Laomenica Soldi, donne, politica: processo a Dante...

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DOMENICA 17 AGOSTO 2008 D omenica La di Repubblica DUBAI L a città del futuro c’è già. Una foresta di vetro, ac- ciaio e cemento con le fondamenta ben pian- tate nella sabbia e nell’acqua. Immaginata dal figlio di una gloriosa famiglia di beduini arabi mezzo secolo fa. Cresciuta a tempo di record, strappando dune al deserto, acqua al Golfo Persico, azzurro al cielo. E diventata oggi con le sue opere faraoniche, le sue torri di Ba- bele da vertigine e con il nome di Dubai il palcoscenico del più ardito esperimento di urbanistica, architettura e mul- ticulturalismo del terzo millennio. All’inizio, quasi cin- quant’anni fa, c’erano solo Rashid Bin Saeed Al Maktoum — erede dell’omonima famiglia regnante sul piccolo emi- rato — e un villaggio di pescatori di perle. (segue nelle pagine successive) L a città del futuro è come la città ideale: tutti ne parlano, ma nessuno la crea. La “città del sole” di cui parlava il filosofo Tommaso Campanella ha avuto molteplici tentativi di realizzazione, almeno in piccolissima scala (Christiania in Danimarca, Arcosanti in Arizona, per esempio), quella dell’avvenire è un concetto che si sposta come l’avvenire stesso. Ogni vol- ta che il modello appare identificato, corre in avanti. E cam- bia continente. Quando dominava l’Europa era nel diveni- re di Parigi, quando il testimone è passato all’America si è chiamata New York, Chicago, perfino Las Vegas. Ora è la stagione dell’Asia: tocca a Shanghai, Dubai, ma forse la bussola dovrebbe puntare altrove. (segue nelle pagine successive) ETTORE LIVINI GABRIELE ROMAGNOLI Città Ieri Parigi, poi New York, oggi Dubai La “metropoli che verrà” sposta di continuo i suoi confini Ecco come spettacoli La Swinging London di Battisti e Mogol CARLO MORETTI i sapori Salsa di pomodoro, il miracolo rosso LICIA GRANELLO e MARINO NIOLA le tendenze Safari, uno stile da giungle d’asfalto JACARANDA CARACCIOLO FALCK e STEFANO MALATESTA cultura Soldi, donne, politica: processo a Dante SIEGMUND GINZBERG l’immagine Perpignan, professione reporter MICHELE SMARGIASSI FOTO SCIENCE PHOTO LIBRARY / GRAZIA NERI futura Repubblica Nazionale

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DOMENICA 17 AGOSTO 2008

DomenicaLa

di Repubblica

DUBAI

La città del futuro c’è già. Una foresta di vetro, ac-ciaio e cemento con le fondamenta ben pian-tate nella sabbia e nell’acqua. Immaginata dalfiglio di una gloriosa famiglia di beduini arabi

mezzo secolo fa. Cresciuta a tempo di record, strappandodune al deserto, acqua al Golfo Persico, azzurro al cielo. Ediventata oggi con le sue opere faraoniche, le sue torri di Ba-bele da vertigine e con il nome di Dubai il palcoscenico delpiù ardito esperimento di urbanistica, architettura e mul-ticulturalismo del terzo millennio. All’inizio, quasi cin-quant’anni fa, c’erano solo Rashid Bin Saeed Al Maktoum— erede dell’omonima famiglia regnante sul piccolo emi-rato — e un villaggio di pescatori di perle.

(segue nelle pagine successive)

La città del futuro è come la città ideale: tutti neparlano, ma nessuno la crea. La “città del sole”di cui parlava il filosofo Tommaso Campanellaha avuto molteplici tentativi di realizzazione,

almeno in piccolissima scala (Christiania in Danimarca,Arcosanti in Arizona, per esempio), quella dell’avvenire èun concetto che si sposta come l’avvenire stesso. Ogni vol-ta che il modello appare identificato, corre in avanti. E cam-bia continente. Quando dominava l’Europa era nel diveni-re di Parigi, quando il testimone è passato all’America si èchiamata New York, Chicago, perfino Las Vegas. Ora è lastagione dell’Asia: tocca a Shanghai, Dubai, ma forse labussola dovrebbe puntare altrove.

(segue nelle pagine successive)

ETTORE LIVINI GABRIELE ROMAGNOLI

CittàIeri Parigi,

poi New York,oggi Dubai

La “metropoliche verrà”

spostadi continuo

i suoiconfini

Eccocome

spettacoli

La Swinging London di Battisti e MogolCARLO MORETTI

i sapori

Salsa di pomodoro, il miracolo rossoLICIA GRANELLO e MARINO NIOLA

le tendenze

Safari, uno stile da giungle d’asfaltoJACARANDA CARACCIOLO FALCK e STEFANO MALATESTA

cultura

Soldi, donne, politica: processo a DanteSIEGMUND GINZBERG

l’immagine

Perpignan, professione reporterMICHELE SMARGIASSI

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la copertinaCittà futura

Dubai – a differenza di quel che molti pensano – non poggia sui proventidel petrolio ma sul sogno dello sceicco Rashid Bin Saeed Al Maktoum,che mezzo secolo fa immaginò la sua città ideale come un mosaicodi commerci, finanza, turismo e la creò dal nulla forzando all’estremole frontiere dell’architettura e dell’urbanistica

(segue dalla copertina)

Un villaggio di pe-scatori di perle conla sua flottiglia difragili dhow, ac-campato sulle rivedi un rigagnolo che

tagliava come una vena l’ultimolembo di deserto prima del mare.Poche case, le reti stese al sole e ilpiccolo pontile dove ogni tanto— era un avvenimento — attrac-cavano le navi dei commerciantisulle rotte tra Oriente e Occiden-te.

Erano anni in cui il petrolionon era ancora diventato oro ne-ro e il Golfo era periferia estremadel mondo. Eppure nel 1959 il vi-sionario sceicco, tra lo scettici-smo dei suoi sudditi pescatori, hainiziato a pianificare la sua cittàideale. Ha chiesto un po’ di soldiin prestito al vicino Kuwait. Hacomprato gru, ruspe e camion.Ha iniziato a dragare il canale,rafforzandone gli argini e sca-vando il fondo per renderlo navi-gabile alle navi. Ha costruito nelnulla (e dove nulla arrivava) ma-gazzini e grandi moli. Con un so-gno preciso: attirare al villaggiocome un magnete il commercio ela ricchezza. Certo che con lorosarebbero arrivati i soldi per co-struire le case, le scuole e gliospedali che sarebbero servitianche ai suoi concittadini.

Il sogno oggi è realtà. E la stra-tegia di Rashid Bin Saeed è anco-ra la stella polare che guida la tu-multuosa crescita della città natadal nulla. Il circolo virtuoso (perora) funziona. Ricchezza chiamaricchezza. Dollari chiamano dol-lari. E il miracolo Dubai continua

nato nella sua corazza di gru e im-palcature — destinato a diventa-re l’edificio più vicino al cielo congli oltre ottocento metri. Inostentazione e lusso, come per ilBurj Al Arab, l’albergo a forma divela costato 650 milioni e diven-tato il simbolo dell’emirato, dovela suite può costare fino a 28miladollari a notte. Nemmeno gli ele-menti sono un ostacolo alla vo-glia di stupire di chi sta pianifi-cando la metropoli del deserto.Centinaia di navi aspiratrici ri-succhiano giorno e notte sabbiadal fondo del Golfo Persico, l’az-

zurro del mare è tagliato dallecentinaia di scie ocra di

questi mostri con l’elica.Che poi sputano il loro

prezioso carico lungole coste della città

creando dal nulla inuovi moli del

porto e le in-credibili isole

a r t i f i c i a l igià diven-

tate un must del business immo-biliare da vip. Come la Palm Ju-meriah, l’arcipelago a forma dipalma costruito sul mare — gran-de come ottocento campi di cal-cio — che ha aggiunto 520 chilo-metri di coste al patrimonio geo-grafico del paese. Uno dei pochiartefatti umani visibili dal satelli-te, coperto di ville esclusive i cuiprezzi sono cresciuti del seicentoper cento dal 2002.

Un cocktail architettonico chesintetizza la globalizzazione e imiti della civiltà dell’immagine.Un po’ Manhattan e un po’ Di-sneyland, un buen retiro per pa-peroni in fuga dall’umidità e incerca di un esclusivo villaggio-vacanze dove prendere residen-za, ma anche un paese che aspiraa diventare il nuovo cuore dellafinanza mondiale bagnando ilnaso a Wall Street e alla City. Mis-sione in parte già riuscita vistoche tutte le principali merchantbank anglosassoni — a caccia dipetrodollari — hanno messo sucasa da queste parti, mentre laHalliburton — colosso petrolife-ro e di forniture militari da sem-pre vicino all’amministrazioneBush — ha addirittura trasferitoqui il suo quartier generale. E delmilione e duecentomila abitantidella città, ben l’ottanta per cen-to sono espatriati che si sono tra-sferiti qui per lavorare sulle costedel Golfo.

La città ideale immaginata da-gli Al Maktoum è governata da unrefraindi fondo: il “vorrei ma nonposso” non esiste. I soldi rea-lizzano qualsiasi sogno,anche il più assurdo. Finoa generare bizzarriesempi di biotecnolo-gia urbanistica. Comele piste da sci tracciate

ETTORE LIVINIa ripetersi ogni giorno. Le barac-che dei pescatori sono un ricordoda museo. Solo nel 2007 nell’e-mirato sono state effettuate tran-sazioni immobiliari per 127 mi-liardi di dollari, il doppio dei sol-di necessari secondo la BancaMondiale per ricostruire l’Iraqdopo la Guerra del Golfo. Il vec-chio molo dove una volta dondo-lavano pigre le nasse è oggi di-ventato Jebel Ali, il quarto portopiù trafficato del mondo, cernie-ra vitale del traffico merci tra este ovest. Il posto dello sceicco Ra-shid è stato preso alla sua morte,nel 1990, dal figlio Mohammedche nel frattempo ha messo daparte un tesoretto personaledi 14 miliardi di dollari.

Le fondamenta della cittàdel futuro, contrariamenteai luoghi comuni, nonaffondano nei proventi delpetrolio. Il Dubai non è ilKuwait e nemmeno AbuDhabi. Certo, anche nelsuo sottosuolo dal 1966si estrae del greggio. Equesti soldi non guasta-no. Ma oggi solo il seiper cento del Pil (cre-sciuto a tassi del piùventi per cento da iniziomillennio) deriva dal-l’estrazione dell’oro ne-ro. Il resto sono serviziportuali, finanza e turi-smo esattamente comesognava lo sceicco Ra-shid.

Su queste basi è cre-sciuta in modo un po’magmatico una sorta diurbanistica dell’impos-sibile. Il limite non esi-ste. In altezza, come perl’avveniristico Burj Du-bai — ancora imprigio-

Metropolis nel deserto

Repubblica Nazionale

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degli immobili. Gli interminabiliingorghi quotidiani — calcolanoqui — costano 1,2 miliardi di dol-lari l’anno. Anche l’economia dàqualche colpo a vuoto: c’è un’in-flazione che cresce a due cifre eun debito arrivato al 42 per centodel Pil, tanto che si parla dell’in-troduzione di un’Iva del tre-cin-que per cento sui prodotti. Il ri-schio più alto però è lo scoppiodella bolla immobiliare, la colon-na vertebrale dell’economia na-zionale. Lo spettro è quello diSingapore, dove alla fine deglianni Novanta, dopo il boom, iprezzi delle case sono crollatidell’ottanta per cento. L’agenziagovernativa, non a caso, sta met-tendo le mani avanti e potrebbeproporre misure anti-specula-zione che impediscano di riven-dere un appartamento appenaacquistato.

Senza contare il fatto che sullacittà del futuro non esiste copyri-ght. Tanto che i vicini dell’emira-to Ajman hanno appena presen-tato in pompa magna il progettodi Al Zorah, una metropoli anco-ra più esclusiva della rivale (due-centomila abitanti) pronta a na-scere da zero nel deserto. Altrisoldi puntati sul riscatto di unpezzo di mondo rimasto finorasospeso tra l’Occidente e gliscricchiolii geopolitici del Golfo.A poche decine di chilometri dalBurj Al Arab ci sono lo stretto diHormuz e l’Iran. E tutti qui sannoche i venti di guerra potrebberoin qualsiasi momento far svanirei sogni degli Al Maktoum. Ma chiha avuto il coraggio di immagi-nare, disegnare e costruire un so-gno impossibile come quello diDubai può pure scommettereche il futuro ci riservi un mondomigliore senza guerra.

(segue dalla copertina)

Il problema è che per individuare questo luogo-miraggio si sono spesso seguiti tre criteri architettonici di-scutibili: “famola strana”, “famola nuova”, famola alta”. Futuropoli deve necessariamente essere qualcosadi mai visto prima, con edifici dalle forme inedite, strade che si intrecciano su differenti livelli, artifici che

creino quel che non era dato in natura. Per questo ora si guarda a Dubai, con le sue torri improbabili, le sue car-reggiate a misura di suv, le isole che non c’erano. Ma Dubai ha un limite: è invivibile nel lungo periodo e unacittà bisogna pur abitarla perché esista. Se non inventano anche un termostato, oltre alle montagne in scatola,come potrà assumere un aspetto urbano? Non è una società, piuttosto un gioco di.

