D Laomenica Tra i fantasmi di Cernobyl, 20 anni...

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DOMENICA 26 MARZO 2006 D omenica La di Repubblica la lettura I Muri di piombo dove la vita s’è fermata PINO CORRIAS CUPERTINO A mezz’ora di strada a ovest ci sono le onde del Pa- cifico e le lunghe spiaggie dorate per il surf; a est la Sierra Nevada per sci, trekking e mountain- bike. Sembra la descrizione di un villaggio-va- canze. In effetti Cupertino è sempre immersa nel verde come trent’anni fa, quando la valle di Santa Clara non si chiamava ancora Silicon Valley e qui c’erano più frutteti che aziende hi- tech. La topografia esoterica evoca la New Age californiana: il numero 1 di Infinite Loop, il Circolo dell’Infinito, è l’indirizzo del campus della Apple. Poco distante dai padiglioni bianchi immacolati e dalle gran- di finestre in vetro smeraldo che ospitano le sue task-force di in- ventori, in una villetta di Los Altos tra gli alberi di melo, trent’an- ni fa due figli della cultura hippy partorivano un’idea rivoluzio- naria. Il computer per tutti. Bello e facile da usare come un gio- cattolo. Era April Fool’s Day del 1976. La festa del pesce d’aprile fu scelta per fondare la Apple, usando lo stesso nome della casa discografica dei Beatles e una data di nascita da beffa goliardica. (segue nelle pagine successive) Trent’anni fa, dal garage di una casa californiana, usciva un nuovo tipo di computer destinato a cambiare il mondo La rivoluzione della Mela i luoghi ENRICO FRANCESCHINI e ANTHONY GIDDENS il reportage Tra i fantasmi di Cernobyl, 20 anni dopo GIAMPAOLO VISETTI la memoria Cesarini, il poeta dell’ultimo minuto EMANUELA AUDISIO e STEFANO BARTEZZAGHI FEDERICO RAMPINI WASHINGTON D iventai incompatibile col resto del mondo una sera di autunno a Parigi. Era il 1984, dalle parti di Boulevard Saint Michel, in uno di quei gran- di negozi che sbraitano «high tech» con mobi- lio da sala operatoria e insopportabili musichette sintetiche. Ci ero entrato per comperare il mio primo personal compu- ter. Non sapevo che ne sarei uscito due ore più tardi iscritto a una setta di fanatici. La confraternita del Codice Mac. I massoni della Mela. Per prepararmi all’acquisto, avevo comprato e studiato tutte le riviste patinate sui personal computer che le edicole offrissero, come si leggono le prove su strada delle auto nuo- ve: sperando di intuire quale nuova macchina sia un bidone e quale un gioiello. Ora stavano tutti davanti a me, con i loro nomi che oggi sembrano archeologia informatica: Bull, Ata- ri, Commodore, Zenith, Tandy, Ibm, oggetti di un futuro pre- sente che il venditore accarezzava con dita da pianista per vantarne le virtù. (segue nelle pagine successive) VITTORIO ZUCCONI spettacoli Sophia Loren: me stessa in 70 souvenir NATALIA ASPESI e AMBRA SOMASCHINI FOTO CORBIS cultura L’Argentina sognata di José Muñoz STEFANO MALATESTA Oxbridge, educare i padroni del pianeta Repubblica Nazionale 29 26/03/2006

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DOMENICA 26 MARZO 2006

DomenicaLa

di Repubblica

la lettura

I Muri di piombo dove la vita s’è fermataPINO CORRIAS

CUPERTINO

Amezz’ora di strada a ovest ci sono le onde del Pa-cifico e le lunghe spiaggie dorate per il surf; a estla Sierra Nevada per sci, trekking e mountain-bike. Sembra la descrizione di un villaggio-va-

canze. In effetti Cupertino è sempre immersa nel verde cometrent’anni fa, quando la valle di Santa Clara non si chiamavaancora Silicon Valley e qui c’erano più frutteti che aziende hi-tech. La topografia esoterica evoca la New Age californiana: ilnumero 1 di Infinite Loop, il Circolo dell’Infinito, è l’indirizzodel campus della Apple.

Poco distante dai padiglioni bianchi immacolati e dalle gran-di finestre in vetro smeraldo che ospitano le sue task-force di in-ventori, in una villetta di Los Altos tra gli alberi di melo, trent’an-ni fa due figli della cultura hippy partorivano un’idea rivoluzio-naria. Il computer per tutti. Bello e facile da usare come un gio-cattolo. Era April Fool’s Day del 1976. La festa del pesce d’aprilefu scelta per fondare la Apple, usando lo stesso nome della casadiscografica dei Beatles e una data di nascita da beffa goliardica.

(segue nelle pagine successive)

Trent’anni fa, dal garagedi una casa californiana, uscivaun nuovo tipo di computer

destinato a cambiare il mondo

La rivoluzionedella Mela

i luoghi

ENRICO FRANCESCHINI e ANTHONY GIDDENS

il reportage

Tra i fantasmi di Cernobyl, 20 anni dopoGIAMPAOLO VISETTI

la memoria

Cesarini, il poeta dell’ultimo minutoEMANUELA AUDISIO e STEFANO BARTEZZAGHI

FEDERICO RAMPINI

WASHINGTON

Diventai incompatibile col resto del mondo unasera di autunno a Parigi. Era il 1984, dalle partidi Boulevard Saint Michel, in uno di quei gran-di negozi che sbraitano «high tech» con mobi-

lio da sala operatoria e insopportabili musichette sintetiche.Ci ero entrato per comperare il mio primo personal compu-ter. Non sapevo che ne sarei uscito due ore più tardi iscrittoa una setta di fanatici. La confraternita del Codice Mac. Imassoni della Mela.

Per prepararmi all’acquisto, avevo comprato e studiatotutte le riviste patinate sui personal computer che le edicoleoffrissero, come si leggono le prove su strada delle auto nuo-ve: sperando di intuire quale nuova macchina sia un bidonee quale un gioiello. Ora stavano tutti davanti a me, con i loronomi che oggi sembrano archeologia informatica: Bull, Ata-ri, Commodore, Zenith, Tandy, Ibm, oggetti di un futuro pre-sente che il venditore accarezzava con dita da pianista pervantarne le virtù.

(segue nelle pagine successive)

VITTORIO ZUCCONI

spettacoli

Sophia Loren: me stessa in 70 souvenirNATALIA ASPESI e AMBRA SOMASCHINI

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cultura

L’Argentina sognata di José MuñozSTEFANO MALATESTA

Oxbridge, educare i padroni del pianeta

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I visionari nel garageche cambiarono la storia

(segue dalla copertina)

Fu l’inizio di un’avven-tura fatta di fantasia e diestetica più ancora chedi tecnologia, una vicen-da che ha cambiato il no-stro costume e lo stile di

vita di generazioni. Tra i cervelli del-la Apple la battuta è classica: «Dopoil morso di Eva nel Giardino dell’E-den, dopo il frutto cascato in testa aNewton nel diciassettesimo secolo,il primo aprile 1976 è la terza voltache una mela ha rivoluzionato la sto-ria umana». L’iperbole ha un fonda-mento. Oggi quasi nessuno ricordal’era pre-Apple, quando un calcola-tore poteva costare 100mila dollari,quando i computer erano bui, tetri eostili. Accendevi lo schermo e si ve-deva uno sfondo scuro, su cui biso-gnava imprimere lunghi comandicriptici fatti di lettere numeri segniin codice cifrato, pallide se-quenze fosforescenti che ap-parivano come fantasmiin un deserto lunare.Da trent’anni centi-naia di milioni dipersone nel mondohanno imparato adialogare con perso-nal computer che han-no volti occhi e orec-chie, simboli loquaciche si aprono su uni-versi multicolori: tuttoha origine dall’inter-faccia grafica, la piùgrande delle innova-zioni nate sotto il segnodella Mela.

I due protagonisti di questa epo-pea hanno lo stesso nome ma nonci sono due persone più diverse sul-la faccia della Terra. Basta sentirliraccontare. «Steve aveva ventunoanni e capiva poco di elettronica»(Steve Wozniak su Steve Jobs). «Eral’unica persona che capisse l’elet-tronica un po’ più di me» (Jobs suWozniak). Wozniak detto Woz, stu-dente di ingegneria a Berkeley, all’i-nizio degli anni Settanta si diverte acostruire apparecchi-parassita chereplicano i segnali delle compagnietelefoniche per chiamare gratis nelmondo. Durante una celebre dimo-strazione telefona in Vaticano imi-tando la voce dell’allora segretario diStato Henry Kissinger. Guru dellatecnologia, Woz è il genio ama-to da tutti i colleghi e sempre ac-cessibile: tuttora ha una web-cam sulla scrivania che lo ri-prende, migliaia di appassiona-ti si collegano al suo sito ognigiorno per guardarlo lavorare.

Jobs è il contrario. È un grovi-glio di contraddizioni, un ca-rattere impossibile, con unego smisurato, visionario eferoce. Nasce nel 1955 aSan Francisco da una psi-coterapeuta e da un do-cente di scienze politicheche non lo vogliono e lodanno in adozione ai co-niugi Paul e Clara Jobs.Solo all’età di trent’anni,già ricco e famoso, Steveconoscerà finalmente isuoi genitori biologici. Èlui che ha per primo l’in-tuizione di creare un computer per lemasse. Seduce Wozniak, che ha cono-sciuto in un ritrovo di hacker, lo Ho-mebrew Computer Club, e lo convin-ce a fare una follia: abbandonare unposto sicuro e ben pagato alla Hew-lett-Packard. Per finanziare il primoApple, Jobs vende per 1.500 dollari ilsuo furgoncino Volkswagen da figliodei fiori. Il primo negozio a smerciarecomputer Apple è un ex rivenditore divideocassette porno, The Byte Shop suEl Camino Real a Mountain View.

Woz è un mago capace di produrrenel garage di Los Altos dei computerdalle prestazioni stupefacenti (per l’e-poca) al costo di poche centinaia di dol-lari. Eterno outsider disinteressato, pi-lota aereo per hobby e vittima di un gra-

ve incidente nel 1981, va in pensionenel 1985… per potersi finalmente lau-reare a Berkeley. Riassume la sua storiasemplicemente: «Sui libri si studianograndi rivoluzioni come la Rivoluzioneindustriale inglese. Ecco, noi abbia-mo vissuto una cosa simile e io mici sono trovato in mezzo».

Jobs, seguace del buddismo zen,è l’esteta e il genio del marketing,l’unico che sogna fin dall’inizio uncomputer dalle forme attraenti. Dise stesso dice: «Sono un’artista. Unacrobata del trapezio senza rete».Mette la sua firma su slogan chefanno epoca: Insanely Great(pazzo e grandioso), Think Dif-ferent (pensare diverso), Beyondthe Box (fuori dalla scatola delconformismo). È presuntuoso,geloso, irascibile. Quando Mi-chael Scott viene assunto comeprimo presidente dalla Appleperché c’è bisogno di un mana-ger professionale, egli assegna aWoz il numero uno tra i tesserinid’identificazione dei dipendenti; Jobs

furioso pretende e ottiene di essere ilnumero zero. La sua ag-gressività verso i collabo-ratori inizia dalle intervi-ste per l’assunzione:quando esamina un can-didato per il top manage-ment, infierisce con do-

mande come «quando haiperso la verginità?» o «quan-te volte ti sei drogato con l’L-sd?».

Pochi mesi dopo la suanascita la Apple riceveun’offerta da un colossodell’epoca, la Commodore:100mila dollari in contantipiù l’assunzione di Jobs eWozniak con stipendi da

36mila dollari l’anno. In quel momentoequivale a vincere alla lotteria. Ma l’egodi Jobs è più forte e ha ragione: chi ri-corda la Commodore?

Il 1981 è l’anno del primotrauma, quando la superpoten-za Ibm invade il territorio di Ap-ple e lancia il suo personal com-puter. Davide replica a Golia consfrontatezza: mentre il mondo èinvaso dalla campagna pubbli-citaria di Ibm che usa Charlotcome simbolo, Apple comprauna pagina del Wall StreetJournal per pubblicare questoannuncio: «Benvenuta Ibm.Davvero. Benvenuta nel mer-cato più importante e eccitan-

te. Congratulazioni peril tuo primo personalcomputer. Mettere ilpotere del computernelle mani degli individui stagià migliorando il modo in cuilavorano, imparano, comuni-cano, spendono il tempo libe-

ro».In privato Jobs è sprezzan-

te: «La più grande aziendainformatica del mondo ha

creato un apparecchioche non regge il confron-to con quello che noi pro-ducemmo nel garage dicasa mia sei anni fa». Mal’offensiva di Ibm dilaga,Apple è in difficoltà. «Vo-glio un computer bellocome una Porsche», ordi-na Jobs ai suoi designer. Liporta a visitare un’espo-sizione dell’arte Tiffany a

San Francisco. Recluta lo scienziato-musicista Jef Raskin per creare il Ma-cintosh, detto Mac. Apple introduce levedute molteplici aperte in simultaneasullo stesso schermo, la prima versionedi icone e finestre che diventerannouniversali col software Windows di Mi-crosoft.

Il lancio del Mac passa alla storia. Lospot pubblicitario firmato dal registaRidley Scott (Blade Runner) va in ondauna volta sola, durante il SuperBowl, la

finalissima del football americano.Dei robot-schiavi hanno lo sguar-

do fisso su uno schermogigante dal quale li in-dottrina il GrandeFratello di Orwell,simbolo del totalitari-smo ma in questo casoanche dell’establish-ment capitalisticoIbm. Una ragazza

atletica prende larincorsa e scaglia unmartello che fran-tuma lo schermo.Grazie a Apple, con-clude lo spot, «il1984 non sarà il1984 del romanzo diOrwell». In un de-cennio Apple vendedodici milioni diMacintosh. Il nuovo

pc diventa l’oggetto di un culto. ConJobs la generazione dei baby boomersdopo la contestazione, il Sessantotto eil movimento hippy, fissa la propriaimpronta culturale sulla nuova rivolu-zione tecnologica.

Nel 1985 Apple divorzia da Jobs e infi-la un errore strategico dietro l’altro. Siostina a non vendere la licenza delsoftware Mac, condannandosi all’in-compatibilità con altri sistemi. Inizial-mente sottovaluta l’impatto di Internet,preferendogli un sistema chiuso. Vienesurclassata da Microsoft che imponeWindows come standard mondiale enel 1993 perde la battaglia giudiziariacontro l’“Anticristo” Bill Gates. Invano ilfumetto Doonesbury, portavoce dellasinistra liberal, attacca Windows comeun pirata «sostenuto da tremila avvoca-ti». Di quel periodo nero resta in ereditàl’ossessione maniacale per la segretezza

e la sicurezza che regna a Cu-pertino, la sindrome del pio-

niere saccheggiato.Dopo undici anni diesilio, durante i

quali ha stupitoancora crean-do la Pixar e unnuovo modo diprodurre i film

di animazione,Jobs torna al verticedella Apple nel di-cembre 1996 pertentare il salvatag-gio. Il miracolo si ri-pete. Grazie al talen-to di Jonathan Ive,designer londinese,nasce il pc dell’era

cool, lo iMac dalla forma di un uovo tra-sparente che sembra un oggetto di arre-damento e seduce soprattutto le donnee i teenager. Nell’anno del suo lancio, il1998, se ne vendono 800mila, al ritmo diuno ogni quindici secondi. Infine l’ulti-ma rivoluzione: iPod, il gadget conteni-tore di musica e canzoni, immediata-mente adottato da milioni di adole-scenti, presto imitati da molti genitori.Il 23 ottobre 2001 Jobs profetizza: «ConiPod ascoltare la musica non sarà maipiù come prima». Ancora una volta Ap-ple crea molto più di una tecnologia,impone un fenomeno di costume.

A 51 anni, sopravvissuto a undici an-ni di esilio dalla sua azienda, Jobs è riu-scito in un exploit unico. Ha segnatocon la sua inventiva personale tre in-dustrie diverse: i computer, il cinema,la musica. Il suo carattere è rimastouguale. Come se le ferite della sua bio-grafia lo costringessero a cercare unarivincita continua. Come se il Sessan-totto e la New Age e la rabbia giovaniledella sua generazione non fossero maispente. Jobs rimane se stesso, ugualeall’enfant prodige che un giorno con-vinse il presidente della Pepsi ColaJohn Sculley a venire alla Apple provo-candolo così: «Vuoi dedicare il restodella tua vita a vendere acqua zucche-rata, o vuoi una chance di cambiare ilmondo?».

la copertinaRivoluzione Apple

Inventando nell’aprile del 1976il computer personale di costorelativamente basso, dalle forme

attraenti e facile da usare, Steve Jobse Steve Wozniak hanno trasformatolo stile di vita di generazioni

FEDERICO RAMPINI

I PRIMI CALCOLATORIQui sopra, i giovanissimi Steve Jobs e SteveWozniak agli albori della loro avventuradi costruttori di personal computer in California.Fu Jobs a convincere l’amico ad assemblarela macchina che aveva progettato(e che sarebbe diventata l’Apple I)e a commercializzarla insieme a lui

30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 26 MARZO 2006

1976

APPLE IILa serie risale al 1977.Nella foto, il modello c

(1984), il primo compattomesso sul mercato

MACINTOSHPresentato nell’84,

è il capostipite della serie:il primo con mouse

di serie e interfaccia grafica

APPLE IProgettato da Wozniak,

fu presentato al HomebrewComputer Club di Palo

Alto nell’aprile 1976

MAC LCIl “Low Cost Color”,

introdotto nel 1990, ebbeenorme successo come

computer domestico

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Per molti anni gli utenti dei pc dell’aziendadi Cupertino sono stati impossibilitatia comunicare con i prodotti dominantisul mercato. Uno svantaggio che per loro

era motivo d’orgoglio. Fino alla modadei PowerBook e poi del trendissimo iPod

Ma i seguaci della Melanon sono più una setta

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31DOMENICA 26 MARZO 2006

(segue dalla copertina)

Da un angolo del grande nego-zio venne verso di me una stra-na figura. Vestiva l’uniformeda professore universitario ge-nere Hollywood anni Quaran-ta, calzoni di flanella sformati

alle ginocchia sotto una giacca di tweed staz-zonata e un cappellino alla Jacques Tati. «Ex-cuse me», mi parlò subito in inglese, perchénon parlava altra lingua, «vedo che lei sta sof-frendo per scegliere un personal computer».Ovvio, là dentro vendevano pc, non salsicce.

«Mi perdoni se m’intrometto e mi presen-to, sono un professore della Stanford Univer-sity in California, sono a Parigi in vacanza conmia moglie». E allora? «Le voglio raccontareuna piccola storia. Lavoro nel dipartimentodi fisica e di computer non so niente. Un paiodi mesi or sono una azienda vicina al nostrocampus, chiamata Apple Computers, ciha recapitato una macchinetta chenessuno aveva mai visto prima, gra-tis, per provarla. I miei colleghi e iole abbiamo dato un’occhiataper divertimento e da alloratutti fanno la fila per adope-rarla e ignorano le altre. Laprego di credermi, non honessun interesse personalené commerciale, non lavoroper la Apple, ma mi permetta didarle un consiglio: si porti a ca-sa questo qui e le giuro su miamoglie — la signora alle suespalle lo guardò male — chequesta sera lei lo userà come selo avesse sempre avuto».

Due ore più tardi, nel mio uf-ficio di Repubblicaa Parigi, scri-vevo il primo degli infiniti pezziche nei vent’anni successivi avrei battuto sul-la tastiera del computer. Computer che avreiadorato, maledetto, comperato, aggiornato,buttato, giurato di non toccare mai più, pun-tualmente ricadendoci, perché nella setta delCodice Macintosh si può entrare, ma non sene può uscire.

Nel negozio di Parigi avevo incontrato sen-za saperlo quello che poi nel gergo mistico de-gli adoratori della Mela si sarebbe chiamatoun “evangelista”, cioè un missionario di quelpiccolo, comico calcolatore elettronico cheavrebbe cambiato per sempre il nostro mododi usare il computer, pur restando sempre unafrazione minima, non più del tre per cento, nelmondo dominato da Bill Gates e dalla odiata eprepotente Chiesa (per noi) Microsoft.

In quel 1984 la Apple esisteva da otto anni,da un primo aprile del 1976, il giorno dei pe-sci d’aprile scelto con umorismo goliardicodai fondatori, l’estroverso, esibizionista Ste-ve Jobs e l’introverso Steve Wozniak, per an-nunciare la nascita della loro società. In quelgiorno i due erano usciti con un prototipo dicomputer dal garage di Jobs ed erano riuscitia piazzare cinquanta ordini di vendita perquella cosa che fu battezzata con il nome delfrutto che i due rosicchiavano in continua-zione: una apple, una mela. Pertutti gli anni Settanta e per i pri-mi anni Ottanta le prime duemele, la Mela 1 e la Mela 2, e poiuna creatura chiamata Lisaavrebbero dominato il mer-cato nascente dei microcom-puter. Fino all’uscita del Ma-cintosh che è, pure quella, unavarietà di mela asprigna buo-na soprattutto per le crostate,la macintosh apple. E pro-prio quel pomo sarebbestato il frutto proibito cheavrebbe indignato i guar-diani dell’ortodossia infor-matica, devoti alle miste-riose formulazioni da pro-grammatore, e avrebbe fat-to assaporare per primi, anoi cospiratori, un fruttoproibito e delizioso chia-mato GUI, Graphic User Interface. Così con-dannandoci alle gioie terribili della scomuni-ca e della incompatibilità con il resto dell’uni-verso informatico.

