DOMENICA APRILE 2008 di MAURIZIO CROSETTI eCARLO...

20
DOMENICA 27 APRILE 2008 D omenica La di Repubblica NEW YORK «I l telefono squilla alle quattro del mattino; ri- spondo; un’amica grida: “Sono arrivati i russi”. Penso ad uno scherzo e abbasso. Suona una se- conda volta, non ci credo e riattacco di nuovo. Al- la terza telefonata la voce urla: “Apri la finestra e ascolta”. Mi al- zo, metto la testa fuori per due minuti e sento il rumore degli ae- rei militari. Capisco che sta succedendo qualcosa. Mi vesto in fretta, prendo la macchina fotografica e tutte le pellicole che mi sono rimaste, ero tornato il giorno prima dalla Romania dov’e- ro stato a fotografare gli zingari. Scendo in strada, comincia ap- pena ad albeggiare, istintivamente mi dirigo verso la sede della radio, a meno di un quarto d’ora da casa. I russi erano andati al- la radio anche nel 1945. Ma allora erano venuti per liberarci». (segue nelle pagine successive) MARIO CALABRESI PARIGI E rano circa le tre, nella notte tra martedì 20 e merco- ledì 21 agosto 1968, quando i praghesi furono sve- gliati da un rumore grave e forte, sempre più intenso. Un brontolio sordo. Sulle loro teste si muoveva il pon- te aereo più importante organizzato nel cuore dell’Europa dalla Seconda guerra mondiale. Vibravano le vetrine di piazza San Ven- ceslao, lunga come un ippodromo e dominata dall’imponente Museo nazionale che poche ore dopo sarebbe stato scalfito dai proiettili dell’Armata Rossa. Quello che sembrava un intermina- bile tuono echeggiava nei cortili dei solenni palazzi di Mala Stra- na, ai piedi del Castello di Hradcany. E investiva le facciate liberty allineate sulla Moldava e sulla stravagante via Parigi, tra il fiume e il ghetto defunto. (segue nelle pagine successive) BERNARDO VALLI cultura L’occhio, il re dei simboli DANIELE DEL GIUDICE la lettura Quando Lawrence incontrò Tolkien STEFANO MALATESTA e WU MING 4 spettacoli Il ritorno delle canzoni ribelli EDMONDO BERSELLI e SILVANA MAZZOCCHI FOTO JOSEF KOUDELKA / MAGNUM / CONTRASTO la società Bambini-contadini a lezione di orto l’attualità Il Campidoglio, colle del potere ANDREA CARANDINI e FILIPPO CECCARELLI A quarant’anni dall’invasione dei carri armati sovietici un libro raccoglie lo straordinario reportage del grande fotografo ceco. Ecco le immagini mai viste che costarono al loro autore vent’anni di esilio la Primavera di Koudelka Praga ’68 MAURIZIO CROSETTI e CARLO PETRINI Repubblica Nazionale

Transcript of DOMENICA APRILE 2008 di MAURIZIO CROSETTI eCARLO...

Page 1: DOMENICA APRILE 2008 di MAURIZIO CROSETTI eCARLO …download.repubblica.it/pdf/domenica/2008/27042008.pdf · se cosa viva, è un pezzo della sua vita e si accende in continuazione

DOMENICA 27 APRILE 2008

DomenicaLa

di Repubblica

NEW YORK

«Il telefono squilla alle quattro del mattino; ri-spondo; un’amica grida: “Sono arrivati i russi”.Penso ad uno scherzo e abbasso. Suona una se-conda volta, non ci credo e riattacco di nuovo. Al-

la terza telefonata la voce urla: “Apri la finestra e ascolta”. Mi al-zo, metto la testa fuori per due minuti e sento il rumore degli ae-rei militari. Capisco che sta succedendo qualcosa. Mi vesto infretta, prendo la macchina fotografica e tutte le pellicole che misono rimaste, ero tornato il giorno prima dalla Romania dov’e-ro stato a fotografare gli zingari. Scendo in strada, comincia ap-pena ad albeggiare, istintivamente mi dirigo verso la sede dellaradio, a meno di un quarto d’ora da casa. I russi erano andati al-la radio anche nel 1945. Ma allora erano venuti per liberarci».

(segue nelle pagine successive)

MARIO CALABRESI

PARIGI

Erano circa le tre, nella notte tra martedì 20 e merco-ledì 21 agosto 1968, quando i praghesi furono sve-gliati da un rumore grave e forte, sempre più intenso.Un brontolio sordo. Sulle loro teste si muoveva il pon-

te aereo più importante organizzato nel cuore dell’Europa dallaSeconda guerra mondiale. Vibravano le vetrine di piazza San Ven-ceslao, lunga come un ippodromo e dominata dall’imponenteMuseo nazionale che poche ore dopo sarebbe stato scalfito daiproiettili dell’Armata Rossa. Quello che sembrava un intermina-bile tuono echeggiava nei cortili dei solenni palazzi di Mala Stra-na, ai piedi del Castello di Hradcany. E investiva le facciate libertyallineate sulla Moldava e sulla stravagante via Parigi, tra il fiume eil ghetto defunto.

(segue nelle pagine successive)

BERNARDO VALLI cultura

L’occhio, il re dei simboliDANIELE DEL GIUDICE

la lettura

Quando Lawrence incontrò TolkienSTEFANO MALATESTA e WU MING 4

spettacoli

Il ritorno delle canzoni ribelliEDMONDO BERSELLI e SILVANA MAZZOCCHI

FO

TO

JO

SE

F K

OU

DE

LK

A / M

AG

NU

M / C

ON

TR

AS

TO

la società

Bambini-contadini a lezione di orto

l’attualità

Il Campidoglio, colle del potereANDREA CARANDINI e FILIPPO CECCARELLI

A quarant’annidall’invasione dei carri

armati sovietici un libroraccoglie lo straordinario

reportage del grande fotografoceco. Ecco le immagini mai viste

che costarono al loro autorevent’anni di esilio

la Primaveradi Koudelka

Praga ’68MAURIZIO CROSETTI e CARLO PETRINI

Repubblica Nazionale

Page 2: DOMENICA APRILE 2008 di MAURIZIO CROSETTI eCARLO …download.repubblica.it/pdf/domenica/2008/27042008.pdf · se cosa viva, è un pezzo della sua vita e si accende in continuazione

34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 27 APRILE 2008

È l’alba del 21 agosto 1968A Josef Koudelka telefona un’amica:

“Sono arrivati i russi”

LA GENTE CANTA L’INNO NAZIONALE DAVANTI AL PALAZZO DEL COMITATO CENTRALE DEL PARTITO COMUNISTA CECOSLOVACCO LA REAZIONE DELLA FOLLA ALL’ARRIVO DEI BLINDATI

la copertina

Un fotografo contro i tank(segue dalla copertina)

«La prima cosa che ve-do è un automobiled’epoca con il tettoscoperto che suonasenza sosta il clacsonper svegliare la città,

a bordo ci sono tre ragazzi e una ragaz-za con una bandiera ceca. Gridano lastessa frase che ho sentito al telefono: “Irussi sono arrivati”».

La foto della macchina in corsa, chepercorre Avenue Stalin, è la prima cheJosef Koudelka, trent’anni, scatta quel21 agosto del 1968. La prima di duecen-to rullini. La prima di uno dei più gran-di reportage della storia della fotogra-fia: la testimonianza della repressionedella Primavera di Praga nel sangue.Duecento pellicole che costeranno alsuo autore vent’anni di esilio.

Sono passati quarant’anni, Kou-delka è diventato uno dei più famosi fo-tografi del mondo, ha la barba e i capel-li bianchi, occhialini rotondi, tiene trale mani la prima copia del libro che rac-coglie molte delle foto inedite di queigiorni. Uscirà in otto paesi d’Europa al-la fine di aprile e negli Stati Uniti que-st’estate. Lo sfoglia con cura, come fos-se cosa viva, è un pezzo della sua vita e

si accende in continuazione mentre loracconta. Siamo nella stanza dei foto-grafi nella sede dell’agenzia Magnum,nel quartiere di Chelsea a New York.Due tavoli, due sedie, una catasta di li-bri e fogli sparsi ovunque. Ci si aspette-rebbe un luogo grandioso e autocele-brativo come sede dell’agenzia che rac-coglie l’elite dei fotografi, invece sem-bra la redazione di una rivista di pro-vincia, se non fosse che le ragazze rior-dinano gli scatti di Cartier-Bresson estanno rimettendo a posto le immaginidi Martin Luther King mentre pronun-cia il suo discorso più noto: «I Have aDream», Washington 1963.

Josef Koudelka parlerà senza sostaper novanta minuti, alternando tre lin-gue: inglese, spagnolo e italiano. È nor-male per un uomo che non ha mai avu-to una casa, o meglio che non si è maisentito a casa in nessun luogo.

«La ragazza che mi ha svegliato sichiama Marie Lakatošova, lavorava inuna rivista di teatro, suo padre era ungrande musicista gitano. Ci sentiamoancora: le porterò il libro non appenatorno a Praga. Se sono stato il primo adarrivare, lo devo a lei».

Raggiunge la sede della Radio che irussi non ci sono ancora. «Erano atter-rati all’aeroporto e stavano muovendoverso il centro con dei veicoli leggeri,solo più tardi sarebbero apparsi i blin-

dati e i carri armati». Una piccola follariesce ad anticipare i soldati del Patto diVarsavia e blocca l’accesso alla Radio:«I soldati all’inizio erano confusi e di-sorientati, non sapevano dove fossero,erano sorpresi che non li volessimo.Erano giovani come me e ho pensatoche vivevamo sotto lo stesso sistema eun giorno poteva toccarmi la stessasorte: trovarmi su un blindato da qual-che parte a Varsavia o a Budapest». Li sivede che fumano, discutono e scrutanoi volti delle persone nelle strade e sen-tono ripetere lo slogan: «Vai a casa, oIvan, ti aspetta Natasha».

Le foto sono sfocate, mosse, fruttodella poca luce e della concitazione. «Lagente non li lasciava passare, li insegui-va, riuscì a fermarli, intanto la folla cre-sceva». Koudelka mette a fuoco l’uomoche dirige l’operazione, poi si arrampi-ca sul blindato e comincia a scattare im-magini della popolazione: «Le foto di-ventano come un film, in cui la storiaadesso è vista dal punto di vista oppo-sto, con lo sguardo di un soldato russo.Sono stato fortunato che non mi hannofatto niente, ma all’inizio c’era grandeconfusione e nessuno era preparato».

Koudelka racconta soltanto quelloche ricorda con certezza, e prima diparlare controlla il libro: «Sono passatiquarant’anni e non ti puoi fidare dellamemoria, ma delle foto sì, ti puoi fida-

re». E le foto in bianco e nero mostranola sproporzione tra i carri armati delPatto di Varsavia e quelle che la Pravdail 21 agosto definiva «le forze controri-voluzionarie che minacciano l’ordinesocialista». Ma si vedono soltanto ra-gazzi che gridano, anziani che si metto-no le mani sulla bocca, donne che pian-gono, persone che cantano l’inno na-zionale e una scritta tracciata con il ges-setto sul muro: «Russi, tornate a casa».

Poi i paracadutisti occupano la Radioe per farsi strada i blindati sparano i pri-mi colpi. Una donna viene schiacciatadai cingoli. Ci sono sparatorie. Arriva-no le notizie dei primi morti. Le fotoscandiscono ogni attimo. Bruciano au-tomobili e il cielo si riempie di fumo.Gruppi di giovani disegnano svastichesui carri armati, poi li attaccano. Alcuniprendono fuoco. Un vecchio con il ba-sco e la cartella di pelle tira un sampie-trino. La sera gli incendi bruciano alcu-ni palazzi già distrutti dai proiettili. Poiarriva il coprifuoco. Koudelka entra inuna casa accanto alla sede della Radio etrova alcuni cadaveri, un ragazzo congli occhi spalancati e il sangue che coladal naso. Per tre giorni testimonia la re-pressione, i funerali delle vittime, laprotesta che si fa sempre più silenziosa.Qualcuno ha l’idea di distruggere la se-gnaletica: scompaiono improvvisa-mente i nomi delle vie e delle piazze, i

numeri civici, perfino le targhette suicitofoni, la città diventa anonima. Pra-ga è una città morta per gli ospiti inde-siderati e il motto diventa: «Il postinotrova l’indirizzo, il bastardo no».

«Il secondo giorno i russi mi hannovisto che fotografavo i tank da una fine-stra, hanno pensato che ero un cecchi-no e allora sono entrati nel palazzo pervenirmi a prendere. Mi sono salvatoscappando dai tetti ma prima ho con-segnato tutti i rullini a un ragazzo per-ché li mettesse in salvo». Koudelkascatta senza sosta ma non sviluppa nul-la, non c’è tempo, comincerà a farlo so-lo un mese dopo. Quando tornerà dalragazzo per recuperare le pellicole sco-prirà che quello le ha mandate a Vien-na a Radio Free Europe. «Mi arrabbiai.Non volevo, non mi interessava. Foto-grafavo per me stesso e per la memoria,non per un giornale, non avevo scatta-to per pubblicare».

«Non ho mai fatto foto d’attualità,prima dell’agosto del 1968 mi ero occu-pato solo di zingari e teatro, dopo avreifotografato solo paesaggi e persone.Non mi sono mai interessate le news,non avevo mai visto Life o Paris Match,ma penso di essermi comportato bene.Quella mattina quando sono stato sve-gliato mi sono trovato davanti a qual-cosa più grande di me. Era una situa-zione straordinaria, in cui non c’era

MARIO CALABRESI

QUARTIERE DELLA CITTÀ VECCHIALA GENTE OSSERVA L’ARRIVO DELL’ARMATA DI OCCUPAZIONE

Repubblica Nazionale

Page 3: DOMENICA APRILE 2008 di MAURIZIO CROSETTI eCARLO …download.repubblica.it/pdf/domenica/2008/27042008.pdf · se cosa viva, è un pezzo della sua vita e si accende in continuazione

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 27 APRILE 2008

SGUARDI TRA I SOLDATI SOVIETICI E LE RAGAZZE DI PRAGA

tempo di ragionare, ma quella era lamia vita, la mia storia, il mio Paese, ilmio problema».

Due settimane dopo riesce ad andarea Vienna — «avevo un passaporto otte-nuto durante la Primavera di Praga» —recupera le foto e se le riporta a casa. So-lo un mese più tardi, dopo averle stam-pate, si farà convincere da un’amica adarne cinque a Eugene Ostroff, curatoredello Smithsonian di Washington che leporterà al presidente di Magnum EliottErwitt. Gli fanno sapere che vogliono i ne-gativi: «Non avevo nessuna voglia di con-segnare tutto il mio lavoro ad altri, ma lamia amica, che era la critica d’arte AnnaFarova, mi convinse che erano delle per-sone serie. I negativi arrivarono in Ame-rica nella valigia di un medico che era ve-nuto a Praga per un congresso». Per annirimasero anonime, sul retro delle stam-pe nell’archivio di Magnum c’è un tim-bro con scritto: «Photograph by P.P». P.P.significa fotografo praghese, poi solo nel1984, a penna, è stato aggiunto il nome.

«Ho visto le mie foto pubblicate a Lon-dra nel primo anniversario dell’invasio-ne, nell’agosto del 1969. Era una dome-nica, ero a Londra per seguire e fotogra-fare un gruppo teatrale del mio Paese.Uno di loro comprò il Sunday Times e co-minciò a sfogliarlo, io riconobbi i mieiscatti, l’emozione era grandissima manon potevo dire niente. Rimasi in silen-

zio cercando di non tradirmi. Dovevotornare a casa e non potevo rischiare. Mail giorno dopo riuscii a contattare l’Agen-zia Magnum e loro ebbero l’idea di farmiuna lettera con cui mi invitavano a foto-grafare gli zingari dell’Europa occidenta-le». Tornò a Praga, dove grazie a un ami-co al ministero della Cultura riuscì adavere il permesso di espatriare per tremesi.

Lasciò la Cecoslovacchia il 20 maggiodel 1970. «Me ne sono andato perché ave-vo paura che la polizia scoprisse che eroio l’anonimo fotografo praghese. Nonavevo voglia di finire in galera e sarebbesuccesso perché le mie immagini sono latestimonianza di quello che è successo,sconfessavano le falsificazioni, mostra-vano i morti, smentivano il racconto diquanto fossero contenti i cechi nel vede-re arrivare i russi. Ci sono le foto delle per-sone uccise in mezzo alla strada e quelloproprio non andava bene».

Koudelka era l’unico fotografo chenon si nascondeva: «Correvo da una par-te all’altra, volevo testimoniare tutto,non restare fermo in un solo posto. Mimettevo davanti ai russi e cominciavo ascattare, gli amici mi dicevano che sareistato ammazzato, i soldati pensavanoche fossi pazzo o particolarmente corag-gioso. Ma il coraggio è un’altra cosa, èquello che hanno avuto quei sette russiche sono andati sulla Piazza Rossa per

protestare per l’invasione della Cecoslo-vacchia. Dopo tre minuti li hanno arre-stati e alcuni si sono fatti sette anni di ga-lera. Uno di loro molto tempo dopo hadetto: “Ne è valsa la pena: quei tre minu-ti sono stati gli unici nella mia vita in cuimi sono sentito libero”».

Koudelka avrebbe rivisto Praga sol-tanto nel 1991 quando i genitori eranogià morti: «Mio padre aveva capito chenon sarei tornato, era bastato che gli di-cessi: “Ho fotografato i russi”, e a lui fuchiaro tutto. Faceva il sarto, cuciva leuniformi, mi guardò e mi disse: “Se fos-si giovane, io me ne andrei”. Partii perla Camargue per fotografare i gitani.Novanta giorni dopo avrei chiesto asi-lo politico a Londra».

Koudelka era diventato un uomo libe-ro, le foto invece sarebbero rimaste sen-za padre, anonime, per altri quattordicianni per evitare guai alla famiglia. La de-dica del libro recita: «Ai miei genitori chenon hanno mai visto queste fotografie».«Ci siamo incontrati una sola volta, a Pa-rigi nel 1977: avevano avuto il permessodi uscire per qualche giorno ed erano ve-nuti a trovarmi. Avevo pubblicato da unpaio di anni il libro sugli zingari e glielo re-galai con una dedica molto lunga e affet-tuosa. Ma quando sono partiti il libro erarimasto sul tavolo. Mio padre si giustificòdicendo che era troppo pesante, la veritàè che vivevano nella paura e quella pote-

va essere la prova che il fotografo ero io».L’esilio ha lasciato il segno e cambia-

to una vita: «Oggi vivo dove sono: unasettimana fa ero in Spagna, ieri a Parigi,adesso per sei settimane negli StatiUniti. Per quindici anni non ho pagatoun affitto, ho due abitazioni, una nelcentro di Praga e una nella periferia diParigi, però non sono case ma luoghi dilavoro dove c’è un grande tavolo e tut-to quello che mi serve».

«L’esilio però ti fa due regali: il primoè che ti costringe a costruirti una nuovavita e ti dà la possibilità di farlo in un am-biente nuovo dove nessuno ti conosce eha pregiudizi su di te; il secondo è chequando torni a vedere il tuo Paese lo faicon occhi diversi. Nel 1991 a Praga è sta-to formidabile: ogni mattina mi sveglia-vo prestissimo e cominciavo a cammi-nare per guardare più cose possibile.Quando vivi in un luogo a lungo, diven-ti cieco perché non osservi più nulla. Ioviaggio per non diventare cieco».

