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Murakami Jazz band LADOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 27 OTTOBRE 2013 NUMERO 451 CULT La copertina STEFANO BARTEZZAGHI e ANTONELLO GUERRERA Dalla musica alla letteratura tutta la cultura è in streaming Il libro SUSANNA NIRENSTEIN I Buddenbrook della Ddr nella saga di Eugen Ruge All’interno Straparlando ANTONIO GNOLI Claudio Pavone “Sono uno storico ma mi piacerebbe leggere il futuro” L’opera GUIDO BARBIERI Quanta emozione nel “Grimes” di Pappano anche senza scene L’arte MELANIA MAZZUCCO Il Museo del mondo Le tentazioni di Bosch Tiziano Sclavi, “Sono troppo pigro per fare Dylan Dog” L’incontro LUCA VALTORTA Enfants terribles, le ultime parole di Jean Cocteau L’inedito JEAN COCTEAU e DARIA GALATERIA S i potrebbe dire che in principio era il jazz, ma anche che in principio c’era un gatto: a dire la verità le due cose, gat- to e jazz o per meglio dire gatto e musica, nella vita di Mu- rakami Haruki si sono sempre mescolate. Quando nel ’74 il giovane Murakami apre un caffè a Tokyo dove la se- ra si ascolta jazz, lo chiama Peter Cat e quando tre anni dopo si sposta in una zona più centrale della città il nuovo locale è sormontato da un grande Stregatto. Possiamo dire che prima di scri- vere i suoi libri, Murakami Haruki si è dato da fare intorno alla co- lonna sonora della sua vita e dunque questi Ritratti in jazz sono l’i- nevitabile corollario della melomania del loro autore. In una intervista del novembre 2011 a Dario Olivero per questo giornale, Murakami raccontava di avere nel suo studio grandi casse Jbl comprate oltre trent’anni fa che servono per ascoltare i vecchi Lp che riempiono tutte le pareti. «Credo di averne diecimila» aveva ag- giunto lo scrittore, «a destra c’è il jazz, a sinistra la musica classica». (segue nelle pagine successive) PAOLO MAURI S e a un certo punto penso: «Be’, oggi magari scrivo qual- cosa su Clifford Brown», prendo da uno scaffale un po’ di album suoi che non sentivo da tempo, li metto sul piat- to del giradischi (sì, ho solo vecchi Lp in vinile, ovvia- mente), mi piazzo nella mia solita poltrona e lascio che la musica mi riempia le orecchie. Poi mi siedo alla scri- vania e raccolgo in un testo della lunghezza opportuna tutte le idee che mi vengono in mente. Il fatto che il mio studio sia al tempo stesso anche una sala d’ascolto in questi casi si rivela estremamente utile. Nello studio uso soprat- tutto delle vecchie e grandi casse della Jbl di tipo Back Loaded Horn — sono piuttosto antiquate, lo ammetto — e a pensarci bene sono già venticinque anni che la musica jazz per me ha il loro timbro. Di conseguenza, bene o male che sia, ormai non riesco a immaginarla con un suono diverso: il mio corpo si è completamente assuefatto al- la loro vibrazione. (segue nelle pagine successive) MURAKAMI HARUKI DISEGNO DI MASSIMO JATOSTI “Chi, se non Chet Baker, ci ha fatto sentire con tanta intensità il soffio della primavera?” Da Charlie Parker a Billie Holiday i musicisti preferiti dallo scrittore giapponese Che racconta così la colonna sonora della sua vita Repubblica Nazionale

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MurakamiJazz

band

LA DOMENICADIREPUBBLICA DOMENICA 27OTTOBRE 2013

NUMERO 451

CULT

La copertina

STEFANO BARTEZZAGHI

e ANTONELLO GUERRERA

Dalla musicaalla letteraturatutta la culturaè in streaming

Il libro

SUSANNA NIRENSTEIN

I Buddenbrookdella Ddrnella sagadi Eugen Ruge

All’interno

Straparlando

ANTONIO GNOLI

Claudio Pavone“Sono uno storicoma mi piacerebbeleggere il futuro”

L’opera

GUIDO BARBIERI

Quanta emozionenel “Grimes”di Pappanoanche senza scene

L’arte

MELANIA MAZZUCCO

Il Museodel mondoLe tentazionidi Bosch

Tiziano Sclavi,“Sono troppo pigroper fare Dylan Dog”

L’incontro

LUCA VALTORTA

Enfants terribles,le ultime paroledi Jean Cocteau

L’inedito

JEAN COCTEAU

e DARIA GALATERIA

Si potrebbe dire che in principio era il jazz, ma anche chein principio c’era un gatto: a dire la verità le due cose, gat-to e jazz o per meglio dire gatto e musica, nella vita di Mu-rakami Haruki si sono sempre mescolate. Quando nel’74 il giovane Murakami apre un caffè a Tokyo dove la se-ra si ascolta jazz, lo chiama Peter Cat e quando tre anni

dopo si sposta in una zona più centrale della città il nuovo locale èsormontato da un grande Stregatto. Possiamo dire che prima di scri-vere i suoi libri, Murakami Haruki si è dato da fare intorno alla co-lonna sonora della sua vita e dunque questi Ritratti in jazz sono l’i-nevitabile corollario della melomania del loro autore.

In una intervista del novembre 2011 a Dario Olivero per questogiornale, Murakami raccontava di avere nel suo studio grandi casseJbl comprate oltre trent’anni fa che servono per ascoltare i vecchi Lpche riempiono tutte le pareti. «Credo di averne diecimila» aveva ag-giunto lo scrittore, «a destra c’è il jazz, a sinistra la musica classica».

(segue nelle pagine successive)

PAOLO MAURI

Se a un certo punto penso: «Be’, oggi magari scrivo qual-cosa su Clifford Brown», prendo da uno scaffale un po’di album suoi che non sentivo da tempo, li metto sul piat-to del giradischi (sì, ho solo vecchi Lp in vinile, ovvia-mente), mi piazzo nella mia solita poltrona e lascio chela musica mi riempia le orecchie. Poi mi siedo alla scri-

vania e raccolgo in un testo della lunghezza opportuna tutte le ideeche mi vengono in mente. Il fatto che il mio studio sia al tempo stesso anche una sala d’ascoltoin questi casi si rivela estremamente utile. Nello studio uso soprat-tutto delle vecchie e grandi casse della Jbl di tipo Back Loaded Horn— sono piuttosto antiquate, lo ammetto — e a pensarci bene sonogià venticinque anni che la musica jazz per me ha il loro timbro. Diconseguenza, bene o male che sia, ormai non riesco a immaginarlacon un suono diverso: il mio corpo si è completamente assuefatto al-la loro vibrazione.

(segue nelle pagine successive)

MURAKAMI HARUKI

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“Chi, se non Chet Baker,ci ha fatto sentirecon tanta intensitàil soffio della primavera?”Da Charlie Parkera Billie Holidayi musicisti preferitidallo scrittore

giapponese

Che racconta così

la colonna sonora

della sua vita

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA■ 26

DOMENICA 27 OTTOBRE 2013

Murakami.Antologiaper amanti del jazz

La copertina

(segue dalla copertina)

Comunque, nel 1981, Murakami vende il suo jazz bar, cosa che ricor-derà in A sud del confine, a ovest del sole (1992) quando il protagoni-sta Hajime diventa ricco grazie a due jazz club. Scorrendo l’elenco deiritratti in jazz ci si accorge che Murakami Haruki ha rivissuto e ama-to la storia del jazz come un americano nato nei primi decenni del No-vecento. La tromba di Louis Armstrong suona ancora per le strade, ma

poi il jazz impazza nei locali notturni: Chet Baker, Benny Goodman, Charlie Parker,ma anche Duke Ellington, Nat King Cole e perfino Glenn Miller… Quando Miller ri-chiamato alle armi moriva sul canale della Manica durante la Seconda guerra mon-diale Murakami Haruki non era ancora nato: è del ’49, ma per sua fortuna le regi-strazioni dell’orchestra diretta da Miller sono molte e in questo modo è riuscito ad as-saporare un’atmosfera che non avrebbe mai potuto vivere.

Così come si è appropriato della musica occidentale, classica e jazz, Murakami hafatto con la letteratura: ha esplicitamente ammesso il proprio debito con RaymondCarver (da lui tradotto in giapponese) con Orwell, Scott Fitzgerald e naturalmentecon classici come Dickens. Ma l’elenco sarebbe lungo. La nostra letteratura tra-piantata in Giappone ha attecchito senza problemi, come capita anche agli alberiche nel corso del tempo hanno viaggiato moltissimo mettendo solide radici. D’al-tra parte il processo di rapida (e non sempre indolore) occidentalizzazione delGiappone nel Novecento è un fenomeno sotto gli occhi di tutti. Murakami ha inse-rito nelle sue trame il gusto per il fantastico e per i mondi paralleli (cosa che alcu-ni gli rimproverano). Ma bisogna a mio avviso tenere presente che con grande abi-lità lo scrittore giapponese opera una sintesi in cui entrano anche graphic novel

e cinema, sicché non c’è da stupire se i suoi romanzi hanno una colonna so-nora. Proprio come i film. D’altra parte non è fortemente cinematograficol’inizio della trilogia 1Q84? Il lettore incontra la giovane Aomame su un taxibloccato dal traffico mentre la radio trasmette la Sinfonietta di Janácek.Una scelta raffinata. Restando ai classici, nell’Uccello che girava le viti delmondo (1994-95), uno dei più bei libri di Murakami, avevamo incon-trato Il flauto magico di Mozart e in Kafka sulla spiaggia Beethoven.Ma già in Norwegian Wood. Tokyo Blues (1987) la musica è presentein molte pagine ed è in particolare, ma non solo, quella dell’univer-so giovanile del ’68, con in testa i Beatles.

E i gatti? Beh, davvero non mancano. In Kafka sulla spiaggiac’è un personaggio demoniaco che cattura i gatti, nell’Uccelloche girava le viti del mondotutto comincia con la sparizione diun gatto cui segue la scomparsa della moglie del protagoni-sta, in 1Q84 Tengo, il protagonista maschile, parla di un“Paese dei gatti”. E nella raccolta di racconti I salici ciechie la donna addormentata un racconto si intitola I gat-ti antropofagi. Insomma Murakami Haruki, scritto-re “post”, si porta dietro predilezioni e ossessionidi libro in libro e mentre l’Occidente si sente datempo al tramonto lui lo reinterpreta con lafreschezza del neofita, come se tutto ciò cheè già accaduto potesse ancora e per la pri-ma volta accadere.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

PAOLO MAURI

IL LIBRO

Titolo originale

Potoreto in Jazu,

tradotto da Antonietta

Pastore, Ritratti

in Jazz (239 pagine,

19,50 euro) di Murakami

Haruki (nella foto)

sarà da mercoledì

nelle librerie

per Einaudi

con le illustrazioni

di Wada Makoto

Il suono del post-scrittore

L’acquisto del primo Lp, il primo concerto,il bar aperto a Tokyo, lo studio pieno di dischiTutto nella vita dell’autore di “1Q84”

racconta dell’ossessione per la musicaMancava solo la sua playlist. Eccola

Repubblica Nazionale

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DOMENICA 27 OTTOBRE 2013

a musica di Chet Baker aveva uninconfondibile profumo di giovi-nezza. Molti sono i musicisti che

hanno impresso il loro nome sulla sce-na del jazz, ma chi altri ci ha fatto senti-re con tanta intensità il soffio della pri-mavera della vita?

Nel suo modo di suonare c’era qual-cosa che faceva nascere in petto un inef-fabile, lancinante dolore, delle immagi-ni e dei paesaggi mentali che soltanto laqualità del suo suono e il suo fraseggia-re sapevano trasmettere.

Purtroppo però perse in breve tempoquesta particolare facoltà. Senza quasiche ce ne accorgessimo, il suo splendo-re venne inghiottito dalle tenebre, co-me la bellezza di una notte di piena esta-te. E il degrado a cui inevitabilmenteconduce l’abuso di droghe gli piombòaddosso come un debito andato oltre ladata di scadenza.

Baker assomigliava a James Dean. Gliassomigliava nei tratti del viso, ma an-che nella natura carismatica e al tempostesso distruttiva della sua esistenza.Entrambi divorarono voracemente unpezzo della loro epoca, e il nutrimentoche ne trassero lo donarono con grandegenerosità al mondo, senza trattenernenulla.

l mio primo incontro con il mo-dern jazz avvenne al concerto ArtBlakey and the Jazz Messengers,del 1963. Il luogo era la città di Ko-

be, io andavo alle medie e quanto al jazznon sapevo nemmeno che genere dimusica fosse. Ma per qualche misterio-sa ragione mi incuriosiva, così mi pro-curai un biglietto e andai al concerto. Al-l’epoca accadeva talmente di rado cheun famoso musicista straniero venissein tournée in Giappone! Ricordo che erauna fredda giornata di gennaio.