Per essere una novità lo è sicuramente, nasce dal nulla, sorge nel deserto e questa è un’altra prerogativa di Fu-turopoli. Anche Las Vegas è sbocciata in un ambiente simile, poco importa se è nata dal sogno di un gangsteranziché da quello di uno sceicco. Il deserto determina molti svantaggi, ma nessun limite. Las Vegas può conti-nuare a moltiplicarsi, è un cruciverba insolubile perché tende all’infinito in un moltiplicarsi di edifici verticalisempre più arditi su un piano dalle illimitate traiettorie orizzontali. Ogni volta che sali sulla terrazza dell’hotelRio scopri che le luci si sono spinte più lontano, verso l’orizzonte, mangiandosi buio e sabbia. Analogamente,ogni volta che sali sulla vetta dell’hotel sette stelle di Dubai, di fronte alla costa di Jumeira ci sono nuovi atolli,terra d’importazione, sui quali piantare altre torri, perché anche lì il cruciverba non trovi soluzione.

Strana, alta e nuova, Futuropoli viene continuamente scavalcata da se stessa. Come doveva sembrare nuovaChicago cinquant’anni fa, con quella giungla di alberi di cristallo e la metropolitana sospesa tipo liana arroto-lata. Che emozione purissima New York, declinata a est da Shanghai. Ma qual è veramente il carattere della cittàdel futuro? L’ultramodernità, la complessità, l’iperrealtà? Può bastarne uno? Tra le città che abbiamo sotto gliocchi quella che funge da indicatore per lo sviluppo può essere davvero una versione esponenziale del model-lo americano, asiatico, europeo? O è saggio accettare l’idea che il futuro e i suoi contenitori siano sincretici?

Se così è, il modello esistente è Singapore, dove convivono grattacieli, pagode e palazzi coloniali. Templi hin-du, moschee e chiese. Anelli tangenziali e tranquille strade costiere. Dove con un autobus si possono attraver-sare i continenti, tenendo tutto insieme, perché se il nostro futuro sarà figlio della coesione e non del conflittoè in luoghi così che dovremo abitare. In caso contrario l’umanità non dovrà preoccuparsi dell’urbanesimo, lesarà lieve la terra.

Strana, nuova, alta...l’avvenire rompe le regole

GABRIELE ROMAGNOLI

(con gran successo) dentro unmega impianto, il Dubailand SkiDome, che crea la neve nel deser-to. Al quale presto si aggiungerà ilDubai Sunny, dove oltre a skilift eponti di ghiaccio ci saranno an-che numerosi orsi polari. ComeChess City, l’erigenda città con letorri a forma di pezzi degli scac-chi. O The World, il nuovo arci-pelago di isole artificiali in co-struzione a forma di planisfero. Eancora stanno nascendo un nuo-vo aeroporto da 120 milioni dipasseggeri l’anno, una copia delBig Ben destinata ad abitazioni euffici, Dubailand, un parco di-vertimenti da 70 miliardigrande 278 chilometri qua-drati, e Hydropolis, il primoalbergo subacqueo almondo.

Troppa roba? Puòdarsi. Vista dall’alto,atterrando con l’A380di superlusso dellaEmirates, la compa-gnia aerea di Dubai,la città è una speciedi termitaio con torrialtissime e gru in pie-no movimento.Ma finora ilgiocattolo fun-ziona. Il turi-smo è cresciu-to del 228 percento in un de-cennio. I prez-zi delle casecontinuano a

salire (più 79 per cento da inizio2007). Il regime di esenzione fi-scale attira a getto continuoaziende, banche e nuovi emi-granti verso il Golfo. I cavalli del-la Godolphin, la scuderia degli AlMaktoum, vincono negli ippo-dromi di tutto il mondo. Alle ban-chine del porto è stata ormeggia-ta la Queen Elizabeth 2, gloriosanave da crociera e orgoglio dellamarineria inglese, rilevata dall’e-mirato e trasformata in hotel gal-leggiante. E i dollari continuanoa entrare a fiumi nelle casse del-l’emirato, che in pochi anni haacquistato la Peninsular & Orien-tal, la società dei porti britannici,le borse scandinave, il due percento della Sony, una bella quotadell’Hsbc, di Airbus e della Daim-ler, persino il venti per cento de-gli acrobati del Cirque du Soleil.

La città del futuro però, sottola superficie dorata, comincia a

far emergere anche le primecontraddizioni. Come i pro-blemi delle centinaia di mi-gliaia di filippini, indiani epakistani chiusi nelle barac-che del quartiere industriale

di Al Quoz, le bracciache hanno costruito ilsogno degli Al Maktoumin cambio di pochi dol-lari al giorno. Un’uma-nità nascosta, scesa direcente in sciopero perprovare a migliorare lesue condizioni di vita.

Poi c’è il caotico traffi-co in centro. Qui ci sonootto macchine ogni die-ci persone e la pianifica-zione delle infrastruttu-re stradali (costano manon rendono come unbel grattacielo) è andatapiù a rilento di quella

LA CITTÀ DELLE MERAVIGLIEDa sinistra in alto, in senso orario:foto di un interno del Burj Al Arab;il Burjuman Centre, un luogo rinomatoper lo shopping; altre due immaginidel Burj Al Arab; un ristorantedel Dubai Mall con visualesul Dubailand Ski Dome; un plasticode “The World Project”, iniziativache prevede la creazione di trecento isoleartificiali che viste dall’alto hanno la formadel globo terrestre; una fotopanoramica del distretto di Bada’a In copertina: veduta aerea di Palm Islands

EMIRATO DEL DUBAI

Stato: Emirati Arabi Uniti

Popolazione: 1.370.714 abitanti

Età media popolazione: 27 anni

Capitale: Dubai City

Superficie: 3.885 km²

Densità: 352,8 abitanti per km²

Lingua: arabo (ufficiale), inglese (commerciale)

BURJ DUBAIAncora in costruzione,è stato progettatoda Adam SmithSarà il grattacielo più altodel mondo

BURJ AL ARABÈ uno degli alberghipiù lussuosi al mondo,caratterizzatodalla particolareforma a vela

DUBAILAND SKI DOMEImmenso complessoper gli sport invernali,interamente copertoe realizzato con seimilatonnellate di vera neve

DUBAILANDProgetto, in fasedi realizzazione,per un gigantescoparco ricreativo (saràil doppio di Disneyland)

PALM ISLANDSIl progetto prevedela creazione di isoleartificiali dispostein modo da disegnareun albero di palma

HYDROPOLISProgetto del tedescoJoachim Hauser,che prevede la costruzionedi un albergo sottomarinoa Dubai

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Repubblica Nazionale

l’immagineProfessione reporter

Dal 30 agosto al 14 settembre a Perpignan, sui Pirenei francesi,si svolge l’edizione numero venti di “Visa pour l’image”,l’appuntamento più prestigioso per i fotogiornalisti di tuttoil mondo. Un anniversario in tempi di crisi ma – come diceJean-François Leroy, padre-padrone della kermesse – la crisiè dei media perché “i veri fotografi ci sono ancora”

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Il festival delle notizie da vederePERPIGNAN

«L’ennui», la noia,non la nausea esi-stenziale di Sartre,proprio la noia che

sfianca e addormenta. Morirà di noia ilfotogiornalismo, teme Jean-FrançoisLeroy quando è più sfiduciato. Noia co-me quella che lo assale ogni anno, a trat-ti, mentre sfoglia le immagini da selezio-nare per le mostre e i premi speciali delFestival di Perpignan, da vent’anni esat-ti il «suo» festival, l’appuntamento inter-

nazionale più pre-stigioso per i gior-nalisti dell’occhio.Ad agosto l’ufficioparigino del festivalè sommerso da bu-ste gialle con fran-cobolli di tutto ilmondo, a pile, apacchi, sulle scri-vanie, sulle sedie,per terra. Almenoquattromila fotosono arrivate an-che quest’anno, elui se l’è guardatecome sempre tutte,una a una, è un im-

pegno onorato ogni estate da vent’anni.Un impegno non sempre entusiasman-te. Quante fotografie «pulite, sterilizza-te» che non raccontano più il mondo malo ripetono alla nausea: «Non ne possopiù di tutti questi ritratti, ritratti, e ritrat-ti di gente che ha in mano ritratti». Il pro-blema della povertà urbana? Un po’ di ri-tratti di homeless. La guerra in Iraq? Unagalleria di ritratti di marine. Lo tsunami?Ritratti di sopravvissuti che mostrano ri-tratti di vittime. Where have all the pictu-res gone? dovrebbe cantare oggi JoanBaez, dove sono finite le fotografie?

A Perpignan, forse. Perché alla fin fine,assicura l’esausto Jean-François, «i veri

fotografi esistono ancora». E anche que-st’anno, come da vent’anni compiuti, neha trovati abbastanza per riempire diimmagini questo borgo medievale aipiedi dei Pirenei le cui stradine tra qual-che giorno, come ogni anno per una set-timana all’inizio di settembre, si affolle-ranno di migliaia di fotografi famosi,aspiranti famosi, e di semplici golosi di“notizie da vedere”. Durerà? Certo, nonè proprio un indizio di ottimismo festeg-giare il compleanno della maturità conun convegno nel cui titolo ricorre ben trevolte la parola “crisi”: Crisi del fotogior-nalismo, crisi del giornalismo o crisi del-l’informazione? Ma il patriarca Leroy hagià una personale risposta. «Vede que-sto? È appena arrivato, è il reportage diNoël Quidu dal Nepal. È straordinario,sfogli queste foto poi mi dica: da quantotempo non vede su un magazine unastoria sul Nepal? Forse non vedrà nep-pure questa. La crisi è dei media, non deifotografi, ecco la mia risposta. Se tutte lemostre che vedrà qui a Perpignan fosse-ro state pubblicate, lei non mi avrebbeneppure fatto la domanda». Perpignan èil magazine che non c’è. È un giornalesenza carta che esce una sola volta al-l’anno, il rotocalco delle storie che nes-sun altro racconta. Tutto questo, da due

decenni.Vent’anni dopo. Da Dumas in poi, è

questa la misura temporale che trasfor-ma un’avventura in un classico.Vent’anni dopo, il festival Visa pour l’i-mage è sicuramente un classico nelmondo della fotografia: «Sì, d’accordo,hai esposto al MoMA», è la battuta checircola tra i cacciatori di immagini, «manon sei ancora stato invitato a Perpi-gnan...». Vent’anni dopo, il fondatore edirettore del festival è un D’Artagnanscamiciato e sorridente che non rinun-cia a tirar di sciabola pur di difendere lasua grande famiglia. «C’è una quantità dipersone che giocherellano con la mac-china fotografica, pigre, senza idee. Poici sono i fotografi. Visa è per i fotografi».Ci vuole un passaporto, per entrarci. Vi-sa vuol dire appunto “visto”, come direun timbro sul «passaporto per le emo-zioni». Il doganiere è ovviamente lui, Le-roy. Sicuro dei suoi gusti, tecnologica-mente un po’ conservatore (ha dato vialibera al digitale solo nel 2005). Padre pa-drone, e guai a contraddirlo: è negli an-nali un suo scontro con James Na-chtwey, il più credibile erede di Capa, peruna banale questione di selezione delleimmagini da proiettare. Dittatore asso-luto, dice qualcuno. «Non “qualcuno”:lo dico io, Jean-François Leroy! Sono loStalin di Visa. Non c’è democrazia, a Per-pignan. Decido io. È la mia visione. E losarà finché funziona».

In effetti, finora ha funzionato. Visa èuno dei più longevi festival culturalid’Europa. Non ci avrebbe scommessoforse neppure il sindaco di Perpignan,quando nel 1988 lanciò un bando d’ideeper un festival di qualsiasi cosa, giustoper dare alla cittadina franco-catalanaun po’ di appeal turistico in più. Jean-François Leroy era poco più che un ra-gazzo, un cardiochirurgo mancato, unfotografo d’agenzia (la storica Sipa diGöskin Sipahioglu, uno degli invitatispeciali al compleanno) di non eccelsa

fortuna, ma a quanto pare molto con-vincente come patrono dei colleghi. Unfestival di fotografia non era la scelta piùovvia per Perpignan. Nessuna vocazio-ne locale, se non una blanda coinciden-za: lì vicino, nel villaggio di Estagel, nac-que l’astronomo François Arago, che nel1839 fu padrino e garante dell’invenzio-ne di Daguerre. E poi sulla fotografia era-no in campo già da anni, e non molto lon-tano da lì, i blasonatissimi Rencontres diArles. Ma Arles è un festival di arte foto-grafica: Perpignan scelse la cruda foto-grafia dei fatti. Leroy la mette così: «AdArles vanno quelli che le foto le fanno. Danoi, quelli che le prendono».

Cani da riporto della realtà, fotografiche scarpinano il mondo per quattro sol-di. «È inconcepibile che reporter comePaul Fusco, Laurent Van der Stockt,Stanley Green, Enrico Dagnino debba-no far fatica a pubblicare e spesso perfi-no a mettere assieme il pranzo e la ce-na!», tuona Leroy. Visa voleva essere lavetrina dei loro talenti. C’è riuscita, se ti-ri le somme del ventennio: seicento au-tori esposti singolarmente, oltre un mi-lione di visitatori, circa diecimila imma-gini presentate ogni edizione, tra mostretradizionali nei vecchi conventi dei Mi-nimes e di Sainte Claire, nella chiesa deiDomenicani, e proiezioni notturne nel-l’ampia suggestiva arena del CampoSanto. Centinaia di photo-editore titola-ri di agenzie convergono a Perpignan nelcorso delle giornate riservate ai profes-sionisti, si sparpagliano nei caffè all’a-perto, disponibili a farsi avvicinare daesitanti ragazzi con i loro portfolio sotto-braccio, a dare giudizi, consigli... Certo,Perpignan è il festival dei contatti. Ahi-noi, un po’ meno dei contratti. I giornaliapprezzano il festival, scrivono recen-sioni encomiastiche, ma poi non acqui-stano i servizi. C’è da giurare che anchequest’anno Leroy dovrà tirarli per lagiacca: «Elogiate di meno e comprate dipiù, per favore».

