omenica CORRADO AUGIAS eFILIPPO CECCARELLI DOMENICA...

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DOMENICA 28 SETTEMBRE 2008 D omenica La di Repubblica spettacoli Tutti i nemici del “Padrino” ANTONIO MONDA i sapori Caffè espresso, il piacere vissuto di corsa LICIA GRANELLO e MARINO NIOLA la società Vite straordinarie di ciechi di successo GIUSEPPE DE RITA e MICHELE SMARGIASSI il fatto I nostalgici del Papa Re CORRADO AUGIAS e FILIPPO CECCARELLI OSLO I l mondo salvato dai ragazzini: un centinaio di intrepidi ragazzi- ni musicisti che suonano con energia fantastica. Vedere e ascol- tare per credere: ogni concerto, per i musicisti arabi e israeliani della West-Eastern Divan Orchestra, pare questione di vita o di morte. Come se in quel fare musica si concentrasse tutto, aspirazioni, desideri, ansia di catturare il tempo; guardare oltre la quotidianità mi- nacciata da rabbia e paure nel luogo più esplosivo e lacerato della Ter- ra; proiettarsi in una fertile convivenza con l’“altro”, il nemico, assor- bito in quel modello di rapporti improntati all’armonia e al rispetto che è un’orchestra; sentire che parole come pace e libertà, sfuggenti o svi- lite dall’abuso di retorica, potrebbero acquisire concretezza. «Ero piccolissimo quando mio fratello e mio padre sono stati uccisi dai soldati israeliani, e per anni ho pensato solo a vendicarmi», spiega in una pausa delle prove a Oslo, una tra le tappe dell’annuale tour del- l’orchestra, Ramzi Aburedwan, palestinese dallo sguardo di brace, na- to a Betlemme e cresciuto a Ramallah, nei Territori occupati, dove ha passato un’infanzia intrisa d’odio e soffocata dai muri. (segue nelle pagine successive) LEONETTA BENTIVOGLIO M i piace considerare i giovani dell’orchestra West- Eastern Divan, che ho fondato nel 1999 insieme al mio amico palestinese Edward Said, come i pionieri di un nuovo modo di pensare il Medio Oriente. La formano musicisti israeliani e pale- stinesi, e anche arabi provenienti da Paesi come Siria, Egitto, Giordania e Libano, oltre a iraniani e a turchi. Said e io sia- mo sempre stati d’accordo sul fatto che il conflitto tra israeliani e pale- stinesi non è politico, bensì umano. Entrambi i popoli sono convinti di avere un preciso diritto di vivere nello stesso territorio. Israeliani e palestinesi sono legati in modo indissolubile: dipendono gli uni dagli altri. Entrambi sono semiti e tante caratteristiche li accomu- nano, come la tendenza a rievocare il passato, di cui parlano per ore ogni volta che siedono per negoziare. La Repubblica indipendente e sovrana del West-Eastern Divan crede che qualsiasi progresso esiga che le parti si parlino e ascoltino a vicenda. Succede spesso, durante i nostri workshop, che i cittadini del Divan ascoltino per la prima volta il dolore degli altri, ed è uno shock che li porta a riflettere su sofferenze che durano da troppi an- ni. Per questo, partecipando al progetto dell’orchestra, ogni membro di- mostra una dose straordinaria di coraggio e visione ideale. DANIEL BARENBOIM cultura Wojtyla e il Generale JOAQUÍN NAVARRO-VALLS e ANDREA TARQUINI Il miracolo di Barenboim: centoventi ebrei e arabi che fanno musica insieme Repubblica Nazionale

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DOMENICA 28 SETTEMBRE 2008

DomenicaLa

di Repubblica

spettacoli

Tutti i nemici del “Padrino”ANTONIO MONDA

i sapori

Caffè espresso, il piacere vissuto di corsaLICIA GRANELLO e MARINO NIOLA

la società

Vite straordinarie di ciechi di successoGIUSEPPE DE RITA e MICHELE SMARGIASSI

il fatto

I nostalgici del Papa ReCORRADO AUGIAS e FILIPPO CECCARELLI

OSLO

Il mondo salvato dai ragazzini: un centinaio di intrepidi ragazzi-ni musicisti che suonano con energia fantastica. Vedere e ascol-tare per credere: ogni concerto, per i musicisti arabi e israelianidella West-Eastern Divan Orchestra, pare questione di vita o di

morte. Come se in quel fare musica si concentrasse tutto, aspirazioni,desideri, ansia di catturare il tempo; guardare oltre la quotidianità mi-nacciata da rabbia e paure nel luogo più esplosivo e lacerato della Ter-ra; proiettarsi in una fertile convivenza con l’“altro”, il nemico, assor-bito in quel modello di rapporti improntati all’armonia e al rispetto cheè un’orchestra; sentire che parole come pace e libertà, sfuggenti o svi-lite dall’abuso di retorica, potrebbero acquisire concretezza.

«Ero piccolissimo quando mio fratello e mio padre sono stati uccisidai soldati israeliani, e per anni ho pensato solo a vendicarmi», spiegain una pausa delle prove a Oslo, una tra le tappe dell’annuale tour del-l’orchestra, Ramzi Aburedwan, palestinese dallo sguardo di brace, na-to a Betlemme e cresciuto a Ramallah, nei Territori occupati, dove hapassato un’infanzia intrisa d’odio e soffocata dai muri.

(segue nelle pagine successive)

LEONETTA BENTIVOGLIO

Mi piace considerare i giovani dell’orchestra West-Eastern Divan, che ho fondato nel 1999 insiemeal mio amico palestinese Edward Said, come ipionieri di un nuovo modo di pensare il MedioOriente. La formano musicisti israeliani e pale-stinesi, e anche arabi provenienti da Paesi come

Siria, Egitto, Giordania e Libano, oltre a iraniani e a turchi. Said e io sia-mo sempre stati d’accordo sul fatto che il conflitto tra israeliani e pale-stinesi non è politico, bensì umano. Entrambi i popoli sono convinti diavere un preciso diritto di vivere nello stesso territorio.

Israeliani e palestinesi sono legati in modo indissolubile: dipendonogli uni dagli altri. Entrambi sono semiti e tante caratteristiche li accomu-nano, come la tendenza a rievocare il passato, di cui parlano per ore ognivolta che siedono per negoziare. La Repubblica indipendente e sovranadel West-Eastern Divan crede che qualsiasi progresso esiga che le parti siparlino e ascoltino a vicenda. Succede spesso, durante i nostri workshop,che i cittadini del Divan ascoltino per la prima volta il dolore degli altri, edè uno shock che li porta a riflettere su sofferenze che durano da troppi an-ni. Per questo, partecipando al progetto dell’orchestra, ogni membro di-mostra una dose straordinaria di coraggio e visione ideale.

DANIEL BARENBOIM cultura

Wojtyla e il GeneraleJOAQUÍN NAVARRO-VALLS e ANDREA TARQUINI

Il miracolo di Barenboim:

centoventi ebrei e arabiche fanno musica insieme

Repubblica Nazionale

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la copertinaAccordi di pace

Centoventi giovani e giovanissimi strumentisti venuti da Israele,

dai Territori occupati, dal Libano, dalla Siria, dall’Iran

Una tournée all’anno. Un travolgente successo di pubblico

Discussioni feroci, ma anche grandi amicizie: stare in orchestrainsieme, dice il fondatore Daniel Barenboim, “ti cambia la vita”

32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28 SETTEMBRE 2008

(segue dalla copertina)

Un giorno Ramzi entrò in contatto congli strumenti occidentali ad arco e scel-se la viola: «Mi aiutò a placare la dispe-razione e a scavalcare i muri che mi op-primevano di più, quelli che avevodentro». Suonava molte ore al giorno,

divenne sempre più bravo. Finché giunse un gruppodi musica da camera americano e Ramzi prese lezionidal violinista dell’ensemble, conquistando una borsadi studio per gli Stati Uniti. Andò anche in Francia, etornato a Ramallah vi fondò una scuola di musica perbambini: «L’ho chiamata “Al Kamandjati”, che in ara-bo vuol dire “il violinista” e che oggi è un progetto di-dattico diffuso in tutta la Palestina, con centinaia di al-lievi che studiano gratis. Per imparare ad ascoltare e acomunicare».

Ramzi considera irrinunciabile il suo lavoro nellaWest-Eastern Divan, comunità senza confronti, «per-ché vi esiste finalmente un canale di dialogo con gliisraeliani. Nelle riunioni che si alternano alle prove par-liamo come individui, indipendentemente dalle nostreorigini: diritti, priorità, princìpi, valori etici». Raccontache a Ramallah «c’è chi si oppone all’orchestra. Quan-do, dopo molte difficoltà, nell’agosto 2005 riuscimmo aportarvi un concerto — evento sconvolgente per unaparte degli orchestrali, e per loro fu durissimo risolver-si a partire — le reazioni del pubblico palestinese furo-no divise. Qualcuno disse che quel concerto rischiavadi rappresentare una normalizzazione della situazionedi fatto, in pratica un accettare l’occupazione. Altricompresero l’importanza del nostro scambio creativo.E oggi sono tanti coloro che approvano questo nostrolavoro, che mi ha fatto entrare in contatto con ebrei co-me Guy, persona straordinaria e grande amico».

Guy è l’israeliano Guy Braunstein, irruente gigantebiondo e “anziano” della Divan: ha 37 anni. Lavora co-me spalla dei Berliner Philharmoniker, come dire laFerrari delle orchestre; ma l’estate salta le vacanze perunirsi alla Divan, dove suona seduto accanto a un bam-bino prodigioso, Yamen Saadi, dieci anni: «Qui gliaspetti umani e la sostanza dei rapporti vanno ben ol-tre l’esito professionale, facendomi percepire quest’e-sperienza come fondamentale. Detto questo l’orche-stra è eccezionale: in pochi anni ha raggiunto un livelloaltissimo. Oggi è tra le migliori al mondo».

A Oslo gli spettatori sembrano condividere la valuta-zione. Tutti, a fine concerto, s’alzano in piedi tributan-do applausi frenetici al direttore Daniel Barenboim e al-l’orchestra, e in platea c’è anche l’intera commissioneche attribuisce il Nobel per la Pace. Trascinante il pro-gramma, col Concerto di Mozart per tre pianoforti KV242 (suonato da Barenboim che dirige da una delle tretastiere, e affidato, per quanto riguarda gli altri due so-listi, all’arabo Karim Said e all’israeliana Yael Kareth) e

col primo atto della Valchiriawagneriana. Barenboim,ovviamente, sa bene ciò che Wagner rappresentò per inazisti, che ne fecero la colonna sonora dei lager; ma èpronto a difendere una musica sublime di per sé, fuorida strumentalizzazioni ideologiche: «Wagner è unmondo imprescindibile in musica». Di questo il cari-smatico maestro ha convinto i suoi ragazzi. Confessa ilviolinista israeliano Asaf Maoz della Divan: «Sonoebreo, e a volte penso che per me suonare Wagner siaun mostruoso paradosso. D’altra parte solo se sarà ese-guito anche dagli israeliani i suoi capolavori torneran-no ad essere apprezzati al di là dell’orrenda macchia diantisemitismo che vi è sovrapposta».

«Oggi la Divan è un mito in Europa», dice stremato eorgoglioso dopo il concerto, nel camerino del Teatrodell’Opera di Oslo, l’artefice e guida dell’orchestra Da-niel Barenboim. «È una realtà che ha cambiato la vita ditutti quelli che vi sono passati e una dimensione esi-stenziale irripetibile». Nato nel 1942 a Buenos Aires dagenitori ebrei russi e cresciuto in Israele, ha dato all’en-semble il nome di una raccolta di poesie di Goethe, Di-vano occidentale-orientale, versi focalizzati sull’idead’incontro con l’“altro”: «Goethe fu tra i primi europeia interessarsi a culture diverse». Sviluppò il progettodell’orchestra una decina d’anni fa con il palestineseEdward Said, morto nel 2003. Saggista, teorico della let-teratura e attivista politico, Said fu un appassionato ani-matore delle discussioni tra arabi e israeliani che fin dal-l’inizio dell’avventura hanno caratterizzato la vita delcomplesso. I workshop, scanditi da musica e conversa-zioni, si svolgono a Pilas, in un ex monastero vicino a Si-viglia dove i ragazzi si riuniscono ogni anno in luglio peraffrontare con Barenboim due serrate settimane di pro-ve prima del tour estivo. Qui ha sede l’orchestra, gestitadalla Fondazione Barenboim-Said che s’occupa tral’altro del reperimento dei fondi. Che arrivano, oltre chedai concerti, dalle sovvenzioni dell’Andalusia, «patriaideale in quanto luogo dove per sette secoli hanno con-vissuto in pace ebrei e musulmani», segnala Baren-boim. I componenti della formazione si sono fatti sem-

pre più numerosi negli anni: «A ogni stagione se ne ag-giungono di nuovi, reclutati in Medio Oriente da duemusicisti della Staatskapelle di Berlino», spiega l’orga-nizzatore dell’orchestra Tabaré Perlas. «Siamo arrivatia 120 elementi, per metà ragazzi e studenti e per metàgiovani professionisti».

Marian Said, vedova dello scrittore e attiva nellaFondazione, si adopera per invitare studiosi che par-lino ai musicisti del problema di Israele «da entrambii punti di vista», dice la signora, la quale pare animatada un luminoso ottimismo: «Mio marito era convintoche alla fine, in Israele, tutto si sarebbe risolto in unaconvivenza più o meno pacifica. Sarà un processo dianni, ma l’accettazione reciproca è inevitabile. Biso-gna pur cominciare da qualche parte, e la musica è unottimo punto di partenza. Edward era un grande uma-nista: la scuola, affermava, insegna a ragionare, ma lamusica apre i sentimenti. Con le due cose messe in-sieme si ottengono equilibrio, consapevolezza e ca-pacità di assumersi rischi».

