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DOMENICA 13 APRILE 2008 D omenica La di Repubblica L’ 11 aprile del 2006, nell’ultima settimana utile della scorsa campagna elettorale, To- polino lanciò in copertina l’iniziativa «Vo- ta anche tu». Erano vere e proprie elezioni fumettare, un universo sincronico e paral- lelo entro il quale erano schierate tre liste, felicemente rappresentative di tre poli, piccola grande le- zione di semplicità rispetto all’astruso, compiacente e frammentatissimo modello elettorale, peraltro passato al- la storia con un appellativo anch’esso abbastanza da fu- metti, il «Porcellum». C’era quindi il raggruppamento di destra, «Vinciamo noi», costituitosi all’insegna di una sorprendente alleanza tra Paperone e Rockerduck. C’era poi una lista chiaramen- te di sinistra, o meglio libertaria, chiamata «Vivere disordi- natamente», e guidata da Pippo. C’era infine, con il ruolo pregiudiziale di ago della bilancia, la classica ed enigmati- ca coalizione di outsider realizzata da Ciccio Papero. Anche il nome della lista suonava in verità un po’ ambiguo: «Strin- giamo la cinghia». Ciccio si batteva per la riforma del «falso in bilancia», questione di pesi e piatti da modificare, pape- ri e torte, non era molto chiaro, ma in campagna elettorale succede con una certa frequenza. (segue nelle pagine successive) con una storia a fumetti di ELLEKAPPA L a satira è entrata a fare parte delle letture forma- tive della mia generazione per una ragione quasi fisiologica: era un linguaggio “estremo”, di limi- te, di confine, nel bel mezzo di una stagione cul- turalmente molto irrequieta, che assorbiva con ingordigia qualunque parola e qualunque tratto anticonformista. Sentirsi sperimentali e innovatori era del resto piuttosto faci- le nel mondo piccolo e ancora semi-chiuso dell’Italia di allora: quando i primi Linus cominciarono a circolare nel mio liceo, a cavallo tra i Sessanta e i Settanta, il fumetto era un genere popo- lare e dilettevole, molto easyanche quando ben disegnato come certi albi di avventure. Ma niente si sapeva, tranne in pochi am- bienti iper-colti e giustamente esterofili, delle “strips” satiriche americane che proprio in quegli anni sfondavano Oltreoceano. Noi ragazzini venivamo da Tiramolla, Cucciolo e Beppe, Topo- lino, Geppo il diavolo buono, tutt’al più da Mandrake e Super- man (che allora si chiamava autarchicamente Nembo Kid). Fummo folgorati e travolti dai tratti stilizzati di Feiffer e Copi, dallo humour sospeso di Pogo, dall’intelligenza grafica di Clai- re Bretecher e delle sue donne in crisi di nervi pre-almodovaria- ne, dalla perfidia comica di Reiser, dalla strepitosa virulenza sa- tirica di Li’l Abner e Fearless Fosdick che si facevano atroci bef- fe della società di massa americana, e dei suoi miti farlocchi, quando da noi la televisione era appena un bonario focolare. (segue nelle pagine successive) cultura La memoria rimossa dei lager italiani MONI OVADIA e PAOLO RUMIZ la memoria Etichette d’hotel, il mondo sulla valigia STEFANO MALATESTA e AMBRA SOMASCHINI la lettura L’esploratore che ispirò Salgari GIAN LUCA FAVETTO spettacoli Burroughs intervista i grandi del rock WILLIAM BURROUGHS e GINO CASTALDO FILIPPO CECCARELLI MICHELE SERRA ILLUSTRAZIONE DI ELLEKAPPA l’immagine The Family of Man, l’utopia di Steichen MICHELE SMARGIASSI l’attualità Il Vangelo del prete zingaro FABRIZIO RAVELLI Disegno politico Voto e satira. Un intreccio via via sempre più stretto, come dimostra ElleKappa in questa breve storia della campagna elettorale Repubblica Nazionale

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DOMENICA 13 APRILE 2008

DomenicaLa

di Repubblica

L’11 aprile del 2006, nell’ultima settimanautile della scorsa campagna elettorale, To-polino lanciò in copertina l’iniziativa «Vo-ta anche tu». Erano vere e proprie elezionifumettare, un universo sincronico e paral-lelo entro il quale erano schierate tre liste,

felicemente rappresentative di tre poli, piccola grande le-zione di semplicità rispetto all’astruso, compiacente eframmentatissimo modello elettorale, peraltro passato al-la storia con un appellativo anch’esso abbastanza da fu-metti, il «Porcellum».

C’era quindi il raggruppamento di destra, «Vinciamonoi», costituitosi all’insegna di una sorprendente alleanzatra Paperone e Rockerduck. C’era poi una lista chiaramen-te di sinistra, o meglio libertaria, chiamata «Vivere disordi-natamente», e guidata da Pippo. C’era infine, con il ruolopregiudiziale di ago della bilancia, la classica ed enigmati-ca coalizione di outsider realizzata da Ciccio Papero. Ancheil nome della lista suonava in verità un po’ ambiguo: «Strin-giamo la cinghia». Ciccio si batteva per la riforma del «falsoin bilancia», questione di pesi e piatti da modificare, pape-ri e torte, non era molto chiaro, ma in campagna elettoralesuccede con una certa frequenza.

(segue nelle pagine successive)con una storia a fumetti di ELLEKAPPA

La satira è entrata a fare parte delle letture forma-tive della mia generazione per una ragione quasifisiologica: era un linguaggio “estremo”, di limi-te, di confine, nel bel mezzo di una stagione cul-turalmente molto irrequieta, che assorbiva coningordigia qualunque parola e qualunque tratto

anticonformista.Sentirsi sperimentali e innovatori era del resto piuttosto faci-

le nel mondo piccolo e ancora semi-chiuso dell’Italia di allora:quando i primi Linus cominciarono a circolare nel mio liceo, acavallo tra i Sessanta e i Settanta, il fumetto era un genere popo-lare e dilettevole, molto easyanche quando ben disegnato comecerti albi di avventure. Ma niente si sapeva, tranne in pochi am-bienti iper-colti e giustamente esterofili, delle “strips” satiricheamericane che proprio in quegli anni sfondavano Oltreoceano.Noi ragazzini venivamo da Tiramolla, Cucciolo e Beppe, Topo-lino, Geppo il diavolo buono, tutt’al più da Mandrake e Super-man (che allora si chiamava autarchicamente Nembo Kid).Fummo folgorati e travolti dai tratti stilizzati di Feiffer e Copi,dallo humour sospeso di Pogo, dall’intelligenza grafica di Clai-re Bretecher e delle sue donne in crisi di nervi pre-almodovaria-ne, dalla perfidia comica di Reiser, dalla strepitosa virulenza sa-tirica di Li’l Abner e Fearless Fosdick che si facevano atroci bef-fe della società di massa americana, e dei suoi miti farlocchi,quando da noi la televisione era appena un bonario focolare.

(segue nelle pagine successive)

cultura

La memoria rimossa dei lager italianiMONI OVADIA e PAOLO RUMIZ

la memoria

Etichette d’hotel, il mondo sulla valigiaSTEFANO MALATESTA e AMBRA SOMASCHINI

la lettura

L’esploratore che ispirò SalgariGIAN LUCA FAVETTO

spettacoli

Burroughs intervista i grandi del rockWILLIAM BURROUGHS e GINO CASTALDO

FILIPPO CECCARELLI MICHELE SERRA

ILL

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TR

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LL

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AP

PA

l’immagine

The Family of Man, l’utopia diSteichenMICHELE SMARGIASSI

l’attualità

Il Vangelo del prete zingaroFABRIZIO RAVELLI

Disegnopolitico

Voto e satira. Un intreccio via via semprepiù stretto,come dimostra ElleKappain questa breve storia della campagna elettorale

Repubblica Nazionale

30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 13 APRILE 2008

FILIPPO CECCARELLI

(segue dalla copertina)

Dopo tutto, è compito del-l’informazione spiegaregli arcani confusionaridella politica, e in questosenso lo storico numero diTopolino garantiva la pre-

senza di ben tre valenti teleconduttori,Paper-Mentina, a Paprix (Canal Quack55), Giuliano Paperrara e Vesponi, que-st’ultimo delegato a guidare il confronto«becco a becco».

E insomma: nel 2006 i fumetti si eranopresi le elezioni. Se le erano presi, nella lo-ro autonomia identitaria, creativa e perfi-no commerciale, dopo quasi sessant’an-ni di fedele servitù al mondo dei partiti.Questi, d’altra parte, non esistevano più:e la multinazionale Disney, così determi-nante nella formazione dei modelli e nel-la costruzione del senso, dichiarava a suomodo l’indipendenza, organizzando lapropria via democratica ed elettorale.

Era una dedizione antica e mansuetaquella dei fumetti al mondo della vecchiapolitica, che sistematicamente li snobba-va per ridare vita a questo moderno edelementare sistema di propaganda soloal momento del voto. Le prime “cartoli-ne” risalgono al 1946: materiale da ma-niaci più che da collezionisti. La veraesplosione fumettistica avviene il 18 apri-le 1948. È l’ufficio psicologico dei Comi-tati civici, in massima parte, a lanciarli,probabilmente secondo la lezione d’ol-treoceano (per quanto già il fascismo liaveva utilizzati).

C’è una striscia con personaggi che ri-cordano un po’ quelli di Braccio di ferro everte sulle false promesse del Fronte po-polare di dare la terra ai contadini. «Ma sevinceranno i comunisti, vedrai come tiandrà a finire», ed ecco dei poliziotti conpistola e falce e martello che requisisco-

nascente Lega. Sembra un fumetto an-che il famoso manifesto sulla gallina delnord che produce le uova d’oro. Ancorainnocuo, tutto sommato, rispetto al ma-nifesto sugli immigrati clandestini —«Fuori dai coglioni» è il grazioso slogan —che ne condensa i più vieti e illustrati ste-reotipi: prostitute nere, spacciatori ma-ghrebini, assassini slavi. Meglio, sempreper rimanere nell’ambito padanista, leimmagini tipo Gordon, Zagor o Albi del-l’Intrepido che il pittore Regianini dise-gna sopra i palchi di Bossi. Ma sono que-sti già gli anni in cui Cossiga chiama Vel-troni «il gatto Felix», Cofferati scrive di Texe Bertinotti partecipa a dibattiti su DylanDog, investigatore dell’occulto.

È difficile individuare il momento esat-to in cui inizia la grande regressione sim-bolica che porta i partiti e poi i leader aconsiderare l’elettorato come davverocomposto da gente che ha frequentato laseconda media e magari, come dice Ber-lusconi, «neanche ai primi banchi». Cer-to se ne comincia ad avvertire l’impatto afar data dalla fine del decennio scorso os-servando gli stemmi delle liste deposita-te al Viminale, molte delle quali rispon-dono a rappresentazioni sempre più faci-li, semplificate, elementari, necessaria-mente bambinesche. Abbondano di fat-to re leoni, orsi e orsetti tipo Yoghi, ele-fantini alla Dumbo, asinelli copiati dallaDisney, gabbianelle, delfini e cavalluccianche marini. Senza chiedere il permes-so, né notificarlo decorosamente all’opi-nione pubblica la politica si stava trasfor-mando in Cartoonia.

Il passo successivo prevede forse l’au-to-trasformazione dei politici stessi inpersonaggi consapevolmente da fumet-to. Ardenti pupazzi in carne e ossa damettere in competizione con Paperone,Ciccio Papero e Pippo nei prossimi nu-meri di Topolino. (Gulp!).

Cartooniava a votare

Alla vigilia delle scorse elezioni politiche, “Topolino”lanciò una consultazione parallela fra tre liste, ciascunacon il proprio leader (uno era Pippo). Prima di allorail fumetto era stato usato, fin dal 1948, come strumentodi propaganda. Poi si è fatto strada fin sulle schede...

la copertina

no il raccolto all’ingenuo colono che havotato a sinistra. Oppure: «Che fai, scia-gurato!?» fanno dire a un Garibaldi cheesce dalla scheda. Come pure ci sono duedistinte versioni di Pinocchio, con To-gliatti e Nenni nella parte del Gatto e del-la Volpe. Di rimessa il Pci risponde con uneroico, naturalmente, Cappuccetto Ros-so che mette nel sacco l’Orco MangiaTut-to, il presidente americano Truman, e ilsuo diabolico mandatario Gasperaccio(De Gasperi).

Il Pci si rifà nel 1953 con i «forchettoni».L’ispirazione è un ormai celebre manife-sto in cui i volti di De Gasperi, Scelba e Go-nella sostituiscono, su sfondo nero, quel-li dei tre nanetti con posate sulle spalle ebavaglino utilizzati per la pubblicità delladitta Valsoldo. Sull’Unitàesce addiritturaun supplemento, Il forchettone dellunedì:vignette, scenette, poesiole, parodie tutteillustrate in quadrati. C’è anche un perso-naggio che ricorre, un avido e mai saziodemocristiano chiamato Polpettone. Sta-volta è lo scudo crociato ad accusare labotta. L’unico disegnatore capace di reg-gerla è il giovane Jacovitti, che creerà unindimenticabile mazzo di carte insiemecomico e truculento, le coppe traboccan-ti di sangue, i bastoni in mano ai Partigia-ni della pace, gli ori a forma di rublo, le spa-

de dei carabinieri che trascinano via unsindaco con il fazzoletto rosso al collo.

Ma l’autentica risposta alla sferza sati-rico-fumettistica dei comunisti viene af-fidata a una lunga storia drammatica,Perché siamoi più forti, segno grafico rea-listico, con digressioni storiche sull’in-surrezione greca e la guerra di Corea.

Lunga, bruttina e anche assai lacrimo-sa, quindi vista con gli occhi di oggi deci-samente buffa, appare d’altro canto lastriscia del Pci chiaramente ispirata ai fo-toromanzi e intitolata Più forte del desti-no alla vigilia delle amministrative del1957. Politica e amore s’intrecciano nellatrama secondo i canoni di uno stile na-zional-popolare che oltrepassa i confinidell’ingenuità: basti pensare che il figliocattivo del padrone fa arrestare il rivaledurante uno sciopero. Il lieto fine è assi-curato da uno zio dei promessi e contra-statissimi sposi proletari che prima delbrindisi matrimoniale spiega a tutti il mo-dello di una società giusta e dunque per-ché bisogna votare comunista.

Del resto i fumetti restano a lungomezzi di propaganda che i partiti di mas-sa utilizzano per arrivare il più rapida-mente possibile al cuore del popolo. E ciarrivavano, bisogna dire, accompa-gnando e adattandosi di buon grado alle

tendenze, ai personaggi, alle novità diquello che un tempo si definiva il quadropolitico; e che a sua volta, nei tempi in-stabili della sostanziale stabilità italiana,finivano per rispettare le evoluzioni e icodici anche estetici e di costume dellaPrima Repubblica.

E quindi: elezioni del 1972, crisi del go-verno di centrodestra, fumetto del Psi,autore Enzo Lunari, titolo Vogliamo to-gliere il freno a mano?. La metafora indi-ca un’automobile, l’Italia, trascinata insalita da due poveracci. Alla guida c’è unagrassa signora, incarnazione della Dc: to-gliere il freno significa tornare al centro-sinistra, come poi in effetti accade (sia pu-re non come sperano i socialisti).

Ancora. Esuberanza in fabbrica e nuo-vi linguaggi giovanili: ecco l’operaio-massa Gasparazzo, scoppola e salopette,striscia quotidiana su Lotta continua. Al-le elezioni Gasparazzo spegne la fiammadel Msi facendoci sopra la pipì.

Dopo il referendum sul divorzio, 1975,nuove inquietudini socialiste, ritorno al-la favola: Fanfaneve e i sette nani, conelenco di democristiani da mandare inpensione, Andreottolo, Rumorgongolo,Donat Brontolattin, Tavianolo e così via.

Negli anni Ottanta i comics politici edelettorali dilagano fino a raggiungere la

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31DOMENICA 13 APRILE 2008

MICHELE SERRA

(segue dalla copertina)

Incontrammo le prime tavole diun certo Altan, che certamentedoveva essere sudamericanotanto evidente e da noi bene ac-cetto era il cosmopolitismo di Li-nus. E naturalmente, ci innamo-

rammo della sagacia introspettiva deiPeanuts, non sapendo che eranoun’eccellente introduzione alle prime,imminenti letture psicanalitiche, chein quegli anni — sembra incredibile —furono forse la forma di saggistica piùpraticata, parendoci ovvio che per“cambiare l’uomo” bisognasse fare larivoluzione non solo fuori, ma anchedentro.

Ci sbalordiva e ci entusiasmava sco-prire che ciò che chiamavamo “fumet-to”, ed eravamo abituati a considerareun mondo innocente e infantile, pote-va essere un genere colto, raffinato eanche feroce: quella ferocia critica, daadolescenti in cerca di vie di fuga e diluoghi di iniziazione linguistica, che Li-nus per primo riuscì a concentrare nel-le sue pagine, in questo senso vera epropria rivista di formazione. Impa-rammo che la satira era “difficile”: lechiavi di lettura, i criteri di interpreta-zione non erano quasi mai immediati,ci si doveva spremere il cervello per af-ferrare testo e contesto, il fumetto sati-rico era uno stimolo a conoscere ilmondo, non potevi affrontarlo, nonpotevi leggere Linus se non eri uno chegià si interessava di società e di politica,leggeva i giornali, qualche libro. (Allorasi diceva: “impegnato”). Il contraccol-po, se vogliamo, era l’aura dichiarata-mente snob che gravava sui linusiani.Ma era il prezzo da pagare (e forse lo èanche oggi) alla fatica in fin dei contionesta, e anche umile, di chi pretende

di più da se stesso…Si formavano nuove élites, che non

sempre è una parolaccia. Si formavanogli artisti e gli intellettuali irrequieti chesapevano per certo di non potere tro-vare spazio — o comunque, abbastan-za spazio — nel panorama dei giornalidi allora, che (con l’eccezione del Gior-no, e del Manifesto che però ancora do-veva nascere…) erano indicibilmentepiù chiusi, azzimati e conformisti ri-spetto alla stampa di oggi. Non esistevasatira sui quotidiani, al massimo qual-che finestra umoristica, e i primi “scrit-ti corsari” di Pasolini sul Corriere con-tenevano da soli tanta carica criticaquanta bastava a far pronunciare la pa-rola “scandalo”. La distinzione tra mo-notonia e fantasia, tra perbenismo ecoraggio culturale, tra regola e tra-sgressione, a differenza di oggi era cosìnetta, per tanti versi così ovvia, che gliirrequieti e gli innovatori avevano da-vanti a sé intere praterie da percorrereventre a terra. E la satira, oggi spalmataovunque, e trasformata specie in tele-visione in vieto umorismo domestico,era un’essenza forte e diversa, nuova dizecca. Forse il linguaggio più potente adisposizione per raccontare l’antago-nismo non solamente politico, ma esi-

stenziale alle forme correnti del potere,al linguaggio dei giornali “dei grandi”.E la liberazione sessuale, la scostuma-tezza oggi diffusa e corriva ma allora di-rompente e liberatoria. L’umore liber-tario, beffardo, sfrenato così beneespresso dal fin troppo celebre slogan«una risata vi seppellirà».

La triade di giornali satirici di quel-l’evo — il Male, Tango, Cuore — nac-que, visse e morì proprio nel mezzo diquella nouvelle vague inaugurata daLinus, dal suo prezioso snobismo in-ternazionalista che pescava a pienemani dalla fiorente produzioneyankee, sudamericana e francese. Benoltre quel confine di Chiasso che leavanguardie letterarie italiane, ansiosedi sprovincializzare il clima, indicava-no come le colonne d’Ercole mai varca-te dall’Italietta. E l’Italietta sfornò nelgiro di pochi anni giovani e giovanissi-mi talenti di molto difforme ispirazio-ne, ma tutti cresciuti dentro le sugge-stioni del fumetto colto e “straniero”, digiornali esplosivi come il parigino Ha-ra Kiri, o delle fantastiche porno-satiredel movement californiano. (Un po’come il jazz era stato per i nostri padrinei Quaranta e nei Cinquanta, il fumet-to satirico fu per noi ragazzi di allora il

grimaldello artistico per forzare e svec-chiare il clima).

E vennero Andrea Pazienza, Altan,ElleKappa, Vauro, Sergio Staino, Vinci-no, Angese, Perini, Disegni & Caviglia, igruppi eccentrici e più “pittorici” diValvoline e Frigidaire. Dai più politica-mente ortodossi ai più nichilisti. Rac-contarono prima la turbolenta nascitadei movimenti giovanili, dell’opposi-zione sociale radicale, segnando anchelinguisticamente la distanza dal mon-do dei media “ufficiali”. Poi, soprattut-to, accompagnarono gli anni della di-sillusione politica, della crisi dell’estre-mismo e della più vasta e squassantecrisi della sinistra, la fine del partito-chiesa. Tangodi Sergio Staino fu in que-sto senso, pur nella brevità della sua pa-rabola, un implacabile testimone deisentimenti e dei ragionamenti della si-nistra in crisi, della sua mutazione dacorpo organizzato e strutturato in ga-lassia diffusa, confusa, spersa eppurevitale. Forse nessun linguaggio come lasatira seppe essere, in quegli anni, cosìimplacabilmente “politico”. Con unaprecisione mai consolatoria, mai di-stratta.

Ecco, forse «non distrarsi mai» fu iltacito slogan sotteso di quegli anni. La

presunzione di sapere e di capire osti-natamente, quotidianamente, la so-cietà, la politica, il potere. In fin dei con-ti la stessa presunzione “borghese” cheaveva generato l’epopea dell’informa-zione, l’idea illusoria ma civile, e demo-cratica, di essere in grado di occuparsidel mondo, di esserne bene in arcione.La grande stagione della satira politicané è insieme la parodia e il riflesso. Si fa-cevano i giornali di satira per re-impa-ginare il mondo alla nostra maniera,credendo possibile un contro-canto al-trettanto munito, esperto, sagace. Eraun anti-giornalismo complementareal giornalismo, un continuo ribaltare lagerarchia delle notizie, il senso comu-ne, l’apparenza.

Non so a quanto sia servito. Con ilsenno di poi è facile stabilire che la sa-tira politica, da quell’essenza forte econcentrata che fu, è diventata unaspezia quasi onnipresente, però sparsasulle pietanze altrui. Ma certamente,per gli autori e per i lettori di quei gior-nali e di quel periodo, fu una scuola for-midabile, un salutare costringersi aguardare le cose anche da tutt’altraprospettiva, sorprendendo la realtà al-le spalle. No, non era vero, come scris-se il Male, che Ugo Tognazzi era il capodelle Brigate Rosse, con tanto di servi-zio fotografico che lo vedeva amma-nettato tra gli agenti della Digos. Maquel titolo scompaginava in un colposolo le paure del potere e la pomposaretorica militare del terrorismo e deisuoi soldatini ciechi. Provate a dirmiqualcosa di altrettanto spiazzante, dialtrettanto distante dalle logiche di vio-lenza, e non ci riuscirete. La satira,quella satira, ogni tanto ci riusciva: for-tunati quei ragazzi che poterono ir-rompere nelle edicole con tanta libertàdi sguardo, e di parola.

Non ci restache ridere

Tutto è cominciato con “Linus”. In quegli anni la satira,oggi spalmata ovunque, era un’essenza forte e diversa,difficile ma nuova di zecca. Forse il linguaggiopiù potente per raccontare l’antagonismo politicoe esistenziale alle forme correnti del potere

Repubblica Nazionale

l’attualitàPreti di frontiera

Dorme in una roulotte, si lava all’aperto, battagliacon sindaci e prefetti per proteggere dalle ruspe gli abitantidei campi nomadi. Don Mario Riboldi ha settantanove annie da cinquantacinque, dice, si è “messo in cammino”insieme ai rom.Dopo l’appello alla tolleranza dell’arcivescovodi Milano, siamo andati a trovarlo tra la sua gente

UDINE

Se questo è un prete. Qualcunopotrebbe anche chiederselo.Porta un cappello nero che sicalca in testa fin da quando si

alza dal letto, per uscire dalla roulotte e la-varsi all’aperto. Anche oggi che piove, quinel piccolo campo di Pozzuolo dove è «invisita, a trovare gli amici». Ha due baffet-ti bianchi sottili alla Clark Gable, e le so-pracciglia cespugliose fanno ombra agliocchi scaltri.

«Cosa volete farmi dire? Perché io sonopiù furbo di voi, e dico quello che voglio».Voi giornalisti, ma anche voi gagi, voi chevivete sicuri nelle vostre tiepide case.

Don Mario Riboldi ha quasi settanta-nove anni — magro come un violinistagitano, vigoroso come un domatore dicavalli — ed era un ragazzo di Biassonoquando entrò in seminario. Si fece prete,e ancora mancava qualcosa alla sua vita:«Ero appena prete, vicino a Magenta,quando ho visto questo gruppo di sinti. Eho pensato: chi porta il Vangelo a questagente? Ed eccomi qui, dopo cinquanta-cinque anni».