Josef Koudelka ha un figlio di tredicianni che vive a Torino. «Quando ho vi-sto che disegnava gli aerei come facevoio da ragazzo mi sono commosso e mi èvenuto da pensare che l’invasione miha regalato una cosa bellissima: se nonfossero arrivati i russi, io non sarei scap-pato e questo mio figlio non esistereb-bero. La prima copia di questo librosarà per lui».

Comincia così, nelle strade di Pragainvasa, uno dei più grandi reportage

della storia della fotografia

IL PRIMO SCATTO

Josef Koudelka quel 21 agosto

1968 aveva trent’anni

L’immagine qui sopra fu la prima

che fermò quella mattina, subito

dopo essere uscito di casa

«La prima cosa che vedo -

racconta oggi - è un’automobile

d’epoca col tetto scoperto

che suona senza sosta

il clacson per svegliare la città

Sopra tre ragazzi e una ragazza

con la bandiera ceca. Gridano:

“I russi sono arrivati”»

Nella foto di copertina

i primi carri armati sovietici

a piazza Venceslao

FO

TO

JO

SE

F K

OU

DE

LK

A / M

AG

NU

M / C

ON

TR

AS

TO

EDIFICI DISTRUTTI DAI PROIETTILI E DAGLI INCENDI SU VIALE VINOHRADSKÁ

Repubblica Nazionale

Page 4: DOMENICA APRILE 2008 di MAURIZIO CROSETTI eCARLO …download.repubblica.it/pdf/domenica/2008/27042008.pdf · se cosa viva, è un pezzo della sua vita e si accende in continuazione

36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 27 APRILE 2008

L’invasione sovietica schiacciòil tentativo di rinnovare

il sistema comunista dall’interno

SULLA STRADA PER HLOUBETIN UN SOLDATO CANCELLA LE SVASTICHE DAL SUO BLINDATO

la copertina

La Primavera insanguinata(segue dalla copertina)

Forse faceva fremere anche imoschettieri di terracotta ap-pollaiati su un tetto di via Pa-rigi, come se dovessero pro-teggere dall’alto l’indimenti-cabile cimitero ebraico che è li

a due passi. In quelle ore la preziosacittà mitteleuropea, resa ancor più ro-mantica, evanescente dalla ventenna-le trascuratezza del regime, era un an-tico, magico lampadario di cristallo,sbrecciato e polveroso, scrollato dauna forza misteriosa, senz’altro infida.

Provati dalle emozioni delle ultimesettimane, non pochi praghesi, i menodecisi, si rigirarono nel letto e cercaro-no di riaddormentarsi. Era evidenteche la capitale era sorvolata da ondatedi aerei a bassa quota, ma per loro do-veva trattarsi di una manovra. Era co-modo pensarlo. E non mancavano glispunti che potevano rassicurare. Lacontroversa, contrastata Primavera diPraga, il processo di rinnovamento co-munista iniziato (o accelerato) il 5 gen-naio con la nomina del riformatoreAlexander Dubcek alla testa del parti-to, al posto dell’ortodosso Antonin No-votny, era arrivata al 204esimo giorno.

E le minacce sembravano per il mo-mento sospese se non proprio svanitedel tutto. Il vertice di Bratislava del 3agosto aveva fatto tirare un sospiro disollievo. Riuniti a congresso, come untribunale di ultima istanza, i capi di cin-que Paesi comunisti (Urss, Bulgaria,Germania orientale, Ungheria e Polo-nia) avevano emesso una sentenza inapparenza assolutoria: avevano datol’impressione di tollerare l’esperimen-to cecoslovacco e di non volerloschiacciare come era accaduto dodicianni prima con lo scisma ungherese. Auna sola condizione: che esso confer-masse la sottomissione totale al Pattodi Varsavia, ossia all’alleanza militarecomunista, dominata dai sovietici.

Questa condizione annessa all’ap-parente assoluzione creava un’equa-zione irrisolvibile. Quindi esplosiva.Bratislava aveva acceso una breve illu-sione. Alla stessa ora, mentre i praghe-si meno sensibili si agitavano nei loroletti infastiditi e impensieriti dal pas-saggio degli aerei, Dubcek e i suoi com-pagni venivano catturati dai paracadu-tisti sovietici nella sede del Comitatocentrale. Dopo le cinque, quel mattinodi mercoledì 21 agosto, al rumore delponte aereo se ne aggiunsero altri piùallarmanti. All’Hotel Esplanade, al-l’angolo di piazza San Venceslao, un

giornalista straniero non ancora deltutto emerso dal sonno pensò a unmartello pneumatico in funzione neiparaggi. Ma a quell’ora non potevanoesserci lavori stradali in corso.

Quei tonfi ritmati, lenti erano quellidi una mitragliatrice pesante, attutitidalla distanza. Quando il cronista as-sonnato si affacciò sulla piazza SanVenceslao scoprì che era affollata co-me in un giorno di festa. La gente eratanta che traboccava nelle strade adia-centi. C’erano molte bandiere. Bandie-re ceche di tutte le dimensioni, svento-late dalle automobili, appese alle fine-stre, in testa a cortei che si incrociava-no, diretti verso il Museo, all’estremitàalta della piazza, o nella direzione op-posta, verso il fiume.

Si avvertiva una disperata esaltazio-ne. I giovani, ragazzi e ragazze, ma an-che gli anziani, uomini e donne, tutti amani nude, avevano voglia di confron-tarsi con gli invasori.

La maggioranza dei praghesi non siera illusa. Era saltata giù dal letto. Nonera stata tanto ottimista da pensare auna manovra militare. L’invasione eraun incubo che accompagnava il Paeseda mesi. Il tuono nella notte d’agosto giàun po’ autunnale non aveva lasciatodubbi: l’invasione era cominciata. E su-bito masse di praghesi si erano rovescia-

te per le strade, prima ancora dell’alba,mentre si accendevano sparatorie sulledue sponde del fiume, e nella parte alta,verso Hradcany. Più che scontri armatierano spari sovietici di intimidazione.Non era la resistenza delle milizie delpartito o dell’esercito nazionale che po-teva fermare l’invasore.

La storia e la cultura hanno insegna-to a un piccolo Paese ritagliato tra im-peri prepotenti, dei quali non può con-trastare la forza, quali sono le forme diresistenza consentitegli dalla ragione:l’ironia, il sarcasmo, il dialogo, la pole-mica. Armi spuntate quando prevale laviolenza, ma che salvano la dignità e la-sciano tracce ricche di sviluppi nell’at-tesa di tempi migliori.

Piazza San Venceslao era diventato ilpunto di raccolta dei manifestanti. Erain quelle ore il cuore di Praga. Clacsone voci esasperate rimbalzavano tra gliedifici dell’ampia spianata rettangola-re, mentre le finestre via via si illumi-navano, avvertendo che ormai tuttiavevano abbandonato i loro letti, e coni letti l’illusione. Gli Ilyushin erano or-mai ben visibili nel cielo, stanati dalleprime luci. E all’alba la gente scagliavale sue maledizioni alzando lo sguardo.Alcuni accompagnavano le impreca-zioni con degli sputi.

L’Armata Rossa si era impossessata

della città «con la rapidità di una piovrache stende i tentacoli» (si leggerà piùtardi in uno dei tanti racconti anonimidi quelle ore). I russi erano sul PonteCarlo, davanti a San Nicola, sulla piaz-za della Città Vecchia, davanti al mo-numento di Jan Hus, il teologo riformi-sta bruciato vivo (nel Quattrocento), alquale un praghese avrebbe poi benda-to gli occhi affinché non vedesse quel-lo spettacolo vergognoso. I carri arma-ti, i T55 e i più moderni T62, si aggira-vano per la città con le torrette chiuse,senza che gli equipaggi mostrassero lefacce, subendo gli insulti e gli sputi del-la folla. Non reagivano neppure quan-do alcuni giovani, rassicurati da quel-l’inerzia, si arrampicavano sui carri esventolavano la bandiere cecoslovac-che, come se esibissero un trofeo diguerra catturato a mani nude. L’Arma-ta Rossa aveva l’ordine di evitare il piùpossibile l’uso delle armi. Ma qualchecomandante perse le staffe o ricevettel’ordine di reagire. Tre autoblindoaprirono il fuoco, prendendo di infila-ta piazza San Venceslao. Scaricarono leloro mitragliatrici, tenendo però alto iltiro, mirando al primo piano del Museonazionale. Anche quello era un fuocodi intimidazione ma sul selciato, quan-do la piazza si vuotò, c’erano tracce disangue.

BERNARDO VALLI

CON LA BANDIERA CECOSLOVACCA CONTRO I CARRI ARMATI UNO STUDENTE E UN CARRISTA

Repubblica Nazionale

Page 5: DOMENICA APRILE 2008 di MAURIZIO CROSETTI eCARLO …download.repubblica.it/pdf/domenica/2008/27042008.pdf · se cosa viva, è un pezzo della sua vita e si accende in continuazione

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 27 APRILE 2008

VIA MÁNESOVA NEL QUARTIERE DI VINOHRADY

La folla si disperse nelle strade vicineinseguita dall’odore aspro di polvere edi grasso bruciato e dai frammenti dipietra strappati dalla facciata del Mu-seo. Al panico, alle urla di paura, alleimprecazioni, segui un silenzio nontanto lungo. Poi la gente riempì di nuo-vo la piazza occupata dai carri armati.E lentamente si spalancò una scena de-stinata a durare alcuni giorni.

Giovani e anziani, uomini e donne,inermi, avevano accerchiato i carri ar-mati, dai quali adesso spuntavano lefacce stralunate di soldati per lo più im-berbi. I cecoslovacchi parlavano il rus-so. L’avevano imparato a scuola. Era lalingua obbligatoria. La lingua dell’im-pero. La lingua dei liberatori del ‘45 di-ventati invasori nel ‘68. Più di vent’an-ni dopo la lingua imperiale serviva apolemizzare con i nuovi occupanti, ainsultarli; a invitarli a tornare a casa, adandarsene al più presto. C’era chistrappava la tessera del partito davantiai cingoli e gettava i frammenti in fac-cia agli ufficiali che spuntavano a mez-zo busto dalla torretta. Le ragazze boe-me dicevano, senza sorridere: «Ritor-nate dalle vostre Natasha, con noi noncombinerete mai niente. Neanche se ciminacciate con i vostri cannoni».

I sovietici erano esterrefatti. Nontutti sapevano in che Paese fossero ca-

pitati. I loro padri, nel ‘45, avevano avu-to un’accoglienza diversa. Le donne diPraga li avevano presi sottobraccio,strappandoli dai ranghi, mentre sfila-vano vincitori per le strade appenasgombrate dalle truppe naziste scon-fitte.

Neppure un quarto di secolo dopo leragazze cecoslovacche chiamavano ifigli o i nipoti dei liberatori di un tempocon lo stesso nome. Per loro erano tutti«Ivan» senza distinzione. Affibbiavanoa tutti lo stesso nome, come se fosserostati fabbricati in serie, uguali, ubbi-dienti. Non individui, ma elementi sen-za identità di un’unica massa umana.

La Primavera di Praga era stata untentativo di recuperare gli individui,schiacciati da un collettivismo ineffi-cace e umiliante. Quegli «Ivan», spessoinconsapevoli, cancellavano con i lorocarri armati quel tentativo, quella spe-ranza, quell’illusione. Gli storici ci di-cono che la fine del mondo comunistaè cominciata nell’agosto 1968 a Praga.Altri risalgono alla Budapest del ‘56. Èun fatto che per evitare il contagio po-litico, o la depressione, i soldati russivennero spesso sostituiti, durante l’in-vasione della Cecoslovacchia. E le ideedella Primavera di Praga sarebberoriaffiorate a Mosca, vent’anni dopo, eavrebbero contribuito all’autoaffon-

damento, al suicidio, dell’Unione So-vietica. Le armi spuntate dei giovanicechi sulla piazza San Venceslao, il sar-casmo, l’ironia, la polemica, servironopoco nell’agosto ‘68. Ma fa piacerepensare che abbiano poi dato dei frut-ti, proprio nel cuore dell’impero degli«Ivan», favorendone il crollo.

Stupito che l’avvenimento fosse uffi-cialmente ignorato, dieci anni fa, tro-vandomi a Praga per il trentesimo an-niversario dell’invasione, scrissi chedopo essere stata condannata e sepol-ta nel 1968 dall’Unione Sovietica, la Pri-mavera di Praga era stata condannata esepolta nel 1993 dal Parlamento ceco li-beramente eletto. L’Urss aveva usato icarri armati. La democrazia ceca usavauna legge. In quest’ultima, nella leggececa, si definiva senza distinzione il pe-riodo dal 1948 al novembre 1989, vale adire gli anni in cui il Paese fu governatodal partito comunista, una fase duran-te la quale la società fu violentata daun’organizzazione criminale. Nel pre-sentare questa legge un esponente delgoverno aveva precisato che neppure ipromotori dell’effimera Primavera,durata 204 giorni, potevano sfuggire aquel giudizio. Anche loro erano stati indefinitiva guardiani del campo di con-centramento: guardiani buoni rispettoai loro predecessori e ai loro successo-

ri, ma pur sempre guardiani.Ricavai questa scarna, un po’ bruta-

le, interpretazione dell’atteggiamentocecoclovacco ufficiale nei confrontidella Primavera dal discorso del filo-sofo Karel Kosic, un coraggioso intel-lettuale e protagonista della Primave-ra, che mi aveva aiutato a capire gli av-venimenti nella Praga del ‘68, prima edurante l’occupazione sovietica. E cheper me era stato anche un amico. Unamico per il quale avevo una grandeammirazione. Adesso, nella Praga de-mocratica, il giudizio sulla Primaverasta cambiando. È cambiato, poiché sivaluta la Primavera con rispettosa at-tenzione. Era tempo. Karel Kosic e tan-ti suoi amici lo meritavano da un pezzo.

In quei mesi del ‘68 facevo la spolatra Parigi e Praga. Seguivo il Maggiofrancese e la Primavera cecoslovacca.Sulla diversità dei due avvenimenti si-multanei vale la pena citare la laconicaanalisi di Milan Kundera (nella prefa-zione a Miracolo in Boemia di Josef Sk-vorecky). Tra l’altro Milan Kundera,non comunista, era un amico di KarelKosic, filosofo critico marxista. PerKundera, dunque, sulle rive della Sen-na ci fu un’esplosione di lirismo rivolu-zionario, mentre sulle rive della Mol-dava ci fu l’esplosione di uno scettici-smo postrivoluzionario.

Ma la fine di quel mondo cominciòproprio allora: vent’anni dopo

le idee di Praga riaffioreranno a Mosca

IL LIBRO

Invasione. Praga 68 è pubblicato

da Contrasto Editore e sarà

in libreria entro fine aprile

(296 pagine, 249 foto in bianco

e nero, 40 euro). Per la prima

volta, a quarant’anni esatti

da quel drammatico momento

storico, viene raccolta

e mostrata per intero

la straordinaria documentazione

fotografica dell’invasione

sovietica in Cecoslovacchia

realizzata da Josef Koudelka

È stato lo stesso Koudelka,

oggi uno dei più celebri fotografi

del mondo, a curare il volume

VIALE VINOHRADSKÁ. I SOLDATI ABBANDONANO UN CARRO ARMATO IN FIAMME

FO

TO

JO

SE

F K

OU

DE

LK

A / M

AG

NU

M / C

ON

TR

AS

TO

Repubblica Nazionale

Page 6: DOMENICA APRILE 2008 di MAURIZIO CROSETTI eCARLO …download.repubblica.it/pdf/domenica/2008/27042008.pdf · se cosa viva, è un pezzo della sua vita e si accende in continuazione

38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 27 APRILE 2008

l’attualitàSimboli

I romani eleggono oggiil loro primo cittadinoLa posta in giocoè l’altura che Goethechiamò “secondo Olimpo”e che è sopravvissutaa duemila anni di storia

Campidoglioil colle del potere

«Perdona, l’eccelso / monte delCampidoglio è un secondoOlimpo per te», canta Goethe. Edunque la tentazione rimanecostante nei secoli di ascendereagli dei; o se si preferisce, la ten-

tazione di salire sul tetto primigenio del comando.La rocca di tutto il mondo, dall’antichità imme-more a queste ultime elezioncine municipali cheil tempo lunghissimo del colle rende perfino tra-scurabili.

Perché poi, davvero: nessun altro luogo al mon-do più del Campidoglio raccoglie e condensa i se-gni del potere, la sua gloria e le male arti per con-servarlo, i privilegi, le minacce, gli incantesimi, lemalinconie, le liturgie, le devastazioni. È un fattovisivo, cognitivo: basta attraversare il piazzale, sa-lire le scale del Palazzo Senatorio, buttare un oc-chio nell’aula Giulio Cesare, affacciarsi dal bal-concino dell’ufficio del Sindaco. Basta farsi un gi-retto, con una guida in mano. Qui si tenne un ban-chetto-monstre, lì montarono un enorme teatro.Lo stomaco e la fantasia del popolo, l’origine stes-sa della società. Su quel muro, con gli stemmi del-le corporazioni, prendono vita gli interessi orga-nizzati. In certe occasioni, per volontà superiorequella fontana buttava vino: e bianco, e rosso. Lagente si faceva sotto a cazzotti, immaginarsi la sce-

netta. Attorno a quel leone di pietra si com-minavano le pene; sotto quest’altra

scultura si esponevano le vittime al-la gogna. Qui venne incoronato Pe-trarca, dietro quell’angolo fu roto-lato e trascinato il cadavere di Co-la di Rienzo, «grasso era orribile-mente — lo descrive la potentissi-ma Cronica dell’Anonimo —bianco como latte insanguinato.

Tanta era la soa grassezza, che pa-reva uno esmesurato bufalo overo

vacca a maciello». E lì l’appesero, duegiorni e una notte, come diligentemen-

te specificato. E vabbé: tutto si ridimensiona lassù. Rutelli, già

«sindaco col motorino», e Alemanno, che è la se-conda volta che ci prova. Era la mattina del 21 set-tembre 1870, poche ore dopo la breccia di PortaPia, quando il giovane cronista Edmondo De Ami-cis vide in quell’angolo dei bersaglieri che amabil-mente chiacchieravano con frati zoccolanti dellachiesa dell’Aracoeli: «Ci fosse stato un fotografo!»,annota il futuro autore di Cuore con profetica vi-deo-ispirazione. Su quella scalinata, poco più ingiù, nell’aprile del 1926 una signora irlandese unpo’ pazzerella, Violet Gibson, si parò dinanzi aMussolini, appena uscito da un congresso medi-co, e gli sparò; solo che lui in quel momento si eragirato per fare il saluto romano e la revolverata, ri-volta alla tempia, gli sbucciò la cartilagine del na-so. E allora tornò, il Duce, dai medici: «Signori, ven-go a mettermi sotto la vostra cura professionale».

