estetica libertaria - ANARCOTRAFFICO · 2020. 4. 17. · Alfredo M. Bonanno « cxKpcrua » 1...

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estetica libertaria a cura di Alfredo M. Bonanno

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  • « cxKpcrua » 1Collana diretta da Vincenzo Di Maria

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    Prima edizione gennaio 1976Stampato per conta di Tringale EditoreCorso Italia, 23 - Cataniacon i tipi della Edigraf di CataniaVia Alfonzetti, 90.

  • ESTETICALIBERTARIA

    a cura di Alfredo M, Bonanno

    Tringale Editore

  • Di tutte le proprietà la più detestabile è quella che ha per pretesto il talento

    Proudhon

  • INTRODUZIONE

    Se il prodotto artistico è una realtà, la riflessione sulle condizioni che ne determinano la realizzazione, cioè l ’estetica, deve fornire chiarimenti riguardo questa realtà.

    Se la contrapposizione di classe nella nostra società è un fatto innegabile, opposti interessi strutturali costringono i riflessi sovrastrutturali (e quindi anche l’arte) a disporsi in funzione di quella realtà di base.

    Da ciò la posizione dell’artista come intermediario tra due parti in lotta. Obiettivamente estraneo come estrazione, privilegi e classe, alle due parti contendenti, egli può sostenere il potere, contribuendo allo sfruttamento, edulcorandolo con le sue fantastiche costruzioni, distraendo il proletariato dalla sua situazione oggettiva; oppure, lottarlo, inserendosi nella problematica di massa, sviluppando quel ruolo chiarificatore e intermediario che contribuisce alla presa di coscienza degli sfruttati.

    Ma l’alternativa non è sempre così netta. Gli artisti, come tutti gli intellettuali, sono gli uomini del privilegio, della « specializzazione », della « individualizzazione ». Tra di essi possiamo distinguere almeno tre categorie. Quelli che non temono di perdere i privilegi di origine e rifiutano quelli di acquisizione, per gettarsi tutto dietro le spalle e costruire sulla realtà delle lotte operaie e contadine, l ’ignoto della propria esperienza estetica e il « prodotto finito » della propria capacità di artista. Quelli che sentono con sufficiente chiarezza questa necessità, come l'unica

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  • alternativa storica perché il loro lavoro non venga abbandonato ai topi, ma non ne hanno il coraggio fisico, la forza morale : abbandonare tutto il mondo del privilegio passato e delle possibilità di una futura — immediata — sistemazione ideale e proficua, per loro è un passo troppo duro; preferiscono giocare d’astuzia, utilizzare due mazzi di carte, vestirsi dei panni del contestatore quando si rendono conto che il vento tira verso sinistra, rifugiarsi immediatamente nelle braccia della borghesia quando il vento cambia direzione ; il riformismo è il loro ideale : ben pasciuti, dotati di titoli accademici altisonanti (ma spesso scherzosamente sottovalutati), diretti con tutte le forze a stabilire contatti durevoli con l’editoria di potere, riguardosi della legalità, arditi contestatori quando non c’è alcun pericolo ; rappresentano la massa di manovra di cui si serve la borghesia, nei suoi diversi livelli d’azione, per contrastare il campo alle lotte dei lavoratori. Esistono, infine, quelli che sono apertamente reazionari, ammiratori di temi estremisti di destra, tipo Céline, per fare un esempio, ma sono una piccolissima minoranza senza capacità d’azione.

    La nostra tipologia, necessariamente sommaria, andrebbe arricchita di una ripartizione per quanto concerne la prima categoria. Tra gli artisti che veramente vanno verso il popolo occorre distinguere quelli che intendono « erudirlo », cioè portare al popolo le proprie creazioni, e quelli che intendono « semplicemente » lavorare tra il popolo in modo di riuscire a determinare certe condizioni oggettive che possano produrre l’evento artistico sia nel popolo che nell’ispirazione creatrice dell'artista che lavora tra il popolo. Ripartizione non priva d’importanza in quanto distintiva dell’apparato operativo marxista e di quello libertario.

    L’arte può e deve mantenere la sua visione prospetticamente creativa, ma solo a condizione che gli elementi di questa sua creatività emergano da un contesto popolare, come facenti parte di una « necessità » avvertita a livello di massa. In questa direzione l ’ignoto è ancora tutto da scoprire, l ’artista è ancora da identificarsi, il rapporto tra artista e fruitore del prodotto artistico è ancora da costruirsi.