Oggi i musicisti della Divan provengono non solo daIsraele e Palestina, ma anche da Siria, Libano, Giorda-nia, Iran, Turchia e Spagna, ammessa in quanto Paeseospitante. Un’iraniana prega che nell’articolo noncompaia il suo nome: «Vivo a Teheran, sono musicistae questo progetto è la mia vita. Ma il mio governo non sache sono qui. Se si fosse saputo che andavo a suonarecon gli israeliani mi avrebbero vietato di partire». Il li-banese Nassib Ahmadih, violoncellista che ha parteci-pato a tutti i raduni della Divan, spiega che ai gruppi didiscussione non sono ammessi visitatori esterni: «Sonomomenti per noi soli, dove possiamo azzuffarci». Risal-tano palestinesi di vellutata bellezza bruna, poco piùche adolescenti, con occhi foschi che inquietano. È om-brosa, per esempio, Tyme Khleifi, splendida palestine-se diciottenne che sfida la cronista: «Perché mi chiediche significa suonare col nemico? Sposta la domanda.Domandami come mi sento quando c’è un musicistacome Barenboim che arriva ad aprirmi la mente. Qui,musicalmente, siamo diversi come livello di prepara-

zione, e ogni estate, in Spagna, abbiamo due settimanedi prove per amalgamarci in un corpo solo. È un lavorofrenetico e meraviglioso, non ci sono parole per descri-verlo, solo la musica può darne conto».

«Ho fondato due anni fa un Conservatorio di musicaa Nazareth sovvenzionato dalla Fondazione Baren-boim-Said», riferisce Nabil Abbud Ashkar, 29 anni, «e irisultati sono stati velocissimi. I tre musicisti più giova-ni della Divan — dieci, dodici e quindici anni — arriva-no proprio dalla mia scuola, dove per molti ragazzi lamusica non è studio o hobby, ma ciò che dà significatoalla vita. I palestinesi soffrono per mancanza di vita cul-turale, e la musica classica può spalancare porte versoil mondo». Nabil è nato a Nazareth, e la sua famiglia nonvolle lasciare la città quando nel 1948 divenne parte del-lo Stato d’Israele, scatenando quel che gli arabi chia-mano nakbah, la catastrofe. Non ama parlare del dram-

Suonare con il nemicouna speranza in musica

LEONETTA BENTIVOGLIO

BAKR E TALIABakr Khleifly, 17 anni,

palestinesee Talia Schwarzwald,

28 anni, israeliana

NABILNabil Abbud Ashkar,29 anni, palestinese

Ha una sua scuoladi musica a Nazareth

NASSIBNassib Ahmadih,30 anni, libanese

Suona il violoncello

LE FOTOQui sopra, il maestro Daniel Barenboim

Nella foto grande a destra,un concerto della West-Eastern Divan Orchestra

Nelle altre foto, alcuni strumentistidell’ensemble durante le prove

Le foto in queste paginesono di Manuel Perez

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 28 SETTEMBRE 2008

ma della sua terra: «La realtà è schiacciante, che fare?Siamo solo musicisti. Come tali mandiamo un messag-gio, e cioè che ci si può sedere l’uno accanto all’altro aparlare, lavorare e creare insieme. Niente più di que-sto».

Dice l’israeliano Daniel Cohen, da sei anni nella Di-van: «Qui ho grandi amici, ma molti non posso più in-contrarli nel resto dell’anno. Per questo tornare ogniestate è un privilegio. Prima di unirmi a quest’orchestranon avevo mai conosciuto qualcuno che vive oltre ilconfine israeliano. Il mio modo di pensare il conflittoprendeva in considerazione solo una parte. Ora mettoalla prova di continuo le mie opinioni con le storie deglialtri. Perché qui si parla e si ascolta nello stesso tempo,come nel suonare: la musica dà e prende; si esprime ereagisce; esiste anche in quanto riceve il suono altrui.Questo vuol dire stare in orchestra». «A volte quando si

discute scattano i contrasti», incalza il diciassettennepalestinese Baki Khleifi, contrabbassista. «Preferisco digran lunga suonare. È il solo modo per accettare l’altro.Le parole sono acide, crudeli: portano tensioni».

Non solo i palestinesi s’infiammano durante le di-scussioni che a Pilas, e nelle città toccate dai tour, s’af-fiancano al lavoro musicale: a tutti, quando si parla diIsraele, capita di litigare, e c’è chi sta talmente male ches’alza e se ne va. Eppure quando fanno musica vincecompatta la potenza del linguaggio comune. Cennid’intesa viaggiano tra le fila degli archi e più indietro, trafiati e percussioni; e alla fine s’intrecciano gli abbracci.Miracolo di un organismo che esulta dell’intelligenzadel suono e della conquista di un sentimento unifican-te. Condivisione musicale che investe il pubblico conforza inaudita, e che è il riflesso commovente di un mo-do umanitario, e non politico, di guardare alla tragediadel conflitto. Un piccolo episodio dice molto: narra Ba-renboim, eccelso pianista, che alla fine di un suo con-certo al pianoforte a Ramallah, brani di Chopin stillatidal suo tocco magnetico e inventivo, una bambina pa-lestinese gli si avvicinò per dirgli: «Sei la prima cosa chearriva da Israele che non sia un soldato o un carro ar-mato. Per questo sono felice che tu sia qui».

“La viola mi aiuta

a placare la disperazione

e a scavalcare i muri”

“Vivo a Teheran,

ma il mio governo

non sa che sono qui”

FERASFeras Machour, 12 anni,è di nazionalitàisraeliano-palestinese

GUY E YAMENGuy Braunstein (a sinistra), 37 anni,è il più vecchio dell’orchestra;Yamen Saadi, 10 anni,è di nazionalità israeliano-palestinese

DANIELDaniel Cohen,24 anni, israeliano;vive tra Berlino e Tel AvivViolinista e direttored’orchestra, a Londraha un suo gruppo,la Eden Symphony

TYMETyme Khleifi,18 anni, palestineseLa sua famigliavive a Ramallah,mentre lei, da un anno,è andata a studiarea New York

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il fattoNostalgie

34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28 SETTEMBRE 2008

La Città Eterna è percorsa da brividi di restaurazione

L’incidente del 20 settembre, quando in presenza

del sindaco Alemanno sono stati commemorati

i soldati pontifici caduti a Porta Pia, non è un fatto isolato

Tutto un mondo di gruppuscoli clericali e antirisorgimentaliè in agitazione. Il messaggio corre anche su Internet...

«Roma è cristiana», e va bene. «Ro-ma è sacra» si leggeva, già più im-pegnativamente, sugli striscionidel Centro Lepanto sceso in pro-cessione riparatoria contro ilGay Pride. «Roma Caput Mun-

di» campeggia sugli stendardi di un’organizzazione,sempre dell’estrema cattolica, che all’Esquilino si bat-te contro l’«invasione» cinese. «Roma non perit», cioènon muore, come scolpisce in latino agostiniano ilgruppo tradizionalista Trifoglio, già noto per una seriedi dieci manifesti, uno per ogni comandamento, colo-ratissima rassegna di ripristinato fondamentalismosui muri della capitale.

E tutto questo si potrebbe liquidare come folklore oanacronistico fanatismo — magari sbagliando pure,perché in questo tempo è proprio l’eccesso che tendead affermarsi catturando l’attenzione. Ma poi: quandoil sindaco Alemanno, per nulla pentito dell’incidentedi Porta Pia, come unico suo commento butta lì che «ilVaticano è il cuore di Roma, e guardando la storia tut-to — (tutto?!) — ruota attorno a questa presenza», beh,un po’ viene anche da chiedersi se la commemorazio-ne dei caduti dell’esercito pontificio il 20 settembrenon sia stata il primo esperimento tecnico di Restaura-zione capitolina. E se pure non lo è stato, già bastano lagaffe, la pecionata o il malinteso ad aggiornare la visio-ne di quell’antica, singolare e rinomata entità (indivi-dui, gruppi, credenze e rappresentazioni) che mai co-me oggi, dopo parecchi decenni, si è legittimati a desi-gnare «Roma nera»: nella sua doppia accezione di tro-no e di altare, di Roma clericale, anti-risorgimentale epost-fascista.

Ora, è vero che storicamente,come ha sintetizzato lo studiosoAlberto Melloni, «quasi tutte ledestre a corto di idee indossanoi paramenti». E in effetti, oltreche nelle riabilitazioni degli zua-vi (per i quali il gruppo di MilitiaChristi ha richiesto l’immanca-bile lapide), la nuova temperiepost-papalina pare cogliersi inun dispiego di sfarzo mediaticoche all’insegna della liturgia edel suo evocatissimo mistero,esibisce sacri ornamenti, ad-dobbi lussuosi, canti gregoriani,come pure stemmi di battaglia enobiliari, simboli, aquile, spade.

Rialzano il capo gli ordini ca-vallereschi, con i loro mantelli ecostumi da cerimonia. Rinascela messa esclusiva, preannun-ciata con elegante cartoncinod’invito. Entra nel lessico giorna-listico la categoria «catto-chic».L’impressione è che piano pia-no, colto il vento, tutto un mon-do finora un po’ cupo, residualee museale, intraveda di colpo lapossibilità di scrollarsi di dossopolvere e muffa. E dunque: nonpiù solo funzioni in suffragio deicaduti con la bandiera pontificiabucata dalle pallottole dei bersa-glieri di Lamarmora sotto l’altaredi San Lorenzo in Lucina. Il Con-cilio è ormai lontano e così, insie-me alla recita del rosario e delledevozioni in latino, paiono rie-mergere dalle catacombe più omeno confessabili tentazioniteocratiche e indistinti indizi dineo-temporalismo.

Liberalizzato con il motu pro-prio l’antico rito romano, gli exseguaci di Lefebvre si insedianostabilmente nella chiesa dellaTrinità dei Pellegrini. Da oltreun anno il Centro Lepanto harapporti oltreoceano, negli Usa;il suo fondatore e ideologo, ilprofessor Roberto de Mattei, già sfortunato consiglie-re di un Fini sull’orlo del laicismo, è assiduo collabo-ratore dell’Osservatore Romano. Il gruppo di Alleanzacattolica, da cui proviene il sottosegretario all’InternoAlfredo Mantovano (An), scopre la funzione delmarketing reclamizzandosi sul Tempo«l’impegno peril pensiero forte».

Sono ambienti non di rado contigui a quello di Ale-manno. Altri lo sono di meno, in ogni caso brulica di mi-cro-iniziative l’underground reazionario-confessio-nale, nelle sue varie gradazioni. Veglie, esercizi spiri-tuali, corsi per predicatori. Nella basilica di San Camil-lo organizzano «guardie d’onore» al Sacro Cuore, ogni

turno eseguito da una «falange»; mentre nella chiesa diSan Benedetto in Piscinula, a Trastevere, gli «Araldi delVangelo» indossano uniformi che ricordano quelle deicrociati, stivaloni compresi.

A cinquant’anni dalla morte di Pio XII, per favorirnela canonizzazione, si è formato il «Comitato Papa Pa-celli»; tra i primi sostenitori, in ordine alfabetico, com-paiono Giano Accame, Rosa Alberoni, Magdi CristianoAllam, Giulio Andreotti. C’è anche il sito su Internet. Aquesto proposito, come documentato a suo tempo daNicla Buonasorte nel suo prezioso Tra Roma e Lefeb-vre. Il tradizionalismo cattolico italiano e il Concilio Va-ticano II (Studium, 2003), è sintomatico e insieme pa-radossale l’ardore con cui i più accaniti nemici dellamodernità si sono adeguati alla tecnologia. Ecco dun-que litanie, salmodie e novene on line. Ecco l’mp3 del-l’inno pontificio di Gounod: «Roma immortale, di mar-tiri e di santi,/Roma immortale, accogli i nostri canti».O il revival dell’intransigentismo canzonettistico fineOttocento: «Odiam la lurida pornografia/e la satanicafilosofia/che fa gli uomini pari ai maiali/Siam clericali,siam clericali!» (www. centrostudifederici. org).

Lascia interdetti l’hard discount del cristianismo.Vecchie stampe di uniformi papaline; gallerie fotogra-fiche di «corpi incorrotti» di santi (www. tradizione.biz);animazioni musicate tipo videogame del celebre di-pinto del Veronese sulla battaglia di Lepanto (www.le-pantofoundation.org); presentazione di video terrifi-canti contro occulte massonerie, perfidi giudaismi, po-teri forti, preti modernizzanti che fanno il karaoke con ifedeli e altre diavolerie progressiste prodotti assem-blando alla buona spezzoni di film in costume al suonodei Carmina Burana(www.salpan.org). Un immagina-rio infiammato di diavolacci, segreti, catastrofi — dal-l’Aids al tifone di New Orleans passando per il crollo del-

la basilica di Assisi — offerto in chiave di castigo di Dio.Che tutto questo sia ultraminoritario, oltre che scon-

tatamente apocalittico, drasticamente maschile, rigi-damente sessuofobico e non di rado pericolosamentexenofobo e razzista, è un fatto che non stupisce perchéin fondo quel filone è sempre stato così. Una consola-zione, semmai, è che oltre che minuscoli, i gruppettidell’universo ultraconservatore sono a tal punto risso-si che di continuo si scambiano accuse di eresia, gno-sticismo, nichilismo o intelligenza con il nemico.

