy di fronte ad un evidente sopru-so. Nonostante il trionfale successo aBroadway, Jack Warner impose chel’attrice inglese venisse rimpiazzatacon Audrey Hepburn nella versione ci-nematografica di My Fair Lady. Il film diGeorge Cukor fu il trionfatore di quellaedizione, ma nel ruolo di protagonistala Hepburn venne battuta proprio dal-la Andrews per Mary Poppins, e lei rin-graziò perfidamente Jack Warner.

passate alla storia la commozione diSally Field che ringraziò i votanti per-ché aveva finalmente compreso di es-sere apprezzata, e l’emozione paraliz-zante di Kim Basinger che arrivò a «rin-graziare tutte le persone mai incontra-te nella mia vita».

Le fotografie esprimono tutte gioia,eccitazione e potere, e tralasciano mo-menti imbarazzanti come i due Oscarvinti da Ian McLellan e Robert Rich,prestanomi per Dalton Trumbo, ilgrande sceneggiatore messo sulla listanera all’epoca del maccartismo. Il do-lore sembra inconcepibile o addirittu-ra inesistente, ed anche i personaggicolpiti dalla tragedia appaiono splen-denti di una luce innaturale: fa una cer-ta impressione vedere Francis FordCoppola che fa stringere l’Oscar vintoper Il Padrino parte II al figlio Gian Car-lo, ed il sorriso di un giovanissimo SalMineo pretende un futuro radioso chegli è stato negato dalla vita.

I potenti di sempre danzano serena-mente con i re per una notte, e la dirom-pente felicità di qualche ora mette sullostesso piano Ted Turner, David Geffene Barry Diller con tutti coloro che dalgiorno dopo dovranno sperare in unaloro approvazione per i propri progetti.Ci sono delle tavolate spettacolari defi-nite con gergo hollywoodiano «A list»(Steven Spielberg, Bruce Springsteen,Tom Hanks, Elton John) ed atti sublimidi snobismo (un Oscar dimenticato ac-canto al dessert), ma c’è soprattutto labellezza, esibita con orgoglio dopo set-timane di preparazione, trucco, mas-saggi e scelta del vestito perfetto. Èstraordinariamente bella Demi Moorealla cerimonia del 1992, lascia senza fia-to la Halle Berry di dieci anni dopo ed èsintomatico notare come nel tempo siaaumentata drasticamente la presenzadi interpreti di colore.

In questo tripudio di felicità procura-no un certo disincanto le effusioni d’a-more in stile Hollywood tra Brad Pitt eJennifer Aniston, Tom Cruise e NicoleKidman, ed è un segno di coraggiosasottigliezza l’immagine scelta comeconclusione del libro, che immortalaFaye Dunaway la mattina successivaalla vittoria mentre contempla a bordopiscina il suo Oscar con uno sguardoche esprime, stanchezza, malinconiaed un profondissimo senso di vuoto.

IL GIORNO DOPOSopra, Faye Dunaway, miglior attrice

nel 1977 per il film “Network”. La foto è

stata scattata dal fotografo Terry O’Neill

che sarebbe diventato suo marito

SEX SYMBOLSopra, Kim

Basinger,

premio Oscar

nel 1998 come

miglior attrice

per il film

“L.A.

Confidential”

pubblicamente con coloro che nonerano stati citati in mondovisione.

Non mancano episodi di distacco(Woody Allen rimase a suonare il clari-netto a New York la sera del trionfo di Io& Annie) e protesta (Marlon Brandomandò una pellerossa a ritirare il pre-mio per Il Padrino), ma nel grande nul-la di Hollywood, il momento del pre-mio può rappresentare ciò che dà ilsenso ad un’intera esistenza, e sono

l’anniversarioTempi moderni

Quasi per caso, settant’anni fa, la DuPont scopre una nuova fibra“resistente come l’acciaio e delicata come una ragnatela”che consente di rimpiazzare la seta. È il boom della sensualitàe della seduzione a prezzi popolari. Ma passano gli anni e le mode:il collant accompagna la stagione dell’emancipazione femminilei nuovi tessuti hi-tech esaltano la praticità e sterilizzano l’erotismo

Dalle giarrettiere diMarlène Dietrichalla mondina SilvanaMangano,dallo spogliarellodi Sophia Lorenalla camerieraLaura Antonelli:una galleriadi iconeindimenticabili

36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 6 FEBBRAIO 2005

Settant’anni in un soffio: è ilfruscio delle calze di nylon.Pochi oggetti sono così pro-saici e così evocativi ad untempo. Simbolo assoluto difemminilità, sembra che esi-

stano da sempre, come la donna. Niente appare più intimo di una cal-

za. Le vedi una accanto all’altra, le bel-lissime: icone di seduzione e di meravi-glia. Marlène Dietrich, calze scure e giar-rettiere, angelo della perdizione. Silva-na Mangano mondina piegata sulla ri-saia. Sophia Loren, era il ’63, che si ci-menta in uno spogliarello diventato cultnon solo per la sensualità ma anche perl’ironia, e si sfila lenta una calza nera fa-cendola oscillare ipnoticamente. Santee peccatrici, dive e sex symbol, perso-naggi dei cartooncome Betty Boop e su-per oggetti del desiderio come MarilynMonroe o il suo peccaminoso contralta-re europeo, Brigitte Bardot. Sciantose ecasalinghe, signore e cameriere. EccoLaura Antonelli, colf in Malizia, arram-picarsi su una scala regalando l’estaticavisione di quella proibita porzione dicosce che le calze lasciavano nuda. Ec-co Kim Basinger in Nove settimane emezzo: che cosa resterebbe del suo leg-gendario strip-tease senza la venezianadello sfondo e la calza di nylon fatta fra-nare quasi al rallentatore?

Sarebbe un peccato estetico, tuttavia,relegare la fibra artificiale che ha cam-biato la vita delle donne a questa galleriadi fotogrammi. Certo: nell’immaginariocollettivo, non solo maschile, le calzeevocano un fremito di sensualità. Moltopiù complessa, nella realtà quotidianadella cronaca, è la marcia verso la libertà,la comodità, l’emancipazione che le cal-ze di nylon hanno compiuto in set-tant’anni di storia. Una rivoluzione giàdal loro primo impatto sul mercato, neitardi anni Trenta, a decretare la demo-cratizzazione di un indumento fino allo-ra riservato a pochissime.

Prima che nel ’35 la DuPont scopris-se per caso il nuovo polimero chiama-to nylon, le calze erano esclusivamentedi seta. Dunque costosissime, riservatea chi poteva permettersele. Pregiatema anche scomode, dure, facevano legrinze sulle caviglie, si sfilavano conuna facilità vertiginosa e, costando unafortuna, venivano ciclicamente ripara-te da valenti rammendatrici.

