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la domenica DI REPUBBLICA DOMENICA 18 GENNAIO 2015 NUMERO 515 Cult «Non potevo più sopportare l’idea che in Francia si potesse morire solo per essere ebrei». Per questo Virginie e la sua famiglia sono partiti per Israele ANAIS GINORI PARIGI LLINIZIO MI SONO DETTA: PASSERÀ». Ma la feri- ta non si rimarginava. «Non c’era niente da fare, guardavo la mia Francia che amavo tanto con occhi diversi. Era finita. Non po- tevo più restare nel mio paese come se niente fosse. Non sono partita per paura o perché vittima dell’antisemitismo. Ma per un chiodo fisso che non riuscivo a togliermi dalla testa. L’idea che in Francia si pos- sa morire perché sei ebreo è diventata per me semplicemente insopportabile. È un’aberrazione che non posso più accettare». L’Aliyah, ovvero “l’ascesa”, “l’emigrazione”, il ritorno di Virgi- nie Bellaïche è cominciato il 19 marzo 2012 con le immagini di un uomo con il casco, Mohammed Merah, davanti alla scuola Ozar Hatorah di Tolosa. Il grido: “Allah Akbar”. SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE CON UN ARTICOLO DI ISABEL KERSHNER Il ritorno L’attualità. Da Rombo di tuono a Pupone, tutti i soprannomi del calcio La storia. Cent’anni fa in Abruzzo, il terremoto dimenticato Next. La via democratica a internet, parla Lawrence Lessig L’incontro. Enrico Ruggeri: perché De Gregori ha più successo di me? La copertina. Benvenuti nell’era dell’interruzione Straparlando. Dobrovolskaja: io, costretta a ridere Mondovisioni. Ultima fermata, la stazione di Maputo MAREK HALTER A I MIEI FRATELLI EBREI DI FRANCIA dico di rinunciare alla fu- ga in Israele. Anzitutto perché coloro che ci insultano non intendono sterminarci, come accadeva con i nazi- sti negli anni Quaranta. Poi, perché la Francia è il no- stro Paese. Gli ebrei vi abitano da duemila anni, da quando cioè ce li deportarono da Gerusalemme le legioni romane. Gli ebrei erano già vassalli dei re di Francia prima che i bretoni e i normanni diventassero francesi, e il primo sindaco di Bordeaux, il grande filosofo Michel de Montaigne, era figlio di Antoinette de Louppes, ebrea marrana espulsa dal Portogallo. Sulla facciata di Notre-Dame, la più famosa cattedrale di Francia, sono scolpite ven- totto figure che rappresentano i re d’Israele. E poi, scappando dia- mo ragione ai jihadisti. È come se dicessimo: «Avete vinto, ci avete fatto paura, noi ce ne andiamo». SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE ILLUSTRAZIONE DI IGORT PER “REPUBBLICA” «A Repubblica Nazionale 2015-01-18

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la domenicaDI REPUBBLICADOMENICA 18 GENNAIO 2015 NUMERO 515

Cult

«Non potevo più sopportare l’ideache in Francia si potesse morire soloper essere ebrei». Per questo Virginiee la sua famiglia sono partiti per Israele

ANAIS GINORI

PARIGI

LL’INIZIO MI SONO DETTA: PASSERÀ». Ma la feri-ta non si rimarginava. «Non c’era niente dafare, guardavo la mia Francia che amavotanto con occhi diversi. Era finita. Non po-tevo più restare nel mio paese come seniente fosse. Non sono partita per paura o

perché vittima dell’antisemitismo. Ma per un chiodo fisso chenon riuscivo a togliermi dalla testa. L’idea che in Francia si pos-sa morire perché sei ebreo è diventata per me semplicementeinsopportabile. È un’aberrazione che non posso più accettare».L’Aliyah, ovvero “l’ascesa”, “l’emigrazione”, il ritorno di Virgi-nie Bellaïche è cominciato il 19 marzo 2012 con le immagini diun uomo con il casco, Mohammed Merah, davanti alla scuolaOzar Hatorah di Tolosa. Il grido: “Allah Akbar”.

SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE CON UN ARTICOLO DI ISABEL KERSHNER

Ilritorno

L’attualità.Da Rombo di tuono a Pupone, tutti i soprannomi del calcio La storia.Cent’anni fa in Abruzzo, il terremoto dimenticatoNext. La via democratica a internet, parla Lawrence Lessig L’incontro. Enrico Ruggeri: perché De Gregori ha più successo di me?

La copertina. Benvenuti nell’era dell’interruzioneStraparlando. Dobrovolskaja: io, costretta a ridereMondovisioni. Ultima fermata, la stazione di Maputo

MAREK HALTER

AI MIEI FRATELLI EBREI DI FRANCIA dico di rinunciare alla fu-ga in Israele. Anzitutto perché coloro che ci insultanonon intendono sterminarci, come accadeva con i nazi-sti negli anni Quaranta. Poi, perché la Francia è il no-stro Paese. Gli ebrei vi abitano da duemila anni, da

quando cioè ce li deportarono da Gerusalemme le legioni romane.Gli ebrei erano già vassalli dei re di Francia prima che i bretoni e inormanni diventassero francesi, e il primo sindaco di Bordeaux, ilgrande filosofo Michel de Montaigne, era figlio di Antoinette deLouppes, ebrea marrana espulsa dal Portogallo. Sulla facciata diNotre-Dame, la più famosa cattedrale di Francia, sono scolpite ven-totto figure che rappresentano i re d’Israele. E poi, scappando dia-mo ragione ai jihadisti. È come se dicessimo: «Avete vinto, ci avetefatto paura, noi ce ne andiamo».

SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE

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Repubblica Nazionale 2015-01-18

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la RepubblicaDOMENICA 18 GENNAIO 2015 34LA DOMENICA

francese, la più numerosa d’Europa, ha sperato fossecosì. «Non può succedere ancora» dicevano i genitoridi Virginie.

E invece sì. Mercoledì sette gennaio due uominihanno fatto strage nella redazione di un settimanalesatirico urlando di nuovo “Allah Akbar”, e lasciandodietro di sé dodici vittime. Quarantotto ore dopo, alletredici di venerdì nove gennaio. Amédy Coulibaly èentrato nell’Hyper Cacher di Porte de Vincennes. Haucciso in pochi minuti quattro persone, anzi: quattro

ebrei venuti a fare la spesa alla vigilia di shabbat.«Sono morti perché ebrei. Succede in Francia,

nel 2015. È accaduto ancora», ripete Virginie.L’assedio, i morti e le facce stravolte degli

ostaggi, e poi le preghiere alla Sinagoga. Un al-tro pomeriggio come quel 19 marzo del 2012.Un altro pomeriggio davanti alla tv a pensareche potevo essere io dentro a quella scuola,dentro a quel supermercato kosher. Virginie

realizza di essere tornata per rivivereciò da cui aveva provato a fuggire,mettendo la sua vita parigina e il suo“chiodo fisso” dentro a un containerdiretto a Ra’anana, nord est di Israe-le. Il 31 luglio 2013 Virginie atterròall’aeroporto di Tel Aviv. All’arrivotrovò subito i documenti come nuo-va cittadina israeliana. Per prepa-rare la sua carta d’identità, la fun-zionaria del ministero dell’Integra-

zione le chiese: «What’s your name?». Lei ci pensòqualche secondo. Avrebbe potuto scegliere un nomeebreo, come fanno quasi tutti gli “olim”, i nuovi im-migrati. “Virginie”, che andava di moda nella genera-zione di francesi nate negli anni Settanta, in fondonon le era mai piaciuto. «Virginie Bellaïche», risposelo stesso. «Ho cambiato paese, ma sono sempre io. No-nostante l’Aliyah, il cambiamento più importante del-la mia vita, conservo la mia identità, le mie qualità e imiei difetti».

La terra promessa non è dolce come se l’aspettava,anche se l’agenzia ebraica a Parigi ha agevolato il tra-sferimento con mezzi e fondi. Virginie parla ancoramale ebraico nonostante l’”oulpan”, il corso di linguaofferto dallo Stato. Non ha ritrovato un lavoro. Suo ma-rito Laurent, avvocato, non può ancora esercitare laprofessione, dovrà passare un esame per ottenere l’e-quivalenza del titolo. Virginie ha messo da parte l’or-goglio, accettando impieghi sottopagati. «Una donnadelle pulizie guadagna più di me che ho studiato e hotante esperienze professionali». A Parigi, Virginie sioccupava di community management su Internet.Aveva collaborato con una radio della comunità ebrai-ca, intervistando le famiglie che partivano per l’A-liyah. Per anni è stata un’ipotesi remota, lontana. Vir-ginie era stata in Israele solo per le vacanze, senza par-ticolari slanci. «L’Aliyah comincia con una certezza.Per alcuni è profonda, antica. Si è formata in una fa-miglia sionista, è maturata negli anni, attraverso lascuola ebraica, i movimenti di gioventù. Per altri, co-

<SEGUE DALLA COPERTINA

ANAIS GINORI

CORPI A TERRA. Il rabbino Jonathan Sandler,trent’anni ucciso, insieme ai due figli,Arieh e Gabriel, cinque e quattro anni.

Una bambina bionda, Myriam Monso-nego, sette anni, a cui Merah spara allatempia. Sono ormai sedici mesi che Virgi-nie si è trasferita in Israele. E c’è una terri-bile ironia della sorte nel suo ultimo rien-tro in patria da allora. Era tornata a Parigiil cinque gennaio scorso. Qualche giorno divacanza, il saluto ai genitori che non ave-vano capito quando aveva annunciato la

partenza per Israele, a trentasette anni, con il maritoe le due figlie, abbandonando lavoro, amici, una casanel diciassettesimo arrondissement.

Virginie è tra le migliaia di ebrei che hanno lasciatola Francia negli ultimi anni. L’attentato di Tolosa fuuno spartiacque: tremila nel 2013, settemila nel 2014e quest’anno, dopo gli attentati, l’agenzia ebraica pre-vede più di diecimila nuovi immigrati. Non era maisuccesso dal 1948, anno di creazione dello Stato diIsraele. La madre di Virginie aveva pianto. «Pensacibene prima di mollare tutto» era stata la sua inutilepreghiera. All’epoca, Merah, come tutti chiamano gliattentati, poteva sembrare ancora un episodio isola-to, per quanto atroce. Una barbarie racchiusa in unaparentesi. Per due anni e mezzo la comunità ebraica

NELLA FOTO GRANDE: SIMBOLIIN OMAGGIO A “CHARLIEHEBDO”, ALLA POLIZIAE ALLA COMUNITÀ EBRAICA.SOTTO: VIRGINIE BELLAÏCHE.A PARIGI SI OCCUPAVADI COMMUNITY MANAGEMENT,IN ISRAELE HA DOVUTOACCETTARE LAVORIMOLTO MENO QUALIFICATI

La copertina. Il ritorno

Vi raccontola paura

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Sono stati settemila nel 2014,saranno più di diecimiladopo gli ultimi attentati di Parigia fare l’Aliyah, l’emigrazione in Israele.Virginie Bellaïche è una di loro: questa è la sua storia

Repubblica Nazionale 2015-01-18

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ISABEL KERSHNER

NETANYA (ISRAELE)

SU UN LATO di Independencesquare, accanto alla fontanacon i giochi d’acqua, tra i ta-volini all’aperto della pastic-ceria “La Brioche” gestita da

israeliani, i clienti parlano francesementre sorseggiano caffè e ordinanomacaron. All’altra estremità si senteparlare in francese e in ebraico da “ChezClaude”, un chiosco di falafel e shawar-ma gestito da francesi: sul bancone unapila di baguette.