E quindi, «sarei anche brianzolo, mafaccio il nomade con gli zingari». Daquando si fece zingaro, prete-zingaro:«Da quando mi sono messo in cammi-no».

Ci sono molti preti in Italia che si occu-pano di zingari, «gli ultimi degli ultimi»,che hanno imparato a conoscerli nel be-ne e nel male. Che ci sono sempre quan-do le ruspe spianano baracche, e bisognatrovare un letto per donne e bambini.Che battagliano con sindaci e prefetti.Che trattano con scuole e ospedali. Che siprendono gli insulti dei gagi, perché glizingari nessuno li vuole. Ma ci sono poipochi preti, in Italia, e nessuno in altripaesi d’Europa, che si fanno zingari. Nelsenso che vanno a vivere fra loro, con lo-ro. Che dormono nelle roulotte o nellebaracche. Che sanno chi nasce e chimuore, chi va in galera e chi si innamora,chi trova lavoro e chi si ammala.

Don Mario sono cinquantacinque an-ni che fa questa vita. Casa sua è il camporom di Brugherio, uno spiazzo di ghiaiasotto la tangenziale. Ma è sempre «incammino», conosce tutti e tutti lo cono-scono nel mondo dei gitani d’Italia.

Adesso è qui, nel piccolo campo alleporte di Udine, con il suo allievo-scudierodon Massimo Mostioli, un ragazzone pa-vese con gli occhi azzurrissimi e i piediscalzi nei sandali, che lo accompagna e in-tanto studia la lingua degli zingari. Doma-ni saranno di nuovo per strada, verso laSpagna. Dentro al vecchio camper donMassimo fa il caffè. E don Mario fa il contodi quanti sono i preti-zingari come loro inItalia. Non ci vuole molto, sono sette.

«A Verona don Francesco Cipriani, e aBologna frate Flavio, un cappuccino. APisa c’è Agostino Rota Martir, un saveria-no che vive con dei korakhané bosniaci,musulmani. Qui a Udine don FedericoSchiavon. C’era don Renato Rosso, chevenne con me in Friuli nel ‘72 e adesso èin Bangladesh, con i nomadi che lì sonodecine di milioni. Poi ci sono le PiccoleSorelle di Gesù che stanno a Crotone, e leLuigine a Torino, due sorelle suore». E an-che due sacerdoti rom: don Osvaldo Mo-relli che è viceparroco a Nocelleto di Ca-rinola, provincia di Caserta, e frate Pa-squale Barbetta. Ma loro non vivono neicampi nomadi, per ora almeno.

Dietro di loro c’è un settore organizza-to della Chiesa, l’UNPReS (Unione na-zionale pastorale rom e sinti), ci sonopubblicazioni e convegni, c’è l’arcive-scovo Agostino Marchetto segretario delPontificio consiglio per la pastorale deimigranti e degli itineranti. Ma non si vie-ne mandati o comandati a vivere da zin-gari, quella è una scelta personale. Chedeve essere autorizzata dal vescovo.

Quello che diede il permesso a donMario si chiamava Giovanbattista Mon-tini, e oltre a essere un amico di gioventùera arcivescovo di Milano, la diocesi piùgrande: «Poi lui venne fatto Papa, e io do-vetti lottare con il suo successore Colom-bo per poter continuare», racconta. DonMario è abbastanza vecchio da poterchiamare «gran bravo ragazzo» l’attualearcivescovo Dionigi Tettamanzi, e daaver rifiutato un posto in Vaticano: «Nonpotrei vivere dietro una scrivania».

E poi si sente davvero zingaro, nel cuo-re e non solo nei panni. Ride, beffardo: «Ionon ho mai lavorato, ho sempre fatto lozingaro libero». Si mettono in camminoper evangelizzare, questi preti-zingari.Ma non è il conto delle conversioni, o del-le vocazioni, a pesare. Il loro mestiere è

mettersi dalla parte di quella gente aimargini, di quella strana gente odiata emalvista e malsopportata, e condivider-ne l’esistenza. Strada facendo capisconomolte cose, da alcune sono affascinati: «Ilnomadismo è una grande ricchezza, cheperò l’attuale civiltà cerca di eliminare,per tenere tutto sotto controllo». Se lagente cosiddetta normale diffida deglizingari, loro hanno imparato a diffidaredella gente. Don Mario lo dice così:«Qualsiasi cosa pensi l’opinione pubbli-ca degli zingari, a me interessa poco. A meinteressano loro, i gitani».

Dove vive, nel campo di Brugherio, di-ce messa in una roulotte, e in un’altra abi-ta. Per l’acqua c’è la fontanella, e per scal-darsi una stufetta. Nella grande città hamesso piede di recente per portare i

«suoi» zingari a pregare in Sant’Ambro-gio. Ma erano anni che non ci entrava:«Mi ricordo di quando, un diciott’anni fa,stavo a Baggio con una famiglia che nonvoleva entrare nel campo autorizzato.Dicevano: non vogliamo che i nostribambini diventino ladri. Beh, gli fecerouna multa di ottocentomila lire. E io da al-lora a Milano non ci vado. Me ne sto neicampi, o in giro». Ha conosciuto tutti, equando arriva lui è una festa affettuosa.«Questi zingari sloveni li ho conosciuti aLinate nel ‘56. Coi bosniaci ero accampa-to, e insegnavo a leggere il Corano. Qual-cuno s’era convinto che mi fossi fattomusulmano».

Il suo mestiere è evangelizzare.«Quando predico, prendo in mano laBibbia e leggiamo. Io imparo qualcosa,

loro imparano qualcosa, e con la paroladi Dio cerchiamo di camminare su que-sta strada». Non è problema di credere onon credere: «La loro vera povertà, perme, è che non conoscono il Dio in cui cre-dono». Ma c’è più cristianesimo nella vi-ta zingara, dice don Mario, che in quelladei gagi: «A Milano la media dei figli perogni donna è meno di uno. E allora doveva a finire il cristianesimo? Negli zingaric’è un senso di naturalezza della vita, equesto è cristiano. Dicono: come Diovuole. Il milanese anche cristiano pensaspesso solo al lavoro, a come avere di più,a come arricchire. Ogni zingaro è libero,e il camminare insieme sta nella sua cul-tura».

Lui sta con loro, e cammina con loro.Nemmeno si sente di dover fare da pon-

te fra due mondi, o quel che adesso si di-ce mediatore culturale: «Io quello non loso fare, non so fare due mestieri. Io mi so-no chiuso fra di loro. Don Mario è unozingaro in più». Rimpiange di non starepiù in giro come una volta. Dice: «Mi so-no fatto troppo prete, da quando vado acaccia di religiosi zingari». Gran parte delsuo lavoro di questi anni è rintracciarevocazioni e santità nella storia zingara,che non ha tradizioni scritte. Ha raccol-to documenti sul primo santo zingaro,Zeffirino. Si chiamava Ceferino JiménezMalla, detto “El Pelé”, era uno zingarospagnolo commerciante di cavalli: «Eraun uomo molto buono, e questo l’ha ro-vinato. Prese le difese di un prete, e morìcon lui per la sua bontà». Fucilato il 9 ago-sto del 1936.

FABRIZIO RAVELLI

32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 13 APRILE 2008

FO

TO

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HIV

ES

Il Vangelo secondo gli zingari

DONNE E BAMBINILa casa ideale nel disegno di un ragazzino rom,

a sinistra, un piccolo nomade legge Guerra e Pace

di Lev Tolstoj. Sopra: una danza zingara

riprodotta in un’antica stampa. Nella pagina

accanto, una donna e un bambino dietro la porta

di una baracca e, in alto a destra, don Mario Riboldi

Repubblica Nazionale

DOMENICA 13 APRILE 2008

■ 33LEGUIDEDIREPUBBLICA

Apre mercoledìa Milano

il più importanteappuntamento

del mondo per l’arredamento

e il design. Che puntaanche a creare eventi

culturali

Centinaia di aziende di

arredamento e migliaia di

visitatori appassionati di design

stanno per invadere il quartiere

espositivo Fiera Milano di Rho.

Per gli addetti al settore il conto

alla rovescia è già iniziato: solo

tre giorni li separano dal

frenetico via vai che segna il

Salone Internazionale del

mobile (16-21 aprile), giunto alla

47esima edizione. L’area della

fiera, che misura oltre 200 mila

metri quadrati, raccoglie gli

espositori dei cinque saloni, che

rendono eclettica e mutevole

l’identità dell’intero Salone del

mobile: Eurocucina, il nuovo

SaloneUfficio (nuovo e più

comprensibile nome di Eimu), il

salone del Complemento

d’arredo, il salone Satellite e il

salone internazionale del

Bagno. Quest’ultimo vede

crescere il numero delle aziende

espositrici rispetto al 2007,

anno in cui, alla sua prima

edizione, ha riscontrato il

successo immediato, tanto che

è ormai un’esposizione

autonoma. Il tema dominante

per il 2008 è quello del risparmio

energetico: molti dei mobili per

bagno presenti in mostra

saranno accomunati dall’uso di

materiali sperimentali, scelti per

ottimizzare le prestazioni e

ridurre i costi. In generale, tutte

le tipologie e gli stili di arredo,

dal classico al moderno,

trovano spazio negli altri

padiglioni della fiera. Ma

l’aspetto economico non è

l’unico protagonista: un fitto

calendario di appuntamenti

ed eventi straordinari mantiene

alto anche il coinvolgimento

culturale di questo Salone, tra

proiezioni, mostre, installazioni

artistiche, e ovviamente tanto

design. (valentina bernabei)

l’evento

lo scenario La fiera mostra le aspettative e le speranze di un paese che reclama un futuro migliore del suo presente

Un po’ per vezzo e un po’ per davvero, negli ultimi anni i milanesiesibivano una certa invidia per Roma. Dicevano di trovarla ov-viamente più bella, ma perfino più vivace e più efficiente di Mi-

lano, anche in virtù di un’amministrazione che qualche buon colpo, co-me il Festival del cinema, lo ha messo a segno. Adesso, le polemiche sul-l’Expo sono un balsamo per queste piccole ferite, francamente un po’esagerate, quasi stimmate che la capitale degli affari e della moda osten-tava per esorcizzare ogni insidia al suo primato economico e creativo.Polemiche che diventano una cartina tornasole: la prova scientifica cheMilano è tornata la metafora di un’Italia che non vuole arrendersi alladeriva di una crisi troppo lunga. Milano diventa la concretizzazione ur-bana di un’aspettativa messianica: sarà l’Expo la redenzione di una na-zione in bilico fra l’inferno della recessione e dell’obsolescenza istitu-zionale e il paradiso di un rilancio economico e civile?

Nell’attesa che rispondano i fatti, mercoledì apre il Salone del mobi-le. Che cosa c’entra il Salone con l’Expo e con lo scenario di un’Italia albivio tra due destini? Il Salone riesce a sintetizzare i due estremi. Buli-mico e sempre più affamato di metri quadrati, con una lista d’attesa diaziende che vorrebbero entrarci ma non possono, il Salone si compia-ce del suo straordinario successo che ne fa il più importante appunta-mento del mondo per il settore dell’arredamento e del design. Si com-piace e si celebra, insistendo sulla seconda missione: non solo trionfodel business e dei designer ormai promossi a star, ma creazione di even-ti culturali. Quest’anno l’animazione del Cenacolodi Leonardo firmatada Peter Greenaway si preannuncia come un evento straordinario nonsolo per il prestigio di Greenaway, ma per il fatto in sé: un interessantis-simo melting pot di arte e alta tecnologia fusi insieme con creativo co-raggio. Attenti a leggere i dettagli come segnali e simboli, è impossibilenon sottolineare l’implicito processo di identificazione tra Salone ed Ex-po nel nome di Leonardo: adesso il Cenacolo-evento, nel 2015 l’Uomovitruviano eletto a marchio. In fondo, l’eclettismo del genio leonarde-sco è l’eccelsa sintesi del made in Italy. Fin qui, e volendo anche oltre, il

Salone transustanzia i segnali positivi, le aspettative e le speranze di un’I-talia che reclama un futuro migliore del suo presente.

Ma c’è anche un’altra dimensione, molto più problematica. Sintetiz-zabile in due punti critici, in parte correlati. Il primo è il periodo non fa-cile per gli affari. In Italia sui consumi è sceso il grande freddo. E se il mer-cato interno recede, l’estero, dove peraltro i grandi marchi del design ita-liano sono molto amati e molto ambiti, non è soccorso da un euro sem-pre più forte. Resta comunque l’estero la direzione in cui guardare e cre-scere. L’altro punto critico è la crisi creativa. Sembra un’eresia. Mentreil design diventa un’idea sempre più condivisa, al punto da rischiare lamassificazione concettuale, mentre le griffe della moda allungano lemani un po’ vampiresche sulla splendente giovinezza dell’arredamen-

to, mentre il Salone è un trionfo di oggetti seduttivi, incisivi, vedere unacrisi creativa potrebbe sembrare un abbaglio. I giornalisti, anche noi, siconcentrano a individuare i segni di stile, le nuove tendenze, i designeremergenti. Eppure, quello che manca è un vero rinnovamento chemuova da istanze profonde. Tutto è effettivamente molto sexy ma, for-se anche per questo, non sembra dire niente di nuovo. Per capirci leg-giamo le parole di Piero Gatti, l’unico ancora in vita dei tre designer chehanno inventato il Sacco Zanotta, che nel 2008 celebra i 40 anni: «noncredo ci sia stata un’evoluzione, anzi, parlerei piuttosto di una regres-sione; perché ci possa esser uno sviluppo deve cambiare alla radice ilmodo di concepire l’abitazione». Quindi, oggi il Salone, domani l’Expo:l’importante è evitare che il successo diventi autocelebrazione, e tra-sformare i punti critici nei motori di un vero rinnovamento, di una sanavoglia di correrne gli inevitabili rischi. Dinanzi al bivio, speriamo tuttiche Milano e l’Italia sappiano scegliere la direzione giusta.

Lo specchio di un’Italia al bivio tra due destiniAURELIO MAGISTÀ

Il grande successo non devediventare autocelebrazione,ma motore di un verorinnovamento creativo

SALONE DEL MOBILE 2008

Melting pot tra arte e hi tech

ILLU

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DI

Il nuovo sito di Repubblica

Nasce Casa&Design

Nasce domani Repubblica Casa&Design, l’ultimasfida di “Repubblica”: un nuovo sito completa-mente dedicato alle novità in fatto di arredamen-

to, design e abitare più in generale. Il sito ha due colon-ne portanti: da una parte il datebase con le informazio-ni di servizio, dall’altra le news quotidiane.

(segue nell’ultima dell’inserto)

Repubblica Nazionale

LEGUIDEDIREPUBBLICA■ 34

@DOMENICA 13 APRILE 2008

*tendenze

ritornoall’ordine

l’installazioneIl regista racconta come ha animato scene e personaggi del dipinto del genio

Non solo design. Parlare del Salone del mo-bile di Milano significa anche parlare diarte, cinema, cultura. Perché l’appunta-

mento più importante dell’anno per il settorearredo diventa anche occasione di assistere aeventi altri, visto che dal 1965 il Salone veste ipanni di mecenate sponsorizzando appunta-menti di varia natura firmati da artisti di fama in-ternazionale. Quest’anno i nomi sono quelli diMichelangelo Pistoletto e Peter Greenaway, au-tori, rispettivamente, di un’installazione checerca di immaginare il luogo ufficio ideale (vediintervista nel box) e un evento multimedialecon protagonista L’Ultima Cenadi Leonardo daVinci, che durerà per tutto il periodo della ma-nifestazione nella Sala delle Cariatidi di PalazzoReale con un “clone” dell’opera.

Lei ha già realizzato l’animazione di un di-

pinto al Rijksmuseum di Amsterdam, con la

Ronda di nottedi Rembrandt. Come nasce l’i-

dea di tradurre con altri mezzi (luci, colori,

musiche) quello che è stato già raccontato con

la pittura?

«L’idea nasce come esperimento: volevo col-legare ottomila anni di storia della pittura con112 anni di storia del cinema. Ovviamente misono avvicinato a un’opera importante come laRonda di notte con un po’ di apprensione; poil’ho bruciata, inondata e coperta di sangue, mail bello è che se domani mattina voleste prende-re il primo treno per Amsterdam, la trovereste lì,completamente intatta. Ora faccio lo stesso conL’Ultima Cena, perché il dialogo tra pittura e ci-nema esalta il valore estetico, politico e spiri-tuale delle opere».

L’opera è stata riprodotta a Palazzo Reale

per rendere l’evento visibile a tutti. Pensa che

il risultato sia del tutto simile a quello del Con-

vento di Santa Maria delle Grazie?

«Al Cenacolo possono entrare solo 25 perso-ne alla volta, perché l’affresco è fragile e deperi-bile. Per estendere a tutti la possibilità del “con-tatto” abbiamo realizzato un “clone” dell’ope-ra che permette di vivere l’evento esattamentecome se si fosse davanti all’affresco di Leonar-do. Non si tratta infatti di una copia, ma di unafoto digitale realizzata a una risoluzione mairaggiunta prima».

L’Ultima Cena prende vitadialogo tra cinema e pitturaEVA GRIPPA

PETERGREENAWAYIl regista inglese

che ama molto l’Italia

e la sua storia artistica

rivisita uno dei dipinti

più famosi del mondo,

l’Ultima Cena

di Leonardo, dando

vita a un evento

multimediale.

Il capolavoro prenderà

vita, infatti, sotto

gli occhi dei visitatori

grazie a proiezioni

di immagini e luce che

sembreranno scaturire

dal dipinto stesso,

il tutto accompagnato

da una colonna sonora

di voci, musiche

e suoni. L’evento è

organizzato e finanziato

dal Salone del mobile:

è un progetto di Change

Performig Arts

e Soprintendenza

per i Beni architettonici

e per il paesaggio

di Milano,

in collaborazione con

il Comune di Milano,

assessorato alla cultura

Quanto all’affresco originale, invece, non si

corre il rischio che possa essere danneggiato

dalle luci della performance?

«Abbiamo lavorato con la Soprintendenzaper i beni architettonici e per il paesaggio di Mi-lano proprio per questo. Basti pensare che ilnormale sistema di illuminazione dei museiproietta sulle tele una percentuale che, in unascala da 1 a 100, è compresa tra 60 o 70. Noi ci sia-mo tenuti su un valore pari a 30/40, inferioreperfino rispetto ai moderni flash a infrarossi dialcune macchine fotografiche».

Il quadro prende vita attraverso proiezioni

di immagini e luci; qual è il filo conduttore di

questo racconto multimediale?

«Manteniamo le scelte prospettiche di Leo-nardo cambiandone lo schema della luce percreare l’alba, il mezzogiorno e la mezzanotte. Ed

esaminiamo la cosmologia sottesa a questa ta-vola per identificare i particolari significati diognuna delle tredici persone rappresentate, perfar comprendere la forte spiritualità del dipintoe di Leonardo stesso».

Come definirebbe questa esperienza ai let-

tori?

«È un modo per portare la gente a guardarequello che ha già sotto gli occhi. In particolareciò vale per gli italiani, che sottovalutano l’im-portanza della propria eredità. Il dialogo tra ci-nema e pittura può essere perpetuato per esa-minare il valore estetico, politico e naturalmen-te spirituale di un capitale culturale che tutti do-vrebbero conoscere».

«L’ufficio è l’ambiente lavorativo dove si creano le

situazioni del vivere sociale. L’arte entra nei pori

della vita vissuta, diventa il suo emblema». Michelangelo

Pistoletto interpreta così Ufficio fabbrica creativa, il filo

conduttore di SaloneUfficio, con l’installazione Segno

Arte Uffici, esposta alla Loggia dei Mercanti dal 16 al 21

aprile. L’opera rappresenta, attraverso otto stanze

modulari, la struttura degli uffici di Cittadellarte, la sua

fondazione dedicata all’interazione tra la creatività

responsabile dell’arte e diverse aree del tessuto socio-

economico-politico-culturale. «Rappresenta la mia

visione di equilibrio tra uomo e universo» spiega l’artista.

«Sono partito dalla raffigurazione dell’uomo di Leonardo

in cui le gambe formano un triangolo perfetto, ma le

braccia, appena alzate, no. Nel mio lavoro ho alzato le

braccia sopra le spalle per formare un triangolo anche

con esse, così la persona è idealmente inscrivibile in due

cerchi in perfetto equilibrio. In questo modo l’uomo

diventa centro dell’universo e il suo atteggiamento non è

più di conquista, come in passato, ma di sopravvivenza.

Ha conquistato l’ambiente ma deve assumersi delle

responsabilità per mantenere l’equilibrio».

L’arredamento è interattivo: il pubblico, con biciclette,

produce personalmente l’energia necessaria a far

apparire sulle superfici specchianti dei mobili i simboli

relativi a ciascun ufficio di Cittadellarte: «Viviamo in un

mondo di marchi, etichette, simboli politici e religiosi, ci

rapportiamo continuamente a emblemi perciò il

compito dell’arte è creare simboli che portino alla

responsabilità. Un esempio è La mela reintegrata: il

morso sulla mela di Adamo ed Eva rappresenta il

distaccarsi dell’uomo dalla discendenza dalla natura

per creare un mondo artificiale. Reintegrare quel

morso significa riportare l’artificio a convivere con la

natura: il messaggio chiave della mia campagna di

responsabilità sociale. L’autoproduzione di energia è

un chiaro simbolo di ecosostenibilità».

«Al centro della struttura è situata una stanza con le

pareti specchianti che moltiplicano all’infinito il

visitatore e lo spazio. Al suo interno il Metrocubo

d’infinito (Pistoletto, 1966), anch’esso composto da sei

facce specchianti rivolte però verso l’interno, dove la

moltiplicazione degli specchi non è direttamente

visibile, ma solo immaginabile, un’esperienza

intangibile verso l’ignoto, la condivisione di un viaggio

verso il terzo paradiso, ovvero il punto di intersezione

dei due cerchi, la natura e l’artificio. Ma è anche il

simbolo dell’infinito, che finisce e ricomincia». (f. s.)

LAMPI DI LUCELampada da tavolo con

diffusore in polietilene

bianco opalino a forma

di uovo. Creata nel ’72,

in questa riedizione

propone nuove

possibilità di utilizzo:

grazie a un supporto

in acciaio agganciabile

a terra, si può utilizzare

anche all’esterno.

Di FontanaArte

COMFORT DA SDRAIOUn meccanismo quasi

invisibile, nascosto

sotto la seduta,

le consente di offrire

tutto il comfort

di una sdraio, senza

apparire tale. Realizzata

in tessuto, è provvista

di una struttura unica

in acciaio. Nnx60t

di Royal Botania,

designer

Kris Van Puyvelde

SOTTILE E SMONTABILETavolino-scrivania

dagli spessori sottili

e immagine leggera.

Bambi è realizzato in

lamiera tagliata al laser

e sagomata, il piano

poggia su due gambe

in tubo metallico

rettangolare.

Completamente

smontabile.

Di Cappellini

BAULE DA CAMERAUn baule da camera

ispirato ai viaggi in

crociera. Al suo interno

un insieme di cassetti

di diverse dimensioni

e un mini scrittoio

ribaltabile con pouf

imbottito estraibile.

Struttura su ruote.

Oceano

di Poltrona Frau

Non solo design.

Il Salone del mobile

propone anche

due appuntamenti culturali.

Peter Greenaway trasforma un’icona

come il Cenacolo di Leonardo in un quadro vivo.

Pistoletto immagina un ufficio creativo

con un’installazione nel cuore di Milano

GRANDIEVENTI

GAMBE LUNGHE E SOTTILIDisegnata per Magis da Ronan ed Erwan Bouroullec, Steelwood Chair è realizzata in massello di faggio e disponibile in vari colori

MichelangeloPistoletto

persone

“L’arte emblema della vita”

LEGGI INTERVISTA INTEGRALE

SUL SITO WWW.CASA.REPUBBLICA.IT

PER SAPERNE DI PIÙ

www.petergreenawayevents.com

www.pistoletto.it

www.cittadellarte.it

Repubblica Nazionale

PER SAPERNE DI PIÙ

www.cosmit.it

*SALONEDELMOBILE2008DOMENICA 13 APRILE 2008

@

■ 35

UNA SORPRESAPER DODICISemplice solo

all’apparenza

e invece ricco

di sorprese. Square

di BBB Emmebonacina

è un tavolo espandibile

fino a 12 coperti grazie

al piano che, ruotando

di sessanta gradi,

permette al quadrato

centrale di abbassarsi

e alle ali di aprirsi a libro

sul proprio asse

Trasformazione, contaminazione, reintepre-tazione del classico e sperimentazione. Si av-verte qualcosa di più di un esercizio di stile

nelle proposte di questo nuovo Salone. Si torna asperimentare, nel senso di provare davvero a farequalcosa di nuovo, testando nuovi materiali e nuo-ve forme per assolvere a determinate funzioni.Spesso più di una alla volta. Già, perché succede chelo spazio a disposizione non è molto. Anzi, sempredi meno, perchè causa caro mutui e cifre da capo-giro del mercato immobiliare, le case sono semprepiù piccole. Rinunciare a qualche metro quadratonon significa però necessariamente rinunciare allacomodità. Anzi, la necessità aguzza l’ingegno -quello dei designer - che si divertono a sperimenta-re mobili che ruotano, si chiudono, si piegano, perdiventare altro. Assolvendo a più funzioni oppure auna sola, ma esclusivamente nel momento contin-gente, quando serve, per poi richiudersi e sparire inqualche interstizio tra mobile e parete. A gettareuno sguardo d’insieme sulle proposte della 47esi-ma edizione del Salone del mobile non si può nonnotare una comune volontà di sperimentare mec-canismi e movimenti, forme e funzioni, per rende-re l’oggetto mutevole e adattabile a diverse situa-zioni.