MICHELE SMARGIASSI

CADUTO IN IRAQQui sopra. Reno, Stati Uniti,agosto 2005, arrivo della salmadel tenente James CatheyVisa 2006, Todd Heisler© Todd Heisler/Rocky Mountains News/Polaris

BAGDAD CONQUISTATA

A sinistra in altoLe truppe americaneconquistano Bagdad,aprile 2003Visa 2003, Alexandra Boulat© Alexandra Boulat/VII

WEST POINTFoto grande in alto a destraAccademia militaredi West Point, estate 1957Visa 1992, Pierre Boulat© Pierre Boulat/Cosmos

GATTO E CARRARMATONell’altra pagina, secondadall’alto. Beirut, febbraio 1984Visa 1990, Patrick Chauvel© Patrick Chauvel/Corbis-Sygma

PRESA DEL REICHSTAGNell’altra pagina, terza dall’altoBerlino 1945, la presa del ReichstagVisa 1995, Yevgenij Khaldei© Yevgenij Khaldei/Soyuz/Mark Grosset Photographies

“Visa” vuole esserela vetrina dei “canida riportodella realtà”, talentiche scarpinanoil mondoper quattro soldi

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 17 AGOSTO 2008

L’ottanta per cento dei reportage mo-strati a Visa è inedito, e purtroppo lamaggioranza resta tale. «Il mondo è pie-no di fotografi con storie straordinarieche nessuno pubblica». La missione delfestival è «il diritto di vedere, il dovere difar vedere», soprattutto quel che meno sivede. Ogni anno, dal ‘94 al 2002, il festivalha allestito una mostra sulla guerra di-menticata in Cecenia. «Quando chiedia-mo ai nostri padri cos’hanno fatto con-tro i lager nazisti, rispondono che nonsapevano. Quando i nostri figli chiede-ranno a noi cos’abbiamo fatto contro imassacri in Darfur, non potremo dare lastessa risposta». Nei rari casi in cui la cen-sura ha prevalso, ha tappato gli obiettivi,il festival ha scelto di denunciare l’assen-za: grandi schermi neri con la scritta «Al-geria». L’etica, ancora quella: mostraretutto quel che si può. Anche il peggio. «Ilmondo, spiacenti, è violento». Ma è sicu-ro, direttore, che la gente voglia davverovedere l’orrore del pianeta? «Centoven-tottomila spettatori al festival dell’annoscorso, sono venuti per cosa? Il pubblicovorrebbe vedere, è l’imbuto dei mediache è stretto».

Al “piccolo padre” Leroy, i fotograficredono. Il festival si regge da vent’annisulle spalle sue e di un piccolo staff che

non è mai cambiato. Sostenuto da qual-che sponsor, tenuto in piedi dal munici-pio, non paga somme favolose agli invi-tati. «Sanno che non mi arricchisco su diloro. Il mio stipendio è pubblico: pocopiù di quattromila euro al mese. Che èpoi», ride, «l’altra grande differenza traPerpignan e Arles...». Li ha reclutati unoa uno, di persona, anno dopo anno, cor-teggiando con la stessa tenacia i giovanipromettenti e i mostri sacri. Per convin-cere un riluttante Alfred Eisenstaedt, perquasi quarant’anni la firma di punta diLife, promise di baciargli i piedi al mo-mento dell’arrivo. E lo fece. Per strappa-re al riservatissimo Yevgenij Khaldei, ilfotografo Tass che immortalò la bandie-ra rossa sul tetto del Reichstag nel 1945,la sua prima mostra fuori dall’Urss volòa Mosca con una bottiglia di bordeauxsotto il braccio e la determinazione a tor-nare solo con un sì. Aveva ragione: fu for-se la serata più memorabile di tutti ivent’anni. Sul palco, davanti a migliaia dipersone, Khaldei incontrò Joe Ro-senthal, il fotografo americano che for-giò l’icona della Seconda guerra mon-diale, la bandiera a stelle e strisce sulmonte Suribachi a Iwo Jima. Due grandi,due bandiere, due miti: si scambiaronoin pubblico le loro icone, con dedica, ab-bracciandosi. «Fu un momento com-movente, tutti in piedi, con le lacrimeagli occhi». Poco dopo, Leroy vide queidue ridacchiare tra loro: «Ci siamo resiconto solo adesso che siamo entrambiebrei. Be’, gliel’abbiamo fatta vedere, aHitler...».

Nel tempo, quasi tutti i grandissimiancora in vita hanno fatto un’apparizio-ne a Perpignan. John Phillips, il gigantebuono della fotografia, l’anno prima dimorire sollevò di peso il sindaco, lo baciòsulle guance ed esclamò: «Lei ha fatto diPerpignan la Salisburgo della fotogra-fia!». Alcuni vengono tutti gli anni senzaneppure avere una mostra in program-ma, come David Douglas Duncan, il

Goya della guerra in Corea, che solo que-st’anno ha accettato di esibire il suo al-bum toccante.

Nell’ufficio parigino del festival, le lo-ro straordinarie fotografie sono appesedappertutto, perfino in bagno. Ma soloperché sono doni firmati degli autori.«Non comprerei nessuna di queste foto-grafie per appenderla in salotto. Le no-stre foto vivono sulla carta dei giornali».Vivono per comunicare, non per mo-strarsi come oggetti d’arte. Visa è unospazio concerned, impegnato. Di de-nuncia. «Umanista», preferisce dire Le-roy. È l’asilo dei fotografi non-pigri. Diquelli che non accettano di essere em-bedded, cioè, secondo l’etimologia abu-siva suggerita dal festival, «non accetta-no di andare into bed, a letto con il pote-re». Mica facile, nell’epoca delle new warstrettamente sorvegliate. In Iraq perfinoCapa non sarebbe riuscito a fare gran-ché... «No», insorge Leroy, «Capa avreb-be trovato il modo di darci lo stesso delleimmagini straordinarie. La prova è chemolti ci riescono».

L’album di questi vent’anni è pieno discatti che fanno saltare sulla sedia. Il gat-to che corre davanti ai cingoli di un tankisraeliano nel mezzo della battaglia delLibano (Patrick Chauvel, 1990); il dop-pio mento fuori ordinanza di una reclu-ta di West Point (Pierre Boulat, 1992); ilbimbo di Kabul col suo tesoro trovato frale macerie, un palo di legno lungo trevolte lui (Laurent Van der Stockt, 1995);le bare dei soldati americani rimpatria-te sotto gli occhi di passeggeri indiffe-renti (Todd Heisler, 2006)... Se c’è un ri-schio, nei compleanni, è pensare chetutto il meglio è già stato fatto. Program-maticamente, questa edizione da cifratonda non cederà all’autocelebrazione:un bicchiere di champagne al Photo Bardell’Hotel Pams sarà più che sufficiente.«E poi storie, tante storie, nient’altro chestorie». Fino a quando ci sarà chi sa ve-dere, e soprattutto chi vuol vedere.

LEONE DEL PANSHIRA sinistra. Afghanistan,inquadratura di spalledel comandante Massud,“il Leone del Panshir”Visa 1997, Pascal Maitre© Pascal Maitre/Cosmos

LIBERIA IN FIAMMEQui sopra. La corsadi un combattentenella guerra civile in Liberia,aprile 1996Visa 1999, Patrick Robert©Patrick Robert/Corbis-Sygma

SOLDATO-BAMBINOA sinistra. Un soldato-bambinofesteggia l’indipendenzanell’Angola del 1975Visa 1996, Jean-Pierre Laffont© Jean-Pierre Laffont/Corbis-Sygma

DOPO CERNOBYLQui sopra. Gonel, Bielorussia,in una corsia di ospedaleuna madre piange la mortedella figlia per leucemiaVisa 2005, Paul Fusco© Paul Fusco/Magnum Photos

Bilancio ventennale:seicento autoriesposti, diecimilaimmagini a edizionetra mostree proiezioni,un milione di visitatori

Repubblica Nazionale

le storieCulti popolari

Centotrenta anni fa i reali carabinieri uccidevano con una pallain fronte David Lazzaretti, predicatore visionario a metà stradatra il millenarismo e il socialismo utopico. I suoi seguaci furonoperseguitati e dispersi e il Viminale a tutt’oggi li catalogatra le sette di stampo magico. Ma nei borghi attorno a Arcidossoancora si riuniscono nel nome del loro “messia”

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 17 AGOSTO 2008

MONTE AMIATA

Quando uccisero David Lazzaretti, l’ex bar-rocciaio venerato quale nuovo Messia e«Cristo in seconda venuta», si estenuava ungiorno di piena estate. Lasciata la vicina

Grosseto per il gran caldo afoso, molti cittadini si eranotrasferiti nei borghi montani dell’Amiata incoronati dasecolari castagneti. Paesi come Arcidosso. Qui, il 18 ago-sto del 1878, i carabinieri reali aprirono il fuoco sulla pa-cifica processione dei seguaci di un uomo visionario, po-co più che quarantenne, che annunciava la fine del mon-do, predicava il collettivismo e la messa in comune deibeni, nonché l’era dello Spirito Santo, affermando che «laRepubblica è il Regno di Dio». Colpito da una palla di fu-cile in fronte, il Profeta dell’Amiata cadde davanti al suopopolo. Braccianti, pastori e gente umile che in lui, nel«Santo», riponevano anche la speranza di un riscatto so-ciale: Antonio Gramsci lo avrebbe ben compreso in unanota nei Quaderni del carcere.

Alla morte, un omicidio di Stato ante litteram comeRoberto Gremmo ha ricostruito in un saggio puntuale(Davide Lazzaretti. Un delitto di Stato, edito da Storia Ri-belle), fecero seguito arresti e persecuzioni degli adeptidella Chiesa detta giurisdavidica, ritenuti in buona par-te sovversivi e comunque pericolosi per lo Stato e so-prattutto per la Chiesa cattolica, in particolare in un pe-riodo come quello, caratterizzato dagli attentati anar-chici ma pure dalle prime lotte contadine e operaie. So-no accadute molte cose da quell’agosto di centro-trent’anni fa, tuttavia quassù, fra Arcidosso, dove nacqueDavid, e il Monte Labbro (o Labaro), fra Bagnore e SantaFiora, il suo nome non si è dissolto nel nulla. Anzi. A di-spetto di chi considera morto e sepolto il suo apostolatomessianico, sopravvivono diverse persone che non han-no mai tradito e perduto la fede in Lazzaretti, venata damillenarismo e da schegge di socialismo utopico.

È ancora agosto, un pomeriggio di questa estate 2008.Arcidosso ricorda l’assassinio del Cristo dell’Amiata con

numerose manifestazioni e con una mostra al CastelloAldobrandesco. Sono state promosse dal Comune e dalCentro studi David Lazzaretti, da oltre un ventennio ful-cro delle iniziative tese a rivalutarne la figura e il movi-mento spirituale, a lungo screditati e accusati, a torto, diogni sorta di nefandezza. Basti dire che, a tutt’oggi, i giu-risdavidici vengono incasellati dal ministero degli Inter-ni nella lista delle sette di stampo magico ed esoterico. Vi-minale a parte, il contesto storico e culturale, il recuperodella memoria popolare, almeno nell’Amiata, sono or-mai ampiamente salvaguardati. Così come, grazie allaFondazione del Monte dei Paschi di Siena, sono stati re-staurati i luoghi di culto sul Monte Labbro, sopra Arci-dosso: dall’eremo alla grotta in cui David dormiva (e do-ve venivano, e vengono, celebrate le funzioni religiose);fino alla torre nuragica da lui fatta costruire a oltre millemetri di altitudine, che avrebbe dovuto simboleggiarel’Arca della Nuova Alleanza.

«È molto positivo che si occupino di lui, però nonvorrei che venisse trasformato in una specie di Ma-donnina che lacrima, per richiamo turistico». È il ti-more che nutre Anna Innocenti Periccioli, pronipotedi David, al quale ha dedicato un libro. E poi, aggiun-ge Anna, «sarebbe importante che si attivassero per fartogliere i giurisdavidici dall’elenco ministeriale dellesette». Pier Luigi Marini e Carlo Goretti, rispettiva-mente presidente e responsabile del Centro studi Laz-zaretti, assicurano che si stanno muovendo per far re-stituire ai lazzarettisti la vera connotazione di chiesa.Come non è avvenuto finora. Nei documenti di poliziarintracciati di recente dal citato Gremmo all’Archiviocentrale dello Stato, l’attenzione di questure e prefet-ture ha una natura prettamente inquisitoria. La que-stura di Roma, per esempio, l’8 dicembre 1953 invita-va altre questure italiane a vigilare sulla «setta», al fine«di prevenire e reprimere eventuali trasmodanze con-trarie alla legalità e all’ordine pubblico», ritenendoopportuno inoltre «di far intervenire un alienista» alleloro riunioni.

Se è indubbio un revival lazzarettiano, sembranoinvece essere assenti i protagonisti reali, gli attori prin-cipali: i seguaci del culto. Tanto da dubitare, secondol’opinione di qualcuno, che esistano ancora. È soltan-

to un’apparenza. Non è necessario andare molto lon-tano per trovarli. E per scoprire che la comunità reli-giosa creata dal Profeta dell’Amiata ha saputo, nel cor-so del tempo, difendere e tramandare da una genera-zione all’altra una spiritualità spontanea, autentica, eun credo di matrice popolare, che aveva indotto ungiovane Luciano Bianciardi, grossetano, l’autore deLa vita agra, a scrivere sull’Avanti!, nel luglio del 1953,riportando le parole di un adepto, che David «voleva la

fratellanza per tutti, ed il vero socialismo». A Le Macchie, una frazione di Arcidosso, fuori da

quell’abitato cittadino che all’epoca aveva duramenteosteggiato David e la sua predicazione, vive la signoraOrsola. È una donna di età avanzata, semplice e schiet-ta: «La fede in David? Sicuro che ce l’ho sempre, perchénon dovrei averla? Come me c’è tanta altra gente. Ma-gari non ne fa ostentazione, però è davvero credente».Poco più in basso, scendendo a Arcidosso, incontriamoAssuntina, figlia di Nazareno Bargagli, uno dei sacer-doti della Chiesa giurisdavidica, e Aldo Minucci, un’an-ziana coppia di coniugi. Pure loro testimoniano la per-sistenza della fede: «È stato David a dire che sotto la ce-nere ci sarà sempre una scintilla. Ed è così. Quando, neigiorni di Ferragosto, si sale al Monte Labaro per le no-stre feste, non ci si va mica per vedere le pietre ma perdire le nostre preghiere. Ci vuole del tempo, lo dicevaanche David. Sta di fatto che le verità affermate dal Fi-gliolo dell’Uomo, che non era Cristo, figlio di Dio, malui, si stanno avverando. Guardate la corruzione che c’èin giro: be’, David l’aveva profetizzato».