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  • Le caratteristiche principali di un’estetica libertaria

    1) Il pluralismo. Cioè la presenza feconda di diverse correnti estetiche. A questo riguardo le preoccupazioni di una eccessiva fecondità delle vedute individualistiche, sempre possibile almeno all’inizio del dibattito con l’opposta visione del mondo (comunista- libertaria) ; possono essere minimizzate da una visione esatta della realtà: il lavoro collettivo e in comune non deve necessariamente significare uccisione dell’individuo, anzi, al contrario, esaltazione di quelle qualità del singolo che sono di natura sociale a detrimento di quelle altre caratteristiche, esaltate storicamente dopo la fine del Medioevo, che trovarono il loro massimo sviluppo all’epoca della dominazione coloniale inglese.

    In questo senso l ’esperienza tradizionale, anche di tipo distorto perché incapace a superare la divisione del lavoro, può avere spazio per liberarsi e passare ad una esperienza di nuovo aspetto : quella libertaria. Nessuna obbligazione castrante, dettato di un’estetica autoritaria che, poniamo riconosce cittadinanza soltanto al realismo e ad un certo tipo di realismo (Balzac); ma ricerca autonoma di quella dimensione creatrice che soltanto la persona nella propria autonomia di singolo può raggiungere. Tutto ciò collegato costantemente con quella pluralità di esperienze che viene fuori dalla dimensione collettiva e comunitaria, dimensione che si propone all'attenzione critica dell’ascoltatore come la sintesi probabile di tutto quello che l ’individualità, nel suo mondo difficilmente attraversabile, poteva comunicare o in forma crittografica (inutile sforzo diretto a pochi privilegiati) o in forma idealistica (distorsione della realtà ad uso del potere).

    2) Un’arte nuova. Distruzione del passato sia in senso fisico (se il fatto rivoluzionario esigesse la distruzione di una testimonianza artistica del passato non ci si lamenterebbe certo di questo) ma più in senso artistico. Cioè non tanto « eliminazione » del passato ma « superamento », compresenza del passato nelle sue manifestazioni veramente popolari e ripresentazione di queste,

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  • viste attraverso l'esperienza e le necessità odierne, in un contesto creativo di tipo diverso, anche opposto.

    Un’arte che sparisca come ricerca morale del proprio oggetto per ripresentarsi, fresca delle più vecchie esperienze del mondo, come morale dell’agire, del fare, del proprio agire e del proprio fare (dello scrittore) ma anche, e principalmente, dell'agire e del fare del popolo in lotta.

    Un’arte nuova che costituisca lo spirito essenziale della « rottura » con tutto ciò che di schematico e di fisso presenta la tradizione in merito alla creatività artistica. Una rottura che deve essere equilibrata sull’oggetto concreto : la realtà conflittuale, e non trasferita in un universo eversivo, dotato di una fattispecie apparentemente apologetico-oggettuale ma sostanzialmente idea- listico-addizionale. Il valore essenziale dell’oggetto è possibile identificarlo soltanto nell'esperienza personale rivissuta sotto la specie collettiva, attraverso il momento interpretativo comunitario; ogni altra posizione visuale presenta caratteristiche addizionali (passato + presente) che non nascondono pretese colla- borazionistiche con un potere intelligente, non ottusamente legato a schemi d'azione del passato (fascismo), ma progettato in visione progressista (socialdemocrazia).

    3) L’arte come esperienza. Ogni individuo è artista, capace della creazione e capace della fruizione di questa creazione : un mondo ignoto da scoprire, un continente nuovo, un linguaggio nuovo e vecchio nello stesso tempo: l’esperienza come ripetizione del letto e dell’udiio, e come ricerca del mai sentito e del mai scritto. Rottura della specializzazione, della divisione (io artista contrapposto all’altro fruitore del mio prodotto artistico: impiegato, studente, operaio, contadino). Frantumazione da operarsi necessariamente se non si vuole l'eliminazione assoluta della comunicazione.

    Abbiamo spesso parlato della necessità di trasformare l’arte da fatto individuale, cioè aristocratico, a fatto generale, ma ciò non deve essere inteso come uno strano rifiuto del valore dell ’individuo (strano perché in contrasto con altre nostre indicazioni di ricerca), al contrario, deve considerarsi come una

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  • indicazione di pericolo, contro il fatto individuale (concorrenziale e dispregiativo del vincolo dell’alterità). In altri termini, almeno allo stato attuale della distribuzione dei valori societari, l ’artista non può fare a meno di estrinsecare la sua forza individuale in una forma che — spessissimo — assume l’aspetto concorrenziale e negatore dell alterità : provando ad inserirsi in una realtà comunitaria, provando a sentire collettivamente, il suo prodotto individuale può svilupparsi in modo diverso e, parallelamente, concorrere allo sviluppo, nella massa, di una capacità di fruire del prodotto artistico, essenzialmente necessaria per passare alla fase della produzione autonoma da parte della massa stessa, fase possibile soltanto alla caduta totale della divisione del lavoro.