Tutto quello che oggi è considerato nor-male e indispensabile — la carineria civet-

tuola della grafica, il clic e il doppio clic, ilmouse, i folder a foggia di minu-

scola cartellina, le piccole icone che ba-sta attivare per entrare nella musica,nei video, in Internet, in un testo onel foglio paghe e contributi dell’a-zienda — vennero dal lavoro di ungruppo di geni barbuti, capelloni escamiciati (con una donna fra loro,Joanna) che nel 1976 cominciarono alavorare al progetto ideologico primache informatico, di un computer «forthe rest of us», per i non iniziati e per glianalfabeti.

Nessuno dei bambiniche oggi cliccano spensierata-mente sotto lo sguardo invidio-so e preoccupato di genitori im-branati conosce il nome di Bur-rel Smith, un impiegato dellaApple talmente oscuro da esse-re all’epoca noto soltanto come«impiegato numero 282», as-sunto per riparare i frequentis-

simi guasti dei calcolatorid’allora. Ma fu lui — con il resto deibarbudos di Cupertino, il paese do-ve sorge la Apple intitolato a SanGiuseppe da Copertino — che riu-

scì a domare bits, bytes,kernel, circuiti e mather-board (fingo di sapere checosa significhino questeparole) e tradurle in simbo-li e metafore comprensibi-li. Il Codice Mac, il sistemaoperativo che faceva fun-zionare la patetica macchi-netta che acquistai nellaParigi dell’84, fu la stele diRosetta che ci permise ditradurre e capire i segreti diun computer.

Alla Ibm spetta la primogenitura delpersonal computer di massa, la scelta dispremere i colossi che occupavano inte-ri piani di uffici dentro le dimensioni del-le scatole da pizza. Ma è alla Apple con ilsuo Macintosh che va il merito di averereso commestibile la pizza dentro la sca-tola, poi copiata da Microsoft con il suoWindows. Quello che i chierici del lin-guaggio macchina, gli amanuensi del-l’autoexec. bat/config. sys/8088. dll/fol-ders/iosperiamochemelacavo. exe edelle altre giaculatorie necessarie perdialogare con la scatola, chiamavanocon disprezzo «il giocattolo» avvicinò ilpc a quello che dovrebbe essere e anco-ra non è: un elettrodomestico che si ac-cende, funziona e non pretende di esse-re corteggiato e rabbonito. E fu per grati-tudine di cyberanalfabeta, sbalorditodalla facilità con la quale riuscii a uti-lizzare quel computer senza nessu-na tragica curva di apprendimen-to, che da allora gli sono rima-sto, nonostante tutte le delu-sioni d’amore, fedele.

Ho acquistato praticamentetutti i modelli esitati dalla Ap-

ple, sperperando fortu-ne: a volte incantevoli og-getti di design, altre cate-nacci. Dal primo Mac ca-pace di scrivere soltanto sudischetti da 400mila bytes(questo, sul quale becchet-to ora, ne contiene 100 mi-lioni e viaggia a velocitàtrecento volte superiore) all’ulti-mo, magnifico portatile al titanio,

ho sofferto le bizzarrie di unamacchina che i suoi creatoristrapazzavano, mentre si azzuf-favano tra di loro, fino alla cac-ciata dello stesso fondatore Ste-ve Jobs, perfetto paradigma diAdamo. Fui tra i primi a precipi-tarmi a comperare il proto-por-tatile Macintosh, un’orrida vali-gia pesante come il campiona-rio di un piazzista di piastrelle,

che ebbi l’infausta idea di trascinarmi al-l’Avana per un reportage. Anche dopoavere superato l’intensa e diffidente cu-riosità dei doganieri di Castro, persuasiche quella valigia di plastica e circuiti etasti fosse un ordigno costruito dalla Ciaper insidiare i trionfi della Revolución,scoprii con orrore che le lampadine fu-nerarie nella mia stanza all’Habana Hil-ton non permettevano di leggere loschermo troppo buio del portatile. Do-vetti lavorare con l’abat-jour poggiatasulle spalle a foggia di bazooka per illu-

minare con il fioco fascio di luce i morticristalli liquidi dello schermetto.

Ma per noi cospiratori del Codice Mac,l’essere minoranza eretica, privata dellacornucopia di giochi e di programmiscritti esclusivamente per il Sant’Uffizio

di Gates, compensava la condan-na all’autismo della in-

compatibilità. Per lunghianni le nostre mele eranocome le monadi di Spinoza,sfere chiuse, incapaci di co-municare con il resto delmondo. Jobs, Wozniak e il

presidente che i due avevanostrappato alla PepsiCola avevano com-messo il peccato luci-ferino della superbia.Avevano preteso dicontrollare sia ilsoftware che lohardware, sia la mac-china che i suoi pro-grammi, come se unarete televisiva impo-

nesse al consumatore di acquistare i tele-visori da essa fabbricati per guardare lesue trasmissioni. Non avevano volutopermettere a nessuno di produrre cloni ecosì si erano rinchiusi dentro il proprioconvento.

Tanto meglio per noi incompatibili.Nell’arrogante masochismo del settarioho consumato anni e nottate per tentaredi convincere i miei Mac a comunicarecon il resto del mondo, a collegarsi con imainframe, i cervelli centrali delle nostreaziende o redazioni, leggere e utilizzareprogrammi concepiti per altre fedi. Ciconfortava il pensiero che la nostra, re-spinta in massa da consumatori che pas-savano alla goffa imitazione creata dallaMicrosoft fino a conquistare il 95 per cen-to del mercato mondiale, era condivisadai maghi del video e dell’audio, dai genidegli effetti speciali hollywoodiani checreavano i loro cartoni animati e le loromagie. Neppure la coscienza che nonfossero stati i Wozniak, i Jobs né l’impie-gato numero 282 a inventare davveroquella idea delle icone, ma che fosse sta-ta comperata dai laboratori della XeroxParc in cambio di un pacchetto di azioni,ci turbava. Non eravamo noi gli incom-patibili, era il resto del mondo a essere ta-gliato fuori da noi.

Segretamente, molti di noi incompati-bili tenevano un’amante nascosta, unportatile con processore Intel e sistemaoperativo Microsoft Windows, perché lecatacombe possono essere scomode.Ma quando Steve Jobs, miracolosamen-te sopravvissuto a un cancro del pan-

creas e tornato alla guidadella propria mela mo-ribonda, ricominciò asfornare oggetti di scin-tillante design, non cioffendemmo neppure

alla vista di un assegnoda 100 milioni, un’ele-mosina, staccato pro-prio da Gates per sal-vare la Apple e potercosì fingere, davanti alCongresso america-no, di non essere quel-lo che è, un monopoli-sta. Tra l’iPod, il letto-re di file musicali e vi-

deo, gli stupendi PowerBook al titanioportatili, la resurrezione era finalmenteavvenuta.

Poi l’annuncio ferale. Per continuare aesistere, la nostra Chiesa aveva abiurato.La nuova generazione 2006 dei portatiliMac era stata costretta ad adottare comeproprio cervello i processori del nemico,gli Intel, la fornitrice principale dell’odia-ta Microsoft. Più pratici, più veloci, piùavanzati. Migliori. Fu come se il Papaavesse annunciato l’adozione del Cora-no, per praticità. Windows, il nemico,presto invaderà anche il nostro conven-to. Addio Codice Mac, addio leggende dischiavi in rivolta orwelliana contro ilGrande Fratello, come cantò il primospot di lancio, appunto nel fatidico 1984.La guerra è stata vinta, ma dal GrandeFratello. Non sarò più incompatibile.Sarò, purtroppo, normale.

VITTORIO ZUCCONI

2006

L’IPOD E IL POWERBOOKSotto, Steve Jobs a una delle ultimepresentazioni Apple. La società di Cupertinosi è imposta nel mercato dei lettori portatilidi musica grazie all’iPod, diventato nel girodi pochissimo tempo un vero e propriooggetto di culto. Nella foto, un PowerBook,potentissimo portatile con struttura in titanio

POWER MAC G3La nuova serie, lanciata

nel 1999, puntasul potenziamento

delle prestazioni grafiche

IMACDesign raffinato e niente

cavi di collegamento:così nel 1998 Appletorna a stupire i fan

MAC MININel 2005 Apple presenta

il suo computerpiù piccolo ed economico

(costa circa 500 euro)

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IBOOKÈ il computer con cui

Apple, nel 1999, sfondanel mercato dei portatiliper il grande pubblico

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il reportageStragi dimenticate

GIAMPAOLO VISETTI

32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 26 MARZO 2006

A vent’anni dal disastro siamo entrati nel relitto della centrale

nucleare, ora aperta al pubblico. Scoprendo che i lavoriper disinnescare il reattore sono fermi, i boschi contaminatinon sono mai stati abbattuti, i villaggi non sono stati bonificati,le vittime non sono state risarcite. Solo i miliardi sono spariti

Oggi l’infernoè un brivido

per turisti: 400 dollariper un giro

in una scenografia

horror, con la guidache ti chiededi sorridere

per le foto ricordo

L’Organizzazionemondiale della sanitàparlò di quattromilamorti. Ma le stime più recenti dicono

che quella catastrofeè costata la vita

ad almeno mezzo

milione di persone

CERNOBYL

Il buco nero dell’energia atomicasovietica resta un ordigno inne-scato. A vent’anni dalla peggiorecatastrofe nucleare della storia, la

centrale dello scoppio ora è aperta allevisite turistiche. Nelle viscere dell’inac-cessibile reattore numero 4 di Cernobylrestano però sepolte 200 tonnellate diuranio attivo, quantità incalcolate diplutonio, xeno, iodio e radio. Dopo oltrecinque dalla chiusura dell’ultimo reatto-re (15 dicembre 2000), nessuno ancorasa dire quanti anni serviranno per scon-giurare una ripetizione della tragedia ri-mossa che incombe sull’Europa. De-cenni per disinquinare, fino a cin-quant’anni per asportare e distruggere ilcarburante nucleare. Quindici anni euna montagna di dollari per completarela nuova protezione del reattore saltato.Poi tutto ricomincerà, in una lotta infini-ta contro il tempo che consuma le difesee conserva la potenza fuori controllo.

Il disastro del 26 aprile 1986 — quat-tromila morti ufficiali per l’Organizza-zione mondiale della sanità, almenomezzo milione secondo stime recentis-sime pubblicate in Gran Bretagna —causò un’esplosione 500 volte più po-tente di quella di Hiroshima. Dopo il fal-lito test sulla sicurezza, la copertura delmotore atomico, duemila tonnellate diacciaio e cemento, venne scagliata cen-to metri più in alto, oltre il tetto della cen-trale. Un altro guasto, dentro gli immen-si capannoni abbandonati, produrreb-be oggi un’onda radioattiva fino a diecivolte maggiore. L’estinzione della vita inun’area di migliaia di chilometri. Il go-verno ucraino cerca così cinquemila vo-lontari per costruire un nuovo sarcofagosopra il luogo dell’esplosione: dovrebbeessere ultimato nel 2010 e durare centoanni; il primo, garantito per 18 anni, mo-stra crepe e crolli impressionanti.

Ma pochi accettano uno stipendiotriplo rispetto alla media, quindici gior-ni lavorativi al mese. Solo ora, nell’in-differenza generale, iniziano infatti amorire come mosche i primi “liquida-tori”. Centinaia i necrologi sui giornalilocali. In 600mila, per 206 giorni, furo-no costretti a lavorare per spegnere ilreattore disintegrato. A mani nude inuna nube radioattiva da tremila roent-gen all’ora, quando trecento sono ilmassimo sopportabile. Nessuna infor-mazione. Fu sacrificato anche per ritar-dare la fine dell’ultimo impero del No-vecento, l’esercito di fantasmi inviato abuttare sabbia contro una bomba ato-mica. Sono morti consumati dal cancroe dalla leucemia, da lesioni alla tiroide:600 vittime solo tra gli elicotteristi chesorvolarono la zona. Mai arrivati gli in-dennizzi promessi. Dentro la zona in-terdetta, monumenti e lapidi li defini-scono «eroi che hanno salvato il mon-do». Sono in realtà i superstiti degli ul-timi condannati a morte dell’Urss. Il re-gime comunista era in agonia, per gior-ni Mosca tacque. Mentre i pompieriaffondavano nel terreno incandescen-te, buttando badilate di terra sul bitu-me liquefatto, gli scolari venivano ac-compagnati dalle maestre ad ammira-re lo spettacolo. Non si potevano usareacqua, o sostanze ignifughe. Sopra i sa-crificati, alta quasi due chilometri, unanuvola mortale. Per la prima volta le au-torità sovietiche, già sconvolte dal ci-

clone riformatore di Gorbaciov, ebbe-ro fisicamente paura. Intuirono che ilmostro scientifico partorito da un’i-deologia impazzita poteva sbranarle.

Cernobyl non è stato solo un disastroumano e ambientale, un tracollo tec-nologico: al confine tra Ucraina e Bie-lorussia esplose l’Unione sovietica, laterza bomba atomica pose fine allaGuerra Fredda. Con l’epitaffio atomi-co, si chiuse il Novecento delle guerremondiali. Per questo nessuno si fidapiù e il progetto internazionale da oltreun miliardo di dollari, necessario a di-sinnescare il reattore numero 4 per al-tri vent’anni, subisce oggi continui rin-vii. I rapporti di forza sono cambiati, al-tre le minacce e le emergenze interna-zionali. La “guerra del gas” e il caro pe-trolio, l’incubo di restare privi di ener-gia, tornano a ingrossare in Europa ilpartito dell’atomo. I fondi della Bancamondiale, che dovrebbero mettere insicurezza ma pure distruggere Cer-nobyl, non vengono dunque sbloccati.La centrale dell’apocalisse è un relittodimenticato della storia, uno spaventoperduto nella memoria.

Così l’inferno è un brivido per turistiin cerca di orrori virtuali: 400 dollari a vi-sita per farsi passare il rilevatore di ra-dioattività sui vestiti, per vedere i segna-li luminosi passare da 15 a 878 micro-

roentgen nel giro di pochi passi. Crede-re che una breve esposizione sia inno-cua, che gli apparecchi siano efficienti,sono atti di fede praticati con imbaraz-zata diffidenza. Di uno scandalo scien-tifico e morale, subito ridotto a conflittopolitico, resta invece ciò che immagi-niamo sarebbe la Terra dopo la fine delmondo. Uno spazio vuoto, brullo e de-serto, sommerso da 50mila tonnellate disabbia. Per trenta chilometri, dal postodi blocco di Dyatky fino a Cernobyl, nons’incontra una sola persona. C’erano 90villaggi, oltre 300mila abitanti, fattorie.Triangoli gialli e rossi segnalano ora ca-se e strade sepolte sotto dieci metri diterra, il minimo per limitare le fughe ra-dioattive. I paesi abbandonati, comeKopaci, dove si produceva il miglior lar-do piccante del Patto di Varsavia, si in-tuiscono tra le ricresciute foreste di pinie betulle. Isbe sventrate, recinti di ortipiegati, negozi crollati con la merce an-cora sugli scaffali. Vengono in mentecerte scene di film americani, o qualchesperduta frazione alpina. Realtà e fanta-scienza si confondono. Agli abitanti, co-stretti a sfollare in poche ore tre giornidopo la catastrofe, dissero che presto sa-rebbero potuti rientrare. Portarono consé solo un cambio di biancheria: a casanon sono mai tornati.

È ancora una volta l’insostenibile pe-so delle bugie, più che l’impressione diquanto si vede e di ciò che non c’è, a do-minare un territorio cancellato dal glo-bo. L’immagine esterna della zona piùcontaminata è quella di un luogo dovel’emergenza è superata, dove si lavora adisinquinamento e stabilizzazione. Ar-rivando, come accade andando negli exgulag, o nella devastazione di Grozny, onei cimiteri dei sommergibili nucleari, onei bacini petroliferi siberiani biologi-camente morti, emerge l’inconfessabi-le verità post-sovietica. Tutto, ancora,resta finzione. Sulla via della centralesfili davanti al cimitero dei mezzi usatiper seppellire il reattore. Oltre duemilacamion, elicotteri, trattori, jeep, aerei:materiale contaminato abbandonatoall’aria aperta. Segnali vietano di incen-diare i boschi che nessuno, nonostantele promesse, ha abbattuto: alberi, erba emuschio sono radioattivi, la cenere diun rogo raggiungerebbe l’atmosfera. ACernobyl, o nella città morta di Pripyat,i palazzi vuoti sono ancora in piedi. Ifondi internazionali avrebbero dovutoconsentire di radere al suolo e sotterra-re tutto entro 15 anni. Solo i miliardi so-no spariti.

Ci si muove così dentro una sceno-grafia horror, mentre la guida chiede disorridere per le foto-ricordo. A parte lapresenza umana, il tempo si è fermatoall’1.23 della notte tra il 25 e il 26 aprile divent’anni fa. Sulla piazza centrale diPripyat, sei chilometri dalla centrale,ancora si affacciano l’hotel Polissia, il ri-storante Odessa, il supermercato, la ca-sa del popolo. Sulle facciate pericolanti,simboli e slogan del defunto Pcus. Pocodistante, la piscina mostra un trampoli-no marcito, ingombro di salvagente.Dalle finestre senza vetri della scuola siscorgono i banchi con i quaderni anco-ra impilati. Sulla piazza vicina, la giostraarrugginita del luna park e gli autoscon-tro. Nei condomini sovietici non è rima-sto nessuno dei 47mila abitanti. Muritrafitti dai buchi, tetti sfondati, mobiliabbandonati, asfalto frantumato, er-bacce e arbusti invasivi, restano impre-gnati di sostanze radioattive. Tonnella-

Cernobyl, tra i fantasmi

LE MALATTIEQui sopra, una donna

ucraina malatadi leucemia. A destra,

tre bambine affetteda ritardo mentale

Sotto, una donna colpitada un tumore al cervello

dopo l’incidenteIn alto, le foto

appese ai murinell’asilo abbandonato

di Pripyat, una cittàdi cinquantamila

abitanti evacuatatre giorni

dopo l’esplosione

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 26 MARZO 2006

te di scorie, combustibile nucleare or-mai inutile, giacciono nascoste sottomagazzini in rovina.

Gli operai condannati ad armeggiareattorno al sarcofago della centrale sonoquattromila. Raggiungono Cernobylda Slavutich, la nuova città-modellocon 25mila residenti dove ogni quartie-re è stato eretto da una nazione diversa.Sorridono e abbassano gli occhi, sen-tendo parlare di bonifica. Ogni giornoquaranta minuti di treno, passando ilconfine bielorusso. Scavano, posanochilometri di filo spinato, erigono ilmuro che ormai isola la centrale, fannosparire carcasse di animali morti e letonnellate di pesci che si gonfiano escoppiano nel Dniepr. Visite medicheogni quindici giorni, rassicurazionisulla salute fino a quando la malattianon si manifesta. L’impressione è che ilrisarcimento consista in una condan-na a vita: fingere di lavorare ad una bo-nifica fittizia.

«Nella maggior parte delle stanze at-torno al reattore scoppiato — confessaYulia Marusich, delegata dal governo atenere i rapporti con gli ospiti stranieri— nessuno è mai entrato. Non sappiamonemmeno cosa ci sia all’interno: i robotsegnalano livelli di radioattività altissi-mi, fino a 3400 roentgen all’ora». Sotto ilsarcofago, coperto dal ghiaccio dell’in-verno, dopo vent’anni la temperaturaresta a quaranta gradi. «Per abbassare irilasci tossici — dice il custode Yuri Ta-tarchuk — lo scheletro della centrale e laciminiera alta settanta metri dovrannoessere conservati per l’eternità».

È questa una categoria sconosciutaagli “samosioly”, i vecchi abitanti dellaregione tornati nelle loro case violandoi divieti. Ormai sono 147, sparsi in 16villaggi pressoché scomparsi. Nonhanno avuto alternativa, cedendo al ri-chiamo di patria e casa natale. Al nu-mero 25 di Parishiv, quindici minuti dalreattore, abitano Maria e Mikhail Uru-pa, coniugi di settant’anni, non un den-te nelle gengive nere. Sessanta dollaridi pensione, due mucche, tacchini egalline, frutta e ortaggi. Vivono isolati,in quarantena costante, come appesta-ti. Una radio per chiamare il medico,un’auto che il giovedì mattina lascia iviveri sulla porta, il vecchio cimitero aldi là del campo di patate, dove riposa-no amici e parenti. Maria e Mikhail so-no soli, circondati da chilometri di si-lenzio e da una selvaggia natura conta-minata. «Ma chi è andato via — assicu-rano — è già morto. Noi siamo radioat-tivi, ma vivi». Non è mai stata calcolatala sofferenza mentale e fisica di questimilioni di ucraini, bielorussi e russi.Milioni di vittime sopravvissute alla ca-tastrofe vivono senza sapere le conse-guenze di una notte rischiarata dal fuo-co. Ogni morte, un sospetto.