Netanya, città israeliana lungo la co-sta mediterranea (sul sito del Comunesi parla di “Riviera israeliana”) attiragià da tempo gli ebrei di Francia. Ora siprepara a flussi ben più sostenuti. «Listiamo aspettando», dice Debbi DahanBen-David, proprietaria di “Chez Clau-de”, arrivata da Parigi con il marito e ifigli ormai ventidue anni fa. «Questo èil nostro Paese», racconta esprimendoun sentimento condiviso da immigratidi vecchia data e nuovi arrivati. «Nonabbiamo nessun altro posto dove an-dare». Quando il primo ministro Benja-min Netanyahu nei giorni scorsi a Pari-gi ha invitato tutti gli ebrei francesi avenire in Israele dichiarando che sa-rebbero stati accolti «a braccia aper-te», è stato accusato di volersi approfit-tare della situazione anziché invocaremaggiori misure di sicurezza per ilmezzo milione circa di ebrei che vivonoin Francia. Ma, tra antisemitismo e re-cessione, il numero di ebrei francesiche scelgono l’aliyah — la parola ebrai-ca per immigrazione — era aumentatoconsiderevolmente già l’anno passato.Su un totale di quasi ottantamila ebreiimmigrati in Israele dalla Francia dal-l’inizio degli anni ‘70 a oggi, quasi set-temila sono arrivati nel solo 2014 e perla prima volta la Francia è risultata es-sere il primo paese di provenienza. Ilcontingente più numeroso, circa due-mila persone, ha scelto di stabilirsiproprio qui, a Netanya.

Victor Atiya, cinquantuno anni, ilproprietario della “Brioche”, a Netanyaci è nato e racconta di aver trasformatoil suo normalissimo caffè, che prima sichiamava Peacock Bar, in una pasticce-

ria francese solo due anni fa, proprio percercare di attirare clienti francesi. «Ègente di livello» dice: «Hanno migliora-to il quartiere». Non siamo a Nizza o aCannes: buona parte del centro città haun’aria più trasandata che elegante. Maoffre dentisti che parlano francese e for-nisce ai nuovi arrivati un senso imme-diato di comunità in un Paese dove nonsono in molti a parlare o a comprenderela lingua. Myriam Haziza, quarantunoanni, è venuta da Lione con la famigliatre anni fa e ha aperto sulla piazza il suo“O’Palais Gourmand”, dove sforna piz-ze e crêpes. Quando un cliente le chiedeuna fetta di pizza con sopra chicchi dimais, condimento molto popolare inIsraele, lei esclama inorridita, in buonebraico: «I francesi non mangiano la piz-za col granturco!». Come molti altri, My-riam dice di essere venuta perché inFrancia si sentiva sempre più a disagio.«Laggiù», spiega, «per i bambini è im-possibile uscire da soli». Molti dei suoiamici in Francia ora vogliono fare l’a-liyah il prima possibile: «È là che c’è laguerra. È là che i soldati presidiano lescuole».

In realtà anche Netanya è stata col-pita da sanguinosi attentati terroristi-ci, ed è alla portata dei razzi lanciati daGaza e dal Libano. Uno dei soldati israe-liani uccisi durante la guerra con Ha-mas nella Striscia di Gaza, la scorsaestate, il ventiduenne sergente mag-giore Jordan Bensemhoun, era immi-grato da Lione all’età di sedici anni.Quando calcolano i rischi di un trasferi-mento in Israele, però, i francesi repli-cano: qui possiamo girare con la kippahsenza paura, c’è un esercito che ci pro-tegge. Natan Touitou, ventuno anni, siè trasferito da Parigi un anno e mezzo fae lavora nella pasticceria-panetteria“Pâte à Choux”, vicino al mercato. Toui-tou conosceva bene il ventiduenneYohan Cohen, rimasto ucciso nell’as-salto al supermercato kosher di Parigi eseppellito questa settimana a Gerusa-lemme. Ora si sta recando alla preghie-ra serale insieme alla famiglia di Cohen,che osserva lo shiva, il tradizionale pe-riodo di lutto ebraico.

(Traduzione di Fabio Galimberti) ©2015 NewYorkTimes

la RepubblicaDOMENICA 18 GENNAIO 2015 35

me me, è una certezza recente e tormentata».Virginie non voleva andare a vivere a Gerusalem-

me, perché «troppo religiosa». Esclusa anche Tel Aviv,«poco adatta alle famiglie». Ra’anana è stata una scel-ta di compromesso. È una media città di ottantamilaabitanti dove, dice la nuova immigrata, si può con-durre un’esistenza «tranquilla». «Di Parigi mi mancala possibilità di andare in un cinema diverso ogni se-ra, mi manca il metrò, la musica. Di Parigi mi mancatutto, è lì che sono nata e cresciuta pensando che nonme ne sarei mai dovuta andare».

«È un sacrificio», dice ancora. «L’ho fatto per le miefiglie, affinché non vivano mai momenti di terrore co-me quelli che ho vissuto io nel marzo 2012. Molti di-cono che Israele non è un paese sicuro. È vero. Ma mo-rire laggiù perché sei ebreo, solo perché sei ebreo, al-meno ha più senso». L’estate scorsa, quando è riscop-piata la guerra tra Israele e Hamas, Virginie ha tra-scorso lunghe notti nei rifugi con le due figlie, Anouke Adèle, di sette e due anni. «Ci si abitua». Se fosse ri-masta a Parigi, aggiunge, avrebbe trovato in questigiorni i militari a presidiare l’ingresso di scuole, sina-goghe, e qualsiasi altro luogo frequentato dalla co-munità. «Ma non si può avere un poliziotto per ogniebreo» commenta Virginie.

«La Francia senza gli ebrei non è la Francia» ha det-to il premier Manuel Valls dopo l’attacco del nove gen-naio, mentre Benjamin Netanyahu ha lanciato un ap-pello alla comunità per “tornare a casa”. Virginie nonvuole entrare nel dibattito politico in corso, segnato

da un’ostilità latente che si insinua ormai tra i suoi duepaesi. «Prima della mia Aliyah mi dava molto fastidiosentire dire da chi partiva che gli ebrei non hanno piùnulla a che fare con la Francia. Mi astengo quindi dacommenti del genere. Dico solo che per me era il mo-mento. Non giudico quelli che restano».

Virginie sottolinea come l’11 Settembre francesenon sia il piano di terroristi venuti dall’Afghanistan odall’Arabia Saudita. I fratelli Kouachi e Coulibaly so-no come lei, trentenni francesi cresciuti in questo pae-se. Hanno imparato a leggere e scrivere nelle scuoledella République, almeno una volta avranno dovutosfogliare un libro di Voltaire o Victor Hugo. «Non soche pensare sul futuro degli ebrei in Francia. Ripetosolo quello che sento io da cittadina francese: ho smes-so di crederci». I suoi nonni sono venuti dall’Algerianel dopoguerra. «Se gli avessero detto che cin-quant’anni dopo non ci sarebbero stati stati quasi piùebrei in Algeria non ci avrebbero creduto». Virginie sache almeno per la sua famiglia l’Aliyah è una scelta ir-reversibile. Per darsi forza, ripete spesso una frase chele diceva la nonna: «Vai dove vai, muori dove devi». Traqualche settimana, si sentirà meno sola. Dopo gli at-tentati della settimana scorsa, i suoi genitori inizial-mente refrattari hanno deciso pure loro di fare l’A-liyah. Si trasferiranno a Netanya, non lontano da Ra’a-nana. «Mi dispiace, mi ha detto mia madre, ma ancheio non credo più alla Francia». Quella della barbarie, èuna parentesi che non si chiude mai.

<SEGUE DALLA COPERTINA

MAREK HALTER

ERTO, il momento èdifficile. Ma l’unica cosache dobbiamo fare ècombattere. Contro lasegregazione, contro i

razzismi, contro l’antisemitismo.Non è per nulla indegno diventareisraeliani. A chi approda in Israeleviene subito insegnata la lingua etrovato un alloggio e un lavoro. Latentazione è forte. Ma se si pensa cheessere ebrei è anche partecipare allalotta permanente per migliorare ilmondo, allora non si deve disertare ilcampo di battaglia. Non giudico chi scappa, e lo capiscoanche, visti i problemi di chi vive inbanlieue ed è insultatoquotidianamente in quanto figliodella religione di Abramo. Credo

tuttavia che essere ebrei sia ancheun impegno, che deve trascendere ilproprio benessere. Il giudaismo,come qualsiasi altra religione oideologia, deve svolgere un ruoloimportante nella società. Oggiquesto ruolo consiste nel preservareintatta la nazione. Se io lasciassi la Francia, partecipereialla disgregazione di un Paesemeraviglioso, che è un modello per ilmondo moderno. Con la nostra fuga,la Francia non sarebbe più quellasognata dalla Rivoluzione francese edagli illuministi, da Voltaire e daDiderot, dove cristiani, musulmani,ebrei e buddisti possono convivere inpace. Con la scomparsa degli ebrei laFrancia diventa un’altra cosa. È come se strappassimo alcunepagine di un libro. Il libro resta, manon è più lo stesso.

Mitra e baguettela Parigi d’Israele

Non diamola vintaa chi ci odia

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EMILIO MARRESE

LA JUVE È VOLATA sul Napoli,domenica scorsa, grazie alPolpo, al Pelado e a KingArturo. All’anagrafe Pogba,Caceres e Vidal. Oggi

all’Olimpico quella tra Lazio e Napolisarà anche una sfida tra Dusan StopBasta e Gonzalo El Pipita Higuain.L’ultima macchietta del teatrinocalcistico è invece Er Viperetta, ilpirotecnico e naif Massimo Ferrero,produttore cinematografico epresidente della Sampdoria. La genesiincerta del soprannome risale alla suagioventù tra Testaccio e Cinecittà, mabasta vederlo mordere in tv, anche nellaversione apocrifa di Crozza, e si capisce ilmotivo. In borgata un nomignolo non losi nega a nessuno: anche l’allenatoreClaudio Ranieri, per dire, era statoribattezzato Er Fettina in quanto erededi un macellaio. Un po’ come inArgentina: l’attaccante del NapoliHiguain è Pipita perché il padre, anchelui calciatore, era detto El Pipa a causa diun naso imponente; lo juventino CarlosTevez è l’Apache, perché il barrio natiodi Ciudadela — non proprio un luogoameno — è conosciuto come FuerteApache; l’ala del Psg Ezequiel Lavezzi ènoto come El Pocho (Pocholo era il caneche aveva da bambino)mentrel’interista Mauro Icardi è O Cañito, lacannuccia. Per non parlare dei brasiliani,di cui spesso si conosce solo lopseudonimo e non la carta d’identità:Ricardo Izecson Dos Santos Leite non loconosce nessuno, ma se dite Kakà è tuttopiù chiaro. Insomma, le vie del nicknamesono infinite. Casuali, originali, banali,assurdi, letterari, triviali, epici, ridicoli.Di soprannomi, dagli anni Trenta a oggi,Furio Zara e Nicola Calzaretta inL’Abatino, il Pupone e altri fenomeni nehanno scovati oltre mille e quattrocento.Perché un’etichetta, o perlomeno undiminutivo, è necessaria da che calcio ècalcio, in qualsiasi spogliatoio, anche tragli amatori. Figurarsi ai livelli più alti,dove a volte può incollarsi addosso comeuna condanna, ma anche diventare unvero e proprio brand: come CR7, ilmarchio del Pallone d’oro CristianoRonaldo.