Orsola. Assuntina, Aldo e Alberto Minucci. E MauroChiappini, il figlio di Turpino Chiappini, che fu l’otta-vo sacerdote della Chiesa universale giurisdavidica.Quanti altri come loro? Difficile rispondere, impossi-bile scomodare i numeri. Carlo Goretti, responsabiledel Centro studi lazzarettiano, ha una convinzione:«Penso che per troppi anni sia stato privilegiato princi-palmente l’aspetto sociale del culto di Lazzaretti, sullafalsariga delle annotazioni di Gramsci e delle interpre-tazioni date via via dai socialisti e dai comunisti. Inve-ce la chiave di volta è l’aspetto spirituale». Qual è il se-greto della longevità di questa chiesa che, con buoneprobabilità. è la più minuscola comunità religiosa dimontagna del mondo, creata e mantenuta in vita dagente del popolo? Forse è sufficiente quanto TurpinoChiappini, muratore e contadino, sostenne in una let-tera inviata al Centro studi dolciniani nel 1993: «Il Laz-zaretti fu un semplice, e fu compagno dei semplici, per-ché parlava di loro lo stesso linguaggio e noi siamo i ni-poti e pronipoti di quei grandi vegliardi che continuia-mo a conservare quel lievito da lui lanciato che a tem-po giusto ci verranno fatti tanti pani».

Il Cristo dell’AmiataTorna il profeta ribelle

MASSIMO NOVELLI

LE IMMAGINISopra, in senso orario: ritratto di DavidLazzaretti (Fototeca storica DavidLazzaretti); e tre dipinti di Giuseppe Corsini:David Lazzaretti gran monarca; il sacerdotegiurisdavidico Filippo Imperiuzzi;l’incontro fatale tra il Cristo dell’Amiatae i reali carabinieri (Archivio Giurisdavidicoe Centro Studi David Lazzaretti)

Repubblica Nazionale

42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 17 AGOSTO 2008

CULTURA*

Processo

Dantea

LA CARRIERA POLITICAA Firenze, fra il 1295 e il 1296, Dante è membro del Consiglio del Popolo,

del gruppo dei “Savi” e del Consiglio dei Cento. Nel 1300 è nominato

priore. Spesso il suo partito, i Guelfi Bianchi, lo usa come ambasciatore

L’ANTEFATTODante cerca in ogni modo di contrasatare le ingerenze del Papa

nella politica di Firenze. Ma nel 1301, su richiesta di Bonifacio VIII, arriva

in città con il suo esercito Carlo di Valois. I Guelfi Neri tornano al potere

IL PRIMO PROCESSODiventa podestà di Firenze Cante Gabrielli. Mentre è in ambasciata

dal Papa, a Roma, Dante è accusato di “baratteria”. Il 27 gennaio 1302,

poiché non si presenta al processo, è condannato a pagare 5000 fiorini

LA CONDANNA ALL’ESILIODante non torna a Firenze per discolparsi, temendo la cattura

In contumacia, il primo marzo 1302, la condanna a suo carico

è trasformata in esilio, pena il rogo e la distruzione delle sue case

IL SECONDO PROCESSOIl 6 novembre 1315 la pena ( “ taglio della testa dalle spalle”) è estesa

a tutti i discendenti di Dante (nel 1400 cadrà il bando contro di loro). Il poeta

muore di malaria a Ravenna il 14 settembre 1321 e non rivede più Firenze

LA RIABILITAZIONEIl 16 aprile 1966 Dante viene assolto in un “processo” messo in scena

ad Arezzo. Il 30 maggio 2008 due consiglieri comunali fiorentini del centro-

destra chiedono la sua riabilitazione come cittadino “eccellente”

Repubblica Nazionale

La legge non è sempre uguale per tutti. C’è un italia-no così famoso da poter essere considerato ormai aldi sopra della giustizia. Era in odore di essersi arric-chito con le speculazioni sui terreni. Correva voceche avesse fatto carriera grazie all’appoggio di unasetta segreta di iniziati, una specie di P2. In politica

era entrato carico di debiti. Era di dominio pubblico che, puravendo moglie e figli, continuasse a correre dietro a uno stuolodi belle donne. Anzi, era lui a vantarsene. Non si era mai presen-tato ad alcuno dei processi a suo carico. Era stato più volte con-dannato per corruzione, compravendita di magistrati ed espo-nenti politici, per l’abuso a fini personali della sua alta carica digoverno e dei fondi pubblici. Ma nessun procuratore, nessungiudice oserebbe più incriminarlo o condannarlo, anche se leaccuse si rivelassero vere. Si fa semmai a gara, quasi tutti d’ac-cordo, a riabilitarlo. A nicchiare restano ormai solo l’estrema si-nistra, i verdi, e pochi altri, e per giunta in base ad argomenta-zioni che sembrano fatte apposta per essere incomprensibili aipiù e irritanti per tutti.

Parliamo di Dante Alighieri, condannato, assieme ad altri, peraver commesso, quando erano al governo, «per sé e per altri ba-ratterie, illeciti lucri, inique estorsioni in denaro o altre cose»;per aver «ricevuto denaro o promessa di denaro o altri vantaggiper qualche nuova elezione»; «per aver commesso, essi o qual-cuno di essi, o fatto commettere i predetti reati dando, promet-tendo o pagando somme o cose o facendo scritte sui libri di qual-che impresa, durante il loro pubblico ufficio o dopo di esso»;«per aver riscosso dalla Camera… somme maggiori e diverse daquelle previste negli stanziamenti»; per «aver commesso o fattocommettere frodi o baratterie di denaro o cose in danno delloStato»; per «aver fatto spendere denari» per fini impropri di po-litica estera; per «aver ottenuto denari o cose da privati o da en-ti con la minaccia di concussioni di immobili o con la minacciadi danni»; per «aver commesso o fatto commettere frode, falsità,dolo, malizia, baratteria e alta estorsione», al fine di mettere indifficoltà e dividere l’opposizione, far eleggere rappresentanti«tutti di un solo partito», frustrare gli sforzi di pacificazione e col-laborazione istituzionale tra i partiti avversi. Così dice la sen-tenza depositata il 27 gennaio 1302, emessa dal «nobile e poten-

te Cavaliere Messer Cante dei Gabrielli da Gubbio, onorevolePotestà della Città di Firenze», registrata, come tutte le altre con-danne concernenti «famiglie ribelli», nel “Libro del Chiodo”conservato nell’Archivio di Stato, così chiamato da un chiodoinfisso nella tavoletta della rilegatura. Fa un certo senso leggereche la sentenza inizia con la formula «In nome di Dio, amen», al-lora consueta quanto oggi è il «Bismillah» islamico.

Se vi fossero delle prove allegate a questo po’ po’ di accuse, equali, se ci sia stato dibattimento o meno, non lo sappiamo, per-ché tutti gli atti originali del processo furono distrutti in un tu-multo popolare di quarant’anni dopo. La base, secondo lo stes-so dispositivo della sentenza, è la «fama publica referente», cioèil fatto che di questi illeciti se ne parlava dappertutto, tanto cheera scontato che gli imputati li avessero commessi (e dire chenon c’erano ancora né stampa né tv). Dante risulta «reo confes-so», perché il non presentarsi al processo equivaleva ad ammet-tere i crimini (mentre presentarsi equivaleva a finire sotto tor-tura e sul rogo). Il 10 marzo fu ratificata la condanna all’esilio ditutti gli imputati, «ritenuti confessi a causa della loro contuma-cia», pena l’«essere bruciato col fuoco finché muoia» se veniva-no presi. Un’altra sentenza del 6 novembre 1315, cioè di quasiquindici anni dopo, estendeva la condanna ad avere «tagliata latesta dalle spalle, così che muoiano», a «Dante Alighieri e figli»,nel frattempo cresciuti, «e ciascuno delle dette famiglie e con-sorterie, dai settant’anni in giù e dai quindici anni in su», inquanto «ribelli».

Firenze avrebbe fatto ammenda solo oltre mezzo secolo do-po, nel 1373, con una «provisione» che introduceva la «pubbli-

ca lettura» della Divina commedia. A fine 1400 sarebbe caduto ilbando contro i discendenti. È di qualche settimana fa la propo-sta al Consiglio comunale di Firenze di riabilitare solennemen-te l’«exul immeritus», l’esiliato a torto, attribuendo il Fiorinod’oro all’ultimo dei discendenti, il ventunesimo pronipote, ilconte Pieralvise di Serego Alighieri. Finita tra le polemiche per-ché proposta dal centro-destra, mentre dall’estrema sinistra etra i verdi c’era chi avrebbe voluto «celebrare con il poeta esuletutti gli esuli del mondo, i migranti e le loro idee contro i poteridittatoriali», attribuire, giacché ci si era, il fiorino «anche a Savo-narola»; chi cavillava sul fatto che «il poeta aveva accettato l’esi-lio e quindi conclusa la sua relazione con Firenze»; e chi prote-stava che «i suoi eredi non hanno alcun merito a chiamarsi Ali-ghieri». In fiorentino al momento non mi viene, ma i venezianidicono: peggio il tacon del buso. Almeno qualcuno l’avessemessa in modo che poteva anche avere un senso: non creare unprecedente di assoluzione senza processo, di esonero per pre-scrizione, o di ingiudicabilità permanente causa apoteosi.

A differenza del caso degli improcessabili dei nostri tempi, inverità un processo a Dante c’è già stato, e con tutti i crismi: testi-monianze, accusa, difesa, giudici di tutto rispetto. Fu celebratoil 16 aprile 1966 nella Basilica di San Francesco in Arezzo. Stan-do agli esimi studiosi chiamati a deporre, le traversie giudiziariedi Dante avrebbero a che vedere col fatto che nei sei anni prece-denti l’esilio era “entrato in campo” in politica. Si fosse limitatoa dedicarsi agli affari o alla poesia, forse se la sarebbe cavata. Ildantista Piero Bargellini, che all’epoca era sindaco di Firenze,portò una brillantissima “testimonianza” sulle maldicenze, ichiacchiericci delle male lingue, il tagliar i panni addosso alprossimo, che all’epoca non potevano mancare a Firenze, spe-cie nel sestiere di San Pier Maggiore, non a caso chiamato il Se-sto dello scandalo. Non sarebbe corretto insinuare che Dantefosse entrato in politica per far soldi, ma è certo che ne spese pa-recchi per entrare in politica. «Dante ha una speciale abilità nelcontrarre debiti, o meglio prestiti con garanzia del suocero, delcognato e ipoteca sul patrimonio paterno. Ho fatto il conto. Almomento in cui si è dato alla politica, egli aveva un debito di 831fiorini d’oro — l’equivalente di cinque milioni di euro di oggi. In-vece di pensare a qualche fonte di guadagno sicuro, si è andatoa cacciare nei guai, tra Donateschi e Cerchieschi, tra Neri e Bian-chi, entrando ora in questo o quel consiglio, finché non è riusci-to a essere priore della Signoria. Sarà, ma nessuno mi leva dallatesta che, assillato dai creditori, non abbia “intrallazzato” in Co-mune… Come si sa, le cariche sono come le ciliegie, e dopo ilpriorato venne a Dante Alighieri, medico “scioperato”, cioè di-soccupato, la nomina d’Ufficiale sopra vie, ponti e piazze dellacittà: un incarico nel quale le baratterie e gli illeciti guadagni so-no anche più facili. È vero che la popolazione aveva da lungotempo presentata una petizione per il proseguimento di via SanProcolo verso l’Africo, ma è anche vero che quella strada avreb-be attraversato, e quindi anche valorizzato, i terreni possedutidalla famiglia Alighieri verso Sant’Ambrogio».

Che ci siano stati o non anche traffici e interessi economici, lacosa del tutto evidente è che nelle disgrazie giudiziarie di Dantecontò il fatto che si era schierato con uno dei due partiti, anzi peressere più precisi, con una delle due correnti di partito che sisbranavano tra di loro: i Guelfi Bianchi di Vieri De’ Cerchi, anzi-ché i Neri di Corso Donati, coi quali pure era imparentato perparte di moglie. Cacciati dai Neri, i Bianchi non avrebbero esi-tato ad allearsi coi Ghibellini contro i cugini Guelfi. C’erano in-somma due partiti cattolici in guerra tra loro, uno dei quali finì

col fondersi con gli ex nemici giurati della Chiesa. E perse, per-ché finì col trovarsi contro il Papa, e questa è da sempre la cosapeggiore che possa capitare ad un partito cattolico.

Nel momento in cui gli intentarono il processo, Dante non sitrovava nemmeno a Firenze, ma in missione ufficiale a Romapresso Bonifacio VIII. Forse si era montato la testa, se prestiamofede a Boccaccio si credeva ormai insostituibile e prima di ac-cettare la missione avrebbe detto: «Se io vo, chi rimane? E se iorimango, chi va?». Ma quel papa era un osso duro. Narra il Com-pagni, cronista politico d’eccezione, anche se forse un po’ fan-tasista, che prima cercò di blandire e convincere gli ambascia-tori fiorentini bianchi: «Li ebbe soli in camera e disse loro in se-greto: “Perché siete voi così ostinati? Umiliatevi a me; e io vi di-co in verità che io non ho altra intenzione che di vostra pace”».Poi li mandò a quel paese, facendo in modo che a Firenze il go-verno passasse ai neri.