Quella sera compresi veramente lamusica che sentivo? Forse era un po’troppo difficile per me. In quel periodoascoltavo soprattutto rock and roll, siaalla radio che sui dischi, al massimo ar-rivavo a Nat King Cole, quindi il mio li-vello musicale era evidentemente di-verso. Quella volta sul palco vennerosuonate It’s only a Paper Moon e ThreeBlind Mice. Conoscevo già entrambe lecanzoni, ma nell’esecuzione dei JazzMessengers erano molto lontane dallamelodia originale. Non riuscivo a capi-re perché la melodia dovesse venirespezzata e stravolta in modo così totale,non ne comprendevo la ragione, il crite-rio fondamentale e la necessità. Insom-ma, il concetto di improvvisazione nonesisteva negli scomparti della mia cono-scenza. Eppure c’era in quel concertoqualcosa che mi colpì, che mi commos-se. Tornai a casa come in trance.

ino a oggi mi sono appassionato amolti romanzi, mi sono dedicatoa molta musica jazz. Ma in con-clusione per me “il romanzo” è

Scott Fitzgerald, e “il jazz” è Stan Getz.Pensandoci bene, questi due personag-gi hanno forse alcuni aspetti in comune.Nella loro arte si possono ovviamentetrovare dei difetti, lo riconosco senzaproblemi. Ma probabilmente è il prezzoda pagare in cambio della loro bravura,dell’impronta eterna che ci hanno la-

— C’è un brano che desidera ascolta-re in particolare?

mi chiese poco dopo il giovane bari-sta, venendo a mettersi davanti a me.

Alzai il viso e provai a riflettere. Unbrano che volevo ascoltare? Ora che melo diceva, qualcosa che mi avrebbe fattopiacere magari c’era. Ma che genere dimusica era adatto a quel posto? Mi sen-tivo del tutto perduto. «Four & More»,dissi dopo averci rimuginato un po’ su.

Il barista estrasse l’album e lo posò sulpiatto del giradischi. Era proprio la mu-sica di cui avevo bisgno. Lo penso anco-ra oggi. Penso che era esattamente il di-sco che dovevo ascoltare in quel mo-mento. La performance di Miles in quel-l’album è profondamente amara. Iltempo che ha scelto è stranamente ve-loce al punto da risultare aggressivo.Con il ritmo cesellato da Tony Williamsin sottofondo, assennato come unacandida luna di tre giorni, Miles confic-ca senza pietà il suo cuneo magico nelleincrinature dell’animo. Non chiedenulla né prende nulla. Nella sua musicanon si può cercare compassione, né ri-ceverne sollievo.

a giovane ascoltavo spesso leperformance che lei incise pertutti gli anni Trenta fino allametà degli anni Quaranta. Era

incredibilmente immaginativa, la suacapacità di alzarsi in volo faceva stra-buzzare gli occhi. Il mondo danzava loswing insieme a lei. La terra stessa don-dolava. Non sto esagerando. La sua nonera arte, era magia. Invece non percepi-vo una grande passione, quando erogiovane, nelle sue performance più tar-de, dell’epoca in cui aveva ormai rotto lasua voce e logorato il suo corpo con l’a-buso di droghe, e incideva dischi per laVerve. Forse era troppo lontana dallamia anima. Soprattutto le registrazionia partire dal 1950 per me erano troppopenose, pesanti, patetiche. Da quandoho compiuto trent’anni, però, e manmano che procedevo verso i quaranta,ho iniziato ad apprezzarle e a metterlesempre più di frequente sul piatto del gi-radischi. Senza che ci facessi caso, il miospirito e il mio corpo hanno iniziato acercare quella musica.

Dunque: cosa sono riuscito a sentirenel modo di cantare in un certo sensofrantumato della Billie Holiday dell’ulti-mo periodo? Ci ho riflettuto molto. Co-sa c’è lì dentro che ha la capacità di atti-

rarmi con tanta forza? Può darsi che sitratti di una sorta di “perdono”, questa èla sensazione che provo di recente.Quando ascolto le canzoni di Billie Ho-liday degli anni Cinquanta, sento che leiprende su di sé in blocco tutti gli sbagliche ho commesso fino ad oggi, tutte leferite che ho inferto finora a tante perso-ne attraverso quello che creo, cioè attra-verso la scrittura: e mi perdona.

o iniziato ad amare la musica diDexter Gordon quando sono en-trato all’università. Mentre gli al-tri studenti ascoltavano traso-

gnati, nei jazz bar, John Coltrane o Al-bert Ayler, sui quali intavolavano di-scussioni infervorate, io andavo in esta-si per il bebop vecchio stile. Il primo di-sco di Dexter Gordon che ho ascoltatoera della Savoy, e risale all’epoca in cuiDexter era giovane e si lanciava libera-mente, in modo temerario e spontaneo,nei suoi tipici fraseggi.

Naturalmente Charlie Parker avevaun suo modo speciale di essere prodi-gioso. Dexter però era uno dei miei eroipersonali. Non so perché, bastava il suonome a darmi le palpitazioni. Nel suonodel suo sassofono potevo sentire “l’odo-re della polvere da sparo” del jazz. Cosícome il nome Alfa Romeo faceva vibra-re il cuore di chi amava le automobili.

è stato un periodo della miavita in cui ero fatalmente at-tratto dalla musica di Thelo-nious Monk. Ogni volta che

ascoltavo il suono particolare del suopianoforte — che sembra scalfire un du-ro pezzo di ghiaccio — mi dicevo: «Que-sto è jazz». Il che costituiva per me uncaldo incoraggiamento.

Un forte caffè nero, un portacenerepieno di mozziconi, delle grosse cassedella Jbl, il libro che stavo leggendo inquel periodo (un Bataille, ad esempio, oun William Faulkner) in mano, il primopullover dell’autunno, la solitudine di

un angolo della città… ancora oggi que-ste scene dentro di me sono diretta-mente legate a Thelonious Monk.

Sono scene stupende. Anche suppo-nendo che in realtà non siano legatequasi a nulla, sono conservate in bel-l’ordine come splendide foto nella miamemoria.

La musica di Monk era ostinata e soa-ve, intelligente ed eccentrica, e per unaragione che non capivo bene, nel com-plesso estremamente precisa. Una mu-sica che aveva un’incredibile forza dipersuasione su qualcosa nascosto den-tro di noi. Era paragonabile a un uomomisterioso uscito dal nulla che appareall’improvviso, posa sul tavolo qualcosadi straordinario, e scompare così, senzadire una parola.

una storia che risale a molti an-ni fa, ma una volta, quando eroliceale, misi da parte dei soldi eacquistai l’album Song for My

Father. Con la mia ragazza passai da unnegozio di musica che si trovava nelquartiere di Motomachi a Kobe, e locomprai. Il disco era pesantissimo. Lamia ragazza non aveva un particolareinteresse per il jazz, ma trovò la coperti-na bellissima. Eravamo in autunno, ilcielo era sereno, e di nuvole in cielo nonse ne vedevano, se non molto in alto,aguzzando la vista. Ricordo persinoquesti dettagli. Perché l’acquisto di queldisco costituiva per me un avvenimen-to importantissimo. A quei tempi la BlueNote non dava licenza al Giappone distampare i suoi dischi, quindi quello checomprai era necessariamente un arti-colo di importazione, che mi costò labellezza di 2800 yen (1 dollaro valeva 330yen). In un’epoca in cui si poteva bere uncaffè per 60 yen, era una discreta som-ma. Al di sopra della portata di un licea-le. Così quando riuscivo a procurarmiun disco, l’ascoltavo con tutta l’anima.Come il cane che tiene la testa infilatanella tromba del fonografo, il marchiodella Victor, tendevo spasmodicamen-te l’orecchio a ogni singola nota, alla let-tera. Non arrivo a dire che quegli albumfossero più importanti della mia ragaz-za, ma mi stavano a cuore più o meno al-lo stesso modo. Li toccavo, li annusavo,li guardavo da tutte le parti.

è un film che mi piace molto,French Kiss. Kevin Kline fa laparte di uno strano franceseche parla inglese con uno

strano accento, e alla fine di una storiacomplicata riesce a mettersi con MegRyan, che è la tipica ragazza americana.Al termine di questo film a lieto fine scor-rono i titoli di coda, mentre in sottofon-do Kevin Kline nel suo francese nasalecanta La Mer (senza accompagnamen-to). Canticchia con noncuranza, maga-ri è a letto e ha appena fatto l’amore.

«Questa è Beyond the Sea, vero? Nonsapevo che l’avessero anche tradotta infrancese», dice da un angolo Meg Ryan.«No, questa in origine è una canzonefrancese», le risponde Kevin Kline. «Fi-gurati! Ma se è una canzone di BobbyDarin! Ne sono sicura», insiste Meg .

Ho visto il film in un cinema america-no, e quella conversazione finale, consolo le voci, l’ho trovata così divertenteche quando gli altri spettatori sono usci-ti sono rimasto seduto e ho rivisto tuttoil film dall’inizio alla fine, titoli di codacompresi, naturalmente. E mi è venutauna voglia terribile di ascoltare La Mersuonata da Django Reinhardt.

© 1997, 2001 Murakami Haruki - Wada Makoto. All rights reserved

© 2004 Wada Makoto per le illustrazioni© 2013 Giulio Einaudi ed. s.p.a., Torino

sciato. Ed è proprio per questo che in-sieme alla loro bravura, amo allo stessomodo i loro difetti.

ro sicuro di averlo sentito canta-re anche South of the Border, econ questo ricordo in mente hoscritto il romanzo A sud del con-

fine, a ovest del sole. Peccato che in se-guito qualcuno mi abbia detto cheSouth of the Border non è mai stata nelrepertorio di Nat King Cole (perlomenonon ne ha lasciato registrazione alcu-na). Incredulo, ho consultato la sua di-scografia, e con mia grande sorpresa hoscoperto che in effetti quella canzonenon c’era. Ha inciso moltissimi album dimusica latino-americana, ma South ofthe Border no, mai.

Il che significa che ho scritto un inte-ro romanzo basandomi su qualcosa diinesistente.

ella vita di qualunque personac’è una “giornata perduta”. Unagiornata in cui sentiamo di “aversuperato un limite oltre il quale

qualcosa dentro di noi è cambiato, e nontorneremo mai più a essere quelli di pri-ma”.

Quel giorno, avevo camminato a lun-go per la città. Da una strada all’altra, daun tempo all’altro. Era una città che co-noscevo bene, eppure l’avvertivo estra-nea. Fu soltanto quando si fece buio chepensai di andare in un bar e bere qual-cosa di forte. Avevo voglia di un whiskycon ghiaccio. Continuai ad avanzarelungo la stessa strada finché non trovaiquello che sembrava un jazz bar, aprii laporta ed entrai. Era un locale lungo estretto, con un bancone e tre tavolini, enemmeno l’ombra di un avventore. Lamusica era jazz. Mi sedetti su uno sga-bello al bancone, e ordinai un doppiobourbon. Mentre l’alcol mi scivolavagiù per la gola, pensavo: «Qualcosa den-tro di me è cambiato. Non sarò mai piùquello di prima».

© RIPRODUZIONE RISERVATA

THELONIOUSMONK

BILLIEHOLIDAY

CHET BAKER

STANGETZ

HORACESILVER

MILESDAVIS

NATKING COLE

DJANGO REINARHARDT

(segue dalla copertina)

i rendo conto che al mondoci sono tanti modi miglioridi ascoltare il jazz, ma iopreferisco farlo così,rannicchiato come una talpain questa confortevole tana.La mia visione del jazz è moltosimile, molto vicina a questoparticolare suono, cioè è la miavisione individuale, personale.Credo che non evolva quasi.E dato che la nostra memoriaper lunghi periodi gira sempreintorno agli stessi punti focali,

finiamo col perdere di vista il corso degli eventi. Di conseguenza,se qualcuno di voi non fosse d’accordo con le mie osservazioni suimusicisti jazz presi in considerazione qui, non dia troppa importanzaalle mie parole. Semplicemente mi sono divertito ad ascoltaredei brani musicali, e poi a scriverci qualcosa sopra. Se la cosafunziona e riesco a farvi sentire quella sorta di calore che provonella mia tana, nulla potrebbe farmi più piacere. Keith Jarrett e JohnColtrane non fanno parte della lista, ma vi prego di considerarequest’assenza un aspetto terribilmente raffinato del libro.

MURAKAMI HARUKI

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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MAASTRICHT

essuno si accorse quando sir John Kerr scivolò discretamentedalla poltroncina e andò ad accucciarsi sotto il tavolo di frassi-no chiaro, ai piedi di John Major. Nessuno, beninteso, tranneil Primo ministro inglese, che spostò le gambe per fare posto al

baronetto di Kinlochard, comandante dell’Ordine di San Michele e San Gior-gio nonché ambasciatore di Sua Maestà Britannica a Bruxelles. La notte del 10dicembre 1991 il termometro sfiorava gli zero gradi. Sotto le alte finestre del Pa-lazzo del governatore del Limburgo, a Maastricht, le acque della Mosa scorre-vano dense. E lambivano dolcemente l’isolotto sul fiume dove, nel modernoedificio di mattoncini rossi, i dodici capi di Stato e di governo dell’Europa sta-vano scrivendo una controversa pagina di storia. Tra mille difficoltà.