JUAN SEBASTIAN VERON

PARMA, ANNI ’90CENTROCAMPISTA

BRUJITA

IN ARGENTINO “STREGHETTA”IL PADRE ERA LA BRUJA

LUIGI MENTI

VICENZA, ANNI ’50 E ’60CENTROCAMPISTA

BAGOLINA

IL BASTONE DA PASSEGGIOIN DIALETTO VENETO

WILLIAM NEGRI

BOLOGNA, ANNI ’60PORTIERECARBURO

SOSTANZA ESPLOSIVAUSATA NELLA PESCA DI FRODO

PIETRO CARMIGNANI

NAPOLI, ANNI ’70PORTIEREGEDEONE

COSÌ CHIAMAVANO QUELLI ALTINELLA SUA VARESE

IVANO BORDON

INTER, ANNI ’70 E ’80PORTIERE

PALLOTTOLA

VOLAVA DA UN PALO ALL’ALTROCOME UN PROIETTILE

DAVID JAMES

INGHILTERRA, ANNI 2000PORTIERECALAMITY

CELEBRE PER LE DISASTROSEPAPERE IN NAZIONALE

BEBETO

BRASILE, ANNI ’90ATTACCANTE

LAGRIMA

AVEVA SMORFIA SOFFERTAE PIANTO FACILE

PAULO CHAGAS DE LIMA

BRASILE, ANNI 2010CENTROCAMPISTA

GANSO

IL MASCHIO DELL’OCAIN PORTOGHESE

DANTE MIRCOLI

SAMPDORIA, ANNI ’70CENTROCAMPISTA

ME DOLE

“MI DUOLE”: LAMENTAVAINNUMEREVOLI ACCIACCHI

G.B. FABBRI

SPAL, ANNI ’50DIFENSORE-CENTROCAMPISTA

BRUSALERBA

CORREVA TANTO VELOCEDA BRUCIARE L’ERBA

JULIO CRUZ

INTER, ANNI 2000ATTACCANTE

EL JARDINERO

DA RAGAZZINO TAGLIAVAL’ERBA INTORNO AL CAMPO

HECTOR SCARONE

PALERMO, ANNI ‘30ATTACCANTE

BORELLI

LYDA BORELLI ERA UNA DIVAITALIANA DEL MUTO

GABRIELE ORIALI

INTER, ANNI ’70 E ’80CENTROCAMPISTA

PIPER

NOTA MARCA DI CHAMPAGNE:BUONO E FRIZZANTE

GIUSEPPE MEAZZA

INTER, ANNI ’30ATTACCANTE

BALILLA

LO CHIAMARONO COSÌ APPENALO VIDERO ARRIVARE AL CAMPO

RUDI VOELLER

ROMA, ANNI ’80ATTACCANTE

TANTE KÄTHE

IN GERMANIA ERA ZIA CATERINAPER VIA DEI RICCIOLI BIONDI

GIOVANNI LODETTI

MILAN, ANNI ’60CENTROCAMPISTA

BASLETTA

IN MILANESE VASO DI LEGUMIMA ANCHE MENTO APPUNTITO

la RepubblicaDOMENICA 18 GENNAIO 2015 36LA DOMENICA

L’attualità. Vox populi

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IL LIBRO

“L’ABATINO, IL PUPONEE ALTRI FENOMENI -TUTTO IL CALCIOSOPRANNOME PER SOPRANNOME”DI FURIO ZARAE NICOLA CALZARETTAÈ PUBBLICATO DA RIZZOLI(395 PAGINE, 14 EURO)

Una squadrafantastica

Repubblica Nazionale 2015-01-18

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Orsi e Hirzer. Qualcuno non li conosce?Per forza, giocavano tra il ’20 e il ’30, mail libro di Zara e Calzaretta serve anchecome flipper della memoria. Flipper, aproposito, era Damiani. Fu Invernizzi achiamarlo così quando giocava nei ra-gazzi dell’Inter. Invernizzi, per via delcognome, era detto Robiolina.

Ci sono soprannomi che sarebbero pia-ciuti a Teofilo Folengo: Brusalerba (G.B.Fabbri), Spaccapali (Fugazza), Palo ’efierro (Bruscolotti). Lombardo, scarsicri-nito, per i tifosi della Samp era Popeye,per quelli del Crystal Palace Bald Eagle(Aquila calva). Ed è in Inghilterra cheMaccarone diventa Big Mac, e Zola MagicBox. E Mourinho Special One(autodefini-zione). Mentre Paolo Rossi diventa Pabli-to al Mondiale d’Argentina nel ‘78 (copy-right di Giorgio Lago), e Maradona Manode Dio sette anni dopo, in Messico. Due so-prannomi uniscono mezzo secolo abbon-

dante di calcio e due numeri 10: Rivera eTotti. Rivera è il capofila degli abatini, ca-tegoria di centrocampisti, in prevalenzaoffensivi, cui Brera non riconosceva ade-guato nerbo atletico: Rivera, Corso, De Si-sti, Bulgarelli, Juliano e altri ancora. Nonandava meglio, però, a centrocampistidotati di nerbo atletico ma di scarso ra-gionamento: si veda l’irridente Einsteinper Mario Bertini. Abatino è un ripescag-gio lessicale su cui Brera mette il timbro.Si credeva l’avesse usato per la prima vol-ta a Roma 1960 per Livio Berruti. Recentiricerche di Claudio Gregori portano aun’altra data, 17 maggio 1952, e a un al-tro nome, Giorgio Albani. Prima tappa delGiro poi vinto da Coppi. Albani, acutomonzese poi ds di Motta e Merckx, vincela volata davanti a Magni, Coppi, Petruc-ci e Minardi. E Brera lo definisce abatinoper l’aspetto, non per le doti atletiche. Co-me agli abatini del pallone non piaceva es-sere definiti in questo modo, a Totti nonpiace Pupone. Il soprannome non è firma-to, pare risalga al periodo delle giovanilio, al massimo, dell’esordio in prima squa-dra. Fatto sta, scrivono gli autori, che do-po un 3-1 al Lecce, il 21 settembre 1997,Totti così si rivolge ai giornalisti: «Vi chie-do un regalo: non chiamatemi più Pupo-ne, sono cresciuto». Qualcuno gli ha datoretta, altri no. Ex Pupone sarebbe peggio.E poi, perché Totti continua a festeggiareun gol mettendosi in bocca il pollice? Percelebrare la nascita dei figli, si pensò. Maora che i figli sono grandicelli e lui pure?Non ci sarà dietro un ragionamento comequello, autoironico, che partorì i libri dibarzellette su Totti, di Totti, contro Totti,firmate Totti? Non è che Pupone, ingom-brante etichetta a vent’anni, sia diventa-to un buon compagno nel viaggio verso iquaranta?

È giusto tenersi dei dubbi. E il viaggiocontinuare a farlo tra pulci e leoni, prin-cipi e re, ramarri e uccellini, baroni e pan-tere, salsicce e prosciutti, gambe di seda-no e carta velina, gatti e scimmie, zanza-re e zucchine, tori e toreri, frecce e filoso-fi, mummie e poeti. Perché il campo dellafantasia è più vasto di un campo da calcio.

GIANNI MURA

EMI RACCOMANDO, RAGAZZO, nel mondo del calcio cerca di far-ti un nome. Ma anche un soprannome non è male. Quelliazzeccati restano addosso per una carriera, una vita e an-che oltre. Il Mago, El Paròn, Raggio di luna, Piedone, El Ca-bezòn, Trap, Rombo di tuono, per esempio. Che il Mago piùantico fosse Helenio Herrera e il più recente Maicosuel, ra-pido e non memorabile passaggio all’Udinese, ha un’im-portanza relativa. Il soprannome a volte è d’autore (Arpi-no, Brera, Caminiti) a volte nasce dai tifosi. «OnorevoleGiacomino, salute» urlava con voce tenorile nel megafonoGino Villani, il bottonaio di via Fossalta, e Bulgarelli ri-spondeva con un leggero inchino. La partita del Bologna

poteva cominciare. Veleno, invece, a Benito Lorenzi lo affibbiò sua madre, da tantegliene combinava, e Veleno rimase. Non fu lui ad appioppare il perfido Marisa a Bo-niperti, ma il pubblico di Novara (Marisa era una miss Piemonte dell’epoca). Per Pe-dro Manfredini la colpa, o il merito, è di una foto che lo ritrae mentre scende dal-l’aereo a Roma. La scarpa, in primo piano, sembra enorme. Da lì, Piedone. Per la cro-naca, Manfredini calzava il 42.

I soprannomi o nickname spesso nascono all’interno della squadra. Si abbrevia:troppo lungo Agostino Di Bartolomei, ecco Ago e Diba, Mancini è Mancio, TassottiTasso, Moscardelli Mosca, Carrozzieri Carro o Carrozza, Cappioli Cappio, Gilardi-no Gila, così come Baloncieri, più in tinta, fu Balòn. O si va per assonanza: Butra-gueno Buitre(avvoltoio, povero ragazzo meritava di meglio), Hateley Attila, Shev-chenko Sheva (ma anche, non si sa da chi, l’usignolo di Kiev), il nome di Gattuso,Rino, diventa Ringhio. Si va sulla variante del nome: Salvatore Schillaci e AntonioDi Natale sono diventati Totò. Billy, stranamente, riguarda due difensori centralidel Milan. Il primo, Salvadore, era un fan di Billy Wright, il secondo, Costacurta, del-l’Olimpia Milano di basket, al tempo così sponsorizzata. Al nome si può aggiunge-re un Super: Superpippo Inzaghi, Supermario Balotelli (e prima Basler), Super-marco Delvecchio e Di Vaio, non Tardelli che è Gazzellino. Gazzelle invece Mumo

Il nomedel

PAOLO FERRARIO

MILAN, ANNI ’60ATTACCANTE

CIAPINA

UGO CIAPPINA ERA UN FAMOSORAPINATORE DEL DOPOGUERRA

ANTONIO TEMPESTILLI

ROMA, ANNI ’80DIFENSOREER CICORIA

PERCHÉ SOFFRIVADI INCIPIENTE CALVIZIE

ANTONIO LANGELLA

CAGLIARI, ANNI 2000ATTACCANTE

ARROGU TOTTU

“SPACCO TUTTO”IN LINGUA SARDA

GIANCARLO PASINATO

INTER, ANNI ’70 E ’80CENTROCAMPISTA

GONDRAND

COME LA DITTA DI TRASLOCHI:UNO SGOBBONE DEL CAMPO

GIUSEPPE BRUSCOLOTTI

NAPOLI, ANNI ’80DIFENSORE

PAL’E FIERRO

SOLIDO E INAMOVIBILECOME UN PALO DI FERRO

GIUSEPPE BERGOMI

INTER, ANNI ’80 E ’90DIFENSORE

ZIO

ANCHE A DICIASSETTE ANNISEMBRAVA UN VETERANO

PASQUALE BRUNO

JUVENTUS, ANNI ’80 E ’90DIFENSOREO’ ANIMALE

COME IL FEROCE KILLERCAMORRISTA PASQUALE BARRA

JAVIER HERNANDEZ

MESSICO, ANNI 2010ATTACCANTECHICHARITO

“PISELLINO”: IL PAPÀ, PICCOLOE OCCHI VERDI, ERA “PISELLO”

ARNE SELMOSSON

LAZIO, ANNI ’50ATTACCANTE

RAGGIO DI LUNA

BIONDO, GENTILE E SVEDESE:ISPIRÒ UN MUSICAL

DIEGO PABLO SIMEONE

LAZIO, ANNI ’90CENTROCAMPISTA

EL CHOLO

PARTICOLARE RAZZACANINA INCROCIATA

la RepubblicaDOMENICA 18 GENNAIO 2015 37

piede

Là dove una volta

correvano Balòn,

Veleno e Carburo,

oggi ci sono Pipita,

Pupone e Apache

In un libro tutti

i come e i perché

del calcio chiamato© RIPRODUZIONE RISERVATA

STUART PEARCE

INGHILTERRA, ANNI ’90DIFENSOREPSYCHO

COME IL FILM DI HITCHCOCK:TIRAVA COLPI CRIMINALI

Repubblica Nazionale 2015-01-18

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la RepubblicaDOMENICA 18 GENNAIO 2015 38LA DOMENICA

PAOLO RUMIZ

AVEZZANO

PRIMA TI ARRIVA LA MORSA DI UN GELO TREMENDO, seguita da una tra-montana affilata, rabbiosa. Poi, dopo tre giorni, la neve. Un tur-binio leggero e senza vento, sui rilievi dolci della Marsica, il Veli-no e i Simbruini. E ora, una Luna immensa color ghiaccio, che sbu-ca dai monti del parco nazionale d’Abruzzo e versa una luce li-quida sulla Val Roveto. «Stanotte è un navigare a vista larga» sus-surra Bianca Mollicone da Balsorano, facendomi strada tra unmonte di rovine incrostate di brina. Non c’è anima viva in cima alcolle. Si potrebbe gridare, e invece no. Si parla sempre a bassa vo-ce nei luoghi della distruzione e anche noi si cammina in silenzio.Sappiamo che il nostro è un viaggio nel tempo, non nello spazio.Il sentiero costeggia il cimitero, segue l’ex strada principale, con-

torna un muro transennato. Poi è l’ombradel campanile e, subito fuori, la spianata sul-la dorsale, con le luci da presepe di Civitad’Antino sull’altro lato della valle. Liberatadopo cent’anni dalla boscaglia che l’ha in-vasa, Morino vecchia va come un traghettoalla deriva. Il suo ponte di comando è abita-to solo da fantasmi. Visto da lì, l’Appenninolievita, svela un rollio lungo, oceanico.