Pare che Bonifacio ce l’avesse in particolare con Dante prio-re, di cui non dimenticava un pungente «Nihil fiat» alle sue ri-chieste; e con l’avvocato Lapo Saltarelli, il quale a suo tempo ave-va accusato tre banchieri fiorentini di voler vendere la Toscanaal Papa, facendoli condannare ad una multa salatissima, non-ché al taglio della lingua se non pagavano. Dante comunque nondoveva avere grande stima per il suo compagno d’esilio se poinel Paradiso farà accostare dal suo avo Cacciaguida, quali esem-pi di decadenza, il giurista moralizzante «Lapo Saltarello» e la«Chianghella», la quale pare fosse una vedova di facili costumi.«Doveva essere uno di quei giuristi che volevano proni ai loro vo-leri e ai loro interessi i magistrati; più retori che ragionatori an-che quando si occupavano di questioni politiche», ipotizza Bar-gellini nella sua Vita di Dante, pubblicata in prima edizione intempi non sospetti.

Nel processo di Arezzo, l’accusa era affidata ad Antonio Bel-locchi, il quale, pur tributando ogni omaggio possibile all’im-putato, non mancò di far notare che era un tipo difficile, uno «an-goloso, amaro, violento, dal linguaggio tagliente», uno «alquan-to presuntuoso e schifo e disdegnoso», insomma uno che le an-tipatie se le cercava, e tirò in ballo pure le sue passioni extraco-niugali, da Beatrice a Lisetta, Fioretta, Gentucca, La Casentine-se, Bianca, Giovanna, la Contessa, e così via. L’asse della suarequisitoria fu che, alla luce delle leggi allora vigenti a Firenze, lacondanna potrebbe non essere così infondata, specie la secon-

da quella del 1315, visto che da fuoriuscito Dante continuava afare furibonda opposizione.

E si potrebbe aggiungere che gli andò ancora bene che non loaccusassero di terrorismo e di associazione a delinquere distampo mafioso. Se fosse vera anche solo una parte delle tesi diGiovanni Pascoli e di Luigi Valli, per cui il linguaggio dei “Fede-li d’amore”, cioè delle poesie che si scambiavano Dante e i suoiamici, sarebbe il linguaggio segreto di una setta sovversiva anti-papista, mezza Al Qaeda mezza P2, è già tanto che non lo abbia-no mandato al rogo per eresia prima ancora che per baratteria.Un cardinale fece in tempo a ordinare che fosse mandato al ro-go il suo De Monarchia.

La linea accusatoria fece cilecca. Tra i giudici c’era anche il fu-turo presidente della Repubblica Giovanni Leone, cui dispiac-que che «il pubblico ministero, con la intemperanza che hannoavuto sempre tutti i pubblici ministeri in tutti i secoli, abbia vo-luto entrare nella vita privata di Dante e parlarci delle sue vicen-de personalissime». Vi vedeva una manifestazione di «quellalegge per la quale in ogni civiltà, in ogni tempo, in ogni battagliapolitica, si cerca anche di demolire moralmente il proprio av-versario». Altri avevano testimoniato che, malgrado le apparen-ze in contrario, Dante si era staccato dagli estremisti del suocampo, la «compagnia malvagia e scempia», si era adoperato si-no al limite del possibile per essere “perdonato”, per una ripre-sa del dialogo con i Neri, e per questo era stato respinto come tra-ditore sia dai Guelfi Bianchi che dai Ghibellini, e costretto a far«parte per sé stesso». Ça va sans dire che la sentenza di Arezzo fudi piena e unanime assoluzione.

SIEGMUND GINZBERG

Due sentenze, nel 1302 e nel 1315Accuse di “baratterie, illeciti lucri,inique estorsioni”, e ancora “frode,falsità, dolo, malizia...”La condanna fu l’esilio, per evitaredi essere bruciato o decapitatoMa quando, poco tempo fa,nel consiglio comunale di Firenzeè piovuta la propostadel colpo di spugna retroattivo,le polemiche si sono subito riacceseSegno che nell’eterna Italiadei Guelfi e dei Ghibellinila questione merita di essereanalizzata con attenzione, comeavvenne quarant’anni fa ad Arezzo,dove pubblica accusa e difesasi scontrarono su colpevolezzao innocenza del sommo poetafinché i giudici si pronunciaronoper la piena assoluzione

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 17 AGOSTO 2008

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Repubblica Nazionale

Aquasi dieci anni dalla morte di Lucio Battisti, avvenuta il 9 set-tembre del 1998, un servizio fotografico realizzato nel 1966dal fotografo milanese Ferruccio D’Apice ci restituisce aspet-

ti inediti della vita del grande cantautore. Nel viaggio a Londra in-sieme a Mogol, pochi mesi dopo l’inizio della loro collaborazione,Battisti realizza un doppio obiettivo: mette piede nel paese da cuiprovengono gli artisti che più lo ispirano in quegli anni, dai Creamai Led Zeppelin, da Donovan ai Beatles; e incontra gli Hollies diGraham Nash, il gruppo di cui, insieme ai Campioni di Roby Mata-no, Battisti ha appena inciso alcune cover che usciranno nell’estate1966. Agli Hollies, nella settimana londinese, Battisti farà ascoltareNon prego per me, che Nash e soci interpreteranno a Sanremo nel1967.

Le foto che pubblichiamo, insieme ad altre anch’esse inedite cheD’Apice scattò a Battisti tra il 1965 e il 1972, sono ora esposte al Cetdi Toscolano, la scuola che Mogol gestisce in Umbria e che si occu-pa della crescita e del lancio di nuovi artisti. D’Apice le ha donate aMogol: «Ho deciso di regalare dopo quarant’anni il mio patrimonioartistico a Giulio Rapetti Mogol come riconoscimento per quella sta-gione trascorsa insieme», spiega. «L’esposizione al Cet permetteràai tanti fan di Mogol e Battisti di vedere le più suggestive e, credo, piùsignificative immagini del loro straordinario sodalizio artistico».

Quando partono per Londra, Mogol e Battisti non hanno ancorascritto il loro primo grande successo. Mogol è già un autore affer-mato, ha quasi trent’anni, le sue canzoni hanno già vinto tre volteSanremo; inoltre traduce e adatta in italiano le canzoni dei più gran-di artisti internazionali, a cominciare da Bob Dylan. Battisti, che haventitré anni, ha alle spalle l’attività concertistica con i Campioni eora muove i suoi primi passi nella discografia milanese sotto l’alaprotettrice di Mogol, che in lui ha intuito grandi potenzialità.

Colpisce, nelle foto di Londra, l’aspetto giovanile di Battisti, col-piscono i suoi capelli corti, che di lì a poco diventeranno un cespu-glio di ricci quasi afro, immagine coerente con le aspirazioni inter-nazionali del suo stile musicale. Sono passati pochi mesi da quandoBattisti è arrivato a Milano da Roma in cerca di fortuna: «Me lo pre-sentò Mogol, mi chiese di ospitarlo un paio di giorni a casa mia in at-tesa di sistemazione» racconta D’Apice, che non perse occasione perfotografarlo con la sua Leika «luce-finestra e sempre con la chitar-ra». Quell’anno, il 1966, è anche l’anno in cui Battisti si convince chepuò cantare le sue canzoni: incide Dolce di giorno e Per una lira, maè solo nel 1967, con il successo di 29 settembrescritta per l’Equipe 84,che la coppia più importante della canzone italiana coglierà il segnopropizio per uno straordinario futuro artistico. (c.m.)

Era l’inizio del 1966, la capitale inglese era il centrodi una rivoluzione musicale e culturale che presto avrebbecontagiato tutto il mondo. Lucio Battisti e Giulio Rapetti

– non ancora coppia vincente della canzone italiana – ci andaronoper ascoltare e farsi ascoltare. Il fotografo che documentò il viaggioora ha allestito una mostra di immagini inedite al Cet di Toscolano

SPETTACOLI

“Avevo da faree lasciai Lucioad aspettarmiin strada. Quandotornai stavamangiando, ospitedei portinaidi un palazzo:“Ahò, Giulio, vié,mettete a sede...”

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Una settimana a Londra al-l’inizio del 1966 avrebbecambiato la vita di chiun-que, figurarsi quella di dueartisti ventenni e sensibilicome Mogol e Battisti.

Non si assiste a una rivoluzione culturalesenza subirne le conseguenze e la Swin-ging London dei Beatles e delle ragazze inminigonna era un vortice di tendenze e distili che di lì a poco si sarebbero proietta-ti nei quattro angoli del mondo. Da Car-naby Street a Kings Road era un susse-guirsi di sollecitazioni, di suoni e di im-magini che facevano letteralmente a pu-gni con la cornice, ancora legata al vec-chio mondo degli uomini in completogrigio e bombetta, dei taxi con le portierecontrovento e degli scenografici cambidella guardia a Buckingham Palace.

In estate Mogol avrebbe compiutotrent’anni, Battisti ne aveva ventitré. Lu-cio aveva appena deciso di mettersi acantare in proprio ma le vendite del 45 gi-ri con Dolce di giornoe Per una liraeranostate modeste, il grande successo com-merciale arrivò solo l’anno successivoquando insieme firmarono 29 settembreper l’Equipe 84. In quei sette giorni Mogole Battisti avrebbero incontrato Dick Ja-mes, il boss della Northern Songs editricedei Beatles. Poi c’era da far ascoltare Nonprego per meagli Hollies di Graham Nash,che avrebbero portato la canzone al Fe-stival di Sanremo nel ‘67, in coppia conMino Reitano. Lo stesso anno della par-tecipazione di Sonny and Cher, di GenePitney, di Marianne Faithfull; e del suici-dio di Luigi Tenco.

Mogol, cosa ricorda di quel viaggio aLondra?

«Ci aveva invitato Dick James, che eraamico di mio padre Mariano, editore allaRicordi, e era venuto diverse volte da noiin Italia. James non faceva parte dell’edi-toria classica, era un personaggio brillan-te, un editore aggressivo, da battaglia.Aveva fatto il colpo della sua vita acqui-

sendo le edizioni dei Beatles prima del lo-ro successo mondiale e io e Lucio en-trammo nel suo giro. Alloggiavamo in unclub esclusivo in cui ci aveva introdottolui: si chiamava “Elephant club”, avevapoche stanze, un bar, una sala da gioco;un posto decisamente di lusso ma spen-devamo pochissimo e ci trattavano bene.Ci siamo fatti l’idea che ci trattassero cosìperché ci volevano attirare nella sala dagioco, dove non andammo mai».

Oltre che negli uffici della NorthernSongs, dove passavate la maggior partedel tempo, dove andavate?

«Passeggiavamo molto. Andavamo aKings Road e a Brompton Road a vederele vetrine dei negozi di Mary Quant con leminigonne e le scarpe con la zeppa, ri-cordo una cena tutti insieme in un risto-rante cinese. Ma l’episodio più curiosoavvenne un giorno che mi dimenticai Lu-cio in una strada di Londra».

Se lo dimenticò?

«Sì, passeggiavamo in una via del cen-tro e io a un certo punto mi ricordai cheavevo un appuntamento con qualcuno,forse un editore, non ricordo bene... Eramattina, lui mi disse: “Resto a girare daqueste parti, quando hai finito mi troviqui”. Sono rimasto fuori per tutta la gior-nata e mi sono dimenticato di Lucio.Quando in taxi sono tornato in quella via,preoccupato di trovarlo arrabbiato, locercavo avanti e indietro e non lo trova-vo... Fino a che lui non è uscito da un an-drone e mi ha detto “Giulio, vieni, vieniqua”. Era lì dentro, tutto contento chemangiava con la famiglia dei portinai, eha fatto sedere a mangiare anche me. Eraun suo tratto questa umanità, questa ca-pacità di comunicare e socializzare.“Ahò, a Giulio, viè, mettete a sede...”, Lu-cio era incredibile».

Londra sarà stata piena di stimoli, an-che di tentazioni.

«Quelle foto di fronte al club “Playboy”

sono un’idea del fotografo FerruccioD’Apice, uno scherzo, fu lui a dirci di at-traversare la strada e a spingerci di frontea quel portone per scattare la foto. Ma ciòche quel servizio fotografico rappresentabene, secondo me, è sia il nostro smalto,la nostra curiosità viva, sia lo smalto dellacittà, evidente in quegli scatti. Lucio erainteressato alla musica, era informato ditutto, ma anch’io potevo contare su fre-quentazioni importanti: ero amico di Pe-ter, Paul and Mary, di John Phillips deiMamas and Papas; e soprattutto di AlbertGrossman, il manager di Bob Dylan, cheproprio in quei giorni mi propose di in-contrarlo a Londra».