Un concentrato di simboli del dominio. Atten-tati, pacificazioni, rituali di trionfo e di sottomis-sione, festività e scannamenti, in Campidoglio,ebbrezze, rapine, estrazioni del lotto, notti bian-che e notti in bianco per la paura, epidemie, statueparlanti, firme e ri-firme di trattati europei, posterdi sequestrati, campane strappate a eretici viter-besi, civette augurali fin sotto lo zoccolo del caval-

lo di Marco Aurelio, impronte di angeli, visioni.Questa è di Giuseppe Mazzini: «Di mezzo all’im-menso, vi sorgerà davanti allo sguardo, come faroin oceano, un segno di lontana grandezza. Piegateil ginocchio e adorate: là batte il core d’Italia: là po-sa eternamente solenne, Roma. E quel punto sa-liente è il Campidoglio del Mondo Cristiano. E apochi passi sta il Campidoglio del Mondo Pagano.E quei due mondi giacenti aspettano un terzoMondo, più vasto e sublime dei due, che s’elaborafra le potenti rovine».

Rovine sull’abisso della storia. Le pecore a bru-care l’erba sulle pendici di Monte Caprino, poi bo-nificato dai gay e poi ancora tosato per la Costitu-zione Europea, esordio del “Veltrusconi”. Oraaffollato, ora deserto, a lungo incerto, il Campido-glio, tra il rimanere una fortezza e il reinventarsi co-me luogo civico, suprema magistratura, Senatus.Le torri merlate che vanno e vengono, il continuosommovimento di muraglioni e ponti levatoi, ilTabularium a un certo punto trasformato in depo-sito di sale. Poi Michelangelo. Un guizzo di solu-zione che per geometrica volontà pontificale resti-tuisce al luogo il volto grandioso e sereno dell’epo-ca nuova. Ma per secoli si continua a scavare, a ri-portare alla luce il passato, con l’inesorabile avver-sione dei poveracci, come lascia capire la retrivaintemerata di uno sfaticatissimo “cariolante” bel-liano: «Mo’ s’ariscava ar Campidojo; e, amico, / giàso’ du’ vorte o tre che cianno provo. / Ma io, pe’ par-te mia, poco me movo, / perch’io nun so più ioquanno fatico. / E lo sapete voi cosa ve dico/ de tut-ti ‘sti frantumi ch’hanno trovo? / Che manneno afa’ fotte er monno novo, / pe’ le cojonerie del mon-no antico! / Ve pare un ber procede da cristiani /d’empì de ‘ste pietracce ogni cantone? / perchéaddosso ce piscino li cani? / Inzomma, er Zanto-Padre è un gran cojone / a da’ retta a ‘sti arcoggioliromani / ch’arinegheno Cristo pe’ Nerone».

E comunque di nuovo l’archeologia, o rabbiosa«arcoggiolia», torna talmente indietro da rivelareancora una volta l’essenza oscura e arcaica del po-tere, fino allo stordimento, fino alla resa, perchésull’Olimpo tutto sembra o forse tutto è troppo pertutti quelli che più o meno fortunosamente vi arri-vano. Sono gli effetti beffardi della storia, gli scher-zetti di Roma che, unica città al mondo, può con-cedersi il lusso di allineare uno dopo l’altro, senzatroppe distinzioni, caporioni, senatori, governa-tori, sindaci. E su quel colle alto sulla città, ma iso-lato, li abbandona alla memoria e insieme all’o-blio: estenuati nobili papalini, liberali ardenti dipatriottismo, operosi massoni alla Nathan, e poifascisti inutilmente risoluti, quindi principi chedopo i disastri, i lutti, i bombardamenti, non pos-sono che aprire le finestre e rivolgersi alla cittadi-nanza allargando le braccia: «Volemose bene».

È il Campidoglio, ormai, del secolo scorso. Pic-cola cosa. I pallidi democristiani, Cioccetti a Re-becchini, poi divenuti rubicondi e sensibili assai auna certa rendita edilizia. Il “Gattone” Petrucci, la“Volpe argentata” Darida. E il freddo storico Ar-gan, i comunisti come Petroselli che sul colle di la-voro si sfiancano fino a morirne, e Vetere, ana-grammato “Tevere”; e poi ancora i dc, “Pennac-chione” Signorello, “er Monaco” sbardellianoGiubilo, i pranzi nella Protomoteca, “Ajo ojo eCampidojo”, il socialista di rito andreottiano Car-raro, quante storie. Primo e secondo Rutelli, Vel-troni uno e due, e ora comunque: perdona, l’ec-celso monte è davvero un secondo Olimpo, ma pertutti e per nessuno.

LA SCALINATANella foto in alto a sinistra,

un particolare

della balaustra

della scalinata

di Palazzo Senatorio

La scalinata fu aggiunta

da Michelangelo

al preesistente edificio

IL CORTILEIn alto a destra, il cortile

di Palazzo dei Conservatori,

sul lato destro della piazza

del Campidoglio

(per chi sale dalla scalinata)

Il palazzo fu ultimato

nel1568 sui disegni

di Michelangelo

LA PIAZZAAl centro della pagina

(e nella stampa sulla destra)

il celebre disegno

michelangiolesco

per piazza del Campidoglio

Il Buonarroti però

non riuscì a vedere

ultimato il suo capolavoro

IL MARC’AURELIOIn basso a sinistra

e al centro, due particolari

della statua di Marco

Aurelio in bronzo dorato

al centro della piazza

Questo originale è oggi

spostato all’interno

dei Musei Capitolini

LA LUPAQui accanto a destra,

un particolare della Lupacapitolina custodita

nel Palazzo dei Conservatori

Gli storici dell’arte

discutono se si tratti

di un’opera etrusca

oppure medioevale

PALAZZONUOVO

Medaglia

di papa

Innocenzo X

(1644-55)

con la facciata

di Palazzo

Nuovo

FILIPPO CECCARELLI

Repubblica Nazionale

Page 7: DOMENICA APRILE 2008 di MAURIZIO CROSETTI eCARLO …download.repubblica.it/pdf/domenica/2008/27042008.pdf · se cosa viva, è un pezzo della sua vita e si accende in continuazione

Per fare Roma serviva un abitato nonsolamente unito ma retto da un po-tere centrale: il re e la cittadella be-nedetta e inviolabile del Palatino.Serviva un abitato diviso in rioni do-ve ospitare un popolo: i Quirites nel-

le curiae, protetti dal Quirinusvenerato sul Qui-rinale. Serviva un luogo centrale e neutrale incui il potere “primario” del re potesse confron-tarsi con quelli “secondari” degli aristocratici edel popolo uniti in assemblea: il Forum e il Co-mitium, che erano al di fuori di ogni curia. Ser-viva un dio civico ospitato su una altura, an-ch’essa al di sopra di ogni parte: Giove Feretriosul Campidoglio. Serviva un’altra altura da cuiosservare il volo degli uccelli, espressione diGiove: l’Arx (altra cima del Campidoglio, dove èl’Ara Coeli) con l’osservatorio o auguraculumprotetto da Giunone. La città era dunque fattadi parti (l’insieme di curiae, il Palatino inaugu-rato) e di parti al di sopra delle parti (il Foro e ilCampidoglio/Arce), come Washington nelneutrale Columbia District.

Giove presiedeva allora un “triumvirato” dicui facevano parte Marte, dio del Lupercale (aipiedi del Palatino verso l’Aventino), generatoree protettore di re, e Quirino, protettore del po-polo articolato in rioni. Vi è dunque una triadetopografica oltre che teologica, ché il Palatinorappresentava i montes (“rione Monti”), il Qui-rinale il collis (“il colle più alto”) e il Foro-Capi-doglio/Arce la “cosa pubblica” dei Romani. Quinasce l’idea di “interesse generale”.

Questo Giove era rappresentato da una pietra(lapis) custodita in una capanna posta ai piedidi una quercia sacra, cui Romolo aveva appesole armi di Acrone di Caenina (La Rustica?), mo-nito ai poteri signorili nelle campagne che nonintendevano assoggettarsi al sovrano: all’origi-ne della città-stato vi è il sangue.

La guerra era allora attività stagionale e,quando a fine estate i cittadini armati tornava-no in città, il re deponeva le spoglie del nemicoal lapis del Campidoglio: era l’ovatio. La pietrasacra sanciva anche il giuramento (iusiuran-dum). Con essa si uccideva una scrofa a monitodello spergiuro, destinato al fulmine di Giove.Era un modo di dare prevedibilità al futuro chevenne chiamato ius. Sul Campidoglio è stato in-ventato il diritto, nel Foro la politica, sul Palati-no il potere sovrano, da Romolo a Augusto.

Sul Campidoglio era venerato anche un mas-so sacro a Terminus, dio delle inamovibili pie-tre di confine, garanzia delle proprietà pubbli-che e private. Simboleggiava il centro dell’agro,il cui limite era segnato da un altro culto allostesso dio, all’Acqua Acetosa. Terminus era an-che il dio della fine dell’anno. Sul Campidogliosi osservavano le fasi della luna che regolavanoil tempo festivo organizzato in un calendario didieci mesi: quanto la gravidanza di una donna,più una ventina di giorni di sterilità dopo parto,che era il natale dei Romani, prima di diventare

negli stessi giorni il natale di Cristo. Il calenda-rio era presieduto da Giove che proteggeva le idial culmine del ciclo lunare, e da Giunone cheproteggeva le calende, all’inizio del ciclo luna-re. Giunone aveva un suo luogo di culto sull’Ar-ce e davanti al suo tempio c’era l’osservatoriodel volo degli uccelli da cui si dominava l’urbs el’ager.

Questa è la prima Roma, da Romolo a AncoMarcio. Venne poi Tarquinio Prisco, grande si-gnore cosmopolita (greco-etrusco-romano).Diede inizio a una rivoluzione antiaristocrati-ca, che Servio Tullio — suo bastardo? — porteràa termine: servo della dimora regia fattosi tiran-no per sconfiggere la fronda gentilizia e farsiamare dal popolo. Fu lui a ideare agli inizi del Se-sto secolo avanti Cristo un nuovo Giove sulCampidoglio.

Non più il triumviro divino, ma un Giove otti-mo e massimo, che con le donne di casa — Giu-none e Minerva — dominava ogni altro dio, untiranno divino buono il cui rappresentante interra era il tiranno buono umano... Per lui, nonuna capannetta, ma un tempio colossale, doveterminavano i trionfi (ma si continuò a giurarea Giove Feretrio). Tarquinio riuscì solo a co-minciare i lavori, ma la statua di Giove in terra-cotta, prima statua di culto in forma umana,venne subito realizzata, per cui venne costruitosul Quirinale un tempietto (Capitolium Vetus)per ospitare la statua durante i lavori.Completò il tempio Tarquinio il Su-perbo, tiranno cattivo presto cac-ciato da Roma, dove i patrizi ri-guadagnarono il terreno perdu-to, fondarono la Repubblica ededicarono il tempio trasfor-mandolo in simbolo della respublica liberata dai re. Il calen-dario acquisì allora due mesi:gennaio e febbraio, ma dicem-bre è ancora l’ultimo mese puralludendo ai dieci mesi del calen-dario primitivo.

Chiunque si rechi nel Palazzo deiConservatori può osservare le fondazio-ni immani del tempio capitolino: uno dei mag-giori del Mediterraneo, manifestazione dellagrande Roma dei Tarquini. Dovrebbero andar-ci anche gli storici antichi che ritengono ancorache Roma sia nata come città al tempo dei Tau-rini e non in quello di Romolo. Si accorgerannoche nel Sesto secolo Roma non è neonata maflorida ragazza.

Faranno concorrenza a questo Giove l’Apollo-Sole di Augusto sul Palatino e il Cristo di Costanti-no venerato in periferia. Così Roma è tramontata,ma il Campidoglio guadagnato alla democrazia èancora parte ineliminabile della nostra identità: lacosa pubblica e il conseguente interesse generale.

Roma è ancora da raccontare e, se non la nar-riamo, i turisti sciameranno verso le “città proibi-te”, contrario esatto della “città aperta” per eccel-lenza, miscuglio di latini, sabini, etruschi. Ma perraccontare Roma all’altezza dei tempi occorresmettere di guardare indietro, alla cartapesta del-le passate dittature, e progettare una storia seria ecomunicativa guardando in avanti, preparando ilfuturo. Teatro-portale di questo racconto deve es-sere il Museo della città previsto nell’edificio infondo al Circo Massimo. Riusciremo nei prossimianni a realizzarlo?

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 27 APRILE 2008

Sul Palatino risiedetteroi re e poi gli imperatoriServiva un’altra sommitàper rappresentarela “cosa pubblica”:è lì che nacque l’ideadi interesse generale

ANDREA CARANDINI

Quassù abitavail dio dei cittadini

SESTO SECOLO AVANTI CRISTO

La pianta descrive il Campidoglio del Sesto secolo a. C.,all’epoca dei Tarquini1 Iuppiter Optimus Maximus, aedes; 2 Terminus, ara;3 Casa Romuli?; 4 Iuppiter Feretrius, aedes?; 5 Curia Calabra;6 Porta Pandana/Saturnia; 7 Vieiovis, ara?; 8 Auguraculum;9 Iuno, aedes; 10 Porta Fontinalis?; 11 Carcer; 12 Tullianum;13 Scalae Gemoniae; 14 Saturnus, ara; 15 Clivus Capitolinus;16 Sepulchrum Tarpeiae?; 17 Saturnus, aedes;18 Vicus Iugarius; 19 Sepulchrum et ara Carmentae;20 Porta Carmentalis; 21 Centum gradus; 22 Mura

IL SINDACOLa stanza

del sindaco

di Roma

evidenziata

nel profilo

di Campidoglio

e Foro Romano,

tratto

da Monumentid’Italia- Le piazze,

edito dall’Istituto

Geografico

De Agostini

PALAZZOSENATORIOMedaglia

di papa

Gregorio XIII

(1572-1585)

con la facciata

di Palazzo

Senatorio

N

1

2

34 5 6

7

8

10

111213

1415

17

18

19

20

21

22

9

16

Repubblica Nazionale

Page 8: DOMENICA APRILE 2008 di MAURIZIO CROSETTI eCARLO …download.repubblica.it/pdf/domenica/2008/27042008.pdf · se cosa viva, è un pezzo della sua vita e si accende in continuazione

40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 27 APRILE 2008

la societàEsperimenti

Sono finiti i tempi del fagiolo nel cotone. Ora in centoscuole elementari si coltiva sul serio.Grazie a maestreche hanno studiato con Slow Food, nonni entusiastie soprattutto piccoli ma già informatissimi ambientalisti

SAN MAURO TORINESE

«Senti, la pimpinella sa dimelone». Marika fa laquinta elementare e nellasua scuola c’è un orto. Si

china verso la pianta, la accarezza e poi si an-nusa la mano. Infine, la allunga verso un na-so un po’ scettico. Però sì, la pimpinella sa dimelone, e anche un po’ di anguria. «Invece lamaggiorana sa di chewing-gum». Proprio.

Dopo la rotonda con la fontana c’è un se-maforo, poi si svolta a sinistra e lì sta la scuo-la “Giorgio Catti”, una costruzione bassa checustodisce un segreto pieno di piante, erbe,frutti, fiori. C’è la serra. C’è il campo delle coc-cinelle. C’è l’orto dei semplici. E ci sono quel-li di prima elementare che armeggiano congli annaffiatoi accanto ad alberelli più alti diloro. I più grandi, uomini e donne di annidieci, aiutano e spiegano. «Maestra, che in-setto è? È po’ verde». La maestra Maria Gra-zia Vincoletto, che di campagna non sape-va niente ma ha studia-to con Slow Food all’U-niversità di Pollenzo eadesso è “formatrice”,insomma una mae-stra col bollino blu, ri-sponde: «Direi uncoccinellide. A oc-chio, un Cryptolae-mus Montrouzieri».Ecco, appunto.

La scuola che nont’aspetti invece c’è.E non sta a lonta-nanze geografichesiderali, e neppurenei migliori mondipossibili, la Sve-zia, la Svizzera.Non rincorre letre “i”, acconten-tandosi di qual-che “p”, passio-ne, pazienza, edi qualche “a”,ascolto, amore.Il progetto sichiama “Ortoin condotta”. L’i-dea è di Slow Food, perché insegnarea coltivare significa anche imparare a man-giare, fare la spesa, conoscere la propria boc-ca e la propria pancia, oltre al profumo di ungiacinto.

Gli orti scolastici sono un’invenzioneamericana. La prima a pensarci fu Alice Wa-ters, a metà degli anni Novanta, in California:studiò per i bambini un nuovo metodo di

educazione alimentare, basato sull’attivitàpratica nell’orto e sullo studio e la trasforma-zione dei prodotti in cucina. Ogni scuola, unpezzo di terra. Lezioni di piante, fiori, frutti e

cibo. Le mani nelle zolle, per impararesenza quasi accorgersene. Nacque il pro-getto The Edible Schoolyards, in Italia dal2003: dire che ha messo radici è persinotroppo facile. Oggi gli orti scolastici sonopiù di cento e coinvolgono quattromilabambini, oltre ai loro insegnanti, ai genito-ri e ai nonni (un motore fortissimo della fac-cenda, vedrete perché). Il Piemonte è la re-gione italiana con il maggior numero di“scuole verdi”: trentatré. E la città di SanMauro Torinese è stata tra le prime a creder-ci. Risultato: quattro scuole elementari e unadell’infanzia, sette orti, seicento bambini eventuno volontari: tre papà, due mamme e ilresto nonni come Alberto, Martino, Felice,Rocco e Luigi, eccoli qui insieme ai nipoti e al-le maestre. «Facciamo i lavori più pesanti,zappiamo, prepariamo la baracca degli at-trezzi, aiutiamo a piantare». Martino ha la-

vorato nei campi fino a diciotto anni, in pro-vincia di Treviso. Poi l’emigrazione e la fab-brica, con l’orto sempre nel cuore. «Unpezzetto di terra l’abbiamo tutti, a casa oda qualche parte in paese», racconta Fe-lice. «È bello fare le cose con i bambini: dinoi si fidano. E noi abbiamo la memoriadei nostri padri e dei nostri nonni».

I bambini vanno nell’orto nell’in-tervallo. «Ma solo chi vuole, non è ob-bligatorio, chi preferisce va a gioca-re», dice la maestra Maria Grazia,che i nonni hanno appena definito“un trattore”. «Però, quando c’è daseminare, bisogna muoversi, dar-si da fare tutti. Tra poco è ora di in-salate, ravanelli e carote». Sara,anche lei di quinta, vuole pro-prio raccontare la storia dellasalvia. «Un giorno ci siamo ac-corti che le piante erano pienedi parassiti, però l’intervalloera già finito e non c’era tem-po per fare niente. Dopoqualche giorno abbiamo vi-sto che le coccinelle si era-no mangiate tutti i parassi-ti». È il principio della col-tivazione biologica:niente chimica, le pianteproteggono le altrepiante. «Nel campodelle fragole, il frutto ti-

pico di San Mauro, ab-biamo messo anche l’aglio e la ci-

polla che rilasciano sostanze antibiotichenaturali e proteggono i frutti. Si chiama con-

MAURIZIO CROSETTI

I DISEGNII disegni delle pagine

sono dei bambini della I B,

II A e B, e V B

della scuola elementare

“Giorgio Catti”,

San Mauro Torinese

I bambini-contadinia lezione nell’orto

Repubblica Nazionale

Page 9: DOMENICA APRILE 2008 di MAURIZIO CROSETTI eCARLO …download.repubblica.it/pdf/domenica/2008/27042008.pdf · se cosa viva, è un pezzo della sua vita e si accende in continuazione

In una scuola di un quartiere ispanico di San Francisco un mat-tino fui accolto da un’orda di bambini che mi trascinò nel va-sto cortile dell’istituto, dove dominava il cemento. In un ango-

lo, strappato al parcheggio dei professori, occhieggiava un fazzo-letto di terra rigoglioso: piante di mais, pomodori, legumi, insala-te e anche fiori. Tutto coltivato da quei piccoli simpatici studenti.L’entusiasmo che avevano nel mostrarmi i frutti del loro lavoro milasciò di stucco: oltretutto il contesto era molto povero, la zona eradi quelle dove non vorresti trovarti solo di notte a passeggio.