E tuttavia la novità è che la rappresentazione di Ro-ma nera oltrepassa oggi i confini dell’eccentricità perestendersi e riconoscersi in un’estetica, in un gusto, inuna serie di occasioni assai più accettabili degli incubisanfedisti. E allora pare di coglierla, questa Roma, nel-le messe celebrate negli studi del Tg5; o ai cocktail perle presentazioni delle sacre fiction della Lux Vide ber-nabeiana; nelle aste di beneficenza con i vip; nei con-vegni sulla famiglia aperti dalla recita del Pater Nostere animati dai personaggi della tv. Fino alla moda di do-nare agli ecclesiastici capi d’abbigliamento, crocifissid’oro o tempestati di gemme, così come di sfoggiarequelle sontuosissime crocette che l’obiettivo di Um-berto Pizzi, nei «Cafonal» su Dagospia, immortala —«balconata mistica» — nelle scollature delle signoredell’aristocrazia «teo-glamour».

Perché poi Roma resta Roma: e tutto tritura, tuttisbeffeggia, tutto e tutti riesce a dissacrare, anche i no-bili della Città Eterna prima ancora che chiudessero iloro palazzi in segno di lutto all’indomani dell’invasio-ne piemontese nel 1870. I nobili: a tale «illustrissima ca-naja», «spedalone de bastardi», «cavajer del cazzo»,«cani da macello» al servizio del pontefice, GiuseppeGioachino Belli ha dedicato sonetti spaventosi. Lostesso Pasolini, qualche secolo dopo, li sistemò con un

fulminante epigramma: «Non sietemai esistiti, vecchi pecoroni papali-ni:/ ora un po’ esistete perché un po’esiste Pasolini».

Acqua passata, sotto i ponti delTevere. È pur vero che la figura più ri-marchevole di quel mondo, ElvinaPallavicini, imperiosa e imprevedi-bile sulla sua sedia a rotelle, se n’è an-data ormai da tempo. I nobili che re-stano, il principe Ruspoli Zapata,che si presenta invano a tutte le ele-zioni, o la principessa Borghese, cheper l’amicizia con il giro stretto dellaSanta Sede Roberto D’Agostino haribattezzato «l’Intima di Carinzia edi Baviera», ma poi si è lasciata con-quistare dall’Udc di Pierfurby Casi-ni, funzionano appena nei talk-show. E pur con tutto il rispetto e lasimpatia, a fatica, insieme con gli al-tri epigoni dei Colonna, Massimo,Orsini, Torlonia, Chigi, Boncompa-gni, potrebbero rientrare negli sche-mi entro cui un autentico maestrodel pensiero controrivoluzionariocome Plinio Correa de Oliveira licomprese nel saggio Nobiltà ed elitestradizionali analoghe nelle allocu-zioni di Pio XII al patriziato ed allanobiltà romana (Marzorati, 1992).

Così è altrove che occorre guar-dare per cogliere il senso di unapossibile restaurazione del poteree dell’assolutismo temporale allaluce del nuovo secolo e del pontifi-cato di Benedetto XVI. Per il mo-mento il Papa Re rimane nel titolodi un film di Gigi Magni, o nelle in-segne di un ristorantino sulla Lun-garetta. Però, a farci caso, aumentadi giorno in giorno il numero diquelli che come ha fatto notare suMicroMega un’osservatrice di altraspiritualità come Mariella Grama-glia, comunque appaiono ben di-sposti ad «attaccarsi alla mantellabianca». Vedi il futuro ministroBondi all’Angelusdi piazza San Pie-tro, con un’immaginetta in mano;

vedi il senatore Ciarrapico che rievoca i decreti delSant’Uffizio; o l’onorevole Renato Farina che dopo leelezioni sostiene l’esistenza di un «fattore P», comePapa: «Chi ha provato a morderlo si è perduto nellanebbia del Niente».

Un’umanità composita e apparentemente incon-ciliabile che da Gianni Letta, baciato dalla nomina aGentiluomo di Sua Santità, arriva a Borghezio, pre-sente fra i neonazisti di Colonia con quella che luistesso ha definito «l’ala ratzingeriana della Lega».Tutto, insomma, e il contrario di tutto, come capitasempre più spesso nella Città Eterna in questo tem-po di ritorni in avanti e di futuro remoto.

FILIPPO CECCARELLI

L’eterno ritorno del Papa Re

IERI

LA “DONAZIONE”

Per secoli il poteretemporale della Chiesafu legittimatoda un falso storico:la donazione da partedi Costantinodei domini dell’Imperoromano d’occidente a papa Silvestro

IL TRIUMVIRATO

Cinque mesi(dal 9 febbraioal 4 luglio 1849) durala Repubblica romanaretta dal triumviratodi Armellini, Mazzini e Saffi. Le truppefrancesi riportanopapa Pio IX al potere

PORTA PIA

Il 20 settembre 1870l’esercito guidatoda Raffaele Cadornaapre una breccianelle mura romanea Porta Pia Pio IXsi ritira in VaticanoRoma è nel Regnod’Italia

I PATTI LATERANENSI

L’11 febbraio 1929vengono siglati i patticon cui l’Italiariconosce la sovranitàe l’indipendenzadella Santa SedeIl Concordato, poi,definisce le relazionitra Stato e Chiesa

Ma Roma tutto triturae tutti sbeffeggia

Come il Belli, che definiva

la nobiltà nera

“illustrissima canaja”

CAVALIERIUna processione dei cavalieri del Sacro militare ordine costantiniano di San Giorgio

Qui sotto, un raduno dei cavalieri dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 28 SETTEMBRE 2008

Papa Leone XII (Annibale Sermattei Della Gen-ga) regnò solo sei anni. Bastarono a dare l’ideadi un pontefice terrorizzato dai tempi, feroce-

mente restauratore. Fu lui, durante l’Anno santo del1825, a far impiccare in piazza del Popolo due pa-trioti, i carbonari Targhini e Montanari, con un ge-sto crudele segnalato oggi nella stessa piazza da unapiccola targa dimenticata. Anche a Giordano Brunoera toccato il curioso destino di essere martirizzatoper “inaugurare” un altro anno santo, nel 1600. Nelcaso del filosofo s’era trattato di una questione conriflessi anche teologici e dottrinali. I due patrioti ven-nero uccisi per pure ragioni politiche. Quando Leo-ne XII venne a morte, nel 1829, un’anonima pasqui-nata ne accolse la dipartita con le parole: «Ora ripo-sa Della Genga per la sua pace — e per la nostra».L’ultima esecuzione pubblica avvenne nello stessoanno ai danni di un certo Giuseppe Farina che ave-va assassinato un prete. Tra le varie modalità per da-re la morte si contavano ghigliottina ed impiccagio-ne. Il Farina venne invece «mazzolato» come era giàaccaduto, secoli prima, al fratello di Beatrice Cenci.In pratica ucciso a bastonate.

Gli atti di ribellione, o di partecipazione, politicafurono rari durante la dominazione pontificia. Lapopolazione, la famosa plebe genialmente raccon-tata da G. G. Belli, assisteva alla vita pubblica citta-dina con passività, immersa nella miseria, in un’i-gnoranza senza rimedio, cinica, sazia di vino, di ses-so, nutrita d’un cibo sapido e greve, avendo comedivertimento e passatempo processioni, messe ecerimonie, non escluse quelle funebri.

In almeno due occasioni venne vistosamente allaluce la sostanziale estraneità di quella plebe ignavaad un qualsiasi ideale politico. La prima fu in occa-sione della breve e gloriosa avventura della Repub-blica romana del 1849 guidata dai triumviri Mazzi-ni, Armellini e Saffi, con Garibaldi capo militare. Sul-le Mura gianicolensi, all’altezza di largo Berchet cisono, murate una accanto all’altra, due lapidi signi-ficative. Quella di sinistra, in italiano, è del 1871 e ri-corda il sacrificio dei patrioti che difesero la Repub-blica romana; quella di destra, in latino, è del 1850 ecelebra il rapido restauro delle mura per cancellareogni traccia della breve avventura nonché il contri-buto alla vittoria delle truppe francesi. Due iscrizio-ni eloquenti per chi sa leggerle. Dargli un’occhiatagioverebbe certamente al sindaco di Roma.

La partecipazione del popolo romano a quell’im-presa fu minima se non inesistente. I ranghi repub-blicani erano per lo più formati da studenti, intel-lettuali, giovani infiammati di ideali accorsi da tut-ta Italia, numerosi i lombardi, i veneti, i toscani, ipiemontesi. Le strade che salgono verso il Gianico-lo citano alcuni dei loro nomi, i busti marmorei del-la passeggiata sull’alto del colle li ricordano. A fian-co della chiesa di san Pietro in Montorio un ossariosormontato dalla scritta «O Roma o morte» ne rac-coglie i resti. All’interno si trovano, tra le altre, le ce-neri di Goffredo Mameli. Era stato colpito alla villaIl Vascello e sulle prime sembrava solo una bruttaferita alla gamba, invece sopraggiunse la cancrenae nemmeno l’amputazione dell’arto riuscì a salvar-gli la vita. Quando i suoi compagni s’incolonnaro-no per lasciare Roma, passando sotto l’ospedale deiPellegrini dove il poeta era in agonia, intonaronol’inno da lui scritto e musicato dal maestro Novaro:«Fratelli d’Italia…». Aveva 22 anni.

Quell’effimera Repubblica s’era data una delleCostituzioni più avanzate d’Europa. Così avanzatache la stessa Costituzione del 1948, un secolo dopo,largamente vi si ispirò. Abbattuta la Repubblica adopera delle truppe francesi di Luigi Napoleone (checercava in Francia il voto dei cattolici) papa Pio IXpoté tornare, accolto dal giubilo popolare. Uno deiprimi provvedimenti fu di rinchiudere nuovamentenel ghetto gli ebrei che la Repubblica aveva liberato.

È in certo senso un residuo di quegli eventi il fattoche in una piazzola sotto la balconata del Gianicoloun cannone ottocentesco ogni giorno, allo scoccaredel mezzodì, ricevuto un segnale ottico dalla torredel Campidoglio, esploda (dal 1904) un colpo moltosonoro coronato da un allegro pennacchio di fumo.

Un altro episodio, tra i tanti, dimostra la sostan-ziale estraneità del popolo romano ad ogni idea diprogresso e di partecipazione politica. Nell’otto-bre 1867 una compagnia di settanta garibaldinicon alla testa i fratelli Enrico e Giovanni Cairoli ap-prodarono ai piedi della collina di villa Glori. I va-lorosi erano arrivati in barca da Terni scendendo ilfiume. Portavano armi per rifornire i patrioti ro-mani che, a quanto era stato detto, stavano prepa-rando una sommossa contro il regime pontificio.In realtà l’insurrezione popolare non c’era, la mas-sa rimase ancora una volta inerte con l’eccezionedi alcuni sparuti focolai; c’erano invece le truppepontificie appostate nella boscaglia. Nel delicatomomento dello sbarco sotto la collina, accolsero ivalorosi con un nutrito fuoco di fucileria provo-cando una strage. Enrico Cairoli rimase ucciso,Giovanni morirà dopo qualche mese a seguito del-le ferite. Benedetto Cairoli, fratello dei due caduti,esponente di spicco della sinistra storica, sarà pertre volte presidente del Consiglio fra il 1878 e il1882. Il bel giardino di villa Glori ornato da un va-sto uliveto si chiama inutilmente «Parco della Ri-membranza». Tra le tante cose che le amministra-zioni capitoline non “rimembrano” (o più proba-bilmente ignorano) ci sono i sacrifici e l’eroismo diquei ragazzi che dettero la vita per dare a noi la pos-sibilità di vivere liberi.

La meglio gioventùmorta sul Gianicolo

CORRADO AUGIAS

A CORTEA destra,un’immaginedi papa Pio IXsul tronoA sinistra,costumidella cortepontificia:Principeassistenteal Soglioe Maresciallodel ConclaveSotto, PapaSilvestro Isulla sediagestatoria,di Raffaello

OGGI

LA CERIMONIA

Alla cerimoniaper l’anniversariodella Brecciadi Porta Pia, lo scorso20 settembre,in presenzadel sindaco Alemanno,sono stati ricordatii caduti di Pio IX

GLI ZUAVI

Per i soldati papalinicaduti a Porta Pia,appartenenti al corpodegli zuavi,gli integralistidi Militia Christiadesso chiedonouna lapidecommemorativa

LA BANDIERA

Nella chiesa romanadi San Lorenzoin Lucina sono statecelebrate messedi suffragio per i cadutipapalini della “breccia”con esposizionedella bandieradelle truppe pontificie

I MANIFESTI

Per molti mesi a Romatra il 2007 e il 2008(anche durantela campagna elettorale)sono stati affissii manifesti di un gruppoultracattolicoispirati ai diecicomandamenti

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la societàSfide

Hanno scelto mestieri “normali” o fuori dal comune,

ma comunque preclusi da sempre a quelli come loro

Un libro racconta ottanta storie di non vedenti

che sono riusciti a vincere la battaglia contro il vittimismo

e il pregiudizio. Insegnanti, avvocati, sportivi, artisti:ecco come lo svantaggio si muta in eccellenza

36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28 SETTEMBRE 2008

TRENTO

Mentre parla, Mauro Marcantonimi guarda negli occhi. Gli costauno sforzo: «Ho dovuto eserci-tarmi». Spontaneamente non lo

farebbe. Non è timido (niente affatto): è cieco.Puntarmi addosso i suoi occhi chiari, a lui non ser-ve. «Serve a lei», sorride. «Se io non la guardo, leinon si rispecchia in me, e ha l’impressione di nonesistere. Devo aiutarla ad elaborare il lutto dellasua immagine».