Ci volle qualche anno perché fosseroprodotte in serie. Si creò una curiositàenorme attorno a quella nuovissima fi-bra che i produttori definirono «resi-stente come l’acciaio e delicata comeuna ragnatela». Distribuite nel 1939 intutti gli Stati Uniti, furono accompagna-te da un imponente battage pubblicita-rio: solo a New York se ne vendetteroquattro milioni di paia in poche ore. Magià l’anno successivo cominciarono itempi magri: la produzione di calze innylon venne bruscamente interrotta. Sipreferì concentrare l’utilizzo della nuo-va fibra sintetica su impieghi militari, peresempio per confezionare paracadute.L’attrice Betty Grable, fidanzata d’Ame-rica in giarrettiere, si sfilerà le calze met-tendole pubblicamente all’asta per40mila dollari da destinare all’esercito.

Durante la guerra, soprattutto in Euro-pa, né di seta né di nylon: le calze non c’e-rano proprio, o comunque erano rarissi-me, soprattutto nell’Italia autarchica. Co-sì le donne supplirono con la fantasia econ l’ingegno, disegnandosi sul polpac-cio nudo la cucitura, en trompe-l’oeil.

Il primo dopoguerra ma soprattutto glianni Cinquanta videro l’esplosione dellacalza di nylon come bene di massa, usa egetta. Comparvero i primi modelli senzala riga dietro, grazie ai nuovi sistemi diproduzione. Davvero il massimo dellapraticità, nonché il primo segnale diemancipazione: per lo meno dalla schia-vitù di dover sempre tenere riga e tallonisotto controllo, perfettamente allineati.

Per le ragazze passare dai mortificanticalzettoni a quelle che comunementevenivano chiamate «calze fini», agogna-tissime, segnava l’ingresso nell’età adul-ta. Negli anni del boom le «calze fini»erano un privilegio del mondo occiden-tale tecnologicamente avanzato, facil-mente accessibili, in vendita in qualun-que grande magazzino. Non così oltre-cortina: è con le valigie piene di calze,graditissimo dono, che i giovani italianipartivano d’estate per i paesi dell’Euro-pa dell’Est, scopo rimorchio.

La seconda rivoluzione data dallametà degli anni Sessanta, in concomi-tanza con l’invenzione, audace e libera-toria, della minigonna. Arrivano — conla lycra — i primi collant. Tentativi goffi,più parenti della calzamaglia da paggio oda sci che delle calze hi-tech di oggi. Co-munque un indumento simbolo, ap-prezzatissimo dalle donne (all’inizio so-lo dalle ragazze) per la sua dirompentepraticità. E invece osteggiato e antipatiz-zato dall’universo maschile, che lo hasempre vissuto con ostilità, lo ha subìtocome un sopruso defraudante e comenegazione dell’erotismo, ingiusta cen-sura delle prime perlustrazioni se nontattili, per lo meno visive di ogni uomonell’approccio verso l’altro sesso.

Ma quella del collant è una strada sen-za ritorno, a cambiare costumi, gusti,abitudini. Considerato con diffidenzanei primissimi tempi, indumento di nic-chia, dilagherà presto in ogni classe so-ciale e anagrafica. La liberazione della

donna, giorno dopo giorno, passa attra-verso l’indumento più diffuso e anche ilpiù banale: le calze. Non importa che isondaggi sull’immaginario erotico ma-schile tornino ogni volta a confermareche sono le gambe, meglio se velate dacalze con la giarrettiera, la principale ca-lamita dell’erotismo: più del seno, piùdel fondoschiena, più dello sguardo, piùdel sorriso. Èil reggicalze ora a diventareindumento di nicchia, esibito una tan-tum come arma letale di un supremo ar-senale feticista, e non certo per affronta-re la vita quotidiana.

Il resto è cronaca dei nostri giorni. Edè stata certamente una meteora passeg-gera la moda, attorno all’anno 2000, diandare in giro a gambe nude anche contemperature siberiane, decretata datutti gli stilisti e adottata dalle attrici diHollywood più che dalle donne norma-li. Un lusso che possono permettersi inpoche, giovanissime e dalle gambe per-fette. La riscossa non si è fatta aspettare:tramontata la livida moda del piedinonudo anche quando nevica, le aziendehanno immesso sul mercato un’im-pressionante quantità di collant in mo-delli e anche in materiali d’avanguardia.I nuovi collant, ma anche le nuove calzeautoreggenti e no, diventano un prolun-gamento dell’abito, molto più di unsemplice accessorio. Pudichi o sfaccia-ti, sono sofisticatissimi, ricamati, stam-pati, tempestati di paillettes o spruzzatidi lurex, hanno il logos tatuato o l’intar-sio geometrico, il labirinto optical o il

E la calza inventò la donna

IL CINEMAQuattro indimenticabili

immagini di seduzione

sul grande schermo:

immancabile

la calza di nylon

Lo spogliarello di

Sophia Loren in “Ieri,

oggi e domani”

(1963); a destra,

Marilyn Monroe e

Jane Russel in “Gli

uomini preferiscono

le bionde” (1953);

in alto, la celebre

scena da

“Il laureato” (1967)

con Dustin Hoffman

e Anne Bancroft.

Nella foto grande,

Silvana Mangano nel

film “Mambo” (1954)

NylonLAURA LAURENZI

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graffito, copiano il tweed, la spina di pe-sce, lo scozzese, il gessato; sono a righe,a scacchi, a maglie di rete giganti; hannotagli e strappi fatti ad arte, e poi borchie,ornamenti etnici, disegni in rilievo. Pos-sono essere a vita bassa, come piaccio-no alle giovanissime, e possono lasciareil piede nudo per i sandali infradito, co-me invisibili ghette.

Le nuove microfibre consentono cal-ze make up altamente tecnologiche, do-tate di effetti speciali: possono essereantibatteriche, antistatiche, antifatica,antizanzare, anticellulite, traspiranti-massaggianti-abbronzanti. Possonoessere antivarici alla centella asiatica,idratanti-profumate all’olio di albicoc-ca o sapere per esempio di limone almattino e di lavanda al pomeriggio. Pos-sono avere l’effetto push up che fa lievi-tare anche i glutei più stanchi. Possonolenire il jet-lag e presto anche depilare.In Giappone, dove non sta bene andarein giro a gambe nude neanche d’estate,hanno inventato il collant spray: unadoppia pelle a portata di bomboletta.

Noi continuiamo ad essere i maggioriproduttori di calze da donna del mondoma ne consumiamo un po’ meno che inpassato. Per una volta non è colpa del-l’effetto euro: è semplicemente che lecalze di oggi, grazie alle nuove fibre tec-niche, sono più resistenti. Quanto al lorocarico di seduzione, al loro antico essereemblema o baluardo di femminilità, piùsi allontanano dal concetto di nudo e piùappaiono, ormai, sterilizzate.