Il presidente di turno, il premier olandese Ruud Lubbers, per cercare disbloccare la discussione che durava ormai da ore sulla Carta sociale, aveva de-ciso di tenere una riunione ristretta ai soli capi di governo, facendo allontana-re dalla sala diplomatici, consiglieri e ministri. Ma Major, che stava combat-tendo una battaglia da solo contro gli altri undici Paesi per impedire l’adozio-ne della Carta, aveva perduto le sue note e non si sentiva pronto a sostenere ilconfronto. Così chiese all’ambasciatore Kerr di re-stare per consigliarlo. E Kerr non trovò di meglio chenascondersi sotto il tavolo del premier britannico.L’espediente non servì a molto. A un certo puntoAndreotti, allora capo del governo italiano e unodegli artefici di Maastricht, rivolse a Major alcunedomande insidiose. Major scostò la poltrona perguardare Kerr sotto al tavolo e chiedere consiglio.Ma Kerr, che non capiva l’italiano e non aveva le cuf-fie per la traduzione, non poté che stringersi nellespalle. Il premier britannico era davvero solo.

Se la cavò, comunque, con inglese ostinazione.All’una di notte, Lubbers fece il punto della situa-zione: «John, siamo undici contro uno. Devi cambiare idea». E Major risposesorridendo: «Mi spiace per voi, ma per prendere la decisione occorrono dodi-ci voti. E voi non li avete». A quel punto il gigantesco Helmut Kohl rovesciò al-l’indietro la testa in una grande risata e si alzò. Il vertice era finito. L’Europa so-ciale restava nel limbo delle buone intenzioni, relegata in una dichiarazioneannessa al futuro Trattato. Sir John Kerr potè uscire dalla sua scomoda posi-zione con il gessato un po’ spiegazzato. Tutti se ne andarono alla spicciolata,senza neppure fare gli auguri al ministro degli esteri olandese Van den Brook,che compiva gli anni. Major lasciò la sala senza stringere le mani. «Game, set ematch per noi», dichiarò poi alla stampa britannica. Il presidente francese Mit-terrand, già molto malato, era furioso: «Non siamo riusciti ad affondare gli in-glesi», commentò amaro. Entrambi si sbagliavano di grosso.

Il Trattato di Maastricht, di cui il primo novembre ricorre il ventesimo anni-versario dell’entrata in vigore, ha cambiato in modo definitivo la storia del con-tinente creando l’Unione europea e fissando le tappe e i criteri della futura

unione monetaria. Ma, come sempre avviene nelle cose comunitarie, l’at-tenzione dei media e degli stessi politici che negoziarono accanitamente perdue giorni e due notti nella cittadina olandese fu monopolizzata più dai falli-menti che dall’enorme, indubitabile risultato della moneta unica. Forse per-ché non tutti credevano davvero che sarebbe arrivata.

Oggi la Mosa continua a lambire imponente i muri del “paleis” del governa-tore del Limburgo, e i cigni continuano a nuotare lungo la passeggiata dove, ri-cordano gli impiegati del palazzo, Mitterrand andava a «prendere aria» insie-me a una bella e misteriosa accompagnatrice nelle pause dei lavori. Ma l’Eu-ropa che circonda questa florida cittadina dove si incontrano cultura france-se, olandese e tedesca è irriconoscibile rispetto al continente lacerato che sidiede appuntamento qui nel dicembre ’91.

Per capire lo spirito di Maastricht occorre ricostruire lo straordinario mo-mento storico in cui si colloca. Nel dicembre 1991, poche ore prima del verti-

ce, Russia, Ucraina e Bielorussia annunciano lo scioglimento dell’Urss. La Ger-mania è riunificata da un solo anno. Da sei mesi è cominciata la disintegrazio-ne della Jugoslavia. L’Europa deve affrontare la fine della guerra fredda e l’ini-zio di una guerra vera, il crollo della Cortina di ferro e la nascita della superpo-tenza tedesca, la scomparsa del comunismo e l’approdo verso la democraziadegli ex satelliti sovietici. La riunificazione tedesca fa paura a molti. Alla Fran-cia in primo luogo, che vede la fine della propria preminenza in Europa. An-dreotti commenta cinico: «Amo talmente la Germania che ne preferivo due».Ma anche Kohl si rende conto delle difficoltà. E con il suo ministro per gliaffari speciali, Wolfgang Schauble (oggi ministro delle finanze), de-cide che occorre dissipare i timori per la rinascita tedesca ancoran-do profondamente la Germania all’Europa. Il presidente dellaCommissione, Jacques Delors, uno dei pochi francesi ad averecapito e sostenuto la riunificazione, coglie l’eccezionalità delmomento e propone di far fare all’Europa il grande salto ver-

N

L’attualità1993-2013

RYANAIR

Decimo compleanno

per la prima compagnia

aerea low cost:

il weekend nelle capitali

europee alla portata

di milioni di persone

SCHENGEN

In 7 paesi entra in vigore

l’accordo che abolisce

le frontiere. Austria,

Finlandia e Svezia

entrano nella Ue

(totale: 15 Paesi )

ERASMUS

Esce nei cinema

L’appartamento

spagnolo. Tre milioni

gli studenti che hanno

usufruito del programma

nato nel 1987

EURO

Dal 1° gennaio l’euro

soppianta le valute

nazionali in 12 Paesi

della Ue (tutti tranne

Regno Unito, Svezia

e Danimarca)

SPAZIO

Il satellite Planck

fornisce all’Agenzia

spaziale europea

la mappa del cosmo

Fine missione

nell’ottobre 2013

Vent’anni fa in una cittadina olandesenasceva l’Unione europea(e monetaria)

LA DOMENICA■ 28

DOMENICA 27 OTTOBRE 2013

La società

NO GLOBAL

Da tutta Europa

a Genova contro

il G8. Le violenze

poliziesche sono

all’esame della

Corte di Strasburgo

NIZZA

Viene adottato il trattato

che sarà poi firmato nel 2001

e entrerà in vigore nel 2003

per riformare la Ue

in vista dell’allargamento a 25

(che avverrà nel 2004)

ARCHISTAR

Inaugura a Londra

la Tate Modern,

è la stagione

dei grandi musei

aperta da Piano

con il Beaubourg

CRISI

Esplode negli Stati Uniti

la crisi finanziaria che presto

raggiunge anche l’Europa:

nel 2010 la Grecia vara

il suo primo piano di austerità

LISBONA

Il trattato affronta temi

come cambiamento

climatico, sicurezza

e sviluppo sostenibile

Entrano nella Ue Romania

e Bulgaria (27 i Paesi membri)

HARRY POTTER

Esce l’ultimo libro

della saga del maghetto,

dalla Gran Bretagna

il fenomeno letterario

che conquista i cuori

di generazioni di giovani europei

aMaastrichtRitorno

1994 1995

2000 2002

2007 2008 2009

2001

MOSTAR

Le bombe croate

distruggono

l’antico ponte

bosniaco simbolo

di pacifica

convivenza

BRITPOP

Primo album

degli Oasis,

è la risposta

della musica

europea

a quella Usa

ANDREA BONANNI

Le istituzioni MAASTRICHT

Il primo novembre

entra in vigore il trattato

che istituisce

il mercato unico e la libera

circolazione di beni,

servizi, persone e capitali

Repubblica Nazionale

Page 5: LA DOMENICA - la Repubblicadownload.repubblica.it/pdf/domenica/2013/27102013.pdf · I Buddenbrook della Ddr nella saga di Eugen Ruge All’interno Straparlando ANTONIO GNOLI Claudio

so l’unione politica, economica e monetaria. Andreotti si schiera al suo fianco.Kohl accetta di sacrificare il marco in cambio di una unione politica. Mitter-rand si adegua, ma con l’intenzione di limitare il meno possibile la sovranitàdi una Francia che si sente ancora grande potenza. L’unico che non vuol sen-tir parlare né di unione politica, né economica, né monetaria è il premier con-servatore britannico John Major. Lui, almeno, ha le idee chiare.

Nel dicembre 1990 a Roma, tre mesi dopo l’unificazione tedesca, la presi-denza italiana avviava due conferenze intergovernative: una per l’unione eco-nomico—monetaria, l’altra per l’unione politica. Il lavoro preparatorio veni-va poi ripreso dalla successiva presidenza lussemburghese, poi da quella olan-dese. Ma lunedì 30 settembre 1991, un giorno che la diplomazia olandese an-cora ricorda come «il lunedì nero», tutto sembra sul punto di crollare. La guer-ra in Jugoslavia, e la forzatura tedesca per riconoscere la Croazia, hanno allar-mato la Francia e gli altri partner. Parigi si oppone alla comunitarizzazionedella politica estera e di difesa voluta dalla Germania. E quel lunedì, a una riu-nione dei ministri degli esteri, il tedesco Genscher fa un’improvvisa retromar-cia schierandosi con i francesi. «Un tradimento», lo definisce Lubbers. La pro-posta olandese di comunitarizzare anche la politica estera, la difesa e la giusti-zia riceve solo due voti (olandesi e belgi) su dodici. L’unione politica muore an-cora prima di arrivare a Maastricht. Lubbers, furibondo, chiede spiegazioni aKohl. «Siamo pratici — gli risponde il Cancelliere — la mia amicizia con Parigiè più importante di questi progetti».

Sul tavolo resta dunque solo il progetto dell’Unione monetaria. Gli inglesi visi oppongono, ma hanno accettato di non bloccare il nuovo trattato in cambiodel riconoscimento del loro diritto a restare fuori dalla moneta unica. Ma, an-che tra i Paesi che accettano l’idea dell’euro, che allora veniva ancora chiama-to “Ecu”, le resistenze e le perplessità sono molto forti. La Bundesbank, la Ban-ca centrale tedesca, è restia ad abbandonare il Deutsche Mark, simbolo dellarinascita e della forza della Germania coronata dalla riunificazione. Molti si au-gurano che i “paletti”, fissati con i criteri di convergenza, chiudano la porta infaccia ai governi meno disciplinati, come l’Italia, la Spagna o la Grecia. E i cri-teri sono severi: deficit sotto il tre per cento del Pil; debito al 60 per cento o co-munque in riduzione verso quella soglia; inflazione non superiore dell’1,5 percento rispetto alla media dei tre Paesi più virtuosi; capacità di restare per al-meno due anni nello Sme, il sistema monetario europeo, che prevede margi-ni ristrettissimi di fluttuazione tra i cambi delle diverse valute. Il tempo è un fat-tore determinante. L’architettura della moneta unica è definita, ma manca latabella di marcia. Senza una data di nascita, l’euro è destinato a restare nel lim-bo delle belle intenzioni. Ci pensa Andreotti, nonostante sia alla guida di unPaese che, più di altri, avrebbe bisogno di anni per prepararsi. La sera della vi-gilia del vertice, il capo del governo italiano è invitato a cena da Mitterrand nel-l’hotel Juliana a Volkenburg, una villa—castello in mattoni rossi un po’ fuoriMaastricht dove il presidente francese ha la propria base. È qui che Andreottipropone di fissare la data per l’entrata in vigore della moneta unica nel 1999.«L’Europa deve chiudere questo secolo terribile con un segnale di speranza»,spiega. Mitterrand accetta, entusiasta. Sarà lui, la mattina del vertice, a lancia-re la proposta del 1999 come suggerito da Andreotti. Kohl, preavvertito, si di-chiara a favore. Gli altri si adeguano. La nascita della moneta unica, il passo piùimportante che l’Europa abbia compiuto dalla sua creazione, viene sistema-

ta in poche ore nella mattinata del 9 dicembre all’apertura del Consiglio euro-peo. Il resto della riunione è speso a litigare sugli altri tasselli del puzzle, quel-lo politico, economico, sociale, senza però arrivare a nessun risultato concre-to. Se la Gran Bretagna non vuole un’Europa federale sotto nessun aspetto, laFrancia pensa di poter incassare la fine del Deutsche Mark, sacrificato alla mo-neta unica, senza dover sacrificare a propria volta le illusioni della grandeursull’altare di una vera unione politica, economica e militare.

Il “grande balzo in avanti” dell’Europa inciampa così sullo sgambetto fran-cese. L’Unione nasce mutilata. La moneta unica non ha una controparte po-litica che la rappresenti e le dia corpo. Né una vera unione economica che laconsolidi garantendo la convergenza dei sistemi—Paese. La moneta è orfanadi un potere sovrano che non è mai nato. Saranno proprio queste mutilazionia permettere, diciassette anni dopo, il grande attacco contro l’euro e i debiti deiPaesi più deboli. Di fronte ad un potere politico europeo frammentato e chereagisce con lentezza, i mercati scommettono sul fallimento della moneta uni-ca e puntano migliaia di miliardi sulla sua disgregazione. Perderanno la batta-glia, ma solo di un soffio, grazie all’intervento di Mario Draghi e della Bce e al-la tardiva resipiscenza della Germania di Angela Merkel. Ma l’Europa pagheràil prezzo di quella vittoria con la più grave crisi economica del dopoguerra econ una macelleria sociale che lascia alcuni Paesi al limite del collasso.