Bisogna dare una mano a questi vedenti. Quan-do incontrano un cieco, entrano in crisi. Quelli cheincrociamo sui marciapiedi del centro di Trento, adesempio, non appena s’accorgono del bastonebianco s’imbarazzano, si guardano attorno, s’ap-piattiscono contro il muro (errore: il muro è la bus-sola del cieco), si nota il loro sollievo quando siamopassati, e possono uscire dal cono di invisibilità incui per qualche istante si sono sentiti sprofondare.

I ciechi non sono più gli esseri grotteschi messi inversi da Dino Campana, «simili a manichini, muo-vono un poco al riso / strani come sonnambuli, ter-ribili nel viso». Ma il loro handicap, dicono i son-daggi, tra tutti è ancora quello che inquieta di più.La cecità fa paura a chi non ce l’ha. E ne fa tanta dipiù quando non sa «stare al suo posto». Il posto deiciechi qual è? Non siamo una società crudele: nonè tendere la mano all’angolo della strada. È un la-voro da centralinista, o da massaggiatore, ma bastalì. I ciechi che puntano più in alto, i ciechi che nonfanno i ciechi, sanno cosa significa sentirsi trattatida presuntuosi, pretenziosi, perfino arroganti. «Uncieco che mette gli sci è uno che “non accetta il pro-prio limite”», reagisce Mauro, «ma perché dovreb-be? Noi non siamo esseri umani con un senso inmeno del normale, siamo persone che costruisco-no la propria normalità su quattro sensi. Tutto ciòche ci sta, è giusto che ci stia».

E non v’immaginate quanto ci stia, in quattrosensi. Tra le ottanta storie di “ciechi di successo”che Marcantoni è andato a cercare ai quattro angolid’Italia, ci sono quelle di Patrizia Viaro, ballerinache danza con la benda sugli occhi perché sia benchiaro agli spettatori; di Francesco Cozzula, navi-gatore di rally che “vede” le curve con il corpo; diUbaldo Cecilioni, tiratore con l’arco che punta lafreccia tastando un mirino elettronico coi piedi. C’èla storia di Antonella Cappabianca che commentaalla radio i programmi tivù, e quella di Luigi Ber-tanza navigatore a vela con satellitare parlante. Maanche le storie meno estreme, le carriere da inse-gnante, tecnico informatico, avvocato, imprendi-tore, per Mauro sono «straordinarie, perché in uncieco è la normalità che fa l’eccezione».

Anche Mauro Marcantoni è un “cieco di succes-so”: perdere la vista, quindici anni fa, non gli ha im-pedito di diventare direttore di una importantescuola di formazione manageriale, ricercatore,giornalista, editore. Questa parola, successo, in ve-rità non lo convince del tutto, «richia-ma idee di denaro e potere più che diappagamento e realizzazione di sé.Per me il massimo del successo è unacoppia di ciechi che fa tre figli». Ma al-la fine ha accettato di usarla nel sotto-titolo (“Vivere con successo la cecità”)di questo suo libro, I ciechi non sogna-no il buio, perché è un libro che vuolescuotere anzitutto i vedenti, un libropedagogico e anche un po’ spudora-to. L’Unione italiana ciechi di Trento,che ora è entusiasta del risultato, du-bitò prima di sostenere la ricerca. Cisono tanti ciechi in difficoltà, perchéoccuparci dei più fortunati? Marcan-toni li ha convinti così: «Il nostro ri-schio non è puntare troppo in alto, matroppo in basso. Di sola tutela socialesi muore. Servono esempi perché al-tri possano osare, magari rischiare unfallimento, ma riprovare».

Se c’è un “soffitto di vetro” che im-pedisce ai ciechi di arrivare dove pos-sono arrivare, va rotto con una gomi-tata. «I ciechi vivono il loro limite comenaturale, mentre è sociale. La maggiorparte di noi resta chiuso in casa, alcu-ni accettano i mestieri “compatibili”fissati per legge anche se potrebberoaspirare a qualcosa di meglio. Poi cisono i ribelli». A Mauro piacciono i ri-belli. «Quelli che hanno rifiutato il vit-timismo, e hanno scoperto che serompi con le comodità della tutela so-ciale ti si apre un mondo di opportu-nità». Bravi anche gli scandalosi cheesagerano, magari un po’ narcisi.Quelli che fanno lo slalom seguendo ilticchettio dei bastoncini dello sciato-re che li precede, quelli che dipingono,fotografano, quelli che vanno al cinema o allo sta-dio, insomma quelli che mettono a disagio i veden-ti, anche i più politicamente corretti, perché «cer-cano la rivincita» sul loro handicap. «Tutti cerchia-mo rivincite sui nostri limiti», li difende Mauro,«l’eccesso è il rischio di ogni uomo, e noi ciechi sia-mo una semplice variante della specie umana».

Ribellarsi però è difficile. Hai tutti contro. Giulio

Nardone voleva iscriversi all’università, l’oculistagli disse: «Lascia perdere, tra due anni sarai cieco».Non lasciò perdere: oggi è avvocato. Giorgio Riga-to, analista informatico: «Non devi aspettarti che ilmondo si regoli su di te, devi spostare il limite traquello che puoi fare e quello che non puoi fare».Puoi rischiare di scoprire che quel limite è più am-pio di quel che sembrava. Mirco Mencacci da bam-

bino pasticciava col registratore perché pensavache la sua creatività fosse limitata al mondo dei ru-mori: oggi monta i suoni sulle immagini dei film diGiordana e Ozpetek. Non accettare lo svantaggioallora non è presunzione: è liberazione dal peso cheti tira giù.

Bisogna rinunciare però a quell’orgoglio da figlidi un dio minore, che diventa «senso di razza, ri-vendicativo e vittimista». Se un po’ di rabbia, un po’di spirito di rivalsa aiutano a non lasciarsi andare,ben vengano. Giulio Franzoni è diventato impren-ditore agricolo «per dimostrare qualcosa a chi di-ceva che non ce l’avrei fatta», e non se ne vergogna.Qualche aggressività va messa nel conto. Se Anna-lisa Minetti, ex miss, cantante, ora insegnante diginnastica, scatenò un polverone a Sanremo sen-tendosi discriminata, fu dopo avere fatto finta peranni di vederci «per non impietosire». Claudio Co-sta invece si arrabbia proprio con l’handicap vi-suale: «È bastardo», dice. Maratoneta medagliatis-simo alle Paralimpiadi, mal sopporta di avere biso-gno di un accompagnatore per fare sport, «a livellodi indipendenza è meglio un handicap fisico». Cu-rioso lapsus: la cecità cosa sarebbe, un handicapmorale? Culturale?

Forse non è un lapsus, quello di Costa. Forse hacolto un punto. «I ciechi devono aver voglia di ve-dere», spiega Mauro. Lieve ma salda, la sua manosul mio braccio mi guida più che farsi guidare. Tra-versiamo vie e piazze seguendo precisi itineraricartesiani. «Cercava una pasticceria? Avanti, all’in-crocio. Qui a destra invece c’è una bella galleriad’arte». Non è desiderio di stupire. Mauro sa chebasta il rumore di un cantiere, e la città che ha dise-gnata in testa nei minimi dettagli si perde in unoscuro frastuono. Confessa: «Per quanto sia fierodella mia autonomia, non riesco a scacciare il ter-rore di sbattere ad ogni passo il naso contro un pa-lo». Vuole solo farmi capire che tra dipendenza as-soluta e superomismo c’è uno spazio enorme, chei vedenti non riescono a immaginare. Possono pro-varci? Tempo fa il Mart di Rovereto ospitò un espe-rimento, Dialogo nel buio: i visitatori vedenti eranoinvitati a svolgere attività quotidiane in un am-biente oscurato, per «capire come vive un cieco».Mauro scuote la testa: «Così non si capisce niente.Anzi si capisce il contrario. Essere ciechi per un’o-ra ti dà la sensazione che il cieco sia un incapace to-

MICHELE SMARGIASSI

La luce con il buioVite straordinariedi ciechi di successo

QUOTIDIANITÀSopra, il musicistaTcha Limberger,30 anni, ciecodalla nascita,con in braccioil figlio Todor;a sinistra,Erich, 11 anni,non vedente,in sella a Mistermentre frequentail corsodi ippoterapia

“Il nostro rischio

non è puntare troppo in alto,

ma troppo in basso”

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 28 SETTEMBRE 2008

tale. Essere ciechi da sempre, o da anni, ti dà il tem-po di organizzare la vita. La cecità resta una priva-zione brutale, ma non è per forza una condanna al-l’angoscia».

La cecità toglie, certo. Ma in certe condizioni puòperfino dare. Una lunga abitudine a vivere senzascrittura può sviluppare abilità compensative mol-to utili. Elio Borgonovi, docente alla Bocconi, ra-giona sulle sue: «Non posso preparare appunti,quindi devo farmi una scaletta mentale. Ho svilup-pato una forte capacità di sintesi». Qualche volta,come in un celebre racconto di H. G. Wells, il ciecose la cava meglio del vedente.

Raggiungere obiettivi ambiziosi senza la vista nonè come giocare a mosca cieca. Nessuna fortuna ben-data. Il successo dipende da una razionale riorga-nizzazione dei quattro sensi attivi, da un efficiente“governo dell’incertezza”. Francesco Levantini, ap-prezzato formatore all’Ibm, c’è riuscito così beneche ormai considera la cecità «non un problema, mauna seccatura». Del resto l’informatica sta accor-ciando le distanze tra ciechi e vedenti: scanner vo-cali che mandano in pensione il Braille, tastiere par-lanti per cellulari, perfino le recentissime “pennemagiche” che scandiscono ad alta voce il nome su uncampanello o la targa di un portone sono protesispaziali per i ciechi dell’epoca dei cani guida.

Ma la vera vista del cieco restano gli altri umani.«Una capace rete di relazioni», secondo SalvatoreVirga, fisiatra, vale un buon paio d’occhi. Siamo dac-capo: il problema dei ciechi sono i vedenti. «Per ognicieco di successo ce n’è uno nascosto», medita Mau-ro. Se c’è una costante in questi ottanta racconti, è lasensazione di aver dovuto pedalare in salita da soli,e non tutti ce la fanno. La civiltà dell’immagine è ri-gida con chi non condivide il primato della vista.Mauro la chiama “la legge della pizza”: «Ne chiediuna senza mozzarella e ti rispondono “non si può”.Perché non si può, me lo volete spiegare? Il pizzaio-lo è pigro? Il cassiere non sa quanto farla pagare?Macché: questo è un mondo omologato, ogni scar-to dalla norma è fastidioso». Eppure la pizza senzamozzarella esiste: Mauro e molti degli ottanta ciechiribelli e appagati andranno a spiegarlo il 23 ottobreall’università Luiss di Roma. E non finirà qui. Mar-cantoni ha in mente un’altra inchiesta: che uso fa lasocietà vedente del potere delle immagini. Dobbia-mo stare attenti: i ciechi ci guardano.

Il cieco che mi sta di fronte forse mi vede, cioèmi sente, mi avverte, mi capisce, più diquanto io faccia nei suoi confronti. Non so-

lo egli avverte (come è intuitivo) il mio disagio,la mia rimozione, la mia propensione a consi-derarlo fuori della vita ordinaria; ma elaborauna sua mentale rappresentazione di me. Micapisce più di quanto io creda, magari attra-verso l’attenzione spasmodica del suo uditoverso la mia voce, le sue intonazioni sui diversiargomenti, i miei stessi movimenti nello spa-zio; e forse mi guarda ancor più nel profondo,vista la sua capacità di collegare e rendere con-vergenti vari frammenti di realtà.

Il disabile non è un incapace, è scritto in unapagina del libro, «è una persona che nella mag-gior parte dei casi affronta e risolve le situazio-ni quotidiane con molta destrezza». C’è in que-sta frase una duplice vena di tensione a cresce-re: da un lato c’è il faticoso orgoglio dei tanti chepensano che «chi ce la fa, sperimenta la gioia dinon aver mete precluse e di aver superato laprova cruciale del governo della propria incer-tezza»; e dall’altro lato l’espressione della filo-sofia di fondo che ispira questo libro, la filoso-fia dell’autonomia, nella consapevolezza chefare da sé è realmente possibile; utilizzandocerto le tecnologie disponibili (confesso chenon sapevo, prima della lettura di questo libro,quanto e quale frequentazione i non vedentiavessero con le tecnologie informatiche e tele-matiche), ma valorizzando soprattutto le pro-prie risorse, la rete delle amicizie, l’ambienteprofessionale ai vari livelli. Certo ci vuole tantatenacia e tanta fede nei tempi lunghi, ma sonodoti che non mancano nell’ambiente.

La cecità è come uno specchio rotto, per cuiil mondo comune è (per il non vedente)un mo-saico di frammenti isolati, di cui gli è preclusauna visione d’insieme. Ma questo limite puòessere per lui anche un’opportunità, perché gliimpone di elaborare una “rappresentazionementale” della realtà, frutto di un complessointreccio di abilità compensative, di utilizzo dialtri sensi, di esasperata attenzione alle infor-mazioni che vengono dall’esterno, in un mec-canismo silenzioso di razionalità, emotività eintuito.

Come un non vedente si fa la sua rappresen-tazione mentale della strada che deve percor-rere per andare a prendere l’autobus, così è ve-rosimile che si faccia rappresentazioni menta-li molto relazionali, cioè legate a quella capa-cità di ascolto (tattile, uditivo o olfattivo che sia)che egli tramuta poi nella continua rimodella-zione del suo modo di essere, nell’obbligatosuperamento delle sue incertezze.