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 6 FEBBRAIO 2005

Èdegno di Hollywood il dramma diWallace Hume Carothers, il chi-mico americano fragile e geniale

che inventò il nylon. Chiamato nel 1928a soli 31 anni dal colosso industrialeDuPont de Nemours a riorganizzare ilaboratori di Wilmington nel Delawa-re, Carothers, sofferente di depressio-ne, espresse i suoi timori in una letteraindirizzata ad un alto dirigente dellacorporation: «I miei periodi di nevrosi edi semi-infermità potrebbero costitui-re un ostacolo molto più serio in un am-biente industriale che ad Harvard».

La DuPont, però, non mollò la presae Carothers, alternando periodi di ipe-rattività e di profonda prostrazione,non tradì le aspettative. Già nel 1932 ilgiovane chimico inventava il neopre-ne, una gomma sintetica utilizzata an-cora oggi per le mute da sub. Poi Walla-ce Hume si concentrò sulla preparazio-ne per via di sintesi di polimeri (macro-molecole) con una struttura simile aquella della seta e della cellulosa. Il 28febbraio del 1935 il gruppo di Carothersprodusse la prima fibra completamen-te sintetica con caratteristiche simili aquelle delle fibre naturali. Era nato ilnylon che DuPont avrebbe brevettatonell’aprile del 1937. Tre settimane do-po Carothers, atterrito dal peso dellanotorietà e convinto di essere un fallito,si suicidò con la fiala di cianuro che por-tava sempre in tasca.

La marcia trionfale di questa fibra ro-busta ed elastica, che poteva essere fa-cilmente tinta, definita «resistente co-me l’acciaio e delicata come una ragna-tela» fu rapida ed inarrestabile. Nel ’38DuPont annunciò lo stanziamento di 8milioni di dollari per la costruzione aStanford nel Delaware del primo stabi-limento. Due anni dopo, nel 1940, furo-no vendute nel territorio degli StatiUniti 64 milioni di paia di calze di nylone le americane fecero la coda per acqui-starle.

Intrisa di cultura yankee, creata a ri-dosso della seconda guerra mondiale,già nella genesi del nome la creatura diCarothers avrebbe eccitato nazionali-smi e leggende metropolitane. «È natauna nuova parola e una nuova fibra: ilnylon» recitava la pubblicità di Du-Pont. Ma per molti cittadini nylon eral’acronimo di «Now you lousy old nip-ponese». Una frase il cui significatocambia a seconda di dove si mette la vir-gola ma che suona più o meno così:«Ora sei un pidocchioso, vecchio giap-ponese». Secondo altri, invece, il nomenylon nasce dalla contrazione delle dueprime città dove le calze furono messein vendita: New York e Londra. Moltopiù probabilmente, invece, la scelta fi-nale fu fatta dalla DuPont all’interno di400 nomi di fantasia già preselezionati.

Il monopolio americano del nylondurò poco. Nel dopoguerra la nuova fi-bra fu introdotta in Italia. La produzio-ne in un primo momento fu affidata so-lo alla società Rhodiatoce mentre dal1956 entrarono sul mercato anche Sniae Bemberg. A tirare la volata furono (esono) indubbiamente le calze da don-na tanto è vero che nella zona di Castel-goffredo si sviluppò un vero e propriodistretto industriale che avrebbe con-quistato l’egemonia del comparto a li-vello mondiale.

Dopo la crisi del settore delle fibrechimiche degli anni Settanta e Ottantaanche il comparto del nylon ha subitouna serie di concentrazioni e di razio-nalizzazioni. Oggi il maggior fabbri-cante europeo è la Nylstar (400 milionidi euro di fatturato), una joint-venturefranco-italiana costituita dai gruppiRhodia e Snia che controlla il 40 percento del mercato del vecchio conti-nente.

Eppure il nylon non è soltanto il ma-teriale con cui si producono calze e col-lant. La leggerezza, la resistenza a muf-fe e batteri combinata alla facilità dimanutenzione ne hanno ampliato ilcampo di utilizzazione. Basti citare i co-stumi da bagno, fabbricati in abbina-mento agli elastomeri, un’altra fibrachimica. Sempre più diffusi anche gliimpieghi tecnici per borse, zaini, corde,pneumatici, cinture di sicurezza. Manon solo. Fra le applicazioni meno co-nosciute ci sono anche gli air bag delleautomobili.

Vita e ascesadel superfilodi Carothers

L’EVOLUZIONE

LA MAGLIA

Già nelle antiche tombe

dei faraoni egizi

sono stati trovati

frammenti di calze

lavorate a maglia,

mentre i romani

avvolgevano le gambe

con fasce di tela o lana

LA SETA

Le prime calze in seta

compaiono nel

Medioevo: a indossarle

sono esclusivamente

gli uomini. Solo in

seguito diventano

simbolo del lusso

anche per le donne

IL SINTETICO

Nel 1939 vengono

messe in vendita le

prime calze in nylon

alla portata di tutte le

tasche. È subito un

delirio: davanti ai

negozi si formano

lunghe code di donne

IL COLLANT

È la seconda

rivoluzione, nella prima

metà del 1965: con la

minigonna arrivano le

calze alte fino alla vita.

Gli anni Sessanta

verranno ricordati per

calze e collant in pizzo

LA RETE

La robustezza del nylon

e la resistenza alla

salsedine ne fa il

materiale ideale per

le reti da pesca. La fibra

chimica ha quasi

sostituito le reti in corda

di canapa

È il peso di un solo filo

prodotto in

microfibra di nylon

lungo ben 9 mila metri

Sono le tonnellate

di nylon prodotte

nel 2003 in tutto

il mondo

1 grammo

3,8 milioni

II fatturato 2004 di Nylstar

la società mista italo-

francese leader europea

della produzione di nylon

400 milioni

GIORGIO LONARDI

FO

TO

CO

RB

IS/C

ON

TR

AS

TO

AIR BAG

Tra le applicazioni

più recenti della fibra

sintetica c’è l’air-bag

usato per le automobili

Il “plus” del nylon è

costituito dal mix fra la

resistenza del materiale

e la sua elasticità

le tendenzeCase da abitare

Di legno pregiato, in alluminio, acciaioo cristallo, il “mobile” intorno a cui si riunisconoamici e famiglie non è solo un elemento di arredoma è da sempre simbolo della socialità domestica.Oggi più che mai il mercato lo riscopre e propone modelli di nuova generazione

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 6 FEBBRAIO 2005

La vita è un giro di tavolo

LASCIA O RADDOPPIAIl tavolo Morris di Bontempi Casa

si raddoppia. Per tutti i single

che amano ospitare tanti amici

GEOMETRIE IN CODICEGeometrie essenziali e praticità è la scelta

di Feg per il tavolo allungabile Code,

realizzato in legno di teak

ALLUMINIO MON AMOURFlat è un tavolo tutto in alluminio

e completamente smontabile

Di Giuseppe Bavuso per Rimadesio

AGGIUNGI UN POSTOPer chi della convivialità non può fare a meno

Il tavolo Hollywood offre un’ampia scelta

di forme e misure. Di Tacchini

LAMIERA SAGOMATAIl tavolo Less Molteni, in lamiera sagomata

sottilissima, è nato dal progetto di Jean

Nouvel per la fondazione Cartier

MICHELE SERRA

Scrisse Natalia Ginzburg chenell’aldilà avrebbe volutoportarsi una sedia, nel timoreche tutta quella immensità lastancasse. Ci aggiungerei (senon mi allargo troppo) un ta-

volo, perché se penso al vuoto penso auna casa senza un tavolo, un giardinosenza un tavolo, un bar senza un tavolo,una vita senza un tavolo. Pensandoci me-glio, un posto senza il tavolo è un postoche non prevede gli altri: e dell’assenzadegli altri ho paura più della morte (o for-se vedo nella morte soprattutto l’irrime-diabile assenza degli altri).