Il simbolo mondiale del fallimentoatomico resta «zona di esclusione» perle persone, a crescente inclusione di af-faristi senza scrupoli. Un mostro asso-pito, in vendita sul mercato nero. Un’i-deologica Pompei contemporanea, in-cenerita da una ciminiera e immolataalla follia del dominio universale. Sullapiazza centrale di Cernobyl, tremilaancora nei turni di lavoro, tecnici e po-liziotti addetti a non si sa cosa, pascola-no due alci. Vent’anni dopo, la strage ri-vela la profondità della propria irrisol-ta distrazione civile: ancora più tragicadavanti alla forza di una testimonian-za, alla vita che continua.

“Io, unico superstiteracconto l’apocalisse”

MOSCA«Sono scoppiati degli incendi vicino a Kiev. Dovete andare a spegnerli». Il 26aprile 1986 il tenente colonnello Vladimir Alimov, uno dei primi liquidatori di Cer-nobyl e uno dei pochi a essere sopravvissuto, fu buttato giù dal letto alle 4.30. Sogna-va casa nella sua caserma vicino a Baikonur, in Kazakhstan. «Sembra incredibile —racconta oggi — che nessuno ci spiegò con precisione dove dovessimo andare, per fa-re cosa. A tutti sembrò assurdo volare per migliaia di chilometri per un semplice in-cendio. Abbiamo capito dopo alcuni mesi: il comando dell’Armata Rossa aveva pau-ra che di fronte alla verità i soldati si rifiutassero di andare a morire».

Quando arrivò a Cernobyl?«La notte del 26 aprile. Non dormivo da venti ore. Un viaggio massacrante. Scali in

Georgia e poi in Ucraina, a Cernigov e a Konotop. Solo il tempo del rifornimento di car-burante. Chiedevo al mio capitano, Smirnov, cosa stesse succedendo. Pensavo chel’Urss stesse preparando un attacco in Polonia. A Konotop ci hanno detto che c’erastata una catastrofe a Cernobyl. Non avevo mai sentito quel nome».

Si rese conto di essere stato mandato a seppellire un reattore nucleare?«No, ma che si trattasse di un evento gravissimo era chiaro. Lungo il percorso si

formò una colonna di elicotteri mai vista, in arrivo da tutta l’Unione sovietica. Rice-vevamo “corridoio verde”, il diritto di precedenza ovunque. Atterrammo a Pripyat indieci, non c’era traccia di fuoco. Il generale Antoshkin ci consegnò delle tute di gom-ma, sacchi di sabbia e blocchi di piombo. E ci ordinò di decollare subito».

Cosa vide quando raggiunse il reattore esploso?«Era buio. Volavo a 50 chilometri all’ora, a 200 metri da terra. Nella centrale vidi uno

squarcio di pochi metri. Sembrava che il tetto fosse crollato. Nulla di speciale. Per but-tare sabbia e piombo nel cratere dovevamo aprire i portelloni e sporgerci per prende-re la mira. Non avevamo alcuna protezione. A ogni missione mi alternavo alla guidacon il capitano Smirnov».

Quanti voli faceste in quelle ore?«Le norme prevedevano un massimo di sei voli al giorno. In tre giorni ci costrinsero

a farne 99. Ma ormai eravamo rassegnati a morire».Perché?«Il secondo giorno un medico militare ci suggerì di consegnare al comando i dati

delle nostre famiglie. Spiegò che alla nostra morte avrebbero ricevuto una pensionedi 150 rubli al mese».

Come scoprì il rischio della contaminazione radioattiva?«Fu la gente del posto a insegnarmi cosa significava catastrofe nucleare. Già dopo il

primo volo un chimico-dosimetrista misurava i nostri livelli di radiazioni. Se i valori mas-simi vengono superati, la lancetta dell’apparecchio crolla sullo zero. Così fu per tutti».

Perché avete continuato?«Eravamo soldati, non si possono discutere gli ordini».Capì la gravità del disastro?«Nessuno comprese subito che s’era alzata una nube radioattiva, che questa avreb-

be contaminato mezza Europa. Ero convinto che si trattasse di un disastro locale».Come si salvò?«Dopo tre giorni avevo assorbito una dose di radiazioni non sopportabile. Assieme

ad altri due equipaggi fummo caricati su un Tupolev e ricoverati d’urgenza all’ospe-dale centrale di Sokolniki, a Mosca. Fummo tenuti in isolamento per otto mesi: sia perragioni mediche, sia per evitare che raccontassimo ciò che avevamo visto e fatto».

Ha ricevuto dei risarcimenti?«Nemmeno un rublo. Ci hanno spiegato che eravamo volontari. È stato un miraco-

lo se non sono stato espulso dall’aeronautica militare. I piloti possono trasmettere unaradioattività massima di 25 roentgen. Io segnavo 260. Falsificai il libretto sanitario,scrivendo 23. Anche alle autorità giovava dimostrare che i liquidatori erano guariti».

Quali conseguenze ha subìto in questi anni?«Per salvarmi ho dovuto assumere ormoni di produzione giapponese. Sono in-

grassato di venti chili in tre mesi e ho perso i capelli. Ho il fegato distrutto e sono so-pravvissuto a una leucemia acuta. Però sono vivo: dei miei compagni di missione nonè rimasto nessuno».

Ha fatto carriera?«No, le malattie mi hanno fermato. Sono solo rientrato nell’aeronautica. Quattro anni

dopo la catastrofe sono stato decorato con l’Ordine della Stella Rossa. Sei anni fa, dopoun’azione in Cecenia, mi hanno riconosciuto il titolo di Eroe della Federazione russa».

Si sente un eroe?«Nessun reduce di Cernobyl è un eroe. Siamo condannati a morte, salvi per caso».È vero che Cernobyl, per ragioni politiche, è un disastro gonfiato?«Attorno alla centrale ho perso i miei compagni. Trentasette elicotteristi, giovani, i

migliori dell’Urss. Nessuno è sopravvissuto per oltre cinque anni. In vent’anni i pilotisovietici mandati a Cernobyl e morti sono stati oltre seicento. Ancora non capisco co-sa voglia dire esattamente politica. Per chi si è salvato, dal punto di vista morale e psi-cologico, Cernobyl è piuttosto una catastrofe ignorata: minimizzata, quando non ri-dicolizzata mentendo a chi è morto restando formalmente in vita». (gp.v.)

della Grande menzogna

I SOPRAVVISSUTINella foto qui sopra,una famiglia ucrainasulle rive di un fiumea pochi chilometridalla zona 1,quella completamenteevacuata dopoil disastroA sinistra, una bambinamalata di cancroalla tiroide in seguitoall’esplosioneSotto, la donna affettada tumore al cervelloe fotografataanche nella pagina accanto

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34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 26 MARZO 2006

la memoriaLeggende del pallone

Da settant’anni “zona Cesarini” vuol dire giocarselafino alla fine, non disperare mai, sapereche nel “novantesimo”, in quell’estremo segmentodel tempo, ci sta ancora tutto: partita, possibilità, futuroOra un libro racconta la vita romanzesca dell’uomo,Renato Cesarini, che è rimasto inchiodato a quella metafora

Figlio di un calzolaio

emigrato a Baires,tornò in Italiacon sciarpa di setae gemelli d’oro

Un minuto per restare nellastoria, per entrare nel les-sico e nel dizionario. Unminuto solo. Un minuto,e basta. Quello che la vitaè pronta a rubarti, facen-

doti credere che non conti. Il novantesi-mo. Tempo scaduto, destino che scap-pa, saracinesca che si abbassa. Lui peròci mise il piede, lo bloccò quel minuto, lodilatò, lo fece diventare immenso, senzatempo. Se i palloni potessero parlare del-l’ansia con cui rotolano al novantesimo,direbbero che è stato lui a cambiare tut-to. A dare una lezione al mondo: non ca-scateci, non fatevi fregare dal minutoche manca. Dentro ci sta ancora tutto:partita, possibilità, futuro. Se solo sietecapaci di giocarlo quel minuto, di affer-rarlo, scrollarlo, e fargli sputare quelloche vi deve.

In zona Cesarini, appunto. Così si diceda settant’anni, così indica lo Zingarelli.Sono tanti i giocatori famosi, ma RenatoCesarini detto Cè, nato sulle colline diSenigallia nel 1906 e morto a Buenos Ai-res nel 1969 è l’unico calciatore diventa-to un modo di dire. E di vivere: mai ri-nunciare, mai pensare che sia finita, sipuò sempre ricominciare da un orlo deltempo. E zac, riaprire la cerniera, rimet-tere fuori la testa. Avete presente la nottedi Istanbul, con i milanisti che ridevanoe quelli del Liverpool che piangevano? Ilbello è che Cesarini, primo azzurro nellastoria del calcio a segnare al novantesi-mo, di gol così, in nazionale, ne segnò so-lo uno, le altre tre reti le realizzò in serieA: contro l’Alessandria nel ‘31, contro laLazio nel ‘32 e contro il Genoa nel ‘33. Treminuti in tre anni e ti salvi dall’oblio.

Un’infanzia difficile

Anche se il Cè non era tipo da rapina, dascippo, a lui piaceva costruire. Avevaavuto un’infanzia difficile. I suoi genito-ri erano partiti in nave sulla rotta degliemigranti, Genova-Buenos Aires, che luiaveva nove mesi. Portandosi un rosarioe uno spicchio d’aglio. Il bastimento sichiamava Mendoza, il viaggo duravatrenta giorni, il quartiere dei poveracciera il barrio Palermo. Il padre Giovanni fail calzolaio, Renato per un po’ riparascarpe, ma non gli interessa, lui vuolecamminare, correre, curiosare. Prosti-tute e tango. Notte e chitarre. Acrobaziee trapezio. Numeri da circo, insomma.Infatti viene scritturato. Ha il nasone, ilvolto appuntito, gli occhi che brillano,un ciuffo ribelle ad ogni schema. E ungiorno scopre che si possono fare giochianche con il pallone. Finisce nella squa-

dra del Chacarita, quartiere dove sorge ilcimitero. Camposanto e calcio usano lastessa terra, i giocatori si chiamano fu-nebreros, becchini.

Cesarini si nota. È vivace, gioca bene,suona ancor meglio la chitarra. El tano,l’italiano, è il suo soprannome. Sono glianni di Raimundo “Mumo” Orsi, brillan-tina, riga in mezzo, gran sinistro, origi-nario di Santa Maria di Bobbio, in pro-vincia di Piacenza. Orsi per centomila li-

re e ottomila di stipendio mensile, arrivaalla Juventus nel ‘28, non sa parlare ita-liano e soprattutto non può giocare incampionato per l’ostruzionismo dellafederazione argentina. Due anni dopo, agennaio del ’30, sbarca pure Cesarini. Incondizioni diverse da quando era parti-to: il transatlantico si chiama Duilio, luiha sciarpa di seta, gemelli d’oro, borsali-no, e una valigia di cravatte.

Il barone Mazzonis, vicepresidente

della Juve, cerca di fargli capire che esi-ste uno stile della società, l’allenatore èCarlo Carcano, il presidente EdoardoAgnelli. Cesarini, che cambia camiciatre volte al giorno e dorme in lenzuola diseta, se ne sbatte. Esordisce dieci giornidopo il suo sbarco, non ha ancora ven-tiquattro anni, però la butta dentro. Èuna grande Juve, c’è Virginio Rosettache non ama colpire di testa, Berto Ca-ligaris che anticipa la moda della ban-

EMANUELA AUDISIO

Aun corteggiatore che la sera prima incontrava l’amato bene si chiese:«Come è andata?». Volendo rispondere e non rispondere optò per lametafora, perché non era talmente accecato dall’amore da dimenti-

carsi del football: «Beh, non male. Ho mosso un po’ la classifica». E si capìche le reti erano rimaste inviolate.

L’aneddoto potrebbe anche essere rubricato fra i casi di quel gergo che in-crocia ironia e autoironia, dove il linguaggio del calcio serve per coprire i pu-dori del sentimento. Muovere la classifica è peraltro un bellissimo modo didire, sottile e delicato. Il linguaggio del calcio a volte inventa sfumature do-ve non sembrerebbero possibili: i risultati sono 1 X e 2, ma ecco che c’è unabella differenza fra il «rimanere inchiodati al pareggio» e il pareggio non de-ludente, «che muove la classifica».

Ma fosse solo una questione di gergo e metafore... In realtà il calcio ha do-nato al linguaggio comune una rispettabile quantità di espressioni, che di-mostrano come il calcio sia, o sia stato, una delle forze unificanti del Paese.«Un linguaggio molto pervasivo: il calcio»: non a caso si intitola così un ca-pitolo dell’ultimo libro di Gian Luigi Beccaria sulla lingua italiana (Per dife-sa e per amore, Garzanti). E in questo capitolo si omaggia giustamente Re-nato Cesarini, e la sua zona.

È indubbio che raccontando la stessa storia è molto diverso se diciamo «misono salvato per il rotto della cuffia» invece di «mi sono salvato in zona Cesa-rini»; o se diciamo «ha capito che non era aria quando l’ho guardato male» in-vece di «quando gli ho fatto la faccia di Gattuso». Il calcio dunque dà le sue pa-role alla vita associata: integrando gli elenchi di Beccaria, ci si salva in calciod’angolo, si prende un interlocutore in contropiede, si fa melina o addirittu-ra catenaccio con un’incombenza sgradita, si fa spogliatoio con i colleghid’ufficio o ci si palleggia le responsabilità. Il governo organizza ripartenze,Berlusconi desidera la rimonta, il potere di interdizione fa sempre pensarepiù che a un’authority a un centrocampista. Si «gioca a tutto campo» anchein politica, si schierano «tre punte» anche alle elezioni, si «entra a gamba te-sa» anche nelle relazioni sindacali, vi sono arbitri e moviole dappertutto, inogni mestiere si può essere costretti ad accomodarsi in panchina (lo «scen-dere in campo» è riservato, si sa, a chi se lo può permettere), qualsiasi prodottopuò essere catalogato «di serie B», i politici si portano ai talk show i loro ultras.E alla fine, si ricomincia: palla al centro.

Sui giornali di martedì 14 marzo gli articoli sulla scomparsa di MassimoDella Pergola, inventore del Totocalcio, hanno riportato alla memoria di tut-ti il lessico del totocalcio: fare tredici, giocare una tripla... La sera stessa Cle-mente Mimun, dopo la fine del «match» fra Berlusconi e Prodi ha ringraziatoi contendenti per l’emozione di avere «arbitrato» un «incontro» degno dellafinale della Champions League. Si è saputo poi che aveva avuto al proposito

uno scherzoso scambio di battute con l’arbitro Collina.Viene un sospetto, che nel Paese dove il partito di maggioranza relativa

prende il nome da uno slogan da stadio è un sospetto anche abbastanza ba-nale: diciamo un sospetto di Pulcinella. I rapporti fra parole e cose sono sem-pre molto complicati, ma proviamo a fare un semplice rovesciamento. Sequesto transito linguistico dal calcio alla realtà non fosse una metafora? Se,insomma, noi chiamiamo zona Cesarini la zona Cesarini non per un caso oper un vezzo, ma perché, negli anni, abbiamo iscritto la realtà al campionatodi calcio? L’ipotesi, diciamolo subito, più che apparire ardita e provocatoriavorrebbe iscriversi nei (cospicui) registri dell’ovvio.

Ci sono metafore e metafore, infatti. Se uno non vive in epoca vittoriana nontrova nulla di erotico nelle «gambe» del tavolo e non nota neanche più che ilcollo della bottiglia si chiama come quello su cui posa la sua testa, o dovreb-be farlo. Queste sono metafore che non si possono più avvertire come tali, einfatti che la regina Vittoria facesse pudicamente coprire le gambe dei mo-bili fa francamente ridere. Ma poi ci sono metafore che non partono dallinguaggio ma direttamente dalla percezione, veri e propri “campimetaforici” che organizzano il modo in cui vediamo il mondo. Neparla un bel libro (Metafore e vita quotidiana, Bompiani) diquel George Lakoff di cui in questi giorni è uscito unpamphlet sul linguaggio politico (Non pensare all’ele-fante, Fusi Orari). Il calcio è una di queste metafo-re: lo sport e i giochi rendono sempre un’imma-gine della società in cui sono popolari, manel caso del calcio e dell’Italia l’immagi-ne diventa una compenetrazione. Undibattito politico non viene soloraccontato con linguaggio cal-cistico: ma viene vissuto co-me fosse football. «Quelliche in fondo è solo unapartita di calcio» sia-mo noi: molto infondo, e semprein un’eternazona Cesa-rini.

STEFANO BARTEZZAGHI

L’Italia delle parole, dai bar ai duelli tv, è una partita di calcio

Il Cè, poeta dell’ultimo minuto

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 26 MARZO 2006

due orchestre e i musicisti vestiti dagauchos. Di sera a suonare c’è anche lui.Becca multe, le paga, se le fa anche unpo’ scontare, ma non rinuncia allescommesse e a se stesso: si rapa per trevolte i capelli a zero, si presenta ad unafesta in pigiama bianco e foulard, arrivatardi all’allenamento, scendendo insmoking dal taxi, si cala dalla grondaiadell’albergo, dov’è in ritiro, per andarea fare baldoria, ricambia una bottiglia di

champagne che gli fa arrivare al tavoloEdoardo Agnelli con altre dodici, in-somma se la gode, soprattutto di notte.E non rinuncia all’eleganza, pigiama evestaglia di raso.

Ma in campo gioca e segna. Esordiscein maglia azzurra nel ‘31, ma la indossasolo undici volte, troppo ribelle per il ctPozzo, che gli preferisce gente più solida.Però arriva quel minuto lì, straordinarioe unico. È inverno, a Torino, stadio Fila-

delfia, c’è pioggia efango, è il 13 dicem-bre 1931, l’Italiagioca contro l’Un-gheria. Gli azzurrichiudono il primotempo in vantag-gio, uno a zero, goldi Libonatti. Avar fal’uno pari, Orsi ri-porta l’Italia in van-taggio, ma Avar se-gna di nuovo: due adue al novantesi-mo. Tutto o nienteda rifare. Cesarini laracconterà così:«Mancavano pochisecondi alla fine,dirigeva lo svizzerosignor Mercet. Adun certo punto ebbila palla. Avevo ad-dosso il terzino

Kocsis, un tipo che faceva paura. Nonpotendo avanzare passai alla mia ala,Costantino. Allora ebbi come un’ispira-zione, mi buttai a corpo morto, tirai Co-stantino da una parte, caricandolo con laspalla, come fosse un avversario, e fintai,evitando Kocsis. Il portiere Ujvari miguardava cercando di indovinare daquale parte avrei tirato. Accennai unpassaggio all’ala dove stava arrivandoOrsi, Ujvari si sbilanciò sulla sua destra,allora io tirai assai forte, sulla sinistra, ilportiere si tuffò, toccò la palla, ma nonriuscì a trattenerla. Vincemmo per tre adue. E non si fece nemmeno in tempo arimettere il pallone al centro».

La consacrazione

Renato a venticinque anni entra nellastoria, ma non se ne accorge subito. Do-vrà passare una settimana. Eugenio Da-nese è il primo giornalista a parlare di«zona Cesarini», quando il 20 dicembrel’Ambrosiana batte due a uno la Romacon un gol di Visentin all’ottantanovesi-mo. Ormai Renato ha firmato il suo mi-nuto, non ci possono essere altri pro-prietari. In tutto tra Juventus e naziona-le Cesarini giocherà 158 partite e segnerà55 reti. Nel ’35 ripartirà per l’Argentina,giocherà nel River Plate e vincerà altridue scudetti, poi a trentaquattro anni di-venterà allenatore della squadra cheverrà chiamata «La Maquina». La mac-china, sì, per la precisione delle giocate.Dicono che quel River Plate è capace diattraversare il campo senza far toccareterra alla palla. Cesarini capisce moltoprima dell’Olanda di Cruyff che «si di-fende e si attacca in undici». Non lo in-tuisce dai libri sul calcio, ma dalla sua vi-ta. «Nella mia esistenza ho fatto il calzo-laio, l’acrobata, il pugile, l’artista di stra-da, il calciatore, il radiocronista, l’orga-nizzatore di corse ciclistiche, il suonato-re. Il calcio non può essere moltodiverso, tutti devono sapere fare tutto».