Il mobile-immobile, insomma, diventa mobiledavvero. Come la libreria Assemblage di Seletti, ilcui nome ne suggerisce esattamente la caratteristi-ca principale, la capacità di assemblarsi, appunto,con cinghie elastiche che tengono assieme una se-rie di moduli a matrioska: aperti, si prestano a con-tenere ed esporre, mentre una volta chiusi tornanoa occupare uno spazio minimo, pari all’ingombrodel più grande di loro. Non necessariamente il mo-bile trasformabile ispira un senso di provvisorietà.

Sedia origami e libreria matrioskaarrivano i mobili trasformisti

Il tavolo Square 2 Square di BBB Emmebonacina,ad esempio, è solidissimo e ingannevole perchédietro la semplicità di utilizzo nasconde un com-plesso meccanismo che permette alla sua strutturaquadrata di aprirsi a libro, raddoppiando la propriasuperficie per ospitare fino a dodici coperti. Evi-dente il debito del designer nei confronti dell’O-riente e in particolare verso il Giappone, che il tavo-lo cita nella costruzione “a origami”. Debito condi-viso da Danese che idea Kada, lastra di laminato chesi apre e si monta per assolvere a funzione di sga-bello o tavolino.

Il design, notoriamente eclettico, quest’annovuole essere insomma anche spiazzante. Senzadeludere, tuttavia, chi stenta a orientarsi quando sicambiano le carte in tavola, dando ai mobili formediverse da quelle tradizionalmente associate a unadeterminata funzione, e stenta a gettare il cuore ol-tre l’ostacolo perché psicologicamente ancorato aforme rassicuranti ed esteticamente schierato a fa-vore di quelle classiche. Perché in un’offerta tantovasta come quella del Salone non possono checonvivere almeno due anime, due macrotenden-ze. E se una percorre la strada della sperimentazio-ne, l’altra non può che andare nel senso opposto:tornare al classico, alla forma che non nascondenulla di diverso da quello che rivela alla vista. Un bi-sogno di chiarezza, quello espresso dal partitodell’“un divano è un divano e basta”, che hannopercepito anche aziende che di solito giocano conle forme. Come Kartell, che quest’anno proponeuna lampada semisferica, bianca o nera, non a ca-so chiamata Neutra. Anche Royal Botanica tornaall’ordine - con una poltrona da esterni che nel suosevero geometrismo cita gli arredi modernisti - se-guita da FontanaArte che, dal tuffo nel passato, tor-

Oggetti che ruotano,

si chiudono,

si piegano. Per

diventare altro.

Risolvendo più funzioni in situazioni

diverse. Le case sono sempre più

piccole e la necessità aguzza l’ingegno

dei designer. Che si impegnano

a testare nuovi materiali e nuove forme

na con una riedizione del suo storico Uovo, adat-tato all’uso in esterno. Il design, insomma, per il2008 suggerisce due macrotendenze che, nella lo-ro divergenza, non potevano tuttavia restare alie-ne da qualche tentativo di contaminazione. Mol-teni, ad esempio, propone un divano all’apparen-za classicissimo, Turner, dotato però di un mecca-nismo che consente di variare la profondità dellesedute, mentre Cappellini e Poltrona Frau gioca-no a reinterpretare forme classiche. Lo fanno ri-spettivamente con un tavolo, Bambi, che sulla suasemplice struttura ad x poggia un piano in lamie-ra tagliata al laser e sagomata, e con la classica se-dia da regista, Helleu, realizzata in Corian inveceche in legno. Proprio quest’avvicendarsi di mate-riali suggerisce come, in fondo, delineare tenden-ze sia un esercizio molto simile al fotografare atti-mi: basta guardare un po’ avanti per accorgersi in-fatti che quello che è considerato il materiale delfuturo, il Corian, sempre più usato per la sua resi-stenza e duttilità, sta già diventando un classico deldesign contemporaneo. (e. g.)

MECCANISMO A PACCHETTONasce da un gioco

di geometrie

e un intersecarsi tra pieni

e vuoti che richiamano

i disegni degli origami

giapponesi. Agendo

sulla parte superiore

della cornice i piani

rientrano su se stessi

con un meccanismo

a pacchetto. La sedia,

una volta chiusa,

è perfettamente compatta

e facile da riporre

risparmiando spazio.

Isis di Gebrüder

Thonet Vienna,

designer Jake Phipps

SGABELLO O VASSOIOStruttura in laminato

e top in metallo

verniciato, Kada

di Danese è un sistema

pieghevole dalle

molteplici possibilità

di utilizzo: vassoio,

sgabello e tavolino.

La forma nasce da

un gioco di pieghe che

permette di appiattire

lo sgabello riducendone

l’ingombro

COME UNAMATRIOSKASistema composto

da 10 moduli in legno

decorato con serigrafie

e assemblabile, come

dice il nome stesso

Assemblage, attraverso

l’utilizzo di una cinghia

che rende stabile

la struttura. Come in

una matrioska, quando

il sistema è chiuso

i moduli vengono

disposti uno dentro

l’altro. Di Seletti

tendenze

quelli checambiano

le tendenzeConvivono la voglia di sperimentare e la ricerca del classico rassicurante

Repubblica Nazionale

Repubblica Nazionale

LINEE CURVE E RASSICURANTILa libreria curvilinea

fa parte del programma

Twist di Ultom che

prevede postazioni

simili a isole circolari.

Per un ufficio

accogliente

e psicologicamente

rassicurante

SALONEDELMOBILE2008DOMENICA 13 APRILE 2008@

■ 37

Cambia nome

l’esposizione

sugli ambienti

di lavoro.

E propone un concorso che interpreta

gli uffici come moderne fabbriche dove

si produce creatività. Luoghi che, superando

il concetto tradizionale dello spazio chiuso,

stimolano il confronto

SALONEUFFICIO

*CONVIVIALITÀ E PRIVACYLa stessa postazione

di lavoro diventa

un mezzo per

la suddivisione dello

spazio, tutelando

la privacy senza però

precludere convivialità.

Nella proposta

di Martex Office

Il concorso

I progettiin mostra

FLESSIBILE E LEGGERAFlessibile e leggera,

come sono i lavoratori

delle “fabbriche

moderne” dove si

produce conoscenza,

è la libreria C-Book

di Dieffebi. Per creare

un ambiente di lavoro

che stimoli i rapporti

interpersonali

DISPONIBILI AL DIALOGOErgonomiche,

dalle forme morbide

e utilizzabili da ogni lato

sono le scrivanie

Della Rovere disegnate

da Karim Rashid.

Per un approccio più

umano e un lavoratore

sempre disponibile

al confronto

Dall’open space al combi-officela parola d’ordine è condivisione

ILARIA ZAFFINO

le idee Grandi tavoli da riunione utilizzabili da ogni lato, pareti vetrate, persino isole arredate per le pause

Il posto dove

lavoriamo

è responsabile

per il 25 per cento della soddisfazione

del singolo. Che si riflette, di conseguenza,

sul rendimento di tutto il gruppo

C’è quello organizzato come un campo da cal-cio. Che sottolinea l’importanza del gioco disquadra nell’ottenere ottimi risultati: luogo

di incontro dove lavorare giocando, anche graziea spazi condivisi e pareti vetrate, che garantisconola privacy senza però dividere come odiose bar-riere. C’è quello che punta tutto sul benessere acu-stico dei propri dipendenti e si prende cura puredel fisico, con sedute confortevoli, ergonomiche,che fanno bene a muscoli e postura, ma soprat-tutto facilitano la concentrazione. Oppure quelloche vorrebbe far sentire le persone proprio comea casa, ricreando un’atmosfera rilassante e infor-male e prestando attenzione anche ai momenti disvago, con tanto di spazi arredati apposta per lepause. Perché nella fabbrica moderna dove ciòche si produce è creatività, lo spazio di lavoro (se-condo una recente ricerca inglese) è responsabileper il 25 per cento della soddisfazione del lavora-tore e per il 5 per cento della sua performance, chesi riflette di conseguenza sul rendimento del grup-po. Per questo progettare uffici sempre più fun-zionali, che con i loro arredi influiscono sul modoin cui si lavora migliorandolo, diventa la sfida piùgrande per il futuro: un investimento molto più diun costo. E ufficio inteso come fabbrica creativa èproprio il tema di cui si parla a Milano alla bienna-le dell’ambiente di lavoro.

In principio era Eimu: sigla oscura ai più, da scio-gliere in Esposizione internazionale dei mobili perufficio. Da quest’anno l’appuntamento che fa ilpunto sulle novità in fatto di ambiente di lavoro sichiama, invece, molto più semplicemente Salo-neUfficio. Cambia il nome, dunque, ma non l’of-ferta, con oltre 160 aziende che vi prendono partemettendo in mostra il meglio della produzione dei

mobili e degli accessoriper uffici, banche, oltrea soluzione per l’homeoffice. Dall’open spaceal combi-office, all’ufficio-casa, al telelavoro, al la-voro ovunque: accanto alle proposte commercia-li un concorso sul tema dell’ufficio moderna fab-brica, ma di creatività, vede impegnate le aziendenella ricerca di nuove soluzioni. Che spaziano daimateriali (quelli naturali, come legno e vetro, chefavoriscono la concentrazione e la riflessione) aiprodotti (ad esempio, scrivanie ergonomiche uti-lizzabili da ogni lato, per un approccio più friendlye umano, che si rispecchia spesso nella morbidez-za delle forme) a vere e proprie ambientazioni. È ilcaso di luoghi che, superando il concetto tradizio-nale dello spazio di lavoro chiuso, stimolano inve-ce la condivisione e il confronto, con grandi tavolida riunione e pareti vetrate per garantire sì la pri-vacy ma senza dividere come farebbero al contra-rio dannose barriere.

Ma c’è di più. Perché SaloneUfficio quest’annorende omaggio alla città di Milano che lo ospita, e almondo del lavoro con cui questa da sempre si iden-tifica, con un’installazione firmata da Michelange-lo Pistoletto esposta, dal 16 al 21 aprile, alla Loggiadei Mercanti, epicentro della vita commerciale del-la Milano medievale e luogo, quindi, dedicato al la-voro per eccellenza. Mentre anche nel calendariodei convegni si torna a parlare di “fabbriche creati-ve”, con tavole rotonde che vedono a confrontoeconomisti, sociologi, imprenditori, architetti e de-signer. Per anticipare l’ufficio del futuro.

Voglia di natura, di luce,

di aria. E poi una grande

attenzione alla comodità della

seduta, ma anche alla parte

tecnologica. Sono questi

i desideri, le necessità e le idee

che emergono dal concorso

organizzato da LineKit

(azienda che da 50 anni

produce arredi per uffici)

su SecondLife, in cui è stato

chiesto agli stessi utilizzatori

come immaginano il loro

ufficio ideale. «Nel mondo più

del 50 per cento dei lavoratori sono impiegati

e l’ambiente in cui si lavora è molto importante

per i dipendenti di un’azienda, ne influenza

la produttività - spiega Remo Lucchi, che ha

realizzato il concorso - ma non vengono fatte

indagini sulle necessità di chi utilizza un ufficio.

Il lavoratore non partecipa mai all’acquisto

del proprio ambiente di lavoro; sono altri che

scelgono per lui. Così abbiamo chiesto

agli utilizzatori degli uffici come vorrebbero che

fosse il loro posto di lavoro ideale. E per farlo

abbiamo utilizzato Second Life, che

rappresenta il futuro in 3D del web. In pratica,

gli utenti di Second Life si sono costruiti il loro

ufficio dei sogni, proponendo in realtà più

atmosfere che prodotti, ricche comunque

di spunti interessanti per il futuro. Ne abbiamo

selezionati 25, che sono già visibili su YouTube

e saranno poi anche a SaloneUfficio». E dai

vincitori del concorso potrebbero venire fuori

idee concrete per i prossimi progetti di LineKit.

(i. za.)

suSecondLife

Progettiperilfuturo

LAVORARESENZA BARRIEREPareti vetrate

sostituiscono dannose

barriere, superando

il tradizionale concetto

dello spazio di lavoro

chiuso. Nel progetto

Natural Office di Fantoni

ABBINAMENTIPERSONALIZZATIScrivanie che si

abbinano a contenitori

e a pareti polivalenti:

è il programma

di arredo modulare

My Desk di Frezza. Per

personalizzare anche

gli ambienti circostanti

ISPIRAZIONENATURALEIspirato alla natura,

e in particolare

a un vaso di fiori,

è il sistema di scrivanie

Neroli di Della Valentina.

Che vede l’ufficio

come terreno fertile

per la creatività

VEDI LA FOTOGALLERIA

SU CASA.REPUBBLICA.IT

PER SAPERNE DI PIÙ

www.cosmit.it

Repubblica Nazionale

SALONEDELMOBILE2008■ 38

@DOMENICA 13 APRILE 2008

Dalla Triennale a zona Tortona,

ai laboratori della Fabbrica

del vapore:sono tantissimi

gli appuntamenti in giro

per Milano. Eventi, esposizioni, allestimenti

che danno spazio ai progettisti di domani.

Per anticipare le tendenze che verranno

FUORISALONE

Fabbrica del vapore

Dall’arte ai medialargo ai giovani

Il design interpretato attraverso molteplici

discipline espressive, dall’arte al multimedia.

Posti di vista, l’evento del fuori salone milanese,

propone una riflessione sul ruolo di raccordo

che i laboratori della Fabbrica del vapore svolgono

tra mondo della formazione e lavoro. Un modo

per dare spazio alla creatività giovanile attraverso

incontri, installazioni ed esposizioni che toccano

anche aspetti di attualità legati alle problematiche

ambientali, grazie alla campagna promossa

dal circuito dell’abitare sostenibile Best Up insieme

a scuole di design italiane. L’evento si protrarrà

per tutta la durata del Salone, in zona Garibaldi

nei laboratori della Fabbrica del vapore. (e. m.)

Zona Tortona

Un contenitoredi promesse

Un neonato che promette bene. That’s Design,

l’evento del fuorisalone milanese che ha

debuttato nel 2007, ritorna con lo stesso obiettivo:

avvicinare giovani professionisti, università

e accademie al mondo dell’impresa. Negli spazi

dell’ex Ansaldo in zona Tortona, verranno esposti

i progetti di undici scuole internazionali di design.

L’evento è promosso da Domus Academy,

Consorzio Poli. Design, Facoltà del Design

del Politecnico di Milano e zona Tortona.

Tra i partner di quest’anno Campari soda

che presenterà un’idea di rivisitazione estetica

della bottiglietta dell’aperitivo disegnata

da Fortunato Depero. (e. m.)

Triennale

La ceramica che parla ai sensi

Foscarini

La lampada:dall’idea al progetto

Come nasce una lampada? Qual è il

passaggio dall’idea alla progettazione?

L’azienda Foscarini, produttrice

di illuminazione di design, presenta al

Superstudio Più in zona Tortona Genesis,

un progetto-evento per riflettere

su ciò che conduce alla nascita

di un nuovo modello di lampada. Ogni lampada,

come un organismo vivente, contiene una sua

storia progettuale e un percorso evolutivo.

Ma una lampada, oggetto utilizzato

quotidianamente e di funzionale importanza,

raccoglie anche la storia di chi la “vive”

e ne entra a far parte, diventando un simbolo

della casa, senza tempo. (f. g.)

Campus Bovisa

Insolita e allargataè la casa dei designer

Allargata e insolita, la casa diventa uno spazio

abitativo aperto e in continua trasformazione.

I designer del Politecnico di Milano presentano

la Casa dei designer, in Campus Bovisa, dal 16

al 21 aprile, un allestimento in cui “costruire”

il design simbolicamente attraverso lo scambio

di idee ed esperienze e praticamente con l’utilizzo

di materiali da cantiere. La Casa si compone

di zona foresteria, in cui gli ospiti possono vivere

e costruire, e di uno spazio aperto a tutti, detto

Ovale, per incontri, esposizioni, installazioni

interattive, ma anche grigliate e musica.

Tra gli eventi Mornin’ breakfast, Open day e Open

night. Info: www.polimi.it/eventi_e_iniziative (f. g.)

Gaetano Pesce

Quattro armadiper un tavolo

Gaetano Pesce presenta un’installazione

composta da quattro armadi in resina

(Mantegna, Puglia, Horse, Arquà) e Fish table,

nuova proposta di tavolo, all’interno del Pink

Pavillion, nel quale saranno esposti anche

i disegni preparatori dei progetti. Il padiglione

rosa è stato progettato e realizzato da Gaetano

Pesce per Triennale Bovisa, sperimentando

l’uso del poliuretano espanso nell’edilizia che,

per la sua leggerezza e stabilità, si presta

alla costruzione di rifugi d’emergenza.

Triennale Bovisa, dal martedì alla domenica,

dalle 11 a mezzanotte. Info: 02-724341

www.triennalebovisa.it; www.triennale.it (f. s.)

*M

ade in Cassina. È intitolata così la prima esposizione tem-poranea ospitata alla Triennale di Milano in occasione de-gli 80 anni di Cassina. Un’esposizione che è insieme un

viaggio all’interno dell’azienda e nella storia del design italiano.Due percorsi che in parte coincidono. O almeno viaggiano su duestrade parallele che, a un certo punto, si incontrano. Succede quan-do, dopo la fine della seconda guerra mondiale, l’azienda, nata nel1927 sotto l’insegna “Amedeo Cassina”, vede il tramonto del mo-bile tradizionale e l’Italia inizia la sua lunga corsa verso il design.Non a caso pochi anni dopo, precisamente nel 1956, viene fonda-ta l’Adi, associazione per il disegno industriale, nata da un gruppodi architetti, designer e imprenditori impegnati a rivoluzionare l’e-stetica del prodotto tradizionale e a diffondere nel mondo il madein Italy. La mostra racconta tutto questo, ma anche altro.

Nello spazio di mille metri quadrati verranno infatti presentati,dal 16 aprile al 7 settembre, oltre 100 prodotti, modelli di studio eprototipi, alternati a ricostruzioni di archivi di fabbrica e a piani dilavoro con modelli e oggetti. A cura di Giampiero Bosoni e con l’al-lestimento di Ferruccio Laviani, il percorso espositivo si snoda at-traverso le opere di una ventina di designer italiani e stranieri. Trale opere esposte I Feltri, serie di sedute disegnate da Gaetano Pe-sce interamente realizzate in feltro di lana, e il divano Hilly, per cuiAchille Castiglioni ha preso spunto dalla natura, in particolare dal-la collina (nelle foto qui accanto a sinistra). Presenti inoltre ogget-ti di Giò Ponti, Afra e Tobia Scarpa, Vico Magistretti, Piero Lissoni,Philippe Starck, Jean Marie Massaud, Mario Bellini e alcune ope-re della collezione “I Maestri”, che raccoglie riproduzioni in esclu-siva mondiale di mobili disegnati da alcuni grandi dell’architettu-ra e del design del XX secolo, come Zig Zag, sedia in ciliegio na-turale di Gerrit T. Rietveld (foto).

Tra i temi trattati anche quello delle forniture per gli ar-redi navali: negli anni Cinquanta infatti Cassina ha ar-redato 58 navi, tra cui l’Andrea Doria, la Raffaello e laMichelangelo. Accompagna la mostra anche unamonografia, curata dallo storico del design Giam-piero Bosoni, che in circa 350 pagine e 450 imma-gini racconta la storia dell’azienda e raccoglie icontributi di autorevoli studiosi internazionali.Base di partenza, sia per l’esposizione che per il li-bro, è la collezione dell’Archivio Storico Cassina,memoria tangibile dell’azienda ed esempio di co-me la proiezione verso il futuro spesso dipenda dalpatrimonio del passato.

SEDE: LA TRIENNALE DI MILANO; INGRESSO: INTERO 6 EURO

INFO: 02.724341 WWW.TRIENNALE.IT / WWW.CASSINA.COM

Location d’eccezione, Torre Branca a Milano,

per la quarta edizione di Remade in Italy,

evento dedicato all’ecodesign, ovvero al design

che utilizza i materiali poveri, di riciclo, per

creare prodotti innovativi. La manifestazione,

ideata da Marco Capellini, non si pone in

concorrenza al Made in Italy, ma va oltre.

L’ecodesign da tendenza diventa il modo di

progettare oggetti convenienti ecologicamente

ed economicamente per un consumatore

sempre più attento. Famosi designer

(Ugo Nespolo, Massimiliano Fuksas, Roberto

Palomba) e grandi aziende per un design

concorrenziale. Info: www.remadeinitaly.it (f. g.)

Remade in Italy

Quando il designdiventa ecologico

Un viaggionella storia

la mostraGli 80 anni di Cassina

VEDI LA FOTOGALLERIA

SU CASA.REPUBBLICA.IT

La ceramica parla ai nostri sensi, in particolare

al gusto. Ceramic tiles of Italy_ Architectural

Food è il titolo della mostra che verrà presentata

quest’anno in Triennale in occasione del Salone

del mobile. L’evento è promosso

da Confindustria Ceramica e organizzato

da Edi.Cer.spa all’interno di uno spazio curato

da Aldo Colonnetti con l’allestimento di Origoni

& Steiner. Otto realizzazioni che sottolineano

l’innovazione nella produzione industriale

della ceramica, la sua versatilità e la creatività

dei progettisti, tra i quali ritroviamo Odoardo

Fioravanti, Luca Nichetto, insieme ad altri

importanti nomi che hanno interpretato grazie

al loro estro, e per aziende altrettanto note,

la nostra tradizione gastronomica. La mostra

prosegue fino al 21 aprile con ingresso libero.

(e. m.)

PER SAPERNE DI PIÙ

www.italiatiles.com; www.triennale.it

www.triennalebovisa.it; www.cassina.com

www.foscarini.com; www.zonatortona.it

ILENIA CARLESIMO

Repubblica Nazionale

DOMENICA 13 APRILE 2008@

■ 39

Si riaffaccia

il fantasma della

contraffazione,

che sta depauperando le piccole

e medie aziende. Una piaga che

provoca ogni anno perdite fino a 7

miliardi di euro a livello globale

alle imprese del settore

L’amministratore

Il “nuovo classico”

Le vecchie sedie in legno? Non gettatele, con

qualche piccolo ritocco possono essere

ancora alla moda e adattarsi perfettamente alla

vostra casa. Parola di Manlio Armellini,

amministratore delegato del Cosmit, anima e

memoria storica dell’evento milanese.

«Quest’anno si assisterà a un “nuovo classico”.

Ricordate le sedie su cui sedavamo da

bambini? Le vedremo reinterpretate e

riprogettate con l’utilizzo di colori come

turchese e verde smeraldo applicati su pelle,

ceramica o metallo. Insomma, al Salone ne

vedremo letteralmente di tutti i colori».

Può anticiparci quali sono i trenddell’edizione 2008?«Il design system è sempre più costellato da

figure femminili e il lavoro di molte donne in

questo settore ha spinto un’intera produzione a

trovarsi una nuova collocazione caratterizzata

dalla ricchezza nei disegni, l’accortezza nei

dettagli e la grazia nell’uso dei tessuti e degli

elementi cromatici».

Lei ha partecipato a tutte le edizioni delSalone. Come sono cambiate in questi anni? «C’è stata una notevole crescita di qualità. Le

aziende partecipanti rappresentano il fiore

all’occhiello in questo campo: non c’è nome

qualificato che non vi abbia partecipato. Il

rammarico è di non poter ospitare tutte quelle

ditte che vorrebbero; abbiamo una lista d’attesa

lunghissima». (valentina ferlazzo)

Il presidente

Tra business e cultura

«Oltre ai mobili e agli eventi in Fiera, ci sono

molte altre offerte culturali. Per esempio il

Fuori Salone che tiene viva Milano fino a tarda

notte. Dai primi dati possiamo confermare che il

numero dei visitatori è in crescita». Sono

ottimistiche le previsioni di Rosario Messina,

presidente del Cosmit, la società che gestisce il

Salone del mobile.

Alcune aziende lamentano pochi spazi.«Abbiamo 220mila metri quadrati e non è poco,

ma la lista di aziende che non possiamo

accogliere è lunga. Per il 2010 speriamo di

arrrivare a sfruttare i 400mila metri quadrati che

potenzialmente la sede di Rho consentirebbe».

Quali sono le novità?«Il mercato è incerto e molti collaboratori del

Cosmit viaggiano all’estero con un ruolo di

ambasciatori: raccontano novità e qualità dei

mobili. All’aspetto commerciale cerchiamo di

aggiungere approfondimenti culturali di qualità

e interesse internazionale come l’evento di

Greenaway. Perché crediamo che business e

cultura debbano percorrere strade parallele».