Senza le rovine, nulla, in questo plenilu-nio, ti avvertirebbe che i monti navigantidella Marsica, allineati nella loro rotta a Nor-dovest, sono pervasi da spinte tremende ecrivellati di spaventose cicatrici. E nulla, in

questo saliscendi così diverso dalle scarpatealpine, direbbe che proprio qui intorno, alle7.52 del 13 gennaio 1915, quattro mesi pri-ma dell’ingresso in guerra dell’Italia, la Be-stia ha ruggito così forte da portarsi via tren-tacinquemila anime in trenta secondi, unascossa lunga come un Paternoster e forte do-dici volte quella dell’Aquila 2009. La diffe-renza fra una cannonata e uno starnuto.

Ma basta salire di poco sul monte per ri-costruire la topografia della devastazione.A Nord l’epicentro, segnalato da una palli-

da luminescenza di neve: la bonifica del Fu-cino, con la terra ancora ferita, fratturata ogonfia, che quel giorno vide emergere dalnulla una scarpata di due metri. Sulla sini-stra, le luci di Avezzano, rinata da un’eca-tombe di novemila morti su dodicimila abi-tanti, una percentuale pazzesca. Intorno, lacostellazione delle rovine: Celano, Aielli,Pescina, dove Ingazio Silone perse i genito-ri. E poi Trasacco, Alba Fucens, San Bene-detto, Gioia dei Marsi con Sperone e, piùlontano, Frattura, nome che parla da solo.Monconi di torri, muraglie sbrecciate, ru-deri di campanili tenuti insieme da rampi-canti. Su tutto, la mole bianca e lunare delSirente, con vista grande sui due mari.

Per chi viene da Sora, Morino vecchia èsolo l’antifona dell’Apocalisse, uno fra i tan-ti villaggi-fantasma mangiati dalla vegeta-zione dopo il sisma, ciascuno con alla base ilsuo doppio, il paese nuovo, accucciato comeun cane fedele ai piedi del padrone. Ma Mo-rino è anche la prima città morta della Mar-sica a essere stata ripulita e resa percorri-bile per sentieri pedonali. Sopra la vecchiaBalsorano furono piantati ulivi e sotto quelGetsemani nulla è più visibile. Qui no: toltigli arbusti, tutto è riapparso al suo posto,l’orologio fermo a quel gennaio. Con la lucedel giorno, negli squarci dei muri sarebbe-ro visibili travi, pezzi di mobilio, stoviglie. Isegni della vita interrotta, come nel castel-lo della Bella addormentata.

«Questa potrebbe essere L’Aquila fracent’anni» sospira Bianca come spaventa-ta da una fatamorgana, e mostra col dito ilpercorso della faglia che, sul filo del fondo-valle, s’aggroviglia ai piloni della super-strada, al fiume, la ferrovia e la Statale perAvezzano. «Io la sento la voce della Terra...Mi incute rispetto, mi insegna il senso del li-mite. Da piccola ho succhiato latte maternoe paura, con i racconti dei vecchi. È grazie aquella paura che negli anni Cinquanta mio

L’anniversario. Storie d’Italia

Il terremotodimenticato

Alle 7.52 del 13gennaio 1915

una scossa terribile devastava

la Marsica, in Abruzzo.Paolo Rumiz

è andato sui luoghi di una tragedia

da cui non abbiamo imparato nulla

Repubblica Nazionale 2015-01-18

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la RepubblicaDOMENICA 18 GENNAIO 2015 39

padre, per costruire la nostra casa, ha sa-puto scegliere il luogo più sicuro, su un roc-cione in riva al Liri».

Mimina Tullio, pure lei di Balsorano, hafatto a tempo a trascrivere cosa le dissenonno Giovanni. «“Faceva freddo quellamattina” e lui era andato con compare Vin-cenzo a tagliare una quercia per far legnada ardere. “All’improvviso fu un forte boa-to, come un vento fortissimo, che squar-ciava e sbatacchiava tutta la valle”. Ma dadove è uscito tutto questo vento, chieseVincenzo; al che nonno, gettata l’ascia e lasega, gridò: “Vincè, è i’ terramuto! Reggitiforte! Aggrappati all’albero!”». Ambedueabbracciarono il tronco e rimasero fermi“in attesa che il mostro si calmasse”, ma ilboato durò un’eternità. Tutta la monta-gna rimbombava. Quando tornò il silen-zio, il primo pensiero fu per il paese. I duecorsero col cuore in gola, ma solo per tro-vare “un cumulo di macerie fumanti da cuiprovenivano grida e invocazioni”. Giovan-ni perse due figli, li tirò fuori a mani nude,li stese sulla nuda terra; poi, a distanza digiorni, con l’aiuto dei soldati, estrasse lamoglie più morta che viva. Poi fece in tem-po a fare altri tre figli con lei.

«A differenza del sisma del 2009 all’Aqui-la, nel 1915 l’economia del territorio non fudistrutta. Anche se di lì a poche settimanetutti i maschi validi partirono per il fronte, lavita continuò. L’Italia era ancora un Paeseagricolo, e la gente aveva un’altra tempra».Ad Avezzano, Sergio Natalia coordina glieventi del centenario e ci tiene a non ricor-dare solo un fatto storico del passato, ma an-che a riannodare i fili di un’identità spezza-ta dal terremoto per narrare all’Italia (e for-se ai marsicani stessi) l’identità di un popo-lo fiero e lavoratore.

All’Aquila abita lo storico Raffaele Cola-pietra, 84 anni, che nel 2009 si rifiutò di ab-bandonare la sua casa nel centro storico, do-

ve abita tuttora, solo nel deserto della vitaurbana. Oggi più di ieri, Colapietra gridache la vera differenza fra i due terremoti stanel risultato sociale. «Nel 1915 Giolitti haspinto la gente a restare. Nel 2009, invece,c’era un presidente del consiglio, Berlusco-ni, che ha incitato la gente a fuggire perchédoveva costruire un monumento a se stes-so». Risultato: con trentacinquemila morti,Avezzano è stata ricostruita dov’era, men-tre con trecento morti, di cui la metà fuoricittà, L’Aquila è stata trasportata altrove eil tessuto sociale si è irrimediabilmente rot-to. «Non si è mai vista una cosa del genere.Per secoli in Abruzzo la gente è sempre tor-nata, magari ricostruendo un po’ più in là.È successo anche nel 1349 e nel 1703, chefurono catastrofi epocali. Al disastro del1915, pur fra tanti difetti, si reagì col mas-simo di compattezza e solidarietà sociale. Il2009 è invece lo specchio di un’Italia di-sgregata». Mostra le vie deserte della suacittà e ghigna: «Oggi, tornando dal risto-rante, ho incontrato solo due persone perstrada. L’unica vita è quella del cantiere».Te ne vai con quel deserto negli occhi e pen-si: il vero villaggio fantasma non è Morino,Sperone o Frattura. È l’Aquila.

Ma pur con le dovute differenze, anchedietro al terremoto di Avezzano comparel’Italia dei furbi. Il sisma, si sa, è il più effi-ciente collaudatore della nostra capacità oincapacità di costruire, e non ci vuole mol-to a capire che quello del 1915 ad Avezza-no ha fatto semplicemente giustizia di uncentro cresciuto troppo in fretta (da tre-mila a dodicimila abitanti in pochi anni)per via dei lavori di bonifica del Fucino vo-luta dalla famiglia Torlonia. Un’esplosionedemografica che si era portata dietroun’urbanizzazione selvaggia, con mate-riali edili pessimi e l’ampliamento del pae-se verso terreni sabbiosi più instabili. Il si-sma fu forte quasi come a Messina; gli

mancò solo l’onda di ritorno del maremoto.Una scossa di sette gradi della scala Rich-ter, spiega il sismologo triestino Livio Siro-vich, è più forte della gravità. Può buttartigiù e addirittura staccarti da terra. Con i6.3 gradi registrati nel terremoto aquila-no, invece, si fatica semplicemente a reg-gersi in piedi. Di dimensioni apocalittiche,dunque, l’evento del 1915 nella Marsica.Eppure, narra Silone con rabbia, il peggiodel peggio fu dopo, quando i soliti racco-mandati si appropriarono degli aiuti e la-sciarono ai bisognosi solo le briciole. In cer-ti casi si arrivò a scavare più in fretta per lecasseforti delle banche che per i sepolti vi-vi, e lo scrittore abruzzese volle dar voce al-la rabbia di un popolo che aveva sopporta-to tutto — la distruzione, il freddo, la neve,la lentezza degli aiuti, le interminabiliscosse di assestamento, la vita nelle tende,la leva in massa, la guerra, la morte o la pri-gionia dei suoi cari — ma non la calamitàdell’ingiustizia. Il terremoto, almeno, erastato un evento egualitario, aveva colpitoricchi e poveri. La ricostruzione targata Ita-lia ripristinava invece vecchie disugua-glianze, coprendole anche di omertà.

Oggi si aprono nuovi sentieri nella panciainquieta dell’Appennino, e c’è chi preparaanche dei trekking tra i villaggi abbandona-ti del terremoto. Ma la vecchia Marsica ba-gnata dalla Luna di gennaio e battuta dai lu-pi, oggi è meta anche di altri pellegrinaggidell’anima. Inglesi, americani o neozelan-desi alla ricerca dei loro padri o nonni prigio-nieri, soldati che dopo l’8 settembre furononascosti ai nazifascisti e protetti su questestesse montagne. Cinquemila ne sfamaronoi miseri contadini nella sola Monrea, paesedi appena cinquecento anime che subì pe-santi ritorsioni per mano tedesca. Di nuovouna bella Italia, fiera e solidale, cresciuta apane, formaggio e terremoti.

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IGNAZIO SILONEDA “LE FIGARO LITTÉRAIRE”,

29 GENNAIO 1955

I soffitti s’aprivano.

In mezzo

alla nebbia

si vedevano

ragazzi che, senza

dire una parola,

si dirigevano

verso le finestre.

Tutto è durato

venti secondi,

al massimo trenta.

Quando la nebbia

di gesso

si è dissipata, c’era

davanti a noi

un mondo nuovo...