Non conta l’ultimo minuto, ma comesi gioca fino all’ultimo secondo. Alleneràaltre squadre Cesarini, tornerà in Italia,sarà lui a scoprire Omar Sivori, a portar-lo alla Juve, e a far esordire nel ‘47 Boni-perti. Quel selvaggio di Sivori che nondava retta a nessuno, che s’inchinava so-lo a Cesarini e lo chiamava maestro. For-se perché Renato non aveva figli e Omarnon aveva padre.

Una volta la zona Cesarini era inven-zione, eccezionalità, sorpresa. Ora ècambiata, è più facile segnare al novan-tesimo. Ci sono gli specialisti, quelli cheentrano per gli ultimi minuti, senza unagoccia di sudore, pronti a matare quellicotti di fatica. Adesso sono in tanti a fir-mare quella zona, negli ultimi tre cam-pionati i più bravi sono stati ChristianVieri con cinque gol, Kakà e Totti conquattro. Una volta invece al novantesi-mo ci arrivavi con tutta la partita nellegambe, le sostituzioni non erano am-messe, dovevi restare sulla croce fino al-l’ultimo, senza poter chiedere controfi-gure. La zona Cesarini la riconosci dallasensazione: tu che vai in paradiso, la pal-la che va all’inferno, l’arbitro che fischiala fine, il rimpianto che va a morire, ilcuore che ti si deposita in fondo alla rete,la terra che gira più dolcemente. E tuttala vita, con la sua montagna di secondi.

SCIMMIA DA COMPAGNIANelle foto, Renato Cesarini

in tre immagini degli anniTrenta: sul campo di calcio;

in sciarpa, cappelloe completo elegante;

con la scimmia che tenevacome animale da compagnia

e che usava portarea spasso su una spalla

CAMPO DI CALCIO

METAFORA DI VITA

Va in libreria, edito da Bompiani, il librodi Luca Pagliari “Zona Cesarini. Campodi calcio, metafora di vita” (280 pagine,8 euro). Il libro ha una prefazionedi Alessandro Del Piero, contributidi Roberto Nestor Sensini, Paolo Rossi,

Bruno Conti, RobertoMancini, e riporta la vocedi alcuni altri grandicampioni del calcio di oggiche sentono di doverequalcosa al lontanoesempio del giocatoreitalo-argentino: FrancescoTotti, Gabriel Batistuta,Roberto Baggio. Il libroscritto da Pagliari escein occasione del centenariodella nascita di RenatoCesarini (11 aprile 1906)e vuole essere un omaggioa un fuoriclasse di cui

il grande pubblico, non solo del calcio,conosce soltanto la metafora che ne portail nome. Dietro quella metafora c’è un uomodi straordinario fascino che si vantavadella sua origine di figlio di emigranti:“La mia università è stata la strada e la vitadi ogni giorno mi ha insegnato qualcosa.Basta saper guardare”

I gol segnatifino al 15’

12I gol segnatidal 16’ al 30’

13I gol segnatidal 31’ al 45’

4I gol segnatidal 46’ al 60’

8I gol segnatidal 61’ al 75’

6I gol segnatidal 76’ al 90’

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I GOL DI RENATO

dana con il fazzoletto bianco attorno alcapo, c’è Combi in porta, Bertolini checorre per tutti, i fratelli Varglien, FeliceBorel che ha il 36 di piede, Giovanni Fer-rari che vincerà campionati e mondiali.E c’è Cesarini che ha troppa vita per gio-carsela solo al novantesimo, infatti giracon una scimmia sulla spalla, fuma unpacchetto di sigarette al giorno, imparal’italiano, dice lui, dalle maitresse e inpiazza Castello apre una tangheria, con

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 26 MARZO 2006

le storieSport sempreverdi

Si chiama kushti, è l’antica lotta indiana nella sabbia,

un wrestling di duemila anni fa che comporta l’adesionea uno stile e a una filosofia di vita, ancora oggi insegnatain migliaia di akhara, le palestre-monastero. E che adessofronteggia il nemico più insidioso: la modernizzazione,che pretende combattimenti brevi su materassi di gomma

I gladiatori della terra rossaRAIMONDO BULTRINI

combatteva esclusivamente sulla terranuda. Le gare di lotta non avevano limiti ditempo, ci si poteva battere da mattina a se-ra prima che uno dei due soccombesse al-l’altro. Ora si usano i materassi e ci sono so-lo tre round che durano due minuti. Sevuoi una medaglia devi allenarti a buttaregiù l’avversario prima possibile, che signi-fica cambiare stile, filosofia, tutto».

Di tanto in tanto guru Changdi lanciaun’occhiata alla buca di sabbia dove il suostudente esile sta per essere sollevato co-me un fuscello. Ce la farà un giorno a di-ventare un muscoloso pahalwan? gli chie-diamo. «Sì, con un paio d’anni di lavoro du-ro e molto latte, panna ghie mandorle», re-plica il maestro. Il ghi è una specie di burropastorizzato, altamente proteico, mentrele mandorle contengono un numero ele-vato di calorie. È il cibo ideale per gente cheogni giorno passa ore e ore a esercitarsi. Maper alimentarsi adeguatamente — dieci-mila calorie contro le mille di un indianonormale — un lottatore dovrebbe spende-re tra le 200 e le 400 rupie, dieci dollari algiorno, una cifra che pochi possono per-mettersi. «Un tempo a finanziare ipahalwan erano i re e i principi, poi i me-cenati — spiega Changdi Ram — oggi de-vono guadagnarsi il pane da soli, e moltihanno un lavoro».

Quando tre anni fa l’India decise di ban-dire le buche di sabbia per gli allenamentidegli atleti, destinati a gareggiare sul duroin palazzetti dello sport e stadi, ci fu unamezza sollevazione tra gli akhara indiani,e alla fine non tutti hanno abolito il peri-metro sabbioso. Non solo perché la lotta susabbia costituisce ancora un’attrazioneformidabile nelle aree rurali, durante festereligiose e sagre, ma anche perché pochis-simi centri potevano permettersi l’acqui-sto dei materassi.

marziali del Mediterraneo in India.L’akhara sullo Yamuna potrebbe somi-

gliare a una palestra dell’era vedica, se nonfosse per i pur vetusti attrezzi ginnici d’ac-ciaio che hanno sostituito i pesanti sassi dasollevamento, l’aratro per esercitarsi a ti-rare, le gigantesche clave per rafforzare leclavicole e gli avambracci. Lo ha fondatouna leggenda del wrestling indiano, ilmaestro Changdi Ram, vincitore di un oroai Giochi asiatici e gloria nazionale, oggisettantenne. Ma il vecchio guru non sem-bra un nostalgico: «Se è cambiato il kushti?E che cosa non è cambiato al mondo? Nelnostro paese viaggiavamo su cavalli, ele-fanti, cammelli, carretti. E alle olimpiadi si

GLI ATLETINelle foto

in questa pagina,due momenti

di un matchdi kushti

a New Delhi

NEW DELHI

«L ottatori! Diamanti del-la terra rossa! Virtuosi!Insegneremo al mon-do il senso del dovere...

La debolezza sarà debellata, forza e virilitàrestituiti all’uomo, l’orgoglio della nazio-ne restaurato...». Un poeta di fede nazio-nalista hindu ha cantato così trent’anni fale lodi del kushti, l’antica lotta indiana sul-la sabbia praticata da atleti pahalwan, ilcorpo cosparso di fango, nelle palestre-monastero chiamate akhara.

Si è fatto giorno da poco e sulle rive delsacro fiume Yamuna, alla periferia diDelhi, una nebbia vaporosa e densa saledall’acqua fino a lambire il rettangolo disabbia mossa dove il ventiquattrenne Su-render ha appena passato due ore a spin-gere, avvinghiarsi, sbuffare e lottare con-tro un avversario dai muscoli d’acciaio econ la sua stessa voglia di vincere. Lavato,oliato e riposato, si avvicina all’effigie deldio scimmia Hanuman, protettore deiwrestler, in posa di devozione, mentre alsuo posto combatte ora un ragazzo che ap-pare mingherlino al cospetto degli altripahalwan dell’akhara. Il giovinetto esita alanciarsi contro il lottatore che gli danzapesantemente intorno, di pochi anni piùanziano ma già formato nei muscoli e nel-lo spirito. Leone e gazzella finalmente s’in-contrano, affondano nella sabbia e rie-mergono tra spruzzi e tonfi sordi di bicipi-ti e toraci che si urtano. La terra di cui sonocosparsi li rende statuari come certe figuredi atleti della Greca antica. E il paragonenon è solo simbolico, se già al tempo diAlessandro, nel terzo secolo prima di Cri-sto, olimpionici greci portarono le arti

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Quei campusdove si fabbricail nostro futuro

Ho iniziato a insegnare all’università molti anni fa: aquei tempi si cominciava da giovanissimi, e io avevosolo ventidue anni quando ottenni il mio primo inca-

rico universitario in un piccolo college nel cuore dell’Inghil-terra. Non riuscivo a immaginare un inizio migliore per lamia carriera: lavorare per un’università, fare la vita dello stu-dioso, mi sembrava la cosa migliore che si potesse fare.Com’era possibile che qualcuno desiderasse lavorare nelmondo degli affari? Essere avvocato, o dipendente pubblico,con le loro routine sempre uguali?

Quello dell’università non era il mondo di tutti i giorni (al-meno così mi sembrava): uno studioso, in quanto tale, è li-bero di seguire i propri interessi, spaziare per la storia e in-trattenersi con le migliori menti del passato e del presente. Aquei tempi lavorare in un’università era davvero per pochi:solo il sette per cento dei giovani erano ammessi. In quantoluogo in cui si produceva conoscenza poi, l’università nonaveva praticamente rivali. È stato solo anni dopo che mezzidi comunicazione, gruppi di ricerca, consulenti d’ammini-strazione ed altro hanno iniziato ad erodere il territorio tra-dizionalmente occupato dall’università. Persino i salari ac-cademici nel Regno Unito, almeno a quell’epoca, erano ab-bastanza alti, alla pari di quelli di altre professioni. Le coseadesso sono cambiate.

Veniamo ai nostri giorni. Adesso, nella maggioranza deipaesi sviluppati almeno il trenta per cento dei giovani acce-

de all’educazione universitaria e in alcuni paesi la percen-tuale è molto più alta. In Austria, in Svezia e in Australia oltreil cinquanta per cento dei ragazzi si iscrivono all’università.L’Unione europea ha fissato come obiettivo da raggiungereentro tempi relativamente brevi quello di ottenere che l’ot-tanta per cento dei giovani prosegua gli studi a livello post-secondario. Nell’aprile del 2005 il presidente dell’Unioneeuropea José Manuel Barroso ha dichiarato in un discorsoche «mai quanto oggi le università hanno occupato un postocosì alto nell’agenda della Commissione».

È giusto dire che chi lavora nelle università ha un atteggia-mento ambivalente nei confronti di questi progetti di espan-sione su larga scala: è certamente auspicabile che il maggiornumero possibile di persone vada all’università, eppure —benché l’educazione accademica sia diventata un fenome-no di massa — la condizione sociale e la paga degli accade-mici sono diminuite. È difficile attrarre i migliori, persinonelle migliori università. In molti adesso sono attratti daquelle stesse occupazioni — ad esempio nell’industria o inbanca — che la mia generazione (che certo aveva i propri vez-zi) non avrebbe mai preso in considerazione.

Che ruolo dovrebbe occupare dunque l’università — spe-cialmente quella di élite — nell’economia della conoscenza?E se le università di élite sono importanti, come possiamo af-frontare il problema che in Europa queste non sono all’al-tezza delle loro controparti statunitensi? I vertici delle gra-

i luoghiCattedrali del sapere

Nonostante la storica rivalità, Oxford e Cambridge sono viste

come una cosa sola, un posto che occupa i sogni di tanti giovaniambiziosi. Qui hanno studiato mezza dozzina di primi ministriinglesi, compreso l’attuale, decine di capi di stato e di governo,sovrani stranieri, politici, imprenditori, alti funzionari. E persinoun presidente degli Stati Uniti. Ecco il loro segreto

ANTHONY GIDDENS

Oxbridge, l’educazioneOXFORD

La sera del 10 ottobre 1968,su una banchina del portodi Southampton, sottoun’insistente pioggerelli-

na, un distinto signore in bombetta,impermeabile e ombrello diede ilbenvenuto a un ragazzone america-no lungo e grosso appena sbarcato daun piroscafo. Il signore in bombettalavorava per l’Ufficio ammissionidell’Università di Oxford. Il ragazzo-ne, che aveva vinto una prestigiosaborsa di studio, si chiamava Bill Clin-ton. «Dopo un silenzioso viaggio inautobus, arrivammo a Oxford verso leundici di sera e non trovammo animaviva», ricorda l’ex presidente degliStati uniti nella sua autobiografia,«fatta eccezione per un piccolo furgo-ne illuminato che vendeva hot dog,pessimo caffè e cibo di scarsa qualitàin High Street, accanto all’istituto a

cui ero stato assegnato». In quell’istituto del tredicesimo se-

colo, in una piccola stanza al primopiano, col bagno al pianterreno («ilche spesso mi costringeva a gelidecorse giù per le scale»), il giovaneClinton trascorse due anni, studian-do scienze politiche (una tesi sul ter-rorismo, «sterile bisturi che seziona ilcorpo civile della società»), giocandoa rugby, leggendo Hemingway, visi-tando nel weekend la tomba di Shake-speare a Stratford-upon-Avon e quel-la di Marx a Londra, spingendosi finoa Parigi e a Mosca durante le vacanzeestive, ripensando all’America ches’era lasciato alle spalle in quel fatale‘68, l’anno dell’assassinio di MartinLuther King e di Robert Kennedy, e alfuturo che l’aspettava. Tornò a casanel 1970, con tre piccoli doni ricevutidai compagni di studi, un bastone dapasseggio, un cappello di lana ingle-se, una copia di Madame Bovary (cheancora possiede), e con una poesia diCarl Sandburg stampata in mente:

«Digli di stare spesso da solo e di sco-prire se stesso/ digli che la solitudineè creativa se lui sarà forte/ e che le de-cisioni finali si prendono in stanze si-lenziose».

Scoprire se stessi

Ogni autunno, migliaia di ragazzi e ra-gazze provenienti da ogni angolo dellaGran Bretagna e della Terra, emoziona-ti e impacciati, piombano tra i merli, letorri, le guglie e le gotiche figure cheadornano la più gloriosa cittadella uni-versitaria d’Europa, con l’obiettivo, co-me aveva Bill Clinton, di «scoprire sestessi» e incamminarsi verso un lumi-noso futuro. Non tutti, ovviamente, so-no destinati a diventare presidenti diuna superpotenza, ma alcuni ci vannovicino: mezza dozzina di primi ministribritannici compreso l’attuale, decinedi capi di stato, di governo e sovranistranieri, per tacere di innumerevoliministri, alti diplomatici, banchieri,imprenditori, giuristi, scrittori, scien-ziati ed artisti, sono passati per queste

aule da cui grondano storia e cono-scenza. Ad attirarli, oltre alla fama delluogo, al valore dei docenti e alla ric-chezza delle risorse, è un sistema edu-cativo forgiato nei secoli, che nel 1894uno studente e più tardi docente (diuna nuova scienza, da lui stesso inven-tata: l’antropologia), Robert RanulphMarett, così descriveva: «Oxford basa ilsuo metodo sull’uso della dialettica so-cratica, ovvero sul dialogo come mezzoattraverso cui una persona più anzianaintraprende uno scambio di punti di vi-sta con una persona più giovane aven-do come comune obiettivo la ricercadella verità».

Ogni primavera, più o meno di que-sti giorni, molte più migliaia di ragazzie ragazze aspettano con trepidazionedi trovare nella posta una letterina conl’intestazione “Oxford University”, perscoprire se sono stati accettati. È un’at-tesa lancinante. Il Regno unito ha cen-tododici università. L’Europa interacirca duemila. L’America cinque voltetante. Ma le cosiddette università «di

I due atenei inglesientrano nella top tenmondialedelle cosiddetteuniversità d’élite,

di cui fanno parteanche Harvard,Yale e Princeton

ENRICO FRANCESCHINI

38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 26 MARZO 2006

LA SEDE Una locandina promozionale dell’Università di Oxford, l’interno del campus e la tenuta circostante

GLI EDIFICI L’università di Cambridge in una locandina pubblicitaria, un portone d’ingresso e uno dei cortili interni

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duatorie dei migliori atenei del mondo sono infatti dominati da isti-tuti americani, e solo una manciata di università europee — comeOxford e Cambridge — appaiono tra le prime cento. Molti emeritistudiosi lasciano l’Europa per gli Stati Uniti, e quelli che tornano so-no solo una minoranza.

L’Europa guarda con invidia all’altra sponda dell’Atlantico; ep-pure nell’educazione universitaria americana non tutto funziona,e questo è oggetto di accesi dibattiti. Nelle università private le ret-te sono cresciute in maniera esorbitante, facendo crollare le richie-ste di iscrizione da parte degli studenti meno abbienti. Sono pochigli istituti che hanno fondi sufficienti da potersi permettere di offri-re agli studenti sovvenzioni tali da supplire a una parte delle man-cate iscrizioni. Solleva inoltre grandi preoccupazioni il mutevoleruolo delle università, che si crede siano spesso motivate da inte-ressi commerciali. Cosa è stato della loro tradizionale missione dipromuovere la ricerca in modo disinteressato? Alcuni critici hannopersino parlato di «università in rovina».

Mentre in Europa cerchiamo di riorganizzare le nostre universitàe portarle a livello mondiale, dovremmo prestare attenzione a que-ste preoccupazioni. Abbiamo bisogno di più università d’élite. Per-ché? Perché rappresentano i principali centri di ricerca e di innova-zione, il nucleo di molto di ciò che influenza il resto del sistema uni-versitario. Ma non dobbiamo trasformarle in fabbriche del sapere.La crescita dell’università può essere stimolata da interessi di ordi-ne principalmente economico, ma non dovrebbe essere ridotta adun imperativo economico. L’educazione universitaria è vitale in

quanto aiuta a trasmettere i grandi valori del cosmopolitismo e delcivismo, e un sistema universitario in crescita deve assicurare lacontinuità dei valori umanistici e delle tradizioni liberali.

Come possiamo venire a patti con queste problematiche? La ri-sposta potrebbe darla soprattutto una maggiore disponibilità dimezzi. In Europa, ad eccezione di uno o due paesi — come la Svezia— in cui le tasse sono altissime, la crescita dell’educazione univer-sitaria è avvenuta per lo più in assenza di ulteriori risorse. Il risulta-to è che le università sono massicciamente sovrappopolate (comein Italia, ad esempio) e si registrano alti tassi di abbandono da par-te degli studenti. Esistono poi i problemi di cui abbiamo già parla-to: condizioni di lavoro mediocri per i docenti, strutture di ricercascadenti e la mancanza di competitività rispetto agli Stati Uniti.

I tentativi e gli sforzi del sistema americano insegnano che nonesiste una pozione magica per risolvere il problema di una maggio-re disponibilità di fondi per l’educazione universitaria. Ed è ovvioche nella maggior parte dei paesi lo stato non può sobbarcarsenel’intero costo. Dove si può reperire il denaro mancante? L’industriapuò contribuire in parte, nei casi in cui esista una sinergia di ricer-che e sviluppo con gli atenei, ma esiste una sola vera grande fonte dientrate, ed è rappresentata dagli studenti. Per coloro che ne usu-fruiscono, l’educazione universitaria — nell’economia della cono-scenza — si traduce in ampi vantaggi in termini di guadagni perce-piti nel corso della vita lavorativa. Perché allora non chiedere a co-loro che traggono vantaggio dall’educazione universitaria di ripa-garne parte dei costi?

Il minimo accenno alla possibilità che gli studenti debbanocontribuire alla propria educazione tende a provocare un’acca-nita resistenza da parte degli studenti stessi. Ma questi contribu-ti regalerebbero al sistema nuove risorse, e questo permettereb-be di migliorare le condizioni di tutti, compreso un aumento deisalari per i professori, o magari una paga proporzionata al lororendimento. Al tempo stesso, il pagamento delle rette promuo-verebbe una maggiore giustizia sociale, dal momento che oltre uncerto punto non è giusto che a pagare siano coloro che all’univer-sità non ci vanno.

Il sistema più equo è quello introdotto in Australia — e più recen-temente nel Regno Unito — secondo cui l’educazione universitariaè gratuita nel momento in cui la si riceve. Per il pagamento, che av-viene dopo la laurea ed è regolamentato secondo il sistema fiscale,si stabiliscono delle particolari condizioni di prestito. Chi non su-pera un certo reddito non deve ripagare nulla; una sostanziale pro-porzione degli introiti viene destinata a borse di studio e a sovven-zioni per gli studenti meno abbienti.