L’autore è segretario generale del Censis

L’orgogliofaticosoGIUSEPPE DE RITA

IL LIBRO

I ciechi non sognano il buio - Vivere con successo la cecità di Mauro Marcantoni(Franco Angeli, 240 pagine, 22 euro) raccoglie ottanta storiedi non vedenti che hannoavuto successo,superando pregiudizi e luoghi comuni legatialla cecità: avvocati,cantanti, campionisportivi e artisti. La prefazione, di cui pubblichiamo un estratto, è firmata da Giuseppe De Rita,segretario generaledel CensisIn libreria il 10 ottobre

LE IMMAGINI

Le foto che illustrano queste pagine sono tratte dal numero 72della rivista Colorsinteramente dedicato ai ciechi. Colorsè dal 1991 il magazinetrimestrale di Fabrica,centro di ricerca sulla comunicazione del gruppo Benetton.Il numero 74, oradisponibile, contienetrenta fotografie che documentano il terremoto in Sichuan e altrettante immagini di protesta e preghieradal Tibet

Repubblica Nazionale

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38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28 SETTEMBRE 2008

La Polonia dei gemelli Kaczynski processa Jaruzelski,

l’uomo del colpo di stato del 1981, il nemico

di Solidarnosc, il primo dei dittatori dell’Est

a veder cadere pezzi del Muro. Il suo antagonista, polacco come lui,

fu uno degli artefici di quella caduta. L’ex portavoce di Giovanni Paolo IIricorda il legame che, nonostante tutto, univa due figli della stessa terra

CULTURA*

Non so se il 12 settembrescorso sarà una data me-morabile per l’Europa.Certamente lo sarà per laPolonia. Nessun Paeseriesce a fare facilmente i

conti con la propria storia. E nei popolislavi vi è sempre un’aggravante generica,dovuta all’emotività che imperversa inmodo quasi atavico dappertutto. Unacosa è certa: l’ultimo grande leader dellaPolonia comunista è da qualche giornoalla sbarra, e deve adesso affrontare, in-sieme con altri sette funzionari, l’Istitutopolacco per la memoria, un tribunalespeciale molto minaccioso. Si tratta di unorgano creato ad hoc dalla cosiddetta Lu-stracja, ovvero la discutibile campagnapolitica voluta dai fratelli Kaczynski alcu-ni anni fa. L’imputato eccellente è, però,lui: il generale Jaruzelski. Chi ha vissutodirettamente quegli anni non può di-menticare il timore che incuteva un uo-mo che era al contempo capo del Partitocomunista, capo del governo, ministrodella Difesa, nonché figura al vertice del-le forze armate. Egli appariva enigmati-co, una specie d’irrealistica maschera delproprio potere illimitato e della strutturaburocratica che ne era a fondamento. Mache senso può avere oggi processare unuomo così e, per giunta, tanto anziano?

È chiaro che non siamo davanti a unafarsa, come non è una burla il processoche l’Aia sta facendo a Karadzic. Ma tut-to, anche la storia passata, appare segna-to sempre da una certa caducità. Forse è

un processo quello a Jaruzelski che si de-ve fare senza che realmente si possa fare.Forse è solo un risultato politico inevita-bile anche se, tutto sommato, da evitare.Soprattutto nel clima politico attuale,piuttosto ideologico, che c’è in Polonia.La figura del generale Jaruzelski, in effet-ti, è quella di un simbolo del regime co-munista. E fare un processo a un’iconaimplica il rischio di processare la storiasenza la persona, finendo per attribuirealla persona le colpe della storia. Non socosa ci sia di realmente umano in questo,fatto sta che accade di continuo, e anchein questo caso.

Mi ricordo perfettamente delle vicen-de che precedettero e seguirono il colpodi stato del 12 dicembre del 1981. Si sape-va da prima che la sicurezza nell’area delPatto di Varsavia non era certo quella oc-cidentale. Io ero appena rientrato dallaPolonia, quando ormai trapelava ovun-que che lì stava avvenendo qualcosa diestremamente grave, qualcosa di analo-go ai fatti di Ungheria. Con meno sanguema molto più significativo. La guerrafredda con Carter e Reagan era ripresa dinuovo in modo caldo, addirittura bollen-te, data la statica gestione della Russiabrezneviana.

La mia idea in quel dicembre del 1981era di tornare a Varsavia per vedere comele cose sarebbero andate a finire. Il ri-schio grave non proveniva dai russi, co-me si diceva in Occidente, ma dai tede-schi dell’Est. Se vi fosse stata un’invasio-ne, sarebbe arrivata ancora una volta dalì. Una specie di iattura per la Polonia, giàinvasa dai nazisti pochi decenni prima.La cosa era saputa bene sia da Honecker

l’attivismo di Solidarnosc stavano met-tendo in atto. I Paesi del Patto di Varsavia,e in particolare l’Unione Sovietica, pote-vano sentirsi garantiti dalla sua presenzaal vertice delle istituzioni.

In secondo luogo, però, Jaruzelski eraanche un nazionalista polacco. Egli eraun convinto sostenitore dell’indipen-denza polacca e contrario, per le ragionispecifiche che sono iscritte nei geni di unnazionalista, a ogni intervento direttoproveniente dall’estero. Il Generale erapertanto una garanzia per il suo popolo,al quale egli avrebbe scongiurato in tuttii modi una probabile e umiliante inva-sione esterna.

In terzo luogo, però, Jaruzelski era an-che un comunista. Da tale adesioneideologica veniva la fiducia che le auto-rità sovietiche riponevano in lui e nelsuo intento di applicare l’ideologiamarxista in modo rigoroso e duraturo.La complessità della persona furonosuccessivamente intaccate e influenza-te dagli incontri — otto in tutto — conKarol Wojtyla, anche se mai alterate inmodo definitivo.

Quando tornai in Polonia con il Papanell’83 e nell’87 il Paese mi parve evi-denziare in ogni parte la presenza delladittatura. Una Polonia più statica, manon meno in fermento. La situazionepolitica mi suscitò grandi interrogativi emolte perplessità. Credo che la forza po-polare della Polonia sia emersa proprioallora, rivelandosi una risorsa capace diconservare in modo intatto la propriaidentità culturale e religiosa in ogni si-tuazione e di insorgere non appena vene fosse stata l’occasione.

sia da Jaruzelski. Il mio viaggio di rientroin Polonia terminò a Vienna, dove mi fuimpedito di procedere oltre. Ormai la Po-lonia era entrata sotto il controllo assolu-to del Generale e le libertà erano total-mente cancellate.

La situazione era enormemente evo-luta in Polonia, a seguito dei processisociali derivati dalla prima visita di Gio-vanni Paolo II nel ’79. Mi ricordo inde-lebilmente il suono delle parole del di-scorso che egli fece in Piazza della Vit-toria a Varsavia il 2 giugno. Il Papa ave-va già da anni perfettamente capito lanatura reazionaria del totalitarismo so-vietico, il quale si esprimeva anche nel-la soppressione totale dei diritti —compressi quelli religiosi — dei polac-chi. Per Giovanni Paolo II, il cristianesi-mo con la sua antropologia personali-sta risultava di fatto incompatibile conil sistema totalitario in atto. Egli dissecon forza che «l’esclusione di Cristodalla storia dell’uomo è un atto control’uomo. Senza di lui non è possibile ca-pire la storia della Polonia, e soprattut-to la storia degli uomini che sono pas-sati e passano per questa terra». Talepercezione Giovanni Paolo II la man-tenne anche in seguito. Sapeva che ilcolpo di stato rappresentava una rispo-sta brutale contro il movimento di

riforme che si era innescato in patriacon il movimento sindacale di Solidar-nosc, capeggiato da Walesa, e con gli al-tri movimenti nazionalisti.

Si può dire che l’instaurazione del re-gime di Jaruzelski si presentò come unasoluzione di immobilismo e di com-promesso insieme. Ciò era dovuto allecaratteristiche biografiche e caratte-riali del personaggio che aveva preso ilpotere. Ripensando a quegli avveni-menti, mi ricordo di aver discusso unavolta con Giovanni Paolo II fino a tardasera la figura di Jaruzelski, consideran-do il fatto che essa era dotata di tre par-ticolari caratteristiche, fondamentaliin quel momento per capire che stavasuccedendo nell’area polacca.

Innanzi tutto, egli era un militare, for-mato non soltanto alla disciplina e allafermezza, ma anche fornito di una solidaformazione personale e di una singolarevisione politica globale che è propria diun generale dell’esercito. La sua dedizio-ne alle leggi e alla disciplina si traduceva-no nella convinzione che sicurezza e or-dine pubblico fossero i criteri fondamen-tali e i requisiti di partenza con cui gover-nare un Paese. Questo aspetto lo rendevaparticolarmente abile nella gestione del-le emergenze sociali che la drammaticasituazione economica della Polonia e

E Karol disse: “Èsolo un uomo”JOAQUÍN NAVARRO-VALS La crisi del sistema

totalitario

e il suo superamento

Il vero colpo di scena

è scoprire l’innocenza

del colpevole

Wojtylae ilGenerale

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 28 SETTEMBRE 2008

VARSAVIA

L’aula del tribunale è scialba e anonima, nel grigio palazzone in vec-chio stile realsocialista sull’ampia strada di Varsavia che oggi si chiamaAleja Solidarnosci, viale Solidarnosc. Un monolito grigio e delabré. Mo-derni grattacieli e shopping center della skyline postmoderna di Varsa-via, booming city della nuova Europa, gli fanno ombra. Nei corridoi delvecchio palazzone rosso, avvocati in toga e giovani segretarie si affac-cendano veloci, l’aria indifferente alla storia che si svolge là accanto a lo-ro. Qui la democrazia polacca, quasi in una piccola Norimberga, pro-cessa il passato oppresso della nazione. Qui un manipolo di ultraottua-genari che a vederli ispirano compassione fa i conti col tribunale dellaStoria. E uno di loro, il taciturno generale dagli eterni occhiali neri, si pre-para caparbio a leggere le sue duecento pagine di autodifesa.

L’atto d’accusa pesa come un macigno. Crimini comunisti, organiz-zazione armata criminale contro la società, violenze arbitrarie contro icittadini. Si riferisce al 13 dicembre 1981. Quando le forze armate po-lacche — con Jaruzelski capo di stato maggiore e insieme capo del Par-tito comunista — decretarono lo stato di guerra, in sostanza un putsch,per stroncare Solidarnosc, il movimento di rivoluzione non violenta perla democrazia che stava aprendo la prima breccia nel Muro. Coprifuo-co, arresti a migliaia, decine di dimostranti uccisi negli scontri. Il Wron(Consiglio militare per la salvezza nazionale) prese il potere, esautoròdi fatto lo stesso Pc: generali, colonnelli, maggiori e capitani presero inmano l’amministrazione. Ci vollero anni prima che — stretto tra la con-danna della grande voce morale di papa Karol Wojtyla, il riarmo e lacampagna per la libertà degli Usa di Ronald Reagan e Bush senior, la pe-restrojka di Gorbaciov a Mosca da un lato, e la resistenza imperiale deiburocrati comunisti di tutto l’impero sovietico dall’altro — Jaruzelski egli altri generali si decidessero a riaprire il dialogo col Paese. Ma quella— ricordano ancora oggi Tadeusz Mazowiecki e Adam Michnik, alloraeroi e capi storici di Solidarnosc, consiglieri chiave di Walesa — fu poi lasvolta: la tavola rotonda, la transizione non violenta come nella Spagnadopo Franco. La breccia finale, l’inizio della fine per il Muro di Berlino equello che Reagan chiamò “l’impero del male”.

Traditore e criminale comunista o tragico eroe shakespeariano? Op-portunista o patriota costretto al peggio? Sul vecchio generale le opi-nioni forse non cesseranno mai di dividersi. Gazeta Wyborcza, il gior-nale che Michnik fondò (e che fu il primo media laico indipendente nel-l’Impero sovietico) deplora che «un gruppo di vecchietti venga trattatocome una banda di gangster». La Sld, il partito socialdemocratico ex co-munista, parla di «voglia di vendetta». Ma intanto la Piattaforma dei cit-tadini, il partito del premier Donald Tusk, prepara una legge punitivaper ridurre le pensioni agli ex membri del Wron.

Dieci anni di prigione: è quanto l’ultraottantacinquenne generale ri-schia, se — il processo continuerà fino all’anno prossimo — sarà con-dannato. Molti a Varsavia danno per certa una condanna sospesa, inconsiderazione dell’età avanzata e delle cattive condizioni di salute. Luinon si arrende. Grande è l’attesa per il lungo discorso di autodifesa cheJaruzelski ha preparato, per sfidare da solo i giudici. E dopo quella criti-ca di Gazetaper «i vecchietti trattati come gangster», i media hanno scel-to di astenersi da commenti. Notizie e basta.

Come si difenderà il vecchio generale? Possiamo solo cercare d’im-maginarlo, ricordando l’intervista sul processo che concesse a Repub-blica in esclusiva mondiale. Disse che nel gelido inverno ’81 il governocomunista fu minacciato di un embargo economico ed energetico daMosca, se non avesse piegato Solidarnosc. E non solo: nella sua umilevilletta a Varsavia-Mokotow, confortato dalla moglie Barbara e dallagiovane, bellissima figlia Monika — lavora per moda e pr in Occidente,non passa un giorno senza che incoraggi “daddy” chiamandolo col cel-lulare — ci mostrò copie dei piani segreti della famigerata NationaleVolksarmee der Ddr (Nva), l’esercito della dittatura tedesco-orientale,con annesse carte militari della Nva per un Blitzkrieg in Polonia. Berli-no Est era pronta a stroncare la rivoluzione polacca con le sue Panzer-divisionen e i suoi reparti speciali, quelli con l’uniforme che ricordavale Ss. “Io col cuore pesante cercai di evitare il peggio alla mia patria”, cidisse il generale. “Poi, appena fu possibile, con l’aiuto del Santo Padre egrazie al realismo patriottico dell’allora opposizione, avviammo la svol-ta”. Parole disperate per difendersi, o frasi con grande fondo di verità, oforse entrambe le cose insieme. Se ne può discutere. Ma indiscutibile èla speranza del vecchio figlio della nobiltà in uniforme polacca, checrebbe deportato in Siberia con i genitori, li vide scomparire nel Gulag,e per il riflesso sole-neve accecante di laggiù porta ancora i famosi oc-chiali neri. «Posso sperare nella clemenza», ci disse, «o nell’inevitabilitàanagrafica: sono vecchio, magari più di quanto un processo possa du-rare fino alla sentenza».