Un bambino che coltiva un piccolo orto, insieme ai suoi coeta-nei, oggi sembra un miracolo. Non soltanto in un quartiere diffi-cile di San Francisco. È una forma di educazione rivoluzionaria.Perché ribalta il concetto di “somministrazione” dell’insegna-mento e perché riavvicina intimamente ai ritmi della Natura, al-l’interno di contesti urbani in cui questa conoscenza è quasi deltutto sparita da almeno un paio di generazioni. Le ripercussioni diquesto distacco traumatico, sull’alimentazione e sulla coscienzaecologica di milioni di persone, sembrerebbero irrecuperabili.

Invece con un semplice pezzetto di terra si può realizzare qual-cosa di efficace, e i risultati sono sorprendenti: la capacità dei bam-bini di assorbire conoscenza attraverso la semplice pratica, attra-verso piccole scoperte quotidiane che fanno con i loro sensi, èqualcosa che in età matura diventa difficile. Le giovani generazio-ni sono il terreno più fertile su cui seminare un rinnovato saperenei confronti del cibo e del territorio.

Lo scambio di conoscenze intergenerazionale, l’impiego di vo-lontari pensionati all’interno di questi progetti è poi un altro va-lore aggiunto. Si trasmette così una sensibilità destinata a spari-re perché molti genitori, non per colpa loro, non sono più in gra-do di insegnare ai loro figli. E qui si realizza un altro piccolo mira-colo, perché i bambini portano in famiglia quanto appreso ascuola, diventano dei piccoli moderni gastronomi, che sannoscegliere il loro cibo in funzione della qualità e del rispetto dellaNatura.

Che i programmi ministeriali trascurino così tanto l’alimenta-zione e la conoscenza diretta della Natura rimane un mistero: for-se rispecchiano ancora la sensibilità di un tempo in cui la cam-pagna e il mestiere del contadino dovevano essere accantonatinel nome della modernità, quasi fossero un peccato originale dipovertà e di pochezza culturale. Quel tempo è finito, e dobbiamoringraziare tutti quegli insegnanti, quei genitori e quei nonni chesi impegnano con passione in qualcosa che riuscirà realmente acambiare l’approccio di tanti futuri cittadini al cibo, e quindi an-che alla Terra su cui vivono. Un rispetto sacrale, che nasce dal-l’intima conoscenza, dal contatto diretto: dire che in questo casoi libri servono a poco non è facile retorica, è una “comoda verità”che spero moltiplichi gli orti scolatici in tutta Italia.

Così riaffiora la terranei giardini di cemento

CARLO PETRINI

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 27 APRILE 2008

sociazione». Sara ha detto proprio così: rila-sciano sostanze antibiotiche naturali. E poi,consociazione.

«All’inizio, l’idea era quella vecchia del fa-giolo nel barattolo con il cotone: vedere co-me cresce. Poi si è spalancato un mondo», di-ce la maestra che intanto convoca “gli ecolo-gisti”. «Cioè la squadra dei bambini che puli-scono e raccolgono le schifezze». Per semi-nare si segue il calendario lunare biodinami-co, appoggiato sulla cattedra insieme aglialtri libri e quaderni. Dietro la porta si allargauna nuvola di profumi un po’ stordenti, lìdietro ci sono le erbe aromatiche. Su un car-tello c’è scritto a pennarello “Hortus Conclu-sus”. Perché, incalza Riccardo, nel Medioe-vo si chiamava proprio così. Accanto a ognipianta c’è una targhetta con le notizie scari-cate da Internet. E i nomi sembrano una fila-strocca antica: liquirizia, cedrina, santoreg-gia, calendula, tanaceto, tagete («che puzzamolto e tiene lontani i nemici!»), erba di SanPietro («ottima per le frittate»), ruta, rabar-baro, pimpinella («si trita ed è buonissimacome salsa sui formaggi molli, poi aiuta nel-la mancanza di appetito»), dragoncello, la-vanda. I bambini più grandi stanno giocan-do con quelli di prima, sembra mosca ciecama non è: li bendano, e gli mettono sotto ilnaso le erbe da indovinare dal profumo. «Ilgioco degli odori piace molto», conferma lamaestra Enrica Valabrega. «A parte basilico,origano e rosmarino, è difficile che un ragaz-zino del 2008 ne riconosca altre con l’olfatto.A volte, andiamo a trovare gli anziani dellacasa di riposo di Sambuy, qui vicino. È statocommovente vedere una donna cieca cheannusava le erbe, aiutata dai bambini».

Insieme ai nonni, hanno costruito anchela compostiera. Lo racconta Valentina, quin-ta B: «È fatta a strati. Sopra si mettono i rifiutiorganici, noi li portiamo anche da casa, ab-biamo spiegato ai nostri genitori che è im-portante. Lo strato in fondo è quello della ter-ra concimata che si chiama “compost” e siottiene più o meno in otto mesi. Noi nonusiamo né concimi chimici né pesticidi,mai». Riccardo “arieggia” il terreno sforac-chiandolo con la punta di un forcone dellasua taglia: «Così respira e diventa più fertile.Poi ci mettiamo della paglia sopra, in modoche non si indurisca».

Tra una visita al vecchio mulino e un labo-ratorio di cucina, dove si fanno il pane e la pa-sta insieme alle nonne, si è realizzato pure ilmiracolo estremo: bambini che mangiano laverdura! Giorgia rivela di avere detto alla suamamma che i broccoli della mensa sono piùbuoni di quelli di casa. «Abbiamo imparato amangiare la frutta e la verdura di stagione,che è più gustosa e costa meno, e soprattut-

to è locale. Se viaggia poco, inquina poco per-ché non la devono trasportare i camion». Aproposito: è anche successo che i ragazzinidella scuola “Catti” si siano accorti che inmensa veniva servita acqua minerale um-bra. «Con tutta l’acqua che abbiamo in Pie-monte! E allora hanno chiesto di cambiarefornitori. Sono tremendi, leggono tutte le eti-chette», dice la maestra-trattore. «Insiemeall’insegnante di matematica abbiamo fattoun lavoro sulle distanze che percorrono i ci-bi e sui costi che variano secondo i periodidell’anno. Così i bambini imparano un po’ distatistica, di geografia e magari suggerisconoalle famiglie come si dovrebbe fare la spesa».

Zappano, strappano le erbacce, annaffia-no («solo la terra e mai la pianta»), spingonola carriola, ascoltano i nonni, aiutano i piùpiccoli. Ma cos’è, il paradiso dell’educazio-ne? La vera riforma della scuola, magari?«Noi vogliamo solo conoscere. I bambiniprendono le erbe, le fanno seccare, le pla-stificano tra due fogli trasparenti e poiscrivono la loro ricerca». Tutto sempli-ce, sporcandosi le scarpe e le mani. Equelle stesse erbe le macinano, le metto-no nei sacchetti e poi le vendono al mer-catino: con il ricavato si comprano le coseutili all’orto, per esempio il sangue di buesecco che è un ottimo concime, oppure il “li-totamnio”, una polvere di alghe coralline:«Soffoca i pidocchietti», spiega Marika. «In-vece l’euforbia è repellente, tiene lontani i to-pi e le talpe». Secondo miracolo, dopo quel-lo della verdura nel piatto: topi e vermi nonfanno schifo ai bambini. Anzi, Riccardo hapiazzato sotto il naso della maestra un ba-stoncino dove un bel millepiedi arancione fail contorsionista. «Prendere in mano le be-stioline e osservarle, questo è davvero edu-cativo. Abbiamo anche girato un piccolo filmsui lombrichi».

E poi naturalmente si mangia. L’annoscorso, con sette enormi zucche hanno pre-parato il risotto per tutta la scuola. Nell’ortoci sono quattro varietà di peperoncini, vicinoa fiori all’apparenza gentili («però attenzio-ne, il mughetto è velenoso!») e alle piante dafrutto messe lì dai nonni: un melograno, unfico, tre varietà di meli antichi della Valgranae quattro ciliegi donati dal sindaco di Pecet-to. Uno scambio culturale niente male: a Pe-cetto, il paese delle ciliegie, San Mauro harisposto con le sue favolose fragole. Lestesse che cresceranno nel campodella scuola: ora sono un tappeto difiori bianchi, ma tra poco diven-teranno rosse e succose. Sul lorodestino vigila, sotto il sole tiepi-do di aprile, uno spaventapas-seri vestito da sposa.

www.mikado.it

Repubblica Nazionale

Page 10: DOMENICA APRILE 2008 di MAURIZIO CROSETTI eCARLO …download.repubblica.it/pdf/domenica/2008/27042008.pdf · se cosa viva, è un pezzo della sua vita e si accende in continuazione

42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 27 APRILE 2008

Sguardo penetrante, un tempo, non era un modo di dire, macorrispondeva, per esempio in Marsilio Ficino e nei neo-platonici, all’idea che dall’occhio di chi guardava si dipar-tisse qualcosa che raggiungeva l’occhio del guardato, odella guardata, lo toccava, lo colpiva, lo impressionava, lopenetrava. Per questo, forse, le figure femminili in Dante e

Petrarca tengono gli occhi bassi, non soltanto per pudore o riserbodella propria “anima”, ma per non essere penetrate da ciò che muo-ve dall’occhio altrui, preservando così un’ulteriore verginità. Il vede-re non è dunque sempre vissuto come un atto incorporeo, né comeuna mancata relazione fisica con l’oggetto della visione. Piuttostol’occhio governa e fa premio su tutte le percezioni, concentra tuttocon un solo organo e un solo senso, escludendo gli altri. Nel nostrotempo il vedere, più che un atto, è diventato una azione, talvolta la no-stra azione principale, spesso merce e lavoro: non si è mai guardatotanto e visto tanto, e mai così forte è stata l’illusione che non esista piùalcun mistero, alcun invisibile.

Quando c’è l’immagine, non c’è la cosa. È un’eventualità che la fi-losofia stoica conosceva perfettamente, sebbene ritenesse che la co-sa o la persona si fossero momentaneamente allontanate. Oggi, alcontrario, le cose sembrano sparite sempre più, ed è l’immagine cheè diventata indubbiamente cosa, oggetto di mestiere e di commercio.È difficile dire se tutto questo vedere consumi l’occhio. È possibileperò che consumi i sentimenti. Le nostre emozioni davanti alle im-magini, così come le opinioni che ci formiamo all’istante e poi lascia-mo subito cadere, si accendono e bruciano in un attimo, totalmenteintransitive, e incontrollabili come una salivazione. Non so da quan-do, ma le immagini hanno preso a scorrere come una specie di ritmovisivo, un ritmo di sottofondo, o meglio di rumore visivo di fondo, se-guendo in questo il destino che fu già della musica e dell’ascolto. Ve-dere è un’azione, e ci sono le buone azioni e le cattive azioni. Cos’è un“buon” vedere? E cosa un “cattivo” vedere? Non posso pensare chedipenda dall’oggetto della visione; l’osceno, credo, non esiste, non c’ènulla di avverso, nulla che si “ponga contro” il nostro occhio. Dipen-de da noi, dal nostro modo di vedere che resta segreto, una questionedel tutto privata.

A differenza delle altre azioni, non c’è nessuno a cui dobbiamo ren-dere conto del nostro occhio che vede, nessuno (se non un oculista, ilquale tuttavia non cura l’anima e giudica solo in termini di metropia)che possa domandare: il suo occhio com’è? lei come vede? Per costrui-re un sentimento del vedere — poiché di questo si tratta — non c’è au-torità di insegnamento né ci sono prove da superare, non precetti néconsigli. Eppure è solo un sentimento del vedere, un cuore che guar-da, che può redimere, se non noi stessi almeno le immagini che il no-stro occhio percepisce.

René Guénon nel suo Simboli della scienza sacra dedica un para-grafo all’occhio che vede tutto, nel capitolo sul simbolismo del cuore.Uno dei simboli comuni al cristianesimo e alla massoneria, ricorda, èil triangolo nel quale è inscritto il Tetragramma ebraico oppure lo iodche può esserne considerato un’abbreviazione, sorta di “terzo oc-chio”, né destro né sinistro, un occhio frontale come quello di Shiva,né solare né lunare, corrispondente al fuoco, il cui sguardo riduce tut-to in cenere perché esprime il presente senza dimensioni, cioè la si-multaneità, e così distrugge ogni manifestazione.

L’occhio unico e senza palpebra è il simbolo dell’essenza della co-noscenza divina. L’occhio unico del ciclope indica al contrario unacondizione subumana. Come subumana è la condizione di Argo, Ar-go Panoptes, «che tutto vede», gigante con un solo grande occhio se-condo alcuni miti, ma secondo altri con quattro, due davanti e due die-tro, e secondo altri ancora con cento occhi (dormiva chiudendone cin-quanta per volta) oppure con un’infinità di occhi disseminati sull’in-tero corpo, che non si chiudevano mai tutti insieme, una vigilanza ri-volta esclusivamente all’esterno. Di una persona molto accorta i Gre-ci dicevano che era un Argo oppure che aveva più occhi di Argo.

L’occhio umano è un simbolo universale di conoscenza, l’aper-tura degli occhi è un rito di apertura alla conoscenza, un rito di ini-ziazione. Ma l’occhio ha colpito l’immaginario comune innanzitut-to per la sua forma ovale e per la sua condizione di luogoaperto/chiuso, da cui qualcosa può entrare e qualcosa può uscire.Nella lingua italiana l’occhio ha infinite declinazioni. Oltre che l’or-gano della vista e l’apparato visivo o anche la capacità di leggere be-ne, vuol dire, ad esempio, il foro aperto in una porta o una parete perspiare di nascosto, oppure la toppa della serratura, oppure i buchinella mollica del pane ben lievitato, o ancora, in architettura, ogni

DANIELE DEL GIUDICE

Occhiol’

CULTURA*

Quel cuore che guardae ci fa conoscere il mondo

il mensile per chi legge

IndiaExpressun viaggio nella letteratura del Paesedelle vacche sacre

LIBRIMag

gio

20

08 -

1sp

ed

. ab

b. p

ost

. -

com

ma

26 -

art

. 2

leg

ge 5

49

/95

mensile - anno I - numero 1 - € 3,00

S NLetture per prenderla

con filosofia

C Sda Caterpillar ai libri,la politica �fai da te�

CHE

A Vil romanziere del lago

LIBRICHE

il mensileper chilegge, per chi nonlegge, perchi ha vogliadi leggerema non hatempo, perchi ha tempoma ha giàletto tutto.

in edicola a solo 3 €

Repubblica Nazionale

Page 11: DOMENICA APRILE 2008 di MAURIZIO CROSETTI eCARLO …download.repubblica.it/pdf/domenica/2008/27042008.pdf · se cosa viva, è un pezzo della sua vita e si accende in continuazione

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 27 APRILE 2008

apertura circolare o ellittica. Anche le chiazze naturali sulle piume,il pelo o la pelle di certi animali si chiamano occhi, come le macchieazzurre sulla coda del pavone, e anche le macchie evidenti sulla su-perficie di marmi o pietre. Occhi sono i dischi del capolino di unamargherita o di un girasole, o i cerchi su una superficie liquida agi-tata. Alcune cose escono dagli occhi, e qualcuno può andare per oc-chio, cioè colare a picco con la sua nave.

L’occhio pineale è l’ossessione di Georges Bataille. Come lui stessoricorda nella Critica dell’occhio, quest’idea risale al 1927 e rispondeprobabilmente alla sua concezione anale, cioè notturna, del disco so-lare. Scrive: «Mi raffiguravo l’occhio in cima al cranio come un orribi-le vulcano in eruzione, proprio con il carattere losco e comico che siattribuisce al di dietro e alle sue escrezioni. Ora l’occhio è senza alcundubbio il simbolo del sole abbagliante, e quello che io immaginavo incima al mio cranio era necessariamente infuocato, essendo votato al-la contemplazione del sole al sommo del suo splendore». Scrive an-cora: «Io non esitavo a pensare seriamente alla possibilità che que-st’occhio straordinario finisse per farsi strada attraverso la parete os-sea della testa, perché credevo necessario che dopo un lungo perio-do di servilità gli esseri umani avessero un occhio speciale per il sole(mentre i due occhi che sono nelle orbite se ne allontanano con unaspecie di ostinazione stupida). Non ero pazzo ma davo senza dubbioeccessiva importanza alla necessità di uscire in una maniera o nel-l’altra dai limiti della nostra esperienza umana […]».

Buono o malvagio, qualunque sia il sentimento del suo vedere, l’oc-chio è sempre oggetto di acute inquietudini e suscita comunque emo-zioni contrastanti. Ancora Bataille, scrive che non c’è nulla di più se-ducente dell’occhio, nulla di più attraente nel corpo degli uomini edegli animali, e in questo appealè simile al filo della lama. D’altra par-te, la seduzione estrema è al limite dell’orrore, ed è forse quello che haispirato Salvador Dalì e Luis Buñuel nel film Chien andalou, dove unrasoio incideva l’occhio di una donna giovane e affascinante sotto losguardo di un uomo, ammirato fino alla follia, che tiene in mano uncucchiaino da caffè e improvvisamente ha voglia di prendersi un oc-chio nel cucchiaino. Voglia piuttosto singolare per un occidentale lacui cultura gli impedisce di mangiare l’occhio dei buoi, degli agnelli odei maiali. È golosità cannibale, secondo l’espressione di RobertLouis Stevenson. Nessuno di noi morderebbe mai un occhio.

Ci sono quelli che non danno troppa importanza all’occhio e alsuo vedere, e preferiscono sentire. Era appunto il caso di Stevensonnella sua ultima e appassionata discussione letteraria. Quando l’a-mico Henry James gli lamentò di non vedere nulla nel romanzo Ca-triona — «ho l’impressione di trovarmi in presenza di voci nell’o-scurità, voci tanto più distinte e vivaci […] quanto lo sguardo restaoccultato» — Stevenson gli rispose con una frase memorabile:«Ascolto le persone parlare e le sento agire, il racconto mi sembraquesto. I miei due obbiettivi possono essere descritti così: 1. guerraall’aggettivo e 2. morte al nervo ottico». Secondo Stevenson «la let-teratura è scritta per e da due sensi: una specie di orecchio interno,lesto a percepire melodie silenti, e l’occhio che — semplicemente —guida la penna e decifra la frase stampata. Ebbene, proprio come visono rime per l’occhio, così noterete che esistono assonanze e allit-terazioni».

E poi ci sono quelli che preferiscono l’assenza dell’occhio, comeJosé Saramago che ha scritto uno dei suoi migliori romanzi, Cecità,straordinaria metafora di una perdita del vedere nei nostri tempi.Quanto all’“occhio della coscienza”, poco prima di morire, nel 1847,l’illustratore fantastico e caricaturista francese Jean-Ignace-Isido-re Gérard, detto Grandville, sognò quest’occhio ossessionante e lu-gubre, occhio vivente e totalmente vigile. Lo raccontò in Crime et ex-piation, e Victor Hugo lo riprese.