Gli inglesi tornano a casa da Maastricht sicuri di aver stravinto: niente unio-ne politica, niente carta sociale, nessuna prospettiva federale. E, ciliegina sul-la torta, Londra ha ottenuto l’opt—out dalla moneta unica e potrà restare fuo-ri dall’euro. Invece, sulle rive della Mosa, ha cominciato a germogliare un altroseme disgregatore: quello della lenta e dolorosa emarginazione britannicadall’Europa. Ci vorrà tutta la consumata abilità di Tony Blair per rinviare il mo-mento della verità e frenare ancora la corsa europea verso l’integrazione. I pa-dri di Maastricht sono perfettamente coscienti che la loro creatura è natasghemba. Durante i quindici anni che seguono cercheranno di completare icapitoli mancanti di una Europa che nel frattempo continua ad allargarsi ver-so Est. Senza riuscire nel loro intento. Con il Trattato di Amsterdam, nel ’97, in-cludono la Carta sociale e l’abolizione delle frontiere. Con quello di Nizza, nel2000, cercano di adeguarsi all’allargamento senza riuscire a far crescere la di-mensione politica. La Costituzione, firmata a Roma nel 2004, è un altro tenta-tivo di ritrovare l’integrità perduta, ma viene silurata dalle bocciature dei refe-rendum di Francia e Olanda. Il Trattato di Lisbona, nel 2007, segna ancora qual-che timido passo in avanti, ma lascia l’Unione disarmata di fronte alla crisi fi-nanziaria che arriva dagli Stati Uniti nel 2008.

La speranza con cui i capi di governo accettarono un accordo mutilato nel-la notte del 10 dicembre 1991 era che la moneta comune avrebbe costretto glieuropei a darsi alla fine anche un governo comune. In effetti la tragedia dellacrisi ha lavorato in questo senso: nei cinque anni dell’assalto alla moneta uni-ca, l’Europa ha messo più pezze alle falle che il Trattato aveva lasciato apertedi quanto abbia fatto nei quindici anni precedenti. Ma sono stati interventi det-tati dall’emergenza: senza progetto né visione. Per ritrovare lo spirito perdutoa Maastricht, bisognerebbe forse tornare sulle sponde della Mosa e, come gliebrei sulle rive dell’Eufrate, contemplare i danni e le sofferenze che una Patriaperduta prima ancora di nascere ha imposto ai suoi figli.

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■ 29

DOMENICA 27 OTTOBRE 2013

DETECTIVE

Muore Montalbán,

“papà” di Pepe Carvalho

Con Camilleri,

Markaris e Larsson

ha inaugurato la nuova

era del giallo europeo

MAOMETTO

Il leghista Calderoli mostra

in tv la t-shirt con le vignette

satiriche già pubblicate

da un giornale danese

Grave crisi diplomatica

tra Europa e Paesi arabi

SHOPPING

All’apice del successo

Zara apre il suo store

online. Da Benetton

e a HM i ragazzi

europei condividono

anche lo stesso armadio

GRANDI SPERANZE

Un manifesto

di Ottorino Mancioli

del 1952 invita

i giovani a sostenere

la Federazione europea

PATTO DI BILANCIO

Entra in vigore

il Fiscal Compact,

che stabilisce vincoli precisi

ai Paesi aderenti

in merito ai bilanci pubblici

dei singoli Stati

MUCCA PAZZA

La Ue impone l’embargo

all’export di carne

britannica nel continente:

si cerca così di fermare

il morbo diffusosi

4 anni prima

GRANDE FRATELLO

In Olanda la tv trasmette

la prima edizione

Nei dieci anni successivi

il format Endemol

invaderà tutti gli altri

piccoli schermi europei

BLEUS

La Nazionale francese

vince i Mondiali di calcio

con la squadra più multietnica

del pianeta prefigurando

l’Europa (e il football) che verrà

AMSTERDAM

Nella città olandese

viene firmato il trattato

che guida la riforma

delle istituzioni Ue e concentra

risorse sull’occupazione

e i diritti dei cittadini

LADY D

La principessa muore

in un incidente

stradale a Parigi

Oltre un milione

di persone

ai suoi funerali

REFERENDUM

Francia e Olanda bocciano la ratifica

del trattato che istituisce

la Costituzione

ROMA

Si firma il trattato che istituisce

la Costituzione. Con l’ingresso

di Cipro, Estonia, Lettonia, Lituania,

Malta, Polonia, Slovenia, Slovacchia,

Ungheria e Repubblica Ceca

l’Europa conta 25 Paesi membri

ATTENTATI

Europa nel mirino:

a Madrid AlQaeda

fa 192 vittime

L’anno dopo

tocca a Londra:

52 morti nel metrò

ANTICRISI

Nasce l’Esm, il meccanismo

europeo di stabilità,

in precedenza Efsf (Fondo

europeo di stabilità finanziaria)

Assicura assistenza finanziaria

ai Paesi euro in difficoltà

BOSONE

Individuata

dal Cern

di Ginevra

la particella

teorizzata

da Higgs

PROFUGHI

La tragedia

di Lampedusa

(359 vittime)

obbliga la Ue

ad affrontare

l’emergenza umanitaria

INDIGNADOS

La protesta contro l’austerity

comincia a Puerta del Sol, Madrid,

e si estende alle altre capitali

d’Europa: i giovani occupano

le piazze di Atene, Londra, Roma

1996 1997 1998 1999

2003 2004 2005 2006

2010 2011 2012 2013

Attraverso tappe ufficiali e inediti retroscena ecco come è andata a finire

ANGELA

La Germania

elegge Frau Merkel

In dieci anni

diventerà la donna

più potente

d’Europa

A C

UR

AD

IC

HIA

RA

PA

NZ

ER

I

UNITÀ MONETARIA

In 11 Paesi

introdotto l’euro

per transazioni

commerciali e finanziarie

Non aderiscono Danimarca,

Regno Unito e Svezia

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA■ 30

DOMENICA 27 OTTOBRE 2013

u Picasso ad accorgersene: Coc-teau aveva cambiato naso. A qua-rant’anni era dritto: «ma è diven-tato aquilino», protestò Picasso.«Sì», ammise subito Cocteau: «è ilnaso di mio nonno». Lo racconta

lo stesso Cocteau, nel 1962, allo scrittore ame-ricano William Fifield, autore per la Paris Re-view di mitiche interviste. In quel 1962, un an-no prima di morire, Cocteau ancora inalbera-va, come su una picca, il triangolo isoscele del-la sua testa “perpetua”: la pelle, una pergame-na intagliata dalle sottili linee moderniste de-gli occhi e delle labbra. Stava diventando,insieme alla sua contemporanea Tour Eiffel, ilpiù celebre emblema di Parigi nel mondo; e lasi può vedere riprodotta cento volte, nella ca-sa-museo appena riaperta di Milly-la-Foret,nei ritratti di Andy Warhol, Modigliani, Ber-nard Buffet — e Picasso, appunto. Cocteau erain questa sua casa di campagna (adottata nel1947 perché il villaggio, irraggiungibile conqualsiasi mezzo pubblico, ancora riposa inuna quiete secentesca) quando, l’11 ottobre dicinquant’anni fa, lo chiamarono per un’inter-vista: era morta Edith Piaf. Non gli passarono latelefonata, perché non stava bene. Ma il suocompagno Doudou — il muscoloso slovaccoche Cocteau aveva incontrato ancora nel 1947,e che subito aveva trasferito dalle miniere in cuilavorava da quando aveva tredici anni a pota-re aiuole a Milly — si era appisolato, e Cocteauaveva risposto. «Questa notizia che mi dà mi favenire le soffocazioni», rispose cortesementeall’intervistatore: «può richiamarmi nel po-meriggio?». Si mise a scrivere un ricordo dellaPiaf, ma verso mezzogiorno sussurrò a Dou-dou: «A tra poco», e si spense.Era considerato l’uomo delle superfici e infat-ti, più ancora che romanziere (Potomak, Tho-mas l’impostore) era pittore celebrato; ed era

stato subito teorico di musica, autore di teatroe di balletti, attore e regista. Dicevano di lui, ir-ritandolo, “genio funambolico, acrobata, vir-tuoso”, e tutto il bel mondo lo chiamava “ilPrincipe Frivolo”. Ma molto tempo è passato,all’epoca in cui Cocteau conversa con Fifield.Satie, Stravinski e Picasso gli hanno insegnato«a correre più svelto della bellezza, il che dàl’impressione di darle le spalle». Era arrivatoRadiguet («C’è un bambino col bastone», loaveva annunciato la cameriera), e Cocteau siera innamorato. Radiguet, in piena avanguar-dia, riteneva che bisognava «scrivere come tut-ti quanti», che «bisognava copiare». Cocteautrasmigrò al classicismo e alla tragedia greca;proclamò nel ’26 il Ritorno all’ordine. Scrisse icapolavori della disintossicazione (Oppio),«che traevano le radici nel cielo stellato del cor-po umano»; la scrittura, un impasto scucito,essenziale, abbagliante. Sono gli anni degli En-fants terribles, de La Voce umana; del testo e idisegni del Libro bianco, la più splendida resaplastica dell’amore omosessuale; al cinema,dei visionari Sangue d’un poeta e La Belle et laBête (ma Jean Gabin, amante della sua amicaMarlène Dietrich, gli suggeriva: «Adesso ce lofai un vero film, con dei bistrot?»). Nell’Occupazione, Cocteau continua la sua fe-sta mondana ininterrotta; e gli verrà rimprove-rato. Ma nel 1950 il film Orfeotrionfa al Festivaldi Venezia, e dal 1955 vengono in massa le ono-rificenze, che lo preoccupano un po’ (ripetevacon Satie: «Non bisogna solo non riceverle,non bisogna proprio essersele meritate»). Sioccupa sempre più di cinema, scenografie, co-stumi, ceramica, di splendidi, immensi mosai-ci, essenziali e sensibili: le opere manuali checonsiderava «terapeutiche». Ma a Fifield ripe-te che l’artista è solo l’intercessore, la manodo-pera di un essere, di una forza che ha dentro dilui, e che lui conosce del resto molto male.«Troppo rapido, troppo stupido» era la divisadella sua splendida stilizzazione.

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Le ultime parole di un principe non così frivolo

DARIA GALATERIA

Cocteau

F

Bambini terribili

Jean

L’inedito

Repubblica Nazionale

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■ 31

DOMENICA 27 OTTOBRE 2013

IL LIBRO

I brani

di Jean Cocteau

pubblicati

in queste pagine

sono tratti

da Jean

Cocteau

secondo

Jean Cocteau

a cura

di William

Fifield

(128 pagine,

16 euro),

con traduzione

di Raphaël

Branchesi,

edito

da Castelvecchi

LE IMMAGINI

Al centro, un autoritratto dalla mostra

Cocteau le magnifique, les miroirs

d’un poète in corso al Musée des Lettres

et des Manuscrits di Parigi. Qui sopra,

Cocteau nel 1960 con Jean Marais

ne Il testamento di Orfeo e ad Antibes

nel 1926: da sinistra Cocteau, Picasso,

Stravinskij e Olga Picasso

un’abitudine, un accademismo. Per esempio,quando sono entrato all’Académie ho accettato l’of-ferta che mi hanno fatto di entrarci, perché per meera un modo di lottare contro il conformismo anti-conformista; l’anticonformismo era diventato ilconformismo del nostro tempo. Allora la cosa mi di-vertiva, mi interessava fare un atto — diciamolo pu-re con parole stupide — «di destra e di sinistra»; miinteressava farlo di destra, perché la sinistra era dimoda, e tutto era a sinistra.

Gli artisti sono tutti ugualiI nomi, al giorno d’oggi, sono più importanti a

causa di quello che ci mostrano le riviste e la televi-sione. Sono più importanti delle opere. La genteama riconoscere le persone, e dice: «Guarda là, èquel tale… è Jean Cocteau». Scendevo sulla spiaggiadi Passable, c’è una piccola scala a parete che con-duce alla spiaggia, e una signora, piuttosto grossa,saliva insieme a suo marito, mentre io scendevo, elei indicandomi dice: «Guarda, quello è Picasso», esuo marito dice: «No, è Jean Cocteau», e lei continua:«Ma è uguale, Jean Cocteau o Picasso, è la stessa co-sa». Quando ho raccontato questa storia alla mogliedi Picasso, Jacqueline, lei mi ha detto: «Ma sì, le per-sone credono anche che i neri siano tutti uguali, co-sì come gli indiani, i cinesi o i giapponesi. Per la gen-te gli artisti sono persone tutte uguali».

Non rifaccio mai la stessa operaIl dramma è che sono molto, molto stupido e in-

colto, e che le cose mi vengono solo da questa spe-cie di effluvi interni che non mi riguardano, o meglioche mi riguardano, ma che io conosco molto male,e senza di essi io non sono niente.

Spesso mi capita, quando mi chiedono una listadelle mie opere, di dimenticarne sette o otto — diquelle importanti, tra l’altro. In sostanza, c’è una co-sa di cui posso essere fiero, cioè il fatto che non sonomai stato un velleitario: non ho mai lasciato un’o-pera in sospeso, le lascio solo — che siano scritte odipinte — solo dopo aver messo il punto finale,quando ho chiuso la porta. E non le imito mai, non

rifaccio mai la stessa cosa dopo. Perché le personevorrebbero che si rifacessero sempre opere uguali,vorrebbero che rifacessi Il sangue di un poeta, La bel-la e la bestia, I ragazzi terribili. Mi dicono di conti-nuo: «Perché non rifà un’opera teatrale come I pa-renti terribili». Non voglio, è stato un altro a farlo, el’altro attuale non ne è capace — e, del resto, non sodi cosa sia capace.