Patriota o criminale di guerraalla sbarra l’ultimo comunista

ANDREA TARQUINI

Il Papa sapeva benissimo quanto fos-se forte lo spirito religioso dei polacchi.Per questo egli elaborò le diverse solu-zioni da dare ad una nuova Ostpolitik,passando sempre attraverso il risveglioattivo dei suoi connazionali. La Polonianon era per lui soltanto uno dei Paesi

del blocco comunista, ma era un luogospecifico dove verificare la crisi del si-stema totalitario, nonché il suo supera-mento attraverso la riaffermazionedella libertà religiosa.

In questo quadro così articolato la fi-gura di Jaruzelski è stata anche quella che

per prima ha permesso a Wojtyla di spe-rimentare l’efficacia, anche politica, del-la sua carica umana. Un giorno mi con-fessò che tra i molti aspetti del Generalevinceva di gran lunga quello comunista.Ma se solo si fosse incrinata la corazzaistituzionale, egli era convinto che l’u-

manità avrebbe avuto il sopravvento an-che su di lui.

Non so dire se ciò sia mai avvenuto inJaruzelski. Forse — anche se ne dubito —lo scopriremo durante questo processo.Certamente, però, Giovanni Paolo II erasicuro che niente e nessuno potesse mai

sopire definitivamente il cuore e l’animadi una persona, neanche quando essa siè trasformata nel fantoccio di un regimeche ne regge i fili. Probabilmente, però, ilvero colpo di scena di questo processo èscoprire alla fine, almeno una volta, l’in-nocenza di un colpevole.

L’INCONTROL’incontro tra GiovanniPaolo II e Jaruzelskiin Polonia nel 1983

I primi due incontri ufficialiIl Generale ricordache nel secondo, a Cracovia,“il clima si rasserenò”

È la svolta nelle relazioni,in piena perestrojka:un incontro storicoin Vaticano e uno in Polonia

L’ultimo degli otto incontriWojtyla, dice il Generale,che era da tempo in pensione,“trovò mezz’ora per me”

200119871983

Repubblica Nazionale

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Con la versione

rimasterizzata

del film, in vendita

negli Usa,

un documentarione raccontai retroscena:l’ostilità

dei produttori,

il complotto

del montatore

Avakian,

gli ultimatum

al regista

SPETTACOLI

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 28 SETTEMBRE 2008

NEW YORK

T ra tutti i miti, gli aneddoti ei racconti apocrifi che cir-condano la realizzazionedel Padrino ce n’è uno as-

solutamente vero: era un film che nes-suno voleva realmente fare, a comin-ciare da Francis Ford Coppola, i pro-duttori della Paramount e persino Ma-rio Puzo. Non è l’unico paradosso cheha caratterizzato la lavorazione di unodei più grandi successi di tutti i tempi:gli attori scelti da Coppola furonoosteggiati dai produttori sino al mo-mento dell’inizio delle riprese, e Cop-pola fu ripetutamente sul punto di es-sere licenziato, per l’iniziale delusionedei produttori di fronte al materiale gi-rato, e persino per un complotto orditodal montatore Aram Avakian il quale ri-feriva alla Paramount che il materialegirato era inutilizzabile, sperando dirimpiazzare il regista. Una nuova ver-sione digitale e rimasterizzata di que-sto straordinario capolavoro, curatapersonalmente da Coppola, proponeun documentario che racconta i retro-scena più sorprendenti della lavorazio-ne e della distribuzione, corredati datestimonianze di registi come StevenSpielberg, che dichiara di essere stato«polverizzato dalla storia raccontata edall’effetto che ebbe su di me».

La Paramount acquistò i diritti del li-bro di Mario Puzo per farne una pellico-la di genere. Nessuno riteneva che fossenecessario dedicarle un’attenzione su-periore a quella di un film di serie B, e dalsuo canto lo scrittore non aveva alcunaaspettativa: aveva scritto il libro per pu-ri fini commerciali, scoraggiato dallamediocrissima accoglienza della criticaai suoi primi lavori. Anche all’internodella Paramount c’erano molte resi-stenze, dopo lo scarso successo di Fra-tellanza, un film di ambientazione simi-le, diretto da Martin Ritt. Il genere gang-ster sembrava in pieno declino, e le sto-rie di mafia e famiglia non apparivanoattraenti per un pubblico in pieno rin-novamento generazionale dopo i fervo-ri del Sessantotto.

In un primo momento vennero con-tattati Elia Kazan, Sergio Leone, Costa-Gavras e Arthur Penn. Nessuno di lorosembrò interessato, e venne quindiconvocato Sam Peckinpah, il quale la-sciò sconcertati i suoi interlocutori spie-gando che avrebbe girato Il Mucchio Sel-vaggio tra i mafiosi. Fu Robert Evans adavere l’idea di scritturare allora un regi-sta italo-americano, ma sul nome diCoppola si scatenò una netta ostilità: isuoi primi film avevano ottenuto incas-si disastrosi, e quel regista barbuto cheaveva fondato una propria casa di pro-duzione e si ostinava a vivere a San Fran-cisco aveva una fama terribile per Hol-lywood: pensava di testa propria. Tutta-via Coppola riuscì ad affascinare i pro-duttori grazie ai racconti della sua fami-glia italiana e al modo in cui spiegò chela saga dei Corleone era la storia di un reche aveva tre figli: «Il primo ha ereditatodal padre la dolcezza, il secondo la forza,il terzo l’intelligenza». Ma dopo l’inizia-le momento di seduzione iniziarono lebattaglie: Coppola rifiutò di spostare lacollocazione temporale del film all’epo-ca delle riprese e l’ambientazione a St.

Louis, molto più economica di NewYork. Per il ruolo di don Vito, la Para-mount propose una lista lunga e invero-simile di nomi (tra i quali Laurence Oli-vier e persino Carlo Ponti) pur di non ce-dere all’idea di Marlon Brando, in pienacrisi di successo al botteghino.

Coppola si sentì ripetere infinite vol-te «non farà questo film», e quando vin-se la sua battaglia dopo che Brandoaveva accettato di sottoporsi ad un pro-vino con dei batuffoli di cotone all’in-terno delle guance, fece pronunciare labattuta al produttore che si rifiuta discritturare Johnny Fontane/Frank Si-natra, e cede solo dopo che trova nel let-to la testa del suo purosangue predilet-to. Proprio Sinatra fece pressioni affin-ché il personaggio non potesse esserericondotto a lui, e nel giro di poco tem-po arrivò un altro tipo di pressione, benpiù inquietante: un emissario della fa-miglia Colombo chiese ed ottenne chela parola mafia non fosse pronunciatanel film. La battaglia sul cast si spostò sualtri fronti: Coppola era assolutamenteconvinto del talento del semiscono-sciuto Al Pacino, ma per il ruolo di Mi-chael i produttori volevano RobertRedford o Ryan O’ Neal.

Non diversa la lotta per i comprimari,e se Robert Evans racconta non tropposcherzosamente che pensava all’amicoHenry Kissinger per il ruolo del Consi-gliori, Abe Vigoda (Tessio) racconta neldocumentario di essere stato scelto,contro il parere dei dirigenti, perché eraassolutamente sconosciuto. Coppolariuscì ad imporre come musicista NinoRota, ma non fu facile convincere i fi-nanziatori che il musicista di Fellini fos-se giusto per un gangster movie.

Non meno ardua la battaglia perl’immagine del film: la grande idea diregia di offrire una suggestione etica sindalla fotografia spaventò a morte la Pa-ramount, ma entusiasmò Gordon Wil-lis, che girò l’intero film in un chiaro-scuro molto contrastato, e, negli inter-ni, non illuminò gli occhi dei protago-nisti. Ancora più ardua la battaglia sulmontaggio: il ritmo epico immaginatoda Coppola, con lunghe digressioninarrative alternate ad esplosioni di vio-lenza, lasciò sconcertati i responsabilidello studio e offrirono l’occasione adAvakian di proporre un montaggio al-ternativo, basato tutto sull’azione.Coppola si rese conto per miracolo diquanto stava avvenendo e, licenziatoAvakian, riuscì a salvarsi dopo aver ri-montato personalmente la sequenzadell’omicidio di Sollozzo.

L’ultimo fronte si aprì sul nepotismo:Coppola scritturò la sorella Talia nelruolo di Costanza, il padre Carmine perdirigere le musiche di Rota e persino lafiglia Sofia, appena nata: è lei ad esserebattezzata nel finale del film. Non solo:affidò al pupillo George Lucas il mon-taggio della guerra di mafia. Anche que-st’ultimo ricorda il clima di sfiducia e iltentativo costante di licenziare Coppo-la. Alla prima del film nessuno avevagrandi aspettative, ma Il Padrinodiven-ne all’epoca il più grande successo ditutti i tempi, oltre che un fenomeno cul-turale tuttora imprescindibile. Se ne ac-corse per primo Henry Kissinger, allorasegretario di Stato, che uscendo dallaprima dichiarò: «È un film che parla atutti: non è molto diverso da quello chevedo ogni giorno a Washington».

ANTONIO MONDA

Tutticontro

Nessuno voleva davveroil capolavoro di Coppola

Quando caldo e faticati buttano giù, scegli

la forza del numero uno

Repubblica Nazionale

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i saporiChicchi

Strangolati dalla fretta abbiamo abdicato alla ricerca

della qualità. Grandi catene internazionali modificano

le miscele per andare incontro ai nuovi gusti.Eppure

continuiamo a consumare sei chili all’anno di caffè

Ecco perché, tra guide, artigiani e appuntamentiper l’Italia, c’è ancora chi va alla caccia dell’altro oro nero

42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28 SETTEMBRE 2008

Nella città-madredel caffè Illy,tanti e illustrii frequentatoridei bar storici,da Stendhal a Joyce. Duranteil periodo natalizio,

concerti e spettacoli nei locali associati alle “Vie del caffè”

DOVE DORMIRETRITONEViale Miramare 133Tel. 040-422811Camera doppia da 90 euro, con colazione

DOVE GUSTAREBAR VIA DELLE TORRIVia delle Torri 3Tel. 040-765251

DOVE COMPRARETORREFAZIONE LA TRIESTINAVia Cavana 2Tel. 040-306586

itinerari

TriesteNella cittàdei cento porticiprosperala tradizionedei caffè, storicie nuovissimi,con i tavolini sparsisotto le volte

e la produzione della famiglia Lelliin primo piano. Molti i corsi di degustazione

DOVE DORMIREA BOLOGNA B&BVia Cairoli 3Tel. 051-4210897Camera doppia da 70 euro, con colazione

DOVE GUSTAREAROMAVia Porta Nova 12/bTel. 051-225895

DOVE COMPRARETERZIVia Oberdan 10Tel. 051-236470

BolognaLa tazzulella ‘e cafèè nel Dna cittadino: nei bar storici,tradizione vuoleche per ogniespresso gustatoi clienti ne lascinouno pagato

Eccellente la produzione della famigliaPassalacqua

DOVE DORMIREDIMORA SANT'ELIGIOVia Bernardino Rota 36Tel. 081-268165Camera doppia da 85 euro, con colazione

DOVE GUSTAREGAMBRINUSVia Chiaia 1Tel. 081-417528

DOVE COMPRAREMEXICOVia Scarlatti 69Tel. 081-5565865

Napoli

Davide Scabin presiede alla cucina di “Combal.Zero”

ristorante gourmand del Museo d’Arte di Rivoli

Il caffè fa capolino in alcuni dei piatti più intriganti

fino alla carta monodedicata

Il piacere in un gesto. Il tempo di portare ledita al manico della tazzina, e il palato sagià cosa l’attende: caldo, carezzevole,corroborante, l’espresso regala a chi lobeve una piccola magia tradotta in sorsi:addirittura in gocce, secondo i puristi na-

poletani. Difficile sottrarsi alla malia della taz-zulella: ne consumiamo davvero tante, unaquantità di chicchi pari a quasi sei chili a testaper anno, di cui il settanta per cento fuori casa.L’espresso da bar, infatti, è un contrappunto ir-rinunciabile nell’incedere della giornata, dalprimissimo, ingollato all’inizio della giornatalavorativa, a quello gustato per ultimo, ben sa-pendo l’ora oltre la quale rischie-remmo una notte insonne (al di làdei pochi che si fanno beffe dellacaffeina, vantando sonni da pri-ma infanzia anche dopo ripetuticaffè pre-notturni).

Ritualità o golosità che sia, tro-varlo buono — ma buono davve-ro — è sempre più difficile. Certo,se ci confrontiamo con l’estero, lavittoria è facile, anche se negli ul-timi anni Illy e Lavazza hannopromosso una straordinaria cre-scita nel livello dell’offerta, soprattutto nellegrandi città del mondo. Fatte le dovute eccezio-ni, quando torniamo da un viaggio, il primocaffè italiano sembra meraviglioso. Ma le cosenon stanno esattamente così, se è vero che po-che settimane fa l’Istituto internazionale assag-giatori caffè ha bocciato la metà degli espressiabitualmente serviti nei nostri bar.