L’aspetto assolutamente negativo dello sguardo invidioso, pienodi cattive intenzioni, l’occhio malevolo, cioè il malocchio, mal d’oc-chio, è ancora molto vivo nella cultura mediterranea. Ci sarebberoocchi particolarmente pericolosi, come quelli delle donne anziane,ma anche delle vipere o dei gechi, perché l’intero mondo animatopartecipa di questa presa di potere su altro e altri. E particolarmen-te sensibili al malocchio sarebbero i bambini, le puerpere, il latte, ilgrano ma anche cavalli, cani e il bestiame in generale, perché il ma-locchio può uccidere gli animali. Come difendersi dal malocchio:con veli che nascondono allo sguardo, fumigazioni profumate, fer-ro rosso, sale, corni, mezzelune, ferri di cavallo, mani di Fatima.

Per la posizione nel corpo, e nella preminenza sulle percezioni delnostro mondo, l’occhio, il suo simbolo, la sua parola stessa si ade-guano all’infinito: occhio del ciclone, occhiolino, occhiello, occhiodi bue, occhio di gatto, locuzioni tutte riguardanti tutt’altro.

Ha rappresentato la divinità e la conoscenza; è una metafora,un simbolo, un’ossessione. Mentre il libro di un famoso archeologo,

per la prima volta tradotto, ci trasporta attraverso i millenniper ripercorrere l’uso culturale che è stato fattodi questomeraviglioso organo del nostro corpo,

uno scrittore ci invita a sperimentare “il sentimento del vedere”

IN LIBRERIA

Uscirà nella seconda metà di maggio nella collana Nuova Cultura

di Bollati Boringhieri il libro di Waldemar Deonna Il simbolismo dell’occhio(a cura di Sabrina Stroppa, Introduzione di Carlo Ossola, 352 pagine, 35 euro)

Si tratta di uno straordinario percorso erudito che ricostruisce il ricchissimo

uso simbolico che dall’antichità è stato fatto dell’occhio, nella cultura,

nell’arte e nelle religioni (l’occhio è stato infatti usato per significare la divinità)

L’archeologo svizzero Waldemar Deonna (1880-1959) studiò

alla scuola francese di Atene. Dal 1920 al 1955 fu professore di archeologia

a Ginevra. Nel 1932 fondò la rivista Genava. Dal 1922 fu inoltre direttore

del Museo di arte e di storia e del Museo archeologico di Ginevra

e dal 1950 diresse la nuova Biblioteca di arte e di archeologia

Le Symbolisme de l’oeil fu pubblicato postumo nel 1965 a Parigi

Fondazione Centro Sperimentale di CinematografiaPubblicati i Bandi di concorso per l’accessoalla più antica Scuola di cinema al mondo

Sede di Milano- Corso di creazione e produzione Fiction- Corso di Cinematografia d’impresa Documentario e Pubblicità

le domande dovranno pervenire entro il 5 maggio 2008per informazioni: [email protected]

Sede di Roma- Corsi di Fotografia, Montaggio, Produzione, Recitazione, Regia,Scenografia-Arredamento-Costume, Sceneggiatura, Tecnica del suono

le domande dovranno pervenire entro il 31 maggio 2008per informazioni: [email protected]

Sede di Torino- Corso di Animazione

le domande dovranno pervenire entro l’11 luglio 2008per informazioni: [email protected]

I Bandi di Concorso sono disponibili sul sito: www.csc-cinematografia.it

Repubblica Nazionale

Page 12: DOMENICA APRILE 2008 di MAURIZIO CROSETTI eCARLO …download.repubblica.it/pdf/domenica/2008/27042008.pdf · se cosa viva, è un pezzo della sua vita e si accende in continuazione

La pista si perdeva tra i ghiac-ci. Il mostro cercava il suoelemento. Scovarlo eraun’impresa degna diBeowulf e degli impavidiGeati. Per metà cavallo e per

metà balena, con zanne affilate comespade, l’essere poteva muoversi a piaci-mento nell’oceano e sulla terraferma.Gli antichi inglesi lo chiamavano Hor-schael. Il nome aveva raggiunto l’isolasulle navi vichinghe. Hrosshvalr o Ro-smhvar, lo appellavano i norreni: il ca-vallo marino, la balena anfibia. Per sco-varlo bisognava riattraversare il mare delNord fino a toccare i fiordi norvegesi, do-ve di solito si nascondeva. Lassù si pote-va avvistare il suo nero dorso frangere iflutti. L’animale fuggiva sentendo il bat-tere dei remi sull’acqua; nuotava verso ilcircolo polare, dove la banchisa avrebbebloccato la chiglia delle navi baleniere.Sulla vetta del mondo i lapponi lo chia-mavano Morsa, animale sacro da rispet-tare e temere. Ma l’inseguimento si spin-geva ancora oltre, doppiava il Capo Nord

e raggiungeva la terra dei finni. Nella lo-ro lingua la chimera zannuta era dettaMursu. Sulle rocce piatte, ormai spossa-ta, attendeva il colpo dell’eroe, che dallaprua scagliava l’arpione e la trafiggevaspaccandole il cuore.

La penna centrò il portamatite e lo ri-baltò sul tavolo. Il rumore fece voltaretutti. L’occhiata del professor Bradleysolcò la stanza fino a inchiodare il re-sponsabile. Ronald si affrettò a racco-gliere i lapis e si rimise al lavoro. La lucedel pomeriggio iniziava a calare.Guardò l’orologio: un quarto alle quat-tro. Aveva impiegato troppo tempo perl’etimologia della parola walrus, triche-co. L’aveva inseguito fino al Polo Nord.Del resto si era dilungato perfino suwaggle, agitare, e già paventava le infini-te accezioni di want, volere. Una distesadi foglietti fitti di appunti ricopriva lascrivania. La maggior parte erano attra-versati da serpentine o già accartoccia-ti. Ipotesi, tentativi di battere piste sco-nosciute. Per il tricheco ne aveva azzar-date ben sei. Serviva a sopportare la noiadi quel lavoro compilativo.

Bradley invece aveva fretta, le ultime

lettere del Dizionario dovevano esserepronte entro un anno. Si era già dovutoaspettare anche troppo: che finisse laguerra, «che la civiltà della parola ripren-desse il sopravvento sulla barbarie dellearmi», che la squadra di lavoro venisse ri-composta colmando le defezioni inflittedal Kaiser. Ronald era lì per quello. E per-ché, nonostante la lentezza, era bravo.Bradley lo sapeva. Pochi tra i giovani col-laboratori padroneggiavano le linguenordiche come lui. Inoltre era lì perché lopagavano: con una famiglia a carico, c’e-ra poco da essere schizzinosi.

Ronald amava le parole, ma in un mo-do privato e peculiare. Erano arcani,enigmi da risolvere, contenevano sto-rie, abbracciavano secoli e continenti.Ogni parola ne suggeriva altre, forse maipronunciate, ma del tutto plausibili, an-cora più dense di significati e rimandi,quindi più vere. Ma tra quelle pareti nonci si poteva spingere troppo in là, vigevaun limite invalicabile. Nell’ottica deifondatori, l’Oxford English Dictionarydoveva essere la pietra miliare della ci-viltà britannica, la summa di ciò che siera detto in inglese e di come lo si era det-

to dall’alba dei tempi all’evo moderno.La fantasia restava fuori dalla porta.

«Parole, parole, parole» era la citazio-ne preferita da Bradley, la ripeteva tal-mente spesso che a volte non se ne ac-corgeva nemmeno, lo faceva sovrap-pensiero, tra sé e sé. Ronald detestavaShakespeare. Trovava incredibilequante occorrenze gli spettassero, co-me se avesse voluto usare tutti i vocabo-li possibili. Un vero usurpatore della lin-gua, vorace e ingordo.

Qualcuno iniziò ad alzarsi e accomia-tarsi con sobri cenni di saluto. Il grigioredelle mansioni contagiava i costumi.Parlare a bassa voce, muoversi il minimoindispensabile. Ronald si era adattato.

Uscì dalla vecchia sede del museo,concessa ai compilatori del Dizionarioper portare a termine la grande opera.Broad Street era ancora sgombra dal viavai di toghe e colletti inamidati che in ca-po a un’ora l’avrebbero riempita. La per-corse fino all’angolo e si diresse verso ca-sa. All’incrocio successivo si fermò a con-templare il nuovo palazzo dell’Ashmo-lean, che biancheggiava sul lato di Beau-mont Street. La scalinata, le linee neo-

classiche dell’edificio, il frontone sorret-to da quattro colonne ioniche, ogni det-taglio magnificava la gloria di chi, graziealla propria fama, aveva convinto l’uni-versità a trasferirvi il museo. Sir ArthurEvans non si sarebbe accontentato diniente di meno per contenere i ninnoli dire Minosse che aveva portato alla lucecon tanta cura. Archeologi e classicisti re-gnavano sovrani nella Nuova ArcadiaOxoniense. Per loro si costruivano palaz-zi. I filologi dovevano accontentarsi degliedifici dismessi.

Fu proprio al museo che si diresse. Daqualche tempo aveva preso quell’abitu-dine, una deviazione prima di tornare acasa, un innocuo segreto. A quell’ora lesale erano deserte, mancava poco allachiusura. All’ingresso il custode lo sa-lutò portandosi la mano alla visiera. Perqualche oscura ragione lo credeva unartigliere suo commilitone e per questogli concedeva di trattenersi qualche mi-nuto fuori orario. Ronald era stato neiLancashire Fusiliers, ma non si era maipresentata l’occasione di smentirequell’uomo, quindi poteva indulgerenell’equivoco senza sentirsi in colpa.

44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 27 APRILE 2008

la letturaAnticipazioni

Oxford, 1919. La guerra è finita, i reduci tornano a casaa ricucire le proprie vite. Tra loro, un esperto di mitinordici che sta scrivendo la sua Grande opera

“Piacere, Lawrence”. “Tolkien”WU MING 4

Repubblica Nazionale

Page 13: DOMENICA APRILE 2008 di MAURIZIO CROSETTI eCARLO …download.repubblica.it/pdf/domenica/2008/27042008.pdf · se cosa viva, è un pezzo della sua vita e si accende in continuazione

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45DOMENICA 27 APRILE 2008

Finché un giorno piomba all’università l’uomoche ha guidato la rivolta araba per Sua MaestàÈ “Stella del mattino”, il nuovo libro di Wu Ming 4

ILLU

ST

RA

ZIO

NE

DI G

IPI

Il vero caso di T.E. Lawrence non è nato al tempodelle sue imprese in Arabia, durante la Primaguerra mondiale, ma quasi trent’anni dopo, nel

1955, con la biografia di Richard Aldington, un pic-colo monumento di perfidia letteraria. Aldingtonaveva cominciato a scrivere queste stroncature aidanni dell’altro Lawrence, D.H., e poi di NormanDouglas suscitando polemiche e malumori. Maquando apparve in libreria, Lawrence of Arabia. ABiografy Enquiry, l’indignazione salì alta nei cieli fi-no alle eccelse cime dell’establishment inglese. Fi-no a quel momento i suoi innumerevoli estimatori,tra cui Winston Churchill, erano riusciti a impedireche dubbi e perplessità sulle imprese in MedioOriente superassero un certo limite o venisserotroppo alla scoperto. Per tutti o quasi tutti Lawren-ce era un eroe-martire, dotato in egual misura di ca-pacità guerrigliere e di nobile spiritualità, tradito al-la fine dal suo stesso governo che si era servito di luiper ingannare le tribù hashemite dell’Arabia, pro-mettendo loro quello che era già stato diviso traFrancia e Inghilterra con l’accordo Sykes-Picot.

Come inviato dei servizi segreti inglesi presso lacorte hashemita, aveva avuto un notevole successo,spingendo le tribù arabe a ribellarsi al vassallaggioottomano. La sua quasi copia conforme, il capitanoShakespeare, mandato sempre dagli inglesi pressoIbn Saud, carismatico e spietato capo dei Wahabiti,tradizionali rivali degli Hashemiti, era stato menofortunato, rimanendo ucciso durante uno dei primiscontri, mentre Lawrence aveva conquistato Aqa-ba, fatto saltare alcuni treni e dato fastidio alle guar-nigioni turche.

Durante la Prima guerra mondiale c’erano statialtri giovani ufficiali che avevano combattuto contemerarietà e compiuto audaci imprese, anche dal-l’altra parte della barricata: Erwin Rommell, la futu-ra volpe del deserto, con poco più di cento uomini aCaporetto aveva catturato l’intera brigata Salernoed era stato portato in trionfo sulle spalle dei solda-ti italiani che non volevano più combattere. In Tan-zania, il maggiore Von Lettow Vorbeck, oggi ritenu-to dal Pentagono il più grande tattico della guerrigliache ci sia mai stato, con tredicimila ascari per cinqueanni aveva preso in giro oltre duecentocinquanta-mila soldati anglo-indiani riuscendo a batterli intutti gli scontri e a non farsi mai prendere. Se Law-rence diventò così famoso da oscurare qualsiasi al-tra fama guerresca dell’epoca fu perché gli inglesi vi-dero nelle sue imprese una forma di riscatto per unaguerra spaventosa, che non aveva avuto nulla di glo-rioso, condotta per quasi cinque anni sul fronte oc-cidentale da comandanti spesso incompetenti e an-che imbecilli. Il fronte orientale, teatro delle opera-zioni di Lawrence, aveva contato molto poco nellastrategia globale dell’Inghilterra, scesa in campoper battere la Germania. Ma l’epopea araba con tut-to il suo contorno romantico, sembrava creata ap-posta per dimenticare le trincee della Somme.

A questo mito Lawrence aveva dato più di unamano: diciamo pure, ne aveva scritto soggetto e sce-neggiatura, fingendo di essere un tipo schivo e nel-lo stesso tempo assicurandosi la copertura dei gior-nalisti. Queste e altre contraddizioni erano state ri-levate, ma al tempo stesso rimosse, fino al libro di Al-dington, certamente non un membro della confra-ternita “Fate bene fratelli”. Il ritratto che veniva fuo-ri dalla sua inchiesta biografica era esattamentel’opposto di quello tramandato dalla vulgata: unpersonaggio sempre in maschera e dunque impos-sibile da definire, un attore consumato e estrema-mente vanitoso, un raccontatore di balle formida-bile quando c’era da mettersi in mostra. In partico-lare la storia della presa di Damasco, così come erastata raccontata nel suo libro I sette pilastri della sag-gezza (e riportata come verità indiscussa anche daicinque autori paracinesi della Stella del mattino), daparte dei leggendari beduini Howeitat guidati dallostesso Lawrence e dal loro capo Auda abu Tayi, te-mibile capo arabo, era pura invenzione. A sconfig-gere i Turchi erano stati gli australiani, fermati al-l’ultimo momento da Allemby, che aveva preferitoper chiare ragioni politiche che fossero degli arabi edei musulmani ad entrare per primi a Damasco (co-sì come nella Seconda guerra mondiale Eisenhowerfermò gli americani, che già stavano distribuendocaramelle Life savers e cioccolata lungo i viali dellaperiferia di Parigi, accogliendo la richiesta di DeGaulle di fare entrare per prime le truppe francesinel giorno della liberazione della loro capitale).

E se era vero che l’accordo Sykes-Picot era un pa-sticcio infernale, che peserà in modo totalmente ne-gativo su tutte le future vicende mediorientali, gliuomini dei governi inglesi non erano stati imbecillifino al punto di promettere qualcosa che non pote-vano nemmeno far finta di mantenere. Il loro dise-gno, assolutamente classico nella tradizione del-l’impero, era quello della “Indirect rule”, con la crea-zione di stati arabi solo in apparenza indipendenti,che avrebbero preso l’imbeccata da loro o dai fran-cesi. Un fatto di cui Lawrence doveva aver avuto si-curamente conoscenza, per poter calibrare i rap-porti con gli Hashemiti. Quanto a Feisal, il “magni-fico” ed esangue principe dai nobilissimi intenti, in-terpretato stupendamente nel film su Lawrence daAlec Guinness, era un tipo sufficientemente degra-dato e lontano dalla leggiadra miniatura disegnatada Lawrence ne I Sette pilastriper dirigere un gover-no corrotto e incapace quando venne nominato da-gli inglesi re dell’Iraq, arrivando a far uccidere nel1924 un suo rivale politico, Taufiq al-Khalid.

Aldington era ancora più devastante nell’accura-ta descrizione del carattere proteiforme, diciamocosì, dell’eroe che aveva finto tutta la vita di detesta-re la pubblicità e l’eccessiva esposizione delle sue vi-cende. Ma che ogni giorno andava in casa dei suoibiografi, gente del calibro di Robert Graves e di Lidd-le Hart, il migliore storico militare del secolo, a rive-dere le bozze, a correggerle di sua mano, arrivandoal punto di riscrivere interi capitoli. Da allora parla-re di lui è diventato molto difficile, perché ci si muo-ve su terreni paludosi e su sabbie mobili, con pochipunti fermi e sicuri. E con la poco simpatica sensa-zione di stare scrivendo delle agiografie quando cisono delle cose in positivo e di essere accusati di de-nigrazione alla prima nota negativa.

Eroe schivoo attore vanesio?

STEFANO MALATESTA

Superò le collezioni minoiche e filò alpiano di sopra.

Quando entrò nella sala sentì una sot-tile emozione solleticargli la nuca. L’illu-minazione degli espositori era l’unicafonte di luce rimasta. La grande teca ot-tagonale dominava il centro della stan-za. Da lontano era già un bel colpo d’oc-chio vederli disposti sul piano inclinato,quasi a formare una freccia puntata ver-so l’alto. Anelli. Forme e dimensioni era-no le più svariate. Angeli e dragoni, crocie stemmi, perle e pietre preziose. Eranoappartenuti a papi, vescovi, principi ita-liani. Cerchi che racchiudevano patti tragli uomini, vincoli di potere, il senso diuna fede immortale. Alcuni suggellava-no un vincolo coniugale sopravvissutoagli stessi amanti, e forse celavano mottiincisi all’interno.

Sfiorò il vetro col naso per osservarlimeglio. La fascetta d’oro che portava aldito era ben poca cosa davanti a quellosfarzo. Pensò a Edith, a quanto l’amava.Si sentì in colpa e gli venne voglia di cor-rere a casa.

Voltandosi trasalì e quasi urtò la teca.C’era qualcuno sulla soglia, una sagoma

illuminata a malapena. Un piccolo esse-re, anche più basso di lui, con una grossatesta. Gli ricordò l’illustrazione di un go-blin su un libro di favole di quando erabambino. Rabbrividì, proprio come al-lora davanti a quella pagina.

«Domando scusa — disse l’uomo mi-nuto — Credevo non ci fosse più nessu-no». Si avvicinò a passi piccoli e delicati.Ronald lo osservò sbirciare oltre il vetro.Aveva occhi di un azzurro intenso checatturavano la luce.

«Provo spesso a immaginare chi li por-tava al dito». Sembrava alludere a un di-scorso iniziato da tempo. Ecco uno checondivideva il suo segreto.

«Uomini che reggevano il peso del po-tere» disse Ronald.

Per un attimo l’altro parve incupirsi,ancora sovrappensiero. «Chissà se tuttine erano all’altezza».

«Immagino di no. Il potere corrompe— Ronald diede un colpetto di tosse —Credo che il museo sia chiuso».

«Oh, non sono un visitatore — risposel’altro, gli occhi sulla collezione di anelli— E nemmeno un ladro» ammiccò.