Non si tratta di un sistema perfetto, ma tutto considerato è il mi-gliore che esista, e può coesistere con le università private a pattoche anche queste si diano da fare per attrarre studenti provenientidai settori meno privilegiati della società. Se in un futuro prossimola maggioranza dei paesi dell’Unione europea non implementeràun sistema analogo, o qualcosa che gli assomigli, non c’è alcunapossibilità che le università europee possano finalmente mettersial passo con quelle degli Stati Uniti.

dei padroni del mondoélite», come le definisce la graduatoriapubblicata annualmente, sono cin-quecento in tutto il mondo, e le “top10”, quelle che ne costituiscono la cre-ma, il cui solo nome evoca esclusività ecertezza di ritrovarsi dopo la laurea alvertice della propria professione, sonosempre le stesse. In Europa, Oxford e lasua sorellina inglese, Cambridge, acer-rime rivali ma viste come una cosa so-la, “Oxbridge”, località inesistente sul-le carte geografiche eppure nei sogni ditanti giovani ambiziosi, e dei loro nonmeno ambiziosi genitori. In America,le università della Ivy League, la “legadell’edera”, dal nome della tenacepianticella che s’arrampica sulle loromura, con Harvard, Yale, Princeton intesta a tutte.

Il rifiuto può essere devastante. Unragazzo russo che ha terminato con ilmassimo dei voti gli studi di scuola su-periore a Londra, lo chiameremo K. perdifenderne l’orgoglio ferito, sta ancoracercando di capire perché Cambridgeabbia respinto la sua domanda d’iscri-

zione a giurisprudenza. Superata laprima selezione basata su curriculum eraccomandazioni scritte (almeno tre,obbligatorie), è stato convocato per uncolloquio. Un anziano professore,schiaritosi la gola, gli ha domandato:«Nel 1973, con la sentenza Roe controWade, la Corte Suprema degli Stati uni-ti legittimò l’aborto. È giusto, secondolei, che la Corte Suprema legiferi suquestioni simili, o dovrebbero esserelasciate alle legislazioni dei singoli sta-ti?». Qualcosa, nella sua pur argomen-tata risposta, non deve avere convintoil professore.

L’esame di ammissione

A Nathan Clements-Gillespie, che no-nostante il nome è italiano, figlio diamericani ma cresciuto a Roma, è an-data meglio a Oxford, dove nel 2004 fe-ce richiesta d’iscriversi a lettere. Lacommissione esaminatrice gli chieseprima di parlare di uno dei libri da luicitati nel suo autoritratto intellettuale(Tenera è la notte, Francis Scott Fitzge-

rald), quindi gli mise sotto il naso unsonetto, invitandolo a spiegare cosa,esattamente, lo rendeva «una poesia».Nathan se la cavò, ora è al secondo an-no di corso ed è diventato presidentedell’Unione studenti italiani diOxford, associazione che conta 144membri — «siamo il gruppo stranieropiù numeroso dopo i greci», dice — eche organizza, eventi, dibattiti, cene dipastasciutta, queste ultime «per di-stinguerci dai barbari inglesi», avverteun ironico trafiletto sul loro sito Inter-net. «Oxford è l’ambiente più stimo-lante che si possa immaginare», com-menta Paola Cadoni, torinese, iscrittaa un master in Relazioni internaziona-li al St. Anton College. «Vai a pranzo inmensa, a tavola parli casualmente del-la tua tesi con un professore che ti fa su-bito mille domande, e quando torni suilibri hai già capito qualcosa di più». Ilmetodo socratico, insomma, anchecol boccone trai denti.

Un tempo, a Harvard, Yale e Prince-ton vigeva una ripugnante politica del-

le ammissioni, o meglio delle esclusio-ni, per limitare il numero degli ebrei: fuintrodotto un criterio di selezione an-che estetica, di modo che uno studentepoteva essere respinto con l’annota-zione «basso di statura, orecchie asventola», come rivela The chosen, unlibro appena uscito in America che hascatenato un putiferio di polemiche.Oggi questo non capita più, e tuttavia cisono ancora manuali che spiegano tut-ti i trucchi per essere ammessi a “Ox-bridge” o nei college Ivy League, da co-me vestirsi per il colloquio a come ri-spondere alle domande trabocchetto.Precondizione per essere ammessi, na-turalmente, è avere i soldi: diecimilaeuro l’anno per la retta di Oxford, sen-za contare vitto e alloggio, tre-quattrovolte tanto per Harvard. Ma esistonoanche prestiti e borse di studio: comequella che, una piovosa sera dell’au-tunno 1968, permise a un ragazzo ame-ricano di povere origini di approdarenella più gloriosa cittadella universita-ria d’Europa e «scoprire se stesso».

Le rette sono alte,dai 10 ai 40mila eurol’anno, ma vi si puòaccedere anchegrazie a numeroseborse di studio, comequella che nel ’68portò qui Bill Clinton

GLI ALLIEVI

ILLUSTRI

I POLITICI

Tra i politici di successousciti da Oxford ci sonoMargaret Thatcher, TonyBlair, Bill Clinton (foto),Indira Ghandi, BenazirBhutto, Abdullahdi Giordania, il principegiapponese Naruhito

GLI SCIENZIATI

Dagli studiosi dell’atomoRutherford e Bohr ai padridel dna Watson e Crick:Cambridge è l’ateneoche ha vinto più Nobel.Da Oxford è uscita DorothyHodgkin (foto), l’unica donnainglese Nobel per la fisica

GLI SCRITTORI

Da Swift a Wilde,da Aldous Huxley a T.S.Eliot: dal 1200 ad oggisono tantissimi i talentiche hanno studiatoa Oxford. Da Cambridgeè uscito, invece, il NobelBertrand Russell (foto)

GLI ATTORI E I REGISTI

Attori, registi, presentatori tv:anche il mondodello spettacolo ha fattotappa a Oxford. Hannostudiato qui il regista KenLoach e Hugh Grant (foto),oltre al direttore generaledella Bbc Mark Thompson

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 26 MARZO 2006

LE ATTIVITÀ La cerimonia delle lauree honoris causa (Encaenia), l’allenamento della squadra di canottaggio e la mensa di Oxford

GLI STUDENTI Un gruppo di studenti di Cambridge dopo la lezione, i celebri canottieri dell’ateneo e la grande mensa universitaria

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L’artista sudamericano, celebre per le storie a fumettie per i personaggi - Alack Sinner, Sophie - creati con Carlos Sampayo,affronta ora quella che forse è la sua vera vocazione: la pittura-pittura

Chiamato a disegnare un libro sul suo paese, “La pampa y Buenos Aires”, che è in uscita

per Nuages, ha chiuso gli occhi e si è calato nel rischioso pozzo dei ricordi, nella breve etàdell’oro di quando era ragazzo e abitava in una periferia di Buenos Aires che era già pampa...

PARIGI

Nel periodo tra le dueguerre vivevano a Parigicentomila argentini, lamaggior parte di Buenos

Aires, che non erano di passaggio, masi consideravano stanziali e come dicasa. Li vedevi installarsi nei caffè, nel-le brasserie, farne dei luoghi di incon-tro e di convegno, essere presenti atutte le mostre e frequentare le tratto-rie e le bettole: gli ultimi ad arrivare egli ultimi ad andar via. Erano difenso-ri di cause perse, oratori immaginosi eparlatori sfiancanti, pronti alla pole-mica e più stravaganti della media de-gli artisti che si incontravano in giro, eanche abbastanza squattrinati. Prontia morire per l’arte. E quando le vin rou-ge ordinaire era finito e gli ultimi ami-ci si erano dileguati, rimanendo sedu-ti nelle poltrone di vimini allungavanole gambe e sognavano l’Argentina e glialtri paesi latinoamericani, immagi-nando che fossero liberi da caudillos ecapataz, da militari criminali e da tier-ratenientes brutali, che non avevanomai speso un peso per migliorare tut-te quelle terre rubate agli indiani. E so-gnavano che le ragazze che fingevanodi recitare il rosario al vespro si sareb-bero accorte di loro e l’indomaniavrebbero preparato di nascosto la va-ligia per scappare insieme al primomomento opportuno.

Capitale artistico-letteraria

I latinoamericani che ho conosciuto,molti anni più tardi, erano colti, ma-neggiavano un sapere enciclopedico etrovavano sempre un modo diverso epiù rapido per risolvere qualsiasi pro-blema ti tormentasse, dal lavandinoche gocciolava al vicino di stanza cherussava e non ti lasciava dormire. Ave-vano in riserva dei numeri imprevedi-bili perché — dicevano — chi avrebbemai frequentato un sudamericanoignorante e privo di fantasia? Un cile-

no come il regista Raul Ruiz sapeva diletteratura inglese come Borges e fa-ceva film di lungometraggio in ottogiorni. E naturalmente viveva a Parigi,che considerava la sua città anche seera nato sotto le Ande.

José Muñoz è nato a Buenos Aires.Ha abbandonato l’Argentina nel 1972.

Il tango, le donne, le nuvolel’Argentina tra memoria e sogno

Orizzonti celestisempreattraversatida cirri spintia velocità folleda un vento

che non conosce

ostacoli

MuñozJosé

LE ZIE DESIDERATE“Le immagini della pagina,dell’artista argentino JoséMuñoz, sono tratte dal libro“La Pampa y Buenos Aires”La più grande, in altoa destra, porta il titolodi “Zie desiderate”

macchina delle riprese si spostasse incontinuazione portandosi in tutti gliangoli e provando tutte le inclinazionipossibili, in modo che a volte ti sembradi camminare di sbieco, come nellostudio del dottor Calligaris. Queste in-quadrature impreviste mi ricordanodei fumetti superbi, pubblicati in Ita-

lia nel dopo-guerra e fir-mati MiltonCaniff. Dise-gnava delledonne cosìa t t r a e n t i ,partendo daitacchi a spillovisti in primopiano, e poisaliva per lirami.

Credo co-munque chela vera voca-zione di Josésia la pittura-pittura senzageneri , echiamato adisegnare un

libro sull’Argentina dalle EdizioniNuages di Milano si è messo ad evoca-re il suo passato come uno sciamano,ma senza entrare in trance, anche luisemisdraiato su una poltrona di vimi-ni. Poi ha chiuso gli occhi e si è calatolentamente nel profondo e rischiosopozzo dei ricordi. In questo modo èriuscito a saltare il periodo storico piùrecente e anche quello più tragico delsuo Paese per ritrovare la breve età

STEFANO MALATESTA

ché storia a fumetti suona troppo ri-duttivo e non rende la straordinariaperizia degli autori. Ma se pensate aifumetti di Pratt e di Moebius, allora ca-pirete un po’ meglio quale sia il livello.Pagine in bianco e nero, con riquadri oscenette che sono visti da un’angola-zione sempre differente, come se la

Da allora è vissuto in Italia e poi inFrancia e anche lui considera Parigi lasua città, almeno la capitale di una na-zione letterario-artistica che supera iconfini e gli oceani. In questi anni halavorato moltissimo, pubblicandostupende storie che vanno definite inlingua francese: bandes dessinées, per-

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Tutte le ragazzedipinte da Joséhanno visi allungatialla El Greco, occhi

scuri ed enormi,i capelli arricciatidi cui si prendonosoverchia cura,i vestiti di setaa due pezzi e a poisbianchi e nericon la spaccaturaalta fino ai fianchi

IL LIBRO E LA MOSTRA“La pampa y Buenos Aires” di José Muñozesce in questi giorni per le Edizioni Nuages(208 pagine, 160 immagini, 36 euroMa è disponibile anche un’edizione rilegatadi 30 esemplari con un disegno a chinadell’autore, a 500 euro). Giovedì 30 marzoalle 18 nella Galleria Nuages, via del Lauro10, Milano, si inaugura alla presenzadell’autore la mostra “La Pampa y BuenosAires” (dura fino al 20 maggio) con centoopere tra inchiostri e tempere, tutti i disegniriprodotti in quello che Muñoz ha definito“il libro della mia vita”. José Muñozè celebre anche come autore di fumettidi grande successo e in particolareper i personaggi (Alack Sinner, Sophie)creati in collaborazionecon lo scrittore Carlos Sampayo

dell’oro di quando era ragazzo e abita-va con i suoi in una periferia di BuenosAires che era già pampa. La sua non èstata una operazione di rimozione —come si può nascondere o dimentica-re gli anni del vuelo? — . Ma capiva chequel periodo tremendo si sarebbemangiato il resto e ha deciso di elimi-narlo. Così se vi imbattete in facce di-grignanti, e sono solo due o tre, non dipiù, prendetela come la prova che nes-suno ha scordato nulla.

Territorio indiano

E le prime immagini ad arrivargli sonostate quelle del cielo, il cielito dellepampas, non azzurro ma celeste, sem-pre percorso da nuvole che vanno conuna folle velocità, che lasciano lungo ilpercorso striature bianche e poco do-po scompaiono, trasportate da unvento che non conosce ostacoli. Fino ametà del secolo diciannovesimo tuttoil territorio che circondava Buenos Ai-res ad ovest e a sud apparteneva agliindiani, che in Argentina con i Tehuel-ches della pampa e soprattutto in Cilecon gli Araucani si erano dimostratipiù abili e più coraggiosi dei feroci Az-techi o degli inconcludenti Inca, resi-stendo a qualsiasi tentativo di pene-trazione nei loro territori. Sebbenenessuno lo riconoscesse a quei tempi,quella regione vasta quasi 500milachilometri quadrati, dove pascolava-no più di quaranta milioni di capi sel-vatici, tra cavalli e bovini, costituiva lapiù grande e potenziale sorgente diricchezza di tutte le Americhe: una ric-chezza che non apparteneva ai privatima alla mano pubblica.

Oltre agli indiani, che non si pone-vano il dilemma giuridico sulla pro-prietà, c’era un altro gruppo socialeche credeva di poter disporre libera-mente degli animali come se fosse ilsolo proprietario della pampa. Si chia-mavano gauchos, un nome che da noievoca ilarità e canzonette: «Nellapampa sconfinata…», e pensiamo adun ruolo di Rodolfo Valentino neiQuattro cavalieri dell’apocalisse inter-pretato da Franco Franchi. Questigauchos erano un terrificante impastodi bestialità e di romanticismo, di roz-zezza e di poesia, ed entrarono prestonel mito argentino, che non guardavatroppo per il sottile. Ma le giovani ge-nerazioni non si sentivano affatto rap-presentate e la gente dell’avanguar-dia, che si definiva ultraista come Bor-ges, che ci azzeccava con la misticamachista del rude cavaliere che puz-zava come un caprone e che non si eramai messo un paio di mutande in vitasua? Eppure fu proprio Borges a scri-vere testi che grondavano colore loca-le e più tardi anche un libretto sul tan-go, che affermava di non amare.

Anche José non doveva andare paz-zo per i gauchos: non se ne vede nem-meno uno in tutto il libro. Mentre le ra-gazze gli dovevano piacere tutte, vici-ne di casa e amiche, frequentatrici dellocale e ballerine, studentesse e casa-linghe e naturalmente puttane, chenei giornali venivano chiamate mere-trici e i bordelli lupanari. È in questi lu-panari — prima al Barrio de La Boca,cioè al porto, poi a El Parque — chequalcuno, nessuno ha mai saputo direcon certezza il suo nome, ha suonato il

primo tango, scritto mescolando trecomponenti, come si fa con i buoni vi-ni: quello che veniva chiamato ballonegro, la milonga e la habanera. Unadanza per puttane. Quale signorina dimorigerati costumi, avrebbe mai pen-sato di infilare la coscia nuda tra legambe del suo partner e di sgambetta-re dietro la sua schiena? Poi il tangoandò in Francia, subito dopo la primaguerra mondiale, ebbe un successotravolgente e tornò in Argentina conl’avallo del Tout Paris. In quei mesi,anche se i protagonisti non se ne ac-corsero o non capirono, si stava svol-gendo una rivoluzione dei costumiche avrebbe lasciato il segno per de-cenni. Le ragazze, che avevano già get-tato fuori della finestra i busti, ora ta-gliano la gonna fino al ginocchio e i ca-pelli cortissimi, da sembrare dei ma-schi, vanno nel sud della Francia, fan-no il bagno seminude d’estate e pren-dono il sole, riservato prima aicontadini e considerato estremamen-te pernicioso. E il tango fa parte di que-sta rivoluzione.

Tra le donne dipinte da José ce nesono alcune così argentine che misembra di averle conosciute, per il ti-po fisico apparentemente sempreuguale. Non troppo alte, con il viso al-lungato, alla El Greco, e gli occhi enor-mi, scuri, quasi sempre estremamen-te simpatiche, i capelli arricciati di cuiavevano soverchia cura. Con un so-spetto di provincialismo nei vestiti ein generale nel modo di presentarsi.Buenos Aires, nel passato, mi è sem-pre sembrata la più europea tra le cittàsudamericane e le porteñe così legate

ai modi di vita della vecchia Europa darisultare commoventi. Ma l’ultimavolta che ci sono stato, ho avuto unaimpressione molto differente. Men-tre attraversavo il parco del quartierePalermo, uno dei luoghi più famosidel tango che Borges (vorrei saperequante volte l’ho citato) definiva«un’enorme metafora», non ho in-contrato che giovani abbronzate eatletiche, strette nelle loro guaine ela-stiche da ginnastica che indossavanoa qualsiasi ora e per qualsiasi avveni-mento, tranne forse che per andare asentire l’opera al Colón. Ridevano echiacchieravano mentre correvano,non sembravano affatto preoccupatedei pesos che sparivano nell’aria emeno ancora delle metafore.

Ma quando vanno a ballare il tangonei locali di San Telmo, nello stessoquartiere dove ci sono gli antiquari,dov’è finita buona parte della storiadella borghesia argentina in ninnoli egioielli (qui ho trovato, all’interno diuna vecchia rivista dei primi anniTrenta, Critica, un supplemento a co-lori chiamato Colorado e diretto daLuis Borges. E sotto la sua firma appa-riva una bellissima vignetta e il nomedel suo autore: Guevara. Ho cercatodisperatamente di avere notizie suquel Guevara, ma nessuno ne sapevanulla), continuano a mettersi quei ve-stiti a due pezzi con la spaccatura altafino ai fianchi, di seta a pois bianchi eneri, che preferisco a tutti gli altri.

Tra i disegni delle tanghiste che in-dossavano i vestiti a pois mi è sembra-to di riconoscere Evita Duarte, il pri-mo mito assoluto dell’Argentina:stesso naso grosso, stessa dentaturasporgente, stessa fragilità fisica chenascondeva un temperamento di fer-ro. Ma la mia amica Gloria Argeles,una scultrice argentina che vive a Ro-ma, chiamata per un consulto, ha det-to che non poteva essere lei. Il suotratto caratteristico, infatti, erano icapelli biondi tirati allo spasimo sullanuca e legati da uno chignon. E che la-sciassi perdere questi fantasmi.

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la letturaStrade del terrorismo

La giovane fotografa Eva Frapiccini è tornata nei luoghiin cui dalla metà degli anni Settanta fino ai primi Ottanta gli eversorirossi uccisero oppure caddero sotto il fuoco delle forze dell’ordineHa realizzato i suoi scatti nelle stesse ore in cui avvennerogli omicidi, frugando nella memoria di quei fondaliE in aprile e maggio le sue immagini saranno esposte a Roma

La lotta armata in Italia nasce a ca-vallo tra il 1969 e il 1970, dopo l’autun-no caldo operaio, dopo le rivolte stu-dentesche, dopo i boati di piazza Fon-tana e i segnali sottotraccia di un fanto-matico golpe imminente. Nasce comeforma estrema di impazienza: ora o maipiù. Ma funzionerà esattamente al con-trario, come formidabile congelatoredi equilibri politici e fuorviante regola-tore di tensioni sociali. Nasce nellagrande fabbrica in declino, dentro agliimmensi capannoni della Pirelli, o neireparti della Sit Siemens di Milano, che«produce telefoni e brigatisti». Ma inrealtà arruola impiegati frustrati, comeMario Moretti e Corrado Alunni, stu-denti cattolici, come Renato Curcio eMara Cagol, comunisti delusi dalle len-tezze del riformismo, come AlbertoFranceschini e Robertino Rosso.

Pesca nella retorica resistenziale, an-nettendosi le giovani memorie di Gio-vanni Pesce, il gappista di Senza tregua,e le vecchie pistole partigiane sepoltenel doppio fondo del formidabile anno1945. Pesca nel fiume gonfio dei corteiextraparlamentari, da Potere operaio aLotta continua. Dall’antifascismo mili-tante. Dalle molte contiguità di ceti in-tellettuali (riviste, giornalisti, artisti)che moltiplicano la prima propagandaarmata (quella ancora senza sangue) inconsensi neanche tanto sotterranei.Imbraccia i primi fuochi dei nuovi ope-rai senza partito né identità, dei giova-ni metropolitani senza indirizzo.

Nell’atto di fondazione delle Brigaterosse, il cosiddetto Libretto giallo, bat-tuto a macchina nei giorni della primariunione semiclandestina a Chiavari,Hotel Stella Maris, Renato Curcio cita il

rivoluzionario brasiliano Marcelo DeAndrade che parla degli intrecci diasfalto metropolitano come di unaprossima giungla guerrigliera. Scrive:«La lotta armata è la via principale del-la lotta di classe. La città è il cuore del si-stema, il centro organizzativo dellosfruttamento economico e politico.Deve diventare per l’avversario un ter-reno infido: ogni gesto può essere con-trollato, ogni arbitrio denunciato. Lalunga marcia nella metropoli deve co-minciare oggi e qui».