L’aumento del prezzo delle materie primeinfluenza negativamente il settore arredo? «Sicuramente genera incertezza. La nostra

strategia punta soprattutto all’export, a paesi

emergenti come la Russia, la Bulgaria, la

Polonia o la Cina e l’India che in futuro

rappresenteranno mercati sempre più

interessanti». (barbara donati)

Il 2007 è stato l’anno

della crescita

per l’industria italiana

dell’arredamento.

L’obiettivo del 2008 è mantenere la posizione

raggiunta. Ma non è ancora detta l’ultima

parola. Perché a Milano tutto può succedere

ILMERCATO

Made in Italy,correre di piùper non arretrareAGNESE ANANASSO

Il 2007 è stato l’anno della crescita perl’industria italiana dell’arredamento edel legno ma non siamo così ottimisti

per il 2008», commenta così Roberto Snai-dero, presidente di Federlegno-Arredo, idati appena rilasciati dal centro studi Co-smit/Federlegno-Arredo sull’andamentodel Sistema legno-arredamento in Italianel 2007. Complessivamente il fatturato èpassato dai circa 38 miliardi di euro del2006 ai quasi 40 miliardi del 2007, con unacrescita del 4,5 per cento. Una crescita chesi è spalmata in modo piuttosto uniformesia nel settore dell’arredamento (+3,9 percento) che nel settore del legno e prodottiin legno, che include anche semilavorati ecomponenti per mobili (+5,3 per cento).L’arredamento realizza i due terzi del fat-turato, forte del brand made in Italy, che hafatto decollare le esportazioni complessive(+8,4 per cento), nonostante un euro sem-pre più forte. «Questo è il risultato di unacampagna di persuasione che abbiamocondotto presso le piccole e medie impre-se perché si aprissero all’internazionaliz-zazione» spiega Snaidero. «Addirittura so-no cresciute le esportazioni nell’ambitodel legno, arrivando a un più 11 per cento.Un dato incoraggiante che però vienesmorzato dalla galoppata anche delle im-portazioni. Un segnale importante, chenon va sottovalutato, specialmente se ipaesi da cui importiamo sono paesi comela Cina, dove i prodotti non sono sempre inlinea con lo standard di qualità italiana».

E qui si riaffaccia lo spauracchio dellacontraffazione che sta depauperando lepiccole e medie aziende italiane del setto-re del legno-arredamento. Federlegno/Ar-redo si sta battendo per imporre la certifi-cazione del “made in” e tra le proposte ela-borate c’è anche la certificazione dei labo-ratori extraeuropei da cui le aziende italia-ne importano semilavorati o componentidi mobili. «Devono essere prodotti in lineacon lo standard di qualità europeo» diceSnaidero. «Non solo perché si rischia di of-frire un prodotto scadente, ma anche per-ché c’è il pericolo di utilizzare materiali tos-

sici, che possono mettere a repentaglio lasalute del consumatore. Per questo stiamocollaborando con associazioni europee,anche al di fuori della filiera del legno-arre-damento, per sviluppare un coordina-mento a livello europeo e sovraeuropeo. Esoprattutto per impedire che le idee dei no-stri designer vengano copiate indiscrimi-natamente da aziende cinesi che non sot-tostanno a nessuna regolamentazione. Lacontraffazione è una piaga che provocaogni anno perdite per 5-7 miliardi di euro alivello globale alle imprese del settore».

Le previsioni per il 2008 per il settore dellegno-arredamento italiano non sono cosìrosee come per il 2007, complici l’eurosempre più forte e il prezzo del petrolio edelle materie prime alle stelle, che vanno aincidere sui costi che le aziende devono so-stenere per continuare a crescere. L’obiet-tivo per quest’anno è cercare di mantene-re la posizione e accontentarsi di una cre-scita nettamente inferiore rispetto al 2007.Ma non è detta ancora l’ultima parola, vi-sto che al Salone del mobile tutto può suc-cedere. «Ci sono grandi aspettative perquesta edizione, vedremo cosa accadrà»commenta ancora Snaidero. «Tra elezionipolitiche, euro forte, caro-petrolio, questosarà un anno di transizione, in cui sarà giàpositivo se riusciremo a crescere dell’1-1,5per cento, rispetto al 2007. Dobbiamo cor-rere più degli altri anni per non perdere po-sizioni. Anche se il design italiano non hamolto da temere secondo me, perché esu-la dalle leggi del mercato di massa. Leaziende stanno, infatti, spostandosi suprodotti sempre più di fascia medio-alta eil made in Italy ci è di grande aiuto per man-tenere e migliorare il nostro posiziona-mento sul mercato internazionale».

*L’altro salone

Ideebagno

il punto Aumentano esportazioni, ma anche importazioni

La 3ª edizione della Grande

Guida Arredamento&Design

sarà in edicola il 22 maggio

2008. Il volume, con testo

bilingue (italiano/inglese),

presenterà in circa 600

pagine più di 300 prodotti,

suddivisi per tipologia

(dalle sedute ai tavoli

passando per divani, luci,

letti, cucine, sistemi). Oltre

a novità e longseller, sarà

molto ricca la sezione

delle anteprime presentate

al Salone del mobile.

Una novità: la sezione

Arredo-moda, sui marchi

moda che hanno debuttato

con linee di arredo

per la casa.

Un luogo da vivere come

le altre stanze della casa,

senza più segreti

da nascondere, ma anzi da

esibire come un soggiorno

o una camera da letto.

Atro appuntamento

dell’edizione 2008

è il Salone Internazionale

del Bagno, che presenta

tutte le novità

degli accessori e dei mobili

per bagno, cabine doccia

e impianti sauna, porcellana

sanitaria, e poi radiatori,

rivestimenti, rubinetteria

sanitaria, vasche da bagno

e idromassaggio.

Consacrato l’anno scorso

come manifestazione

autonoma internazionale,

il Salone del Bagno porta

l’attenzione del pubblico

verso uno spazio domestico

che sempre più si pone

alla pari con gli altri ambienti

della casa e detta tendenza.

guidadesign2008

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PER SAPERNE DI PIÙ

www.casa.repubblica.it

www.federlegno.it

la novità

Nasce il sito di Repubblica Casa(segue dalla prima dell’inserto)

Queste le due sezioni del sito nel dettaglio: Il database. Informazioni utili che formanouna grande guida pratica al mondo dell’ar-

redamento. Sono costituite da unricco catalogo con oltre 800 sche-de di mobili ed elettrodomesticiche aumenteranno nel tempo fi-no a diventare oltre duemila. Ognioggetto viene presentato da unascheda con tutte le principaliinformazioni, tra cui il marchio, ildesigner, i materiali, i colori e le di-mensioni. Fanno parte del data-base una serie di strumenti di ser-vizio come i testi-guida alla sceltadei vari tipi di mobili, la storia del-l’arredamento, il glossario, i focus tematici (il pri-mo è sulle finestre, seguiranno riqualificazioneenergetica e porte), gli approfondimenti sul legnoe sulla ceramica, due materiali particolarmenteusati per la casa.

Le news quotidiane. La seconda colonna por-tante è coerente con il dna di “Repubblica”:l’informazione di attualità. Casa&Design avrà ag-giornamenti quotidiani e, in momenti particola-

ri, come durante il Salone del mobile, pluriquoti-diani. Ad arricchire le news, i blog, rubriche setti-manali dedicate a temi specifici come Interior de-sign, Bioarchitettura, in alcuni casi aperte ai letto-

ri (è il caso di Design lab, che rac-coglie idee e progetti di studenti,designer, creativi, o Io ho fatto co-sì, trucchi e soluzioni pratiche perproblemi della casa). Una sezioneparticolare delle news è rappre-sentata dagli speciali: “minisiti”creati per appuntamenti impor-tanti. Il primo è già online dal pri-mo giorno di vita del sito ed è de-dicato al Salone del mobile. Infi-ne, una sezione è dedicata almondo delle facoltà e delle scuo-

le di design, con tutta l’offerta formativa dei cor-si triennali, specialistici e dei master, e con le ri-cerche e gli studi prodotti in questi istituti.

Responsabile del sito è Aurelio Magistà, che sioccupa dell’argomento da diversi anni sulle pagi-ne del quotidiano e del Venerdì con servizi e conla rubrica Domestica. Il sito è realizzato con Ka-taweb, Internet company del Gruppo editorialeL’espresso-La repubblica.

SALONEDELMOBILE2008

Repubblica Nazionale

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 13 APRILE 2008

Ora sta scrivendo la vita di Emilia Fer-nandez Rodriguez, zingara in via di bea-tificazione. Raccoglie documenti sul pri-mo prete degli zingari in Italia: «Del 1500,un salernitano detto “il litterato”, sacer-dote a Roma». O su Karl Jaja Sattler, pre-dicatore rom morto ad Auschwitz, chetradusse il Vangelo di Giovanni in linguagitana. Don Mario, storico della religio-sità zingara, «questo popolo di furbi, co-stretti dalla necessità a dire e non dire.Non mentiva forse anche Abramo, persalvarsi?». Più che emarginati, dice,«marginali». Ladri? «A volte, e a volte no. Igagi mi chiedono: perché non gli dici dinon rubare? Già, perché rubano a voi.Con la maggioranza che agli zingari dice:noi siamo noi, e voi non siete niente. Si vi-ve, si sbaglia, si pecca. È l’umanità. E ilrom dovrà farsi da sé, come ci riesce. Dia-moci da fare noi. Noi zingari».

E a pochi chilometri da qui, dal campodi Pozzuolo dov’è di passaggio don Ma-rio, c’è un altro dei preti-zingari. Federi-co Schiavon, un salesiano cinquantenneche da sette anni vive al Villaggio Metalli-co di Udine, il campo di via dei Sei Busi:«Lo chiamano Villaggio Metallico perchéc’erano le baracche di metallo costruitedagli inglesi alla fine dell’ultima guerra.Una di quelle rimaste la uso come chie-sa». Ci vivono centocinquanta zingari, esono settecento in tutta la provincia. Glisloveni sono discendenti di quelli libera-ti dal campo di concentramento fascistadi Gonars, qui vicino. Poi arrivarono mol-ti croati.

Don Federico dice che la sua scelta divivere con loro è stata, in qualche modo,inevitabile: «Frequentavo il campo, mami sono reso conto che venire qui ditanto in tanto significava arrivare comepadrone e non come ospite. Ho avuto ilpermesso del vescovo. E poi ho chiestoanche a loro il permesso di vivere nelcampo. Mi sono trovato una roulotte».Da sette anni, ogni mattina si sveglia lì.Lavarsi, pulire, pregare, organizzare lagiornata: «All’inizio mi cucinavo da so-lo. Poi hanno cominciato a venire, aportarmi qualcosa, a invitarmi a man-giare con loro».

La sua vita è immersa in quella delcampo: «Preghi un salmo, e le antifonesono i rumori dei bambini che giocano, ledonne che ridono, il marito che tornaubriaco». Primo, condividere, «e se neesce un discorso religioso bene, se no è lostesso». Come don Mario, anche don Fe-derico comincia a prendere la vita dalsenso zingaro: «Ognuno si porta dietro lasua storia, però vivendo con loro qualco-sa cambia. Impari a non essere schiavodel tempo, ad apprezzare la libertà deirapporti. La mia formazione era fatta diimpegni, progetti, tempi segnati. Arrivolì, e tutto mi viene buttato in aria. Fai fati-ca, ma vedi anche che il nuovo modo tiserve. È la vita la cosa più importante».

Dentro una famiglia: «Qui non sei ilprete che deve ricevere rispetto in quan-to prete. Sei un uomo come gli altri, e il ri-spetto te lo devi guadagnare. Condividi lecose belle e quelle meno belle. Le nasci-te, le morti, le feste quando uno esce dal-la galera. Nessuno, da fuori, pensa maiche in campo c’è chi piange o ride, chi siinnamora o sogna. Se sto via pochi gior-ni, quando torno devo recuperare, e far-mi raccontare quello che è successo. So-no uno di famiglia: è stata una scommes-sa per me, ma lo è stata anche per loro».Per lui, è stata una scommessa anche te-nere relazioni con quelli di fuori: «Provoa fare da ponte fra gli zingari e la gentefriulana. Con le cose pratiche: il lavoro, levisite mediche, la burocrazia. E contro ipregiudizi». Finisce sempre così: «Che ifriulani mi dicono: abbiamo capito, tu seiuno a posto. Ma loro no». Lui che vede «lafotografia dall’interno»: «Si colgono tan-te cose. Molti del campo lavorano rego-larmente, anche se partono sempresvantaggiati fin da quando dicono il pro-prio cognome. Si parla solo degli zingariche rubano. Rubano anche dei friulani,ma nessuno dice che i friulani rubano».

O gli zingari che rapiscono i bambini:«Me lo dicevano quando ero piccolo, aSan Donà di Piave. Ho visto una ricerca:non c’è un solo caso negli archivi dellequesture d’Italia». Anche gli zingari dico-no che i gagi portano via i bambini:«Quando si pensa che non abbiano con-dizioni igieniche adeguate. Ma senzaaiutare le famiglie a migliorare». Cose cheun prete-zingaro capisce: «E a volte miprende la rabbia, a vedere come gli zin-gari sono trattati. Sa, una volta nessunodei nostri vecchi avrebbe rubato al su-permercato. E adesso, invece». Cose chedon Federico comincia a pensare viven-do da zingaro, «adesso che è come se fos-si di loro proprietà».F

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‘‘Comprensione e simpatiaVorrei accennarealle personeche sono consideratemarginali nella societàAl riguardo sento di poteree dovere chiederealle autoritàche abbianomaggiore comprensionee vorrei dire,penso di non esagerare,maggiore simpatia

DIONIGI TETTAMANZI,arcivescovo di Milano, 3 aprile 2008

Repubblica Nazionale

CLERVAUX (Lussemburgo)

Il ritiro dell’anziano predicatore, l’eremodove ha voluto rifugiarsi mezzo secolodopo gli anni del successo travolgente edelle folle adoranti, ma anche delle ac-

cuse feroci e delle condanne politiche, è un pic-colo castello candido coi tetti spioventi d’arde-sia che domina l’ansa di un torrente, appog-giato sulle spalle di un gruzzolo di case, nel cuo-re dell’Europa più antica. Il maniero medieva-le di Clervaux, nel nord del Lussemburgo,un’ora di treno dalla capitale, è un edificiobianco e nero, come lo sguardo con cui il pro-feta umanista scrutava il mondo. Nel fresco delmattino, stretti nelle sciarpe, pellegrini arran-cano lungo la stradina ciottolata, entrano nelcortile sghembo e vanno a rendere omaggio algran vecchio. È un flusso esile ma costante. Neitredici anni da che è qui, sono venuti a trovar-lo trecentomila persone. Tanti, ma pochi ri-spetto ai nove milioni che lo attesero, lo osan-narono, si commossero davanti a lui nei solicinque anni che trascorse come missionarioitinerante in decine di paesi del mondo.

Il profeta esiliato nel santuario di Clervaux, èbene chiarire, non è un uomo. È una lunga se-quenza di pannelli fotografici. Insomma è unamostra. Però è la mostra più famosa della sto-ria della fotografia, una grande opera colletti-va, firmata da un’intera generazione di foto-grafi, apice e bibbia dell’umanesimo in biancoe nero, fonte di infinite successive vocazioni:The Family of Man, si chiamava e si chiama, ti-tolo rubato a un discorso di Abraham Lincoln,la famiglia dell’uomo. Dietro c’è comunqueuna persona in carne ed ossa, o meglio c’era:Edward Steichen aveva già settantasei anniquando la concepì, nel 1955, per il MoMA diNew York di cui dirigeva la sezione fotografica.A trentacinque anni dalla scomparsa stannoper arrivare in Italia, al Palazzo Magnani diReggio Emilia, l’affascinante retrospettiva cheal Jeu de Paumedi Parigi ha già visto sfilare ses-santacinquemila visitatori e il corposo volume

dell’editore Skira che hanno riscoperto que-st’uomo dalle mille vite: fotografo d’arte, dimoda, di pubblicità, ufficiale dell’esercito Usa,pittore, esteta, designer, curatore, manager,perfino floricultore; ma per capire davvero chifu, è qui nella sua patria mitteleuropea che bi-sogna venire, qui dove lui stesso volle fosseospitata per sempre la grande opera della suavita, anche se comprende solo tre o quattro fo-to sue proprie.

Un oggetto che definire solo “mostra” è po-co. Fu piuttosto un trattato di etica per imma-gini, un’utopia, forse una fede. Il catalogo del‘55, che il MoMA continua a ristampare da cin-quant’anni e ha venduto cinque milioni di co-pie, fu collocato dalla libreria Scribner, sullaQuinta Strada, nello scaffale “religioni”. Siamovenuti a capire cosa sopravviva di quell’utopia,oltre alle cartoline e a qualche gadget in vendi-ta nel minuscolo museum shop; cosa aleggi an-cora di quello spirito nel silenzio di queste sa-le, nella luce fioca per non danneggiare le im-magini d’epoca, ma propizia al raccoglimento.

Una religione, certo, ma con un solo sempli-ce dogma, scolpito sul pannello iniziale in dueversi del poeta Carl Sandburg, che di Steichenera il cognato e l’ispiratore: «C’è un solo uomoal mondo / il suo nome è Tutti Gli Uomini». Ilresto, le 502 fotografie di 273 fotografi di 68 na-zioni, svolge in modo naturale quel laconicovangelo. Scorrono le immagini di bambini chenascono, giocano, si nutrono, crescono, di-ventano adulti che amano, piangono, restanosoli, lavorano, pregano, discutono, soffrono,muoiono lasciando altri bambini che cresco-no e così via, un’eterna catena, identica a sestessa nei modi, nei gesti, in ogni tempo e inogni luogo, abbiano quegli esseri umani faccescure di africani, occhi stretti di orientali, o vol-ti lentigginosi di americani. Universalismo co-me necessità di specie, fraternità antropologi-ca come destino obbligato dell’umanità, in-scritto nei suoi cromosomi.

«Negli anni della guerra fredda, del maccar-tismo, ci voleva coraggio per affermare una ve-rità come questa», sostiene Jean Back, diretto-re del Centre national de l’audiovisuel. L’istitu-

zione governativa del granducato ha in cura lamostra dal ‘93, quando finalmente le ultimevolontà dell’illustre connazionale furonoesaudite, e l’unica superstite delle cinque co-pie originali, scovata negli scantinati del Mo-MA, fu restaurata amorevolmente (ci lavoròuna specialista italiana, Silvia Berselli) e richia-mata in servizio in dodici sale del castello diClervaux; luogo che Steichen stesso aveva scel-to, benché non fosse proprio il suo villaggio na-tale, perché lì attorno s’era combattuta la bat-taglia delle Ardenne, una delle più sanguinosedella Seconda guerra mondiale. Un carro ar-mato Sherman, davanti al castello, ancora og-gi ricorda ai passanti che la grande famiglia del-l’uomo comprende anche fratelli come Cainoe Abele.

«The Family è una magica fiammella di spe-ranza e di pace ancora accesa», insiste Back.Roland Barthes non la pensò così. La sua stron-catura, quando la mostra passò per Parigi, fuspietata, e dettò il rigetto definitivo della Fa-mily, quasi una dannazione, nell’opinionepubblica di sinistra. Mistificatorio «adami-smo», scrisse: mito ambiguo, questa filosofiadell’universale natura umana cancella la storiae nasconde le ingiustizie sociali. Imperialismomascherato da paternalismo, infierirono altripensatori radical, perfino negli Usa: ipocrita einteressata assolutizzazione della famiglia nu-cleare patriarcale borghese americana.

Che dire? I sospetti di strumentalità non era-no del tutto immotivati. Costata ben 111miladollari d’allora allo sponsor Rockefeller, dal ‘57al ‘61 The Family fu presa in carico, per il tourmondiale, dall’Usia, l’agenzia di propaganda

42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 13 APRILE 2008

l’immagineUtopie

Nel 1953 Edward Steichen lanciò un appello ai colleghidi tutto il mondo: inviatemi gli scatti che mostranoche l’umanità è un’unica grande famiglia. Arrivaronodue milioni di immagini, ne scelse cinquecento. Nacquecosì “The Family of Man”, oggi esposta in LussemburgoMentre in Italia si riscopre il profeta della fotografia

MICHELE SMARGIASSI

Se ogni uomofosse un uomo

RETROSPETTIVA

La retrospettiva

di Edward Steichen

fotografo, 450 immagini

di quasi sessant’anni

di attività, arriva

a Reggio Emilia

(Palazzo Magnani,

dal’11 maggio all’8 giugno,

all’interno del Festival

fotografia europea)

dopo aver debuttato

al Jeu de Paume di Parigi

Per comprendere invece

Steichen promotore

della fotografia umanista

bisogna andare

(da marzo a dicembre)

a Clervaux, Lussemburgo,

dove il castello ospita

l’allestimento originale

della mostra collettiva

The Family of Man

Una visita virtuale

è possibile al sito

www. family-of-man.

public.lu

NEL VUOTOUna famiglia siciliana

fotografata da Vito Fiorenza

Le quattro foto pubblicate

in queste pagine erano appese

nel vuoto al centro della mostra

nell’allestimento originario

al MoMA

FOTOREPORTERUna famiglia

di contadini

giapponesi

fotografata

da Carl Mydans,

grande fotoreporter

di Life

Qui sopra,

una veduta

dell’innovativo

allestimento

originario

del 1955 al MoMA

di New York,

firmato

dall’architetto

Paul Rudolph

Repubblica Nazionale

lie logorate, l’eco di quelle asprezze è quasispento. Sul libro dei visitatori, commenti pienidi emozione ma un po’ poveri di contenuto.Molti copiano semplicemente le citazioni let-terarie che sono le uniche didascalie del per-corso; soprattutto quella di Anna Frank, «Con-tinuo a pensare che la gente sia buona nel fon-do del cuore». Del resto, chi sale quassù nonviene a vedere una mostra di fotografia: perchéin effetti non lo è. È una mostra per mezzo di fo-tografie, riduce il mediuma contenuto «che dàforma alle idee», e maltratta i grandi autori.Quando nel ‘53 Steichen e il suo collaboratoreWayne Miller lanciarono un appello ai foto-grafi di tutto il mondo, ricevettero in rispostauna valanga di oltre due milioni di immagini.La selezione, durata due anni, fu radicale: con-tarono la carica emozionale dell’immagine, lacoerenza al progetto; la firma illustre no (l’uni-co autore italiano, ad esempio, è un Vito Fio-renza che i nostri storici della fotografia sem-brano ignorare). Certo, ci sono Cartier-Bres-son, Capa, Lange, Brandt, Doisneau, Erwitt,ma non sempre con le loro foto memorabili;spuntano una Arbus tutt’altro che arbusiana,un irriconoscibile Frank, ma ci sono soprattut-to decine di foto anonime, d’agenzia, ritaglia-te dai rotocalchi. Non la singola immagine mala mostra in sé è il medium. Steichen ne com-missionò il design a un architetto di scuolaBauhaus, Paul Rudolph: grandi pannelli gal-leggianti nel vuoto che lasciano intravederedietro altre immagini, come nell’altare centra-le dove famiglie africane, italiane, americanein posa si sovrappongono e si confondono.

Più che spettatori ci si sente, come volevaSteichen, partecipanti a qualcosa. Un rito? Dicerto una narrazione, nel senso che alla paroladarebbe Lyotard: un’interpretazione finalisti-ca della vicenda umana. Barthes aveva ragio-ne, la Storia non c’è: tutte le utopie sono per de-finizione astoriche. Vediamo persone ridere,piangere, amare, soffrire, morire: ma non sap-piamo perché. Le immagini sconvolgenti deilager nazisti, allora fresche nella memoria,mancano, la Shoahè citata solo in due scatti delrastrellamento del Ghetto di Varsavia: un’irru-zione più cruda del “male assoluto” avrebbeprobabilmente corroso in modo insanabile latesi della fondamentale bontà umana. La mor-te in guerra c’è, ma eternizzata come la nasci-ta, come l’amore: il marinesenza vita ai piedi diuna collina birmana è un’icona epica, un Etto-re insepolto sotto le mura di Troia. E il fungoatomico che esplode in faccia al visitatore nel-la penultima sala, unica immagine a godere diuno spazio tutto suo (ma in Giappone fu ri-mossa), resta fuori dalla storia, è la visione mi-tica dell’Apocalisse che attende l’umanità senon riconoscerà la sua naturale vocazione fra-terna. Se la storia è assente, del resto, non c’èneppure la geografia: di ogni foto, un’etichettaci dice il nome dell’autore ma non il luogo; lamolteplicità apparente da cui Steichen inten-deva estrarre l’unità fondamentale della razzaumana dobbiamo dedurla dagli abiti, dai trat-ti somatici; insomma, lo volesse o no l’autore,da stereotipi di razza e di nazionalità. Gli afri-cani sono quasi sempre seminudi. I francesihanno il cappello floscio. E una delle pochissi-me fotografie prese in Italia è il ritratto di unsuonatore di mandolino.