«Avevo un appuntamento con il diret-

tore. Lei viene qui spesso?».«No — mentì Ronald — Lei sì?».«Ci venivo prima della guerra. Mi per-

doni, — disse mostrando la mano destrabendata e porgendo la sinistra — Michiamo Lawrence».

Ronald si adattò. «Tolkien».

* * *«Hai fatto tardi. La cena si è freddata». Ronald poggiò la valigetta sulla sedia

nell’ingresso, baciò la moglie e lasciò chegli sfilasse il soprabito.

«Scusa. Mi hanno trattenuto». Il piccolo John gli corse incontro ri-

schiando di inciampare e pretese d’esse-re preso in braccio. Il suo riso infantiletolse a Ronald l’aria trasognata che si eraportato dietro dalla sala degli anelli.Scherzò per qualche minuto con il figlio,poi sedette a tavola. Di fronte a lui, Edithlo osservò mangiare in silenzio. Parlòsoltanto quando ebbe finito.

«Vuoi dirmi che ti è successo?».

(© 2008 by Wu Ming 4. Published by arrangement with Agenzia

Letteraria Roberto Santachiara)

IL LIBRO

Si intitola Stella del mattino(Einaudi,

401 pagine,

16,80 euro)

il nuovo libro

di Wu Ming 4,

uno dei membri

del collettivo

Wu Ming

Il romanzo

mescola

vite e ricordi

di personaggi

storici

come Lawrence

d’Arabia,

J.R.R. Tolkien

e Robert Graves

all’indomani

del primo

conflitto mondiale

In libreria

il 29 aprile

Repubblica Nazionale

Page 14: DOMENICA APRILE 2008 di MAURIZIO CROSETTI eCARLO …download.repubblica.it/pdf/domenica/2008/27042008.pdf · se cosa viva, è un pezzo della sua vita e si accende in continuazione

46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 27 APRILE 2008

Nella memoria di chi era ragazzo allora, la colonnasonora del Sessantotto è una chitarra che accompagnastrofe incendiarieoppure tributi commossi

al “comandante Che Guevara”. In realtà, l’anno comincia con la “lacrimaal vento” di Adamo e prosegue con Mino Reitano, Maurizio dei New Dada...Nuovi libri e cd in uscita aiutano a rimettere i ricordi nella giusta prospettiva

SPETTACOLI

Canzoni

Prima di dire che il Sessantot-to è stato un’esplosione di li-bertà e creatività, di imma-ginazione e fantasia, di que-sto e di quello, e che la so-cietà a quel tempo si diede

una mossa, e che nacquero fermenti esi svilupparono tendenze, bisogna faremente locale e controllare a puntino idocumenti. Tecnica di San Tommaso,metterci il dito. Quindi si può prenderecon una certa fiducia il libro di Riccar-do Bertoncelli e Franco Zanetti, AvantPop ’68, titolo difficile da pronunciaredavanti a qualsiasi libraio, che sta peruscire in questi giorni per la Rizzoli Bur,con il sottotitolo fortunatamente piùevocativo che recita Canzoni indimen-ticabili di un anno che non è mai finito.

La fiducia deriva dal fatto che la cop-pia di autori composta da Bertoncelli eZanetti è un marchio di fabbrica eccel-lente: basta non lasciarsi fuorviare dalvecchio ricordo di Bertoncelli motteg-giato ai tempi dei tempi da FrancescoGuccini (per ritorsione dopo una re-censione ispida) in una delle strofe del-l’Avvelenata («tanto ci sarà sempre, losapete, un musico fallito, un pio, unteorete, un Bertoncelli, un prete, a spa-rare cazzate »), e considerarne soltantola lunga carriera di critico, collezionistae musicofilo; e poi avere presente perbenino la vicenda di agitprop culturaledi Zanetti, animatore della rivista onli-ne Rockol (www. rockol. it), ma soprat-tutto inventore di iniziative pazzeschecome le canzoni di Battisti-Panella ese-guite in una bellissima forma oratoria-le, e come il concerto battistiano per le172 bande che in tutta Italia eseguironocontemporaneamente La canzone delsole, a sette anni giusti dalla scomparsadel «maestro solitario».

È sufficiente quindi aprire il libro diBertoncelli e Zanetti per accorgersi cheper parlare decorosamente delle can-zoni del Sessantotto, e magari degli «an-ni Sessantotto» (come cita Anna Bravonel suo recentissimo e serissimo saggiolaterziano sulla cultura dell’anno fata-le, A colpi di cuore), occorre in primoluogo spogliarsi dei pregiudizi e diun’intera fila di luoghi comuni. Almenoper quanto riguarda le canzoni popola-ri, infatti, il Sessantotto ci ha messomolto tempo a ingranare. Se si scorronole classifiche della hit parade di allora, sideve prendere nota di un elenco che co-mincia con Affida una lacrima al vento

EDMONDO BERSELLI di Salvatore Adamo, il languoroso italo-belga emigrato nel 1947 da Comiso diRagusa, e di cui si favoleggiò a lungo suirotocalchi un flirt presunto con PaolaRuffo di Calabria, alias Paola di Liegi,cioè la bionda e affascinante cognata diBaldovino e attuale regina. Lui le dedicòuna canzone, Dolce Paola, in cui dopoqualche apprezzamento alla sua di-mensione regale («mi offrì il suo sguar-do… nella sua maestà»), le rivolgeva ap-prezzamenti dal lato ornitologico (rive-

lando che in lei «ho visto in verità unacolomba fragile»).

Vola colomba, insomma, paroled’antan. E difatti il Sessantotto ci metteun po’ a farsi sentire. Le top ten sonotutto un tripudio di Fausto Leali, con ildramma da zio Tom di Angeli negri,«Pittore, ti voglio parlare, mentre di-pingi un altare», e giù a scendere con iCamaleonti, Mino Reitano che avevaun cuore che ti amava tanto, AdrianoCelentano, Don Backy che aveva litiga-

to con Celentano, Marisa Sannia, Gian-ni Morandi, Maurizio ex New Dada(quello di Cinque minuti e poi, con l’ae-reo che si porta via per sempre la ragaz-za e lui quasi piange, praticamente sin-ghiozza, esulcerato com’è per la perdi-ta della morosa, e piange comunquemolto meglio e con più credibilità chenon nella tarda versione di Claudio Ba-glioni). E poi Sylvie Vartan, Dalida, Di-no, Franco IV e Franco I che scrivevano«t’amo sulla sabbia», Giuliano e i Not-

turni, la bambola di Patty Pravo, l’an-gelo blu dell’Equipe 84, «che se fischiotorna giù», e tutti gli altri, famosi e di-menticati, italiani e stranieri, i Pooh diPiccola Katy (che pure risale alla finedell’anno precedente) e gli Iron Butter-fly dell’irripetibile In-A-Gadda-Da-Vi-da. Fino a Vengo anch’io, di Enzo Jan-nacci, che forse contende ad Azzurro iltitolo di inno nazionale del Sessantottoall’italiana.

Il merito di Bertoncelli e Zanetti è diavere preferito la documentazione, an-che quando è un pochino paranoica,alla teoria astratta. Bertoncelli si è oc-cupato della natura più o meno politi-ca della musica di allora: e allora è il ca-so di aggiungere che al volume è allega-to un cd che documenta «l’“altra” can-zone di quel periodo, quella dei circolioperai, delle sezioni, delle prime mani-festazioni, quella diffusa principal-mente per via orale con rari sbocchi e ri-scontri discografici» (il disco, prodottoda Ala Bianca di Toni Verona, com-prende fra gli altri brani di GiovannaMarini, Sergio Liberovici, Fausto Amo-dei, tratti dal repertorio dei Dischi delSole, un giacimento culturale deposi-tato nell’archivio sonoro dell’IstitutoErnesto De Martino).

Ma sarebbe un fraintendimento limi-tare la musica del Sessantotto a quel-l’insieme di canzoni o inni che vanno daContessa di Paolo Pietrangeli a Hastasiempre! (Comandante Che Guevara) diCarlos Puebla. E difatti per riequilibra-re l’operazione c’è la minuziosa rico-struzione di Zanetti, tutta dedicata allapiù spudorata canzone commerciale, esoprattutto una formidabile enciclope-dia di 68 canzoni più una: quest’ultima,vedi caso, è Quarantaquattro gatti, in-no nazionale degli infanti d’Italia, «l’u-nica vera canzone di protesta del 1968che abbia avuto davvero un successoduraturo», con il suo resoconto diun’assemblea di rivendicazione di «di-ritti felini». Per la cronaca, la canzone,

Una contessa e 44 gatti

Paolo PietrangeliChe roba contessa,all’industria di Aldohan fatto uno scioperoquei quattro ignoranti;volevano avere i salariaumentati, gridavano, pensi,di esser sfruttati [...]Compagni dai campie dalle officine prendetela falce, portate il martello,scendete giù in piazza,picchiate con quello [...]

ribelli

Da CONTESSA

Repubblica Nazionale

Page 15: DOMENICA APRILE 2008 di MAURIZIO CROSETTI eCARLO …download.repubblica.it/pdf/domenica/2008/27042008.pdf · se cosa viva, è un pezzo della sua vita e si accende in continuazione

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47DOMENICA 27 APRILE 2008

scritta dal musicista modenese PippoCasarini, venne presentata allo Zecchi-no d’orodalla udinese-goriziana Barba-ra Ferigo, quattro anni e mezzo, e su-però altre canzoni epocali, Il torero Ca-momillo e Il valzer del moscerino, ese-guita dalla precocissima star CristinaD’Avena (come si vede erano tempi incui la musica per bambini non scherza-va, se è vero che pochi mesi dopo fu ad-dirittura Mina a interpretare Quaranta-quattro gatti in un duetto con il pupaz-zo Provolino).

Ecco, se si vuole sapere come sononate quelle canzoni che fanno parte diun frammento mitologizzato di storiapatria, vale la pena di leggere, golosa-mente, tutte le curiosità citate in questosublime repertorio. Maniacali annota-zioni, frutto di archivi fantastici, cheraccontano tutte le cover, i titoli, le ver-sioni, le date, i precedenti, e segnalanotutte le curiosità, sottolineano tutto ciòche si sa e si credeva di sapere sui Rokes,su Jimmy Fontana, su De Andrè, suiMoody Blues, ma sempre aggiungendocon insolenza filologica un particolaresconosciuto, un indizio in più, un ele-mento che era sfuggito finora.

Si possono così trovare “voci” deli-ranti come la seguente, ripresa da do-cumenti d’epoca (l’Enciclopedia deicantanti e delle canzonidi Tullio Barba-to, De Vecchi Editore, 1969): «Capello-ne barbuto dell’ultima leva, che ha dapoco abbracciato l’attività di cantantein senso professionale, ottenendo buo-ni risultati con vari complessi e inciden-do il suo primo disco con la Jolly. Pienodi belle speranze, è convinto di percor-rere molta strada con i suoi stivaletti.Dicono che lo meriterebbe. Il suo gene-re è il folk». Per chi non l’avesse ricono-sciuto, si parla di Franco Battiato, se-gnalato anche come esecutore dellaversione italiana di Rain and TearsdegliAphrodites Child. Che dire? In effetti sen’è fatta di strada, dal Sessantotto a Lacura, stivaletti o no.

LA MOSTRA

Le immagini che illustrano

queste pagine sono manifesti

politici torinesi in mostra

per tutto il mese di maggio

al Circolo dei lettori di Torino

(via Bogino, 9). L’esposizione

è un’appendice

de L’arte per la strada.I manifesti del MaggioFrancese. In mostra

fino al 6 maggio 92 manifesti

e bozzetti originali

della collezione Antonio Ricci,

un quinto dell’intera

produzione realizzata

nel maggio del ’68, suddivisa

in due parti: i manifesti

prodotti dall’Atelier populaire,

le opere di quindici artisti

di fama come Pietro Cascella

e Jean Ipoustéguy

IL LIBRO

La colonna sonora del ’68

tra canzoni militanti

e non solo. È Avant Pop’68 di Riccardo Bertoncelli

e Franco Zanetti in uscita

il 30 aprile per Rizzoli

(392 pagine, 17,50 euro)

Sono sessantanove

schede di dischi

di quell’anno magico

da pezzi leggeri come

Tu che m’hai presoil cuor a quelli impegnati

come ContessaCon il libro un cd con dieci

canzoni di protesta Cantava già nel 1967, nell’Università di Trento occupa-ta dagli studenti, quando manifestava per i condan-nati a morte spagnoli garrotati dai tribunali fascisti di

Franco e partecipava a Firenze alle veglie nella chiesa dell’I-solotto di don Mazzi, dove intonava Hasta siempre.Era la vi-gilia del ’68, una stagione alimentata da sogni impossibili eda passioni assolute, anticamera di delusioni e di degenera-zioni. Ma anche irripetibile ventata di rinnovamento cultu-rale. Ivan Della Mea, classe 1940, animatore e memoria deiDischi del Sole, affollata colonna sonora di quell’anno for-midabile, lasciò allora il laboratorio del Nuovo CanzoniereItaliano per vivere full time la politica e l’impegno, «in vistadella rivoluzione». Canzoni pensate e interpretate con Pao-lo Pietrangeli, Giovanna Marini, Paolo Ciarchi, Pino Masi,Alfredo Mandelli e tanti altri. Come Due, tre, molti Vietnam,scritta di ritorno da Cuba dove erano andati tutti insieme, in-vitati da Fidel Castro. «Da noi il Vietnam era la scuola, era lafabbrica, erano le carceri, era l’amore».

Quarant’anni dopo Ivan Della Mea, presidente dell’Istitu-to della canzone popolare Ernesto De Martino, ha avuto l’i-dea di restituire l’ennesima vita a trenta fra i brani più famo-si del tempo che fu. E il 23 maggio escono per Ala Bianca, l’a-zienda indipendente con distribuzione Warner che datrent’anni rappresenta un po’ «la cultura della musica», duecd dal titolo provocatoriamente retorico, È finito il 68?, conun libretto ricco di ricordi e con la copertina illustrata perl’occasione da Vauro: un eskimo (il giaccone divisa dell’epo-ca) avvolto in una sciarpa rossa volante. Una raccolta com-pleta, ragionata e illustrata delle stesse canzoni che, in nu-mero più ridotto, accompagnano, ancora con la collabora-zione di Ala Bianca, altri due tra i tanti libri in uscita per il ce-lebratissimo quarantennale del ’68: Avant Pop, per Rizzoli, eun volume, ancora senza titolo, che Feltrinelli manderà in li-breria alla fine del mese prossimo.

Della Mea assicura che «il ’68 è tutt’altro che finito». O me-glio, secondo lui, sopravvive la sua essenza«poiché le tematiche affrontate allora sonopresenti ancora oggi». Canzoni sopravvissuteper quattro decenni e mai andate definitiva-mente in sonno. Longseller dice lui, «che nonsi sono mai del tutto fermate e che ancora ven-gono scoperte, da una generazione all’altra».Brani, come scrive nella prefazione StefanoArrighetti, «dove c’è tutto quello che ci do-vrebbe essere»: la cronaca e le date delle mani-festazioni, gli studenti e gli operai, Cuba e ilVietnam, la Fiat e l’emigrazione (che all’epocaera nostra, dal Sud al Nord), i manifesti politi-ci e le storie personali. Da Contessa, a La balla-ta della Fiat, da Valle Giuliaa Io so che un gior-no, fino a Cara moglie e a tante altre.

«Era giusto promuovere un’iniziativa spe-ciale per celebrare una data che non vuol diresoltanto dodici mesi. Il ’68 è il poco che c’è sta-

to prima e il molto che c’è stato dopo. Perché, se è vero chenon ci fu la rivoluzione ingenuamente pensata, certamentec’è stato un grande cambiamento del costume che ha pro-dotto effetti importantissimi. Il ’68 ha cambiato la famiglia eil rapporto tra l’uomo la società e tra le donne e la società. Daquel seme, negli anni successivi, sono venute le grandi bat-taglie democratiche per la legge sull’aborto e sul divorzio etante altre conquiste. E le nostre canzoni hanno raccontatotutto questo. Alcune sono diventate manifesti, altre dei verie propri simboli. E poi ancora adesso rappresentano quasiun certificato di esistenza in vita di certi valori che oggi nonci sono più, ma per motivi simili a quelli che noi, all’epoca,abbiamo messo nei nostri brani».

Tra delusione e rimpianto. Ivan Della Mea tornò nel Nuo-vo Canzoniere Italiano nel 1971, subito dopo aver abbando-nato Lotta continua. E «ci si scontra a muso duro, ma ci si ri-trova». Quando muore il suo amico Gianni Buoso, scrive:«…qualcosa abbiamo fatto, / sì per capire, / che questo can-tare color terra vuol dire creare. / E anche vivere».

La musica “color terra”della nostra generazione

SILVANA MAZZOCCHI

LA COPERTINALa copertina

del doppio cd

È finito il 68?,

in uscita

il 23 maggio

per Ala Bianca

REPUBBLICA.ITDa oggi

su Repubblica.itsi possono

ascoltare

le canzoni

ribelli del ’68:

da Contessaad Hasta SiempreNello speciale

multimediale

testimonianze

e video

dei protagonisti,

da Paolo

Pietrangeli

a Ivan Della Mea

Ivan Della Mea quarant’anni dopo

Repubblica Nazionale

Page 16: DOMENICA APRILE 2008 di MAURIZIO CROSETTI eCARLO …download.repubblica.it/pdf/domenica/2008/27042008.pdf · se cosa viva, è un pezzo della sua vita e si accende in continuazione

i saporiGusto primavera

La leggenda vuole che i piccoli frutti rossi e profumati siano natidalle lacrime sparse da Venere sulla tomba dell’amato AdoneQuesta origine passionale ha lasciato il segno e da sempre,al di là del fatto che sono sani e buoni, vengono consideratiafrodisiaci. Ma attenzione a quelli “palestrati”, imbottiti di chimica

«La fragola, che cresce sotto l’ortica, rappresenta l’eccezione più bella allaregola, poiché innocenza e fragranza sono i suoi nomi. Essa è cibo da fa-te». La regola a cui Shakespeare cercava di sottrarre il suo frutto preferitocondannava le piante ad assorbire il bene e il male dall’ambiente in cui vi-vevano. Eppure, perfino sotto l’erba che urtica e punge — a sua volta am-piamente riabilitata dalla cucina popolare e d’autore — i rossi cuoricini

polposi conservavano il loro fascino allegro.Furono i Romani a battezzarla con il nome fragrans, per imprigionarne idealmente il pro-

fumo inebriante. Soprattutto, però, già allora la fragola era considerata un frutto afrodisiaco.A sancirne l’irresistibile eroticità, la sua stessa origine: si diceva fosse nata dalle lacrime ver-sate da Venere, dea dell’amore, sulla tomba dell’innamorato Adone. Una malia che ha attra-versato intatta i secoli, supportata dalla forma a cuore e dal colore rosso acceso.

In effetti, c’è stato anche un tempo in cui la fragola ha dismesso i panni maliardi per esse-re assunta come medicina dei sentimenti: nel Medioevo, ribattezzata “frutto cuore”, venivaprescritta agli amanti disperati, in quanto cibo capace di placare le passioni d’amore. Unaparentesi virtuosa spazzata via dal regno del Re Sole. Furono i suoi giardinieri ad addomesti-care la fragola, reimpiantando le piantine selvatiche nelle aiuole di Versailles, e le sue dame arestituirla a un ruolo irresistibilmente cocotte: durante le feste di corte, affondare il cucchiai-no nelle coppe cosparse di zucchero e panna era invito inequivocabile al cavaliere prescelto.Una virtù galeotta mai sconfessata, tanto che nel film-simbolo del nuovo erotismo patinatoanni Ottanta, Nove settimane e mezzo, il regista Adrian Lyne mise le fragole al centro di unadelle scene bollenti tra Mickey Rourke e Kim Basinger.