Stava già tutta in quell’inchiostrol’imminente geografia di sangue cheper una dozzina d’anni, secondo lacontabilità del ministero degli Interni,avrebbe imbrattato e «reso infido» ilterritorio di ogni periferia italiana ofabbrica o piazza: quasi 15mila atten-tati, con 394 morti, 1033 feriti e moltemigliaia di militanti arrestati, proces-sati, condannati.

Una guerra feroce e niente affattomarginale che ha reso unica l’Italia, trale democrazie europee, per estensio-ne e durata del conflitto, in confrontoai cento caricatori svuotati una voltaper tutte dalla Raf in Germania, conscia solo temporanea di morti, seque-stri, rapine, o da Action Directe inFrancia, liquidata per sempre a fineanni Settanta. E nemmeno paragona-bile ai baschi dell’Eta o agli irredenti-sti irlandesi dell’Ira, che nella loro lot-ta di lunga durata rivendicavanotutt’altro: indipendenza, territorio,lingua, identità, ma anche liberissimomercato. Nessun polveroso leninismoo soviet o avanguardie di classe.

Unica l’Italia anche per dinamite estragi nere (151 morti) dopo piazza

Una geografia

di sangue ha resoquesti pezzi di città

incandescentiper un giorno

e opachi per sempre

PINO CORRIASFontana, Brescia, la stazione di Bolo-gna, l’Italicus, e le segrete connivenzedi quei poteri sotterranei che hannodeviato indagini, rallentato i processi,e garantito impunità ai colpevoli. Co-me specchio complementare allaguerriglia rossa. Come opposto estre-mismo che bilancia l’allarme, propa-ga insicurezza, indica una sola via d’u-scita, al centro.

Un pulviscolo di lotte incendiarie

Una guerra scompaginata — e insie-me continuamente riaggregata —dalla velocità della ristrutturazioneindustriale. Trasformata in un pulvi-scolo di lotte incendiarie, dalle rapinecollettive alle armerie ai capirepartogambizzati in fabbrica. Moltiplicatadallo spontaneismo armato di millesigle, mille gruppi — Formazioni co-muniste, Unità combattenti, Comita-ti comunisti rivoluzionari, Barbagiarossa, Azione rivoluzionaria — che as-saltano un pezzetto di cielo e poi unabanca, un carcere. Versano sangue einchiostro. Per poi lasciarsi smantel-lare con la medesima velocità dalleconfessioni dei propri militanti, a mi-sura di un fallimento completo e tra-gico. Forzato dall’isolamento, dalcorto circuito politico, ma anche dal-l’offensiva di intelligence e militaredel generale Carlo Alberto Dalla Chie-sa, che comincia ai bordi della Re-nault rossa dove giace il cadavere diMoro, 9 maggio 1978, e chiude la par-tita liberando il generale americanoJames Lee Dozier, a Padova, 2 feb-braio 1980. Che è il vero inizio della fi-ne del partito armato, nonostante lacoda degli anni futuri, i morti accata-stati, fino a Massimo D’Antona, fino aMarco Biagi, come in una bolla d’ariae di senso, ora che la guerra alle nostrecittà viene davvero dagli altri quattroquinti del mondo, sale sulla metropo-litana di Madrid, fermata di Atocha,scende da un autobus a due piani nelcentro di Londra.

Anche a distanza di tanti anni si pro-vano piccolissime vertigini davanti aqueste foto che per certe angolazioni,dal basso verso l’alto, assomigliano al-l’ultimo sguardo della vittima, all’ulti-ma cosa vista nei loro punti di caduta.Che è poi la sola equivalenza finale diogni morte: quella della guardia carce-raria Lorenzo Cotugno, ucciso sotto ca-sa a Torino, e quella del nappista Anto-nio Lo Muscio, che muore nel centro diRoma dopo essersi aperto un varcosparando tra la gente. Quella del pas-sante Emanuele Iurilli, studente, di-ciotto anni, inciampato nei 70 proietti-li di tiro incrociato tra un commando diPrima linea e una pattuglia di poliziot-ti, e quella sul selciato di Sesto San Gio-vanni, del soldato brigatista in fuga,Walter Alasia, vent’anni, che muore uc-cidendo chi lo insegue.

Il tempo ha asciugato il sangue, resoquasi del tutto incomprensibili le spie-gazioni. E vale per tutti il dettaglio,adesso perfettamente assolato, delmarciapiede dove la mattina di unbrutto giorno di pioggia del 1980, a Mi-lano, cadde Walter Tobagi, il giornali-sta del Corriere, ucciso alle spalle. C’e-ra acqua dappertutto quel giorno e luistava a faccia in giù tra il cordolo delmarciapiedi e la pozzanghera chezampillava. Il cielo era sparito, coper-to da una nuvola nera di ombrelli e di-vise e impermeabili e uomini che stan-no piangendo. Il traffico ringhiava in-torno. Sembrava non ci fosse più unavia d’uscita. Oggi la foto ha ripulito tut-to. Ha lasciato evaporare la rabbia, lelacrime. E sa come restituirci almenoun colore per l’addio.

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I Muri di piombo dove la vita si fermò

ROMA

Via Mario Fani

16 marzo 1978

LA SCORTA DI MORONell’agguato che portaal rapimento di Aldo Moromuoiono sotto i colpidei terroristi cinquecarabinieri della scorta.I loro nomi sono: RaffaeleJozzino, Oreste Leonardi,Domenico Ricci, GiulioRivera e Francesco Zizzi

LA MOSTRA

Le opere di Eva Frapiccinisaranno in mostra dal 4 aprilealla fine di maggio nell’ambitodel Festival internazionaledi Roma FotoGrafia, che èalla sua quinta edizione.Direttore artistico è MarcoDelogu. I principali musei,a cominciare dai Museicapitolini e da Palazzo Braschi,ospiteranno le mostredirettamente prodottee commissionatedal festival, mentre altresaranno allestite presso istitutidi cultura stranieri, gallerie,accademie, locali e librerieper un totale di oltre centoesposizioni. Per informazioni:www.fotografiafestival.it Infoline: 06/492714200

Ne cadeva uno ogni mille.Intercettato in un puntoqualunque della strada ein un punto esatto dellavita. Mentre camminavada solo. O in mezzo al

traffico, periferia piovosa di Torino,quartiere Lorenteggio di Milano, cen-tro storico a Roma. Chiazza di sanguee gesso orizzontale. Sirene in lonta-nanza. Squillo di telefono all’agenziaAnsa: «Questa mattina un nucleo ar-mato ha colpito», eccetera. Perché eraquasi sempre di mattina presto che ildestino, nel decennio italiano dipiombo e di furori, tatuato Brigate ros-se, Prima linea, Nuclei armati rivolu-zionari, si metteva al lavoro per scrive-re le sue sentenze d’addio.

L’agente Francesco Ciotta, a Torino,saluta la moglie che lo guarda dal bal-cone di casa, entra in auto e muore,colpito da tre colpi di pistola, sotto alriverbero del primo sole, ore otto inpunto. Il giudice Emilio Alessandrini,a Milano, si ferma al suo ultimo incro-cio di nebbia gelata, dopo avere ac-compagnato il figlio alla scuola ele-mentare raccomandandogli di stareattento al freddo. I cinque uomini del-la scorta di Aldo Moro, a Roma, vengo-no spazzati via alle nove e cinque, trale palazzine fiorite della Camilluccia,da 93 colpi di fucili automatici checambieranno la storia del Paese, in-sanguinando il punto più alto del ter-rorismo politico italiano, e l’inizio delsuo lentissimo declino.

Ora che il tempo ha fatto sparire i fio-ri, ma non del tutto il dolore, che ha re-so incongrue le circostanze, ma nondel tutto i torti, né la memoria, riaffio-rano di colpo queste immagini intito-late ai Muri di piombo. Una trentina intutto. Perfettamente vuote di dettaglid’epoca, ma cariche di ridondanzanarrativa. Monumenti capovolti a vit-time ormai invisibili. Luoghi declinatiognuno nell’istante finale della storiache li ha resi incandescenti per ungiorno e opachi per sempre. Il corri-doio dell’Università statale dove muo-re Guido Galli. La scalinata su cui roto-la Vittorio Bachelet. Il granito scheg-giato su cui cade il magistrato RiccardoPalma. L’aiuola accanto alla quale siincastra l’automobile frantumata e infuori giri del colonnello Antonio Vari-sco. Tutte inquadrate, tre decenni piùtardi, in quello stesso attimo, in quellostesso punto, con quella stessa luce,dallo sguardo di una fotografa, EvaFrapiccini, che ha più o meno gli annidi quel sangue, ventisette, e la curiositàostinata della giovinezza. E la bravuradi trasformarle in un catalogo di lampi,e in una rivelazione che ci riguarda.

Storie del secolo scorso

La rivelazione ha a che fare con lo spa-zio e con il tempo. Perché questo cata-logo racconta proprio storie d’altro se-colo e di desuete proporzioni naziona-li, ora che il terrorismo si è fatto perva-sivo e planetario. E di una lotta di clas-se che spegnendosi diventava sovver-sione, ma solo ai margini slabbrati delcorpo sociale. E per le ragioni sbagliate:senza sapere nulla della spropositataricchezza delle nazioni occidentali, ri-spetto alle autentiche miserie dei quat-tro quinti del mondo. Senza sapere nul-la del potere: addirittura immaginandodi combatterlo in un solo Stato, di po-terlo colpire al cuore, come un bersa-glio. Di cancellarlo con un po’ di piom-bo, in un agguato. Usando il corpo del-la vittima (la vita di un uomo) come unmessaggio e un proclama.

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 26 MARZO 2006

VITTORIO PADOVANI, SERGIO BAZZEGA, WALTER ALASIAIl vicequestore Padovani, 47 anni, e il maresciallo Bazzega, 32 anni, entrano nella casa

della famiglia Alasia per un controllo antiterrorismo. Walter, 20 anni, spara e uccide entrambi.Viene colpito a morte da altri agenti mentre tenta la fuga. Nella foto, i funerali dei poliziotti

CARLO CASALEGNOIl vicedirettore de “La Stampa” (nella foto) viene colpito da quattro proiettili di pistolamentre si trova nell’androne della sua abitazione. Aveva già ricevuto minaccema era senza scorta perché quel giorno era stato dal dentista. Muore dopo 13 giorni di agonia

ROSARIO BERARDIProtagonista di numerose azioni contro le Brigate Rosse, il maresciallo Berardi, 53 anni,sta aspettando il tram quando viene freddato a colpi di mitra, sparati prima alle spallee poi al volto. L’omicidio avviene poco prima dell’inizio del primo processo contro le Br

ROCCO SARDONEIl giovane militante di Azione rivoluzionaria ha 22 anni, viene da Tricarico in provinciadi Matera. Muore per l’esplosione di una carica di tritolo che, insieme a un complice,

stava sistemando per un attentato: probabilmente ha manovrato il timer in modo non corretto

LORENZO COTUGNOGuardia carceraria, 31 anni. Esce dalla sua abitazione per andare alle carceri “Nuove”.

I terroristi lo aspettano: gli sparano sette colpi. Cotugno risponde al fuoco, ne ferisce uno,ma viene raggiunto dai proiettili di un terzo brigatista. Aveva subito numerose minacce

ITALO SCHETTINIAvvocato e consigliere provinciale dc, ma soprattutto imprenditore edile che aveva fattofortuna comprando e affittando appartamenti nel quartiere romano di Centocelle, dove

le Brigate rosse erano molto radicate. Viene ucciso nell’atrio del palazzo in cui aveva lo studio

MILANO

Viale Leopardi 161

15 dicembre 1976

TORINO

Corso Re Umberto 56

16 novembre 1977

TORINO

Largo Belgio

10 marzo 1978

PETRO OLLANU, ANTONIO MEAUn commando di brigatisti fa irruzione nella sede del comitato provinciale della Dc,derubando i presenti. All’uscita i terroristi vengono intercettati da un’auto della polizia.Nella sparatoria muoiono il brigadiere Mea, 34 anni, e l’agente Ollanu, 25 anni

RENATO BRIANOIl capo del personale della Magneti Marelli viaggia in metropolitana per raggiungerelo stabilimento di Sesto San Giovanni. La persona che gli siede accanto è un brigatista,che spara due colpi col silenziatore e poi, con un complice, abbandona con calma la carrozza

ROMA

Piazza Nicosia

3 maggio 1979

MILANO

Metro Stazione Goria

12 novembre 1980

TORINO

Corso Toscana

30 ottobre 1977

TORINO

Lungodora Napoli 60

11 aprile 1978

ROMA

Via Ticino 6

29 marzo 1979

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Apre a Roma il 7 aprile una mostra delle cose che la più celebreattrice italiana ha portato via dai set dei suoi cento film:foto, copioni, costumi di scena, trofei e regali eccellenti

“È stato un lavoraccio - dice adesso lei - ci ho messo tre mesi, frugando in cantina,a trovare, ricordare, scegliere. E piano piano ho ripreso in mano il filo saldodei miei anni, ho costruito una specie di autobiografia per oggetti”

44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 26 MARZO 2006

C’era questa idea di dedicarle una mostra, alVittoriano a Roma, «una cosa insolita, e nesono stata subito lusingata». Dice Sophia Lo-ren: «È stato un lavoraccio, frugare in casa, incantina, tra tutte le cose accumulate in annie anni, ci ho messo tre mesi a trovare, a ricor-

dare, a scegliere. E piano piano ho ricatturato cose dimentica-te, memorie assopite, il filo saldo della mia vita, piena di mo-menti belli e di cose belle a testimoniarli, cose lontane nel tem-po, oppure recenti, che mi hanno suggerito una specie di au-tobiografia attraverso gli oggetti e i documenti che l’hanno at-traversata e rappresentata».

Per esempio i simboli di un’esistenza speciale, trionfale: co-me il liso grembiulino nero che copriva appena il suo magnifi-co corpo giovane nell’indimenticabile film di De Sica La cio-ciara;o il fastoso abito da sera confezionato da Schubert (il sar-to delle dive di un’epoca sfrenata, quella della Hollywood ap-prodata a Roma per girare i suoi kolossal a buon prezzo), da leiindossato per la presentazione alla regina Elisabetta d’Inghil-terra e che Giorgio Armani sta facendo restaurare. «Quante co-se ho conservato, nella mia lunga carriera, dei miei film, più dicento! Di ognuno ho tenuto qualcosa, il copione, le fotografiedi scena, un cappello particolarmente grazioso, un costumeche mi piaceva, il regalo di un attore, la lettera di un regista».

Nel suo sontuoso e silenzioso appartamento nella vecchia,elegante Ginevra, c’è nel largo corridoio un solenne mobile Ot-tocento in cui si accumulano decine di premi: Oscar, Leoni, Da-vid di Donatello, Bambi, Telegatti, coppe e targhe e medagliericevuti da tutto il mondo. Dai cassetti sono spuntate le letteredi Pompidou, di Chirac, di Nancy Reagan, di Clinton, suoi am-miratori devoti; dai ripostigli gli impolverati doni di innamo-rati respinti, come l’anfora d’argento di Cary Grant; dalle cas-se i vecchi dischi di canzoni napoletane, e poi le montagne difotografie della famiglia, dell’infanzia, dei tempi duri, della fe-licità. Non ci sarà il suo diario, che qualche anno fa ha distrut-to per non lasciare a nessuno la possibilità di conoscere quellaSophia che la sua attenta riservatezza ha sempre protetto; nonci saranno sue foto di quando rinchiusa in una clinica di Gine-vra, aspettava il suo primogenito Carlo Jr, e fuori si erano ac-campati i reporter per rubare l’immagine della diva che sem-brava non potere aver figli, finalmente incinta: nessuno riuscìad avere questo privilegio, a accaparrarsi questo scoop, non fupossibile neppure riprendere la sua ombra dietro le tende del-le finestre all’ultimo piano del suo rifugio ospedaliero.

Questo è un periodo bello per la bella signora nata a Pozzuoli,di passaporto francese, che vive a Ginevra ma è spesso a Romaospite della sorella Maria, con cui divide il grande amore per la

NATALIA ASPESImamma e il dolore perla sua scomparsa. C’è questa

mostra, che si inaugura il 7 aprile, in-titolata Scicolone Lazzaro Loren: le fasi della

sua vita, curata da Vincenzo Mollica, sponsoriz-zata da Giorgio Armani, che poi girerà il mondo. Il

9 aprile, per noi fatidico momento elettorale (e lapiù napoletana delle nostre celebrità, ormai stranie-

ra, non voterà), sarà il quarantesimo anniversario delsuo matrimonio civile con Carlo Ponti, avvenuto a Pa-

rigi nel 1966, e lei era naturalmente fulgida nel perfettocompleto giallo di Dior: «No, non lo festeggerò, come non ho

mai festeggiato i miei compleanni: è stato un momento magi-co della mia vita, tanto desiderato e atteso, ma che appartienea un’altra epoca, molto lontana».

Forse anche a un’altra Loren, che sposava finalmente l’a-matissimo produttore Carlo Ponti, allora di 53 anni, a cui era le-gata da 16 anni, con cui aveva affrontato un matrimonio inMessico nel 1957 per soddisfare la bacchettona America, manon valido nel nostro paese dove neppure si era cominciato adiscutere di divorzio. Il bigottismo dell’Italia democristianaera tale che dopo le pseudo nozze messicane i legali consiglia-rono a Sophia di non rientrare in patria per non correre il rischiodi essere arrestata, come prevedeva, naturalmente solo per ledonne, l’accusa di adulterio. Per poterla sposare, e placare leire dell’Osservatore Romano o della pessima stampa che giudi-cava la buonissima signora una rovinafamiglie, e bollava lacoppia innamorata come pubblici peccatori, come concubini,Carlo Ponti aveva preso il passaporto francese per ottenere ildivorzio dalla prima moglie Giuliana Fiastri. Sophia aveva 32anni ed era al culmine della sua fama internazionale, della suaavventura americana: in quell’anno avrebbe lavorato accantoa un Marlon Brando esageratamente truccato, con la regia delvecchio Charlie Chaplin, in La contessa di Hong Kong, film al-lora vituperato e che visto oggi invece va rivalutato.

Adesso, quattro decenni dopo, a fine maggio, ci saràuna nuova grande gioia, una appassionante novità:Sophia diventerà per la prima volta nonna, di una pic-cola Lucia, meraviglioso regalo che le faranno il figlioEdoardo e la sua giovane compagna. In un’epoca di scia-gurati brevi divismi, Sophia Loren è l’ultima grande diva checontinua ad emozionare le folle, a offrire loro una immaginemitica mai più eguagliata, come se il tempo per lei non passas-se mai. Ogni decennio della sua vita è stato in qualche modo ilriflesso di una Italia che cambiava. È stata poverissima quan-do l’Italia era povera, ha adorato la bellissima madre e soffertoper l’assenza di un padre immeritevole, come tante famiglie di-sastrate del dopoguerra, ha affrontato quasi bambina la peri-colosa trafila della sopravvivenza attraverso i concorsi di bel-

La sua immagineperfetta proteggeil mistero

dei suoi sentimenti

È il muro dietrocui nasconde paure,rimpianti, illusioni

“La mia vita in settanta souvenir”

I RITRATTINella foto grande, Sophia Loren ritratta

da Tazio Secchiaroli. In alto, l’attricesulla copertina di “Cine Illustrato”, con il marito Carlo

Ponti alla nascita del primo figlio, e in un ritrattofotografico del ’64. Qui sopra, un biglietto d’auguri

di Marcello Mastroianni e un telegramma di Cary Grant.A destra, la Loren con Totò in un calendarietto di barberia

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lezza, i fu-metti, poi il cinemadalla porta sbagliata, quelladelle comparse, in cui avrebbe potutoperdersi, come tante, diventare la ragazzettasmaniosa sfruttata e poi buttata dal produttore.

Ma lei era in cerca di un Pigmalione e ancora ragazzina lotrovò nello sciupafemmine produttore Carlo Ponti, che ri-mase irretito, commosso, da quella giovane di avvenenzaunica e procace, ma anche timida, insicura, eppure così ma-tura, così seria, così cocciutamente decisa ad imparare, a di-ventare una vera attrice: una ragazza che non voleva perder-si, che sognava una vita protetta, una vita normale, per bene,una vera famiglia, un marito, dei figli. Che arrivarono, CarloJr nel 1968, Edoardo nel 1973, a placare i fantasmi di una in-fanzia che lei dice di non aver mai avuto, a lenire quel dolo-re, quello sperdimento che hanno accompagnato la sua ado-lescenza e giovinezza, che non ha mai dimenticato.