Dunque un tavolo, almeno uno, per di-sporre attorno ai suoi quattro lati, o allasua circonferenza, le persone che condi-vidono il mio tempo, il cibo e il bere, il gio-co e la conversazione. “Mettere le gambesotto un tavolo” non indica mai un gestoindividuale, ma sempre un’intenzionecomune, la spartizione di un momento odi un atto anche minimo, purché comu-ne. Il tavolo è sempre il testimone di un“noi”, guai se è addossato al muro comela solitaria scrivania, richiede intorno a sélo spazio del convivio, e non per caso nonamo i tavoli poggiati alla parete, quel latomonco stona e respinge, decurta le occa-sioni, attorno ai tavoli si deve poter pas-sare, correre quando si è bambini piccoli(terribile lo spigolo quando è giusto al-l’altezza della capoccia), e non per caso lagiusta collocazione del tavolo, quando sisistema una casa, è una delle questionipiù delicate. Perché il tavolo è come il bi-liardo (a suo modo il Tavolo dei Tavoli),prevede intorno a sé l’agio dell’accessibi-lità e della circolazione, è un punto al qua-le si deve poter arrivare da ogni punto car-dinale, l’approdo ideale dalle diversestanze, dalle diverse solitudini.

Se fate il conto (e non sono conti facili)vi accorgerete che il tavolo, non il letto, èforse il luogo dove avete speso la maggio-re percentuale di amore e di dolore, di fa-tica intellettuale e di felice intesa, lungo leinfinite conversazioni delle vostre stanzedi vita. Perché a tavola ci si guarda negliocchi, ci si dicono le cose che altrimentipossono scivolare via per la casa, al tavo-lo non si scantona. Èattorno al tavolo (deiristoranti, in genere) che si costruisceogni amore.

Di tanti tavoli, quello patriar-cale (interminabile, di noce) dellacasa di mia bisnonna, tutt’ora in auge(non la bisnonna, ma la casa e il tavolo) èper me il più caro, e significativo. Il capo-

tavola è sempre stato il più anziano, poivia via, a scalare lungo il vecchio legno fa-miliare, i più giovani, fino ai bambini, a farcasino in fondo, all’altro capo del tavolo edel tempo. Ho risalito quel tavolo, lungogli anni, fino a ritrovarmi quasi a capota-vola, e ormai è poco il margine che mi se-para da quell’approdo, perché le genera-zioni, attorno ai tavoli, trascorrono velo-ci. Ma se attorno a quel tavolo aleggial’ombra degli scomparsi, quando le lucidella sera sono tutte accese e il legno è im-bandito (e il tavolo diventa tavola, fem-mina nutrice) è la vita che trionfa, è il vinoche brilla, la conversazione che rimbalza,allietata dagli equivoci che la sordità de-gli anziani — presto la mia… — genera,dai racconti mai veramente desolati chesi fanno sul passato e sui morti. Se pensoa quanta vita e quante parole, quanti sen-timenti e liti, discussioni politiche, paro-le d’amore quel tavolo ha assorbito (initaliano, in francese, in inglese) dico che èun altare. Ci hanno mangiato e scherza-to, ai primi del secolo, ragazzi poi mortiventenni nelle Ardenne, in quella carne-ficina idiota e orrenda che fu la GrandeGuerra. Ci hanno litigato severi professo-ri antifascisti e psicologie più disponibilial compromesso, signore con le sottove-sti e le gonne lunghe e teen-agers in mini-gonna (ora madri di altre teen-agers colpiercing). Quando le sedie rinserrano lepersone attorno a quella tavola da pran-zo, è come se si ricomponesse una storiacollettiva che il tempo vorrebbe destrut-turare, ma la parentela (perfino quel dub-bio vincolo non sempre sincero che è laparentela) ricompone ogni estate.

Infine, apparecchiare la tavola per gliamici e le persone care è da sempre, perme, uno dei gesti più allegri e sacri. Alle-gro e sacro non sempre vanno a braccet-to, pensate dunque che privilegio ha latavola quando li riassume entrambi, latavola che è abbondanza e ringrazia-mento, memoria dei commensali scom-parsi e omaggio al vigoroso appetito deivivi. La sola preghiera che mi mancadavvero, che vorrei tanto saper pronun-ciare, è quella che si fa a tavola e che pre-cede il pasto, la gratitudine per il pane esoprattutto per il companatico. Sì, ognitavolo è un altare, e se non lo diventa è

solo per la nostra colpevo-le distrazione.

JOLLY E I SUOI FRATELLIHa la sobrietà del grande protagonista;

Jolly è in policarbonato colorato

e trasparente. Palesemente di Kartell

QUESTIONEDI STATURAPiano è il più

piccolo e Altipiano

il più alto: i nomi

dei tavolini

Rexite giocano

sulle differenti

altezze.

Entrambi

in versione

quadrata

e rotonda

L’OGGETTO MISTERIOSOKatava, il tavolo-consolle

d’alluminio disegnato

da Satyendra Pakhalé per

Duepuntosette, è prodotto in

edizione limitata a soli trenta pezzi

Difficile relegarlo in un angolo

FO

TO

ZE

FA

RIUNIONE AL TOPIl designer Luca Scacchetti ha

firmato Corinthia, tavolo da riunione

caratterizzato dalla sezione centrale

in cristallo e dalla struttura

di sostegno in tubolare d’acciaio.