Dunque, il vecchio profeta era un uomo delsuo tempo, le sue utopie erano sincere ma da-tate, e si prestarono ad essere politicamente in-dirizzate: vero, tutto vero. Anche l’Unesco,quattro anni fa, ha inserito quest’album di fa-miglia a dimensione planetaria nel Registrodella Memoria del Mondo (unica mostra a far-ne parte) in quanto «memoria di un’epoca in-tera», quasi a volerne storicizzare le pretese divalidità universale. Eppure, nell’ultima saladella mostra, tonda, ricavata nella torre ango-lare del castello, i ritratti di bambini che galleg-giano nell’aria, appesi a spirale su sottili aste,inseguendosi come un vortice di volti nel ven-to, non ispirano ragionamenti storico-cultu-rali: stringono il cuore. Due bimbi, nella famo-sa immagine di Eugene Smith che chiude l’e-sposizione, sembrano sbucare dal buio versola luce di una promessa felicità. Il ciclo della vi-ta torna sempre al suo inizio, questo suggerivaSteichen, che viveva nel mondo appena uscitoda uno spaventoso macello mondiale, e spera-va fosse l’ultimo. Noi invece, che viviamo nelmacello a bassa intensità della guerra perma-nente, in quei bambini vediamo possibili vitti-me di martiri kamikaze o di bombardamentiumanitari (eccola, la parola tanto cara a Stei-chen, trascinata nel sangue).

Cinquant’anni fa il progetto egemonicoamericano aveva bisogno della finzione pater-nalista di un’umanità omogenea; oggi, al con-trario, qualsiasi progetto di sopraffazione glo-bale ha bisogno di teorizzare grandi distinzio-ni tra le genti e le culture; espellere dal recintoumano intere nazioni o intere religioni è lacondizione per poterle bombardare senzascrupoli morali. Davanti a un caffè fumante,nella taverna del castello, cerco di convinceremonsieur Back che il suo eroe e compatriotaSteichen ha più ragione adesso che allora; cheoggi, molto più che mezzo secolo fa, è necessa-rio rinfacciare a chi ha il dito sul grilletto quel-la eccezionale banalità: che un uomo è un uo-mo in tutto il mondo.

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 13 APRILE 2008

SELEZIONEGruppo di famiglia

in un interno

americano

L’autrice

è Nina Leen, di Life

L’appello rivolto

nel 1953

da Steichen

ai fotografi

produsse

una valanga

di due milioni

di foto: ne furono

selezionate

cinquecentodue

COPIA ORIGINALEUna famiglia dello stato africano del Botswana, fotografata da Nat Farbman

La mostra “resuscitata” nel castello di Clervaux, a cura del Centre National de l’Audiovisuel

del Lussemburgo, è una delle cinque copie originali che girarono il mondo

del governo americano, il cui scopo era procla-mare in tutto il pianeta, ma soprattutto oltre-cortina, la superiorità dell’american way of li-fe. L’ideale della famiglia felice, più che l’obiet-tivo di una politica, era in quegli anni un’armadella guerra fredda. Quando la mostra sbarcòa Mosca, nel ‘59, affiancava un’expo di beni diconsumo made in Usa: fu davanti alle stufe e aifrigoriferi di Macy’s che Nixon puntò il dito alpetto di Krusciov gridandogli: «Voi mangiatecavoli, noi carne!». La Pravda subodorò l’of-fensiva consumerista e sparse sarcasmo sullamostra. Ma negli stessi giorni il rosso poeta Ev-tushenko s’entusiasmava perché «la musa del-la fotografia ha reso visibili i fili che legano i po-poli».

Edward Steichen era tutto tranne un impe-rialista e un maccartista: frequentò la lyricalleft newyorkese anteguerra, portava chiaro ilmarchio della sua cultura europea, pacifista evagamente socialista, la sua ambizione era,esplicitamente, fondare la coscienza transna-zionale di una nuova umanità su un solo, esile,tautologico dogma: «Ogni uomo è un uomo».Messaggio immediato. Le masse infatti rispo-sero più degli intellettuali: ma non sempre le ri-sposte furono quelle attese. A Beirut nel ‘58 fudistrutta da una sollevazione palestinese.Un’altra copia fu danneggiata da uno studen-te nigeriano infuriato contro la rappresenta-zione dei neri «come selvaggi primitivi». La fa-miglia dell’uomo non fu sempre fraterna da-vanti a The Family of Man.

Oggi, nella penombra del castello di Cler-vaux, tra pannelli che mostrano l’usura deltempo negli spigoli ammaccati, nelle didasca-

Repubblica Nazionale

la memoriaViaggi d’epoca

Il primo a stamparne una fu l’hotel Dunkerque di Bruxelles, nel 1873Ma il periodo di maggior successo fu quello tra le due guerre,nel Ventesimo secolo: migliaia di etichette da incollare sui bagagli,un po’ per souvenir, un po’ per esibizionismo,un po’ per pubblicità. Cadute ormai in disuso,saranno, tutte insieme, in mostra a Modena

44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 13 APRILE 2008

In cimaa un armadio di casa, visibi-le ma assolutamente remota, e si-stemata in modo da non poter es-sere tirata giù se non con grande fa-tica, giace da tempo immemorabi-le una valigia di pelle semirigida, di

forma simile a una borsa, chiusa in alto dauna cinghia che bisogna infilare dentropassanti di ottone e finalmente aggancia-re a un perno. Che sia di pelle si può solointuire perché le etichette dei grandi al-berghi degli anni Trenta la coprono quasiinteramente. Quand’ero ragazzo questamoda, che aveva conosciuto il massimodel furore tra le due guerre mondiali, instretto collegamento con l’età d’oro deiviaggi, non aveva più ragione di essere eda tempo veniva considerata provinciale.Ma il fascino che le etichette ancora tra-smettevano, soprattutto quelle esotiche,sulle persone afflitte dalla sindrome delviaggiare, era paragonabile solo alle cartegeografiche. O ad altri manifesti pubblici-tari, molto più grandi, che a Londra erano

sistemati accanto all’entrata delle agen-zie di viaggio e che raffiguravano le im-mense prue, disegnate in stile Novecen-to, dei piroscafi della P & O, Peninsula andOriental Lines, gli stessi che SomersetMaugham prendeva per andare in estre-mo oriente a rovistare tra i panni sporchicoloniali, per rendere più eccitanti i suoiromanzi. Chi non provava un brivido die-tro la nuca alla vista di quelle etichette,avrebbe fatto meglio a rimanere a casa agiocare a tressette con lo zio.

Naturalmente non ero mai stato inquei grandi alberghi, come molti di quel-li che giravano con bagagli simili. Avevotrovato queste etichette dopo lunghe ri-cerche nei mercati delle pulci di Parigi ePalermo, insieme ad altri pezzi da colle-zione come le carte in filigrana con cui av-volgevano le arance alla fine dell’Otto-cento, quando le dovevano spedire inAmerica. Il mio scopo non era quello di

farmi passare per quel viaggiatore che an-cora non ero e per quel frequentatore digrandi alberghi di lusso che non sono maistato. Avevo incollato quelle magnificheetichette come gli africani piantavano ichiodi nella testa di un feticcio, in modorituale e magico, sperando che portasse-ro fortuna e che i miei sogni di viaggi si rea-lizzassero.

Ma i veri viaggiatori non avevano maiamato queste forme di pubblicità chesfruttavano lo snobismo dei clienti. Viag-giando con una sola valigia, e menandovanto del modo spartano con cui affron-tavano tragitti di una lunghezza inverosi-mile, detestavano quel modo esibizioni-stico di presentarsi nella hall degli alber-ghi con un treno di bauli al seguito, tuttitappezzati da quadratini e triangoli mul-ticolori. A loro sembrava intollerabile latrasformazione dei viaggi in un’occasio-ne mondana, che vedeva nei grandi hotel

non un luogo di riposo o di passaggio maun centro di attività sfrenate, di rappre-sentanza, di scalata sociale e sesso, a vol-te riunite insieme — come si chiamava ilfilm della Garbo, Grand Hotel, «gente cheva gente che viene»? —. Ma in quegli an-ni, insieme al modo di viaggiare, molte al-tre cose erano cambiate rispetto ad unpassato in cui era sembrato che certe co-se non dovessero cambiare mai. E tuttoera cominciato o finito, dipendeva daipunti di vista, con la Grande guerra.

Gli inglesi, che si ritenevano gli unici ti-tolati a viaggiare per ragioni biologiche,erano entrati in guerra quasi per caso e ipiù riottosi erano stati convinti da un car-tellone pubblicitario con un tizio con ibaffoni che alzava un braccio e puntaval’indice contro di loro sopra la scritta «Iwant you». Credevano di combattere co-me avevano sempre combattuto, con lecannoniere che entravano in azione nel

momento opportuno mettendo in fugagli sprovveduti nemici. Poi, il primo luglio1916, poco più di centoventimila ragazzisaltarono fuori dalle loro trincee per an-dare all’attacco di quelle tedesche checredevano distrutte dal bombardamen-to. Quello che successe è stato espressomeglio di qualsiasi altro racconto dal ver-so di un famoso poeta inglese, che era sta-to anche lui in quell’inferno: «Si sentivasolo il rattattattà delle mitragliatrici». Allafine della giornata quarantamila soldatinon erano tornati indietro. Era dal tempodella grande peste nera nel 1300 che l’In-ghilterra non veniva devastata da una si-mile moria e lo shock nel paese, quandosi seppe la verità, fu immenso e duraturo.E totalmente negativo su una parte co-spicua del ceto politico, che giurerà a sestesso di non entrare mai più in guerra, aqualsiasi costo. Quel qualsiasi costo ven-ne chiamato appeasemente stava per di-

struggere i paesi dove ancora esisteva lalibertà. Ma, per quanto ammorbiditi dailussi dell’impero e traumatizzati dallagrande guerra, gli inglesi non potevanolasciare passare gli orrendi nazi. E final-mente ai Comuni il lugubre Chamberlainvenne zittito e da tutti i banchi si alzò so-lo un’invocazione: «Winston, parla perl’Inghilterra!».

Negli anni Venti i giovani avevano rea-gito in maniera diversa. Sentendo di es-sere stati ingannati, non erano più capa-ci di rimanere in patria a continuare co-me se nulla fosse. E per dimenticare di-ventarono edonisti, trasgressivi e anda-rono accentuando il lato eccentrico delloro carattere, che era una disposizionenazionale. Tutto questo, però, svolto al-l’estero. E la fuga assunse proporzioniimpressionanti. Almeno per le classi chese lo potevano permettere (la workingclass rimase al suo posto, dove era desti-

STEFANO MALATESTA

Il mondo a colori per nomadi snob

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45DOMENICA 13 APRILE 2008

nata dal suo stesso nome) senza averemete precise se non le stazioni dell’impe-ro e il Mediterraneo, con il suo richiamopagano e con le promesse di divertimen-to a buon prezzo. Una volta chiesero a Cy-ril Connolly per cosa valeva la pena di vi-vere e lui rispose: «Scrivere un libro, unacena al Savoy per sei e andare in giro nelMediterraneo con qualcuno che la tuacoscienza ti permette di amare». Una ri-sposta vagamente ipocrita per quanto ri-guarda l’ultima parte. Nel Mediterraneoera divertente andarci proprio con qual-cuno che la tua coscienza non ti permet-teva di amare.

Il cambio delle sterline era così favore-vole che rendeva tutto più facile. Comin-ciò quella che è stata definita l’età del jazz,interpretata da una generazione che, an-che se non era perduta, faceva in modo dasembrarlo. E il viaggio diventò l’oggetto diuna passione quasi mistica, da costringe-

re la massa degli stan-ziali, che nel passato non avevano avutonessuna difficoltà a dichiararsi tali, a rin-negare se stessi per apparire nomadi. Il fe-nomeno era stato anticipato dagli scritto-ri. Non uno di loro era rimasto dentro iconfini della madrepatria: T.H. Lawrenceera partito per Capri e lo ritroveremo piùtardi in Sardegna, in Sicilia, in Australia enel Messico; Graham Green batteva terri-tori suoi particolari che verranno più tar-di definiti greeniani, il Messico della guer-ra civile e dei sacerdoti perseguitati, l’Afri-ca occidentale e l’Estremo Oriente; Cri-stopher Isherwood viveva a Berlino, in-

sieme ad W.H. Auden, e lo veniva a trova-re Paul Bowles; Robert Byron frequentaval’Iran e l’Oxiana; Norman Douglas il Suddell’Italia; Patrick Leigh Fermor i Balcanie la Grecia; i fratelli Sitwell giravano perl’Andalusia alla ricerca del barocco; Ge-rald Brenan viveva nei pueblos della Al-pujarras; Malcom Lowry, l’autore di Sottoil vulcano non si muoveva da Cuernava-ca; e Lawrence Durrell era ancora ragazzoe viveva con la famiglia a Corfù.

Il Mediterraneo era anche un buon po-sto per una moda nuovissima e rivoluzio-naria: l’elioterapia, come veniva allorachiamato il desiderio di abbronzarsi. Fino

a pochi anni prima nessuno andava in va-canza e tantomeno prendeva il sole in lu-glio e agosto, mesi considerati altamenteperniciosi. La bella stagione partiva all’i-nizio della primavera e si chiudeva a metàgiugno per riaprirsi a settembre, quandoi vacanzieri andavano in collina a fare lacura dell’uva. Poi, poco prima del 1920,sulla Costa Azzurra arrivò un gruppo mi-sto di americani che vivevano a Parigi e difrancesi che i locali presero per una settadi adoratori del sole. Perché stavano tuttoil giorno sdraiati sui teli ad ungersi il cor-po di olio e, quando faceva troppo caldo,a tuffarsi in acqua. Le ragazze eranoemancipate, portavano i capelli corti allagarçonne e giocavano benissimo a tennise a golf, avevano corpi flessuosi e natural-mente erano abbronzate.

Un nuovo modello femminile si stavaimponendo e i pubblicitari ne presero at-to. Così nelle affiches, oltre ai camerierineri in giacca rossa con i labbroni e i ca-pelli crespi, e i cinesi gialli con il codino,comparvero per la prima volta giovanidonne che avevano il fisico di CatherineHepburn. In pochi anni quello che sem-brava un gesto di alcuni eccentrici, chenon avrebbe avuto alcun seguito, diventòun fenomeno di portata mondiale. L’E-gitto diventò una delle mete preferite eanche il deserto, fino ad allora considera-to «un abominio di desolazione», ricicla-to sotto l’aspetto di un’oasi e apprezzatodalla nuova estetica della wilderness, en-trò tra i temi più diffusi della pubblicità in-sieme con l’Estremo Oriente.

Qui il flusso dei turisti eleganti, che ave-vano viaggiato in comodissimi piroscafi,semisdraiati a chiacchierare sui ponti,ascoltando le molto spiritose canzoni diCole Porter (Night and Day inizia con ilrumore della pioggia sopra i bungalow diPago Pago, dove Porter si era fermato so-lo per un paio di notti), arrivato all’altez-za dell’India si divideva. I più spirituali,preoccupati o disgustati, non si capivabene, della cosiddetta decadenza del-l’Occidente, venivano dirottati versol’Himalaya, in alberghi che si chiamava-no Shangrilà. Il resto proseguiva versol’Estremo Oriente, inteso come Malesia,Thailandia, Cina, e ancora più giù verso imari del Sud. Sembrava quasi che gli eu-ropei oltre ad avere ricoperto le valigiecon queste etichette se le fossero applica-te sulla faccia, in modo da non sentire e danon vedere nulla. Sappiamo che, per for-tuna, fecero in tempo a togliersele.

Crepuscoli infuocati, mari scintillanti, sfingi, deserti, montagne in-cantate. Sono gli sfondi delle etichette degli alberghi, marchi viag-gianti, trademark ante litteram, brand appiccicati sulle valigie, figu-

rine coloratissime ritagliate in forma elittica per evitare che si lacerasserosui lati. Il giro del mondo in etichetta(dal 18 aprile al 13 luglio nel Museo del-la Figurina, corso Canal Grande 103, Modena; catalogo Artestampa curatoda Paola Basile e Thelma Gramolelli) racconta la storia di questo status sym-bol per clienti degli hotel dalla fine dell’Ottocento agli anni Sessanta del No-vecento.

È il Dunkerque, Bruxelles, a stampare la prima etichetta nel 1873 con ghi-rigori dai forti contrasti cromatici per decorare biglietti da visita, fatture, fo-gli di carta, timbri, stemmi, sigilli. Ci sono poi le etichette “classiche” con ildisegno dell’hotel su campo generalmente rosso; le “belt-labels” dalla cor-nice ovale a forma di cintura con la fibbia; le “araldiche” che ricalcano l’ar-chitettura dell’albergo e il suo marchio, l’insegna. In tutto sono quattromi-la, allineate in una vetrina lunga diciotto metri insieme a oggetti e libri d’e-poca. I simboli ricorrenti sono la chiave, il facchino, la valigia. Le facciatedegli hotel di solito sono notturne e illuminate, romantiche cartoline di ap-

prodi rassicuranti. Molte suggeriscono nostalgie: l’hotel egiziano San Ste-fano con cammello e tramonto rosso all’orizzonte; il Norfolk di Nairobi,Kenya, terrazza con teste di elefante e leone; il Beau Rivage di Ginevra, le ve-le ondeggiano sull’acqua piatta del lago; l’Ambassador di Gerusalemme,skyline di cupole, pinnacoli, mezze lune che spuntano dai minareti.

Con i “manifestini” degli anni Venti la palette dei colori diventa più ac-cesa, ampia, raffinata. Nei Trenta Mise en page, la rivista di Albert Tolmer,si ispira alla grafica del Bauhaus e il design viene subito ripreso dall’illu-stratore Mario Borgoni che infila nelle sue etichette il rosso carminio in-corniciato di nero, lo stile liberty dei suoi manifesti. Gaston-Louis Vuittonle chiama “affichettes” e Jacques Paschal le firma con un monogramma,JNP. Filippo Romoli inserisce nelle figurine le tendenze del futurismo e deldéco, disegna corpi allungati, acconciature alla garçonne. Fortunato De-pero dipinge il “logo” del Grande Albergo Trento: un lago, una barca a vela,lo stemma della provincia. «Mezzi di comunicazione sotto forma di estrat-ti — le ha definite il pubblicitario Harry Nitsch — nello spazio e nei limiti piùristretti raggiungevano lo stesso effetto di un grande cartellone o di un vo-luminoso feuilleton».

Figurine raccoltesopra una valigia

AMBRA SOMASCHINI

LE IMMAGINILe pagine sono illustrate

con riproduzioni di etichette di alberghi

tratte dal catalogo della mostra

Il giro del mondo in etichetta

che si aprirà il 18 aprile a Modena

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Repubblica Nazionale

Non c’erano camere a gas e nemmeno lavori forzati,ma si moriva lo stesso. Semplicemente di fame e di malattieToccò a decine di migliaia di internati sloveni e croati

Perché i campi fascisti ubbidivano agli stessi imperativi di quelli hitleriani:terra bruciata, pulizia etnica, spazio vitale alla razza vincitriceNuovi documenti e un libro abbattono per sempre il mito della “brava gente”

CULTURA*46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 13 APRILE 2008

Stessi corpi nudi, stessi occhivuoti, scheletri senza nati-che e pance gonfie cometamburi. Certo, non era Au-schwitz, non c’erano camerea gas, e nemmeno lavori for-

zati. Ma si crepava egualmente, comemosche. A fare il lavoro bastava la fame,il freddo, la malaria, le cimici, la scabbia,la dissenteria, il tifo petecchiale. Basta-vano le punizioni, le adunate, la paura diessere prelevati come ostaggi per le fuci-lazioni di rappresaglia. Dentro il filo spi-nato non c’erano ebrei, polacchi, ucrai-ni. C’erano sloveni e croati, ma la spor-cizia e il tanfo erano gli stessi. Sulle tor-rette di guardia stavamo noi, «italiani-brava-gente», non i tedeschi, ma l’im-perativo categorico era identico. Fareterra bruciata, annientare quegli uomi-ni-pidocchi, bonificare le terre del ne-mico, pulirle etnicamente, offrire spa-zio vitale alla razza egemone.

Non ci furono solo i campi di Hitler.Anche l’Italia ha avuto i suoi. Nel territo-rio nazionale, incluse le aree jugoslaveannesse nella primavera del 1941, i lagerfurono ben centosedici, e i più malfa-mati vennero destinati alla «razza sla-va». Fino all’8 settembre del ‘43 inghiot-tirono decine di migliaia di persone, ingran parte vecchi, donne e bambini, tal-volta neonati, dei quali morirono distenti quasi uno su tre. Dei croati — i piùnumerosi — abbiamo dati approssima-tivi, ma sappiamo che i soli sloveni furo-no ventiquattromila, dei quali settemilanon tornarono. Tanti, per una popolo diun milione e mezzo di abitanti. Cento-sedici furono i campi del Duce, ma soloquattro monumenti fuori-circuito ri-cordano la sofferenza dei deportati: aRoma, San Sepolcro, Barletta e Gonarsin Friuli. Per loro, nessun giorno della

memoria. Nessun accenno sui libri discuola.

Un tema tabù, dove s’è cercato per an-ni, con pochi mezzi e scarsa pubblicità.Le testimonianze, terribili, ci sono: lehanno raccolte studiosi come Costanti-no Di Sante, Spartaco Capogreco, ToneFerenc, Eric Gobetti, ma sono sempre ri-maste una cosa di nicchia, non sono maientrate nella coscienza nazionale. Oraaltre voci bucano la cortina del silenzio.Lettere di donne recluse, ritrovate negliarchivi della prefettura di Udine, dove hafunzionato l’ufficio-censura dell’eserci-to di Mussolini. Lettere mai inoltrate aldestinatario; invocazioni disperate dinonne, ragazze, madri, che spesso nonhanno commesso nulla e non sannoperché sono state internate. E poi i rac-conti delle ultime sopravvissute, che adistanza di sessantacinque anni hannoscelto di rompere la diga del dolore. Unmateriale terribile, raccolto da Alessan-dra Kersevan nel libro Lager Italiani, orain pubblicazione per conto della casaeditrice Nutrimenti. Un testo da leggere,se vogliamo fare i conti con noi stessi.

Marija Poje è di Stari Kot, paese com-pletamente distrutto dai nostri dopo ladeportazione degli abitanti. Nel feb-braio del ‘42 viene internata sull’isola diArbe (Rab) dove funziona il campo piùgrande della Dalmazia. Il motivo ufficia-le è: protezione dalle incursioni parti-giane. In realtà è una forma di brutaleoccupazione. Marija ha un bimbo di tre-dici mesi ed è anche incinta. Al campo,racconta, «non avevamo niente damangiare e i bambini piangevano terri-bilmente… ci hanno messo sotto tendemilitari… e anche lì era solo pianto e ge-mito di bambini». Poi il trasferimento aGonars, dove la fame comincia a ucci-

talità spaventosa, tisici, gente senza ma-ni, senza gambe, quasi ciechi. I medicidel campo protestano, chiedono più ci-bo e medicine, ma l’ordine dall’alto è «af-famare». Il 17 dicembre 1942, il generaleGastone Gambara, comandante del XICorpo d’armata, annota a mano su unfoglio che ci è giunto intatto: «Logico edopportuno che campo di concentra-mento non significhi campo di ingrassa-

PAOLO RUMIZ

LAGER ITALIAd’

mento. Individuo malato = individuoche sta tranquillo». Anche le medicinenon servono, fa notare il capo del campodi Gonars, colonnello Vicedomini. Ba-stano «fasce addominali di flanella»,consiglia agli infermieri, che vengonoaccusati di favoreggiamento al nemico.Crudeltà gratuite, per le quali nessunoha pagato, alla fine della guerra.

Francesca Turk, un’altra detenuta lacui lettera è stata bloccata dalla censura:«Caro fratello, non so se ci rivedremooppure se moriremo prima… periremodi freddo e di fame… viviamo nei pati-menti e nella paura. Ti scongiuro dimandarmi un po’ di pane secco, perchétemo per la mia vita e quella dei mieibambini… Ogni giorno muoiono dacinque a sei persone; periscono anche igiovani, come le pannocchie. Fa freddointenso, non abbiamo la stufa, non spe-ro più di rivedere il mio paese». PaolaRausel: «Se avessi saputo ciò che mi at-tendeva, avrei ucciso prima i bambini epoi me stessa, perché non è possibilesopportare ciò che sopportiamo ora.Muoiono specialmente gli uomini e ibambini… gli uomini cominciano agonfiarsi e a perdere la vista, poi muoio-no. Per fortuna che la mamma è morta».