Oggi tanti amici dei suoi anni professionali più belli, Vitto-rio De Sica, Marcello Mastroianni, Goffredo Lombardo, iprotagonisti del grande cinema italiano tra gli anni Cin-quanta e Sessanta, non ci sono più e lei li ricorda con un po’di malinconia, ma senza aggrapparsi al passato, guardandoinvece al futuro. Lavora: ci sono due proposte, una per la te-levisione e una, grandiosa, per il cinema, che sta studiando.Ci sono i suoi figli, oggi lontani, a Los Angeles, che l’adorano:il primo direttore d’orchestra e sposato con una musicistaungherese, il secondo autore e regista e presto padre. Certola bella casa, da cui la signora Sophia Ponti esce solo per lapasseggiata mattutina, è silenziosa, vuota, tra i suoi magni-fici tappeti Aubusson, e i vasi della dinastria Ming, e i lampa-dari che provengono dai palazzi della corte di Vienna, e i di-pinti astratti, e le centinaia di cornici d’argento da cui sorri-

de la moltitudine di persone della sua vi-ta. Nel suo studio il marito Carlo, 92 an-ni, con le sue ciabattine di lana, si occu-pa ancora di cinema e della sua salute, eogni tanto la sua voce rimbomba autori-taria nelle grandi stanze. Sua moglie stu-dia i copioni, legge, prepara le lasagne, fadisciplinatamente quella ginnastica chele consente di avere ancora quel corposaldo, quella vita sottile, quelle gambeinimitabili.

Però c’è una Sophia segreta che neppu-re i suoi cari hanno mai visto: quella che sialza presto al mattino e davanti allo spec-chio ogni giorno, ricostruisce Sophia Lo-

ren, rientra nella sua eterna bellezza come in un ruolo, in undestino da cui le è impossibile separarsi: la sua incantevole im-magine, il suo cocciuto rifiuto agli anni, offerti a se stessa e almondo, sono il muro dietro cui, da sempre, nasconde e pro-tegge il mistero dei suoi sentimenti, delle sue emozioni, diquello che non rivelerà mai, la sua vulnerabilità, forse le pau-re, le illusioni, i rimpianti.

SophiaLoren

Abiti, lettere, biglietti d’auguri, costumi di scena. Libri, quadri, di-schi, disegni. Pezzi di vita sistemati in un ordine cronologico me-ticoloso e perfetto, inanellati l’uno all’altro come in una lunga,

scintillante collana. La collana del successo confezionata negli anni. Unascrupolosa manutenzione degli oggetti selezionati tra l’appartamento diGinevra, la villa californiana della Hidden Valley, la casa di Pozzuoli.Sophia Loren si mette in mostra senza girare. Si autocelebra senza anni-versari. La Sophia-leggenda racconta sé stessa. Il «monumento al sesso»,come l’ha definita recentemente il New York Times, la donna che Har-pers & Queen ha annoverato tra le cento più belle del ventesimo secoloapre un sipario nuovo dal 7 aprile al 7 maggio al Vittoriano, a Roma (or-ganizzazione Alessandro Nicosia, sponsor Giorgio Armani). La mostrapoi viaggerà in Argentina, negli Stati Uniti, in Canada, in Europa.

Sono settanta colli preparati durante l’inverno. E mentre li raccoglieva,scartava, separava la diva si metteva allo specchio: «Sofi’, ma allora ne è val-sa la pena? Hai fatto davvero qualcosa? Sì, ne è valsa la pena». La selezionedegli oggetti è avvenuta nella casa svizzera affacciata sul grande giardino,con l’aiuto di Vincenzo Mollica. Il titolo della mostra resterà invariato an-che all’estero, il titolo della sua vita: Scicolone, Lazzaro, Loren. La miss, i fo-toromanzi, la star.

Il mix di povertà e ricchezza, semplicità e talento, cucina verace e scolla-ture vertiginose in un puzzle di film, manifesti, copioni, ninnoli, fumetti, de-diche, bigliettini. La posta ricevuta da Marlon Brando, Charlie Chaplin,Lauren Bacall, Jeanne Moreau, Frank Sinatra. Il vestito strappato all’altez-za del ginocchio sinistro de La Ciociara, quello scuro e bellissimo indossa-to per incontrare la regina d’Inghilterra. Lo sperone donato da John Way-ne, il fumetto di Andrea Pazienza, l’anfora argentea di Cary Grant. E poi gliabiti fuori set allineati nella scenografia essenziale di Armani, le foto, da Sec-chiaroli a Luxardo a Avedon, le cover che l’hanno ritratta da icona globalesui magazine internazionali, i dischi («Che m’hai imparato a fà»).

E le dediche. Ettore Scola: «Posso solo ritrovare nella mente qualche og-getto, un quadernino a quadretti, un piccolo binocolo da cortile, un cap-pello nero a falda larga legati ai miei ricordi di Sophia per chissà quali se-grete corrispondenze». Alda Merini: «Sophia ha avuto il coraggio di spor-care la propria inalterabile bellezza con la nostra quotidianità».

Il vestito strappato della “Ciociara”Prima tappa il Vittoriano, poi la mostra girerà il mondo

AMBRA SOMASCHINI

I RICORDIIn alto, un disegno di Zavattini

e un biglietto di auguri di Chaplin.A destra, la Loren con Vittorio

De Sica sulla copertina di “Cinema”e una pagina del fotoromanzo

del 1952 “Prigionieradi un sogno”

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i saporiBicchieri doc

Èuna delle sorprese migliori del prossimo Vinitaly,

in calendario a Verona dal 6 al 10 aprile: piccoli produttoribiologici crescono e presentano le loro etichette miglioriPerché le bottiglie di qualità - spesso nate da colturebiodinamiche, invecchiate secondo natura e poi certificate -stanno sfatando tutti gli antichi pregiudizi

46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 26 MARZO 2006

ROSSO 2003

STELLA CAMPALTO

Stella di Campalto - PodereSan Giuseppe produce un grandeRosso di Montalcino da uve iscrittealla Docg del Brunello e certificatebiologiche, con quasi due annidi permanenza in legno e cinque mesiin bottiglia. Prezzo: 23 euro

DOVE GUSTARLO

IL GIGLIO (con camere)Via Soccorso Saloni 5, Montalcino (Si)Tel. 0577-848167Chiuso martedì, menù da 27 euro

DOVE COMPRARLO

ENOTECA LA FORTEZZA Piazzale Fortezza, Montalcino (Si)Tel. 0577-849211

SATÈN 2002

BARONE PIZZINI

Nel cuore della Franciacorta, terradi bollicine d’eccellenza, “BaronePizzini” è l’unica aziendaad usare i metodi della viticolturabiologica. Il suo Satèn (la parolagarantisce una ridotta pressionee perlage finissimo) costa 22 euro

DOVE GUSTARLO

IL VOLTOVia Mirolte 33, Iseo (Bs)Tel. 030-981462Chiuso mercoledì e giovedìa pranzo, menù da 40 euro

DOVE COMPRARLO

LE CANTINE DI FRANCIACORTAVia Iseo 56, Erbusco (Bs)Tel. 030 -7751116

CHIANTI CLASSICO 2003

BADIA COLTIBUONO

Nel 2003, Emanuela Stucchi Prinettiha portato a compimento la conversione al biologico. Intornoall’abbazia romanica riconvertita a colto agriturismo con ristorante, si coltivano Sangiovese e CanaioloLa bottiglia è in vendita a 12 euro

DOVE GUSTARLO

RISTORANTE CARLONIVia G. Puccini 24,Gaiole in Chianti (Si)Tel. 0577-749549Chiuso mercoledì, menù da 25 euro

DOVE COMPRARLO

ANTICA DROGHERIA MANGANELLIVia di Città 71, SienaTel. 0577- 280002

LE TRAME

PODERE LE BONCIE

Nei sette ettari del suo podere -gioiello a Castelnuovo Berardenga,Giovanna Morganti produceChianti Classico e olio extraverginecertificati biologici. L’etichettadi riferimento, Le Trame 2002,è in enoteca a 18 euro la bottiglia

DOVE COMPRARLO

OSTERIA LE PANZANELLELocalità Lucarelli 29Radda in Chianti (Si)Tel. 0577-733511Chiuso martedì, menù da 25 euro

DOVE GUSTARLO

ENOTECA I TERZIVia dei Termini 7, SienaTel. 0577-44329

VinoBio

C’era una volta il Vinitaly. E c’è ancora, qua-rant’anni dopo. Mai così grande, articolato,imperdibile. Con tutti i difetti, i limiti, gli er-rori che accompagnano fedelmente l’evol-versi delle grandi manifestazioni (in pro-gramma dal 6 al 10 aprile a Verona), snob-

barlo è difficile: che siate produttori o semplici appassionati,che fabbrichiate opinioni o bicchieri, vedere riunite sotto lostesso tetto — meglio, sotto tetti vicini, per un totale di 80milametri quadri — oltre quattromila aziende vinicole tra le più get-tonate e prestigiose del pianeta, è una tentazione davvero irre-sistibile.

All’interno, troverete di tutto, dalla mega-enoteca alle degu-stazioni guidate, dagli abbinamenti con il meglio delle cucinedel mondo all’elezione dei quaranta vini del mito italiano, emoltissimo altro ancora. Ma quest’anno, soprattutto, ci saràuna presenza-record di aziende certificate biologiche: oltrecento, dislocate tra consorzi e associazioni.

Mai come oggi il bio sta dismettendo i panni della ceneren-tola delle produzioni di qualità, anche tra i vini. Ci hanno con-fuso le idee, detto che non era possibile, che per essere sano invigna e nel bicchiere il vino doveva pagar pegno sul piano dellabontà. E che pegno: vini con un’impronta di terra stampata sulpalato o allappanti come limoni spremuti, sgraziati e incom-piuti, con un presente mediocre e un futuro impossibile.

Ma piccoli vini crescono. Insieme a una generazione di gio-vani vignaioli, molti dei quali formati secondo i cardini dell’a-gricoltura sostenibile, pronti a lasciarsi alle spalle i bidoni diMancozeb (l’anticrittogamico cancerogeno tra i più usati inagricoltura) per instaurare un diverso rapporto con la terra econ ciò che la terra produce, senza abdicare ai comandamentidella gola.

L’Italia si sta dimostrando terra d’elezione, se è vero che sudieci aziende bio europee, quattro sono nostre. Quantità equalità: basta dare un’occhiata alle guide critiche per scopri-re che negli ultimi anni, insiemeagli ettari di vigna “convertiti”,sono cresciuti in manieraesponenziale voti e giudizitecnici.

Dal Piemonte alla Si-cilia, le donne sono tan-te, tantissime. Quasitutte votate, più cheal biologico, alla

biodinamica (che tiene in maggior conto la salute e la naturalitàdei terreni). Sarà per il rapporto forte, empatico, con la terra, lafertilità, i cicli della luna e delle maree: una sorta di corrispon-denza tra i tempi della natura e quelli del corpo, declinati al fem-minile da sempre.

E siccome le sfide vanno raccolte a tutto tondo, anche le uveutilizzate sono spesso poco conosciute, lasciate a lungo nel lim-bo dei vitigni di poca resa e temperamento bizzoso. Così, via li-bera al Frappato siciliano e al Ciliegiolo toscano: mica facili dadomare, ma golosi e riconoscibilissimi nel bicchiere.

Ma non è tutto bio quello che luccica. La mancanza di una le-gislazione europea specifica rende il settore ancora molto fram-mentato e con qualche incertezza di troppo (come per la rego-lamentazione dell’uso della solforosa): ma i vini da uve biologi-che, o realizzati con il metodo biodinamico, godono di control-li seri e sconosciuti alle produzioni “convenzionali”.

Poi ci sono i ribelli storici. Quelli che fanno il vino buono, na-turale e basta, rifiutando i bollini e mettendo a garanzia le lorofacce contadine senza compromessi. Sono i VinoVeristi di Teo-baldo Cappellano, i VinNaturisti di Angiolino Maule, gli anta-gonisti di Critical Wine, il gruppo tanto caro a Luigi Veronelli.

Li ritroverete, figli spuri ma non minori, nei giorni della fiera-madre, a pochi chilometri di distanza, tra Villa La Mattarana(San Michele Extra), Villa Favorita (Monticello di Fara) e il cen-tro sociale veronese Chimica. Va-le la pena di visitarli tutti.Assaggiando, gustandoe commentando. Maprima, prenotateuna camera in zona.Il ritorno dal Vini-taly meglio non far-lo al volante.

La scommessa del “c’era una volta”

LICIA GRANELLO

Le aziende presential quarantesimo Vinitaly

4.200

Le aziende che produconovini bio presenti al Vinitaly

100

È il consumo annuopro capite di vino in Italia

48 litri

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47DOMENICA 26 MARZO 2006

GAVI PISÈ

LA RAIA

Tra laboratori didattici per le scuolee campi estivi organizzatiper i bambini, Caterina Rossi Cairoe Tom Dean producono Gavie Barbera da uve coltivate conil metodo biodinamico. La bottigliadi Pisè è in vendita a 12 euro

DOVE GUSTARLO

CANTINE DEL GAVIVia Mameli 69, Gavi (Al)Tel. 0143-642458Chiuso lunedì e martedì a pranzo,menù da 36 euro

DOVE COMPRARLO

ENOTECA LE CAVEVia Circonvallazione 9, Gavi (Al)Tel. 0143-643871

BAROLO OTIN FIORIN

CAPPELLANO

Nato a l’Asmara e approdatoin Langa 35 anni fa per prenderein mano l’azienda di famiglia,Teobaldo Cappellano, unodei grandi saggi dell’enologiapiemontese, coltiva e vinificacon rispetto assoluto per la terra

DOVE GUSTARLO

OSTERIA DEL VIGNAIOLOFrazione Santa MariaLa Morra (Cn)Tel. 0173-50335

DOVE COMPRARLO

ENOTECA FRACCHIAE BERCHIALLAVia Vernazza 9, Alba (Cn)Tel. 0173 - 440508

AMPHORA

CASTELLO DI LISPIDA

Sulla scia dei vini “arcaici” di JoskoGravner, Alessandro Sgaravattiproduce nel castello ottocentescoin provincia di Padova quattro vininaturali, di cui uno da uve Tokai,l’Amphora, fermentato e affinatoin terracotta. In enoteca da 35 euro

DOVE GUSTARLO

BACCO D’OROVia Venturi 14, Mezzane di VeronaTel. 045-8880269 Chiuso lunedì sera e martedìmenù da 30 euro

DOVE COMPRARLO

GODENDAVia Squarcione 4, PadovaTel. 049-8774192

LA VIGNA

DEL FRAPPATO

Tre passioni: Luigi Veronelli, il rockerNick Cave e il vino. La sicilianaArianna Occhipinti rilancia un’uvadimenticata nella zona di Vittoriacon i princìpi del gurudella biodinamica, il francese NicolasJoly. La bottiglia costa 15 euro

DOVE GUSTARLO

DUOMOVia Bocchieri 31, Ragusa Ibla Tel. 0932-651265Chiuso domenica sera e lunedì,menù da 45 euro

DOVE COMPRARLO

ENOTECA SOMMELIERPiazza Italia 35, Scicli (Rg)Tel. 0932-931303

Quellodella natura originaria, in-contaminata e pura, è uno deimiti più antichi della storia del-

l’umanità. Da sempre gli umaniguardano nostalgicamente alla pro-pria supposta origine, illudendosi dipoterla riattingere grazie ad artificiche di quella sono di fatto la più radicale negazione. Da ciò la contraddizione di un’u-manità che sembra non rendersi conto che quello della “naturalità” si profila all’oriz-zonte come il più straordinario degli artifici.

Se tutto questo è vero, non può stupire che oggi anche il prodotto forse più caro al-l’antico sapere mitologico, ossia il vino, viva sino in fondo, e nella sua forma più radica-le, tale contraddizione. Ossia, che per un verso esso cerchi di ritrovare una condizionedi perfetta ma improbabile naturalità (dimenticando il suo risultare da operazioni com-plesse e risolutamente artificiali), e per un altro verso cerchi invece di fare della “rigenera-zione genetica” la condizione di possibilità per una perfezione, sì perduta, ma non al pun-to da impedirci di averne in qualche modo memoria — e per ciò stesso, forse, di poterla an-cora e sempre desiderare.

Da ciò, forse, il nostro attuale e delirante rapporto con il vino. Un prodotto che non a ca-so gli antichi avrebbero legato alla figura più complessa e contraddittoria della loro mitolo-gia: Dioniso. Il quale poteva assumere, di volta in volta, le fattezze di un giovinetto effemi-nato dalle forme delicate e dunque sessualmente incerte, oppure quelle di un satiro rude eispido, ispiratore della più devastante sregolatezza. Una divinità che i greci accolsero consospetto e solo da ultimo si risolsero ad accogliere con tutti gli onori nel proprio Olimpo. Dio-niso metteva infatti in questione l’ordine costituito, stimolava l’emersione del fondo origi-nariamente “libero” di ogni ordine, e trovava il proprio symbolon perfetto nel vino. E so-

prattutto nell’ebbrezza che tale alimento ren-de universalmente sperimentabile. Dioniso,insomma, come emblema di libertà. Ma perciò stesso della contraddizione più radicale.

Come, infatti, liberarsi dalle catene della ne-cessità (caratterizzante appunto la vita delmondo “naturale”) senza diventare vittime di

una tecnica necessariamente vincolante alla logica dell’efficacia, e dunque liberatrice soloper il tramite di una logica forse ancor più ferrea di quella espressa dalle semplici leggi delmondo naturale? E poi, come liberarsi dalle strettoie dell’efficacia senza ritrovarsi gettati, dicontro, nel cuore più profondo di una necessità (quella naturale) di cui non conosciamo, eforse mai conosceremo, il segreto codice universale?

Non è certo un caso che il più grande teorico dell’utopia del buon selvaggio (sostenitoredi un’idea di natura incontaminata e originariamente buona), ossia Rousseau, usasse bereda solo, malinconicamente, nascondendosi furtivo nella cantina dei propri ospiti, forse acausa di una malcelata consapevolezza del fatto che la natura, in verità, non è affatto buo-na, e che dunque non restasse altro che ubriacarsi in compagnia del proprio inconfessabi-le segreto. Ma neppure può essere un caso che l’inganno di Odisseo, progettato per scon-figgere Polifemo, ovvero l’emblema della natura bestiale e “pericolosissima”, prevedesse sìla somministrazione del vino quale condizione di possibilità del trionfo della cultura (o del-l’artificialità) sulla natura, ma dovesse costare la vita a molti dei compagni di ventura del-l’eroe omerico (che pagarono a caro prezzo, dunque, la sua illimitata curiositas). Come se ilcieco cantore e poeta volesse ammonirci: attenzione, ché il bene procurato dalla tecnica adalcuni comporta quasi sempre il male dei più.

(L’autore insegna filosofia teoretica all’Università San Raffaeledi Milano e ha scritto il saggio “Filosofia del vino”)

GRAPPOLI ANTI-MAFIA

Il nome, “Centopassi”,è preso dal film di MarcoTullio Giordana sulla storiadi Peppino Impastato. Il vino,un Nero d’Avola in purezza, verràprodotto a partire dalla prossimavendemmia. A realizzarlo,con la supervisione di Slow Food,sarà la Cooperativa PlacidoRizzotto (il sindacalista di Corleoneucciso dalla mafia) con uvecoltivate nelle terre confiscatea Totò Riina. L’etichetta è uscitada un concorso indetto all’internodi un istitituto tecnico torinese,dopo una visita alla “casadella memoria” di Cinis, insiemeal procuratore generale di TorinoGiancarlo Caselli e al fratellodi Peppino Impastato, Giovanni.A distribuire il vino, sarà la CoopItalia, che già commercializzala pasta “Libera terra”

Rousseau annegò nell’alcolil mito del buon selvaggio

MASSIMO DONÀ

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Bella, simulatrice, disposta atutto, è partita da umile condi-zione. Ma grazie alla sua impa-reggiabile capacità di soddi-sfare qualsiasi richiesta e diadattarsi a ogni bisogno, con il

tempo ha saputo entrare nei migliori salot-ti, senza sfigurare al confronto di presenzepiù blasonate. A causa della sua vita disordi-nata e stressante, può invecchiare male oprecocemente. Per fortuna può contare suuna grande famiglia. È la plastica, ovvero,come è più corretto dire, le plastiche: poli-meri che costituiscono una pressoché in-numerevole tribù di materiali in grado di ar-ricchirsi continuamente di nuovi ritrovati.

È difficile immaginare, e forse non esiste,un tipo di materiale più adatto a sintetizza-re le caratteristiche della contemporaneità.Democratico per costi bassi e versatilitàd’uso. Eclettico per prestazioni: può esseremorbido, come i poliuretani che vanno aimbottire i divani, o rigido come il plexi-glass. Difficilmente in-quadrabile in una “razza”o in una “specie”: può es-sere naturale, seminatu-rale e artificiale (si pensiper esempio a una termo-plastica naturale comel’ambra). Mutando confi-gurazione, quantità e qua-lità dei “mattoncini” che locompongono, è in gradodi offrire una gamma diprestazioni sorprendenteper varietà ed estensione.Come Zelig ha una grandecapacità mimetica: assu-me le sembianze di sostanze come la pelleo il marmo. E dunque è entrato in modomassiccio nella nostra vita, rendendola piùfacile e leggera com’è nel suo carattere, finoa rendersi indispensabile.