Incontrò anche Dylan?«Grossman mi aveva già chiesto la tra-

duzione e l’adattamento per l’Italia di di-verse canzoni di Dylan: La risposta è ca-duta nel ventoda Blowin’ in the Wind, in-terpretata da Luigi Tenco; Mister Tambu-rinoda Mr. Tambourine Man, interpreta-ta da Don Backy; Come una pietra che ro-tola da Like a Rolling Stone, interpretatada Gianni Pettenati. Ora voleva che co-noscessi Dylan, anche perché si era crea-to un problema per la traduzione di Bal-lad of a Thin Man: Dylan sosteneva chenon c’era la versione del suo testo. A Dy-lan a Londra avevano dato un apparta-mento molto lussuoso al Mayfair, anchese nel seminterrato, forse perché lui e ilsuo gruppo non avevano propriamente illook sofisticato degli altri clienti dell’ho-tel. Entrando in quell’appartamento en-

CARLO MORETTI

Mogol. Quei giorni magicitra Beatles e Mary Quant

Battisti prima di Battistialla scoperta del futuro

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45DOMENICA 17 AGOSTO 2008

trai nel suo mondo: Dylan aveva deciso difilmare ogni istante della sua giornata,c’era una ragazza con l’asta del microfo-no e il regista Alan Pennebaker che giravaquello che diventerà il documentario Eatthe document. Dopo un’anticamera dimezz’ora dissi che me ne volevo andare,Dylan di là continuava a suonare la chi-tarra, ma si interruppe, mi venne incon-tro, fu molto gentile. Mi raccontò che erastato in Italia quando non era ancora no-to, ma nessuno lo caricava su con l’auto-stop e per questo pensava che da noi nonc’era molta cordialità. Era anche preoc-cupato perché qualche giorno dopoavrebbe debuttato all’Olympia di Parigi.Mi chiese cosa ne pensassi e io gli dissi“non è adatto a te, non è il tuo pubblico. Èconvenzionale, è adatto a Edith Piaf, a Mi-

relle Mathieu”. Abbiamo parlato molto dipoesia, mi disse: “Sai chi mi piace? Mi pia-ce un autore italiano, il Belli”. Sulla tradu-zione mi disse: “Hai ragione, se non lo ca-pisci non puoi tradurre il testo di Ballad ofa Thin Man, ma il fatto è che non lo capi-sco neanche io”. Poi si alzò e stracciò lapagina musicale della canzone, disse“forget it, so chi sei, apprezzo il tuo lavo-ro, traduci queste altre canzoni”, e mi mi-se in braccio un mazzo di fogli che avevalì. Io uscii con questo fascio di canzoni,però da allora non scrissi più versioni ita-liane di testi di altri. Pensai che aveva pie-namente ragione: io non traducevo,ascoltavo la musica e scrivevo testi miei».

Tornaste altre volte a Londra con Bat-tisti?

«Credo fosse nel ‘70, anzi ne sono sicu-

ro.Avevamo appena inciso l’lp Emozioni,e incontrammo Pete Townshend degliWho per caso negli uffici di un editore. Lu-cio lo aveva riconosciuto, me lo indicò. Glifacemmo ascoltare Emozioni, io pensavoche fosse lenta per i canoni anglosassoni,che non gli sarebbe piaciuta. E invece

Townshend disse: “Wait a minute”, equando tornò c’era un codazzo degli im-piegati delle edizioni, tutti molto giovani,a cui chiese di ascoltare, e mentre Luciocantava lui leggeva la versione in ingleseda un foglio... Disse: “È fantastica”. Era unnome mondiale, io e Lucio ne fummodavvero molto contenti. E poi quel ri-scontro mi ha convinto che, quando i ma-nager americani dei Beatles proposero aLucio di fare un giro di concerti in Ameri-ca, lo fecero perché avevano capito le suepotenzialità. Lucio rispose di no, e quan-do me lo riferì mi disse che il motivo erache chiedevano troppo: quel 25 per centoper lui non era giusto. Ma io gli dissi, ti re-sta il 75 per cento di tutto il mondo! Nonriuscii a fargli cambiare idea: la realtà è cheabbiamo perso un treno».

IL FOTOGRAFO

Ferruccio D’Apice (fotoa destra) è nato a Milanosettantasei anni faHa conosciuto Mogolnel 1958. Nel maggio ’65Mogol gli chiese di ospitareBattisti appena giuntoa Milano: fino al ’72 resteràil suo fotografo di fiduciaLe foto di queste paginesono state scattate a Londranel ’66. In quelle centraliqui sopra, gli incontricon Dick James e gli Hollies

Quando caldo e faticati buttano giù, scegli

la forza del numero uno

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i saporiConserve

Sono i giorni della raccolta e della preparazioneper la protagonista dei cento sughi che trasformanopasta, riso, carne, pesce, pane e pizza in una festaper occhi e palato. Ma, tra recupero di qualità autoctonee nuovi ibridi, anche un mondo legato alle tradizionicome quello della passata sta acquistando nuovi colori

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SalsaPomodoro

al

Il tempodel miracolo rosso. Più chela rivoluzione, poté la maturazio-ne dei pomodori “da salsa” di cui inquesti giorni comincia la raccolta.È lei, densa, polposa, coloratissi-ma, la protagonista dei cento sughi

che in un attimo trasformano pasta, riso,carne, pesce, uova, ma anche il semplicepane, in una festa per occhi e palato. Unastoria cominciata due secoli fa, quando lochef francese Nicolas Appert imbottigliòla prima passata di pomodoro, per poisbollentarla, codificando il processo nelsuo Art de conserver... Un’innovazioneche gli valse il premio messo in palio daNapoleone in persona, angustiato dallaridotta conservazione delle derrate ali-mentari militari.

L’idea attraversò la Manica: nel 1814 Pe-ter Durant produsse le prime conserve inlatta e stagno per la Reale Marina Inglese.Mezzo secolo più tardi, il torinese France-sco Cirio («Come natura crea, Cirio con-serva») presentava i primi “cibi in scatola”alla Grande Esposizione Universale di Pa-rigi: il successo fu tale, che nel giro di pochimesi passata di pomodori e piselli in ac-qua di cottura vennero richiesti da tutto ilmondo, arrivando fino alla lontanissimaSydney. Altrettanto meritevole, l’intuizio-ne di un ufficiale della Marina Sarda, Sta-nislao Soleri, che per primo mise a puntoil concentrato.

Certo, l’estate è tempo perfetto per i su-ghi a crudo: basta trovare una manciata dipomodori maturi — requisito indispensa-bile, altrimenti l’acidità copre tutto il resto— tuffarli per qualche istante nell’acquabollente per sbucciarli facilmente senzacuocerli, spremerli delicatamente (con-servando acqua di vegetazione e semi, ve-ri giacimenti di vitamina C, con cui tirarela pasta nella rifinitura) e tagliarli a pezzet-toni, aggiungendo basilico e un giro di ex-travergine. Semplicemente irresistibile.

Ma la passata di pomodoro ha una fun-zione ben più ampia, essendo madre ditutti i sughi rossi: impossibile prescindereda qualche cucchiaiata, che sia fatta al mo-

mento, estratta dall’armadio delle con-serve casalinghe o comprata. Di più: seabitualmente i nutrizionisti predicano ilconsumo di frutta e verdura crude per pre-servare l’integrità delle vitamine termola-bili, il pomodoro fa eccezione. Per meglioassorbire il licopene — sostanza ipoglice-mica e potente anti-cancro — di cui i po-modori sono ricchi come null’altro in na-tura, infatti, occorre il passe-partout delcalore, che rompe le pareti cellulari libe-randone cinque volte il contenuto a cru-do. Altra indicazione, aggiungere un pocod’olio, perché il licopene è liposolubile:ovvero, dà il meglio di sé in compagnia diun grasso. Il tutto, naturalmente, a patto diutilizzare pomodori coltivati in campoaperto e senza pesticidi.

L’altro filone di ricerca riguarda il recu-pero di varietà antiche e autoctone —quelle per cui vale la pena annusare unpomodoro! — a fronte delle cinquemilatipologie oggi in commercio, di cui lamaggior parte ibride e standardizzate.Così sono tornati sul mercato i pomodorigialli, discendenti di quelli portati in Eu-ropa dai conquistadores spagnoli, a lun-go ignorati dalle cucine di vecchio e nuo-vo mondo. Nuovissimo, invece, il “SunBlack” — nato da incroci rigorosamentenon-ogm grazie a un progetto interuni-versitario coordinato dalla Scuola Supe-riore Sant’Anna di Pisa — con polpa ros-sa, gusto tradizionale, ma buccia viola-cea-nera, ricchissima di antociani, i prìn-cipi degli antiossidanti.

Se saper fare la passata non vi basta più,l’11 settembre il grande Chicco Cerea,chef bi-stellato dello splendido Relais “DaVittorio”, a pochi chilometri da Bergamo,organizza un corso monotematico dedi-cato ai sughi rossi. Dall’arrabbiataalla bo-scaiola, le declinazioni della salsa di po-modoro non avranno più segreti. Nellaprova finale, guai a chi scuoce la pasta.

Un miracolo rossobuono, sano, versatile

‘‘Andrea CamilleriPina, la cammarera,è un’ottima cuoca,mi credaOggi ha preparato pastaalla Norma, sa, quellacon le milinzane frittee la ricotta salataGesù! fece Montalbanoassettandosi

Da Il ladro di merendine

LICIA GRANELLO

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47DOMENICA 17 AGOSTO 2008

ConcentratoIl soccorso rosso per sughianemici si ottiene prolungandola cottura del sugo-baseper asciugarlo fino a densitàvoluta. In alternativa, scolarel’acqua di vegetazione (farnegelatine), asciugare in fornoa 160° e passare al setaccio

CheccaCondimento estivo per amantidell’aglio, lavorato con salee un filo d’olio, mescolatocon i pomodori (tuffati un attimoin acqua bollente per sbucciarlifacilmente), privati d’acquae semi, tagliati a filetti. Volendo,mozzarella, pepe, basilico

GazpachoUn mix andaluso tra panzanellae pappa al pomodoroI pomodori maturi e sbucciatisi frullano con pane raffermoammollato, peperoni giallie verdi, cetriolo, extravergine,aceto, sale. Far riposare in frigo,diluendo con acqua e ghiaccio

RagùA Bologna la carne di vitellosi rosola nel soffritto e pancetta,poi vino, brodo e concentratoNel rraù napoletano, carnedi vitello e costine di maialerosolano con la cipolla. Sfumatoil vino rosso, si aggiungela passata e si lascia pippiare

MatricianaGuanciale a dadini per il soffrittocon peperoncino (cipollaa piacere). Quando il grassodiventa trasparente, poco vinobianco. Quando è croccante,si toglie per far spazioai pomodori un poco spremutiPoi, pepe nero e pecorino

BasilicoPer la ricetta-madre, pomodoriSan Marzano ben maturi, lavati(senza asciugarli), incisi e fattiappassire a fuoco bassocon cipolla e odori. Eliminarele bucce col passaverdurae ridurre in breve sul fuococon sale, extravergine e basilico

PuttanescaSciogliere nel soffritto di aglioe peperoncino qualche alicedissalata. Poi, pomodori pelatia pezzi, olive snocciolatee capperi, cuocendo a fuocovivace. Variante con pezzettidi tonno sott’olio. Alla fine,poco prezzemolo tritato

Pesto rossoAppetitoso sugo a freddo, fattotagliando e mescolandouna varietà di aromi e verdure:sedano, peperoncino, basilico,finocchietto, capperi dissalati,menta, olive, pomodori secchi,extravergine, concentrato, pinoli,mandorle, uvetta e origano

NormaLe melanzane, affettate, fattespurgare con sale grosso,sciacquate, asciugate, vannofritte in extravergine abbondantee tagliate a listarelle (alcune,intere, decorano il piatto)Unire salsa di pomodoro,basilico e ricotta salata

In principio era il bianco. Il candore del burro, il perlaceo del lardo, l’ambrato dei fondi dicottura esaurivano lo spettro cromatico dei sughi. Poi Colombo tornò dalle Americhecon il pomodoro. E la cucina scoprì il suo nuovo mondo. Anche se in verità quella rossa

è stata una rivoluzione lenta perché il pomodoro è stato considerato a lungo un ornamen-to più che un condimento. E perfino a Napoli i maccheroni si mangiavano in bicromia: bian-co del cacio, nero del pepe. Finché nel 1839 grazie al ricettario di Ippolito Cavalcanti, ari-stocratico gourmet partenopeo, i vermicelli co’ le pommadore fanno il loro ingresso trion-fale nella storia della gastronomia. Comincia così l’irresistibile ascesa che ha fatto della to-mato sauce il simbolo planetario del mangiare all’italiana.

Un’onda impetuosa, rossa come le camicie dei garibaldini, risale la penisola dal sud ver-so il nord e unifica l’Italia dei sapori partendo da Pachino. E San Marzano diventa il nuovopatrono del Bel Paese da mangiare. È il controcanto maccheronico del Risorgimento. ColSud che conquista il Nord. Così se in economia nasce la questione meridionale a tavolascoppia la questione settentrionale. L’alternativa fra sugo rosso e sugo bianco, fra pomo-doro e burro fuso riassume l’opposizione tra le due anime alimentari dello stato unitario.Una linea gotica del gusto destinata ad essere sommersa dalla marea crescente delle salse,delle passate, delle conserve, dei pelati. Travolta dal compatto tsunami del triplo concen-trato.

In effetti i sughi rossi e bianchi si integrano a poco a poco dando vita a degli strepitosi sin-cretismi, a compromessi di ogni colore. Perché le nostre cucine regionali adottano tutte ilpomodoro. Ma tutte lo adattano. E ciascuna lo intona nel suo mood. Nella patria del tra-sformismo il rosso si stempera così in una tavolozza cromatica dalle mille sfumature. Dal

carminio opalescente dell’Amatriciana allo smalto scintillante dei chitarrini coi pallottini— leggasi polpettine — abruzzesi, dal marezzato chiaroscuro di besciamella e conserva deipasticci emiliani al cupo scarlatto delle pappardelle alla lepre toscane, dalla porpora vellu-tata della puttanesca ai toni incendiari dell’arrabbiata, dal barocco amaranto dei sicilianis-simi spaghetti alla Norma, al tiziano brunito dei bigoli in salsa veneziani. Fino al profondorosso del ragù napoletano, pasto totemico di tutti i vesuviani, di nascita e di elezione.