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la RepubblicaDOMENICA 18 GENNAIO 2015 40LA DOMENICA

ANTONIO MONDA

NEW YORK

A CONSACRAZIONE DI UNA STAR HOLLYWOODIANA segue costantementedue percorsi complementari: la strada di chi si afferma nel cinemamainstream e poi cerca una consacrazione in quello di qualità, equella di chi invece parte nel cinema arthouse e percorre quindi ilcammino inverso, tentando di sfondare nei film di grande budget.La serie Twilight ha generato due esempi del primo caso: RobertPattinson è stato poi consacrato da David Cronenberg con l’adatta-mento di Cosmopolisdi Don De Lillo, mentre Kristen Stewart da Oli-vier Assayas in Sils Maria. Alla seconda categoria appartengono in-vece Jessica Chastain, scoperta ne L’albero della vita da TerrenceMalick e poi protagonista in molti film dalla grana meno nobile; eShailene Woodley, lanciata da Alexander Payne in Paradiso Perdu-

to e quindi star di Divergent o Colpa delle stelle. C’è anche chi intreccia costantemente ledue strade: Jennifer Lawrence si è messa in luce con Un gelido inverno, è divenuta popola-rissima con la serie Hunger Games, ed è approdata quindi al cinema di David O’Russell, cherappresenta una sintesi esemplare tra i due poli.

Chi conosce Hollywood sa che il talento rappresenta soltanto un elemento di questo per-corso, ciò che conta è la capacità di sedurre il pubblico e creare un’immagine che dia allo spet-tatore un’illusione di dialogo e condivisione, mantenendo tuttavia un’assoluta inarrivabi-lità: caratteristiche che costituiscono l’essenza del divismo. I grandi produttori e gli agentiriconoscono perfettamente i talenti degli artisti, a volte anticipando il gusto del pubblico, avolte seguendo un’esplosione che avviene inaspettatamente. E sanno che ciò che distingueuna superstar da una semplice star è la capacità di conquistare sia il pubblico maschile chefemminile: nel recente passato è stato il caso di Harrison Ford, Julia Roberts e Meryl Streep.

Ogni anno Hollywood stila le liste delle star del domani sulla base del talento, la cosiddettabankability, e le pressioni degli agenti e de-gli addetti stampa. Ovviamente non tutte leprevisioni vengono rispettate (una classifi-ca del 2001 invitava a scommettere su Estel-la Warren, che finora non ha mantenuto leaspettative generate con Il pianeta dellescimmie), tuttavia si tratta di un indicatorefondamentale per comprendere i gusti delmomento e gli investimenti in atto. Un no-me oggi molto in voga è quello di Scott Haze,protagonista di Child of God, adattamentodel romanzo di Cormac McCarthy diretto daJames Franco, che lo ha già richiamato a in-terpretare un remake di Uomini e Topi eBukowski. Haze dice di prediligere il cinemad’autore e rivendica un retroterra teatrale,ma ha già imparato a cimentarsi nei generi:tra i prossimi impegni il film di fantascienzaMidnight Special. Sono in molti a scommet-tere anche su Douglas Booth, che si è messo

INGLESE, 24 ANNI. ALTERNA FILM D’AUTORE (È STATOJOHN LENNON IN “NOWHERE BOY”)AD ACTION MOVIE IN ATTESADI CONSACRAZIONE

Spettacoli. American dream

Vi dicono nulla i nomi di Theo James

Douglas Booth o Imogen Poots?

Probabilmente non molto. Per adesso

Saranno

4 Aaron Johnson

NATO IN GUATEMALA 35ANNI FA, PROTAGONISTA DI “A PROPOSITO DI DAVIS” DEI COEN, SARÀ NEL PROSSIMO “STAR WARS”

TEXANO, SCRITTORE E REGISTAOFF BROADWAY, SCELTO DA JAMES FRANCO PER “CHILD OF GOD”, A VENEZIA NEL 2013 E “BUKOWSKI” USCITO NEL 2014

INGLESE, 25 ANNI, HA ESORDITO NEL 2006IN “V PER VENDETTA”. SARÀ ORAPROTAGONISTA DEI FILMDI MALICK E BOGDANOVICH

1 Imogen Poots

famosissimi

L

4

3

2

1

2 Scott Haze

3 Oscar Isaac

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GABRIELE MUCCINO

L TALENTO È COME UNA BREZZA che si leva all’improvviso,senza ragione. A volte diventa un vento robusto, altrevolte si dilegua all’improvviso. Il talento artistico, poi,è la capacità di creare col proprio corpo, la propriapresenza, il proprio istinto qualcosa che si staglia oltre

la media e per qualche motivo trascina un’empatia,un’attrazione, una immedesimazione, un desideriosotterraneo e crescente di emulazione da parte di chi nefruisce.Io non sono un musicista, né un pittore. Il mio talento cercodi coltivarlo ed esprimerlo unicamente nell’arte chequalcuno ha definito la più letteraria di tutte, quella delcinema. E quando questo spettacolo raggiunge fortementei suoi spettatori nelle pieghe delle loro anime fino asegnarle a volte per sempre, avviene il miracolo delsuccesso. Cos’è dunque quella magìa che cattural’immaginario, i sogni, le paure, le emozioni di platee tantovariegate? E parlo non a caso di magìa poiché il cinema,nonostante sia un’arte industriale, non è riuscito,nonostante gli infiniti tentativi, a trovare un meccanismo,una formula che produca e riproduca come inossidabile,inattaccabile, meccanicamente testabile, l’agognatosuccesso di un’opera. Quando scelgo gli attori per i miei film, ho bisogno diriconoscere i miei difetti, i miei limiti, le mie zone grigie inloro. La perfezione fisica e il controllo della mente sul corpo,da parte degli attori, sono nemici del cinema. I visi delle stardevono essere afferrabili al primo colpo d’occhio. Se sonotroppo sofisticati, la macchina da presa non li ama. Avvertefreddezza ed estraneità. Se sono troppo belli, li confondecon i belli che al mondo sono infinitamente di più di quellidotati del talento per fare cinema. Cosa occorre a un attoreper incontrare la luce della ribalta è la straordinarietà dellanormalità. Gli attori che ricordiamo come le più grandiicone sono rincuoranti a prima vista e la loro recitazione èsemplice, vera, fragile e ci appaiono familiari da subito. Eanche se impersonano cattivi, devono essere cattivi inmodo semplice e diabolicamente affascinante. Le star perdiventare star non cercano di imitare la vita, ma diventanovita. Meryl Streep è un volto senza tempo e imperfetto, è unvolto che racconta una storia, che trasmette sincerità. Cosa distingue un grande attore da una star è la luce cheemana e non può controllare. L’alchimia che si crea intornoalla realizzazione di un film è imprevedibile. Trasforma unbellissimo film in un tonfo, decreta il successo di un filmmediocre o riconosce il capolavoro per quello cherealmente è. Ci sarà chi avrà successo e chi invece finirà inbancarotta, come tanti studios e guru hollywoodiani chepensavano di avere troppe verità in tasca hannotestimoniato. Attori inseguiti da paghe esorbitanti eadorati da folle in delirio sono stati dimenticatiimprovvisamente mentre altri resteranno nell’Olimpo dellecelebrità per sempre. Eppure a moltissimi di quegli attoriche non ce la fanno, non manca nulla. In pochissimi sonoriusciti davvero a predire, provinando un bravissimoattore, se sarebbe diventato o meno un’autentica starpiuttosto che una stella cadente. Quando vengonoprovinati sembrano avere anche loro tutti i numeri. Manonostante abbiano grandissimo talento, una volta sulloschermo scompaiono. E non perché non abbiano avuto itanto bramati primi piani. Non c’è primissimo piano chedecreti il successo di un attore. Quando non sono portatoridi quella magìa, vengono semplicemente oscurati dalla loromancanza di presenza cinematografica, o di luce, che nonsaprei come altro descrivere. C’è una presenza che sirichiede nella moda, una nella vita e una molto piùinafferrabile anche per chi come me fa questo mestiere, nelcapire chi diventerà una star e chi invece resterà solo unbravo attore. Questa essenza viene catturata dagli occhivergini e vigili degli spettatori. E la luna di miele traspettatore e movie star sarà più o meno lunga a secondadelle scelte artistiche che la stella farà, a volte addirittura aseconda della gestione della sua vita privata. Che diventa,per definizione, pubblica.

la RepubblicaDOMENICA 18 GENNAIO 2015 41

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in luce in uno dei ruoli più ambiti di tutti itempi: Romeo nella versione diretta recen-temente da Carlo Carlei. Inglese di nascita,dopo aver lavorato a fianco di Russell Crowein Noè sta preparando Jupiter — Il destinodell’universo e una delle più incredibili va-riazioni da Jane Austen: Orgoglio, pregiudi-zio e zombi.

Questa generazione nata negli anni No-vanta accentua due tendenze diffuse: l’e-cletticità e l’ironia che sconfina nel totale di-sincanto. È il caso anche di Imogen Poots: an-che lei inglese, ha interpretato piccoli ruoli

in film come V per Vendetta o Quel mo-mento imbarazzanteprima di diventareprotagonista con Peter Bogdanovich inTutto può accadere a Broadway (in Ita-lia da aprile) e con Malick in Knight ofCups (verrà presentato in febbraio aBerlino). Queste esperienze nel cinema

d’autore non le hanno fatto disdegnare unapartecipazione a Need for Speed, tratto daun videogioco. Appartiene invece all’aristo-crazia hollywoodiana Scott Eastwood, lan-ciato dal padre Clint in Gran Torino. In Furyrecita a fianco di un sex symbol della gene-razione precedente come Brad Pitt e di un al-tro consacrato solo pochi anni fa, Shia La-Beouf: una scommessa che può segnare laconsacrazione o l’oblio.

Tra i volti che si stanno affacciando sullaribalta c’è poi chi preferisce non uscire dalsentiero dei blockbuster: Henry Cavill, cheda ragazzino recitava Shakespeare, è il nuo-vo volto di Superman ne L’uomo d’acciaio.Ha firmato contratti ricchissimi per i pros-simi cinque anni, e per il momento non si ve-dono tracce di film d’autore: dopo tre nuoviepisodi nei panni del supereroe lo vedremonella versione cinematografica della serietelevisiva The Man from U.N.C.L.E. Più va-rio il percorso di Aaron Johnson: si era mes-so in luce interpretando John Lennon, ha di-mostrato di poter essere un action moviehero in Kick-Ass, ma poi ha interpretatoVronskij in Anna Karenina accanto a KeiraKnightley. Non molto diverso l’itinerario diOscar Isaac: dopo essere stato trascuratodagli Oscar in A proposito di Davis, si è con-solato con il nuovo episodio di Guerre Stel-larie ha interpretato da protagonista A Mo-st Violent Year, il nuovo film del regista gio-vane più celebrato del momento, J.C. Chan-dor. Un ennesimo esempio di attore partitodal cinema d’autore che ha cercato il suc-cesso commerciale è un altro inglese comeTheo James. Dopo aver lavorato con WoodyAllen inIncontrerai l’uomo dei tuoi sognihainterpretato film d’azione e di fantascien-za, ascoltando tuttavia sempre il richiamodella qualità: ha voluto fortissimamentepartecipare all’adattamento di LondonFieldsdi Martin Amis. Accanto a lui JohnnyDepp, che è stato tra i primi, venti anni fa, acomprendere come sia salutare spaziarenei generi e mescolare il cinema d’autorecon quello commerciale.

L’attore perfettoè quello che hai miei stessi difetti

LASSÙ,FRA TUTTEQUELLE LUCI,

C’ERA IL MIO NOME.DIO, QUALCUNODEV’ESSERSISBAGLIATO,MI DISSI.

EPPURE ERA

DAVVERO LÀ,

TUTTO ILLUMINATO.

ALLORA MI SEDETTI

E MI DISSI:

RICORDATI,

NON SEI

UNA STELLA.