Prima delle deportazioni c’erano i ra-strellamenti, i villaggi distrutti. Raccon-ta Slavko Malnar, deportato nel 1942 al-l’età di cinque anni dal suo villaggio delGorski Kotar, massiccio montuoso so-pra Fiume: «Il 27 luglio l’esercito fascistaincendiò tutto il nostro paese… Ci dis-sero che ci avrebbero protetti dai bandi-ti comunisti partigiani. Figuratevi qualeprotezione… hanno rubato il bestiamee tutti i beni mobili, e ci hanno cacciati inun campo dove in pochi mesi sono mor-te trentacinque persone solo del mio

I volenterosi carnefici del DuceUn generale annotaa mano: “Individuomalato = individuoche sta tranquillo”

dere. Inedia, freddo, assenza di medici-ne. Come cibo solo brodaglia e un pezzodi pane grande «come un’ostia».

Racconta Marija, oggi ottantenne: «Ame poi è morto questo bambino appenanato, mi è morto questo figlio della famee del freddo… Era magro, solo ossicini,era come un coniglietto. Due giorni diagonia prima di chiudere gli occhi. Eproprio quel giorno per la prima volta gliavevano dato… un po’ di latte freddo.Ha avuto il latte la prima volta quando èmorto. Poi l’hanno portato via ed ero co-sì malridotta che non ho potuto accom-pagnarlo nemmeno sulla porta della ba-racca. Sono rimasta là. E ancora adessoho questo desiderio spaventoso, il desi-derio di quella volta. Il ricordo dei giorniterribili in cui ho desiderato che moris-se prima di me… io non ho potuto an-dare là, non sapevo neanche dove fossesepolto».

Stanka è una slovena di origine romche oggi vive in Friuli. I suoi genitori conotto figli vennero internati ad Arbe e poia Gonars. La testimonianza è raccolta daAndrea Giuseppini, autore di un docu-mentario sulla deportazione degli zin-gari nei campi fascisti. «Ci hanno porta-to in carcere a Lubiana, poi ci hannoportato in questa isola… Rab, in Dalma-zia sarebbe… Tanta di quella fame…Non ieranobaracche, nelle tende e den-tro buttata paglia e lì si dormiva come lebestie. Ieramo in tanti, cinquemila, for-se anche di più. I bambini morivano difame. I piccoli neonati li nascondevamosotto la paglia perché prendevamo ilrancio su di loro… Nascondevano ibambini morti per prendere il mangia-re che dopo mangiavano quegli altri».

Bambini nudi e scalzi anche d’invernoche rovistano tra i rifiuti di cucina, mor-

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47DOMENICA 13 APRILE 2008

paese. Lo stesso è successo per gli altrivillaggi». Nel gennaio del ‘43 la CroceRossa segnala al ministero degli Esteriche nel campo di Renicci (Arezzo) i re-clusi ex jugoslavi versano «in condizionimiserevoli» e molti di loro «si sono ri-dotti a nutrirsi di ghiande». Talvolta — ipartigiani italiani lo sanno — i fascistierano peggio dei tedeschi.

Non era programmata solo la fame,ma anche le umiliazioni. Battista Bene-detti, radiotelegrafista nel campo nell’i-sola di Zlarin in Dalmazia, racconta cheper aspettare il rancio queste larve uma-ne erano obbligate a stare in piedi in filaper delle ore e, quando arrivava «la bro-daglia», la colonna «cominciava ad agi-tarsi» e allora piovevano bastonate deisorveglianti. «Ma la cosa più terrificanteera quando alcuni di questi malcapitati,accecati dalla paura di restare senzarancio… uscivano dalla fila e correvanoverso il cibo, e allora le bastonate non sicontavano più e i poveretti, non riu-scendo più ad alzarsi, venivano portativia».

I malati di dissenteria portavano ad-dosso gli stessi vestiti del momento del-la cattura, intrisi di feci, fino alla fine.Giacevano in un tanfo orrendo in barel-le fuori dalle infermerie, all’aperto inpieno inverno, e — racconta un testi-mone — i loro «occhi vitrei… sporgeva-no dalle orbite». Per seppellire i corpi, inalcuni campi in Dalmazia, noi italianiusavamo le grotte. Sì, proprio le foibe,dove a fine guerra sarebbero stati uccisiper rappresaglia migliaia dei nostri, maanche tanti croati, bosniaci e sloveni.«La foiba — racconta Battista Benedettinel suo libro di memorie — ingoiava imiseri resti di questi malcapitati che,fatti scivolare, di solito dalla parte dei

piedi, nel baratro, scomparivano; la cas-sa vuota veniva riportata dal gruppo de-gli accompagnatori, per essere utilizza-ta con altre vittime».

La gente che arrivava nei campi eranogià «relitti umani», denuncia il consoleitaliano a Mostar Renato Giardini nell’a-prile del ‘42. Sono i mesi in cui i tedeschipare sfondino in Russia e raggiungano i

giacimenti del Caspio, e questa speran-za moltiplica lo sforzo bellico nei Balca-ni, si trasforma in bestiali rastrellamen-ti. Giardini vede «mandrie di vecchi,donne e bambini, laceri, scalzi e affama-ti… erranti da una contrada all’altra…».Vede «bambini morti lungo la strada… ei loro corpi gettati dai genitori stessi neiburroni. I poveri contadini da una partesono vessati dai partigiani… dall’altragli italiani gli incendiano i villaggi, di-struggono le case, gli razziano il bestia-me, credendoli partigiani». E poi «interezone distrutte… la gente anche noncombattente ammazzata senza pietà…a volte anche le donne seguono la stessasorte… i campi resi deserti e squallidi…e tutto ciò serve solo a ingrossare le filedel nemico».

«Furia sanguinaria», «disumana fero-cia», «barbarie»: così — ricorda lo stu-dioso Livio Sirovich — il capo dello Sta-to ha definito il 10 febbraio il comporta-mento dei nostri vicini a proposito dellefoibe. Nello stesso discorso, i comporta-menti anti-slavi degli italiani, messi inatto fin dal 1920, sono descritti come«guerra fascista». Perché? Per l’enor-mità imparagonabile di Auschwitz? Perla nostra mancata Norimberga? Per ilmito del «bono italiano» che non muo-re? Per i depistaggi dei servizi segreti do-po il ‘45? Per Spartaco Capogreco la col-pa principale è della politica della me-moria iniziata dieci anni fa: «Una politi-ca del ricordo per decreto, dove non c’èmai la parola fascismo». Una strategiache alimenta certe memorie con leggi,fondi, ricerche, e ne dimentica altre. «Equesto è solo l’inizio. Nelle scuole nes-suno più sa cos’è il 25 aprile. Ora aspet-tiamo solo un decreto ministeriale chelo abolisca».

Falsa coscienza, revisionismo e furbizia inquinano la nostra memoria nazionale e ipotecano il nostro futu-ro. Da qualche anno è stato istituito il giorno del ricordo che celebra la tragedia delle foibe e dell’esodo deiprofughi istriani. I dolori di quella povera gente vanno commemorati ed è doveroso chiedere verità e giu-

stizia per le loro sofferenze. Ma una destra intrisa di umori e nostalgie fasciste — e non solo essa — strumenta-lizza quei dolori e quelle tragiche morti. Si assiste alla progressiva rimozione dei crimini commessi dai fascistiitaliani contro sloveni, croati, montenegrini, serbi, per non parlare di quelli perpetrati contro le popolazioni li-biche, etiopi, eritree, albanesi e greche.

Questa rimozione ha uno scopo evidente: assolvere il fascismo, costruire un patriottismo di maniera, per-vertire il rapporto fra carnefice e vittima. Non solo l’antisemitismo, le leggi razziali, le uccisioni degli antifasci-sti, ma anche le torture, gli stupri i saccheggi operati dai fascisti italiani con efferatezza talvolta simile a quellanazista sono documentatissimi. La Bbc nel suo documentario The Fascist Legacy (l’eredità fascista) ne parla eli mostra diffusamente. La Rai ne ha fatto curare l’edizione italiana dal regista Massimo Sani solo per tenerla“insabbiata” da anni nei suoi cassetti. I paesi che hanno sofferto a causa dei crimini fascisti hanno chiesto l’e-stradizione di centinaia di criminali di guerra italiani, i più tristemente noti dei quali si chiamano Roatta, Gra-ziani, Badoglio, ma non uno di questi carnefici è stato consegnato alla giustizia.

Non si possono onorare le proprie vittime con dignità e onestà rimuovendo la proprie responsabilità e cri-minalizzando la Resistenza che ha riportato l’Italia alla libertà e alla democrazia. Furbizia e ipocrisia sono unmicidiale cocktail che occlude gli orizzonti della credibilità, quindi quelli della prosperità nazionale, e di tuttele relazioni internazionali più fertili. L’Italia abbia il coraggio di prendere esempio dalla Germania che grazieal riconoscimento ininterrotto delle proprie enormi colpe è oggi una delle democrazie più prospere ed affida-bili del mondo.

Il coraggio che non abbiamoMONI OVADIA

LE IMMAGINIIn alto, da sinistra: internati ad Arbe;

interno di una baracca maschile

a Gonars; bambini ad Arbe. Qui accanto,

a sinistra, l’appunto del generale Gambara

sull’opportunità di affamare gli internati

e lo stralcio di una lettera censurata

Le foto sono contenute nel libro Lager italiani

IL LIBRO

Dopo l’aggressione nazifascista

alla Jugoslavia, fra il 1941 e il 1943,

il regime fascista e l’esercito

italiano allestirono un sistema

di campi di concentramento

dove morirono decine di migliaia

di jugoslavi. Una tragedia rimossa

dalla memoria nazionale

e ora ricostruita, attraverso nuovi

documenti, nel libro Lager italiani

(Nutrimenti, 320 pagine, 18 euro)

della storica Alessandra Kersevan

Il volume sarà in libreria il 18 aprile

Nella foto grande, tratta dal libro,

distribuzione del rancio ad Arbe

(Archivio del Muzej novejše

zgodovine Slovenije di Lubiana)

Repubblica Nazionale

la letturaDestini incrociati

48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 13 APRILE 2008

Il piemontese Giacomo Bove, classe 1852, uomo di maree cartografo, navigò fino all’Artico, raggiunse il Borneo,la Patagonia, il Congo. Trentacinquenne, mise fineai suoi giorni a Verona, dove il futuro creatore di Sandokanfu testimone del suo suicidio. Adesso un libraio antiquarioha ritrovato il primo quaderno del suo diario di viaggio...

Apre la borsa di pelle ed estrae ilmanoscritto. Si guarda attorno,lo posa sul tavolo. Allontana i bic-chieri ancora pieni di vino. «Untesoro ritrovato», sussurra. Ha gliocchi che brillano. Se c’è aria di

mare sulle colline del basso astigiano, lo si deveanche a storie come questa, a un manoscrittocon copertina rigida, trentun centimetri perventidue. Incisi sopra, compaiono una piccolaancora, un titolo e un nome. «Qui cominciano lesue imprese», sorride. Sfoglia le pagine comeonde. «Ogni paragrafo è una scoperta. L’inizio diquella che sarà una leggenda». A lungo dimenti-cata.

Lui è Alessandro Santero, libraio antiquario,trentamila volumi nel suo negozio in centro adAsti, due piani più un magazzino, fotografie,stampe, disegni, e una gran passione per i viaggie l’economia. La storia è quella di Giacomo Bove,esploratore, cartografo, uomo di mare nato inMonferrato, a Maranzana, trecento abitanti, ulti-mo affondo della provincia di Asti fra quelle diAlessandria e Cuneo. Un paese che è uno scoglio,con un castello in cima, e molto somiglia alla pruadi una nave. Solo vigneti intorno, e qualche bo-sco. Da qui Giacomo Bove, classe 1852, primo dicinque fratelli, figlio di produttori di vino, è parti-to e ha fatto quello che pochi anni più tardi Emi-lio Salgari ha immaginato e scritto, ha ricopiato sucarta. I due si sono anche incontrati, sotto un gel-so. Ma il primo era cadavere da qualche ora e il se-condo, giornalista, faceva il suo mestiere.

Il mestiere di Bove era l’avventura, la curiosità.Un giovane austero che non è riuscito a invec-chiare: viso scolpito, capelli biondi, occhi azzur-ri, barba curata, sguardo fiero. A Maranzana, lasua casa natale oggi ospita le poste, la farmacia eil municipio. Un tempo anche le scuole. Nel sot-totetto, da quattro anni hanno ricavato un picco-lo museo che lo ricorda. Una lapide al principio

delle scale avverte: «In questa casa Giacomo Bo-ve l’ardito esploratore della Vega mosse i primipassi che dovean guidarlo alla meta gloriosa delPolo coi segni d’Italia in pugno».

Il Polo è il Polo Nord, più esattamente il mareArtico. La Vega è la nave di Nordenskiöld. AdolfErik Nordenskiöld è un professore finlandese digeologia che esplora e naviga per gli svedesi. Nelluglio del 1878 prende il mare da Göteborg versonord. Impiega un anno, rimane prigioniero deighiacci per nove mesi, ma attraverso il mare di Ba-rents, lungo la terra dei Ciukchi, supera lo strettodi Bering e raggiunge l’oceano Pacifico: è il primoa trovare il passaggio di Nord-Est. E Giacomo Bo-ve, sottotenente di vascello, abile disegnatore,studioso delle correnti marine, c’era. Unico ita-liano. Imbarcato come idrografo.

Ritornato carico di onori, fama e medaglie, lapassione dei ghiacci non l’abbandona più. Pro-getta un’esplorazione tutta italiana delle regioniantartiche. Ma costa troppo. Non viene finanzia-to. L’Argentina, però, prende in considerazione lasua proposta e gli affida due campagne, 1881-1882 e 1883-1884, fra Alto Paranà, Patagonia eTerra del Fuoco. Raccoglie materiale di rilevanteinteresse botanico, zoologico ed etnografico.Tuttavia la sua vera meta rimane il Polo Sud, il so-gno dichiarato. E invece gli tocca il Congo. In que-gli anni a tutti gli stati europei interessa l’Africa eBove, inviato dal ministero degli Esteri, partecipaa una spedizione inglese di esplorazione del Con-go. Salpa il 2 dicembre 1885. Risale il fiume fino al-le cascate di Stanley. Fa quello che deve e quelloche può. Il 17 ottobre 1886 rientra in Italia con lamalaria.

È il suo ultimo viaggio. Ha bisogno di cure. Si di-mette dalla Marina militare. Diventa direttoredella società di navigazione La Veloce di Genova.Ci sono dissapori con la moglie, sposata cinqueanni prima. Non riesce a ritrovare la buona salu-te. Entra in depressione. Di ritorno da un viaggioin Austria, il 9 agosto 1887 a Verona si uccide. Uncontadino ritrova il cadavere. Arrivano i giornali-sti. Emilio Salgari è il primo. Ha davanti, smagritoe smunto, l’uomo che ha aperto il passaggio diNord-Est. Ma poco importa a lui, il sognatore diMompracem, dei tigrotti e di Sandokan: quelloche vede è l’esploratore del Borneo, di Sarawak eLabuan. Questo era Giacomo Bove per Salgari. Ilmanoscritto che Alessandro Santero sfoglia conammirazione lo testimonia.

La prima volta che vede il mare, Giacomo hadieci anni. Nel 1862 è in collegio a Sampierdare-na, Genova, dal nipote del parroco di Maranzana.Rimane impressionato dall’immensità dellamassa liquida e scura che non si ferma mai. Nonstare fermo è ciò che gli riesce meglio. Vuole viag-giare. Nel 1867 viene ammesso all’Accademia na-vale, perché la famiglia si impegna per tutta la du-rata degli studi a fornire il vino alla mensa ufficia-li. Nel 1872 si diploma e con il grado di guardia-marina ottiene il primo imbarco per andare lon-tano. La sua prima spedizione. A bordo della pi-rocorvetta Governolo. Con l’incarico dicartografo. Sotto il comando di Enrico Accinni,capitano di fregata di seconda classe. Meta, l’E-stremo Oriente. Scopo, occupare un’isola vicinoal Borneo per insediarvi una colonia penale, e in-tanto piantare la bandiera italiana, e poi chissà,

magari si può dare vita a una base commerciale,e anche a un insediamento civile, e al diavolo in-glesi e olandesi che non vedono di buon occhiol’impresa, da vantare comunque rimane il carat-tere scientifico della spedizione.

Sotto la piccola ancora in copertina il mano-scritto riporta: «Giornale Particolare — Parte I —Giacomo Bove». È la storia di quel viaggio. Un dia-rio di bordo e, insieme, una relazione politica, unresoconto scientifico, un romanzo, una raccoltadi digressioni storico-geografiche con fotografie,cartine, disegni a china e a matita. Si legge: «Unadelle più grandi considerazioni del marino èquella di saper ammirare la natura e godere qua-si direi fanciullescamente delle distrazioni cheessa offre». Narra i cinque mesi di mare da La Spe-zia alle Filippine, all’Isola di Sulu. Dieci anni or so-no Paolo Puddinu, docente di lingua e culturagiapponese all’Università di Sassari, ha pubbli-cato Un viaggiatore italiano in Giappone nel1873, ovvero la seconda parte del manoscritto diBove, dal mare di Sulu a Yokohama, ritrovata percaso nel 1994 in un mercatino di Londra. Dellaprima non se ne sapeva più nulla, fino a tre mesifa.

Ora si può partire dall’inizio, dal primo dicem-bre 1872, in quel di Genova, sotto la pioggia e unvento di libeccio. E raggiungere La Spezia, doveBove s’imbarca sul Governolo. E seguire la suascrittura ordinata e appuntita che racconta i pre-parativi e le attese. E finalmente, il 13 dicembre,levare l’ancora e prendere il mare dietro le sue pa-role. «Alle quattro e mezzo tutto essendo prontoper la partenza, lasciammo l’ancoraggio dellaSpezia, con l’intendimento forse di non rivederlaper molto tempo, ma dovevamo ancora toccarealtri porti d’Italia per cui non ci fece nessun effet-to abbandonare la Spezia».

Dopo Napoli, Messina, dove il 21 dicembre gliufficiali vanno a vedere Il Rigolettoe Bove appun-ta che «il pubblico come sempre avviene era divi-so in due partiti, l’uno applaudiva e l’altro fischia-va, cosicché ne nacque una fermentazione, un

subbuglio». Lasciano la città all’una e mezzo dinotte per l’isola di Candia, l’attuale Creta. E poiPorto Said, il canale di Suez aperto da pochi anni,il mar Rosso, Aden, le annotazioni sui miraggi interra biblica e sui pellegrini diretti alla Mecca. Bo-ve ha vent’anni, buone letture alle spalle e moltavoglia di osservare e capire. Scrive: «Per il viaggia-tore terrestre il cambiamento d’aspetto dei luo-ghi non si presenta così sensibile come per i viag-giatori di mare. In pochi giorni quale diversità diclima, quali diversità di costumi. Il Governolo sol-cava velocemente le acque del Golfo di Aden edavvicinavasi alla costa d’Arabia di cui sentii rac-contare tante meraviglie».

Racconta la navigazione da Aden a Point deGalles, l’isola di Minikoi, Ceylon e la Malesiaoccidentale, l’isola di Penang e GeorgeTown, lo stretto di Malacca e Singapore, ilBorneo, Sarawak, il suo raja bianco e la suacorte, Charles Brook discendente di sir Ja-mes, l’isola di Labuan, dove approdano il 29marzo 1873. Sono dense pagine di Salgariche Giacomo anticipa. Rievoca l’insurrezio-ne cinese del 1857 a Sarawak. Narra la salitaavventurosa del Kini Balu. Annota la fuga diun marinaio, la morte di un altro, la minacciadi essere attaccati. Riporta la storia di Wan-poo, il più ricco commerciante cinese di Sin-gapore caduto in disgrazia. E poi l’incontrocon padre Cuarteron, corsaro, commerciante,poi fervente redentore di schiavi, infine mis-sionario e primo prefetto apostolico in Borneo.E ancora le spedizioni «armati di fucili e revol-ver» fra monti, villaggi, torrenti del Borneo. E co-me si sia perso il commendator Felice Giorda-no, amico di Quintino Sella, fondatore del Cai, ilClub alpino italiano, il primo a raggiungere lavetta del Cervino dal versante italiano nel 1866:passava nel Borneo per caso, si perde, ma vienefortunosamente ritrovato. E poi la conoscenzadi due giovani torinesi, così scrive, Leotardi eEngenfreld, due turisti «che visitata l’India pro-seguivano il loro viaggio intorno al globo. La vi-sita di questi due viaggiatori riuscì a tutti som-mamente gradita perché italiani e perché ve-demmo col fatto come la dilettevole ed utilescuola dei viaggi non sia più una prerogativa deisoli inglesi».

Il 9 maggio 1873 nell’isola di Sulu, oltre la Baiadi Malludu, Filippine, dopo centocinquanta gior-ni di viaggio e trecentosessantacinque pagine, fi-nisce la prima parte del Giornale particolare diGiacomo Bove. Si chiude con una annotazionesui «Suliani, che tutti chiamano col nome di grancanaglia, e non so se questo epiteto gli convenga».Chiosa: «Allorché sono battuti si distruggono daloro stessi, cioè cominciano a uccidere i prigio-nieri, quindi i figli e la moglie, di poi uccidono sestessi». Dopo sarà il Giappone, Yokohama, e piùtardi il mar Glaciale Artico, il passaggio a Nord-Est, la Patagonia, la Terra del Fuoco, il sogno delPolo Sud, il Congo, la malaria, il suicidio a trenta-cinque anni. Lì, sotto un gelso, fuori Verona, sipresenta il giovane Salgari a prendere il testimo-ne dell’avventura. Quello che Giacomo ha corsoper mare, lui lo continua sulla pagina.

Il nuovo romanzo di Gian Luca Favetto,La vita non fa rumore,

uscirà per Mondadori il 22 aprile

GIAN LUCA FAVETTO

L’esploratore che ispirò Salgari

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 49DOMENICA 13 APRILE 2008

LE CELEBRAZIONI

Domenica prossima 20 aprile si celebra a Maranzana (Asti), paese natale

dell’esploratore, il quarto Giacomo Bove Day: una giornata a base

di buon vino, relazioni, conferenze, filmati e visite guidate

Si comincerà con gli interventi di Marisa Teresa Scarrone, presidente

dell’associazione Giacomo Bove & Maranzana, e di Franca Bove,

pronipote del capitano. Non mancherà, in corteo con il Corpo bandistico

acquese, un omaggio alla casa e alla tomba di Bove

Le immagini che illustrano queste pagine sono tratte dalla prima parte

del Giornale particolare di Giacomo Bove e si pubblicano per gentile

concessione di Alessandro Santero. La fotografia della nave Vega

nella pagina di sinistra e i due ritratti di Giacomo Bove in questa pagina

(a sinistra al Polo, a destra, in piedi, in Giappone) si pubblicano per gentile

concessione del sito dell’associazione Giacomo Bove & Maranzana,

www.giacomobove.it

FOGLI A QUADRETTIIn questa pagina, fogli inediti del Giornale particolare

di Giacomo Bove e immagini che l’esploratore incollava

accanto al testo. In alto nella pagina di sinistra,

un suo ritratto (foto Mary Evans/Alinari)

Repubblica Nazionale

Abbagliante e ossessivo, l’anti-maestro del “Pasto Nudo”ha ispirato e si è ispirato ai grandi, da Dylan a Jagger,da Patty Smith a Laurie Anderson. Ora un libro,

“Rock’n’roll virus”, fa conoscere per la prima volta in Italia gli incontrie i colloqui dello scrittorecon gli eroi del mondo giovanile e della culturaalternativa degli anni Settanta. Ne riportiamo alcuni brani

SPETTACOLI

50 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 13 APRILE 2008

Abbagliante, cupo, osses-sivo, narratore di univer-si deflagrati e mutazionigenetiche. Come potevanon affascinare il latooscuro del rock? William

S. Burroughs, scomparso nel 1997 al-l’età di ottantatré anni, è stato un pa-drino eccellente, un anti-maestro sevogliamo, ma proprio per questo anco-ra più persuasivo e ammaliante. Sta difatto che nessun altro scrittore è entra-to così prepotentemente nell’immagi-nario del rock.

A lui si deve l’involontario conio deltermine Heavy metal, o meglio è stato ilprimo a usarlo in un suo libro, ancorprima che ci fosse una musica degna diassumerne il nome. Ci sono gruppi co-me i Soft Machine che hanno scelto ilnome pescandolo dal titolo di un suocelebre romanzo, ci sono stati adepti edestimatori, Dylan che ne ha riconosciu-to l’influenza, Patti Smith che ne parlacome fosse un guru dell’anti-materialetteraria, Mick Jagger che andavaspesso a trovarlo e lo ha citato in un suotesto, Laurie Anderson che ha scelto lasua affermazione «language is a virus»e ne ha fatto un disco, uno spettacolo,una performance multimediale. Lastessa Anderson lo ha coinvolto neisuoi dischi, l’ha fatto declamare su lus-sureggianti basi musicali, e Burroughsha perfino inciso un disco, ovviamentedelirante, in compagnia di Kurt Co-bain. Frank Zappa, ritenuto l’artistarock a lui più vicino da un punto di vistaformale (stessa lucida, cinica genialità,stesso gusto per le apocalissi fanta-scientifiche e per i mostri della condi-zione umana), gli ha reso omaggio leg-gendo un brano de Il pasto nudo, il ro-manzo culto per eccellenza, a una diquelle convention che organizzavanoin suo onore e dove sciamavano artistidi ogni provenienza.