Se ogni contrada d’Italia ha il suo tono di rosso, all’estero trionfa il total red. I bastimentiche trasportavano oltreoceano i nostri paisà hanno portato ai quattro angoli del mondo ilprofumo struggente di una nostalgia che sa di pummarola. Nei cortili della Brooklyn anniVenti l’odore delle conserve si spandeva fino all’Upper East Side come un richiamo stagio-nale della madre lontana. Un’epopea consacrata dal cinema. Nei pizza moovies come neicapolavori di Scorsese e Coppola gli spietati goodfellas di Cosa Nostra si struggono davantia un pezzetto di pane pucciato nel tomato. Mentre i padrini piangono come vitelli alle pri-me note di Ridi pagliaccio. Rimpianto e belcanto. Così strettamente associati alla salsa dipomodoro da trasformare personaggi come Enrico Caruso in testimonial planetari del gu-sto italiano. Il celebre pianista Arthur Rubinstein raccontava che ogni volta che il tenore en-trava in un ristorante di New York tutti i presenti sospendevano il pasto per spiare il suo mo-do di mangiare gli spaghetti. Finché una sera il grande Enrico perse la pazienza, gettò via laforchetta e si mise a mangiare i vermicelli con le mani macchiandosi di rosso faccia camiciae cravatta. Con un gesto da miseria e nobiltà. In questa indisciplinata, vulcanica leggerezzac’è la chiave di un modo di vivere e di mangiare che ha conquistato il mondo. Un way of lifein salsa italiana.

L’irresistibile tsunami della pummarolaMARINO NIOLA

Appoggiata a quasi800 metri all’incrociodelle provincedi Palermo, Agrigento,Caltanissetta – parcodelle Madonie – è zonavocata per le produzioniagricole. I pomodori

siccagni, derivati da aridocoltura, sono lavoratida una cooperativa biologica

DOVE DORMIREANTICA MASSERIA FONTANAMURATAContrada FontanamurataLocalità Sclafani Bagni Tel. 0921-542018Camera doppia da 80 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREPOMIERI (con camere) Contrada Pomieri, Petralia SottanaTel. 0921-649998Sempre aperto, menù da 25 euro

DOVE COMPRARECOOPERATIVA RINASCITAVia Cadorna 91Tel. 333-8017693

itinerariValledolmo (Pa)

Nella capitalemondiale della pastaartigianale splendeanche la produzionedei pomodoriDiverse le varietàe le metodicheagricole, dai giardini

di San Marzano ai ciliegini di collina, fino allecoltivazioni “senz’acqua”, concentrati di sapore

DOVE DORMIRECASA SCOLAVia Fornace 1Località Borgo CastelloTel. 081-5392198Camera doppia da 80 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIARESAN NICOLAVia San Nicola dei Miri 21, Loc. Valle dei MuliniTel. 081-8795770Chiuso lunedì, menù da 30 euro

DOVE COMPRAREGERARDO DI NOLAVia San Sebastiano 63Tel. 081-8743652

Gragnano (Na)Nelle campagnereggiane, è rinomatoanche per un cimiteronapoleonicoe un busto di LeninUna bella fattoriadi quaranta ettari,impostata su base

biodinamica, lavora i pomodori locali,trasformandoli in conserve e sott’oli

DOVE DORMIREDREAMS&COFFEE B&BVia Rossa, 56Tel. 0522-576221Camera doppia da 48 euro,colazione inclusa

DOVE MANGIARECA’ MATILDE (con camere)Via della Polita 14, Rubbianino Tel. 0522-889560Chiuso a pranzo (tranne dom.), menù da 40 euro

DOVE COMPRAREFATTORIA LA COLLINAVia Teggi 38Tel. 0522-308609

Cavriago (Re)

Antonella Ricci gestiscecon la famiglia“Al Fornelloda Ricci”, ristorantericavato da un trullosulle collinebrindisinedella Val d’ItriaTra i suoi piatti, le crestedi gallo con pancettacroccante e passatadi pomodoro

Torna il gialloIl nome, pomo d’oro,un tempo battezzava il colore,un bel giallo dorato, poi via viaarrossato da incroci. Duevarietà campane – pomodorodel piennolo e San Marzano,entrambe in versione gialla –sono state da poco recuperate

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le tendenzeRevival estivi

Camicie di lino bianco e gilet multitasche, shorts di telakaki e sandali di cuoio minimalisti, gonne alla cavigliae ricami di perline Masai. Quarant’anni dopo la primarilettura ad opera di Yves Saint Laurent, gli stilistiripropongono questa linea di abbigliamento aggressivae sexy che rimanda alle atmosfere de “La mia Africa”

48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 17 AGOSTO 2008

Nell’estate del 1968, quando l’alloragiovane stilista marocchino YvesSaint Laurent creò un miniabito-sahariana per la patinata modella Ve-rushka in partenza per l’Africa, non siaspettava certo che la sua reinterpre-

tazione di quel classico dell’abbigliamento colonia-le sarebbe entrata a far parte della storia della moda.Invece la foto della statuaria contessa-modella cheimbraccia un fucile con indosso il microabito di telabeige e un grande cappello di paglia, scattata per Vo-gue Francia, fece il giro del mondo. Suscitando nel-le donne dell’epoca gran clamore. E soprattutto ildesiderio di imitare alla perfezione quello stile ag-gressivo ma al tempo stesso sexy. Tanto che, l’annosuccessivo, Saint Laurent decise di lanciare un’inte-ra collezione centrata sul tema sahariana. E per pro-muoverla si presentò, insieme alle sue storiche mu-se, Betty Catroux e Loulou de la Falaise, all’aperturadella sua boutique londinese indossando tre versio-ni diverse della classica giacca con cintura in vita.

Da allora sono passati esattamente quarant’anni.Eppure, ciclicamente, stagione dopo stagione, il co-siddetto safari style, ovvero quell’insieme di capid’abbigliamento che richiamano i vestiti usati dagliinglesi nelle colonie, torna a far parlare di sé. A volteil revival è da attribuirsi all’uscita di un film di suc-cesso. Come accadde nel 1986 quando gli abiti dise-gnati dalla costumista italiana Milena Canonero perMeryl Streep, alias Karen Blixen nel colossal di Sid-ney Pollack La mia Africa, fecero girare la testa aglistilisti del mondo. Che cominciarono a mandare inpasserella candide camicie di lino bianco e gilet mul-titasche, sandali di cuoio ultra minimalisti e shortsstretti in vita e svasati in fondo che tanto sarebberopiaciuti alla grande scrittrice danese. In altri casi, in-vece, è semplicemente la nostalgia per i colori e i sa-pori del continente nero a far riaffiorare nelle colle-zioni dei grandi della moda le nuances del deserto ele cinture di cuoio, i ricami di perline Masai e la rafia,gli shorts di tela kaki e le gonne alla caviglia. Rivisita-ti e corretti a seconda del gusto del momento.

Come è accaduto quest’estate. Da Dolce & Gab-bana a Versace, da Diane Fürstenberg a Marc Jacobs,da Giorgio Armani a Oscar de la Renta infatti, non c’èdesigner che non abbia ceduto al fascino dello stilesafari. Il motivo? Sarà a causa delle temperaturesempre più elevate che stanno trasformano le nostrecittà in vere e proprie giungle d’asfalto. O forse, sem-plicemente, perché in un momento di crisi globalenel quale viaggiare in terre lontane è diventato sem-pre più difficile, chi compra un abito cerca una sor-ta di evasione dal quotidiano. Ma una cosa è certa:chi decide di vestirsi coloniale quest’estate ha solol’imbarazzo della scelta. Tra le sahariane biancocangianti di Versace e i cargo shorts di Burberry, i ve-stiti di seta beige di Trussardi da portare con la cin-tura di cuoio stretta in vita e i bikini zebrati di Benet-ton, le pochette di pitone colorato di Fendi e i panta-loni di lino bianco di Dockers.

Capi diversi da indossare insieme per un total lookoppure separati per aggiungere solo un tocco di eso-tismo al classico abbigliamento da città. Già perchélo stile safari in voga quest’anno non è più conside-rato un look eccentrico. Ma solo una delle tante de-clinazioni del vestire moderno. Così che la tanto de-cantata sahariana si possa indossare con noncha-lance sopra i pantaloni da ufficio e gli shorts in telacolor kaki diventino un must da sera se abbinati aisandali d’oro. Per un vero safari urbano.

JACARANDA CARACCIOLO FALCK

CUSCINO LEOPARDATOAnche in casa si respiraprofumo d’Africacon l'accessorio giustoCome il cuscinoa stampa leopardodella serie ArnicaDi Armani casa

POCHETTE STILE MASAIRichiama i tradizionalimotivi Masai il disegnodella pochetteda sera di Fendi. In pellemarrone, beige e rossacon chiusura frontale

Uno stile da giungle d’asfalto

BAULE-LETTOPer i primi esploratoriLouis Vuitton realizzònel 1868 un baule-letto,capace di racchiuderebrandina e materasso:il Brazza trunk. Cheancora oggi si puòordinare nei laboratoriVuitton di Asnières

GIOIELLI ETNICIUn’idea per una serata speciale?Le polsiere dorate firmate Emporio Armani,che si ispirano ai gioielli tradizionali africani

PITONE AI PIEDIPelle, pitone e rafiagli ingredientidei sandalidi PolliniCon tacco altobianco,si indossanocon nonchalancein città e al mare

PER VIAGGIATORI ESPERTISi chiama Billy bagla nuova borsa da giornofirmata dallo stilistaAlberto AnnibaliRealizzata in pelle invecchiata,è dotata di cinturini frontali

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 49DOMENICA 17 AGOSTO 2008

La sahariana fece la sua comparsa ufficiale tra i te-nenti e i capitani meharisti negli anni Venti, inuna Libia ancora lontana dall’essere conquista-

ta, quando a Roma qualcuno già si era rassegnato allacatastrofe delle truppe italiane che stavano per essereributtate in mare. I meharisti la portavano come giac-ca fuori ordinanza sopra dei bellissimi calzoni strettilungo il polpaccio, che si allargavano spropositata-mente sulle cosce, come le gambe delle donne migiur-tine, considerate le più belle dell’Africa insieme con lepeuls.

La sahariana incontrò subito un successo trionfale,curiosamente contraddittorio, perché si adattava so-prattutto agli uomini molto alti e schiacciava ancorapiù a terra i piccolotti. Tutto sommato, dipendeva mol-to dalla personalità di chi la portava. Indossata da unuomo come Amedeo Guillett, che si era dato alla mac-chia dopo la resa ignominiosa degli italiani in AfricaOrientale e che all’alba si scaraventava giù per le colli-ne caricando all’arma bianca gli accampamenti ingle-si con le sue “Bande Amhara a cavallo”, questa giaccapratica e nello stesso tempo elegante prendeva unaspetto di nobile coraggio. Mentre appariva ridicolis-sima sopra le spalle di quel comandante dell’oasi di Cu-fra scappato ai primi colpi di fucile sparati dalle truppespeciali franco-inglesi guidate dal capitano Massu, poigenerale ai tempi di De Gaulle. Prima della fuga avevafatto in tempo a mandare a Roma il seguente, gloriosotelegramma: «Chiamo in extremis. Lunga vita all’Italia,al Re Imperatore, al Duce. Roma ti abbraccio».

Gli italiani dell’epoca avevano visto la sahariana incartolina, al cinema nel film Lo squadrone biancodi Ge-nina, e a Roma durante la sfilata delle truppe colonialilungo via dell’Impero, con i meharisti vincitori della ga-ra di applausi. Uno che la portava molto bene, fino a far-ne quasi una divisa, era Leopoldo Franchetti, un baro-ne duro e piantagrane che veniva da una famiglia pro-prietaria della Ca’ d’Oro a Venezia, in fama di africani-sta, accreditato della prima traversata della Dancalia:un infernale, caldissimo bassopiano africano, dove latemperatura poteva arrivare fino a sessanta gradi, po-polato da nerissimi afridi con i capelli lanosi che ma-neggiavano terrificanti zagaglie e avevano la non sim-patica abitudine di castrare i prigionieri di guerra. Inrealtà il primo ad attraversare il bassopiano era stato undistinto signore anglo-italiano che si chiamava Ne-

sbitt. Ma Mussolini stravedeva per Franchetti e avevafatto in modo di cancellare fascisticamente il primatodi Nesbitt dai libri di storia in favore del suo protetto.

Un uso smodato della sahariana bianca o avorio lofecero le camicie nere, che si presentavano indifferen-temente a Tripoli di Libia o a Venezia alla mostra cine-matografica con la sahariana di seta bianca, forse pen-sando che fosse un’eccellente variazione, in chiavemarziale, dello smoking bianco che allora celebrava isuoi trionfi al cinema e nelle cene al golf dell’Acqua-santa, indossato da Galeazzo Ciano, presunto erede,per poco o pochissimo tempo, di Mussolini. Quando cifu l’attentato a Graziani — un vero criminale di guerrache in Libia aveva fatto bombardare le popolazioniinermi del Fezzan, intese come donne e bambini, e erastato nominato da poco viceré d’Etiopia — furono lecamicie nere in sahariana a tirare fuori le pistole e adammazzare indiscriminatamente tutti i notabili delposto che trovarono a tiro, in una delle più ignobili stra-gi che la storia coloniale ricordi.

Anche Italo Balbo, governatore della Libia, uno deipochi uomini decenti che il fascismo abbia mai offer-to, adorava la sahariana esibita quasi in ogni occasio-ne: quando andava nei weekend a Ghadames o nel de-serto libico dell’Ubari, accompagnato da signore rico-perte da lino bianco; e durante le cerimonie ufficiali aTripoli, circondato dagli spettacolari Zaptié a cavallo,nel ruolo del capitano di ventura rinascimentale, ge-nere Giannettaccio, che avrebbe risollevato l’Africa delnord ai suoi antichi splendori d’epoca romana.