Come dirsi l’essenzialeQuando ho conosciuto Charlie Chaplin, mi tro-

vavo sui mari della Cina, in barca. Lui non credevache fossi io, e io non credevo che fosse lui… e poi èvenuto nella mia cabina e abbiamo fatto il viaggio in-sieme. In quel periodo, viveva con Paulette God-dard, una francese. Lui non parla una parola di fran-cese, e per me è lo stesso con l’inglese — a quel tem-po non ne parlavo una parola — e discorrevamo dicontinuo. Alla fine abbiamo creato una lingua fattadi gesti, di sguardi, riuscivamo a parlare, anche atrattare argomenti difficili. E poi, un giorno, hannochiesto a Paulette Goddard: «Perché lei sta zitta? Per-ché non li aiuta?» (lei parlava entrambe le lingue ameraviglia), e lei rispose: «Così si dicono solo l’es-senziale». È comico: quello che diceva era sintomodi pigrizia, ma non era poi così stupido! Allora, noieravamo tentati di dirci cose serie perché non ave-vamo l’agilità di linguaggio che permette di dire fri-volezze.

Dentro abbiamo il fangoIl primo a insegnarmi che l’arte non era un incan-

to, ma una lotta, un sacerdozio, è stato Stravinskij,poi Radiguet e poi Picasso. Ho conosciuto tutte que-ste persone… Modigliani… di colpo ho capito di es-sere entrato in una terribile lotta d’austerità, e sic-come avevo avuto successo a lungo nel senso oppo-sto, ne avrei portato i danni tutta la vita, e mi vieneancora rimproverato. Ma bisogna essere saggi, bi-sogna dirsi che la Terra non è che un po’ di polverenella Via Lattea, che non sono cose gravi, ecco, e pa-zienza… Alla fine… abbiamo dei difetti, del fango,dentro, siamo fatti con il fango, e allora, di colpo, na-

scono sentimenti abominevoli,di orgoglio. Si dice a se stessi:«Ma come! Fanno tutto questo, ame?», e poi, dopo, ci si batte lemani. Io mi dico: «Stai tranquil-lo, perché tu no? Gli altri hannosofferto: cos’è successo a Rim-baud? E a Verlaine? E a Baudelai-re? E a Vermeer da Delft? E a Cé-zanne?», e continuo: «Erano tut-ti terribilmente infelici, quindiperché, adesso, l’eredità di que-sti uomini dovrebbe farci starecomodi e felici?». Proprio perniente, è la stessa cosa, e la bel-lezza è sempre stata invisibile, equando è visibile, si tratta di mo-da. Quando una signora dice: «Iocompro solo astratti», è la moda,è finita. Che cosa vuol dire…astratti? O è bello o non è bello, eimportante o meno.

Il pubblico va addormentatoLa Francia non è un Paese di pubblico, è per que-

sto che è terribile. Non esiste solitudine più grandedi quella di un’opera in lingua francese: non c’è pub-blico. Tutti fanno qualcosa, la gente vuole stare sulpalco, recitare al posto degli attori, avrebbero reci-tato meglio di loro, fatto meglio il copione. Hanno ri-spetto per la musica perché non sanno suonare né iltrombone né il clarinetto e neppure il violoncello, al-lora si impressionano e applaudono. Altrimenti,pensano sempre di poter fare di meglio, non esiste ilvero pubblico. E poi i francesi sono troppo indivi-dualisti per sottostare a uno stato d’ipnosi. In so-stanza, un’opera teatrale deve ipnotizzare il pubbli-co perché abbandoni le proprie preoccupazioni eadotti quelle dell’autore o dei personaggi. Ma sonotutti troppo preoccupati di loro stessi per astrarsi einteressarsi agli altri. È un pubblico difficile da ad-dormentare.

Maggioranza e minoranzaIl dramma del nostro tempo, è che le maggioran-

ze pensano come minoranze, e le minoranze vo-gliono farsi passare per maggioranze. Allora un gio-vane pubblica un piccolo volume di versi, e vorreb-be venderne seicentomila esemplari. Poi, alla radio,chiunque dà la sua opinione come se fosse quellache conta. Le maggioranze si mettono nella posi-zione delle minoranze, non hanno più alcun tipo dimodestia, fanno come se appartenessero a questeultime. Le minoranze, invece, vogliono diffondersiin tutto il mondo, aver ragione, e che tutti le ascolti-no e le applaudano.

a tecnica impedisce di commettereerrori, e gli errori sono una cosa im-portantissima. È per gli errori che ciesprimiamo con violenza e, quandoabbiamo polso, questi errori smetto-no di essere tali e si fanno talmente for-

ti da diventare dogmi, e le persone li accettano pertali. Quando ho realizzato Il sangue di un poeta,quindi, mi trovavo a dover inventare, e molto spes-so delle casualità, o degli elementi esterni che misembravano casuali (e che magari non lo erano), mierano di aiuto. Così, per esempio, in studio mi pren-devano in giro, cercavano di ridicolizzarmi, e la gen-te spazzava in modo che la polvere mi impedisse dilavorare. Il mio operatore diceva: «La lasci, la lasci lapolvere», e in realtà è proprio grazie alla polvere chesi vedono i raggi che la attraversano. Spesso sonostato aiutato dalle stesse persone che volevano im-pedirmi di fare un film, perché chi lotta contro di noi,spesso, senza saperlo ci aiuta.

Conoscere richiede un certo sforzoCredo che ognuno faccia sempre il proprio auto-

ritratto. Per esempio, un pittore può fare opereastratte, qualche macchia sulla tela, può dipingereuna sardina con la forchetta, uno zuavo, un paesag-gio, una casa, un albero… è sempre il suo autoritrat-to, e la prova è che non diciamo mai: «Guarda, unaVergine», ma diciamo: «Guarda, un Raffaello», nondiciamo mai: «Guarda, dei pesci rossi», ma diciamo:«Guarda, un Matisse», non diciamo mai: «Guarda,una chitarra», diciamo: «Questo è un Picasso». No-tiamo sempre il pittore, perché fa sempre il suo au-toritratto, anche se non vuole. E poi… non è quelloche rappresenta che ammiriamo, ma il modo in cuilo fa, perché il modello, se ne ha uno — anche gliastratti hanno un modello, dato che ritraggono i lo-ro pensieri — il modello deve sparire a favore di unmodo di dipingerlo che è il ritratto stesso dell’indi-viduo che dipinge.

Per lunghi periodi — come sempre, in realtà — ilpubblico ha preferito la rappresentazione alla pre-sentazione e, come direi io, la riproduzione alla pro-duzione. È che al pubblico piace riconoscere, nonconoscere. Perché conoscere richiede un grossosforzo, mentre riconoscere no, è un gioco di società.Diciamo: «Guarda, questa cosa assomiglia a quella»,ma quando non assomiglia a niente, allora bisognafare uno sforzo considerevole e, generalmente,un’opera è bella quando non assomiglia a niente ecrea un nuovo dogma, una nuova scala di valori.

La libertà fa male ai giovaniDevo dire che al giorno d’oggi la gioventù si trova

in una situazione tragica, perché tiene il piede in duestaffe: non ha né passato né futuro, e allora vive nel-l’immediato, ed è per questo che la gioventù è eroti-ca e balla il twist, perché deve vivere sul momentouna vita priva di ricordi e della promessa che suc-cessivamente sarà migliore.

I bambini e gli eroi vivono solo di disobbedienza.Per esempio, Giovanna d’Arco ha disobbedito allaChiesa militante, Antigone ha disobbedito a Creon-te. Gli eroi, il principe di Homburg per primo, vivo-no solo di disobbedienza. Ma se si è troppo liberi,non c’è più possibilità di disobbedire. Ora, siccomeattualmente la gioventù è libera di fare quello chevuole, non ha la possibilità di rivoltarsi, ed è nella ri-volta e nella disobbedienza che si trova la forza dicreare.

L’imprecisione è una disgraziaCredo che una delle grandi disgrazie della nostra

epoca sia l’imprecisione. Se si è presa la decisione difare una cosa, la si fa, e anche molto velocemente,perché si è riflettuto molto prima di farla, e questopersonaggio misterioso dentro di noi che ci dà gli or-dini, di colpo ci detta opere sulle quali abbiamo me-ditato a lungo, per introdurle nei suoi pensieri e, asua volta, ridarcele in una forma violenta. Per esem-pio, un giorno mi hanno chiesto cosa avrei fatto secasa mia fosse andata a fuoco. Mi hanno chiesto:«Cosa porterebbe con sé?». Io ho risposto: «Il fuoco».Per me, l’intensità è una cosa indispensabile, in am-bito artistico. Non ci si può permettere la minima pi-grizia. Allora, è chiaro che non può essere ottenutacon il tempo. Bisogna lavorare velocemente, maavendo prima pensato molto a quello che si sta perfare.

Il conformismo dell’avanguardiaLe rivoluzioni vengono rimpiazzate molto rapi-

damente da mode e imperialismi, non è così? Allo-ra, è evidente che una rivoluzione non possa duraremolto a lungo, dopo un po’ si radica, e quando suc-cede… è qui che Radiguet mi ha dato una grande le-zione; mi ha detto: «Non è mai il pubblico di massache va contraddetto, ma l’avanguardia», perché ri-teneva che quest’ultima iniziasse in piedi finendoper sedersi molto rapidamente, diventando allora

In fondo ciò che facciamoè solo il nostro autoritratto

JEAN COCTEAU

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L‘‘‘‘Romanziere,

pittore, attoreIl “geniofunambolico”franceseprima di morire,cinquant’anni fa,affidòa un’intervistail suotestamentoartistico

(e non solo)Ora vienetradottoanche in Italia

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA■ 32

DOMENICA 27 OTTOBRE 2013

“Questavilla èlamiaopera migliore”

ARCHITETTO

I PROGETTI

Villa Sant’Agata, a Villanova sull’Arda

(Piacenza), dove Verdi abitò dal 1851,

nei progetti disegnati dallo stesso

compositore: da sinistra la fontana

con la grotta, la sezione nord della villa

e la pianta (per gentile concessione

della Famiglia Carrara Verdi)

SpettacoliNote a margine

La concretezza di Giuseppe Verdi,la sua praticità economica (ban-do agli orpelli!), la sua nitida otti-ca degli ambienti generata da untemperamento asciutto, insom-ma la sua capacità di costruire

spazi con essenzialità, rigore e senso della fun-zione, ben riflessa nel suo geniale teatro musi-cale, convergono nell’attività “laterale” di Ver-di architetto, ora emergente da un patrimoniografico proposto per la prima volta alla stam-pa. Tratto brusco, mano esatta, intenti limpi-di, planimetrie decifrabili con chiarezza, indi-cazioni puntuali su perimetri e proporzioni. Lasolidità è la stessa che sorregge le strutture nar-rative delle sue opere.

I disegni qui riprodotti, mai usciti prima dal-l’archivio privato di Villa Verdi a Sant’Agata,dove sono custoditi dall’erede Angiolo Carra-ra Verdi, dimostrano questo peculiare talentodel più amato tra gli operisti, di cui cade que-st’anno il bicentenario della nascita. Della pro-

pria dimora, acquisita nel 1848 e situata nelcuore della Bassa Padana, Verdi curò l’intera edettagliata progettazione. Scrive sua moglie,Giuseppina Strepponi, a Clara Maffei nel 1867:«Comperando il latifondo di Sant’Agata, Verdisi trasformò in architetto». E dopo aver elenca-to le tappe del rifacimento conclude: «Quandovolle Iddio la casa fu finita, e ti assicuro che Ver-di diresse i lavori bene e forse meglio di un ve-ro architetto».

Quella tenuta sarebbe diventata il suo rifu-

gio, la sua reggia, il suo ideale di armonizzazio-ne del mondo e la culla delle opere generatenell’arco creativo che da Rigoletto(1851) giun-ge a Falstaff (1893). Grazie all’operosità delcompositore in persona, tutto a Sant’Agata furiassestato con solerzia puntigliosa. Rinasco-no il tetto, il fienile, la stalla e soprattutto l’edi-ficio settecentesco che sorge sul terreno. Pois’aggiungono il laghetto, la ghiacciaia, la co-lombaia, il mulino e la fornace. «I fogli conser-vati a Sant’Agata», spiega lo storico della musi-ca dell’Istituto nazionale di studi verdiani Giu-seppe Martini, «mostrano come Verdi avessebasato la concezione della parte posterioredella casa e quella di rappresentanza su rap-porti modulari e matematici accuratissimi,sfruttando anche la sezione aurea. L’anticoedificio venne trasformato da Verdi in una vil-la di pianta quadrangolare, con due avancorpisimmetrici e un allungamento del corpo po-steriore».

Non solo: Verdi si lancia nell’ideazione dimeccanismi d’ingegneria, creando infrastrut-ture e avviando un impianto di riscaldamento

LEONETTA BENTIVOGLIO

LE IMMAGINI

Arrigo Boito, autore dei libretti di Otello,

Falstaff e Simon Boccanegra,

durante i lavori a Villa Sant’Agata con Verdi

A centro pagina il compositore in un ritratto

anonimo (dalla copertina di Giuseppe Verdi

Una biografia di Elvio Giudici, edizioni Ricordi)

Per info www.villaverdi.org

www.ricordicompany.com

IL FESTIVAL

Il Teatro Regio di Parma chiude

il Festival Verdi nell’anno del bicentenario

con l’Orchestre National de France

diretta da Daniele Gatti.