MA IL MIO NOME

ERA PROPRIO LASSÙ,

IN PIENA LUCE

Hollywood ha appena annunciato

i candidati agli Oscar del 2015

Ecco come sta costruendo i prossimi

MARILYN MONROE

SU RTV-LAEFFE

IN REPTV NEWS (ORE 19.45, CANALE 50 DEL DIGITALE E 139 DI SKY) IL VIDEORACCONTO DI GABRIELE MUCCINO

I

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7

8

INGLESE, 31 ANNI. È STATO L’ULTIMO SUPERMAN. SECONDO MOLTI SARÀ LUI LA PROSSIMA STAR DEI FILM D’AZIONE

INGLESE, 30 ANNI. LAUREATO IN FILOSOFIA, MOLTA TV IN PATRIA,PROTAGONISTA IN “DIVERGENT” DI CUI USCIRÀ ORA IL SEQUEL

5 Henry Cavill

CALIFORNIANO, 28 ANNI, FIGLIO DI CLINT, DOPO MOLTIRUOLI MINORI A PARTIRE DA “GRANTORINO” SARÀ PROTAGONISTA DI “THE LONGEST RIDE”

7 Scott Eastwood

INGLESE, 22 ANNI. LANCIATO NEI PANNI DI ROMEO DA CARLEI, SARÀ NEL KOLOSSALFANTASCIENTIFICO “JUPITER”

6 Douglas Booth

8 Theo James

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FRANCESCA DE BENEDETTI

UL CAMINETTO DI CASA INTERNET C’È UNA FOTO DI FAMIGLIA. Con un uomo, TimBerners-Lee, che di internet è il padre. E accanto a lui, in cammino tra lestrade innevate del New Hampshire, Lawrence Lessig. Accademico dispicco, Lessig insegna legge all’università di Harvard, dove dirige l’Ed-mond J. Safra Center for Ethics, mentre a Stanford ha creato il Centerfor Internet and Society. Ma, per il mondo, Lawrence Lessig è innanzi-tutto il fondatore delle licenze Creative Commons, l’intellettuale della“Free culture” (da cui il titolo di uno dei suoi libri più famosi), l’avvoca-to che si è speso perché la Rete realizzasse un’opportunità di democra-tizzazione della conoscenza e di produzione creativa. Nella foto di fa-miglia non si vede, ma è come se ci fosse, Aaron Swartz, il “genio” dellaRete, l’attivista per la conoscenza libera, morto suicida proprio due an-

ni fa, l’11 gennaio 2013. Collaborò con Lessig ai Creative Commons quando era appena adole-scente, e il professore non ha dubbi: è anche per la combattività che gli ha trasmesso quel ra-gazzo che lui, a cinquantatré anni, con un passato da giovane repubblicano alle spalle, si è mes-so in testa che il mondo bisogna provare a cambiarlo alla radice. Gli ha dedicato la sua “marciaribelle” contro la corruzione, la “NHRebellion”. Già, perché negli ultimi anni il professore staconcentrando la sua battaglia soprattutto contro il sistema dei “Pac” (Political action commit-tee), finanziamenti privati che condizionano la politica americana.

Professor Lessig, da quel 2001 in cui lei fondò Creative Commons la cultura digitale è di-

ventata più aperta e democratica oppure no?

«Devo dire che il movimento a difesa della conoscenza aperta è maturato molto, raggiun-gendo vittorie impensabili prima. Un esempio? Proprio Grazie a Aaron Swartz siamo riusciti afermare Sopa (Stop Online Piracy Act: la proposta di legge per irrigidire la normativa sul copy-right, ndr). Ma la politica subisce ancora troppe pressioni, ed è per questo motivo che vedo co-me prioritaria in questo momento la lotta contro la corruzione. Semmai la cultura politica, quel-la sì, è sicuramente cambiata e i progressi nella direzione di una cultura più libera sono evidenti.I giovani hanno raccolto l’opportunità dirompente che la tecnologia offriva loro. Opportunitàdi creare, di essere coinvolti, di partecipare».

Intanto però è la tecnologia che non smette di cambiare noi e il nostro modo di vivere. L’”in-

ternet delle cose”, l’iperconnessione, la raccolta e l’analisi massiccia di dati: nuove sfide non

richiedono nuove regole?

«La sfida è trasformare un mondo con regolefolli in uno con leggi ragionevoli. Perché la solu-zione non è una Rete sregolata, ma regolata daleggi che tengano conto dell’impatto di una tec-nologia in continua evoluzione sulla società. Ilmercato va mantenuto aperto e competitivo.Solo così possiamo assicurarci che la tecnologianon diventi uno strumento per mettere a ri-schio e minare i fondamenti sociali e democra-tici che le leggi stesse dovrebbero tutelare».

Ai tempi dei Creative Commons lei denunciò

“La Rete non deve essere selvaggia. Abbiamo bisogno

di leggi. Basta che siano ragionevoli”. Il padre dei Creative

Commons indica la via democratica a internet

S

L’ALBERO

È STATO DISEGNATO PER CREATIVE COMMONS DA FRITS AHLEFELDT-LAURVIG(HIKINGARTIST.COM)

CREATIVE COMMONS

MENTRE IL COPYRIGHT © REGOLA IL DIRITTO D’AUTORE CON LA FORMULA “TUTTI I DIRITTI RISERVATI” (ALL RIGHTS RESERVED), LE LICENZE CREATIVE COMMONS (CC)PREVEDONO PER GLI AUTORI LA POSSIBILITÀ DI RISERVARE SOLO ALCUNI DIRITTI(SOME RIGHTS RESERVED). PER ESEMPIO, SI PUÒ SCEGLIERE DI RENDERELIBERAMENTE FRUIBILE LA PROPRIA OPERA MA NON A SCOPI COMMERCIALI

READ ONLY VS READ&WRITE

LA CULTURA “READ ONLY” PREVEDE UNA FRUIZIONE PASSIVA DELL’OPERAINTELLETTUALE, CHE SI PUÒ “SOLTANTO LEGGERE”. LA CULTURA “READ&WRITE” È LA CULTURA DELLA CREATIVITÀ AMATORIALE, CONSENTE UN RUOLO ATTIVO DEL FRUITORE, L’OPERA È ANCHE MODIFICABILE. LA CULTURA DEL “REMIX” È LA CULTURA IBRIDA, IL COLLAGE APPLICATO ALLA TECNOLOGIA MULTIMEDIALE

“Ma ci vogliono nuove regole”Intervista a Lawrence Lessig

sonodi tutti

I fruttidel web

“I GIOVANIHANNO

RACCOLTO LA SFIDA

CHE LATECNOLOGIA

OFFRIVALORO:

QUELLA DI CREARE,

ESSERECOINVOLTI,

PARTECIPARE”

Repubblica Nazionale 2015-01-18

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la RepubblicaDOMENICA 18 GENNAIO 2015 43

Docente a Harvard, avvocato, ha dedicato la sua marcia

contro la corruzione al giovanissimo Aaron Swartz,

il genio ribelle morto suicida due anni fa

che l’accesso alla cultura era condizionato

da poteri privati e leggi inadeguate. La di-

fesa a oltranza della proprietà intellettua-

le avrebbe impedito di cogliere appieno le

opportunità della Rete. Ma ora sul copyri-

ght si gioca anche uno scontro tra industrie

culturali di vecchia e nuova generazione,

come nel caso di Google News. La Silicon

Valley di Google e di Facebook è amica,

nemica oppure falsa amica della cultu-

ra libera?

«Finché cerca di garantire ampio ac-cesso alla conoscenza, possiamo anchedefinirla amica. Ma Google e Facebook so-

no pur sempre aziende. Se fare soldi li por-terà altrove, non avranno alcun interesse a

garantire la cultura libera. Per tutelare lalibertà dobbiamo rimanere vigili. L’om-bra del monopolio c’è ed è significativa,in termini economici ma anche politici:i monopoli influenzano le decisioni po-litiche. Un mercato competitivo è fon-damentale».

Le corporation da una parte, i go-

verni con la sorveglianza di massa

dall’altra: da entrambi i fronti la

nostra privacy sembra minac-

ciata. Lei crede che i valori

democratici siano a rischio

per un eccessivo controllo

della Rete, oppure no?

«Uno degli sviluppi piùpreoccupanti degli ultimi dieci

anni è proprio questo. Guardia-mo cosa è successo in America:col terrorismo e il diffondersidel panico il governo ha com-promesso e indebolito le strut-

ture portanti della Rete e il ri-sultato paradossale è che così fa-

cendo l’ha fatta diventaremeno sicura. In altre paroleciò che consente al gover-no di sorvegliare massic-ciamente ha anche reso

più facili gli attacchi cinesi e nordcoreani. Conla giustificazione della lotta al terrore, il go-verno ha imbastito un sistema di sorveglian-za impensabile prima, facilitando un control-lo estremo. Difficile tornare indietro, ma ne-cessario: la sicurezza non può comprometterela privacy e i diritti fondamentali».

Obama ha preso posizione per la “net neu-

trality”, cioè perché internet rimanga

uguale per tutti e non diventi una Rete a

due velocità che discrimina tra ricchi e me-

no ricchi. Fa bene il governo a intervenire?

«Sì, deve intervenire. Quella della “libertàselvaggia” è un’illusione. Perché internet ri-manga davvero aperto e consenta la concor-renza è necessaria un’azione di governo. Lascelta di Obama è incoraggiante, vedremo co-sa succederà a febbraio quando anche la Fcc(la Commissione governativa sulle comunica-zioni, ndr) voterà, ma i segnali sono positivi».

L’europarlamentare del Partito Pirata, Ju-

lia Reda, incaricata di elaborare il testo

della futura riforma europea del copyri-

ght, proprio dopodomani presenterà la

sua bozza. Su questo tema, secondo lei, la

direzione che sta prendendo il Vecchio

continente è quella giusta?

«Il dibattito europeo è molto incoraggiante.Il Partito Pirata e il parlamento Ue stanno svol-gendo un ruolo importantissimo nell’aprire enello strutturare la discussione sul copyright,oltre che nell’arginare i monopoli. In Americaquesto non è avvenuto, mancano nelle istitu-zioni gruppi così strutturati che cerchino di li-mitare il potere dei colossi. Avete una grandeopportunità. Allo stesso tempo però anchel’industria culturale in Europa, e in particola-re in Francia, è estremamente potente: condi-ziona il modo in cui la legge si evolverà, tendea difendere rigidamente princìpi pensati nelsecolo scorso. La vera sfida invece è pensare al-le regole del futuro in termini evolutivi, proiet-tandosi nel mondo che sarà. Sono speranzosoche in Europa coglierete questa sfida».

© RIPRODUZIONE RISERVATA

CULTURA LIBERA

DAL CONTRASTO TRA UNA NORMATIVA SUL COPYRIGHT PENSATA PER LA CULTURA“READ ONLY” E UNA TECNOLOGIA CHE FAVORISCE LA CREATIVITÀ “READ&WRITE”NASCE L’IMPORTANZA DEI “CC”: È LA TERZA VIA TRA IL CONTROLLO RIGIDO E L’ANARCHIA. LA CREATIVITÀ È UN BENE PUBBLICO COSÌ COME LE OPERE CREATIVE:LESSIG CONGEGNA LE “CC” PER FAVORIRE UNA CULTURA ACCESSIBILE E IBRIDA

NET NEUTRALITY

L’ESPRESSIONE “NEUTRALITÀ DELLA RETE”, RESA POPOLARE DA TIM WU(PROFESSORE DI DIRITTO DELLA COLUMBIA), FA RIFERIMENTO A INTERNET COME L’ABBIAMO CONOSCIUTO FINORA, CIOÈ SENZA DISCRIMINAZIONI E CORSIE PREFERENZIALI NEL MODO IN CUI I CONTENUTI CI ARRIVANO.L’ALTERNATIVA È UNA RETE A DUE VELOCITÀ

LICENZE CHE NON PREVEDONORESTRIZIONI A USI E ADATTAMENTI COMMERCIALI NEL 2010 E NEL 2014

NUMERO DI OPEREREGISTRATE CON LICENZECREATIVE COMMONS

milioni di dollariLA SOMMA CHE GLI STUDENTI HANNO RISPARMIATO NEI PAESI CHE HANNO FAVORITO I LIBRI DI TESTO CON LICENZE CC

Licenze Creative Commons Licenze libere

100FONTE: RAPPORTO “STATE OF THE COMMONS” 2014

Repubblica Nazionale 2015-01-18

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la RepubblicaDOMENICA 18 GENNAIO 2015 44LA DOMENICA

L’appuntamento

Si svolge a Forlì il 23 gennaiol’edizione numero dodici

di “Sapeur”, la fiera dedicata ai prodotti tipici italiani

di qualità. Regione ospite quest’anno le Marche

con il meglio della gastronomialocale, dai tartufi di Acqualagna

alle olive ascolane

La mostra

Ruota intorno alla figura e al lavoro di Luigi Veronelli,l’uomo che ha ridato valore

alla cultura contadina e cambiato la storia del vino

in Italia, la mostra “Camminarela terra”, da martedì 20 gennaio

alla Triennale di Milano, con ingresso libero

Il libro

Aggiornato a fine dicembre,torna il libreria “L’Orto Sinergico.