Dopo la Seconda guerra mondiale la saharianascomparve, per riapparire molto più tardi come giaccada portare al volante dei gipponi, allora all’inizio dellaloro spettacolare ascesa nel mondo automobilisticocome feticcio irrinunciabile di qualsiasi scalata socia-le. Ho ancora impressa la scena davanti a una scuolaprivata a poche centinaia di metri dalla casa dove abi-tavo. Malamente parcheggiati davanti all’entrata,quattro o cinque di questi gipponi avevano alla guidagentili signore che fino a pochi giorni prima giravanosolo in Seicento e ora le vedevi aggrappate al volante co-me i domatori alle criniere dei cavalli selvatici nei rodeiamericani, tenendo su di giri il motore e sgasando co-me alla partenza a Indianapolis. E dopo aver afferrato ipargoletti per la collottola e averli gettati al sicuro neiposti dietro, erano ripartite di slancio, mettendosi ingara tra loro. Tutte le gentili signore indossavano lasahariana.

Parabola della saharianadall’epoca coloniale ai suvSTEFANO MALATESTA

COLOR AVORIOSi ispirano ai modelli in auge negli anniSettanta gli occhiali da sole di RogerVivier. Realizzati in acetato color avorio

CHIFFON DA SERASi abbinaal turbantein tintae ai sandalid’oro il vestitinoda seradi BlumarineIn chiffona stampa etnica

COWBOY ALL’EQUATORESembra uscito dal setde La mia Africa il cappelloda cowboy in paglia e cuoioNei negozi Marlboro classics

SAHARIANA A METÀPer metàuna classicasahariana,per metàun mini trench:è il nuovo modellodi giacca-safariultra chicfirmatoMarlboro classics

BIKINI ZEBRATOVersione safariperfino in spiaggiao bordo-piscinacon il bikinia stampa zebrafirmatoUnited colorsof Benetton

BORSA D’AUTOREL’artista giapponeseTakashi Murakamitorna a collaborarecon Louis Vuittonper una nuova stampa:MonogramouflageDa utilizzare per tuttii tipi di bagagliCome la borsa Keepall

ZAINO IN SPALLAIn partenza per un viaggioesotico? Non dimenticatelo zaino cilindrico di GiorgioArmani. In juta con profilidi cuoio stampa cocco

ESPLORATORI URBANIIdeali per una giornatadi safari urbano i sandaliGigi di Roger Viver. Suola doratae infradito di cuoio intrecciato

CAFTANO PIPISTRELLOStampa animaliersui toni del marroneper il micro-caftanoUnited colors of BenettonCon manichea pipistrelloe coulisse in vita

Repubblica Nazionale

l’incontroStorie di famiglia

ROMA

Fa caldo, ma Amos Oz è un uo-mo del deserto. È abituato al-l’aria che scotta. Però aria sec-ca, e Roma invece è umida co-

me una vaporiera. Oz, che non lo sa cheRoma è umida, si presenta all’appunta-mento vestito per l’appunto come un uo-mo del deserto, tutto coperto: giacca dilana, pantaloni indistruttibili e scarpecomode. Come se oggi si camminassemolto. Invece oggi si va in taxi. Un pome-riggio a Roma, in taxi. Da un capo all’altrodella città, per raggiungere una libreria diquartiere, fuori dal centro, dove Oz pre-senta il suo nuovo romanzo.

Amos Oz è professore, insegna lettera-tura all’Università Ben Gurion del Negevin Israele; ma oggi è venuto a incontrareun tipo diverso di studenti, i suoi lettori.Oz scrive per loro, e per se stesso. E perspiegare perché scrive cita una massimadel poeta inglese William Wordsworth:«Art is emotion recollected in tranquil-lity». L’arte è emozione ricordata nellatranquillità. E l’ha trovata questa tran-quillità, Mister Oz? «Non lo so, davveronon lo so», dice mentre sale sul taxi. I suoiromanzi sono molto amati in Italia, e tra-dotti in tutto il mondo. «Perfino in Alba-nia», dice Oz. Pare molto contento diquesta cosa dell’Albania.

Il taxi segue la marea delle macchine,dal finestrino si vede il Tevere e i plataniche lo abbracciano, l’Ara Pacis di Meier edietro quella cupola poggiata a terrachiamata Mausoleo di Augusto, che l’im-peratore aveva scelto come tomba per sédopo aver visto, ad Alessandria, la tombadi Alessandro Magno. Tonda, anche

quella. Oz la guarda dal finestrino, dice:«Ci andrò, grazie. Torno in settembre aRoma, per vacanza, e porto con me i mieinipoti».

Ora che si è accorto che dai finestrini sivede tanta Roma, Oz guarda tutto e quan-do vede i Fori dice al tassista: «Ma questotaxi è un vero viaggio». Il tassista non ri-sponde, un po’ perché sente parlare in-glese, un po’ perché capisce che non èaria di chiacchiere sul governo o sullestrisce blu. Ma Oz conosce la psicologiadel tassista, perché è la stessa in tutto ilmondo. E racconta allora dei tassistiisraeliani: «Ognuno si sente primo mini-stro», scherza. «Appena salgo, immedia-tamente, intraprendono grandi discus-sioni con me. Politiche ma anche lettera-rie. Perché in Israele i tassisti sono buonilettori. E allora mi dicono che quel perso-naggio avrebbe dovuto dire la certa cosa,e quell’altro non doveva fare quello cheha fatto, e mi propongono finali diversiper le mie storie. Sulla politica, invece,per lo più si infuriano. Mi sentono parla-re in tv, e mi dicono di tutto. Non hannonessun riguardo, né per la fama né perl’autorità. Sono molto egualitari i tassistiisraeliani».

Passiamo davanti al Colosseo, Oz tor-na a parlare del viaggio con i nipoti e diceche come prima cosa li porterà qui, glifarà vedere quel che resta del grande an-fiteatro. «E accanto al Colosseo l’Arco diTito: dirò loro che quell’arco è stato co-struito per celebrare la distruzione di Ge-rusalemme. E che oggi Gerusalemme èancora in piedi, milioni di persone parla-no l’ebraico e nessuno parla più il latino».Nelle sue parole questa cosa della distru-zione del Tempio pare un evento del no-stro tempo, non un fatto accaduto nel 70dopo Cristo. Ci viene da pensare che la di-struzione del Tempio di Gerusalemme,raffigurata proprio nei bassorilievi del-l’Arco di Tito, è ancora ricordata ogni an-no nella festa ebraica della Tisha B’av, ecosì non commentiamo.

Ma parliamo del suo cognome: Oz.Scelto a sedici anni, quando lascia la casadel padre Amos e va a vivere in un kib-butz, dove resterà trent’anni e dove sce-glie il cognome Oz e abbandona quello diKlausner. «All’epoca non avevo altrascelta che questo nome. “Oz” in ebraicosignifica due cose: forza e coraggio. E ave-vo bisogno di molti “oz”, per fare quelloche feci», ricorda stringendo gli occhi co-sì forte che quasi li chiude. Quello che fe-ce — lasciare la casa del padre e comin-ciare il suo viaggio dall’amore al dolore,andata e ritorno — Amos Oz lo raccontanelle seicentoventisette pagine di Unastoria di amore e di tenebra, il suo libro piùamato. Una biografia del sogno della na-scita dello stato di Israele, e una biografiadella sua famiglia: colta, complicata, e fe-rita da un incancellabile dolore: il suicidodi sua madre Fania, quando Amos ha tre-dici anni.

televisione. E se vedo un politico che nondice nulla, perché non dicono mai nulla,io penso: le pietre del deserto ridono ditutto questo». Nell’immenso deserto,però, oltre alle pietre c’è la luce. «È una lu-ce gentile», ricorda Oz, sempre con gli oc-chi lontani. «È una luce piena di colori,che somiglia a una musica».

Oggi quarantacinque minuti sono in-vece la distanza tra il Colosseo e la libre-ria di periferia, e lo scrittore a un certopunto sembra avere fretta di arrivare.Mentre il tassista parcheggia davanti allalibreria, Oz fa una domanda che rivelache tipo di fretta sia la sua: «Che genere dipersone viene in una libreria così lonta-na, alle sei di sera di un lunedì d’estate?».Così capiamo che a questi lettori Oz tienemoltissimo. Li descrive anche nella pri-ma pagina del suo nuovo romanzo, La vi-ta fa rima con la morte. Una pagina di so-le domande: tutte quelle che gli fanno igiornalisti, i critici, i lettori: «Ti interessainfluenzare i tuoi lettori?». «Cosa si provaa essere uno scrittore di successo?». «Scri-vi a penna o su una tastiera?». «Ti consi-deri uno scrittore militante e, se sì, mili-tante su che fronte?». Il brano si chiudecon la domanda più ricorrente che unoscrittore come Oz si sente ripetere, e chelui ironicamente riporta così: «Vuoi spie-garci per favore, in breve e con parole tue,che cosa esattamente volevi dire nel tuoultimo romanzo?».

Per spiegarlo, ancora una volta, conparole sue, Amos Oz ha preso un taxi daArad a Gerusalemme, un aereo da Geru-salemme a Roma, e ora scende dal taxi ro-mano ed entra nella libreria trotterellan-do, come camminasse su una sabbia chescotta. Tutto per incontrare questi suoilettori e le loro assurde domande. La pri-ma è una ragazza di nome Alice, che gli haportato in dono dei peperoncini dalla Ca-labria, e lo aspetta in piedi, vicino allaporta. Quando lui la ringrazia e mette ilbarattolo in borsa, la ragazza si rendeconto che i suoi peperoncini sott’olionon passeranno il check-in israelianoma quello che è venuta a chiedergli glie-lo chiede lo stesso: «Io non ho capito unacosa del suo libro. Quando lei scrive chebisogna levigare il dolore. E gettare più diun’ombra soltanto. È un’espressionedella sua lingua, questa dell’ombra?»,chiede la ragazza dei peperoncini. Oz di-ce di no: «L’ho inventata io. Vuol dire da-re più di un significato alle cose».

La ragazza Alice si siede e la presenta-zione comincia. Oz legge un brano delsuo ultimo romanzo, nella sua lingua,davanti al suo popolo sparso per il mon-do. Quando parla nella sua lingua, AmosOz sembra un fiume pietroso, dove qual-che volta l’acqua canta e qualche voltasbatte. Quando la presentazione è finita,e i relatori hanno parlato, e Oz ha dettoquello che aveva da dire sul suo nuovo ro-manzo «scritto con un sorriso triste»,chiosa, allora viene il tempo di ascoltare

Di questa ferita Oz non aveva mai par-lato né col padre, né con la moglie, né coni figli, prima di metterlo per iscritto, a ses-santatré anni, in un libro letto da milionidi persone. Ci vuole la giusta distanza,con le parole amore e dolore. Oz l’ha tro-vata ora la giusta distanza: la tranquillitànon lo sa. Ci parla di come la cerca ognigiorno, questa distanza, e di quello chevede dalla finestra della sua casa ad Arad:«Vivo ai bordi della città, proprio dove co-mincia il deserto. La mattina, appenasveglio, apro la finestra e guardo fuori. Sivede un piccolo giardino di pietre, un ci-presso. Allora mi faccio il caffè, e verso lecinque e mezza mi incammino nel de-serto. Ogni giorno cammino quaranta-cinque minuti ad andare e quarantacin-que a tornare. Quando torno accendo la

quello che i suoi lettori sono venuti a direa lui, di persona.

Cominciano le domande. Una signoracon un ventaglio ne fa una lunghissima,sul rapporto tra scrittura e solitudine, chenessuno in sala capisce, tranne Oz. E luidecide di rispondere da uomo, non dascrittore: «Nel mio caso è un’abitudine,ce l’ho fin da bambino, ma oggi ho impa-rato a confrontarla con quella altrui. Lasolitudine è l’unica sostanza dell’univer-so che, quando si moltiplica, in realtà di-minuisce». E, sempre parlando di solitu-dine, risponde a un’altra domanda e di-ce: «L’arte dell’incontro si impara dabambini, ma non smettiamo mai di im-parare. Io, ora che ho quasi settant’anni,ho imparato a guardare le persone conironia e compassione. E quando le guar-do, anche nel politico della tv, io vedo ilbambino che c’è in fondo. L’arte di avvi-cinarsi agli altri è l’arte più grande dellavita».

Si fa un grande silenzio nel pubblicocome se ognuno stesse pensando agli al-tri “suoi”. Fino a quando un bambinoscende dalla seggiola, alza il dito per direuna cosa e dice questo: «Io ho letto la suafiaba D’un tratto nel folto del bosco, quel-la che parla del villaggio dove sono scom-parsi gli animali. Volevo dirle che legger-la mi ha aiutato ad avvicinarmi ai mieicompagni di classe. Prima avevo paura».E si siede, con i suoi occhialini esagonalie tutto il coraggio dei suoi undici anni. Ozrisponde: «Di tutte le cose che ho sentitooggi questa è quella che davvero tocca ilmio cuore». Quando si alza sembra unapianta che è stata appena innaffiata. Do-po aver firmato ogni copia con la parola«shalom», l’impenetrabile Oz sorride, vavia salutando tutti con la mano e fa “ciao-ciao” mentre sale sul suo taxi.

Ogni giorno all’albaesco da casae mi incamminonel desertoC’è una luce gentile,una lucepiena di coloriche somigliaa una musica

Il suicidio della madre, l’abbandonodella casa del padre, il nome cancellatoper sceglierne uno che in ebraicovuol dire “forza”. È stato un lungoviaggio - andata e ritorno dall’amore

al dolore - quellodello scrittore israelianoChe in un pomeriggiod’estate incontrai lettori in una libreriadella periferia romanae affronta il temadella solitudine,

“la sola sostanza che, quandosi moltiplica, in realtà diminuisce”Perché “nella vita l’arte più grandeè quella di avvicinarsi agli altri”

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Amos Oz

Repubblica Nazionale