Di Poltrona Frau

40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 6 FEBBRAIO 2005

i saporiDolci passioni

Tavolette, torte, sfoglie di cacao purissimo: i maestricioccolatieri italiani continuano a sperimentare consuccesso nuove delizie per i più golosi. Fondente egianduiotti vengono contaminati con spezie esotiche edaromi rubati alla cucina e seducono il palato e i sensi dei piùesigenti. Ecco una carrellata delle ultime tendenze

L’appuntamento è vec-chiotto, usurato ma ine-ludibile. Lunedì 14 feb-braio, giorno di San Va-lentino, riuscirà difficilefar finta di nulla. Archi-

viato il brillante e rinnegata la pelliccia,esaurita la scelta di cravatte e dopo-barba, a far la differenza più che ilcosto sarà l’idea. Con il ciocco-lato, per esempio, non si sba-glia mai. Ma si rischia la ba-nalità. A meno che, messi daparte i cioccolatini da agio-grafia pubblicitaria, ci si ad-dentri nel territorio golosissi-mo (e ancora poco conosciu-to) delle nuove praline, delle tor-te-culto, delle supertavolette sedu-centi come una scollatura velata.

Questione di palato e di allenamento.Abbiamo importato il cioccolato dalMessico quattro secoli fa attraverso iconquistadores spagnoli. Lo abbiamo ri-scattato dalle ruvidezze originali (co-perte dall’uso massiccio di spezie) gra-zie ai sofisticati cioccolatieri torinesi, al-lievi dei grandi “maitres patissieres”francesi (a metà Ottocento, fare il cioc-colatiere era considerata un’arte tanto

remunerativa che le carrozze dei piùbravi rivaleggiavano in lusso con quellereali). E negli anni abbiamo imparatoche la tipologia al latte è un po’ come perl’astemio bere un bicchiere di Moscatod’Asti: una tappa di avvicinamento faci-le e goduriosa al paradiso dei Grandi Go-losi. Dove si mangia quasi solo fonden-te, purché di alta qualità.

Siamo diventati così bravi, in Italia,da aver bagnato il naso ai francesi,strappando loro l’esclusiva di Chuao ePorcelana, due nomi-mito del pianeta-cioccolato. Merito dei fratelli Tessieri,proprietari di una fabbrica-bombonie-ra alle porte di Pontedera, cuore di quel-la Chocolate Valley, meta di pellegri-naggi devoti da tutto il mondo. Dalla“Amedei”, infatti, il percorso si snoda ir-resistibile tra i laboratori-culto di Cati-nari (Agliana), Slitti (MonsummanoTerme), De Bondt (Pisa), Molina (Quar-rata), Mannori (Prato). Come una cilie-gina sulla torta (è il caso di dirlo, dopoaver assaggiato la torta al cioccolato eamarene) la new entry del fiorentinoClaudio Pistocchi.

Sono loro, insieme a una manciata di“esterni” – Guido Gobino, Corrado As-senza, Franco Rizzati, Domori, FrancoRuta – a fare del cioccolato un gioiello dagustare senz’altri sensi di colpa che

quelli legati alla quantità. Perché in ac-cordo perfetto con nutrizionisti e scien-ziati, basta limitare i dosaggi per trasfor-mare l’oscuro oggetto del desideriogourmand in una medicina miracolosa:euforizzante, digestiva, tonificante,afrodisiaca, a secondo delle esigenze (edelle convinzioni). I cioccolatieri si sonoadeguati rapidamente: le tavolette sonosottili e lievi, le minisfoglie non supera-no i sei grammi di peso, le praline pocodi più. Meno facile trattenersi davanti auna delle torte elette a oggetto di cultodal passaparola dei buongustai. È il casodella torta Barozzi, inventata da un pa-sticcere emiliano oltre un secolo fa: ri-cetta segreta, distribuzione negata, du-rata limitata. Chi l’ha assaggiata, non ladimentica più.

Ma il cioccolato, si può conoscere an-che da molto, molto vicino. Se vi sentiteispirati e vogliosi di fai-da-te, la Choco-Travels organizza veri e propri week enddidattici per imparare i segreti dei cioc-colatieri direttamente nei loro laborato-ri. Dopo lo stage dal piemontese Giaco-mo Giraudi (creatore di una meraviglio-sa crema al cioccolato: la “Giacomet-ta”), il prossimo corso si terrà a casa DeBondt il 19 e 20 febbraio. Potete imma-ginare un modo più goloso di festeggia-re San Valentino?

CioccolataPiaceri dell’altro mondoSacher TorteLa madre di tutte le torte al

cioccolato è stata inventata nel

1832 dal pasticcere austriaco

Sacher, in servizio alla corte

del principe austriaco von

Metternich

Winnesburg

L’elaborazione,

a base di

materie prime

da pasticceria

classiche – farina,

burro, zucchero,

uova, cioccolato – si

contraddistingue per

la farcia di marmellata

d’albicocche e la lucida

glassatura

a base di cioccolato

LICIA GRANELLOZUCCA

Il ferrarese Franco

Rizzati ha sfruttato

l’ortaggio principe

della sua terra -

candito ad arte -

per ammorbidire

il gusto deciso del

fondente. Nella

sua offelleria, si

realizzano anche

i cioccolatini con

lo zenzero candito

in proprio. Ultime sue

creazione: due

nuove tipologie

di cioccolato

affumicato

TORTA CAPRESE

Il suo segreto - ingredienti nordici

(a partire dal burro), niente

farina,croccante all’esterno e

morbida al cuore - fu trafugato al

bar Vuotto di Capri direttamente

dalla residenza di Maxim Gorki.

Esiste anche in una versione,

meno affascinante e più leggera,

con i limoni della costiera

amalfitana

DOVE DORMIRE

CASA ALBERTINA, via Tavolozza 3

telefono 089-875143. Positano

(Salerno). Camera doppia

da 130 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIARE

AL PALAZZO, via dei Mulini 23

telefono 089-875177. Aperto tutti

i giorni, solo a cena, da marzo a

novembre: 45 euro, vini esclusi

Positano (Salerno)

DOVE COMPRARE

PASTICCERIA LA ZAGARA

via dei Mulini 8

telefono 089-875964

Positano (Salerno)

www.lazagara.com

itinerari

Positano

Silvia Imparato, ex fotografa di origine napoletana,produce uno dei migliori rossi italiani, ilMontevetrano, un vero e proprio “SuperCampan” dauve Aglianico, Cabernet Sauvignon e Merlot, prodottoin provincia di Salerno. È innamorata della sua terrae del cioccolato fondente

TORTA PISTOCCHI

La ricetta della sottrazione. Niente

farina, uova, zucchero, burro.

E nemmeno grassi vegetali,

conservanti, ogm. Solo cioccolato

fondente (buonissimo), cacao

amaro in polvere e pochissima

crema di latte fresca. Eppure, la

creazione del fiorentino Claudio

Pistocchi è straordinaria. Esistono

due varianti: peperoncino e

amarene

DOVE DORMIRE

B&B RESIDENZA JOHANNA

via Cinque Giornate 12, telefono

055- 473377. Firenze

Camera doppia a 85 euro,

colazione inclusa

DOVE MANGIARE

FUSION BAR (Gallery Hotel Art)

vicolo dell'Oro 5, telefono

055- 27263. Chiuso il lunedì,

menù da 35 euro, vini esclusi

DOVE COMPRARE

L'ANTICA GASTRONOMIA

via degli Artisti 58r

telefono 055- 578460. Firenze

www.tortapistocchi.it

Il consumo di cioccolatoprocapite ogni anno in Italia

4 kg

Prato VignolaTORTA BAROZZI

Uno strepitoso assemblaggio

di mandorle, cioccolato e polvere

di caffè, elaborato dalla famiglia

Gollini, giunta alla quarta

generazione di arte pasticciera.