Strangolati dalla fretta, abbiamo abdicato al-la ricerca della qualità, quella che ci faceva chie-dere al barista: «Vorrei un buon caffè», mentreoggi l’unico aggettivo riguarda la modalità dipreparazione. Corto, lungo, macchiato caldo ofreddo, latte a parte, doppio in tazza grande: so-lo pochi stoici sono ancora disposti a fare unamanciata di isolati in più, pur di ritrovare sem-plicemente il gusto di un espresso coi fiocchi.

Non a caso, tra i grandi marchi, quelli più

proiettati sui nuovi consumi — in aumento intutto il mondo — diversificano l’offerta per ade-guarsi alle modalità di consumo giovanile: sullascia delle grandi catene internazionali, primafra tutte Starbucks, l’espresso viene arricchito (oirrimediabilmente rovinato, dipende dai puntidi vista) da una crescente varietà di topping, le“guarnizioni” americane: caramello, cioccola-to, creme aromatizzate, succhi.

A difendere il baluardo dell’origine, soprat-tutto i torrefattori artigiani, capaci di andare ascovare nei dock dello sterminato porto di Trie-ste le “partite” ignorate dai grandi commer-cianti, perché troppo esigue o fuori dai circuiti

abituali. Grazie a loro, sipossono assaggiare espres-si meravigliosi, dagli aromiinusuali e meravigliosi,lontanissimi dai gusti caffèstandardizzati. Purtroppo,l’elenco dei benemeriti siriduce ancora più drastica-mente quando si affronta iltema del costo etico ed eco-logico di un prodotto dellaterra con uno strabiliantegiro d’affari planetario, in-

feriore solo a quello del petrolio. A fronte di tan-to denaro — tra broker sempre più potenti emultinazionali pronte a fagocitare anche le ulti-me briciole di mercato — i piccoli produttori e lefamiglie dei raccoglitori sono sotto scacco.

Se volete unire l’utile al dilettevole, fate riferi-mento all’organizzazione Coffee Kids che ope-ra nei Paesi produttori, aiutando i figli dei lavo-ratori delle piantagioni. Tra gli affiliati italiani, iBambini del caffè, l’associazione creata dal ve-neziano Bernardo della Mea, fondatore di quelCaffè del Doge che seleziona e tosta alcune tra lemigliori produzioni artigianali del mondo. Perguidarvi tra gli indirizzi migliori, a inizio ottobresarà in libreria la nuova edizione della Guida deibar del Gambero Rosso: tre tazze per i locali piùmeritevoli, tre chicchi per gli espressi da nonmancare. Latte rigorosamente a parte, please.

LICIA GRANELLO

Il piacere in tazzinache ferma il tempo

ASSAGGI & CAMPIONATIAutunno caldo per il caffè espresso

Il 30 e 31ottobre, secondoInternational Coffee Tasting a Brescia:

150 caffè di tutto il mondo giudicatidai membri dell’Istituto internazionale

assaggiatori caffèDal 13 al 15 novembre, Trieste Espresso

Expo Nei giorni della fiera,terzo European Team Coffee Challenge campionato europeo baristi a squadre

RistrettoNell’espresso di scuolanapoletana, la stessaquantità di caffè (settegrammi) di un espressonormale, viene infusa in metàacqua. All’estero, si usa il termine “corto”

MacchiatoPrevede l’aggiunta di latte,(direttamente nella tazzinao servito a parte), sia caldoche freddo. L’unionetra la caffeina e il grassodel latte creaun mix affatica-fegato

LungoIl più amato da chi temegli effetti nervini del caffèIn realtà, allungando il tempod’infusione, nella tazzinaaumenta anche la dosedi caffeina. Meglio allungarecon acqua calda a parte

DecaffeinatoLa caffeina viene ridottaallo 0,1per cento (secondonormativa), utilizzandoprocedimenti diversi: acquaanidride carbonica, acetatodi etile, cloruro di metileneo per liofilizzazione

‘‘Domenico ModugnoQuanno nasce tu siente ’o bebè

che dice “nguè nguè,nu poco ’e cafè”

e l’inglese se scorda d’o thèse viene a sape’ ’nespresso che d’è

Da O’ CCAFÈ

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 28 SETTEMBRE 2008

Qualità e gusto, socialità e velocità. Na-turalmente in tazza piccola. È il segre-to di un grande espresso. Ovvero la viaitaliana al caffè. Sinonimo di un pia-cere breve ma intenso. Fatto appostaper un tempo che si fa sempre più cor-

to, sincopato, fatto di sensazioni da consumare alvolo. Ma in mezzo agli altri. Senza farsi mancarenulla. Soprattutto quel modo di scambiare idee,opinioni, informazioni, gossip, riflessioni, quasisempre sui massimi sistemi. L’universo in pochicenni. Quel che si dice chiacchiera da bar. Nulladi più superfluo ma nulla di più essenziale, alme-no per gli italiani. È per questo che il tempio del-l’espresso è il bar. Luogo ad alta densità, fatto ditempi che si incastrano e di persone che si incon-trano a velocità sempre maggiore. Dove i pochiminuti per bere un caffè diventano gocce di tem-po concentrato: ristretto ma di grande qualità.Come l’espresso. Che spezza la nostra routinecon brevi intervalli che cadenzano la nostra vitadandole un ritmo. Proprio come nella musica do-ve le pause sono indispensabili alle note. La pau-sa caffè, ormai glocalizzata in coffee break, è la so-spensione che ci rimette in armonia con noi e conil mondo. Ci resetta il corpo e la mente.

In questo senso la storia del bar in Occidente èindissolubilmente legata alla travolgente fortunadel caffè. Esiste una stretta corrispondenza tra ilritmo sempre più veloce della modernità e le pro-prietà eccitanti del caffè, tra il gusto amaro e fortedell’arabica e le lucide emozioni del business. Iprimi caffè nascono nell’Europa del Seicento e so-no locali dove ci si riunisce per gustare profumatemiscele e per conversare, ma anche per conclu-dere affari, per tener d’occhio la concorrenza: og-gi si direbbe per ottimizzare le relazioni.

Se il caffè è stato l’emblema della modernità na-scente, il bar è il simbolo della modernità trion-fante. Nasce dall’accelerazione sempre maggioredei ritmi di vita imposta dalla rivoluzione indu-striale e dall’esigenza di conciliare i tempi dellaproduzione, del consumo e delle relazioni socialisenza sacrificarne nessuno. Un consumo di mas-sa tanto che nella Londra di metà Ottocento si con-sumavano la bellezza di cinquantamila caffè algiorno. Una cifra sorprendente, e non solo perquegli anni.

E se il centro ideale della coffee house era la sa-la, è il banco ad essere il centro ideale del bar. Ebanco, in inglese bar, significa letteralmente la“barra”, l’asse dove ci si appoggia. Il confine inva-licabile che unisce e divide i ruoli del barista e del-l’avventore, che detta forma e tempi delle rela-zioni personali, rendendole mobili e flessibili. Ilconsumo è rapido come i discorsi che ci si scam-bia stando in piedi.

L’introduzione del banco è dunque un’inno-vazione che rende possibile un turn over conti-nuo dei clienti. Accelera la consumazione esatta-mente come la ferrovia il viaggiare e il telaio mec-canico la tessitura. Se la barra è a tutti gli effetti ilnastro trasportatore della fabbrica del gusto, pernoi, figli della postmodernità, il bar è anche un in-sostituibile ammortizzatore dei nostri interim, lacamera di decompressione tra i pieni e i vuoti chescandiscono la giornata della società interinale.Luogo familiare e al tempo stesso scena di incon-tri sempre nuovi, il bar — che sia quello sotto ca-sa o quello anonimo di un aeroporto interconti-nentale — è un plus-locale dove è possibile con-sumare di tutto. Anche se la sua ragion d’essereresta sua maestà il caffè. Tant’è che da sempre è illogo della miscela a dare nome e blasone al bar.Assieme, ça va sans dire, alla mano del barista checompie il prodigio di trasformare acqua bollentee polvere nel fast drink più famoso del pianeta.L’oro nero che fa scorrere un po’ d’Italia nelle ve-ne del mondo.

Vite velocial banco del bar

MARINO NIOLA

Espresso

MacinatoL’espresso da bar partedalla polvere di caffè, derivatada miscele o monovarietà. Sceltadei chicchi, attenzione al gradodi macinatura e giusta pressionedella macchina fanno la differenza

CialdaGarantisce un espresso di buonafattura, facile — basta inserirlanel porta-filtro della macchina — e “pulito”, senza dispersionedi caffè. Il prezzo in compensoè quasi doppio rispetto al macinato

CapsulaNel mini-contenitore monodosedi alluminio o plastica, la polveredi caffè viene infusa in manieraparticolarmente omogeneaRispetto alla cialda di cartanegativo l’impatto ecologico

IperespressoLa capsula brevettata dalla Illypermette di elaborare l’espressoin due fasi: iperinfusionea pressione elevata ed emulsioneattraverso la valvola interna,per un caffè cremoso e persistente

la quantità di caffèideale per un espresso

7grammi

le tazzine consumateogni giorno fuori casa

70 milioni

la pressione in chilogrammida esercitare sul filtro

20

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45DOMENICA 28 SETTEMBRE 2008

le tendenzeSchool Style

Mentre il ministro Gelmini propone il ritorno

del grembiule nelle scuole, gli stilisti ne realizzano

la versione per donne adulte. Gonne a ruota, camiciebianche e mocassini sono gli ingredienti principalidi una moda che coniuga austerità e ironia

Per amanti del look wasp, sulle orme di Ali MacGraw

Il grembiulino veste Prada. Dimenticati per anni in sof-fitta tra palline di naftalina e foto scolorite, i grembiulitornano protagonisti. La storia è nota: da qualche me-se, complice la proposta del ministro Gelmini, il severogrembiule ha riconquistato a sorpresa fama e notorietà.D’improvviso è diventato simbolo di modernità mista

a rigore, mettendo nell’angolo le infinite possibilità di un ab-bigliamento libero e scapestrato.

Ma, e questa è la notizia, il grembiulino è uscito prepotente-mente dal ristretto circolo dei banchi di scuola. E, quasi senzafare rumore, è scivolato sui tappeti rossi della haute couture.Un passaggio inaspettato che ha colto di sorpresa le donne an-cora legate all’immagine scolastica del capo di abbigliamentoriservato per tradizione ai minori di dieci anni. Adesso, per que-gli strani casi della vita, il grembiulino è investito di una luceglamour. Tramontano le fantasie spericolate in favore di quelcamicione che, se pur rivisitato, non esce dall’assoluto del mo-nocolore. Le scollature abissali sono archiviate in favore di ununico e casto vezzo: il colletto bianco bene allacciato attorno alcollo. La parola grembiulino, alla luce degli ultimi colpi di sce-na, assume insomma una connotazione positiva e modaiola.Come si dice: ha tutta un’altra allure.

Naturalmente il grembiulino per adulte, o meglio l’abito chevelatamente lo riporta alla memoria, richiede una predisposi-zione generale. O, in alternativa, una buona dose d’ironia. Ladonna che sceglie il look grembiulino è quasi sempre un’in-guaribile Lolita. In seconda battuta, variabile non trascurabi-le, è un’esponente del vecchio e inossidabile genere wasp. Diquello stile cioè molto americano e da sempre teso alla como-dità, alla classe, all’understatement e alle vacanze negli Hamp-tons. Segni particolari? Il mocassino è il capo per eccellenza, lagonna a ruota il vezzo insostituibile e la camicia bianca una ne-cessità. La vera wasp, che nei casi più incontrollati sembra unacaricatura del film Love Story, segue poche ma chiare regole:bandisce i tacchi, non indossa mai abiti sopra il ginocchio e

predilige un trucco acqua e sapone. Un insieme in cui, ovvia-mente, il “grembiulino style” calza a pennello. Per fortuna i sa-pienti designer della moda hanno impreziosito il tutto con toc-chi decisamente inaspettati. Ecco dunque il raffinato abito dasera senza maniche di Moschino o il delicato tailleur gonna egiacca di Chanel che sarebbe tanto piaciuto a madamoiselleCoco. Una versione quasi concettuale del grembiulino è quel-la che ha sfilato per Gianfranco Ferré. Punta decisamente sulpreppy, con la cravatta e gli stivali da cavallerizza, la donna diPaul & Shark. Anche gli accessori sono rivisitati con un tocco diglamour: il mocassino dei Fratelli Rossetti è appena rialzato, lastringata di Church’s è lavorata in stampa rettile mentre il tac-co diventa vertiginoso per la scarpa di N. O. D. Per non parlaredelle borse: le sacche fashion sono sostituite da una trionfantecartella. E parallelamente la richiesta dei grembiulini, quelliveri, subisce un’impennata. Le aziende produttrici come lastorica Siggi (più di un milione di capi prodotti ogni anno), han-no prontamente riassortito i magazzini in vista di una richiestache, per il 2009, pare sarà del 30 per cento in più.