In programma il 30 ottobre un concerto

di musiche di Verdi e Wagner

e il 31 ottobre la Messa da Requiem

Info www.teatroregioparma.it

Disegnava progetti, strigliava operai e direttore dei lavori.Nel bicentenarioemerge dagli archivi la vera passione del Maestro

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tore, in milanese, ndr) se n’ha a male…». Questa smania d’inventare spazi è un nu-

cleo fondante del suo teatro: profetico nelle re-gie strutturali delle sue opere, pensava la mu-sica anche in rapporto alla messinscena. È an-che in quest’innesto immaginativo che si ri-flette la sua modernità di uomo di teatro. Inol-tre Verdi “governava” materialmente (o regi-sticamente) la concretizzazione teatrale deisuoi lavori, come testimoniano le sue “dispo-sizioni sceniche” su carta. Dalla Francia, dopol’esperienza de Les Vêpres siciliennes, avevaimportato in Italia tale pratica in uso a Parigi.Pur essendo di volta in volta gli spettacoli affi-dati ai “direttori di scena” (qualcosa di analo-go ai registi odierni), ogni particolare era con-trollato dal suo sguardo vigile. Annotava amargine della musica le sue intenzioni teatra-li, in aggiunta alle didascalie, e le sue «pianta-zioni» sono ricche di schemi e vignette, conspiegazioni grafiche precise riguardo ai movi-menti dei personaggi. Verdi costruttore di spa-zi può disegnare la Sala del Consiglio di SimonBoccanegra o le entrate e uscite del coro di Ai-

dao la piazza del Don Carlos, specificando connumeri e lettere dinamiche e spostamenti.

Le sue doti architettoniche confluisconoanche in due imprese benefiche: l’Ospedale diVillanova d’Arda nel Piacentino e la Casa di Ri-poso di Milano. Nel 1878 viene dato l’incaricodi progettare il primo di questi due edifici al-l’architetto cremonese Vincenzo Marchetti,ma sarà Verdi a suggerire la mappa delle stan-ze e la visione strutturale dell’insieme. Alla co-struzione del ritiro milanese per vecchi musi-cisti provvede invece l’architetto Camillo Boi-to, fratello di Arrigo, autore dei libretti di Otel-loe Falstaff. I lavori vengono terminati nel ’99.Verdi se ne accollò le spese senza renderlo no-to. Odiava ogni forma di autopromozione. Persua volontà, la palazzina in stile neogotico diPiazza Buonarroti fu inaugurata nel 1902, cioèdopo la sua morte (1901). In quella casa predi-letta («è la mia opera che più mi piace»), desti-nata a quelli che definiva «i poveri e cari com-pagni della mia vita», Verdi è sepolto, nell’ora-torio, accanto a Giuseppina.

■ 33

DOMENICA 27 OTTOBRE 2013

© RIPRODUZIONE RISERVATA

GIUSEPPE VERDI

Voglio fatti,non coglionerieLa lettera

Ristrutturò la sua casa-rifugio, ma pensòanche a un ospedale e all’ospizio milanese:“Ditemi che il Don Carlos vale poco,ma non che non so fare il muratore”

formato da condotti in cotto cheavrebbero dovuto diramarsinella casa. Per tale strategia si fe-ce mandare dalla Russia duemastodontiche caldaie: nel1861 si era recato a San Pietro-burgo per allestirvi La forza deldestino, ed era stato ospitato inappartamenti caldi che lo ave-

vano difeso dal tremendo inverno russo.Quel soggiorno lo aveva ispirato. Tentò anchedi mettere a punto un marchingegno per pom-

pare dal torrente Ongina l’acqua utile all’irri-gazione. In una lettera del 1867 all’amico Arri-vabene riferisce lo stato dei lavori per il canalesotterraneo, confidandogli di passare tutto ilsuo tempo con gli operai «per strapazzarli e di-rigerli». Aggiunge che gli preme di più essereapprezzato in tale mansione che come musi-cista: «È questo il debole del signor maestro»,dice adottando il vezzo di parlare di sé in terzapersona. «Se tu gli dici che il Don Carlosnon valniente non gliene importa un fico, ma se tu glicontrasti la sua abilità nel fare il magut (mura-

I DOCUMENTI

A lato (e trascritta sopra)

la lettera di Verdi all’agente

teatrale e amico Mauro Corticelli,

che seguiva i lavori a Villa

Sant’Agata (conservata al Museo

Teatrale della Scala). Al centro

in basso, la lettera inviata da Verdi

a Giulio Ricordi il 18 settembre 1892

in cui raffigura la disposizione

in scena per il Falstaff (Archivio

Storico Ricordi © Ricordi & C.)

©M

GB

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L L

EO

NA

RD

“Cosa diavolo dici! Dare la vernice alle griglie? Non ci mancherebbe altro. Lavernice a delle griglie esposte all’aria, ed all’acqua? Una mano d’olio cotto,tanto per ripulirle, bastava”. Così dissi a Spagna e dissi a lui anche di ripas-

sare, aggiustare, rappezzare finestre e scuri et… et… ma non fare belle cose, prima per-ché io detesto le belle cose, secondo perché bisogna far presto… Non voglio che si diané olio né vernice ai rastelli di ferro. È la terza volta che lo dico. Io quanto poi a tutte lebelle cose che mi propone lui, io lo capisco e che a lui prema di far lista, sta’ bene, mache tu poi l’approvi, e mi proponga tante coglionerie… Riepiloghiamo dunque e in-tendiamoci una volta se è possibile… che Spagna lavori con tutti i suoi esclusivamen-te a tutte le finestre e porte dentro e fuori dell’appartamento nostro per poterlo veniread abitare (se ce lo permetterete) vale a dire: 1° Stanza mia, 2° Stanza Peppina, 3° Gabi-netto Peppina, 4° Salotto, 5° Saltate la stanza Bigliardo e finite la sala da pranzo, 6° Tut-te le griglie di sopra. In questo modo noi potremo abitare il nostro quartiere senza ave-re lavoranti avanti indietro che ci guardino perfino nelle stanze. Hai capito? Domandoqualche stanza da abitare. Domando troppo? Dunque Spagna non si perda in belle co-se ed in arte, ma dia gli olii. Soltanto nel lunedì di Pasqua potrebbe mettere la sotto-car-ta, cioè giornali od altro, nel Gabinetto Peppina e nel Salotto; ma soltanto nei siti ove visono muri a calce fresca. Dove i muri sono secchi non importa. Così prima di metterela carta bella, vedrò martedì l’effetto dei muri. Ben inteso, darà bianco al Plafond delGabinetto della Peppina. E Piroletto darà la calce al piano una volta sola ma venga su-bito prima che io arrivi. Tu non mi parli affatto dei lavori di falegname. È naturale: sonquelli che hanno bisogno di sorveglianza, e tu non vi avrai badato! Dirai a Guerino chenel mio Gabinetto (che si farà quando Dio vorrà) si farà il piano come nella mia stanza,ma che metteremo i zoccoli bassi che erano nella stanza mia e della Peppina. Mi spia-ce che Bergani non sia venuto e che anche il terrazzaio abbia mancato: così mi arrive-ranno una moltitudine di lavoranti tutti in una volta che mi faranno mangiar l’animae lavoreranno poco. Sempre la stessa cosa! Non saper disporre le cose e non l’econo-mia del tempo. Addio.

(a Mauro Corticelli, suo agente teatrale e factotum, 3 maggio 1876)

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Piccoli, low cost e molto efficienti. Sembranosoltanto dei giocattolini, ma come i loro grandi fratelli sono capaci di girare

intorno alla Terraper inviare foto, inseguiremeteoriti e dirci sullo smartphone che tempo farà

Odissea nello spaziosenza uscire di casa

delle risorse minerarie nelle fasce di aste-roidi. Ma quel che qui importa è che siapiccolo (è lungo circa un metro) eaccessibile. E che generi profitti.Come? Grazie ad un iPadmontato alla base e a unbraccio con una camerache può fotografare iltelescopio mentreviaggia a 400 chilo-metri dalla superfi-cie terrestre. Cosìche, per 25 dolla-ri, si possa averel’immagine diArkyd con sullosfondo la Terra,mentre sul ta-blet viene visua-lizzata una no-stra foto.

In realtà è dal1999 che gli inge-gneri aerospazialisi gingillano con l’i-dea di un satellite ul-tra economico. Il pri-mo si chiama CubeSated è stato costruito concomponenti di uso comuneper esser venduto in kit di as-semblaggio. Un apparecchio mi-nuscolo, dieci centimetri per diecicentimetri, ma abbastanza capiente perospitare sensori, strumenti per la comu-nicazione e pannelli solari per alimentar-lo. Il tutto da mettere in orbita con “soli”sessantamila dollari, un centesimo ri-spetto ai fondi necessari per un satellitetradizionale, stando ad un calcolo fattodalla rivista Wired. CubeSat venne lan-ciato nel 2003 con un vettore russo e neseguirono diversi altri nel tempo messi apunto per scopi diversi da alcune univer-sità americane. Dieci anni dopo si è pas-sati ai satelliti “diy” (do it yourself, fai-da-te) veri e propri, aumentando le misurefino al metro di lato e accarezzando il so-gno di un’osservazione dello Spazio e delnostro pianeta guidata da dilettanti eamatori. Di qui i progetti come ArduSatche usa il processore open source italiano

LA DOMENICA■ 34

DOMENICA 27 OTTOBRE 2013

NextGravity

Piccoli, efficienti, low cost. A talpunto che la conquista dellospazio potrebbe diventare dimassa. È la prima generazio-ne di micro satelliti, quelli fat-ti praticamente in casa. Dei

giocattoli, a vederli così: un metro cubo dicircuiti tutt’altro che all’avanguardia esensori di facile reperibilità, capaci perònon solo di orbitare attorno alla Terra maanche di inviare immagini in alta risolu-zione, individuare e seguire meteoritiche si dissolvono entrando in contattocon l’atmosfera, riconoscere i campi ma-gnetici sulla superficie terrestre, seguirefenomeni meteorologici. Con la promes-sa di rendere l’osservazione del nostropianeta e del cosmo aperta a tutti, maga-ri attraverso una app per smartphone.

Dall’arrivo nel giugno del 2012 di Ar-duSat su Kickstarter a quella del telesco-pio spaziale Arkyd, esattamente un annodopo, ormai è un continuo fiorire di pro-getti del genere. E i fondi raccolti onlinegrazie ai siti di crowdfunding aumenta-no, passando dai centomila dollari di Ar-duSat al milione e mezzo di Arkyd. Que-st’ultimo, è notizia di pochi giorni fa, haora fra i suoi finanziatori anche Sir Ri-chard Branson. Il fondatore di Virgin, cheha il pallino per i viaggi spaziali, si è ag-giunto a Larry Page e a Eric E. Schmidt diGoogle. Mentre uno degli otto consiglie-ri della startup che lo sta producendo, laPlanetary Resources, è il regista JamesCameron.

«L’osservazione e le esplorazioni spa-ziali non sono esattamente una novità.Quello che è nuovo è riuscire a farlo a co-sti bassi e con maggiore efficienza» rac-conta Chris Lewicki, diventato presiden-te della Planetary dopo aver lavorato allaNasa alle missioni del Rover su Marte. «Esono proprio i costi bassi e la maggiore ef-ficienza i due fattori fondamentali peraprire questo mondo allo sviluppo com-merciale». Arkyd, “il primo telescopiospaziale pubblico”, in realtà è parte di unprogetto più vasto per lo sfruttamento

Satellitedella portaaccanto

Il

JAIME D’ALESSANDRO

Si tratta di un prototipo

di telescopio spaziale

basato su CubeSat che serve

a rilevare le traiettorie

dei pianeti esasolari, cioè

che non orbitano attorno al sole

EXOPLANETSAT - MIT

Il progetto è finanziato

dalla Nasa e mira a costruire

nanosatelliti utilizzando

la piattaforma hardware Arduino

e comuni smartphone

con sistema operativo Android

PHONESATGlialtri

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zi utilizzabili più volte, la serie Flacon, ab-battendo i costi di circa dieci volte rispet-to a quelli del passato. E il 22 maggio 2012la Space X è diventata la prima compa-gnia privata ad aver inviato un veicolo al-la Stazione spaziale internazionale di-mostrando di esser più efficiente e di sa-per gestire i costi molto meglio delleagenzie governative russe e americane.

Il prezzo in ogni caso, anche con la Na-sa, non è alto se si tratta di un mini satel-lite. Circa 10 mila dollari al chilo per man-dare in orbita qualcosa che poi potrebbegenerare profitti con foto ricordo sul mo-dello di Arkyd. Un aspetto fondamenta-le. «Non c’è più un euro» continua Caso-lino, senza troppi preamboli. «Quando ilcongresso Usa ha iniziato a tagliare i fon-di alla Nasa, ci sono stati periodi durantei quali non avevamo nessun occhio pun-tato verso lo Spazio e quindi gli asteroidinon venivano tracciati. È vero che se do-vessimo avvistare un corpo celeste in rot-ta di collisione con la Terra, il tempo ne-cessario per approntare una contromi-sura efficace e metterla in pratica è di cir-ca dieci anni. Quindi qualche mese di bu-co nel nostro sistema di controllo non faforse una grossa differenza. Ciò nono-stante impressiona sapere che rischiamocostantemente di restare senza difese».