Guida per ortolani in erba alla riscoperta dei doni

della terra”, scritto da MarinaFerrara per Età dell’Acquario

Edizioni: viaggio tra biodiversità,decrescita, consumo critico

e buone pratiche dell’orto

CONTRO I GUSTISCIALBI

E STANDARD,SONO SEMPRE PIÙ

I RISTORANTID’ALTO LIVELLOCHE COLTIVANO

IN PROPRIOPOMODORI,

MELANZANEE ALTRE DELIZIE

LICIA GRANELLO

ONCETTA SIEDE ACCANTO AL TAVOLO, stacca le cime dai ri-gogliosi broccoli di Natale e le ammassa via via in unagrossa insalatiera”. Raccontando il cenone a casa Cu-piello, Eduardo De Filippo non può prescindere dagliortaggi invernali che abitano da secoli il menù natali-zio di Napoli e dintorni.

Sarà leggendo le tante ricette disseminate da De Fi-lippo nei suoi testi teatrali che la famiglia Iaccarino siè ispirata per trasformare Punta Campanella, una ge-nerosa fetta di collina affacciata sul promontorio tra igolfi di Napoli e Salerno, nel più incredibile orto bio-logico dell’alta ristorazione italiana. Quella del Don

Alfonso, due stelle Michelin a Sant’Agata sui Due Golfi, Napoli, è un esemplare case history sulrapporto tra chef e mondo vegetale, diventato una specie di mantra gastronomico.

Una coppia di sposi, il sogno di realizzare un ristorante-simbolo della cucina di territorio, il re-galo di nozze più ambito — una casa di proprietà — barattato per un pezzo di terra, tra la dispera-zione dei famigliari. Erano gli anni Settanta, e nei mercati gli anticrittogamici venivano vendutia etti sulle bancarelle dei mercati, insieme a scope, attaccapanni e spazzole. Accattivanti polveri-ne rosa da spargere senza troppo curarsi delle grammature. La coscienza del rischio sarebbe ar-rivata solo molti anni dopo, insieme al dilagaredelle malattie degenerative e alla perdita di fer-tilità della terra.

Quarant’anni dopo, l’intuizione visionariadegli Iaccarino è una moda contagiosa, tracuochi che vantano prodigiose produzioni or-ticole e stuoli di commis convertiti alla seminadi pianticelle rare e speciali. In realtà, la storiadella cucina italiana è solidamente ancorataalla coltivazione in proprio. La regina dellecuoche italiane, la tristellata mantovana Na-dia Santini, ricorda di quando bambina suamadre le affidava il compito di controllare lamaturazione di zucche e verze. Una confiden-za con le buone pratiche dell’orto, che signifi-cava sapere dove come e quando seminare eraccogliere. Un rapporto stretto e preziosoche garantiva freschezza e continuità negliapprovvigionamenti.

La standardizzazione della cucina, l’impove-rimento in quantità e qualità dei mercati rio-nali, lo svilimento del ruolo socio-economico deicontadini hanno ridotto ai minimi termini il fee-ling tra ristoranti e coltivatori, facendo scivola-

re la responsabilità nelle mani di grossisti e di-stributori. Risultato: verdure scialbe, sapori in-certi, ricette forzate a colpi di glutammato efondi di cottura. Unica alternativa, i fornitori diprimizie, con i loro piccoli gioielli orticoli, paga-ti più delle bistecche. Per fortuna, mentre la ri-storazione nelle grandi città cedeva alla ditta-tura delle verdure seriali, la provincia ha tenu-to botta, grazie ai terreni coltivati da genitori inpensione e giovanotti dalla sensibilità agreste.

Così, palmo a palmo, zucchina dopo zucchi-na, le coltivazioni virtuose e ad hoc hanno con-quistato cuore e palato dei cuochi, che hannofatto del chilometro zero la loro bandiera. Cer-to, escludendo il Don Alfonso e pochi altri, dif-ficile pensare che i giardini d’erbe posizionaticome quadri d’autore a un passo dai ristoran-ti possano sopperire per intero alle necessitàdelle cucine. Ma piccoli orti comunque cresco-no: i migliori, senza chimica, né serre riscal-date. Per melanzane e pomodori ci sarà tempotutta l’estate.

Le stelle nell’orto.Anche i grandi chefhanno mangiato la foglia

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Panna acida e centocchioper il mio tortino di patate

8prodottidella terra

LO CHEF

RICCARDOCAMANINI È IL TALENTUOSOCHEF DI “LIDO 84”, GARDONE RIVIERA,BRESCIA. ERBE E VERDURE DELLA CUCINASONO RACCOLTENELL’ORTO-GIARDINO A POCHIPASSI DAL LAGODI GARDA

“C

La ricetta

Sapori. Freschi

BroccoliCavolo broccolo e broccolo ramoso,principi delle crucifere, sono diuretici,ricchissimi di vitamine, sali minerali e sulforafano, sostanzaanticancerogena. Ottimi con la pasta

COOPERATIVA AMICO BIO

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CardiIl candido Cinara cardunculus —famiglia dei carciofi — viene coltivatoin assenza di luce per limitarnel’amaritudine e ama il gelo, che neintenerisce i gambi. Perfetto al gratin

BIOAZIENDA AGRICOLA VISCONTI

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RadicchioVerde, rosso o variegato, lungo,arricciato o a forma di rosa, è unacicoria coltivata al meglio tra Veneto e Friuli. Il gusto amarognolo firma le insalate e le ricette alla brace

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1 KG DI PATATE BIANCHE GIOVANI

500 G. DI BURRO SALATO

120 G. DI PANNA

SALE GRIGIO DI GUÉRANDE

FOGLIOLINE DI CENTOCCHIO (STELLARIA)

ersare la panna in un recipiente freddo, montarla a metà e aggiungere qualche goccia di limone. Conservare in frigo. Pelare le patate, tagliarle arondelle sottili in tutta la loro lunghezza con

l’aiuto di una mandolina, arrotolarle su se stesse e po-sizionarle in una casseruola da forno riempita con bur-ro salato di Normandia sciolto a bagnomaria, fino acoprirle completamente. Cuocerle a 100°C per cinqueore e mantenerle a temperatura ambiente.

Al momento di servirle, appoggiarle su un piatto pia-no con qualche granello di sale grigio, la panna acidae il centocchio, una piccola pianta spontanea,chiamata anche pianta delle patate, dal sa-pore tenue e delicato.

SpinaciRicchi di ferro più di ogni altra verduraa foglia verde ma anche di ossalati,che ne riducono l’assorbimento.Cotti o crudi, purché novelli.Ideali per la frittata

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V

Repubblica Nazionale 2015-01-18

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la RepubblicaDOMENICA 18 GENNAIO 2015 45

PARIGI

ANGIARE AL TAVOLO dellaRegina, ritrovando ilsapore di carote epomodori di qualchesecolo fa. Maria

Antonietta non amava Versailles e avevadeciso di rifugiarsi a pochi metri dalcastello, lontano dai veleni di corte, in unangolo bucolico ispirato alle Rêveries diRousseau. In parte distrutta durante laRivoluzione, la fattoria della Regina, contanto di mulino, granaio, stalle, pollaio, ecampi a perdita d’occhio, è statalentamente restaurata. E potrebbeessere aperta al pubblico l’annoprossimo. Ma intanto i più curiosi (efacoltosi) potranno avere un assaggio diciò che viene prodotto negli orti di MariaAntonietta. Il ristorante Plaza Athénée,da poco riaperto, si rifornisce nell’ortodella Regina per un nuovo menùecoresponsabile. Grazie a una donazioneper i lavori di restauro, Alain Ducasseraccoglie e cucina le verdure “nobili” diVersailles. La cucina dello chefpluristellato non è vegetariana, comequalcuno ha detto, perché offre pesceproveniente da zone controllate. Leverdure restano comunque il piattoforte. «Nessuna ordinazione, siamo noiche ci adattiamo a quello che la terra cioffre» spiega Ducasse. E quindi asparagisolo tra aprile e giugno, pisellini damaggio a luglio, barbabietola da ottobrea maggio. Per carote, cipolle e patate èpiù facile: ci sono tutto l’anno. Più che un orto, è una nursery. Ogniverdura viene curata come un bambino.Non vengono usati pesticidi chimici e lepiante sono annaffiate rigorosamente amano, goccia a goccia. Banditi tubi esistemi automatici. «Il segreto è la giustadose d’acqua» racconta Alain Baraton,capo giardiniere di Versailles. Con troppaacqua le verdure si gonfiano e perdonosapore. L’orto è fatto di dieci jardinets,parcelle destinate ai diversi tipi dicoltura, e di alcune serre. I giardinierihanno ritrovato antiche varietà dirapano, porri e altre verdurearistocratiche dei tempi di MariaAntonietta. Oltre alla suggestione storica, c’è unaragione concreta per aver scelto l’orto diVersailles. «È una terra che non è maistata trattata con prodotti chimici ed èrimasta protetta per secoli» raccontaDucasse che milita da tempo per lanaturalité anche nell’alta gastronomia.Ben centoquaranta chef della rete diaccoglienza Chateaux & HotelsCollection, fondata da Ducasse, hanno ilproprio orto. Tra di loro si chiamano“locavori”. Quando si dispone di verdurecosì fresche, la cucina dev’esseresemplice, essenziale, così come accade alPlaza Athénée. Con arrivi giornalieri, epochi chilometri di distanza, tra ilmomento della raccolta e quello delpiatto in tavola passano al massimo ottoore. «Possiamo offrire ai nostri clienti ilmassimo dell’eccellenza nel mondovegetale» conclude lo chef francese. Unsogno da gourmet non alla portata ditutti: il menù del ristorante parigino è a380 euro. Un pranzo da Re.

(a.g.)