Ce n’è abbastanza per intravederepiù che una generica affinità. Nei suoiromanzi, senza alcuna intenzione deli-berata, scorre il sangue acido e corrosi-vo del rock, si percepisce l’origine dellasovrapposizione di immagini e fram-menti visivi che tante volte leggiamonei testi dei brani rock. Burroughs delresto di musica ha parlato spesso, haaddirittura compilato per qualchetempo una rubrica su Crawdaddy, in-contrava artisti rock, a volte perfino liintervistava, e a questa parte della suainafferrabile, elusiva carriera è dedica-to Rock’n’roll virus(Coniglio editore, 14euro, in uscita il 21 aprile), un libro cu-rato da Matteo Boscarol e tradotto daAlessandro G. De Mitri, che finalmenteraccoglie e traduce per la prima volta inItalia alcuni degli incontri più significa-tivi dello scrittore. Contiene conversa-zioni con David Bowie, Patti Smith,Blondie e i Devo, più una lunga famosaintervista che Robert Palmer, un gior-nalista di Rolling Stone, realizzò a Lon-dra nel 1972 e che contribuì non pocoalla fama di Burroughs presso il mondogiovanile e la cultura rock alternativa.

Con Palmer parla di suoni, anzi di ul-trasuoni da poter sperimentare comeforma di comunicazione estrema, de-scrive la tecnica del cut-up, del mon-taggio destrutturante col quale hascritto molti dei suoi libri, sviluppa isuoi temi ricorrenti: il condizionamen-to a cui è sottoposta la razza umana, le

Il guru dei cantanti ribelli

BurroughsintervistailRock

GINO CASTALDO

forme di controllo, la possibilità di usa-re il linguaggio come arma («È questio-ne di raggiungere un grado di precisio-ne sufficiente», dice nell’intervista, «Sesapessi veramente scrivere, potrei rea-lizzare qualcosa che uccidesse tuttiquelli che la leggano. Lo stesso vale perla musica e per qualsiasi tipo di effettodesiderato che si possa produrre svi-luppando un sufficiente controllo sul-le proprie conoscenze o su una tecnicaspecifica»). Per molti versi è affascina-to a sua volta dal rock, non tanto dagliaspetti formali, che gli interessanomolto poco, quanto dal fenomeno insé, intuendone le potenzialità eversive.

È ovvio che la percezione dello scrit-

tore è favorita dal periodo in cui si svol-gono queste conversazioni, anni in cuisembrava davvero che il mercato aves-se un controllo relativo sui contenutimusicali e che la possibilità di autenti-ci cortocircuiti mediatici fosse semprea portata di mano. A Bowie (conversa-zione che si è svolta nel 1974, anchequesta pubblicata su Rolling Stone)Burroughs chiede con sincera curiositàcome funzioni il suo lavoro, se pianifi-ca o meno tutta la sua attività, che gra-do di controllo poteva esercitare sulsuo prodotto artistico. Nella fattispecieera molto attratto dal disco che Bowieaveva da poco realizzato, ovvero ZiggyStardust and the spiders from Mars, lecui tematiche apocalittiche e la visionedi una salvezza che arriva dallo spaziosiderale sono palesemente vicine allasua poetica. Parlano di Andy Wahrol, diEliot, dell’America. Bowie del resto ènel suo periodo più creativo, è un gio-vane artista con una spregiudicata vi-sione del suo lavoro.

Nel dialogo con Patti Smith (1979) sirespira l’intensità dell’ambiente arti-stico di New York in quegli anni, la vi-sione della parola e della poesia comeatti supremi di intervento nel reale.Con Debbie Harry e Chris Stein deiBlondie (conversazione del 1980)emergono frivolezze post-moderne.Con i Devo scardina le certezze del pro-gresso lineare, approfondisce i temidella de-evolution cari al gruppo,chiacchiera con loro a un livello di pie-na e totale creatività. Come se in partequella che stanno svolgendo fosse unavera e propria performance. Sembra divederlo, Burroughs, meticoloso, folgo-rante, freddo come il ghiaccio e peren-nemente avvolto da una coltre visiona-ria, un persecutore accanito di veritàche alla maggior parte delle normalipersone sfuggono completamente.Possiamo concludere che la sua mate-ria artistica è per molti aspetti la stessadel rock, ma ovviamente solo a patto diriferirci al rock che ha sognato di scar-dinare il mondo con la chiave del lin-guaggio.

Fu lui in un suo testoa coniare il termine“Heavy Metal”,prima ancorache ci fossero notedegne di questo nome

Conversazione con David Bowie.Londra, 1974. Pubblicata su“Rolling Stone”.

W. B. Tu pianifichi personalmentetutte le tue attività?

D. B. Sì, devo assumere il controllototale di persona, non posso permette-re che altri prendano l’iniziativa. Nonvoglio che altre persone si intrometta-no con il loro punto di vista su quelloche sto cercando di fare. Non mi piaceleggere quello che la gente scrive di me.Preferisco leggere quello che scrivonoi ragazzi perché loro non lo fanno perlavoro. Le persone si rivolgono a meper comprendere lo spirito degli anniSettanta. I critici non ce la fanno a ca-pire, hanno un approccio troppo intel-lettuale. Non hanno confidenza collinguaggio della strada. [...] Tu cosapensi dell’immagine che la gente si fadi te?

W. B. Cercano di metterti un’etichet-ta. Si aspettano di vedere qualcuno checorrisponda all’immagine che si sonofatti di te e, se non vedono quello chevogliono, allora si agitano. Scrivere si-gnifica rendersi conto di quanto vicinosi possa arrivare a dar vita a qualcosa direale. È questo il fine di tutte le arti. [...]Penso che la cosa più importante almondo sia che gli artisti prendano eguidino questo pianeta, perché sono isoli che possano far succedere qualco-sa di importante. Per quale motivo do-vremmo permettere che questi politicidel cazzo, sempre sulle pagine dei gior-nali, ci sottraggano il controllo?

D. B. Io sono uno che cambia spessoopinione, non sono molto coerentecon quello che dico. Sono un terribilebugiardo.

W. B. Anch’io.D. B. Non so esattamente se sia io a

essere incostante o se dipenda dal fat-to che menta spesso. Non è esatto direche sono un bugiardo; è che cambiocontinuamente modo di pensare. Lagente mi rinfaccia spesso vecchie af-fermazioni che ho fatto e io rispondoche non intendevo dire niente di serio.Non è possibile restare sulle stesse po-sizioni per tutta la vita.

Sono un bugiardoma niente di serio

David Bowie

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 51DOMENICA 13 APRILE 2008

Conversazione con Jerry Casale e MarkMothersbaugh dei Devo. Pubblicatasu “Trouser Press” nel 1982.

W. B. Un fattore che mi ha reso molto ot-timista negli ultimi trent’anni è la rivolu-zione culturale in atto. Una notevole pres-sione per decriminalizzare l’uso di ma-rijuana viene da membri del Congresso egiudici i cui figli rischiano di essere beccatidalla polizia. Uno dei fattori determinanti èstata la musica pop. È ormai diffusa dap-pertutto, ha oltrepassato la cortina di ferroe si è diffusa in Oriente, introducendo que-sti cambiamenti.

J. C. Noi Devo abbiamo scelto il rock co-me mezzo per diffondere il nostro messag-gio, è il genere più rivoltante che esista. È ec-citante perché è schifoso, nauseante, ep-

pure è solido.W. B. Aspetta un momento. Non l’a-

vete scelto perché vi piace la musica?M. M. Non è così.

W. B. Non avete un’inclinazioneper la musica? La ragione per cui ioscrivo è che ho sempre avutoun’inclinazione naturale per leparole.

M. M. Sai, la strumentazioneera poco costosa. Non avremmomai potuto realizzare film.

J. C. A un primo istintivo livellonon ci sono dubbi sulla questio-

ne: lo fai perché sei capace di farlo.Ma quando ci aggiungi la consape-

volezza, l’uso cosciente delle tue ca-pacità innate ecco che diventa «lo fac-

cio perché lo odio», perché ti fa schifoquello che ne viene fuori. La scena è così

complicata e volgare, è affollata dai peggio-ri pseudo-artisti, ci scorre un enorme flus-so di bigliettoni, ha una diffusione totalepresso il pubblico di massa. Hai a che farecon l’innovazione nel campo dell’elettro-nica, con la tv, il teatro, il ballo, con l’imme-diatezza dell’esibirsi in senso stretto, ci so-no un mucchio di sfumature. Le limitazio-ni stanno in ciò che vuoi metterci dentro. Èpossibile entrare in questo spazio e distor-cerlo, farci quello che vuoi. Il successo o ilfallimento dipenderanno in larga partedalla tua mancanza di fantasia sulla lungadistanza.

(Colloqui raccoltida William Burroughs)

Facciamo musicaperché la odiamo

Devo

Una cena con i Blondie Debbie Harris e ChrisStein. Pubblicata nel 1980 su “New MusicNews”

C. S. New York? Più viaggio meno m’interessa vi-vere da altre parti. Tu abiti nei paraggi della casa

sulla Bowery dove stavamo noi una volta.D. H. Abitavamo in una casa infestata dagli

spiriti.W. B. Che tipo di spiriti?D. H. Era sopra un negozio di liquori. Vi-vevamo in una ex-fabbrica di bamboleche sfruttava il lavoro minorile.C. S. Quando ci siamo trasferiti in quelposto tutto sembrava impazzito. Coseche volavano in giro tutto il tempo.D. H. Fuochi...W. B. Lo avevate ristrutturato?C. S. No, era in pessime condizioni;

però avevo trovato dei vecchi oggetti ri-salenti agli anni Quaranta, vecchie plac-

che.D. H. C’erano buchi di proiettili alle fine-

stre, risalenti al periodo in cui la mafia con-trollava il posto.

W. B. Oh, e quali erano i fenomeni spiritici che simanifestavano? Raccontatemi tutto.

D. H. C’erano un’entrata rialzata rispetto allastrada, una scala lunga, stretta e completamentebuia e in cima alla scala un muro liscio con una por-ta. Chris aveva deciso di dipingere il muro di neroperché pensava che sarebbe stato carino: poi si èsentito un colpo forte e ha visto un ragazzino.

C. S. Un’immagine di sfuggita. Più che vederlo,l’ho percepito. Era come una presenza...

W. B. Sei riuscito a farti un’idea dell’età del bam-bino?

C. S. Otto, nove anni.W. B. Nei paraggi non c’era nessuno di quell’età

mentre stava succedendo il tutto?C. S. No, non c’erano ragazzini in giro.W. B. Perché, forse lo sapete, i poltergeistsi mani-

festano spesso sotto le sembianze di fanciulli.D. H. Il nostro bassista a quei tempi era ancora

adolescente, aveva continuamente esaurimentinervosi.

W. B. Sì, certo, certo.C. S. Ma Gary è rimasto quasi fulminato.W. B. Wow! Sembra proprio un’autentica storia

di poltergeist.C. S. Sono entrato in camera e lui stava lì, aggrap-

pato alla lampada, faceva «NNNNNNN»: gliel’hofatta cadere di mano con un colpo. Era in piedi, coni vestiti bruciacchiati; è rimasto sotto shock per ore.

D. H. Sì, gli ci sono voluti un paio di giorni per ri-prendere il controllo.

I nostri fantasmisulla Bowery

Blondie

FO

TO

EY

ED

EA

Repubblica Nazionale

m in ef a n n oun piatto-culto, ancoraattualissimo».Niente male, per unassemblaggio di giovaniverdure: però trattate, curate epreparate ognuna come fosse l’unica, in unafesta per occhi, naso e palato.

Dalla Francia all’Italia, i cuochi che hanno più acuore la purezza dei gusti in questo periodo glorifica-no il concetto della “cucina di mercato”, aggiornan-do quasi quotidianamente il menù. Infatti, le primi-zie detestano essere trascurate: lasciate in disparteavvizziscono, in frigorifero smarriscono i profumipiù delicati, strapazzate da cotture sbagliate diventa-no verdure tout court, smettendo di essere carrozzepreziose per ridursi a zucche.

Se non avete pratica sufficiente, regalatevi unweekend propedeutico, scegliendo la festa della Sen-sa a Venezia (4 maggio) dove trionferanno risi & bisi ecastraure, partecipando a uno dei “Percorsi dei sen-tieri delle erbe officinali” organizzati dall’ufficio turi-stico del Canton Ticino, oppure andando in gita aColle Calcioni (in Molise) dove sta prendendo vitauno dei più importanti centri italiani di sperimenta-zione sull’agricoltura biodinamica. I più avvertiti, in-vece, possono iscriversi a “Il Piatto Verde”, concorsotra cuochi grandi e piccini di tutta Europa in pro-gramma la prossima settimana a Riolo Terme, Ap-pennino ravennate, zona benedetta per le erbe spon-tanee. Vincerà la ricetta che più avrà dato splendorea luppolo, tiglio, primula, lavanda, menta, camomil-la, passiflora edule, maggiorana, melissa, papavero,levistico, valeriana rossa, vitalba, assenzio, noce mo-scata. Vietato usare verdura surgelata.

52 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 13 APRILE 2008

i saporiDelizie di stagione

Le primissime fave, le insalatedebuttanti, i precoci baccelli,le erbe odorose arrivanosulle nostre tavole con tuttoil loro carico di profumi,sali e vitamineUn’occasioneper dimenticarei troppi prodottidi serrache consumiamoe riscoprire i germoglinati senza l’aiutodella chimica

«Sono contento che sono arrivatouno», diceva negli anni Sessantail ciclista Vito Taccone, felice esgrammaticato alla fine di unacorsa vittoriosa. Le primizie so-no così, di un bel verde contento:

prime ad affacciarsi in campi e orti dopo l’inverno,prime a maturare al tepore della primavera che avan-za, prime a finire sugli scaffali e da lì sulle nostre tavo-le.

Oggi quasi non ce ne accorgiamo più, ma c’è statoun tempo in cui la parola “primizie” battezzava i ne-gozi dedicati alla ricerca e all’offerta di queste delica-te promesse di bontà. Ne sopravvivono pochi, obbli-gati ad anticipare in modo sempre più forzato gli ar-rivi dell’ortofrutta che verrà. Del resto, come faccia-mo a riconoscere le primizie, se abbiamo scordatonon i mesi, ma perfino le stagioni di maturazione deiprodotti agricoli?

È il concetto stesso di primizia a essere stato stra-volto. Perché la parola in origine non prevedeva truc-chi, né scorciatoie. Si sbaccellavano le primissime fa-ve, si raccoglievano le tenerissime insalatine “di pri-mo taglio”, si rubavano i boccioli alle piante appenarinverdite grazie alla vitalità energetica della prima-vera. Negli anni, abbiamo scoperto che la maturazio-ne si può indurre e accelerare, nel caldo delle serre,selezionando varietà sempre più precoci e dosandococktail di chimica. Così ci siamo giocati il godimen-to delle prime fragole, delle aromatiche minestred’erbette depurative, dei germogli carichi di oligoele-menti, antiossidanti, vitamine.

Eppure, certe primizie resistono. Chi ha mantenu-to (o riconquistato) un qualche rapporto con la cam-pagna virtuosa custodisce gelosamente il piacere se-greto di guardare, annusare, assaporare il novellamedell’orto, evitandogli l’umiliazione di preparazioniirrispettose e banali.

Michel Bras, straordinario chef francese che damolti anni ha appoggiato la sua bianca astronave cu-linaria sull’altipiano dell’Aubrac — terra di coltelli eformaggi — è diventato famoso in tutto il mondo perun piatto di primizie, il “Gargouillou de jeunes legu-mes”. A un quarto di secolo dalla sua creazione, il to-rinese fotografo-gourmet Bob Noto continua a im-mortalarlo con emozione: «La brillantezza dei colori,la varietà delle croccantezze, i sapori distinti e finissi-

Teneree verdiper battereil grandefreddo

PiselliPiccoli tesori botanici

(vitamine A, B1, C, E,

e poi glucidi, fibre, caroteni,

acido folico, fosforo,

potassio, ferro), hanno

poche calorie e grande

potere saziante. Perfetti

con i cereali che integrano

la parte proteica

MisticanzaNell’insalata di mescolanza,

trionfo dell’orto primaverile,

si assemblano lattuga,

cerfoglio, rucola, valeriana,

indivia, cicoria, pimpinella,

puntarelle, finocchietto

erba di San Pietro, fiori eduli

Il succo di limone spremuto

aiuta a fissare le vitamine

LuppoloI germogli della piantina

amaricante della birra

– detti anche bruscandoli,

ourtis, asparagi selvatici –

si raccolgono nei boschi

Sbollentati e raffreddati

in acqua e ghiaccio

si usano in sughi, tortini,

o spadellati con i gamberi

CrescioneFa storcere il naso, la pianta

fortemente odorosa,

piccante e afrodisiaca,

amica dell’acqua

Si utilizzano foglie e fiori

Perché non perda di qualità

va utilizzato fresco

e a crudo. Aromatizzante

di pesci, salse, minestre

Erba cipollinaL’esile pianta che sconfigge

gli incantesimi degli gnomi

della Foresta Nera

è un appetizzante. Ha foglie

profumate che si sminuzzano

per caratterizzare maionese

e torte salate. Nel soffritto

sostituisce la cipolla

alleggerendo il tutto

LICIA GRANELLO

Primizie

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 53DOMENICA 13 APRILE 2008

itinerariLa chef JudithBaumanngestisce col maritoJean-Bernard Faselil ristorante

“Pinte des Mossettes”nella verdissimaCerniat, cantonedi FriburgoOdori e saporidei pascoli svizzerientrano nei piattigrazie al sapiente usodelle erbe spontanee

La più vasta delle isole

della laguna nord

di Venezia è una lunga

striscia – 4 chilometri

per 900 metri –

interamente dedicata

all’agricoltura

Tra le colture spicca

quella del carciofo

violetto e dei suoi speciali boccioli protetti

da un presidio Slow Food

DOVE DORMIREIL LATO AZZURRO (con cucina)

Via Forti 13

Tel. 041-5230642

Camera doppia da 80 euro colazione inclusa

DOVE MANGIARECA’ VIGNOTTO

Via Forti 71

Tel. 041-2444000

Senza chiusura, menù da 30 euro

DOVE COMPRAREVERDURE FINOTELLO

Via Boaria Vecia 6

Tel. 041-5282997

Sant’Erasmo (Ve)A metà tra la piana

alluvionale del golfo

di Salerno e il Parco

dei Monti Picentini

è uno dei luoghi

del Giffoni Film

Festival. Terreno

di coltivazioni

boschive

(in particolare castagne e nocciole) e orticole

semplificate nella tradizionale pasta e piselli

DOVE DORMIREMASSERIA SPARANO

Contrada Serroni, località Macchia

Tel. 089-981260

Camera doppia da 75 euro colazione inclusa

DOVE MANGIAREIL PAPAVERO

Corso Garibaldi 112, Eboli

Tel. 0828-330689

Chiuso domenica sera e lunedì, menù da 30 euro

DOVE COMPRAREAGRITURISMO MONTEROVO (con cucina)

Via Pazzulli 4

Tel. 089-981905

Montecorvino Rovella (Sa)Appoggiata a terrazzo

sulla valle del Tevere

vanta una struttura

urbanistica a spirale

che culmina

in un castello

duecentesco

Intorno la Riserva

Naturale Regionale

Tevere-Farfa. Il primo maggio qui si celebra il piatto

augurale fave & pecorino

DOVE DORMIREECOTURISMO TEVERE FARFA (con cucina)

Via della Vecchia Fornace

Tel. 0765-331757

Camera doppia da 60 euro

DOVE MANGIAREIL CASALE DEL FARFA

Via Ternana 53

Tel. 0765-322047

Chiuso martedì, menù da 25 euro

DOVE COMPRAREBIO COOPERATIVA NAUTIA

Via Tiberina Km 33.700

Tel. 0765-332731

Nazzano (Rm)

La conoscenza delle erbe spontanee, che a primavera spuntano numerose e rallegrano la tavola, è sempre sta-ta un prezioso patrimonio della cultura contadina. I testi accademici di agricoltura e di botanica difficilmentesi dilungano su questo aspetto “non ufficiale” della storia dell’alimentazione, ma capita ogni tanto che an-

che gli intellettuali riconoscano l’importanza di questi saperi alternativi. Lo fa, per esempio, il botanico marchi-giano Costanzo Felici, allievo di Ulisse Aldrovandi all’Università di Bologna, in una lunga lettera indirizzata al mae-

stro (in realtà un vero e proprio trattato) «dove si discorresopra l’insalata e piante che vengono per il cibo del’ho-mo in qualunque modo in varie vivande». Scritta verso il 1570, questa “lettera” è un condensato di scienze na-turali (agronomia e botanica) arricchito di considerazioni dietetiche e gastronomiche: di ogni pianta si dà la

descrizione e si suggeriscono gli usi medicinali (sulla scorta di una millenaria tradizione medica) e culinari. Ciò che distingue il testo di Felici dai numerosi altri trattati del tempo è la speciale attenzione che egli dedica agli

usi “popolari” delle piante: come sono chiamate nei linguaggi locali, quali usi se ne fanno, come si conservano, co-me si consumano… il tutto con l’occhio attento dell’osservatore — dell’antropologo, si direbbe quasi — che in-crocia l’esperienza diretta delle cose con i consueti rinvii libreschi alla tradizione classica e medievale. Un pas-saggio particolarmente suggestivo si ha quando Felici viene a parlare delle erbe selvatiche di primavera: «Nel finedel’inverno e principio della primavera si suole dire per proverbio fra le donne che ogni herba verde fa nel’insalata».

Sono dunque le donne le principali custodi di questi saperi. La loro abilità a riconoscere, scegliere, maneggiarele erbe poteva avere nella società del tempo — siamo in pieno periodo di Controriforma — anche una nomea ne-gativa, quando si collegava a improbabili accuse di stregoneria che coinvolgevano la “magia delle erbe” nel mec-canismo inquisitorio. Più normalmente, questa magia era al servizio del vivere quotidiano, dei profumi e dei sa-pori che anche la tavola contadina — non meno di quella signorile o borghese — riusciva a catturare.

Queste donne, scrive Felici, compongono insalate strepitose «perhoché vi misticano dentro molte piante senzanome overo pochissimo usitate». Piante poco note, addirittura sconosciute agli studiosi che classificano erbe, ra-dici, frutti: perciò «senza nome». Pare quasi il riconoscimento di un sapere che oltrepassa le conoscenze accade-miche: le donne romagnole e marchigiane (quelle che Felici cita per averle conosciute di persona, nelle terre cheabita e frequenta) cucinano o condiscono erbe che non hanno ancora trovato posto negli erbari di Ulisse Aldro-vandi. Un sapere tramandato di generazione in generazione, una conoscenza minuta del territorio e delle sue ri-sorse consentono a queste donne di accompagnare il ritmo della stagione e di trovare sempre nuove «herbe verdi»per le loro insalate.

Decine e decine di piante sono elencate e descritte da Costanzo Felici, «e de molte altre harei da dire de quale ho-ra non mi sovene»: ricordarle tutte è praticamente impossibile, come è impossibile render conto della diversità divivande che si compongono «secondo le varie fantasie». Fantasie che sostengono la dieta quotidiana e che si met-tono doppiamente a frutto nei tempi di carestia, «perché a detti tempi ogni cosa si raccoglie et ogni cosa (dicono) em-pie il corpo».

Le erbe magiche in mano alle donneMASSIMO MONTANARI

di

OrticaVa raccolta prima che,

con la fioritura, piccioli,

foglie e peluria superficiale

diventino urticanti al tatto

Ha qualità toniche, si utilizza

cotta. Regala freschezza

a gnocchi, risotti, frittate,

minestre. Se ne fanno

anche pesti e ragù

Barba di frateRustica, robusta, figlia

di terreni poveri, ricorda

l’erba cipollina (si differenzia

perché le foglie lunghe

e sottili sono piene)

Ricca di vitamina A e C,

ha gusto lievemente

acidulo. Va lessata, si sposa

benissimo con le acciughe

CastraureI boccioli di carciofo

sono la primizia più golosa

della laguna veneta

(terreno sabbioso e salino)

Le potature garantiscono

fino a cento chili di novelli

per pianta a stagione

Ottime crude in insalata

o cotte con crostacei

TarassacoPianta cult della fitoterapia,

detta anche dente di leone

e piscialetto (per la spiccata

azione diuretica

e depurativa), ha fiore giallo,

che si trasforma in soffione

bianco. Amarognolo

e gustoso, si usa in frittate

o spadellato con olio

FaveBaccelli croccanti, di un bel

verde intenso, per i legumi

a basso contenuto di amidi

e lipidi. I semi freschi, ricchi

di proteine, fibre, vitamine

e sali, si accompagnano

crudi al pecorino o cotti

a mo’ di crema (macco)

con le erbe di campo

Primavera

L’appuntamentoPrimizie in passerella dal 22 al 25 maggio all’abbazia di Chiaravalle

di Fiastra (Macerata) dove si svolgerà Herbaria: segreti e magie

dal mondo della natura. In programma mostre come “Benedetta

quotidianità”, dedicata alla cucina monastica; “Olio su tavola”, raccolta

di dipinti in tema del Diciassettesimo secolo; le proiezioni

dei documentari di Piero Cannizzaro dedicati al cibo dell’anima;

il Mercato Verde, mostra con vivai, orti botanici ed erboristerie

Repubblica Nazionale

le tendenzeGlamour storico

54 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 13 APRILE 2008

Donne come dee. Donne che chiedo-no di più. Dagli amori, dai figli e dal-la vita. Lo fanno nel modo più anti-co del mondo, travestendosi perprovare l’ebbrezza di una magia.Per attirare uno sguardo. Per esse-

re, almeno per una serata, principesse, eroine,piccole divinità senza tempo. E la moda di que-st’estate le aiuta, le porta un po’ più in alto. Nel-l’Olimpo del glamour o nel glamour dell’Olimpo.