E allora perché non sposare il mondodell’open source, dei satelliti semi arti-gianali, dei razzi non più usa e getta e del-le imprese commerciali. In fondo oggibasterebbe mandare in orbita un iPhonecon qualche modifica per osservare Ter-ra e Spazio. Con un’unica controindica-zione, meglio: una sindrome chiamata diKessler. Senario alla Gravity immaginatonel 1991 dall’omonimo consulente Nasa.Sosteneva che il numero di oggetti in or-bita bassa intorno alla Terra diventerà ta-le che finiranno per entrare in collisionefra loro dando vita a una reazione a cate-na. A quel punto l’incremento esponen-ziale del volume dei detriti e degli impat-ti creerà una sorta di nebulosa attorno alpianeta abbastanza densa da impedireogni altra missione. Comprese quellelow cost e in formato mini.

Arduino, o ancora Skybox cheinvece è opera di una star-

tup fondata a Stanford.Intende mandare in

orbita i suoi minisatelliti applicati-

vi o scientificiusando vecchimissili sovie-tici usati perle testatenucleari ein via di di-smissio-ne.

«Il pro-blema in-fatti èproprio lamessa ino r b i t a »

s p i e g aMarco Ca-

solino. Luisullo spazio

e dintorni la-vora dal 1993 e

oggi, a quaranta-tré anni, è primo

ricercatore all’Isti-tuto nazionale di Fisi-

ca nucleare presso l’U-niversità di Tor Vergata, a

Roma. «Strano a dirsi ma pervincere la gravità e raggiungere i

quattrocento chilometri di altitudineun vettore brucia appena il cinque percento del carburante. Il restante 95 serveper il volo orizzontale ovvero per stabili-re la velocità e l’inclinazione necessariaper volare attorno alla Terra. L’esplora-zione fai-da-te intesa come alla portatadi chiunque è ancora lontana. Quel chesta accadendo è che istituti di ricerca pic-coli e aziende private con alcune centi-naia di migliaia di euro, raccolti online,possano assemblare dispositivi interes-santi chiedendo poi un passaggio allaNasa». Ecco perché Elon Musk, cofonda-tore di Paypal (il sistema per i pagamentisicuri online), ha creato nel 2002 la SpaceX. I suoi sono una nuova tipologia di raz-

■ 35

DOMENICA 27 OTTOBRE 2013

Dove ho lasciato le coseSecondo gli astronomi, lo Spazio è finitoUn pensiero confortante per chi, come me, non si ricorda mai dove ha lasciato le cose

Woody AllenAttore e regista

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Insieme a quelli

scientifici sono una

delle due categorie

di satelliti artificiali

Impiegati per scopi

militari o commerciali

Applicativi

Iniziativa finalizzata

alla raccolta di fondi:

può essere applicata

a qualsiasi progetto,

le adesioni avvengono

mediante siti web

Modalità

di programmazione

software, favorisce

lo studio e l’apporto

di modifiche da parte

di più persone

Open source

Sta per do it yourself

(fai-da-te): si promuove

la costruzione

fatta in casa di oggetti,

anche hi-tech, in chiave

anticonsumistica

Diy

GLO

SSA

RIO

È quella di altitudine

compresa

tra l’atmosfera

e le fasce di van Allen,

ovvero tra i 160

e i 2000 chilometri

Orbita terrestre bassa

Il progetto è cominciato

nell’ottobre 2011.

Obiettivo: diffondere nello spazio

un numero consistente

di micro satelliti (Sprites) liberati

da un modulo madre CubeSat

KICKSAT

Questo piccolo satellite

è in grado di operare per un anno

alla ricerca del più piccolo segnale

magnetico derivante da attività

tettonica. Uno strumento utile

per la prevenzione dei sismi

QUAKESATUna variante di CubeSat

equipaggiata con delle piccole

“vele” solari. Servono a produrre

energia per il mantenimento del

satellite e sfruttano le radiazioni

solari per permettere il movimento

LIGHTSAIL - 1

INFO

GR

AFIC

AA

NN

ALIS

AV

AR

LO

TTA

Fonte: The Satellite

Encyclopedia

Crowdfounding

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LA DOMENICA■ 36

DOMENICA 27 OTTOBRE 2013

Il cucchiaino

d’argento

Editoriale Domus

223 pagine

19 euro

Il formaggio

raccontato

ai bambini

di Lucia Sepe

Caseus editore

96 pagine; 14,90 euro

Bolli bolli pentolino

fai la pappa

al mio bambino

Editoriale Scienza

96 pagine

12,90 euro

Piccoli gourmet

crescono

di Sigrid Verbert

Mondadori Electa

213 pagine

24,50 euro

Questo l’ha fatto

il mio bimbo

di Daniela Miniscalco

e Carlotta Benedetti

Terre di Mezzo

96 pagine; 10 euroI LIBRI

I saporiElementari

Chef che si fanno fotografarecon le mani in pasta insieme ai figliE poilaboratori, corsi,persino un raduno

per baby gourmetTra moda, business e ottime intenzioni l’ultima tendenza è rendere i più giovani protagonisti in cucina

la pappa col pomodoro», cantavauno scatenato GianBurrasca,alias Rita Pavone, negli anni Ses-santa. Piatto toscano povero esquisito, assurto agli onori delmondo televisivo nazionale, pa-ne e pomodoro è stato il passe-

partout di generazioni di bambini, insieme a olio, burro,marmellata (soprattutto in epoca pre-Nutella), formaggini,caffelatte, carne tritata, mela grattugiata col limone, patatein tutti i modi e le odiate, obbligatorie minestre.

La cucina d’infanzia è cambiata insieme all’irresistibileespansione dell’industria alimentare: finite le pappe fatte incasa, via libera a omogeneizzati, liofilizzati, surgelati, polve-rizzati. Tempi di preparazione ridotti a pochi attimi, accessi-bilità ubiquitaria su tutti gli scaffali, la pubblicità maestraunica nell’educazione al gusto, dominato da zucchero e dol-cificanti.

Intolleranze e sovrappeso dilaganti hanno aperto gli occhia genitori compressi nelle centrifughe quotidiane. Ma piùdella presa di coscienza, potè la moda. Se il mondo dell’altacucina si esibisce rubando la passerella al prêt-à-porter — èsuccesso giovedì sera alla presentazione del nuovo calenda-rio Lavazza, con i piatti dei fratelli Adrià, Bottura, Cannavac-ciuolo, Cracco e Oldani fatti sfilare tra due ali di pubblico ado-rante e salivante insieme ai loro creatori — è normale che ibambini si immedesimino nei ruoli delle nuove star della tv.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

LICIA GRANELLO

«W

Infarinati e contenti

Improvvisamente, tutti i nomignoli ideati per agguantarel’appetitoso mercato dei piccoli golosi sono diventati vecchie l’appeal dei cibi industriali per bambini si è frantumato da-vanti ai piatti mirabolanti e ai sorrisi assassini dei superchef.

Il Gambero Rosso è stato tra i primi ad annusare il cam-biamento, lanciando sul mercato una rivista dedicata, IlGamberetto: in copertina, i più grandi cuochi italiani foto-grafati con le mani in pasta insieme ai loro figli, all’internoricette, trucchi, schede dei cibi, eventi. E poi corsi, labora-tori, perfino una festa nazionale — “Cuochi per un giorno”,a Modena — dal sottotitolo programmatico: «Con cappel-lo e grembiulino, con in mano un bel colino, con setaccio euna padella, vola in alto una frittella». Un successo tanto ac-clarato che alle selezioni Junior MasterChef Italia, in ondala prossima primavera, hanno partecipato tremila bambi-ni: una sorta di Zecchino d’oro del terzo millennio, con qua-ranta mini candidati pronti a combattersi a colpi di risotti-ni e canapè.

Una corrispondenza di golosi sensi tra piccoli e grandi benchiara ai cuochi che hanno cominciato a ideare dei mini-per-corsi gustativi per i loro piccoli clienti, trasformando la faticaannunciata di ospitare un bambino al ristorante nell’occa-sione per farlo sentire accolto e partecipe di una festa gastro-nomica, visita in cucina compresa. I testimonial migliori, na-turalmente, sono i figli degli chef, capaci di distinguere il pro-sciutto crudo dal culatello o riconoscere la stagionatura delParmigiano. Chiedere referenze ai figli dei fratelli Cerea (ri-storante «Da Vittorio», Bergamo), che hanno testato in ante-prima i mini hot-dog più buoni del mondo.

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DOMENICA 27 OTTOBRE 2013

LA RICETTA

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La pappa

al pomodoro

di Silvia Bargigli

Alcyone editore

120 pagine

9,90 euro

Piccoli chef

in cucina

di Paola Reverso

Tecniche nuove

134 pagine

8,90 euro

Piccoli

chef

di Licia Cagnoni

illustr. di Ilaria Falorsi

Food Editore

95 pagine; 19,90 euro

Marzagiochi

e steccodolci

di Luca Montersino

Mondadori Electa

125 pagine

19,90 euro

Ducasse bebé

100 ricette

dai 6 mesi ai 3 anni

di Alain Ducasse

L’Ippocampo ed.

168 pagine; 15 euro

Gianfranco Allari è il responsabile

della scuola di Cucina “Le Tamerici” (produttori

di marmellate e succhi naturali) di San Biagio,

Mantova, dove i bambini tra i 5 e i 10 anni

preparano piccole ricette sfiziose,

come quella ideata per i lettori di Repubblica

Mini plum-cake alla zucca e amaretti

Ingredienti per 8 mini plum-cake 300 g. di zucca cotta a vapore 280 g. di farina 180 g. di zucchero 100 g. di burro 80 g. di amaretti 3 uova ½ cucchiainodi cannellain polvere 1 pizzico di sale 1 bustina di lievitoper dolcimandorle a lamelle

Il mio Joeannusa broccoli

A tavola

LIDIA BASTIANICH

Spaghetti Dal cucchiaio

per la pastina

nelle prime pappe

alla sfida della forchetta

e della cottura al dente

Per condire, olio

e Parmigiano

o pomodoro fresco

Spremute Agrumi misti –

compreso limone,

che tampona l’acidità –

anche sotto forma

di centrifughe, usando

parte delle bucce

per dare consistenza

cremosa

Risotto Giallo, perchè colore

e morbidezza

rassicurano

Oppure arancio,

con crema di zucca –

che ha gusto dolce -

e formaggio fresco

(crescenza, caprino)

Pizza Il piatto più divertente

da preparare – lavorare

l’impasto, spalmare

la salsa di pomodoro

e i tocchetti

di mozzarella

- e da mangiare

usando le mani

uando mio figlio Joe era po-co più che neonato gli facevoannusare la frutta, la verdu-ra, le erbe aromatiche. I

bambini entrano in relazione con ilmondo tramite l’olfatto, così comericonoscono la mamma dal suo odo-re. Prima di imparare a cucinare de-vono imparare a mangiare. E primaancora, devono imparare ad annu-sare. L’olfatto è lo strumento più im-portante perché i bambini conosca-no il cibo: già a pochi mesi è bene abi-tuarli agli odori più intensi. Altri-menti, quando avranno cinque o seianni non vorranno saperne di man-giare broccoli.

Il cibo è parte della vita di famiglia.Non si cucina specificamente per i fi-gli: a loro si propone e si fa assaggia-re tutto. È importante farli parteci-pare già quando acquistiamo gli in-gredienti, e già da piccoli possiamoaffidare loro semplici compiti, comepelare le patate o le carote. Il guaio èche oggi, spesso, i bambini non san-no neppure da dove provengono leuova e vedono un petto di pollo soloquando è già impanato. Hanno pez-zi di informazione slegati gli uni aglialtri, non hanno accesso alle fonti.Per quanto mi riguarda posso dire diaver cominciato ad imparare da pic-colissima, quando trascorrevo mol-to tempo in campagna con la mianonna materna, Rosa. Allora produ-cevamo tutto in casa: avevamo polli,capre e maialini, portavamo il granoal mulino per la farina. L’orto mi hainsegnato che c’è una stagione per ipiselli, una per le fave e una per i fichi.Era un’esistenza molto vicina all’ori-gine del cibo, e ancor oggi nella miacucina ricerco quei sapori: i miei gu-sti sono rimasti questi.