Alain Ducasse

nella fattoria

di Maria

Antonietta

© RIPRODUZIONE RISERVATA

ZuccaDalla “marina”di Chioggia alla “lunga” di Napoli, l’antica cocutia occupa il menù dall’aperitivo — semi tostati e salati — al dolce (budino), senzadimenticare i tortelli mantovani

ORTO BIO

VIA FIBBIANO 27CAMAIORE (LU)TEL. 393-9892012

CarciofoSpinoso — sardo, d’Albenga —mammola, da sott’oli (le castraure di Venezia), è amico della digestione e nemico del colesterolo. Dà il meglio di sé nella ricetta romana al mattone

CONCAS BIO AZIENDA AGRICOLA

VIA MARCO POLO 15VILLASOR (CA)TEL. 346-5762149

PorriL’allium porrum è ricco di vitamine,calcio e potassio. La parte verde intensae fibrosa si usa nelle zuppe, quellabianca in soffritti, insalate o al forno con la besciamella

AZIENDA BIOAGRICOLA DEL VECCHIO

VIA CARLONA 84CESENATICO (FC)TEL. 0547-671750

Cime di rapaSi coltiva tra Lazio, Puglia e Campania,la brassica rapa sylvestris, i cui steli,boccioli e infiorescenze (i friariellinapoletani) vengono “strascinati” con le orecchiette

AZIENDA BIOAGRICOLA SIMMARANO

VIA SAN FRANCESCO 34MONTESCAGLIOSO (MT)TEL. 0835-208759

M

Km ZeroUno chef con i prodotti del proprio orto

Repubblica Nazionale 2015-01-18

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la RepubblicaDOMENICA 18 GENNAIO 2015 46LA DOMENICA

Fin dai tempi del liceo Berchet, a Milano, è sempre stato uno difficile

da inquadrare. “Alla Statale rischiai le botte perché giravo con un vi-

nile di David Bowie sotto il braccio. Provocare mi veniva naturale”.

Anche oggi non scherza: “Dovrei giustificarmi davanti all’intelli-

ghenzia che storce il naso se vado in tv e non mi limito a History

Channel? A me interessa il pubblico, l’indiano di viale Padova che

mi ferma perché mi ha visto su

Italia Uno”. Quanto ai colleghi:

“Sì, se proprio lo vuole sapere a

me non va giù il fatto che Fossati

o De Gregori abbiano il consenso

che io non ho”

EnricoRuggeri

ANTONIO DIPOLLINA

MILANO

UELLO CHE RUGGERI NON DICE è davvero poca cosa. Il punto è che dicetutto e anche di più, così come fa tutto e anche di più e tra i colleghicoetanei è nettamente il più attivo. Vedi anche il libro sbarcato inautunno su scaffali e simili (La Brutta Estate, Mondadori) teorica-mente il suo terzo romanzo, nella pratica il suo primo tentativo di

noir alla milanese compiuto, un’estate pietrificata di caldo, le crisi di tutto, il pro-tagonista — giornalista sportivo un po’ corrivo — che si ritrova a sbrigare insie-me la fine di un matrimonio e l’omicidio efferatissimo dell’anziana zia, unica pa-rente in vita. «Lungi dai confronti, ma se ami Simenon e la sua gente comune acui accadono fatti eccezionali, alla fine ti viene da scrivere una cosa così. Altri mo-tivi? Esistono, altrimenti non si capirebbe perché non c’è quasi più un cantau-tore su piazza che non abbia scritto romanzi: la canzone ormai è stretta comemodo espressivo».

Ha passato un’estate a mietere concerti e a inventarsi l’idea balzana ma fun-zionante assai di trascinarsi sul palco per parecchie date Ale&Franz. Loro due,sì, quelli della panchina e dei noir. E suonavano pure, così come Ruggeri tenta-va con risultati un po’ così di fare il comico sul palco. Titolo dello spettacolo: Cisono un inglese, un tedesco e un italiano, come da barzelletta che Ruggeri ten-ta di raccontare per tutto il concerto senza riuscirci. Ma come funziona un in-crocio simile? Esempio: una celebre cosa di Enrico è Il portiere di notte (pe-raltro pezzo di estrema arditezza, con onanismi dichiarati e se gli si fa spie-gare cosa ci vede dentro tira fuori cose leggermente blasfeme). Ale e Franz, aquel punto, entrando nella veste dei due killer in bianco e nero recitano:«Com’è andata la rapina all’albergo?». «Male, sono entrato stanotte pi-stola alla mano, il portiere ha reagito, io gli ho sparato e l’ho mancato».«Ma come, dai… Eri solo davanti al portiere».

Per esempio. Ma quando Ale e Franz hanno deciso di farsi le vacanzeRuggeri ha proseguito da solo in tour, cantando anche le cose nuove, quel-le per esempio in cui non chiede tanto, ma basterebbe un paese norma-le, quello impossibile, quello che si ripresenta — dice — innamorato di unleader, pronto a farlo vincere ma pronto a farlo fuori se si mettesse in te-sta di stravincere — servono gli esempi del passato? O il paese che si sen-te orfano di colpo se perde certi riferimenti, come Pino Daniele: giorni faRuggeri era ad Acerra in concerto e lo ha ricordato con onesto rimpianto(«Certe cene in cui scopri una persona spiritosissima e poi si finisce adire: vediamoci, facciamo una cosa insieme, sentiamoci, e poi non suc-

cede, e poi è tardi»). Il rimpianto come cifra, per non dire, fardello imperituroper il nostro, quel non so che di irrisolto, questioni di consenso e immagine cheti porti appresso: puoi aver scritto una sequenza di canzoni irripetibili, averlecantate e fatte cantare ai migliori ma se sei neghittoso la paghi sempre e so-prattutto ti convinci di averla pagata sempre. Puoi fregartene — lo fanno a mi-lioni — lui non ci riesce.

La famosa intellighenzia che gli darebbe contro storce il naso per certe cosetv di largo consumo, all’insegna di misteri, visioni, apparizioni e sparizioni: «Be-ne, ma ai più temo che siano sfuggiti i programmi-chicca fatti sulla storia delrock, da History Channelai canali digitali della Rai. Sono sfuggiti perché l’ascoltoera dello 0,6 per cento, insieme alla mia passione al massimo e al guadagno a ze-ro. Italia Uno invece paga: i dischi che sono venuti dopo li ha pagati la televisio-ne». E precisa: «Devo giustificarmi? Mah. Mi interessa il pubblico, l’extracomu-nitario che mi ferma per strada e mi ha visto lì: per lui, ma anche per il resto del-la gente sei sempre e soprattutto l’ultima cosa che hai fatto. Cosa faccio, mi met-to a spiegare Polvere e il punk all’indiano di viale Padova?».

A ben guardare, la sua miscela di riferimenti culturali pop e non pop è da per-dere la testa. Ruggeri twitta in favore dei palestinesi nonché della libertà di cu-ra per le staminali, ha collaborazioni e amicizie di quelle sinistrissime, passionisfrenate per Woody Allen e Tom Waits e una storia per cui bisogna affondare aquei tempi là, il liceo Berchet di Milano («Gad Lerner era il più pacato di tutti»)e lui era diciamo di quelli che non capivano l’ostracismo a D’Annunzio non tan-to per D’Annunzio quanto per l’ostracismo e da lì a un passo c’è Pasolini come ri-ferimento («Era un uomo libero»). Se è complicato mettere ordine nelle cose dioggi figuriamoci in quelle di allora: «Rischiai le botte, botte vere, perché giravoin Statale con un vinile di David Bowie sotto il braccio. Bowie, capisce? E allorami veniva naturale provocare di più, mettermi a giocare pericolosamente congli Sparks, quelli col cantante coi baffetti un po’ così (appena rivisti sul palco inun blitz-memorabilia a Londra): lei pensa che in giro ti lasciassero il tempo dispiegare e ricordare le ironie di Chaplin sul nazismo, la caricatura di stili e pote-ri o qualcosa di simile, peraltro tutto coltivato a piene mani da artisti ebrei cheerano miei idoli assoluti? Figuriamoci, e quindi sono diventato uno dell’altra par-te o almeno uno che si doveva inquadrarlo, stavo per dire incastrarlo, politica-mente». Eppure. «Bene, a spanne credo in carriera di aver fatto centocinquantafeste dell’Unità. Poi ho fatto due concerti per An. Mettiamo che io abbia dei fandi destra, non hanno mai protestato per le feste dell’Unità. Sicuramente ho in-vece dei fan di sinistra, che hanno protestato assai per quei due concerti».

Ma come detto il tentativo sarebbe quello di saltare l’intero discorso e prova-re a convincere lui per primo che uno che ha dato alle stampe quel pugno di can-zoni da gloria e storia potrebbe trovare pace. Chissà. Se uno ha scritto una cosaper cui chiunque, in futuro, andando al mare d’inverno si mette a canticchiarelanguido, che altro gli serve? «Se è per quello Thomas Mann sul mare in invernoci ha costruito una carriera» ti fulmina con una battuta di quell’umorismo —niente male — a largo raggio che lo porta all’irriverenza vera, chiunque ci vadadi mezzo. «Si chiama cazzoneria. Ne sono portatore sano da sempre, e mi ha sem-pre un po’ fregato. Ma è anche quella che mi ha consentito l’umiltà necessaria:chi viene a vedermi può notare che io mi muovo guardando quelli delle prime fi-le, guardo in basso, come se suonassi nei club come una volta. Ci sono certi, coe-

tanei, ma soprattutto i giovani, che invece li vedi sul palco ritti con la testa, pie-gata all’indietro: stanno preparandosi per quando suoneranno a San Siro».

Ruggeri, per dire, è una specie di enciclopedia vivente del festival di Sanremo(quest’anno si salta, ritardo di preparazione del nuovo disco) e può com-

muoversi se parte il filmato di Laura Luca (Domani, domani). Lo ha vin-to due volte, quella di Misteroda solo a mo’ di consacrazione, ma la vol-

ta del trio con Morandi e Tozzi è stata l’apoteosi pop: «C’era il testo,c’eravamo noi tre, toccava dividersi le strofe. A me tocca quella chedice: perché la guerra, la carestia, non sono scene viste in tv, eccete-ra. Io guardo gli altri e dico: ragazzi, è una cazzata troppo grossa, non

me la sento». E così? «Morandi mi guarda e dice: la canto io. Perchéio invece a questa cosa ci credo. Aveva ovviamente ragione lui. Se

lui va in concerto e urla al pubblico “vi amo tutti” lo portano intrionfo, se lo facessi io penserebbero che li sto prendendo

per i fondelli». E appunto la questione diventa capire il ruolo oggi di

Ruggeri e del gruppone di allora, solo ricordi o cosa, chis-sà, a ognuno la sua scelta. E torna quella cosa impossibi-le ormai da aggiustare, la sua voglia di consensi allarga-ti, il fatto che sì «a me sta qui che Fossati o De Gregori ab-biano quell’immagine e quel consenso e io no». Il Fossa-ti, peraltro, che ha scritto tanto per la Mannoia anche lui,o il De Gregori su cui esiste un precedente abbastanzasconosciuto. Sta anche su YouTube: lui, Ruggeri, Mim-mo Locasciulli, insieme una sera da Francesco, salta fuo-

ri una canzone che va nell’album di Locasciulli. Si chiamaOlio sull’acqua: magari era un po’ da rifinire, magari il me-

morabile sta altrove, ma la firma di tutti e tre su una canzo-ne sola fa comunque un bell’effetto, quasi da cancellare tutti

i piccoli rimpianti, rancori e affini e continuare a immaginarestorie di quella volta là.

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CHI VIENE AI MIEI CONCERTI LO SA. GUARDO IN BASSO,VERSO LE PRIME FILE, COME SE SUONASSI IN UN CLUBCI SONO GIOVANI CHE INVECE STANNO SUL PALCO CON LA TESTA SEMPRE PIEGATA ALL’INDIETRO:SI PREPARANO PER QUANDO SUONERANNO A SAN SIRO

CERTE CENE IN CUI SCOPRI UNA PERSONASPIRITOSISSIMA E POI SI FINISCE A DIRE:VEDIAMOCI, FACCIAMO UNA COSA INSIEME,SENTIAMOCI, E POI NON SUCCEDE, E POI È TARDI. PER ESEMPIO PINO DANIELE...

LA MIA SI CHIAMACAZZONERIA

NE SONOPORTATORE SANO

MI HA SEMPREUN PO’ FREGATO

MA È STATAANCHE QUELLACHE ALLA FINE

MI HA CONSENTITODI POTER AVERETUTTA L’UMILTÀ

NECESSARIA

L’incontro. Controcorrente

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Repubblica Nazionale 2015-01-18