GRANDE SOIRÉELa gran seradi Moschinoè decisamente“grembiulinostyle”: pettorinabianca e rigidascollaturasquadrataUnica nota sexy:le braccialasciate nude

INSOLITO MIXInsolitoaccostamentodi nero e bluper il grembiulinorivisitato in formaquasi geometricada FerrèGli accessoriobbligati sonole calze bianchee le scarpe severe

SEVERO TWEEDTailleur neroin tweeddi lana con collo,polsi e orlodella giaccain taffetà biancoper ChanelIl collo è chiusoda un fioccoa forma di cameliain satin nero

NOTE CHICPer unascolarettaall’ultimamodagli allegriquaderniFabrianoBoutique

COLORI PLURISENSORIALIÈ insieme matita colorata, acquerelloe pastello di cera la matitona di StabiloWoody 3: un vero e proprio pennello

PERFETTAMENTE RETRÒCappello di gusto d’antan in feltronero di Furla. È perfettoda abbinare con i cappottinibon ton per completare il lookda primo giorno di scuola

BON TON SULLE MANISono da brava ragazza i guantiin pelle, disponibili in più colori,di Mauro Grifoni con impunturea contrasto e bottoncinoper una perfetta chiusura antivento

CLASSICO EVERGREENÈ il mocassino che non deludemai quello proposto dai FratelliRossetti. Piacerà anchealle piccole perché regala qualchecentimetro nel tacco quadrato

PELLE E TECHNOCartella in pelle con trattamentoal poliuretano per la borsaMandarina Duck idrorepellenteabbinata a un tessuto in nylonpoliestere impermeabile

STRINGATA AL TOPÈ insieme classica ed elegantela scarpa stringata maschiledi Church’s, modello Talia,in vernice nera e stampa rettilePer chi non vuole sbagliare

CARTELLA SOLAREGiallo Donald Duck per la borsadi De Couture. I manici rigidiaccentuano l’effetto cartella e,come a scuola, c’è un cartellinosu cui scrivere il proprio nome

IRENE MARIA SCALISE

Le nuove Lolite in divisa

PREPPY WOMANPiacerà alle più

giovani il lookda preppy girl

propostoda Paul & Shark:

gonna al ginocchiogolf con stemma,cravatta maschile

e stivalialla cavallerizza

bicolori

Repubblica Nazionale

Page 14: omenica CORRADO AUGIAS eFILIPPO CECCARELLI DOMENICA …download.repubblica.it/pdf/domenica/2008/28092008.pdf · 2008-09-28 · del West-Eastern Divan crede che qualsiasi progresso

46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28 SETTEMBRE 2008

‘‘

‘‘l’incontroRagazze d’oro

Curioso che lo dica lei. Famosa sì perl’oro di Pechino, ma anche per le sueesternazioni sul sesso, ed in generaleper i suo non tirarsi indietro sugli argo-menti tabù. È diventata personaggiosenza volerlo fino in fondo. «Ma va là,non mi ci fare pensare. Mi fregate con levostre trappole, con quelle domandinebuttate qua e là, e poi usate le rispostecome vi pare…». Perfino mamma Cin-zia non può più nulla, sull’argomento:«Fede, mi raccomando quando ti chie-dono del ses…». «Mammaaa!». Per que-sto non poteva che crescere in un paesi-no di passaggio: Spinea, ventiseimilaanime proiettate giornalmente versoqualcos’altro. Venezia tanto per direquello più scontato. Ma Fede è un ar-chitetto di magia. Ha viaggiato, non so-lo di fantasia. Un viaggio continuo, contappe tante e soste poche: Milano, Ve-rona. E Atene, Montreal, Melbourne fi-no a Pechino. «Che curioso, i cinesi han-no invaso Spinea, ed io sono dovuta an-dare a prendermi la gloria in Cina».

È tornata a casa (con annessa grandefesta comunale e diretta tv solo per lei),ma ha trovato cambiamenti. La storicastanzetta in via Parini, dove dormivacol fratellino Alessandro, è rimasta lì. IPellegrini dalla vigilia delle Olimpiadiabitano in via Saba, dietro la chiesettadi Santa Bertilla, sempre una traversadi via Roma. «C’è sempre una chiesa:prima stavamo accanto a quella di SanVito e Modesto. Ora m’affaccio e vedoun campetto di calcio». Almeno nondovrà dividere lo spazio. I suoi eranopreoccupati, prima del trasferimento,di come potesse prenderla: «Sembrache la casa le vada a genio». Federica haaccettato, ma ha preteso che nessunmobile venisse spostato dall’altra casa.Neppure uno spillo: «Perché vorreicomprarla, tenerla per me». Troppoforte la nostalgia per la sua cameretta, ilricordo del vecchio lettuccio a pontesotto l’armadio, i momenti degli acca-pigliamenti con papà e Alessandro so-pra e sotto le lenzuola.

La Marco Polo in costume olimpio-nico che ha sbancato la Cina degli anniDuemila è tutta nel microcosmo fami-liare. Nei suoi simboli, nei suoi riti. La sipuò scoprire attraverso le sue cose: «Gliodori. Le coccole. Le abitudini. I sim-boli. Altro che bambola sexy, chiedeteai miei. Loro sapranno rivelarvi chi so-no io, per questo non si sono mai scan-dalizzati». Qualunque altro genitore loavrebbe fatto, davanti a foto non gradi-te e rivelazioni intime su carta patinata.Ma non i Pellegrini. Non Roberto, coc-ciuto e carnale come la figlia. Non Cin-zia, custode dei segreti e protettricedelle sacre chiavi. La femme fatale inrealtà è una specialista delle coccole:«Le voglio, le pretendo. Mamma sa,quando allungo un braccio, cosa stochiedendo, e mi accontenta sempre».Grattatine e fusa si sprecano, in questacasa veneziana. Proprio nulla di pecca-minoso.

Però le dolcezze finiscono dentro le

Gregoris, il panin col ciccio a Jesolo e,fin quando andavo a scuola, il diariosempre nuovo di zecca, sempre a Jeso-lo. Sono queste le mie cose. Non cerca-te marachelle, corse notturne, bevuteoltre i limiti, scappatelle: non le trove-rete». Viva la semplicità, padroni di noncrederci. Ma non la sfidate: «Sono in-quadrata, disciplinata. Ad ogni do-manda rispondo a tono. Non evito lecose, non ci giro intorno. Dico come lapenso, e pazienza se le mie parole ven-gono diversamente utilizzate, qualchevolta perfino strumentalizzate. Ci sonoaltre cose nella vita».

Quali? La sua famiglia, tanto per ri-peterlo fino alla noia. «I miei sono feli-ci, vorrei avere una famiglia come lo-ro». Lei per la famiglia, la famiglia perlei. Anni di chilometri in macchina e dimotori fusi. C’è anche questo, nel retrodel palcoscenico di una medaglia d’o-ro. E attese, lontananze. «Lo so chemanco alla mia famiglia, ma loro nonme lo fanno pesare. Sanno che faccioquel che mi piace, che lo faccio senzaalcun peso. E mi appoggiano, mi han-no sempre appoggiato». Lo dicono lestatistiche di mamma Cinzia: quintalidi tute, magliette e pantaloncini lavatie stirati senza fiatare: «Quando sono acasa mi sbrago completamente, è lamia maniera per rilassarmi e scaricarela tensione. Sono un ciclone: tantomamma pulisce...».

Non tutto è stato però lustrini e pail-lettes. Fede ha vissuto flop e cadute.«Come quando sono andata a Milano,e le cose non sono andate come volevo.Troppo piccola per vivere da sola, pro-prio mentre diventavo donna, consa-pevole di me stessa». Un tonfo epocale,per dirla con parole appropriate. Ma bi-sogna pur cadere, per rialzarsi, no?Quei momenti bui sono descritti in undiario, quello di papà Roberto (gli hadato un titolo: Con gli occhi di papà)che, esattamente dopo i Mondiali diMontreal, anno 2005, annotava congrande dolore: «È seconda. Sale dall’ac-qua, si avvicina ai microfoni Rai e pian-ge di rabbia… Per non aver nuotato co-me si aspettava… Non sopporta quellamedaglia, continua a piangere. Noi,dall’altra parte del mondo, a vederlache piange davanti alle telecamere èuna cosa che ti spacca, sapendo che lapargola piange solo nei casi estremi…A distanza di qualche mese siamo riu-sciti a sapere qualcosa, anche se non nevuole parlare e se lo tiene dentro, comese una pallottola ti fosse arrivata vicinoal cuore e non si può intervenire senzarischiare di morire».

Meno male che è sopravvissuta. Edha avuto il tempo per togliersi qualchesfizio, come le scommesse contropapà. Le ha vinte tutte, tranne una chedeve però ancora onorare (una crocie-ra…), ma ci ha guadagnato — nel tem-po — tatuaggi e perfino una borsa Guc-ci. Sembra ieri: «Papi, ti giochi la borsaper il record dei 400 stile libero?». «Quelrecord ha cento anni». «Paura?». «Fat-

mura di casa. All’esterno Fede ritornadura e pura. «Non mi piacciono le dise-guaglianze, le odio». Però, per il mo-mento, non c’è il tempo di approfondi-re, aggiustare le cose storte della vita. Ilnuoto è uno sport che fagocita, una di-sciplina che non prevede distrazioni.Non c’è possibilità, ti spreme total-mente. «Che ne sai del mio pentolino dispaghetti mangiato di fretta e furia inmacchina. Certo, l’avranno fatto an-che altri, ma io non ci sono passata in-denne. E non lo dimentico mai». Avevasolo dodici anni. «E delle sveglie primadell’alba per gli allenamenti? Non par-liamone». Dopo il tuffo, dritta, puntua-le alle otto, a scuola. «Sempre promos-sa, senza regali». Negli Stati Uniti d’A-merica, in Inghilterra sarebbe stato piùfacile, con la loro filosofia del college.«Meno male che il preside era com-prensivo».

Ma i riti segreti? Le piccole cose?. «Cisono, certo: il mio cappuccino con tan-ta schiuma dalla Mara. La biancheriaintima da Moulin Rouge. A Mestre, lemie scarpe con i tacchi alti. La pizza da

ta». E un paio d’anni prima: «Papi, vin-co gli Assoluti e mi faccio un tatuaggiocome la Franziska. Ci stai?». «Fede, seipiccola per il tatuaggio… E poi non vin-ci». «Scommetti se hai il coraggio». I tat-toos oggi sono diventati cinque.

Cosa ci è rimasto da dire di Federica?Gli uomini, naturalmente. «Roberto, ilmio papà. Numero uno». E poi «Massi-miliano detto Max, che mi scoprì, miplasmò, mi disciplinò e poi mi perse:forse perse anche se stesso». Alberto, ilcoach «che dovrebbe essere saggio, mamica tanto. Che mi dice “siete voi gio-vani che dovete adeguarvi a me, non ioa voi”. Che mi fa incavolare, che mi fa lesparate. Però mi fa vincere e si com-muove ai miei record». E Stefano, il Mo-ro: «Gigante che mi fa sudare e mi pro-tegge». Marco, «che dietro le quinte miprotegge dai media in malafede». EGiovanni, «il mio presidente. Come micura lui, nessuno. Mi ha viziato, mi hasalvato». Infine Luca: «La mia metà. Tresettimane in vacanza senza mai litiga-re. La nostra storia è quasi come il filmC’è posta per te. L’amico con cui convi-vi per anni e l’amore che sboccia quan-do meno te l’aspetti».

Insomma, non era nata per passareinosservata. «Questa sono io con i mieivent’anni. Si cerca non so cosa nellamia vita, mi si fanno mille domande, al-cune veramente strane. Ma io sono an-che quella vicina alle tematiche che ri-guardano le persone anoressiche o condisturbi alimentari, quella che cerca disensibilizzare gli altri attraverso l’Ad-mo, l’Associazione donatori midolloosseo. Però questo non lo leggo mai,mentre sulla mia passione per i tacchialti ho visto versare fiumi d’inchiostro.Ma chissà, penso che per i miei primiquarant’anni riuscirò a cambiare latendenza. Peccato che non sarò piùnuotatrice».

Questa sono io,con i miei vent’anniSi cerca non so cosa

nella mia vita:

sulla mia passione

per i tacchi alti

ho visto versare

fiumi d’inchiostro

“Sono inquadrata, disciplinata

Ad ogni domanda rispondo a tono,

non ci giro intorno”, dice di sé

la campionessa olimpionica

dei duecento metri stile libero,

classe 1988

Un talento unico,

una determinazione

feroce, una famiglia

che è il suo vero rifugio

e non le nega mai

le coccole che lei

“vuole e pretende”

“Altro che bambola sexy”, sbuffa,“che ne sapete delle sveglieprima dell’alba per gli allenamenti?”

PAOLO ROSSI

SPINEA (Venezia)

Non è nata per passareinosservata. La prima adaccorgersene fu la pueri-cultrice di turno tra il 4 ed

il 5 agosto del 1988 presso l’ospedale diMirano, rincorsa in corsia alle cinquedella mattina da un papà Robertopreoccupato che gli scambiassero quelbel fagotto gigante e urlante di oltrequattro chili: «Non ce n’era bisogno,era la più grande del gruppo...». Se n’èaccorto il mondo vent’anni dopo, allequattro e spiccioli della mattina del 13agosto 2008, giorno della prima meda-glia d’oro femminile del nuoto italiano.

Federica Pellegrini giura però chenon lo fa apposta: «Non sbavo per finiresulle copertine». Non ce n’è mica biso-gno, anche la sovraesposizione media-tica è nel suo dna, in cui già convivonoin simbiosi un talento unico ed una de-terminazione feroce. «Sono storie chevi inventate tutti voi: parenti, amici, fi-no ai giornalisti. Io sono sempre una ra-gazza di vent’anni, e con le idee di unaragazza di vent’anni». Vero e falso. Verii suoi vent’anni, falso che tutte le ven-tenni vincano un oro olimpico. Non tut-te nuotano come lei, non tutte indiriz-zano la loro vita verso un unico obietti-vo, escludendosi dal resto del mondo,focalizzando ogni energia su quel so-gno: «Tante volte le mille cose della vitarischiano di distrarti…». Invece le suecoetanee di Spinea vivono di strusci e dimuretti. Non lei. Che talvolta si arrabbiaquando, guidando la sua Fiat 500 (chealtro colore non poteva avere che cele-ste acqua) e vedendo look femminiliche non le aggradano, esplode con unodei suoi proverbiali «ma che gentaglia,ma come si vestono?».

Federica Pellegrini

FO

TO

LA

PR

ES

S

Repubblica Nazionale