Il dolce, dalla ricetta segretissima

e senza punti vendita se non il

laboratorio originale, è dedicato

al celebre architetto vignolese

Jacopo Barozzi

DOVE DORMIRE

ALLA ROCCA, via Matteotti 76

telefono 051-831217, Bazzano

(Bologna). Camera doppia

a 130 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIARE

HOSTERIA GIUSTI

vicolo Squallore 46, telefono

059-222533. Modena. Chiuso

domenica e lunedì. Cena su

prenotazione. Menù da 40 euro,

vini esclusi

DOVE COMPRARE

PASTICCERIA GOLLINI

via Garibaldi 1N, telefono

059-771079 Vignola (Modena)

www.tortabarozzi.it

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 6 FEBBRAIO 2005

Tornano le ricettedei sacerdoti Maya

Dopo il mix europeo con lo zucchero

MASSIMO MONTANARI

“Cacahuaquchtl”. Così gli antichi maya chia-marono una pianta dell’America centralei cui noccioli, una volta abbrustoliti, sbuc-

ciati, frantumati e ridotti in polvere, venivano bolli-ti in acqua caldissima con l’aggiunta di pepe, pepe-roncino, zenzero, miele, farina di mais. La bevandache ne risultava, dal sapore aspro e pungente, eraconsumata dai sacerdoti durante i riti religiosi ed eraofferta agli déi, che, si diceva, la preferivano a ogni al-tra bevanda.

Quando gli europei invasero l’America, la bevan-da al cacao suscitò subito la loro curiosità, ma nonincontrò il loro gusto. Essi infatti, in quei secoli, era-no tutti presi dalla moda dello zucchero e dei saporidolci. La loro cucina ridondava di zucchero, un pro-dotto allora sconosciuto in America, che gli arabiavevano portato in Europa durante il Medioevo eche era rapidamente diventato un segno di prestigiosociale. I menù delle corti rinascimentali si aprivanocon zuccherini e questo sapore accompagnava poil’intera successione dei piatti: carni intrise di zuc-chero, pasta spolverizzata di zucchero, torte dolci-salate, e così via, fino alla confetteria finale. Cuochi,gastronomi, dietologi, scienziati erano tutti d’accor-do che “il zuccaro fa compagnia ad ogni altra cosa”e che “nessuna vivanda lo rifiuta”.

Nessuna sorpresa, dunque, se anche la cioccolatafu accolta in Europa solo a patto diessere ammorbidita e addolcita. Lespezie forti della tradizione ameri-cana (pepe, peperoncino, zenze-ro) furono sostituite da aromi piùdelicati: vaniglia, muschio, ambra.Ma, soprattutto, fu il massiccio im-piego di zucchero a trasformare ilsapore della bevanda, che tuttaviaconservò l’antico nome maya di“chacahoua”, da cui derivarono lospagnolo e l’inglese “chocolate”, ilfrancese “chocolat”, l’italiano “cioccolata”.

In Europa, come già in America, la cioccolata ri-mase per lungo tempo una bevanda per pochi. So-prattutto i ceti aristocratici la adottarono, e poichégli alimenti non sono solo alimenti ma anche im-magini sociali, essa diventò, nel XVII-XVIII secolo,quasi un simbolo dell’ozio nobiliare, a cui la cultu-ra borghese contrapponeva l’operosità dei mercan-ti, la produttività degli industriali e l’acume degli in-tellettuali illuminati, che si celebravano piuttostonella “bottega del caffé”. I due prodotti, la cioccola-ta e il caffé, finirono per rappresentare stili di vita op-posti. La cioccolata incontrò un notevole successoanche tra i religiosi, dato che, in quanto bevanda(ma con una capacità nutritiva decisamente insoli-ta), ne fu consentito il consumo nei giorni di digiu-no. In certi paesi, come la Spagna, si continuò a pre-pararla con l’acqua, secondo l’uso americano. Al-trove, come in Italia o in Inghilterra, si preferì sosti-tuire l’acqua con il latte. Nel XIX secolo apparve lacioccolata solida, destinata a enorme fortuna.

Attorno alla cioccolata le sperimentazioni non sisono mai fermate. Nel Settecento vi fu chi proposedi mescolare il cacao con il vino o con la birra, con ilcaffé o con il tè, con l’acquavite, col brodo di carne.Le “novità” che abbiamo oggi sotto gli occhi (cioc-colate con altissime percentuali di cacao e pocozucchero, cioccolate con aromi piccanti e spezieforti) paiono in qualche modo riportarci là dovequesta storia era cominciata, nelle foreste dell’A-merica centrale dove maya e aztechi celebravano iloro riti con bevande al cacao mescolato con zenze-ro e peperoncino.

ASSENZIO

La storica azienda

torinese Leone,

famosa per le mitiche

pastiglie realizzate

con ingredienti

naturali, estratti e oli

essenziali, ha

recuperato il liquore

maledetto (ingentilito)

per sposarlo al

cioccolato al 70%,

inventando un gusto

complesso e suadente

I Leone producono

anche un interessante

cioccolato privo

di zucchero

PEPERONCINO

Il più antico degli

“additivi” del

cioccolato, secondo

ricetta azteca, è

riproposto dalla

Dolceria Bonajuto

di Modica,

impreziosito dallo

zucchero in cristalli.

Fedeli alla ricetta

originaria pure

gli assemblaggi con

vaniglia e cannella,

che caratterizzano

le tavolette, senza

snaturare i gusti

primari del cacao

SALE

Una coppia tosco-

olandese, Cecilia e

Paul De Bondt, ha

eletto a prelibatezza

l’associazione tra

cioccolato in due

sfoglie (al latte e

fondente) e cristalli di

sale (fleur de sal), che

temperano l’acidità del

cacao, esaltandone la

morbidezza e gli aromi

Oltre a spezie come il

pepe nero, esistono

varianti con rosa,

anice stellato,

gelsomino

ZAFFERANO

Il cioccolatiere torinese

Guido Gobino, celebre

per avere reintegrato

la ricetta del

gianduiotto senza

latte, ha creato una

pralina dal carattere

speziato

e persistente, con

fondente al 60% ,

zafferano di Navelli e

Vaniglia Bourbon. Da

gustare anche il

ginger&lemon

e il Pinguino,

minigianduiotto

“foderato” di fondente

Sono i cioccolatieriche lavorano in Italia

40 mila

Sono i laboratori artigianalidi cioccolato in Italia

25 mila

È l’anno in cui arrivail cioccolato in Europa

1528

Le tonnellate di cioccolatoprodotte nel 2004 nel mondo

5 mln

‘‘CARLO GOLDONI

Che bevanda delicataChe diletto mi dà!Viva pur la cioccolataChe dà gusto e sanitàViva pur la cioccolataE colui che l’ha inventata

‘‘GABRIEL GARCIA MARQUEZ

Un momento (...) ora assisteremoad una prova irrefutabiledell’esistenza di Dio. Il ragazzo cheaveva servito messa gli portò unatazza di cioccolato spesso efumante che egli bevve d’un fiato

da CENT’ANNI DI SOLITUDINEda LA CONVERSAZIONE

ROSMARINO

A pochi chilometri

da Pistoia, i fratelli

Lunardi hanno messo

a punto un’inedita

fusione di gusti tra

gli odori dell’orto -

rosmarino e salvia -

e il cioccolato.