Ma, se l’abbinamento fragole&champagne resiste impavido in tutti i manuali di seduzio-ne, anche dal punto di vista nutrizionale il “frutto cuore” non scherza: incrementa la riservaalcalina dell’organismo, regala vitamine e antiossidanti, vanta proprietà dissetanti, diureti-che, antiuriche, antinfiammatorie, depurative, lenisce il bruciore delle scottature, rende vel-lutata la pelle. Il tutto, con un carico calorico risibile (a patto di essere mangiata nature).

Una messe di virtù azzerate dalle coltivazioni intensive e destagionalizzate. La produzio-

ne intensiva in serra e le forzature hi-tech per renderle grandi, gonfie, rosse, pronte in qual-siasi momento dell’anno, trasformano le fragole in piccoli, malsani assemblaggi di chimica,lontani anni luce dalla magia incontaminata del «cibo per fate» cantato da Shakespeare. Sco-prire i frutti bionici, per fortuna è semplice: basta chiudere gli occhi e ricordare. Perché il pro-fumo di fragola rappresenta una sorta di imprinting sensoriale, come il pane buono appenasfornato o il caffè che gorgoglia piano nella moka: non c’è limone, vino, panna, zabaione chepossano restituire profumo e sapore alle imitazioni-Big Jim.

Allora, meglio evitare le fragole palestrate e scegliere le produzioni naturali, biologiche, pri-vilegiando quelle piccine e sode, dolcissime. Sapendo che la resistenza in frigo è (giustamen-te) poca cosa: un paio di giorni, allargando il contenuto del cestino su un panno poi coperto,lavando rapidamente, togliendo la rosetta di foglie con una piccola torsione, aggiungendo ilcondimento all’ultimo momento per evitare che cuociano, smarrendo il meglio di sé.

Agli itinerari tracciati dalle sagre che si inseguono dagli inizi di maggio, aggiungete una gi-ta tra Maletto, alle falde dell’Etna, e Ribera (sede di presidio Slow Food), Sciacca e Marsala,terre di fragoline odorose. Se invece soffrite di orticaria, pazientate un paio di settimane: iltempo delle ciliegie sta per arrivare.

Gli appuntamentiEsplode nel prossimo fine settimana

il tempo delle fragole. Si comincia a Cassibile (Siracusa),

ad Arborea (Oristano), e a Capezzano Pianore, in Versilia,

con tre succosi appuntamenti “farciti” di ricette a cielo aperto,

degustazioni, mostre-mercato, menù monodedicati

Bisognerà invece aspettare fine maggio per gustare il week end

della fragola biologica a Cesena e quello (imperdibile!)

che celebra la fragola con panna, a Reggello, Firenze

DOVE DORMIREHOTEL BERGFRIEDEN

Meiern 84

Tel. 0473-744516

Doppia da 50 euro

colazione inclusa

DOVE MANGIAREKUPPELRAIN (con camere)

Piazza Stazione 16, Maragno

Tel. 0473-624103

Chiuso domenica e lunedì

a pranzo, menù da 47 euro

DOVE COMPRAREAGRICOLA COOP. MEG

Transacqua 249

Tel. 0473-744700

itinerari

Borgo suggestivo nel cuore

della Val Martello (laterale

della Val Venosta), vanta

un microclima mite e asciutto,

ideale per la coltura di fragole

grandi con dolcezza e profumo

da fragoline. Festa dedicata

l’ultimo week end di giugno

Martello (Bz)

DOVE DORMIRELOCANDA IL VARANO

Via Valle Oppio 6, Marozzo

Tel.0533-949135

Doppia da 75 euro

colazione inclusa

DOVE MANGIARETRATTORIA PAVANI

Borgo Dei Fiocinini 13

Tel. 0533-900069

Chiuso martedì sera

menù da 25 euro

DOVE COMPRAREAZ. AGRICOLA FRANCHINA

Via Franchina 7

Località S. Maria Codifiume

Tel. 0532-725365

Tra il bosco della Mesola

e i Lidi Ferraresi, è la patria

botanica della fragaria:

qui si coltiva il 90 per cento

delle piante di fragola prodotte

in Italia. Dal 17 al 25 maggio

celebrazione con menù,

laboratori e degustazioni

Lagosanto (Fe)

DOVE DORMIREIL PORTICO FIORITO

Via del Tempio di Diana

Tel. 340-7633560

Doppia da 100 euro

colazione inclusa

DOVE MANGIARELA GROTTA

Via Belardi 31

Tel. 06-9364224

Chiuso mercoledì

menù da 33 euro

DOVE COMPRAREAGRITURISMO AGROPOLIS

Via S. Gennaro 2, Genzano

Tel. 06-9370335

Le lacrime di Venere

trasformate in cuoricini rossi

dal sangue di Adone: ecco

la mitica storia delle fragoline

coltivate sul lago, davanti

a Genzano. Qui le “fragolare”

sfilano con i loro cesti la prima

domenica di giugno

Nemi (Rm)

Lino Scarallo è il talentuoso cuoco di PalazzoPetrucci, ristorante che si trova nel quattrocentescoedificio di piazza San Domenico Maggiore, cuoredi Napoli. Tra i suoi piatti migliori: la millefogliecroccante al cioccolato con fragoline di bosco

48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 27 APRILE 2008

Il “cibo delle fate”da sempre galeotto

LICIA GRANELLO

Fragole

RisottoBase classica – cipolla, burro,

olio – riso fatto brillare e sfumato

con vino bianco e brodo

A pochi minuti da fine cottura,

si aggiungono (piano) le fragole

a tocchetti, il vino bianco

in cui sono state marinate,

e pochi cucchiai di panna

Al cioccolatoRicetta golosa e ineccepibile

per i nutrizionisti (33 calorie

per fragola, vitamine e acidi

grassi polinsaturi). Prevede

di tuffare i frutti nel cioccolato

amaro al 70 per cento, sciolto

a bagnomaria. Posare su carta

oleata e raffreddare in frigo

BavareseA 250 grammi di fragole, frullate

con zucchero, limone e scorza,

si aggiungono quattro fogli

di colla di pesce ammollata

e sciolta e mezzo litro di panna

Poi riposo in frigo. Versione

alleggerita: fruttosio e yogurt

invece di zucchero e panna

MarmellataLavate delicatamente senza

lasciarle a bagno, asciugate

senza tagliarle, irrorate di limone

o fatte riposare con un baccello

di vaniglia, le fragole devono

cuocere piano con lo zucchero

(metà del peso della frutta)

fino alla densità voluta

GelatoVersione senza gelatiera:

le fragole (250 grammi, lavate,

asciugate e ridotte a purea)

vengono spolverate di zucchero

a velo (100 grammi) e passate

al colino. Aggiungere un limone

e 200 grammi di panna. Riposo

in freezer, girare ogni venti minuti

Le tonnellate

di fragole prodotte

ogni anno in Italia

130mila

Repubblica Nazionale

Page 17: DOMENICA APRILE 2008 di MAURIZIO CROSETTI eCARLO …download.repubblica.it/pdf/domenica/2008/27042008.pdf · se cosa viva, è un pezzo della sua vita e si accende in continuazione

Nel 1655 la regina Cristina di Svezia scese in Italia di-retta a Roma, dopo essersi convertita al cattolicesi-mo e avere abdicato al trono. Il 27 novembre fece

pausa a Mantova, alla corte dei Gonzaga, dove fu festeggia-ta con un grande banchetto allestito da Bartolomeo Stefa-ni, uno dei più celebri cuochi del tempo. Di quel banchettosappiamo tutto perché lo stesso Stefani lo raccontò, setteanni dopo, in appendice a un suo libro di ricette intitolatoL’arte di ben cucinare. Lo raccontò con orgoglio, come unodei momenti più alti della sua luminosa carriera.

Nella lunga lista di vivande che furono presentate in quel-la occasione, una attira subito la nostra attenzione. In aper-tura furono servite «fraghe», ossia fragole, «lavate con vinobianco servite con zuccaro sopra». Unpiatto semplicissimo dunque, pur searricchito da piccole sculture in zuc-chero, un vero must della tavola ba-rocca. Sculture in tema: «Nel circuitodell’ala del piatto, conchiglie fatte dizuccaro empite delle stesse fraghe,tramezate con uccelletti fatti di pastadi marzapane, che sembravano volerbeccare dette fraghe».

Non stupiscano le fragole con zuc-chero e marzapane servite in apertu-ra: la cucina seicentesca, sulla scia diquella rinascimentale, amava il dolcea tutto pasto e metteva zucchero dappertutto. Quanto allefragole, è difficile dire se fossero coltivate o selvatiche. All’e-poca di Stefani erano già cominciati gli esperimenti di in-crocio tra le fragoline selvatiche (le sole conosciute nel Me-dioevo) e nuove specie venute dall’America. Da questi in-croci nacquero vari tipi di «fragole grosse», come quelle cheil giardiniere di re Luigi XIV, Jean de la Quintinie, selezionònei giardini di Versailles sul finire del secolo. Ma siamo ap-pena agli inizi di una storia (quella dei fragoloni) che si svi-lupperà solo in epoca successiva, dal Sette-Ottocento inpoi. Il gusto seicentesco era ancora legato alle fragole selva-

tiche e credo più probabile che di queste si trattasse, al ban-chetto di Mantova del 1655.

Piuttosto, facciamo mente alla data: 27 novembre. Asso-lutamente fuori stagione. Con un colpo così, il cuoco deiGonzaga aveva già conquistato l’ospite illustre. Carni preli-bate e succulente preparazioni sarebbero seguite, ma il suc-cesso del banchetto era in partenza assicurato. All’epoca,come già nel Medioevo, e poi nell’età rinascimentale, offri-re cibi “fuori stagione” dava prestigio al padrone di casa (co-me lo stesso Stefani ama precisare, commentando le suescelte gastronomiche). E questo, nonostante fosse chiaro atutti che «il frutto non è buon’fuor di stagione», come dice-va un proverbio cinquecentesco.

Ma se il frutto non è buono, che im-porta? Non si mangia solo per piace-re. La tavola del principe serve anzi-tutto a mostrare ricchezza, potere, ca-pacità di mettere insieme risorse e in-gredienti non scontati. In un mondoin cui osservare la stagionalità dei pro-dotti era normale, anzi d’obbligo, nonfarlo era un segno di distinzione.

In questo desiderio antico di in-frangere i ritmi stagionali, sentiti co-me una costrizione “contadina”, èforse la radice di certi comportamen-ti attuali, non più elitari ma di massa.

Solo che, oggi, le ragioni del prestigio non valgono più: man-giar fragole nella stagione fredda non è più un privilegio ri-servato a pochi. Democraticamente parlando, ciò non sa-rebbe così negativo, se non si accompagnasse a una perdi-ta collettiva della cultura della stagionalità, minata dai ritmidell’industria e dai circuiti del commercio alimentare. Pro-prio quella cultura — paradossalmente — dava un senso al-l’infrazione di Stefani. Recuperarla come valore forte e po-sitivo, rovesciando il paradigma del lusso alimentare, saràuna piccola rivoluzione culturale, a vantaggio anche del no-stro piacere. Perché «il frutto non è buon’fuor di stagione».

Piatto da reginale “fraghe

fuor di stagione”MASSIMO MONTANARI

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 49DOMENICA 27 APRILE 2008

Di campoTante le varietà della fragaria

comune: al sud Chandler,

Pajaro, Tudla e Miranda, mentre

al nord si coltivano Idea,

Marmolada, Elsanta, Cesena

Tra le straniere, la Chiloensis,

di origine sudamericana,

e l’americana Virginiana

SelvaticaLa fragaria più ambita e preziosa

si chiama vesca, è originaria

di Europa settentrionale

e Siberia, cresce in boschi,

radure e ripe erbose, fino a 1800

sul livello del mare. Minuta

e profumata, le sue foglioline

si usano per tisane rinfrescanti

Di boscoDalla specie selvatica originaria

sono state selezionate varietà

coltivabili, che fruttificano

sia all’aperto che in serra,

garantendo (almeno in parte)

fragranza e profumo. In Trentino

il periodo della raccolta

dura da giugno a settembre

RifiorenteMerito di questa numerosa

famiglia botanica

se la fruttificazione di varietà

dal calibro piccolo e medio

continua da primavera a inizio

autunno. Le unifere, invece,

regalano falsi frutti grandi e pieni,

ma maturano solo in autunno

A cuoreTra le varietà coltivate, il falso

frutto (i frutti veri sono i semini

gialli nella polpa rossa, detti

acheni) più romantico è quello

della Gorella, cuoriforme

Ma esistono anche forme

oblunghe, come la Belrubi,

e la rotonda Pocahontas

Repubblica Nazionale

Page 18: DOMENICA APRILE 2008 di MAURIZIO CROSETTI eCARLO …download.repubblica.it/pdf/domenica/2008/27042008.pdf · se cosa viva, è un pezzo della sua vita e si accende in continuazione

le tendenzeModa e memoria

Torna in auge il panciotto che un tempo definiva lo stilemaschilee che oggi, a sorpresa, si riconverte in seducentedettaglio femminile. In seta, jeans o tessuto tecnologicocompare in passerella (e in vetrina) sotto giacche dal tagliorigoroso o più audacemente indossato a pelle. Perfettosia da giorno che da sera, non teme neppure l’ostacolo dell’età

50 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 27 APRILE 2008

C’era una volta, tanti tanti anni fa, il classico gilet da uo-mo. Un pezzo da intenditori, realizzato con sobri tes-suti manageriali, come flanelle e gessati. O con stoffedi sportiva eleganza britannica come tweed e pie depoule. Si trattava di un capo tradizionale, simbolo diun vestire vecchio stile, ormai caduto in disuso salvo

qualche rara eccezione. Nelle boutique non se ne trovavano quasi più.E chi voleva indossarlo era costretto a comprarlo nei negozi vintage o afarselo fare dal sarto.

Poi, improvvisamente, tutto è cambiato. E il gilet è tornato sotto i riflet-tori. Indossato per le strade di Londra, Parigi e New York da attrici e top mo-del, come Kate Moss e Sienna Miller, che ne hanno fatto quasi un’unifor-me. Rivisitato e corretto in versione moderna dai grandi della moda che, inun batter d’occhio, lo hanno trasformato da capo d’abbigliamento per uo-mini all’antica in gadget di seduzione per femmine all’ultima moda. «Cre-

do che la novità più interessante del nuovo gilet sia che,da elemento maschile tradizionale utilizzato nei com-pleti più classici, si è trasformato in un oggetto sensuale eiperfemminile», spiega la stilista Anna Molinari che, nel-la sua collezione estiva, ha introdotto diverse varianti sul-l’indumento. A cominciare da un modello tricotato allaLolita da portare a pelle sopra gli hot pants.

Ecco allora che, all’inizio della primavera 2008, quellagiacca senza maniche nata alla fine del Seicento come in-dumento elegante è tornata a far parlare di sé. Certo non è laprima volta che il waistcoat, come lo chiamano gli inglesi, tor-na in auge. Accadde già negli anni Settanta del secolo scorso,quando gli hippy lo recuperarono come capo simbolo della lo-ro generazione, in alternativa alla giacca, considerata più noio-sa e borghese. Di jeans o fatto all’uncinetto, di pelle o in versionepatchwork, il gilet dei figli dei fiori si portava di giorno come di se-ra, in spiaggia o in discoteca, con gli hot pants o con i pantaloni del-lo smoking. Missoni lo realizzò in maglia zigzag, Yves Saint Laurentin gabardine beige. I Beatles lo indossarono, con camicia bianca ecravatta nera, sui palchi di mezzo mondo. Mentre il giovane John Tra-volta ne fece il simbolo del suo disco-style.

Attenzione però, il gilet dell’estate 2008 è molto diverso dal suo ante-nato rivoluzionario di quarant’anni fa. Di trasgressivo, infatti, ha poco onulla. Anzi. Nell’immaginario dei più importanti stilisti, da Valentino aGiorgio Armani, da Anna Molinari a Karl Lagerfeld, è il nuovo indumentoelegante per eccellenza. Utilizzato di giorno sulla pelle nuda al posto di ca-micie e t-shirt. E la sera in sostituzione di top e giacchini per dare un toccodi ironia agli abiti più eleganti. Un esempio? La versione in lana verde, me-lange, con scollo profondo, proposta da Miuccia Prada. Una variante qua-si sportiva che si indossa però insieme alla lunga gonna da ballo a fiori. Unleitmotiv riproposto anche sulla passerella di Louis Vuitton, dove il desi-gner Marc Jacobs ha scelto di abbinare il suo gilet gessato, da indossare ri-gorosamente senza nulla sotto, con una gonna di tulle viola lunga fino aipiedi. «Non c’è dubbio: il gilet di oggi è l’elemento giusto per sdrammatiz-zare un incontro formale», aggiunge Molinari, «o per esprimere tutta lapropria femminilità in un’occasione informale».

JACARANDA CARACCIOLO FALCK

MACHO MANMolto macho

il modello

bicolore,

con colletto

a giacca, firmato

Emporio Armani

Da portare semi

sbottonato sopra

la semplice

canotta grigia

GIACOMOCASANOVADi eleganza

e fascino

proverbiale

lo scrittore

e avventuriero

veneziano (1725-

1798) possedeva

molti panciotti

ricamati

finemente

FORMATO MAXIMaxi lunghezza

per il modello

a due bottoni

di Max Mara

Di pelle nera

si indossa

senza

assolutamente

nulla sotto

Effetto shock

FORMATO MICROÈ realizzato in lino

naturale fresco

e giovanile

il micro gilet

da giorno

di Gas. Attillato

in vita e dotato

di taschine laterali

Si abbina bene

al pantalone ecru

W LE BORCHIELa maison

Etro rilancia

lo stile hippy

con un bolerino

di pelle nero

tempestato

di mini borchie

Prezioso

e aggressivo

da vera guerriera

CHARLIECHAPLINNei panni

di Charlot

l’attore

rese celebre

il gilet nero

in versione

“indigente”

indossandolo

sotto la giacchetta

stretta e logora

JOHNTRAVOLTANel film La febbre

del sabato sera

del 1977

il divo John

è Tony Manero

e sfoggia gilet

candidi o scuri

scatenandosi

sulla pista

da ballo

GiletL’eleganza senza maniche

Repubblica Nazionale

Page 19: DOMENICA APRILE 2008 di MAURIZIO CROSETTI eCARLO …download.repubblica.it/pdf/domenica/2008/27042008.pdf · se cosa viva, è un pezzo della sua vita e si accende in continuazione

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 51DOMENICA 27 APRILE 2008

Ha davvero molte anime il gilet. Già se lo chiami panciotto ha qualcosa di vecchio,molto ancien régime, gli manca solo l’orologio a cipolla nel taschino: assieme al cap-potto di cammello fa subito commendatore. Ma fortunatamente è stato svecchia-

to e sdrammatizzato, diventando un capo per tutte le stagioni, anche quelle politiche. Co-me dimenticare i gilet floreali degli hippy, quelli folk da ambientalista, o il gilet femmini-sta e androgino, se portato da una donna, in stile Ultimo tango a Parigi? Il panciotto fa qua-si sempre parte di una maschera: può essere quella di Totò, ma soprattutto, in versione in-digente, quella di Charlot almeno quanto il bastone di canna ricurvo. Ma c’è anche il giletdel riflusso, del disimpegno: quello sfoggiato in discoteca da John Travolta nella Febbredel sabato sera.