Si abbandonano così jeans, tailleur ingessati epantaloni di tutte le fogge e lunghezze. E al loroposto si adottano abiti peplo che lasciano indovi-nare le forme con giochi di veli trasparenti, drap-peggi sinuosi e richiami all’antico. La silhouette èstravolta: vita alta stile impero, sandali bassi al-lacciati attorno alla caviglia, abiti lunghi e sottili.Manco a dirlo ci vuole un fisico, se non bestiale,almeno atletico. E cosa rimane per chi, così drap-peggiata, rischia di sembrare più simile ad una ta-vola imbandita che alla magica Afrodite? Nientepaura, il look dea è fatto anche di dettagli: un de-licato girocollo, un sandalo intrecciato, un brac-ciale intorno al polso. Ed è subito mito.

La controrivoluzione è in atto anche nei tessu-ti. Le stoffe rigide e croccanti, disinvolte protago-niste delle ultime sfilate, sono sostituite da sete li-quide, garze vaporose e, soprattutto, dal fluidissi-mo jersey. È lui, infatti, il vero protagonista del-l’haute couture 2008: morbido, aderente, sexy.Una seconda pelle che incanta, non stringe e ri-scopre le morbidezza delle forme. Del resto gliabiti da novella guerriera sono riservati ad occa-sioni molto speciali. Quella che si prospetta per lecalde serate estive è insomma una moda impe-gnativa, sicuramente non adatta alla giornata inufficio o ad una pizza tra amici. Ma, forse, è pro-prio per questo che gli stilisti l’hanno proposta.Per regalare alle donne un’occasione diversa, unapossibilità di fuga dal tempo e dalla realtà. Anchesolamente grazie ad un drappeggio.

Lo sa bene soprattutto Donatella Versace che,per la primavera estate, ha presentato una colle-zione di grande sartoria dove la morbidezza deitessuti è la vera nota caratteristica. Le donne chesfilano per Versace sfoggiano una sinfonia dicromìe vivacissime: giallo acido, turchese, rosaneon e arancio, ecco i colori base per i pepli rivisi-tati in versione 2008. Mentre nelle sale cinemato-grafiche fa furore il film Asterix alle Olimpiadi,con un imbiancato Alain Delon come protagoni-sta, nelle vetrine trionfano i sandali gladiator. Lipropongono Sigerson Morrison, Etro, Bally, Ca-sadei, Miss Bikin e Furla.

Anche i gioielli sembrano “riconvertire” all’an-tichità classica le loro forme per adeguarsi all’O-limpo-mania: Just Cavalli, Rebecca e Chanel han-no proposto bracciali rigidi come corazze da por-tare sulle braccia nude con una fierezza degna diElena di Troia. Marni, Louis Vuitton e Jean PaulGaultier collane che sembrano scolpite da antichiartigiani greci.

E naturalmente le acconciature hanno il loropeso. Per le dee dell’estate un taglio di capelli mo-derno e sbarazzino è impensabile. Capelli raccol-ti in eleganti chignon e fermacapelli a forma diserpente diventano quasi un obbligo. Bottega Ve-neta propone piccoli pettini sinuosi a foggia diserpente e, per le più audaci, coroncine per fer-mare le chiome con un tocco regale. Gli elementiper un’estate all’insegna del fascino dell’anticaAtene o dell’antica Roma ci sono tutti. E le donne,con la loro grazia e la loro curiosità naturale, sa-pranno sicuramente approfittarne. Per esserebelle oggi come allora.

Estate miticavestiremocome ancellee gladiatoriIRENE MARIA SCALISE

SCHIAVA URBANAÈ da schiava urbana

il sandalo rosso fuoco

gladiator di Jean-Paul

Gaultier. Alto quasi

al ginocchio darà

un tocco “storico”

al più semplice degli abiti

PROGETTO GIOVANESandalo piatto laminato

oro, della giovane stilista

Nicole Brundage per Furla

Creato nell’ambito

del progetto Furla Talent Hub

L’ORO E IL BRONZOBracciale rigido in bronzocon bagno d’oro rosae disegni a rombiÈ disponibile anchein bagno d’oro gialloo in bagno argento

ELENA DI TROIAIncrociato e molto lineare,

l’ultrapiatto per una novella

Elena di Troia in versione

minimal. Per chi ama

la moda senza eccessi

PERLE DI BELLEZZACollana ideata da PinoMarino in filo di platino,della collezione Platinum,con diamanti, perla biancae perla di Tahiti. Perfettaanche come cintura

PROFONDO ROSSOPer chi vuole farsi notareecco il peplo rivisitatoin color rosso fuococon profondo scollosul seno. Eleganza senza tempo. Ferragamo

TEMPI MODERNIAfrodite indossa la tutaÈ piuttosto originale la deagreca vestita da HugoBoss. La cintura alta e preziosa ne accentua il fascino e la modernità

ISPIRAZIONE CLASSICAÈ classica e modernala dea greca disegnatada Antonio MarrasI drappeggi del bustinoe della gonna lunga?Un capolavoro sartoriale

Repubblica Nazionale

La moda ha scelto di trasformare le donne in dee avvolte in fluidi velid’organza e le donne hanno scelto di stare al gioco indossando perfinopettini e sandali-calzari. Ma l’attrazione per la Roma antica e l’Olimponon si riduce all’acquisto di un abito drappeggiato: i gioielli e le chiomeraccolte completano il look nato per le serate sotto le stelle

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 55DOMENICA 13 APRILE 2008

Ricorda Francesca Cenerini, nel preziososaggio su La donna romana (Il Mulino,Bologna 2002, p. 151), che nel mondo di

Roma «la “voce delle donne” è stata sempremediata da un filtro maschile». Agli ideali ma-schili si richiama infatti il modello, tradiziona-le e a lungo unico della donna, quello dell’uni-vira, la sposa casta, silenziosa e dedita alla ca-sa. E a parametri maschili rinviano, come inuno specchio, tutte le immagini della donnache ci sono state trasmesse dagli antichi: unospecchio deformante che restituisce figure su-blimi come l’Arria maggiore, capace di addita-re con l’esempio allo sposo, il filosofo CecinaPeto, la via onorevole del suicidio; o caricatu-rali come le componenti del celebre senatinodelle donne, che dilapidano la preziosa oppor-tunità conquistata dal “femminismo di altaclasse” dell’epoca dei Severi (Mazzarino 1973,II, p. 444) occupandosi solo di “leggi matrona-li” della più assoluta futilità; grottesche come laEppia di Giovenale, persa in capo al mondodietro al suo scalcinatissimo gladiatore; o ven-dicative e terribili come Apicata, la figlia di Api-cio, suicida ma capace, per vendicare il maritoSeiano che pure l’ha ripudiata, di trascinare se-co a morte la rivale Giulia Livia.

La situazione muta però con l’avvento del-l’impero. Incapaci di influenzare il governo del-la Repubblica o di modificarne le strutture, com-poste da gruppi di uomini e idealmente aristo-cratiche perché fondate su valori di eccellenzacome honos e virtus, le donne trovano ora un lo-ro ruolo e giungono a condizionare un uomo so-lo all’interno di un potere divenuto monarchico,favorendone la naturale tendenza a divenireereditario, fino a far trionfare il principio dellasuccessione dinastica. Certo, le prime di loro adalzare la testa pagano un prezzo altissimo. GiàAugusto deve confrontarsi con la parte femmi-nile della famiglia sui connotati del nuovo regi-me. Strumento designato di una politica pater-na senza sbocchi diretti, e data perciò in sposaprima al giovane Claudio Marcello, poi ad Agrip-pa, di ventitré anni più anziano di lei, infine a Ti-berio, l’irrequieta figlia Giulia pretende di com-pier scelte personali, intrecciando relazioniadulterine che hanno precisi retroscena dinasti-ci; e che le valgono l’esilio da scontarsi nell’isoladi Pandataria, al largo delle coste laziali.

Nove anni dopo la stessa pena tocca alla figlia,Giulia minore, e per la medesima colpa. Il dissen-so sulla natura del potere si annida ormai nellastessa casa imperiale; e sono le esponenti dellaparte femminile ad essere più attratte da soluzio-ni di tipo teocratico ed ereditario, lontane dai fon-damenti “romani” del potere. Tra loro la figura dispicco è quella di un’altra discendente di Augu-sto, Agrippina maggiore, figlia di Agrippa e di Giu-lia maggiore e sposa di Germanico. Dalla suoceraAntonia minore, figlia di Antonio, e soprattuttodalla madre Agrippina eredita appieno — comegià la sorella — alcuni particolari indirizzi politi-ci. In certi tratti — il personale, strettissimo vin-colo con le truppe del Reno e l’ostentato e ingan-nevole riferimento al figlio Caligola come natus incastris, nato negli accampamenti —, Agrippinaanticipa espressioni e atteggiamenti propri diun’ideologia successiva; e pare essere non ignaradi quell’aspetto della cultura orientale che consi-dera il ventre femminile — del suo, che ha parto-rito nove figli, ha ben ragione di essere orgogliosa— come veicolo di trasmissione per una regalitàa matrice divina.

Anche Agrippina muore prima di vedere il figlioCaligola sul trono. Ma tra le eredi ideali di questo«stuolo di principesse» belle, intelligenti e impu-diche «che, alla corte di Augusto trasmettono la di-scendenza dei Giulî, dei Claudî, degli Antonî» (Sy-me) si può annoverare senz’altro Faustina, la spo-sa di Marco Aurelio. Alla moglie, poco prima dellasua morte, il principe ha conferito un titolo, quel-lo di Mater Castrorum, la Madre degli Accampa-menti, dalle indubbie proiezioni dinastiche. Co-me ogni protagonista femminile durante questisecoli, Faustina è votata a una concezione eredi-taria, e quindi mediata, del potere; e una volta an-cora — e definitivamente — una donna gioca unruolo vitale nello scortare al trono il maschio pre-diletto, amante o soprattutto figlio. Irremovibilenel sostenere con ogni mezzo la candidatura diCommodo, Faustina non esita a ricorrere all’intri-go e — pare — all’adulterio, attenta solo a tutelareposizione e diritti di un figlio fin troppo amato.

Un aneddoto di dubbia attendibilità aiuta acapire la sua idea: all’intenzione manifestata daMarco di divorziare da lei a causa delle sue ripe-tute infedeltà, l’Augusta replica che il principe ètenuto, allora, a restituirle la dote venutagli conle nozze, alludendo a quel trono che gli ha reca-to in dono come figlia di Antonino Pio. La solu-zione dinastica viene scelta infine anche da Mar-co Aurelio; ed è significativo che all’abbandonodel principio adottivo colui il quale di questautopia è stato l’esponente più alto ed insigne siastato in parte indotto da una donna. Con la suc-cessiva Mater Castrorum, la siriana Giulia Dom-na, nasce una dinastia.

Castissime sposee matrone corrotte

GIOVANNI BRIZZI

NELL’ARENAÈ stretto intorno

alla caviglia con più file

di cinturini il sandalo

gladiator di Sigerson

Morrison. Il tacco

è ultrapiatto e la pelle

bianca risulta essere

morbidissima

SONIAL’indossatriceSonia, primadonnadella maisonVionnet,con un “peplo”in chiffon di setaLe due foto di Hoyningen-Huenefurono pubblicatesu Vogue

nel novembre 1931

INNO ALLA TERRAInno ai materiali preziosi

per il sandalo di Bally:

pelle stampa coccodrillo

e infradito in corda lavorata

con anello dorato

GIOIE DA VESTALITrasgressiva, la donnadell’Olimpo fashion sceglieun bracciale rigido in pellecolor oro con logo Chanelper rubare la scenaalle altre “ancelle”

ANTICO METALLOSembrano monete

di antico metallo dorato

quelle incastonate

nei sandali ultrapiatti

di Casadei

CHIOME RACCOLTEPer essere chic anchei capelli vanno raccoltiPuò tornare utileil pettinino o, per un toccoregale, il cerchiettocoroncina. Bottega Veneta

EROINE DA GALAÈ la più sobria delle eroinegreche quella di MarniLa preziosa setadel suo abito, in un neutrocolore grigio, è fluidae avvolgente. Impeccabile

PELLE DI LUNASexy e morbido il peplogiallo acido di VersacePensato per le sered’estate, con i suoidrappeggi fa risaltareun’abbronzatura dorata

ASIMMETRIE CREATIVEHa un abito asimmetricola matrona di GianfrancoFerrè. Il suo peplo lasciauna spalla scopertae il tessuto alterna righediagonali lucide e opache

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Repubblica Nazionale

l’incontroSfide sul set

PARIGI

È stato angelo e diavolo, crea-tura d’aria e mostro terrestre:Damiel in Il cielo sopra Berli-no e Hitler in La caduta. È sta-

to anche l’uomo tra gli estremi dell’al-ba e delle tenebre — Faust — nelGoethe integrale del 2000, messinsce-na monumentale di tredici ore, suddi-visa in sette serate, di Peter Stein, l’ami-co con cui aveva fondato nel 1970 a Ber-lino la già mitica Schaubühne. Ognivolta, una scommessa con sé stesso,una sfida d’attore: «Come diavolo fai ainterpretare un angelo?». Bruno Ganzsorride ancora al pensiero, stirandoun’espressione leale e leggera sul visostropicciato in mille pieghe e piegolineda quasi mezzo secolo di scene e di set:faccia felicemente sbrindellata e vissu-ta, come la “giaccamicia” di lino che glispiove addosso. «Quando il personag-gio è reale, tutto è piuttosto semplice: tibasta entrare nella sua psicologia e saisubito che cosa pensa, come si muove,che gusti ha. Ma con un angelo, comefai? Cammini come se fino a un mo-mento prima avessi volato? In Il cielosopra Berlino ho preso una decisione:alleggerire il personaggio, liberarlo daqualsiasi interpretazione. Wim Wen-ders è stato d’accordo: “L’angelo sei tu:sii te stesso”».

Con Hitler, nel film di Oliver Hirsch-biegel, quattro anni fa, è stato ancor piùdifficile: «Sono stato il primo attore dilingua tedesca a interpretarlo, nel pri-mo film tedesco su questo soggetto, aquasi sessant’anni dalla fine della guer-ra, e mi son dovuto confrontare conuna tradizione consolidata di ritratticaricaturali o surriscaldati, da AlecGuinness a Anthony Hopkins. Come

restituirlo alla realtà, come riportarlosulla terra dopo la demonizzazione chel’ha reso un’icona del male? Occorrevascavare dietro la maschera del mostro— comodo cliché di nessuna utilità percomprendere la storia — e recuperarel’uomo. Dovevo andare più lontano,cercare di capire e far capire perché,nella sua efferatezza, quell’individuo èstato sostenuto dall’intero popolo te-desco: dovevo mettermi dalla partenon delle vittime ma del carnefice». Ilfilm gli ha rovesciato addosso premiprestigiosi e critiche umorali: troppoumano, troppo simile al resto del mon-do. Proprio quanto Ganz si era propo-sto: il mostro non è fuori ma dentro dinoi. Ancor più inatteso il responso po-polare al suo angelo in Il cielo sopra Ber-lino: «Per strada, le mamme mi indica-vano al loro bambino: è il tuo angelo cu-stode. In aereo, i passeggeri, vedendo-mi, si tranquillizzavano: oggi si vola si-curi. Ero diventato un miracolo ambu-lante».

Il film dell’87 di Wenders — centrale,con L’amico americano di dieci anniprima, nel percorso cinematografico diGanz — è volato su Parigi, per il 19èmeFestival Théâtres au Cinéma di Bobi-gny, insieme a titoli di Almodovar, An-tonioni, Truffaut, ispirati all’opera diJean Cocteau (Il cielo sopra Berlinocondivide tra l’altro il direttore di foto-grafia caro al poeta-cineasta francese,Henri Alekan) e aleggia sulla 25ma edi-zione di EuropaCinema, a Viareggiodal 15 al 19 aprile (poi a Roma alla Casadel Cinema, dal 21), che Felice Lauda-dio dedica al cinema tedesco di oggi e diieri, con un concerto di Ingrid Caven,musa di Fassbinder, e un omaggio alNeue Kino, da Wenders a Herzog, aReitz, Syberberg. «Un antico, sbiaditoricordo», per Ganz: «Negli anni Settan-ta, abbiamo avuto la meravigliosa im-pressione che quattro registi, Fassbin-der, Schlöndorff, Wenders e Herzog,avrebbero rovesciato l’immagine delnostro cinema. E adesso?». Tra le reli-quie dell’ormai archeologico NuovoCinema Tedesco, Il coltello in testa di-retto trent’anni fa da Reinhard Hauff(presente a Viareggio), uno dei rarigrandi titoli sugli anni di piombo, tor-nato di bruciante attualità dopo il G8 aGenova. «Un film sulle eterne, doppieversioni dei fatti», è l’amara riflessionedell’attore, memorabile nel ruolo d’undocente ferito alla testa durante unamanifestazione giovanile e ritenutodalla polizia fomentatore di terrori-smo: «Era ispirato a due casi reali, l’at-tentato a Rudy Dutschke e la morte diBenn Ohnesurg, che scatenaronoun’incandescente guerra mediatica.Rimane esemplare per la contrapposi-zione tra resistenza individuale e egoi-smo sociale, tra fermenti ribelli e vio-lenza delle istituzioni».

In quella stagione di lotte e lacerazio-ni intestine, l’attore, sessantasette an-ni compiuti lo scorso 22 marzo, è tor-

mo avere come nonno: «Per il mio per-sonaggio, mi sono ispirato molto a miononno, esperto bricoleur. Ma già nel-l’Amico americano, dove ero un corni-ciaio, mi divertivo a assemblare pezzidi legno, e di vita. Un’inclinazione cuiho fatto appello in questo film, perchénella sceneggiatura il ruolo era appenaaccennato: me lo sono costruito poco apoco, in un paziente lavoro di cesello,di attore-bricoleur, mediante minu-scoli tasselli, non invadenti ma signifi-cativi, come la trovata del cappello, incui ho reso omaggio, discreto ma evi-dente, a Beuys».

Sempre più richiesto dal cinema,Ganz è da un paio d’anni pendolare deiset: Usa, Europa, Giappone. DopoYouth without Youth di Francis FordCoppola, presentato alla Festa di Ro-ma («curiosi questi americani: sembrache non abbiano mai abbastanza soldiper realizzare un film e poi se li fannocon i loro risparmi»), ha girato con Ka-te Winslet, Alexandra Maria Lara (la se-gretaria di Hitler in La caduta) e RalphFiennes The Reader di Stephen Daldry,su sceneggiatura di David Hare, am-bientato nel plumbeo dopoguerra te-desco tra ossessioni e incubi di ritorno.Tra Berlino e la Grecia, ha anche con-cluso insieme a Harvey Keitel, WilliamDafoe, Valeria Golino e, ancora,Alexandra Maria Lara, la trilogia diTheo Angelopoulos, aperta da Losguardo di Ulisse e proseguita con L’e-ternità e un giorno: titolo del nuovofilm, La polvere del tempo, forse alprossimo Cannes. «È sulle immigra-zioni in Europa, dopo le due guerremondiali, sulle ragioni della politicache hanno spesso calpestato i dirittiumani. Terribile quel che ha combina-to questo nostro maledetto continen-te nel secolo scorso. Basta pensare allastoria della Grecia, alla tragedia deisuoi espatriati».

Tanto cinema assottiglia la presenzadi Ganz nell’amato teatro. «Ho ormairinunciato ai miei recital in tedesco inpaesi di lingua non tedesca». Il pubbli-co italiano ne aveva potuto centellina-re nel 1991 il perfetto Hölderlin lettosulla scena spoglia del Franco Parenti aMilano: una sedia, un tavolo e una lam-pada, e davanti all’attore una platea distar devote, tra cui Mariangela Melato,come tornate di colpo a scuola.

L’Italia? «Grazie alla bella avventuradi Pane e tulipani, è diventata una miaseconda o terza patria. Vivo adesso traZurigo, mia città natale, Berlino e Ve-nezia, dove ho preso casa otto anni fa,appena finito il film di Silvio Soldini.Durante le riprese condividevamo lastessa abitazione: non dovendo lavora-re ogni giorno, mi occupavo della cuci-na per l’intera troupe e andavo a farprovviste nel mercato vicino, dalle par-ti di Rialto, in calli salve dagli assalti deituristi». Senza accorgersene, Ganz co-mincia a esprimersi in italiano, sfode-rando di nuovo quel delizioso arioste-

nato a immergersi nel film, ora al mon-taggio, di Uli Edel, Der Baader-MeinhofKomplex, su una delle pagine più cupedella recente storia tedesca, anche peri misteriosi “suicidi” in carcere che hanvia via azzerato la falange terrorista.Sugli schermi francesi è invece appenauscito Vitusdello svizzero Fredi M. Mu-rer, candidato all’Oscar 2006 e antici-pato al 30mo Festival des Films duMonde a Montreal, dove Ganz ha rice-vuto il Grand Prix des Amériques allacarriera: «Vi interpreto un nonno dallemani magiche e dalla testa piena di so-gni: m’industrio in bricolages in unoscantinato di falegname, dove insegnoal nipote, enfant prodige del pianofor-te, il gusto della vita normale. Il ragaz-zino, Teo Gherghiu, è un autentico ge-nio della tastiera: romeno, ha studiatoa Londra e vive in Svizzera. Ho assistitoanni fa al suo primo concerto: stupefa-cente». Lui è l’altro prodige, il bambinod’età avanzata che tutti desidererem-

sco-maccheronico che aveva guada-gnato ogni tenerezza al suo personag-gio d’islandese ai fornelli, inzuppatod’Orlando Furioso. Il nostro Paese(«mia madre era originaria del NordItalia») è un intreccio d’altri legami: «Ladomenica specialmente, nel 1991, diGiuseppe Bertolucci, che mi ha fattoscoprire Roberto Benigni. Un giorno èguizzato su un tavolaccio e mi ha reci-tato d’un fiato un pezzo della DivinaCommedia: un gesto d’affetto per me.M’ha lasciato allibito».

Altra folgorazione, Trieste: «Cittàstupenda, conosciuta durante le ripre-se di La forza del passato di Pier GiorgioGay, con Sandra Ceccarelli e Sergio Ru-bini. Ha conservato tracce d’austriaci,solchi di grande letteratura: Rilke, Joy-ce, Svevo, Beckett. Come una città sviz-zera o tedesca: ma con il mare davanti.Per uno svizzero-tedesco come me,sempre senza mare, è stata una conti-nua rivelazione. E l’entroterra è unico.Con Peter Handke, una volta, ho fattouna lunga camminata lungo il Carso, fi-no alla Slovenia». L’Italia è anche musi-ca: la musica diretta da Claudio Abba-do. «Un incontro straordinario. La miaprima prova con lui è stata a Berlino, ol-tre dieci anni fa: voce recitante nell’Eg-mont di Beethoven. Qualche estratto èora in Hearing the Silence di PaulSmaczy», documentario premiato alFestival des Films sur l’Art di Montreal,dove Ganz s’abbandona a dichiarazio-ni e testimonianze penetranti, nono-stante l’iniziale professione di mode-stia («di musica non ho mai capito mol-to»): «Ho voluto sottolineare l’impor-tanza che ha, in Abbado, l’ascolto: del-la musica, certo, ma anche degli altri. Edel silenzio. La musica, come il teatro,ha spesso i suoi momenti più alti nellesospensioni, nei silenzi: che bisognasaper costruire, e ascoltare».

Dopo l’avventuradi “Pane e tulipani”ho preso casaa Veneziae l’Italia è diventatala mia seconda patriaAmo anche Trieste,città svizzera o tedescama col mare davanti

È stato un angelo, è stato Hitler,è stato Faust. E a ripensarea questi personaggi estremi,a tutte queste scommesse vinte,il suo volto stropicciato si arriccia

nelle pieghe di un sorriso“Non mi aspettavo - dice -la reazione della genteDopo ‘Il cielo sopraBerlino’, le mammemi indicavanoal loro bambino:è il tuo angelo custode

In aereo i passeggeri al vedermisi tranquillizzavano.Così sonodiventato un miracolo ambulante”

MARIO SERENELLINI

56 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 13 APRILE 2008

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