I “cretti” sono

profumati, suadenti.

Dall’orto al laboratorio,

sempre in regime

di alimentazione

naturale, sono state

create anche

le gustose praline

alla frutta

FO

TO

ZE

FA

42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 6 FEBBRAIO 2005

l’incontroTestimoni della storia

ORAZIO LA ROCCA

«HROMA

o visto le più gran-di tragedie del se-colo passato. Idrammi e le vio-

lenze delle guerre, delle sopraffazioni edella povertà. Ho visto le tragedie dellaShoah, i morti innocenti di Auschwitz,di Dachau e degli altri campi di con-centramento. Ho visto bambini am-mazzati, gente impiccata, feti strappa-ti dal ventre della madre e uccisi a colpidi pistola. Ho visto tante, troppe perso-ne umiliate dalle leggi razziali, dall’an-tisemitismo, dall’odio apparentemen-te inspiegabile verso l’ebreo. Ma la spe-ranza non l’ho persa mai. E oggi, alle so-glie dei miei novant’anni, malgradotutto, guardo al futuro con fiducia, rin-cuorato anche dalla ritrovata vitalitàdel dialogo ebraico-cristiano che, gra-zie in particolare a un papa come Gio-vanni Paolo II, ha imboccato una stra-da fatta di reciproca comprensione e difraterna intesa. Un dialogo fruttuosoche nessuno più riuscirà a spezzare».

Elio Toaff, rabbino capo emerito del-la comunità ebraica di Roma, la più an-tica d’Europa, lo racconta così il Nove-cento, il secolo “breve”, il secolo dellegrandi tragedie dell’umanità. L’occa-sione è doppia: i novant’anni che com-pirà alla fine del prossimo aprile ma an-che il sessantesimo anniversario, ap-pena passato, dell’apertura dei cancel-li di Auschwitz. Novant’anni, una metache — assicura — «attraverserò guar-dando sempre avanti». Ma che offrel’opportunità, per una volta, di girare losguardo sul secolo passato, attraversa-to di corsa, sempre in prima linea, pri-ma come studente universitario perse-guitato dalle leggi razziali, poi come pa-dre di famiglia, docente, rabbino e, an-che, partigiano. «Ma la cosa di cui sonopiù sono fiero — confessa — è l’esserestato testimone dello sviluppo di que-sto paese, nel quale la comunità ebrai-ca ha svolto un ruolo sempre più rile-vante e condiviso, malgrado un passa-to fatto anche di leggi razziali, di campi

di concentramento, di persecuzioni». Toaff parla con un inconfondibile ac-

cento toscano — o, meglio, livornese —e accompagna le parole con un sorrisovivace, a tratti nervoso, ma semprespontaneo. Anche quando evoca even-ti tristi. Negli occhi brilla sempre unaluce, come se le antiche tragedie fosse-ro ormai dimenticate. Ma è solo appa-renza.

«Sono nato a Livorno — racconta —il 30 aprile del 1915 e la mia famiglia, co-me quelle di tutti gli ebrei italiani, benpresto fu costretta a fare i conti con leleggi razziali». Figlio del rabbino dellacittà toscana Alfredo Sabato Toaff e diAlice Yarch, il giovane Elio studia al col-legio rabbinico di Livorno e si laurea al-l’università di Pisa. Ha una sorella, Pia,e due fratelli, Cesare e Renzo che si rifu-giano in Israele. «Renzo — ricorda oggi—, un bravo chirurgo, fu letteralmentecacciato dall’ospedale mentre era alleprese con un intervento. “Me ne andròsolo dopo aver terminato l’operazio-ne”, disse. E così fece».

La laurea in giurisprudenza è unascommessa vinta quasi per caso. «Acausa delle leggi razziali nessun docen-te era disposto a farmi da relatore. Allafine solo un professore accettò. Si chia-mava Lorenzo Mossa e mi affidò una te-si sul conflitto di leggi in Palestina, frut-to dell’incontro della tradizione otto-mana, inglese ed ebrea. Ma al momen-to della discussione della tesi, il presi-dente Cesarini Sforza se ne andò, but-tando la toga sul tavolo, arrabbiatoperché ero ebreo. Mossa, senza farsi in-timorire, decise di continuare e mi lau-reai con un 105. Era il 1939».

Ma la vera vocazione del giovaneToaff non è la magistratura. Mentrestudia all’università continua l’impe-gno religioso all’interno della comu-nità ebraica livornese. E nel 1940 vienenominato rabbino. «Mio padre non vo-leva», ricorda con un sorriso. «In fami-glia, mi diceva, di rabbino ce n’è giàuno, che basta e avanza. In realtà, ave-va timore per me, avendo annusato labrutta aria che in Italia si respirava giàda anni. Non lo ascoltai. Ed eccomiqua». Il primo incarico arriva nel ’41con la nomina a rabbino capo della co-munità ebraica di Ancona. «Fu unaesperienza interessante, molto forma-tiva, a tratti anche dura. All’inizio, i mo-menti più difficili. Appena arrivato —dice — seppi che una famiglia di ebreistava per convertirsi al cristianesimo.Senza esitazioni, li andai subito a trova-re poche ore prima della celebrazione.Dissi al padre che stavano per fare unpasso vigliacco, inutile e poco dignito-so. In un primo momento non fui capi-to, ma sarà stato per la mia foga, per lamia sincerità o forse la passione con cuiparlai, alla fine nessuno si convertì. An-zi, il padre diventò presidente dellaconsulta umanitaria della comunità».

Sono anni difficili per il giovane rab-bino. Un giorno Toaff va in ospedaleper portare il conforto religioso a un pa-

roco, don Francalanci: «Ci nascose permolto tempo nella sua parrocchia.Dormivamo in chiesa, mio padre suigradini dell’altare maggiore, noialtrisulle panche». Con l’arrivo degli alleati,la famiglia Toaff può tirare un sospiro disollievo. Ma durante un nuovo rastrel-lamento delle Ss, il rabbino — insiemead altre persone — viene catturato. «Misalvai per sbaglio mentre mi stavo sca-vando la fossa. Gli altri furono fucilati:io, per ordine di un comandante au-striaco con cui avevo scambiato un po’di parole in francese, fui salvato. Primadi andarmene pregai sui corpi dei com-pagni che non avevano avuto la miastessa fortuna».