(Testo raccolto da Sara Porro)L’autrice è ambasciatrice

della cucina italiana negli Stati Uniti e giudice di Junior MasterChef Italia

(su Sky1 da marzo 2014)oltre che mamma

del popolare chef Joe Bastianich

Patate Fritte – al primo posto

nella classifica

dei cibi più amati –

ma anche sotto forma

di puré, crocchette,

in insalata

(bollite con la buccia)

e al forno

BananaDolce e pastosa,

facile da portare

in giro, sbucciare

e mangiare, in età

scolare. Schiacciata

con poco limone

nelle merende

della prima infanzia

Gnocchi Nella doppia versione:

di patate e di semolino

(ovvero: alla romana)

Conditi con formaggio

fuso, sugo

di pomodoro, burro

(olio) e Parmigiano,

gratinati

Piselli Tante ricette

per questi legumi,

così diversi

dalle odiate verdure

classiche: vellutata,

saltati con pezzetti

di prosciutto,

nelle polpette

Cotoletta Il fritto è amato

perchè saporito,

croccante e trasgressivo

(non si può mangiare

tutti i giorni)

In alternativa,

cottura nel grill del forno

con poco olio

GelatoFresco, goloso,

irresistibile nel doppio

formato cono-coppetta

Quello fatto ad arte

è un ottimo

escamotage

per avvicinare

al gusto della frutta

SCIOGLIETE IL BURRO,(100 GRAMMI PER I PLUM-CAKE,

PIÙ UN PEZZETTO PER GLI STAMPINI) SCHIACCIATE BENE LA ZUCCA LESSATA

CON UNA FORCHETTA,FINO A FARLA DIVENTARE UNA CREMA

BAMBINI, PREPARATE GLI INGREDIENTISUL TAVOLO DI LAVORO

SBRICIOLATE GLI AMARETTIIN UNA CIOTOLA. I PLUM-CAKE SARANNO

ANCORA PIÙ BUONISE LASCIATE QUALCHE PEZZETTO GRANDE

METTETE LO ZUCCHERO(SENZA ESAGERARE!!!)

E LE UOVAIN UNA CIOTOLA GRANDE

E MESCOLATE CON LA FRUSTA

AGGIUNGETE LA CANNELLA,GLI AMARETTI E IL BURRO FUSO,

SEMPRE GIRANDO CON LA FRUSTA,E POI LA FARINA

MESCOLATA AL LIEVITO E LA ZUCCA

IMBURRATE BENE GLI STAMPINICON UN PENNELLO BAGNATO

NEL BURRO FUSOE POI RIEMPITELI CON L’IMPASTO,

INFINE COSPARGETECON LE MANDORLE A LAMELLE

TRASFERITE I DOLCETTI IN UNA TEGLIAE FATEVI AIUTARE A METTERLI

NEL FORNO GIÀ CALDOFATELI CUOCERE A 180 GRADI

PER 20-25 MINUTI

UNA VOLTA PRONTI,FATE RAFFREDDARE I PLUM-CAKE,

E SE LI VOLETE CONSERVAREPER ALCUNI GIORNI, METTETELI

IN UNA SCATOLA A CHIUSURA ERMETICASONO BUONISSIMI PER LA MERENDA,

MA ANCHE INZUPPATI NEL LATTEPER COLAZIONE

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Repubblica Nazionale

Page 14: LA DOMENICA - la Repubblicadownload.repubblica.it/pdf/domenica/2013/27102013.pdf · I Buddenbrook della Ddr nella saga di Eugen Ruge All’interno Straparlando ANTONIO GNOLI Claudio

LA DOMENICA■ 38

DOMENICA 27 OTTOBRE 2013

Come Dylan Dog, il personaggio a fumetti che ha inventato e che ora sta per abbandonare,non tocca un goccio d’alcol da anniMa a differenza della sua creatura

lui si è anche sottoposto a elettroshock,non esce mai di casa,colleziona computere ha una originalissimaopinione di sé:

“Non valgo un granché,prima o poi scoprirannoche sono un impostore”

«Sono sempre sta-to una nullità.

Da bambino mia madre mi scambiavaper mio fratello, anche se ero figlio uni-co. A scuola la maestra mi segnavasempre assente, anche quando eropresente. Tutti gli altri ragazzi avevanodegli hobby. Il mio hobby è semprestato respirare». Così scriveva in Me-morie dall’invisibile, dicembre 1992.Ora lui ci aspetta nell’ultima casa infondo al bosco. Per arrivarci bisognaprendere una strada sterrata, il navi-gatore impazzisce, si gira in tondo perun po’, si ritorna indietro. Finalmenteuna casa solitaria. Un cancello. Si apre.Come te la immagini la casa dell’uomoche ha inventato Dylan Dog? Il campa-nello suonerà normalmente o urleràcome quello dell’inquilino di CravenRoad? E ci sarà il famoso e temibile«spettro sumero» nel frigorifero? Ap-pena aperta la portiera un abbaiare dicani. Sette pericolosi bassottini ci cir-condano ma una donna alta e magra,capelli corti, vestita con gusto, ci vienea salvare. È Cristina, la moglie di Tizia-no Sclavi. La donna che ha deciso di vi-vere con lui lontano da tutto e da tutti.Perché Tiziano Sclavi da questa casanon esce mai. Dentro c’è il famoso ga-leone che “l’indagatore dell’incubo”costruisce dal primo numero della se-rie, nell’ormai lontano 1986. E la pisto-la di Dylan, quella che non si porta maidietro ma che regolarmente gli lanciail suo assistente Groucho, pure. Ma sepensate che Sclavi scriva con la pennad’oca come fa la sua creatura e nonpossieda neanche un cellulare, vi do-vete ricredere: «Sono un fanatico dellatecnologia. Ho in casa più di trentacomputer, senza contare iPad esmartphone vari».

Ci accomodiamo in un salotto am-pio e luminoso. Cristina ci offre una bi-bita rigorosamente analcolica. «Sede-tevi pure sul divano», dice, «l’unicoproblema è che vi ritroverete coperti dipeli». Sclavi, molto alto, dai capelli gri-gi corti e ordinati, indossa una camiciaa quadri e un paio di jeans. È un uomodi una gentilezza squisita. Come il suopersonaggio non tocca alcol da svaria-ti anni; ha raccontato la sua dipenden-za in maniera impietosa in Non è suc-cesso niente (Mondadori, 1998). Leg-gerlo è il modo più efficace per capireil suo mondo ma non solo: attraversoquelle pagine che giocano tra biogra-fia e visione, ti sembra di essere lì conlui, dentro la vita di un uomo geniale etormentato capace di inventare unpersonaggio a fumetti tra i più vendu-ti nel mondo (nel periodo d’oro ancheun milione di copie al mese) e di finirein un inferno che lo porterà a chiederedi farsi ricoverare per essere sottopo-sto a elettroshock pur di far cessareuna indicibile sofferenza interiore.

Questo è un buon periodo. Anche secontinua a non muoversi da casa, tan-te cose stanno succedendo attorno alui. A partire da un grande rinnova-mento, da lui voluto e che coinvolgeràla sua creatura, Dylan Dog, affidata auno sceneggiatore giovane, RobertoRecchioni: «È più bravo di me, ha car-ta bianca». Lo scorso aprile è uscitauna bella edizione di un altro perso-naggio di Sclavi, Roy Mann, per Lizard.È un personaggio che, come lui, di la-voro fa lo sceneggiatore. Sclavi scriveda sempre. «Ho incominciato prima adisegnare (male) e poi quasi subito ascrivere. Il primo, “tra virgolette” ro-manzo, l’ho scritto in seconda media.Al liceo il professore di italiano, nono-stante avessi la media del 7 mi diede 9sulla pagella. Io gli chiesi come mai elui disse: “Lascia fare”. Fu il primo acredere in me. Le prime letture sonostate ilCorriere dei Piccoli, i fumetti Bo-nelli e Edgar Allan Poe. Di lui mi sonoinnamorato, l’ho letto tutto quandoavevo sette-otto anni. E ho letto anchetutte le fiabe più sanguinose e pauroseche si potessero trovare. Ho fatto dasolo: i miei genitori non avevano libri eio abitavo in un paesino orribile del-l’Oltrepo Pavese, Canneto. Ho vissutododici anni in questo posto che hoodiato con tutto me stesso». Sclavi èanche giornalista: «Nel ’76 venni presodal Corriere dei Ragazzi dove qualchetempo dopo fu assunto anche un gio-

vane di buone speranze che si chiama-va Ferruccio De Bortoli. Quest’annocompio trentacinque anni da giornali-sta professionista: mi aspetto una festadell’Ordine con fuochi artificiali e me-daglietta ricordo. Guadagnavo tre-centomila lire al mese contro le sei-centomila che prendevo da freelance,ma una volta assunto i miei vedevanoche andavo a lavorare e così erano con-tenti mentre prima, siccome non an-davo all’università, secondo loro nonfacevo niente». Il Corriere dei Ragazzidiretto da Giancarlo Francesconi è sta-to una palestra di talenti: da lì vengonoMino Milani, Alfredo Castelli; lì pub-blicavano Hugo Pratt, Dino Battaglia,Sergio Toppi e Grazia Nidasio («Fu lei,l’autrice di Valentina Mela Verde, a in-trodurmi»), Ferdinando Tacconi,Bonvi, Milo Manara, Giancarlo Ales-sandrini, Attilio Micheluzzi. A un certopunto chiuse. «Sì, l’azienda invece diinvestire in raccolte degli autori che

pubblicavano sul giornale, come chie-deva Francesconi, decise di trasfor-marlo in un giornale simile all’Intrepi-do. Se avessero fatto i volumi avrebbe-ro anticipato le cosiddette graphic no-vel che oggi vanno tanto di moda. Mail Corriere dei Ragazzi allora vendeva140mila copie e l’Intrepido superava ilmezzo milione: una cifra che facevagola. Però, naturalmente, in questomodo non solo si è perso il pubblicopiù sofisticato e curioso che era statoquello del Corriere dei Ragazzi ma si èandati verso il disastro».

Di recente, dedicato a Sclavi, è usci-to un imponente volume degli ArchiviBonelli (sempre per Rizzoli Lizard)con prefazione del filosofo della scien-za Giulio Giorello. Da Zagor a MisterNo, passando ovviamente per DylanDog, ne ripercorre tutta la carriera “bo-nelliana”. «Era un periodo che la Bo-nelli s’era lanciata in tante altre coseche si sono rivelate fallimentari, com-presa una rivista di enigmistica che mitoccava correggere e Pilot, rivista di fu-metti di cui ero il direttore ma anchel’unico redattore. A un certo puntoSergio decise di tornare a concentrar-si sulle produzioni e mi chiese di svi-luppare un personaggio: così è natoDylan. Dopo il primo numero il distri-butore disse a Bonelli che Dylan Dogera “morto in edicola”, una notizia cheper pietà mi hanno tenuto nascostaper diverso tempo. Poi, a partire dalnumero 12, ha avuto un’impennata eda lì è andato avanti facendo cifre in-credibili e coinvolgendo un pubblicotrasversale che non era solo quello abi-tuale dei fumetti». Persino UmbertoEco ne ha tessuto le lodi. «Una volta hadichiarato: “Tengo sul comodino laBibbia, Omero e Dylan Dog”. Questafrase è stata usata in ottocentomilamodi e credo che lui sia incazzatissi-mo. Ma per quanto mi riguarda inrealtà non ho una grande opinione dime e del mio lavoro: credo che tutti sisbaglino e prima o poi si accorgerannoche sono un impostore».

Un lato molto poco conosciuto diSclavi è anche quello di autore di can-zoni: da poco è uscito un album con isuoi testi a cura del gruppo SecondaMarea,Gli anni del mare e della rabbia(in allegato con il nostro XL) mentrel’editore Squilibri ha pubblicato Bal-late della notte scura, un libro più cd. «Aproposito di canzoni e di Eco. L’unicavolta in vita mia che ho visto UmbertoEco siamo stati insieme molto a lungo

perché da quell’incontro è nato un li-bro-intervista (Dylan Dog, indocilisentimenti, arcane paure a cura di Al-berto Ostini, Euresis, 1998). A un certopunto mi ha detto: perché insisti apubblicare in Dylan Dog quelle poesieche hanno tutta la metrica sbagliata? Eio ho detto: quali poesie? Io non ho maiscritto poesie, per carità. Io la poesianon la capisco. Quelle sono canzoni ehanno la musica, quindi la metricafunziona con la musica. Una musicache avevo in testa. E lui ha risposto: “Al-lora dovresti allegare una cassetta”.Oggi finalmente ho realizzato quel so-gno».

Il pomeriggio sul divano di casaSclavi scorre lento. Le chiacchiere van-no da Pasolini, «mai troppo rimpian-to», al berlusconismo, «quel po’ di cul-tura rimasta sopravvive a gomitate», enaturalmente si pensa a Sergio Bonel-li. La sua morte, due anni fa, è stata unduro colpo: «Una volta non ci siamoparlati per tre mesi. Ma era un grandeamico e io ero sempre a caccia di figu-re genitoriali: Decio Canzio (il diretto-re della Bonelli, ndr) era mio papà e sic-come il posto di papà era occupatoSergio è diventato mia mamma. Con lamorte di questi due grandi uomini è fi-nito un mondo di cui facevo parte e so-no morto un po’ anch’io». Arriva sera ei bassottini cominciano ad agitarsi.Hanno fame. Un’ultima domanda, or-mai inevitabile: perché vivere lontanoda tutto? Perché non uscire mai di ca-sa se non per lo stretto necessario? «Perpigrizia. Per paura del mondo. Perchénon guido quasi più. Perché con l’e-commerce mi portano tutto a casa. Esoprattutto per i miei cani: quando nehai sette spostarsi è un problema. E poila mia casa mi piace, qui ho i miei librie i miei film, i miei computer, i mieigadget». E poi c’è Facebook, i socialnetwork. «I social network mi sono to-talmente estranei. Fosse per me fon-derei un asocial network».

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L’incontroSopravvissuti

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Qui ho tuttoquello di cui

ho bisognoI miei sette cani,i miei libri,i miei filmMa più che altrosono pigro

Tiziano Sclavi

LUCA VALTORTA

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SUPERIORE

(Varese)

Repubblica Nazionale