    Lavorando esclusivamente nella direzione individuale, confezionando un prodotto secondo i dettati consumistici del momento e secondo le richieste — assai precise — del mercato, si ha come risultato, di aggiungere energia ad un sistema di sfruttamento; al contrario, lavorando all’interno della dimensione collettiva, l ’individualità si esalta di strumenti inusitati, forse difficili a comprendersi per chi è abituato alla tradizionale pastiche dettata dalle esigenze del potere, sicuramente necessitante di scelte coraggiose che si pagano in prima persona; ma avente come risultato l’inserimento dell’unica tonalità valida: quella popolare e, contemporaneamente, avente come risultato quello di togliere energia al sistema. Cessando di fissare, percepire, bloccare la sensazione su di un oggetto « consacrato dall’autorità estetica del poliziotto », si capovolge il livello produttivo dell’arte che cessa di essere « fatto di specialisti » per diventare « vita », assai più semplicemente.

    4) L’arte come situazione. Distruzione del ruolo tradizionale del « genio », del « grande artista ». Indicazione di come questo ruolo sia stato in passato utilizzato costantemente dal potere. Considerazione del lavoro artistico come lavoro senz’altro, ma nella pienezza della sua superata divisibilità. Considerazione del lavoro come vita e non come separazione dalla vita, avvilimento e alienazione. Impossibilità di una distinzione — in questa nuova prospettiva — tra lavoro e gioco.

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  • Rifiuto del conforto di sentirsi « in », cioè dell’esserci inteso in termini corporativi. In questo modo il rifiuto dell’esserci, come individualità definitiva, caratterizzata da un certo « giro » commerciale, da una serie di rapporti (amicizie e raccomandazioni, premi « dammi oggi che domani ti darò »), significa rischio dell’esporsi alla critica, all’ignoto di un qualche cosa « altro da sé », qualche cosa che può anche non essere un’individualità gemella, qualche cosa che può assumere abitudini discorsive e contattuali diverse, qualche cosa che si può anche chiamare popolo in lotta. E allora l’arte risulta effetto della situazione, osmosi non precostituita tra corpo intellettuale ed azione pratica, energia e individuo, collocazione al di là del consumo dell ’evento produttivo artistico.

    Situazione, quindi, caratterizzata da un superamento : da una accettazione, prima, e da un superamento, poi. Accettazione di quanto può essere « nuovo e ignoto » l’invito alla penetrazione nel mondo comunitario, superamento della concezione tradizionale dell’individualismo estetico. Sviluppare uno stimolo alla proiezione del represso (la creazione artistica degli ultimi decenni ci sembra caratterizzata, quando può veramente dirsi tale, dalla categoria della « rimozione »), nella sua fattezza originaria — che prima d’essere interiore, o intrinsecata, — era oggettuale, e resta oggettuale. Fatto contingente, situazionale, collocabile in una precisa logica geometrica (spazio-tempo, dicotomia su cui tanto si è affaticata la scienza-filosofia dei padroni, finendo per abbagliare con i suoi risultati anche l'esperienza artistica); ma fatto : duro, impenetrabile attraverso gli strumenti soliti ; fatto di sangue e di lotta, di conquiste strappate con i denti e perdute per i tradimenti dei cosiddetti partiti dei lavoratori; fatto di esperienze chiare, visibili come tante cicatrici sulla pelle; fatto in cui è facile riconoscersi ; fatto nostro.

    5) Un’arte fatta dal popolo. Prospettiva finale. Come la rivoluzione e la conseguente liberazione sociale saranno fatte dal popolo, o saranno soltanto avvenimenti parziali e transitori, cosi l ’arte o sarà fatta dal popolo o sarà sempre un’arte parziale. Quindi, non « arte populista » nel senso di arte didascalica, fatta

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  • ad uso specifico dell’educazione popolare, e nemmeno — all'estremo limite — un'arte fatta ad uso specifico del fatto rivoluzionario. Certo, oggi non è possibile realizzare ciò che è solo una « prospettiva guida », ma possiamo fare qualche cosa perché ci si indirizzi bene su questa prospettiva : cioè, possiamo negare validità all'egoismo individualista di tipo borghese (senza per questo negare validità allo sforzo creativo del singolo artista) e, contemporaneamente, limitare le tendenze marxiste ad un uso « pedagogico » dell’arte, cosa quest’ultima che distruggerebbe il « ribelle » che si nasconde all'interno dell’artista, per trasformarlo in un funzionario dello stato socialista