Quanti gilet ci sfilano sotto gli occhi in fotografie soltanto in bianco e nero: quello, im-peccabile, color perla portato sotto il tight dall’avvocato Agnelli, con un’orchidea all’oc-chiello, il giorno delle nozze con Marella Caracciolo a Strasburgo. Il panciotto di EdwardG. Robinson, siamo nel 1944, ne La fiamma del peccato di Billy Wilder. I gilet perfetti delduca di Windsor, sempre e immancabilmente con l’ultimo bottone slacciato, e quelli, iro-nico-british, di David Niven con piccoli revers, i panciotti dandy del conte Nuvoletti. È l’u-nico capo di abbigliamento maschile in cui agli uomini era concesso qualche capriccio,qualche civetteria, qualche licenza poetica. Ma poi è arrivata la deregulation e il gilet si èdeformato e trasformato, ha saputo diventare una scalcagnata marsina come su Rino Gae-tano, o una tavolozza multipla di colori e disegni come su Renzo Arbore che i panciotti,non solo quelli di Fausto Sarli, li colleziona a decine.

Primi arrivarono i futuristi, a usare il gilet come tazebao se non come terreno di provo-cazione. Un nome per tutti: quello di Balla. Fra le opere di Depero più cariche di significa-to ci sono proprio i Gilet Futuristi ideati per gli artisti del movimento, in stoffe variopintea colori violenti e ardite geometrie di arabeschi. È a inserti rossi, gialli e arancione quelloper Marinetti del 1923, è addirittura a pesci blu quello per Azari. Quadri di Cezanne, di De-gas, di Modigliani raffigurano giovani uomini in gilet, spesso l’unica pennellata di coloreforte sulla tela.

Il gilet è un indumento trasversale: alle classi sociali e alle latitudini. Lo porta, nero, ilpicciotto siciliano con la coppola, e lo porta il banchiere della City con il suo gessato daconservatore. Indossava il panciotto con rara eleganza nonostante il fisico poco longili-neo Winston Churchill e lo indossano squadre di cacciatori, pescatori, operai specializ-zati, elettricisti, cameramen che utilizzano il gilet, meglio se multitasche, come indu-mento da lavoro.

Classico o stravagante, decorativo o soltanto utile, dinamico o passatista. Oggi il gilet,che spesso con termine avvilente si chiama smanicato, può essere tecnico, tattico, auto-riscaldato a batteria, fluorescente: molto lontano da quell’esempio di eleganza dettato daun gigante della vanità come Lord Brummell, consigliere e amico del sovrano reggenteGiorgio IV, principe del Galles. E fu proprio un principe del Galles, quello che sarebbe di-ventato re Edoardo VII, a dettare la moda dell’ultimo bottone slacciato, cui ancora oggi siuniformano e si sottomettono tutti gli uomini convinti di essere eleganti. Lui lo fece peròperché il giro vita cresceva, e i chili di troppo gli impedivano di chiudersi il gilet fino in fon-do.

Pure Gabriele D’Annunzio, anche quando era soltanto il Duca Minimo, pseudonimocon cui firmava le sue cronache mondane, aveva una predilezione per i panciotti, megliose candidi. Quando nel 1895 si imbarca sul panfilo “Fantasia” di Edoardo Scarfoglio peruna crociera in Grecia, annota meticolosamente i capi di vestiario che chiude in valigia:oltre al tight, allo smoking e a tre abiti sportivi, ben sei gilet bianchi.

Oggi il gilet, nato in Francia sotto il regno di Luigi XVI quando alle giacche sparirono lemaniche e gli uomini di corte riempirono il nuovo indumento di ricami e applicazioni in-credibilmente lussuosi, è diventato anche un capo femminile. Victoria Beckham lo portaa pelle, sul seno nudo, rubandolo al guardaroba del marito. Alicia Keys è andata in tournéein jeans Armani e panciotto di coccodrillo. Kate Moss lo usa su svolazzanti camicie ma-schili oversize portate fuori dai pantaloni. Deregulation, dicevamo: la vera eleganza è unmiraggio sparito.

Dalla corte di Francia al grande schermouna carriera abbottonata e trasversale

LAURA LAURENZI

EFFETTO PITONELa griffe Ferrè

sceglie di giocare

con i materiali

e lancia

un modello in pelle

senza bottoni

effetto pitone

Si chiude solo

con un gancio

davanti

NUDE LOOKSembra uscito

dal guardaroba

di Al Capone

il doppiopetto

gessato

della collezione

donna di Dior

Da indossare

nude look

ma con i pantaloni

BON TONIn versione

cardigan il gilet

di maglia

nei toni del verde

proposto

da Prada. Lungo

fino a metà

coscia si porta

con i pantaloni

a zampa

FUTURISMOPanciotto Futurista

(1923) con tarsie

in panni di lana

di diversi colori

di Fortunato

Depero. Fa parte

della collezione

Baccoli. A destra,

Panciotto

di Tina Strumia

ideato da Depero

per Tina Strumia

nel 1924. Si trova

oggi al museo

dell’Aeronautica

“Gianni Caproni”

di Trento

Accanto,

Liza Minnelli

in Cabaret

del 1972

SERATA SPECIALEC’è una nuova idea

look per una serata

speciale: il gilet

di paillettes blu elettrico

firmato Moncler

Fa parte

della collezione

Gamma Rouge,

ha bottoni d’oro,

bordo smerlato

e colletto di raso

BELLI E DANNATIIspirazione “belli

e dannati” alla James

Dean (versione 2008)

per l’intramontabile

gilet in pelle con due

tasche frontali e zip

Di Marlboro classic,

finisce in guardaroba

come un indumento

che non teme l’usura

delle mode

OLTRE IL CLASSICOCotone grigio ferro con interno

in raso della stessa tonalità

per il modello super classico

proposto da Benetton

È perfetto da indossare

con camicia e jeans, ma anche

sulla pelle abbronzata

RAGAZZACCITorna di moda

il tradizionale

panciotto

da uomo doppio

bottone. Versace

lo propone

ai “ragazzacci”

Da indossare

sopra la T-shirt

bianca

FO

TO

EY

ED

EA

Repubblica Nazionale

Page 20: DOMENICA APRILE 2008 di MAURIZIO CROSETTI eCARLO …download.repubblica.it/pdf/domenica/2008/27042008.pdf · se cosa viva, è un pezzo della sua vita e si accende in continuazione

‘‘

‘‘l’incontroVolti da fiction

ROMA

Un Cesare Lombroso deinostri giorni, o un De-smond Morris che tantoha studiato e teorizzato il

rapporto tra gesti, fisionomia e comuni-cazione degli esseri umani, farebberocarte false per indagare a fondo le ragioniche hanno spinto otto-dieci milioni diitaliani ad associare, a identificare natu-ralmente Totò Riina, solido e tragico bosscorleonese della mafia (milleduecentomorti sulla coscienza), con l’oggi trenta-treenne Claudio Gioè, l’attore palermita-no mite, misurato e sottile, volto flem-maticamente sorridente, interprete ap-prezzatissimo della parte del re ombra diCosa Nostra nella fiction Il capo dei capiche i registi Enzo Monteleone e AlexisSweet e gli sceneggiatori Bises, Fava eStarnone (romanzando un libro di D’A-vanzo e Bolzoni) hanno condotto a unmemorabile successo di share, di gradi-menti e di clamori polemici su Canale 5.

Un anno fa Gioè s’è sottoposto all’im-pegno di modellare il proprio corpo e leproprie espressioni ricostruendo minu-ziosamente la parabola della vita di Riinadai suoi venticinque ai suoi sessantatréanni. Un’impresa da mutante, da museosiciliano live delle cere, da faustiano in-terprete delle altrui età dell’uomo. Equando te lo trovi davanti, questo giova-ne artista che ha somatizzato in tv quasiquaranta stagioni della Mente del Male,avendo già alle spalle le esperienze dasindacalista ne I cento passi e da operaione La meglio gioventù, film entrambi diMarco Tullio Giordana, reduce anche dalsuccesso personale a teatro delle voci da-te al mondo catanese delittuoso e offesode L’istruttoria di Claudio Fava, quandosei a tu per tu con lui t’accorgi d’avere ache fare con un ragazzo, una specie di foolisolano, un giovanotto di taglia adole-scenziale.

L’unico vizio maturo che nei primi mi-

nuti gli scorgi negli occhi è una voglia diteatro. Quella ce l’ha nel sangue. E in fon-do, l’anno scorso, non ha fatto altro, da-vanti alle telecamere, che teatralizzarescientificamente, antropologicamente emimeticamente un personaggio nonscritto, una figura reale, potente, temibi-le, oggi sotto chiave a scontare quasi unaventina di ergastoli. «Ho studiato a lungocome Riina si muoveva, che sguardo ave-va, come “recitava” davanti ai giudici,ogni sua mezza occhiata, ogni suo mez-zo tono, ogni sua ruvida piega culturale,il modo in cui non riusciva a stare sedutosulla sedia in aula, il suo atteggiamentosempre impassibile che però tradiva l’i-stinto di saltare al collo ai pentiti (ag-ghiacciò il tribunale, quel suo sussurrare“Ma statti zitto” al pentito Gaspare Mu-tolo, suo autista), e insomma m’ha inte-ressato l’uomo, la sagoma, i suoi limiti, lecontrazioni, l’uso delle mani e in partico-lare del pollice, come girava la testa, co-me reagiva alle descrizioni feroci dei cri-mini con l’acido, dei delitti messi a segnocon le proprie mani dopo aver magari of-ferto un pranzo alla vittima, e ho spiato lasua rabbia animalesca sotto le apparen-ze di una prossemica inalterabile, quan-do si schermiva, quando i testimoni glidavano del lei, il vossia, rispondendo a uncerimoniale scopertamente mafioso».

E come ogni attore di antica tradizio-ne, il giovane Gioè s’è sottoposto, per in-carnare le varie età del Capo dei capi, a unmeticoloso, paziente, anatomico lavorodi trucco. «Il problema dell’assumere itratti più attempati del Riina sessanten-ne sono stati risolti con una protesi chemi irrobustiva di una trentina di chili, maanche certi abiti suggerivano una postu-ra, un andamento, una mentalità da sog-getto molto vissuto, e io ho contribuitoagendo con restrizioni delle articolazio-ni, riducendo la gestualità, economiz-zando le occhiate. Perché più il suo pote-re era accresciuto, più in proporzione in-versa lui si muoveva di meno, più emet-teva segnali con un solo minimo cenno,con un’essenza di cenno».

Fatalità vuole che quest’attore deposi-tario dell’immagine del più temuto espietato degli uomini della mafia abbiaavuto una vocazione infantile liliale, euna crescita artistica con tutti i crismi.«Avevo sette-otto anni quando mia non-na mi regalò un registratore a cassette, elì mi venne, per gioco, d’inventare un ra-diodramma dove facevo vari personaggi,varie voci, suscitando gran divertimentoin famiglia. La mia prima performancepubblica fu a sedici anni, al liceo, dove in-terpretai un fruttivendolo dei mercati diPalermo, una figura comica a tu per tucon Goethe. Poi, quando ero già iscritto aLettere classiche, mi convinsi a fare untentativo con l’Accademia d’arte dram-matica, dove per provino portai Ricordacon rabbiacon inflessioni siciliane, e Ma-rio Ferrero vide in me la passione, e conmia sorpresa fui ammesso, frequentan-do poi tutti e tre gli anni».

Ma non tarda a tirar fuori una certa ir-requietezza, una certa vena indipenden-

Protagonists di Luca Guadagnino, cheandò alla rassegna collaterale del Festivaldi Venezia. «Ma la vera visibilità l’ottenninel ruolo di un intellettuale impegnatonel sociale, amico di Peppino Impastato,in Cento passi di Giordana, un film po-tentissimo che alla sua presentazione micommosse».

Nel frattempo s’era trasferito a Roma,e ci fu l’altro nuovo salto di popolarità fat-to in televisione nei panni dell’operaio li-cenziato de La meglio gioventù, cui se-gue, dopo il film Passato prossimo, unapiccola parte in Paolo Borsellino di Tava-relli. «Dato che reputo la rabbia intima ungrande veicolo creativo, ho ripreso inmano il Caligola Night Liveche era un tri-plo salto mortale nato con la lettura di Ca-mus, e mi sono organizzato, l’ho inter-pretato riducendo tutto a un solo perso-naggio. Mi venne a vedere Valsecchi, chepoi doveva produrre Il capo dei capi, e mipropose un provino».

In teatro si concretizza intanto, dueanni fa, l’impresa che ha rappresentatouna svolta, il corrispettivo scenico diquel balzo in avanti di Gioè nel grande enel piccolo schermo. «Mi chiamò il regi-sta Ninni Bruschetta, per far parte de L’i-struttoria, oratorio civile fondato suiverbali delle testimonianze al processoper la morte di Giuseppe Fava, su testodel figlio Claudio. Mentre provavamoL’istruttoria commentai con una frasac-cia incredula lo sceneggiato su Riina cuim’aveva accennato Valsecchi, e il casovolle che Claudio Fava, lì presente (giàco-autore dei Cento passi), mi rispon-desse che era coinvolto anche lui nel-l’impresa sull’ultimo dei Corleonesi.Capii che i destini si incrociavano sem-pre di più. Tant’è che ad Alexis Sweet,co-regista scritturato per Il capo dei ca-pi, piacque il mio Caligola, e l’altro co-regista, Monteleone, aveva apprezzatomolto la mia prova a teatro ne L’istrutto-ria. Insomma una serie di coincidenze,di cui la prima e la più decisiva è l’esseresiciliano, m’hanno portato dritto drittoa fare Riina. Temevo il ridicolo, e invecesono stato preso tanto sul serio da susci-tare anche un mucchio di riserve sullapopolarità toccata a un mostro freddo eassetato di potere (con l’aggravante del-la leggenda d’essere piaciuto a Riinastesso). Ma io non vedo la differenza traRiina e il delirio d’onnipotenza di unRiccardo III, o di un Caligola».

Ora però Gioè se la dovrà vedere con unmito più vertiginoso, e universale. Damente e killer malvagio per la certezza delprimato nella Cupola, passerà ai pannidel più sofferto e tragico dei personaggidel dubbio. Ancora diretto da Bruschet-ta, debutterà come Amleto nel gennaio2009 a Messina. «Per il Principe di Dani-marca non ci sarà alcuna trasformazionefisica. Un’apparente analogia potrebbestare nel fatto che lo vediamo come per-sonaggio negativo, ma Amleto è sicura-mente un folle, e in alcune scene il giocoteatrale volge molto in commedia, perpoi fare i conti con intoppi del pensiero,coi conflitti dell’uomo moderno la cui fe-

te. «Buttai giù una riscrittura di Edipo cherealizzai a Palermo, Edipo e controedipoispirato a Laforgue e a Carmelo Bene,operazione strana ma il pubblico s’entu-siasmava, s’emozionava. Subito dopoLavia mi chiamò all’Eliseo per Il gioco del-le parti con Orsini: una tournée di sei me-si, io in scena ogni sera tre minuti, un’e-sperienza di disciplina che fruttò un po’di crisi depressiva ma anche un serio ap-prendistato di meticolosità e reiterazio-ne. E ancora una volta, alla ricerca diun’opportunità tutta mia, appena finitoPirandello costruii da me uno spettaco-lo, Historia von Doctor Johannes Faustus,un patchwork dall’opera dei pupi su Fau-st, fino a Thomas Mann, passando perNietzsche, per Marlowe e ovviamenteper Goethe».

Teatralmente non stava mai fermo, esu commissione riscrisse un’Ifigenia(«era un divertissement alla Coward»)ma gli venne in mente anche Caligola Ni-ght Live gettandone su carta la tracciamentre era di turno sulle ambulanze diPalermo dove espletò il servizio militarecivile. Però intanto incrociò anche il ci-nema, nel 1998, prendendo parte con Til-da Swinton, musa di Derek Jarman, a The

de e le cui conoscenze s’infrangono conuna solitudine assoluta, un confine cheporta alla morte». Non ci si aspetti un Am-leto di cadenze isolane. «Tutt’al più Bru-schetta potrebbe volerne fare un villain».

E ha già un quadro fitto di altri pro-grammi in cantiere, Gioè: potrebbe re-plicare con Paola Cortellesi e Valerio Ma-standrea la recente intensa lettura-spet-tacolo Col ferro e col fuocotratta dall’arti-colo di Ezio Mauro sul caso Thyssen; vor-rebbe lavorare con registi coetanei comeBeniamino Catena; dovrebbe essere vicequestore della mobile nella fiction Squa-dra antimafia; e avrà a che fare con uncommissario in un film noir di Alessan-dro Piva tratto dal romanzo Henrydi Gio-vanni Mastrangelo. Lui parla volentieridi lavoro, ma è misurato con tutto ciò cheriguarda la sfera personale. Ovvero: cor-diale, sì, ma imperturbabile. La famiglia?«La vedo per le feste comandate». Emo-zioni? «Mi suggestiona la capacità di rea-gire di fronte alla presunta mancanza disperanza». I maestri che hanno influitosu di lei uomo e attore? «Ho avuto a cuo-re Salvo Randone, Turi Ferro e Leo de Be-rardinis, ho stravisto per Carmelo, sonoun cultore di Petrolini». Cosa legge? «Sag-gi d’economia, di fisica, di cibernetica e digenetica». Il carattere? «Ero intollerante,ma ora passo dall’indisciplina alla deter-minazione, e poi alla tenerezza». Sensodell’umorismo? «Prediligo il gioco fattocon tutto se stesso piuttosto che lo scher-zo di testa». I valori? «Non rinuncerei maiall’indipendenza». L’origine palermita-na? «So che, come ogni siciliano, ho forseun secondo o terzo grado di parentelacon qualche associato alla mafia». Ilmondo dei sentimenti? «Nella donnacerco sintonia, e intelligenza fisica. Houna fidanzata danzatrice». Scelte ecolo-giche? «Guido un’auto ibrida». Amori eodi? «Adoro le scarpe basse, Gadda, Cal-vino, Caravaggio, Brahms, Mozart, Ber-nini, l’analogico. Rifiuto i pregiudizi, l’or-dine imposto, Kant, l’arte contempora-nea, i conflitti tra opposti, Picasso, il digi-tale, Pollock».

Mille coincidenzemi hanno portatoa fare Riina in tvMa io non vedola differenzatra Riina e il deliriod’onnipotenzadi un Riccardo IIIo di un Caligola

Adesso per il grande pubblicoè l’incarnazione del “capo dei capi”della mafia. La sua interpretazioneè stata un’impresa da mutante:nella realtà l’attore palermitano

è un trentatreenne mite,misurato e sorridenteGli si riconosceun solo vizio maturo:una voglia di teatroche lo fa stare semprein movimento. Metteun valore al di sopra

di tutti gli altri: “Non rinuncereimai all’indipendenza, rifiutoi pregiudizi e l’ordine imposto”

FO

TO

GR

AZ

IA N

ER

I

RODOLFO DI GIAMMARCO

Claudio Gioè

52 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 27 APRILE 2008

Repubblica Nazionale