La scelta partigiana è un passo obbli-gato, che Toaff compie unendosi allebrigate versiliane e che, tra l’altro, loporterà, armi in pugno, ad essere unodei testimoni oculari della strage diSant’Anna di Stazzema. «Entrammo incittà quando i tedeschi se ne erano giàandati. Trovammo un deserto spettra-le — ricorda — poi davanti ai nostri oc-chi apparvero i corpi privi di vita di 505persone fucilate». Ma all’orrore non c’èfine, negli anni più bui del ventesimosecolo. È un’altra la scena che segnaElio Toaff per tutta la vita: «Con altripartigiani entrai in un casolare e vidiuna donna appoggiata al tavolo comese dormisse. Non era così. Era morta.Aveva la pancia squarciata dall’alto inbasso. Accanto a lei trovammo il fetoche le era stato strappato dal ventre,morto, con la testa traforata da un col-po di arma da fuoco. Quell’immaginemi ha cambiato l’esistenza. E da allora— confessa — non ho avuto più la forzadi toccare il suolo della Germania, né disorvolarlo con l’aereo. Non l’ho più fat-to, anche se qui a Roma ho accettatol’invito dell’ambasciata tedesca. Devoaggiungere che da partigiano non homai sparato e, tantomeno, ucciso».

Finita la guerra, nel 1945 arriva la no-mina a rabbino capo della comunitàebraica di Venezia, che guiderà per seianni. «Anche quella fu una esperienzabellissima. Trovai una comunità viva-ce, vogliosa di crescere, specialmentedal punto di vista culturale e scolastico,ben inserita nel tessuto cittadino. Tragli episodi più curiosi di quel periodo,l’invio nel ’48 di un carro armato ab-bandonato dai tedeschi al nascenteStato di Israele. Un dono simbolico, mafu il primo carro armato dell’esercitoisraeliano». Nel ’51, «inaspettatamen-te», la nomina a rabbino capo di Roma,incarico che coprirà per cinquant’anni.«Ricordo che all’inizio qualche rabbinosi lamentò per il mio arrivo, perché nonero romano. Poi ci conoscemmo bene enon ci furono più problemi». Nella ca-pitale il primo problema in quegli anniera la povertà: «Con le ferite della guer-ra e delle deportazioni ancora aperte, lacomunità era in grande difficoltà. Mapiano piano, lavorando sodo, senzamai scoraggiarci, cominciammo a cre-scere e a camminare».

ziente ebreo. «Appena mi presentai fuicacciato via da due infermieri. Senzascoraggiarmi andai dal maresciallo deicarabinieri che, con grande determina-zione, mi fece scortare da quattro cara-binieri, assicurandomi che avrei potu-to sempre rivolgermi a lui per qualsiasiproblema. Un galantuomo». Ad Anco-na, anche la comunità ebraica vive ildramma della guerra: «La gente parte-cipava alle preghiere del tempio, masenza fare molta vita comunitaria.Quando arrivarono i tedeschi, chiusi laSinagoga, anche in occasione dellagrande festa del Kippur, e insieme a tut-ta la popolazione mettemmo in salvo lacomunità nelle case e nelle parrocchie.I ragazzi e i bambini li imbarcammo suuna nave in direzione del Sud, dove era-no arrivati gli alleati».

Nel ’43, il matrimonio con Lia Lupe-rini, insegnante di lettere, dalla qualeavrà quattro figli: Ariel, Miriam, Daniele Godiel. L’arrivo dei nazisti costringe iToaff a cercare rifugio in Versilia, a Valdi Castello. Si salvano grazie a un par-

Non senza difficoltà. «Il momentopiù terribile che ho vissuto da rabbinocapo di Roma è stato l’attentato alla Si-nagoga del 1982, quando i terroristi pa-lestinesi del gruppo di Abu Nidal pro-vocarno la morte del piccolo StefanoTasché e il ferimento di quaranta per-sone. Un episodio triste e drammaticofrutto di un clima politico antiebraico,come denunciai al presidente Pertini.Un clima che spero non torni mai più».

Ma il Novecento di Toaff è anchequello del dialogo. Nel suo mezzo seco-lo romano, il rabbino è stato dirimpet-taio di cinque papi. Ma solo uno è di-ventato suo amico personale, quasi unfratello: papa Wojtyla. «Con Pio XII nonci furono mai contatti, nemmeno isti-tuzionali — racconta Toaff — purtrop-po era il clima del tempo. Con Giovan-ni XXIII incominciò la svolta: con ilConcilio che cancellò l’accusa di deici-dio al popolo ebraico e con lo stessoRoncalli che abolì quell’espressione di“perfidi giudei” in uso per secoli tra icristiani. Giovanni XXIII fu poi autoredi un gesto che emozionò tutta la co-munità: un giorno fece fermare la suaauto davanti alla Sinagoga per benedi-re gli ebrei che uscivano dal tempio. Fuun momento bellissimo, commovente:dopo duemila anni, per la prima volta,un papa aveva benedetto un gruppo diebrei».

«Con Paolo VI — ricorda Toaff — nonci furono incontri, ma iniziò il dialogoebraico-cristiano grazie a figure comeil vescovo Clemente Riva, uno dei silen-ziosi artefici della storica visita di Gio-vanni Paolo II alla Sinagoga, l’indimen-ticabile visita contrassegnata da quellafelicissima espressione di “fratelli mag-giori” con cui il Papa definì il popoloebreo. Questo papa — al quale augurouna pronta guarigione e che spero di in-contrare presto — ha veramente fattotanto per la reciproca conoscenza traebrei e cristiani. Ha chiesto sincera-mente scusa per le colpe storiche deicristiani nelle persecuzioni ebraiche,ha allacciato le relazioni diplomatichetra Vaticano e Israele, ha visitato la Si-nagoga. Per questo, dico, i rapporti traebrei e cristiani si sono ormai avviativerso una felice strada senza ritorno».

A Sant’Anna diStazzema ho vistoun feto strappatodal ventre dellamadre e finito conun colpo di pistola.Ecco perchédalla Germania nonsono mai passatoneppure in aereo

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‘‘Alla soglia dei suoi novant’anniil rabbino capo emerito di Romaracconta il Novecento che haattraversato prima come studenteuniversitario perseguitato perché

ebreo, poi comepartigiano e infinecome guida religiosa:il secolo brevedei totalitarismi,delle leggi razzialie della Shoah.Ma anche il secolo,

ci dice, che ha aperto una stradadi pace e tolleranza da cui nonè più possibile tornare indietro

Elio Toaff