Oggi alcuni protagonisti di questa grandefamiglia sono diventati anche oggetto diculto e di collezione. La bachelite (o bakeli-te), per esempio, che dagli anni Venti andòrapidamente a sostituire i delicati interrut-tori elettrici di porcellana e il guscio di radioe telefoni, è adesso molto amata per la con-sistenza importante e il severo rigore.

Ma siccome nessuno è perfetto, anche leplastiche hanno i loro difetti. Il primo è quel-lo dell’impatto sull’ambiente, anche se oc-corre osservare che il problema viene so-prattutto per via del nostro stile di vita cheprivilegia l’usa e getta. E per fortuna, comeregistra Corepla, il consorzio che si occupadel recupero delle plastiche, in Italia au-menta di continuo la percentuale del riciclo.

L’altro difetto, in particolare per quantoriguarda l’arredamento e ancor più il desi-gn, è che la plastica ha origini umili eun’immagine povera che sembra adattarsimale agli obiettivi sempre più ambizioni diqueste discipline. In realtà non è così, per-ché da tempo grandi designer — GaetanoPesce, Alessandro Mendini, Ettore Sott-sass per citarne alcuni — e marchi presti-giosi hanno riscattato le plastiche da que-sto presunto peccato originale, le hannosdoganate da ogni sospetto, ammesso chece ne fosse davvero bisogno.

Anche un’occhiata in anteprima alle no-vità del Salone internazionale del mobile diMilano, che si inaugura il 4 aprile, consoli-da la certezza che le plastiche sono mate-riali molto amati. In fin dei conti, si può for-se ricordare la frase di Roland Barthes, ri-portata anche nel volume Plastiche: i ma-teriali del possibile di Cecilia Cecchini (Ali-nea editrice, 164 pagine, 25 euro): «La ge-rarchia delle sostanze è abolita, una sola lesostituisce tutte: il mondo intero può esse-re plastificato, e perfino la vita».

le tendenzeCose di casa

Non esiste un materiale più adatto a sintetizzare la sostanzadella modernità: economico, eclettico, multiforme,in continuo rinnovamento e arricchimento. Per dirlacon Roland Barthes: “Il mondo intero può essereplastificato, e perfino la vita”. Come dimostrano le novità

del Salone del mobile, che apre a Milano il 4 aprile

Belle, versatili, disposte a tuttocosì trionfa l’arredamento-ZeligAURELIO MAGISTÀ

RIGIDA

LEGGEREZZALa scoccaè in poliuretanorigido, il rivestimentoin cuoio, le gambea forma di conoin alluminioanodizzatoCitazione spazialeper Lagò,sedia progettatada Phillipe Starckper Driade

MORBIDO ABBRACCIOLa plastica di cui è fatta Coccaè stata nobilitata e impreziositadal designer Carlo Colombocon una importante verniciatura,e dotata del morbidoabbraccio di un cuscino

SCALA DI COLORECiotole di plastica con basein silicone: colore, praticità,versatilità d’uso per i contenitoridi SiliconeZone, con diametromassimo di 28 centimetri

CASO E CREATIVITÀPiani a disposizione casualeper la lampada di FoscariniBig Bang, in metacrilatoDesign di Enrico Franzolinie Vicente Garcia

Le nuove

48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 26 MARZO 2006

Da tempo l’immagine

“povera” è stata riscattatadal lavoro di grandi designere dalle produzioni di marchidi punta: e il peccatooriginale è stato perdonato

Plastiche

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La mia lampada-zuccafatta di gioielli bambini

PATRICIA URQUIOLA

DOPPIA FUNZIONESirio è un tavolino

contenitorein policarbonatolucido con base

in metalloverniciato argento

e pianod’appoggio

in alluminio. Anchein giallo. Di Green

DOVE TU MI VUOIIl candelabro D-Cube in policarbonato

può essere usato sia appesoal soffitto, come un lampadario,

che appoggiato su un qualsiasi mobile

UN MATRIMONIO

D’ACCIAIOAppliquee sospensione E1,diffusorein policarbonatotrasparentee rosonein acciaio cromato

PIASTRELLE COLORATEPiccole mattonelle in materiale plastico compongono il ripianodel tavolo X-Tile di Casamia by FrezzaDa sottolineare le due varianti di colore e i tre piedi

MOVIMENTO SEXYLa curiosa seduta rosain ecopelle, ovvero materialeplastico, è un dondoloFa parte della serie Sixtydi Maiuguali, creataispirandosi ai sontuosicomodi e glamorous sedilidelle automobili americanedegli anni Cinquanta

Ho conosciuto la plastica a Milano. Veni-vo da Madrid, studiavo da architetto, inSpagna non c’era quel gusto e quella cul-

tura del disegno che ho trovato in Italia. Il mioincontro con la plastica non è avvenuto nelleuniversità, nelle scuole o negli studi, almenonon subito. Ma a cena a casa di amici. C’eraqualche invitato in più? Ecco che saltava fuorila Plia, la pieghevole ideata da Piretti per Ca-stelli. Ce l’avevano tutti, era un oggetto fami-liare e insieme di culto. Un’invenzione genia-le: una sedia che non ingombra perché non c’è,appare solo quando serve, e quando è lì nonprende spazio anzi lo decora con la sua traspa-renza e intelligenza. Succedeva vent’anni fa.Rimasi a Milano per finire gli studi con Casti-glioni. Da allora ho cominciato le mie ricerchecon la plastica: la sedia Flower per De Padovacon Magistretti, per Kartell con Lissoni la li-breria One, la Fjord per Moroso.

La plastica ti pone di fronte ai suoi “difetti”, ticostringe ad avere a che fare con le imperfezionidel suo fluire. Si tratta di gestirli, giocarci, tra-sformarli in decoro. È un materiale naturale e in-sieme tecnologico, che puoi e devi usare riem-piendolo delle tue esperienze, delle tue memo-rie, dei tuoi sogni. Nel tavolino-vassoio Usameper Kartell, tutto trasparente, ho eliminato lenervature, aggiunto decoro direttamente nellostampo. È venuto fuori un oggetto silente e dol-ce, un attrezzo utile che si può trasportare nei va-ri ambienti della casa, in salotto come in came-ra da letto, per bicchieri, bottiglie, libri. Dice«usami», e mentre lo fa non perde la sua genti-lezza, i fiori di jinko inseriti fanno ombre e rifles-si, sono visibili in tridimensionale dandogli unaspetto di sospensione. Un po’ art decò.

E tutto questo con costi ridotti, perché que-sta è l’altra forza che ha la plastica, una virtùnon ancora esplorata del tutto: è malleabile aiprogetti creativi, economica, riproducibile enon per questo meno importante. Lo scorsoanno con il tavolino T-table, sempre per Kar-tell, questo mi è stato ancora più chiaro. Il desi-derio era quello di una ricerca sul possibile le-game tra naturale e artificiale e degli effetti chela loro “amicizia” avrebbe potuto produrre. Eraun periodo in cui leggevo cose sul transgenicoe sugli innesti. Mi sono detta: perché non pen-sare a un oggetto che richiami un elemento co-me il fossile, un tavolo transgenico dove la pla-stica traduca un resto di erbacce. Ho lavoratosulla superficie per ottenere nuovi effetti visivie tattili. Sul piano del T-table si alternano pienie vuoti che disegnano una specie di ricamo. C’èchi lavora sul barocco, sulla memoria storica ri-proposta in chiave ironica. Io preferisco gioca-re su una naturalità che sia ricca di segni: la pla-stica, che è un campo ancora tutto da indagare,secondo me ha tutte le potenzialità per produr-re ancora scoperte. Gli stampi stessi sono ope-re d’arte, gli oggetti che si producono a volte so-no complessi per ricerca e gusto, ma a prezziabbordabili. Io lavoro con l’industria, ne devotenere conto. E mi piace che sia così, perché ildesign è un pensiero delle cose per tutti.

È anche un’ispirazione semplice, privata,frutto di una passeggiata. Ero a Bruxelles, fuicolpita da uno di quei braccialetti fatti di perli-

ne con l’elastico, di quelli che usanole bambine. Lo portai insieme alla miaamica Eliana Gerotto da Foscarini. Di-cemmo: vogliamo fare una lampada

così. Accettarono, nacque Ca-boche, una specie di zucca fat-ta con un centinaio di sfere

stampate in polimetilmetacri-lato trasparente che si montano

su fascette a loro volta stampatecircolari. Ognuno può costruirlada sé come fosse un braccialetto.

Fa una luce bellissima. Ed è plastica.Caboche è al femminile. Gioiello di plastica. Infuturo ce ne saranno sempre di più, e avrannodi che imparare anche dal riciclaggio e dal riu-so. O così spero.

L’autrice è architetto e designer

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 49DOMENICA 26 MARZO 2006

CLASSICO

IMITATOIl Sacco

di Zanottaè un piccolo classico

molto imitatoIn produzionedal ’68, viene

rinnovato ognianno; l’involucro

in ecopellecontiene palline

di polistiroloespansoSi adatta

alla formadel corpo

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50 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 26 MARZO 2006

l’incontroPrimedonne

FIRENZE

Lo stivale è a tacco basso esquadrato, con la suola dipara, punitiva, ma le cal-ze, quando Mariangela

Melato accavalla le gambe, si rivela-no molto civettuole: parigine a mez-za coscia, a righe colorate, da ragazzasexy. Che mani sottili e diafane, chepolsi esigui. Rughe pochissime, sottoun velo di cipria trasparente. Gli oc-chi sono verdi e distanti. Al collo,trattenuto da un laccio nero, un gran-de cuore di filigrana. L’incontro av-viene in un salotto di un hotel decharme nel cuore di Firenze. Parole eparole per raccontare che dietro l’i-ronia e il sorriso, dietro la grinta e ilcarisma c’è una buona dose di inso-spettabile fragilità.

Il complimento che MariangelaMelato preferisce — ogni tanto glieloripetono — è quando le dicono: seimagnetica. Sì: magnetica le piacemolto. Il tutto esaurito ai suoi spetta-coli la riempie di orgoglio, e guai seuna poltrona rimane vuota. Proprioqui a Firenze nei giorni scorsi ha fe-steggiato la centesima rappresenta-zione di Chi ha paura di VirginiaWoolf? dove recita a fianco di Gabrie-le Lavia il dramma, un gioco al massa-cro fisico e sentimentale, di una cop-pia di mezza età già portato sulla sce-na, in un film che le valse l’Oscar, daLiz Taylor e Richard Burton. «Ero mol-to intimidita all’inizio, avevo paura direstare schiacciata dal confronto. Lo-ro erano veramente amanti anchenella vita, e veramente alcolisti... E in-vece è andata bene. Come al solito horischiato. È così che mi piace fare. Rin-novarmi sempre, cambiare».

Ma chi è tutta questa gente che cor-re a teatro e fa la fila al botteghino?«Molti giovani. E gente che ha bisognodi cose un po’ più alte, di emozionar-si, e non vuole buttare via la serata da-

Valeria Golino, Isabella Ferrari. Pec-cato che non siano molti i ruoli che ilcinema offre, o che siano spesso ste-reotipati...».

E la televisione? Ci va il meno possi-bile, praticamente mai. Per Renzo Ar-bore, il suo ex grande amore duratosette anni, ha fatto un’eccezione:«Renzo mi ha fatto sentire a casa, è riu-scito persino a farmi cantare. Lui hauna qualità speciale, che non va dimoda, una qualità rarissima, quasiscomparsa: Renzo ha garbo. È gentile,è educato». Assai poco gentile e edu-cata è la tv in cui incappa facendo zap-ping: «Solo a notte fonda si vede qual-cosa di decente. Le cose peggiori sonoquelle del pomeriggio. Un interomondo di persone che non sanno fareniente, un universo in cui la massimaaspirazione è diventare tronista o ve-lina, tutti omologati. Io mi ribello: nonè possibile che la gente voglia questo,la gente è migliore».

Appare piena di energia; e difatti ledonne che più ammira sono donneforti e speciali, rocciose, di carattere,che danno poco peso all’apparenza,prime fra tutte Margherita Hack edEmma Bonino. È come se il tempo ledonasse: «Non riesco a pensarmi inpensione, mi vedo ancora al lavoro anovant’anni. Dentro di me mi sento

vanti alla plastica che ci ammanniscela televisione». Lei è implacabile con ilsuo pubblico: «Sento tutto, mi accor-go di tutto. Anche i brusii in ultima fi-la. Ho un udito pazzesco. La mia sartami dice sempre che io sono quella chesente l’erba crescere. Il peggio chepuò capitare a un’attrice è un telefo-nino che squilla in sala. Ma anche il si-lenzio può essere tremendo».

Tremendo il silenzio: ma come? «Sì:ci sono due tipi di silenzi. Quello par-tecipe, che è meraviglioso, e quello as-sente: terribile. Io li distinguo benissi-mo. L’altra sera c’era un signore in pri-ma fila che a un certo punto ha guar-dato l’orologio. Volevo sbranarlo. Daquel momento ho recitato solo per lui:ogni urlo, ogni sfuriata, ogni sussurroera per lui. È solo coinvolgendo il pub-blico che si crea questo rapporto stu-pendo che può esistere solo a teatro, eche lo rende unico. Un rapporto vero,fatto di amore e odio, un duello.Quando sei sul palcoscenico dimenti-chi tutto. Le bollette da pagare, i figliche non hai, i reality in televisione, gliacciacchi, il mal di schiena. Anche sestai male non te ne accorgi: l’adrena-lina ti fa dimenticare tutto. Solo allorati senti magnetica».

Nostalgia per il cinema nessuna.«Non è possibile paragonare il cinemacon tutto quello che mi offre il teatro,dove ho recitato la parte di una bam-bina di sei anni, in Quel che sapevaMasie, ma anche quella di una donnadi 337 anni, dotata di eternità, nel Ca-so Macropulos. Come faccio a con-frontare questi ruoli pazzeschi conquelli di qualche pallida zia o di qual-che madre incolore che mi offre oggi ilcinema italiano? E poi, se mi guardointorno, non vedo tutti questi capola-vori. Quale ruolo in quale film avreivoluto che mi fosse offerto? Non mene viene in mente nessuno».

Eppure ha rinunciato, per impegnipregressi, a una parte significativa neLa meglio gioventù». «È vero, ed è sta-to un peccato, ma devo riconoscereche Adriana Asti ha recitato quel ruo-lo meglio di come l’avrei fatto io. Erapiù tenera, più giusta, ha regalato alpersonaggio una vena di poeticità e difollia. Io sarei stata più banale...». Eche cosa ha provato vedendo il re-make di Travolti da un insolito desti-no con protagonista, al suo posto, Ma-donna? «Io in genere sono molto criti-ca verso me stessa ma per una volta, aparagone, mi sono trovata brava epersino bella. Madonna invece, chepure della propria immagine ha fattouna religione, mi è sembrata una don-netta smunta e brutta, e anche una ca-gna. Colpa del regista, suo marito. Leiavrebbe potuto chiedere il divorzioper quel film!»

È assai più generosa con le colle-ghe italiane, nuova generazione.Non lesina elogi: «Mi piace GiovannaMezzogiorno. Mi piace MargheritaBuy. E anche Valeria Bruni Tedeschi,

ancora Giulietta, anche se è un ruoloche non ho mai recitato, e invece allamia età potrei fare la nonna, la nutri-ce... Dio mio, non ci posso pensare.Vado avanti finché posso...». E poi? «Epoi non farò certo una plastica. Inten-diamoci: sono solidale con tutto quel-lo che può far star meglio una donna,ma non mi uniformerò mai agli sche-mi correnti, i labbroni, i tiraggi. Ledonne rifatte si assomigliano tutte.Dovrebbero invece affinare le carat-teristiche che le rendono uniche, la lo-ro personalità segreta. La bellezza staproprio nella diversità, nel coraggio diessere diverse. Io le mie rughe me letengo: e poi la collana di Venere l’hosempre avuta. Certo qualche sacrifi-cio lo faccio: mangio poco, soffro la fa-me per entrare nei costumi. Ma acca-nirsi crudelmente contro se stessecrea soltanto nevrosi».

La personalità: lei ne ha da vendere.Sempre avuta. «Da giovanissima feciun provino con Luchino Visconti, peruna piccola parte nella Monaca diMonza. Dal fondo della sala, dopo unattimo di silenzio, sentii la sua voceche mi diceva: pari una rana, ma checoglioni che hai! Sei disposta a tagliar-ti i capelli? Io risposi al volo: anche ipiedi, signor conte!».

Da commessa a vetrinista della Ri-nascente a studentessa di belle arti atrovarobe a suggeritrice ad aspirantecabarettista fino al grande successo:Strehler, De Sica, Bertolucci, Moni-celli, Petri, Brusati. E soprattutto LinaWertmuller che ha imposto la sua bel-lezza aguzza: «In Mimì metallurgico laproduzione non mi voleva. Ero consi-derata troppo strana. Volevano laSandrelli». Uno dopo l’altro la Melatoha salito tutti i gradini. Solo con gli an-ni ha superato il complesso di averestudiato poco: «Non sono una perso-na colta, però leggo i quotidiani, mitengo informata e mi aiuto con l’intui-to. Per anni sono stata zitta ad ascol-tare gli altri, e a imparare». Da chi haimparato di più? «Da Ronconi: intelli-genza pura che mi sbalestra ogni vol-ta. Da Dario Fo: un mago del ritmo, ar-tista a tutto tondo. Da Visconti: dota-to di un fascino fisico violento, chemetteva paura».

Il perfezionismo è una delle sue re-gole di base: «Se non do tutta me stes-sa non mi sento all’altezza e ho deicomplessi di colpa mostruosi. Posso-no dirmi: non mi sei piaciuta, ma nonche ho tirato via. L’aspirazione al me-glio deve esserci sempre». Altra rego-la è l’ironia, l’umorismo: «Non biso-gna mai prendersi troppo sul serio.Solo sdrammatizzando si vive megliocon se stessi, si ha maggiore tenerez-za, ci si accetta anche nei giorni neri».

Si definirebbe ancora una zitellafelice? «Zitella sicuro, felice non sa-prei; una giornata interamente felicenon esiste, esistono piccoli momentidi gioia che ho imparato a ritagliarmi.Certo mi sono abituata alla solitudi-

ne sentimentale, all’indipendenza, avivere senza uomini. È come se gliuomini fossero spariti: cercano don-ne molto diverse da me, donne debo-li, donne geishe e condiscendenti.Ma io non ho mai fatto Come tu mivuoi: non l’ho fatto a teatro, figuria-moci nella vita».

Piace molto alle donne omosessua-li: «Un po’ per i ruoli che faccio, un po’per la mia voce, per la mia fisicità, pernon vedermi mai fotografata manonella mano con il fidanzatino di tur-no». Il fatto di non avere avuto figlinon è per lei un tormento, anzi: «C’èmolta retorica attorno alla maternità.È come se una donna non fosse inte-ramente realizzata se non ha messo almondo un figlio... Io non l’ho mai sen-tita questa mancanza, né ho mai av-vertito il desiderio di avere un bambi-no, neanche durante i miei grandiamori. È come se le donne avesseropaura di non lasciare il segno del loropassaggio sulla terra...».

Da ex povera, come si definisce, fi-glia di una famiglia modesta, madresartina, padre vigile urbano, il troppola spaventa: «Il mio sogno sarebbe riu-scire a buttare via tutto il superfluo,avere solo due vestiti, avere una casaspoglia, con dentro quasi niente. DaRenzo Arbore, con tutti quei sopram-mobili, quell’horror vacui, mi mette-vo le mani nei capelli».

Il suo rapporto con la religione è unrapporto fai da te: «Sono non prati-cante, non osservante, certo però aqualcuno bisogna rivolgersi. E cosìcerco di farmi una religione mia per-sonale. Cerco di essere una personaprofondamente buona, mi faccio de-predare, vado incontro a delusioniterribili in una società in cui a vinceresono sempre i furbi. Ma io sono con-tenta di essere così: mi sono ripropo-sta di non fare mai coscientementedel male a nessuno, per nessun moti-vo. Credo sia già una forma, se non direligione, per lo meno di rispetto ver-so il prossimo».

Da giovanissimafeci un provino

con Luchino Visconti

Dal fondo della salasentii la sua voceche mi diceva:“Pari una rana mache coglioni che hai”

Una “zitella felice”, senza rimpiantiper gli amori finiti e i figli mai avuti,abituata all’indipendenzaNon ha nostalgia per il cinema,che tanto le ha dato, preferisce

governare con ironiae rigore la sua bellezzaaguzza e riversarlanel teatroCon un’ambizione:essere “magnetica”

ogni sera

“Se non do tuttame stessa, ho mostruosi sensi di colpaPossono dirmi: non mi sei piaciuta,ma non che ho tirato via”

LAURA LAURENZI

Mariangela Melato

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