    Il destinatario de! prodotto artistico

    Come prodotto di una classe sufficientemente precisata, quella degli intellettuali-artisti il prodotto estetico assume caratteristiche interne necessitate : l’accettazione da parte dei « chierici » è, infatti, la prima condizione della produzione in serie. La critica santifica il prodotto, ne stabilisce i canali pubblicitari più efficienti, l ’indirizza verso i supermarkets, ne condiziona la lettura (vedremo quale lettura), ne garantisce la continuità. Ecco, quindi, la prima preoccupazione dei produttori-artisti : non guastarsi con la « categoria », collocarsi quanto più possibile all’interno di essa, diventare carne della stessa carne.

    Spesso, agli inizi della lotta personale per l’alimentazione, si sente qualche giovane produttore-artista gridare frasi inconsulte, slacciarsi la cravatta per fare uscire meglio la voce contro le istituzioni e contro la gestione particolare che delle istituzioni i mafiosi dell’arte fanno. Ma, il più delle volte, non appena a questo energumeno viene aperta una strada alla televisione o qualche altra similare, la sua voce diventa improvvisamente « bianca ».

    Abbiamo, da un lato la borghesia, titolare tradizionale del prodotto artistico, ottima compratrice, esperta nell’arte delle

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  • trame integrative, capace di utilizzare la carica eversiva dell’artista fino al punto di darsi un aspetto progressista, collocando le innocenti ubbie di quest’ultimo in un quadro più ampio dove il movimento e la lotta ritrovano la loro quiete nella visione di un tramonto delle capacità umane di modificare la storia. Segno di Dio o legge universale, l ’idealismo storico propone un buon pacifico porto agli sforzi esaltati di alcuni produttori-artisti, che restano così in possesso di un’arma spuntata (la loro capacità critica) e la possono indirizzare, a tutto beneficio della classe dominante, verso una manutenzione delle istituzioni, verso un aggiornamento e una più grande efficacia del potere costituito.

    Resta l’altra parte del mondo : gli sfruttati che si contrappongono agli sfruttatori, i poveri che si contrappongono ai ricchi, gli abitanti del ghetto che si contrappongono ai cittadini, i meccanismi senza diritto che si contrappongono ai creatori e ai gestori del diritto. Spesso il produttore-artista ha visto quest’altra parte del mondo come una miniera di esperienze, di sensazioni, di notizie, (a secondo i gusti), miniera inesauribile che può essere sfruttata per costruire belle creazioni da fornire all’altra parte del mondo, perché possa curare, con dolci medicine, la propria falsa coscienza. È sempre caro al cuore dello sfruttatore il lavoro del prete e quello dell’artista. Il primo lo invita alla carità verso il fratello povero ma non gli dice nulla in merito all’interruzione dello sfruttamento; il secondo l’invita a sentire tutte le emozioni della povertà, ma da dietro una vetrina, in un palco di teatro, nelle asettiche sale di una mostra d’arte, restando sempre fuori causa lo sfruttamento. Prete ed artista sono membri della stessa confraternita : per un pezzetto di potere si prostituiscono assicurando la persistenza del dominio dell'uomo sull’uomo. Nell’assenza di questa dicotomia essi sparirebbero.

    Aboliamo per una volta gli oggetti dell’artista (esperienze), costringiamolo a invertire la propria processualità gnoseologica, deformata dall’assistenza indiretta del potere e dei suoi allettamenti; informiamolo che frantumazione reale (lotta di classe) ha un corrispettivo intrinseco nella frantumazione tecnico-linguistica (mezzo espressivo) e nel fatto analitico della frantumazione pragmatico-gnoseologica (capovolgimento del contatto conosci

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  • tivo). Di fronte al vecchio itinerario: dalla povertà alla ricchezza, esiste il nuovo itinerario dalla povertà alla povertà per la costruzione di un mondo senza la povertà; dallo sfruttamento allo sfruttamento per la costruzione di un mondo senza sfruttamento, dal ghetto al ghetto per la costruzione di un mondo senza ghetti ; dal meccanismo al meccanismo per la costruzione di un mondo senza meccanismi.

    Origine e fruitore della produzione artistica questo « nuovo mondo » esperienziale si lega alla cultura « borghese » dell’intellettuale produttore-artista attraverso il meccanismo del rifiuto e non attraverso la rimozione. È così che lavorare da artista tra il popolo, può significare soltanto lavorare per il popolo attraverso il popolo e non per il popolo sul popolo, cioè per il popolo sovrapponendosi ad esso (gravandolo di tutti quei residui che immancabilmente continuano a condizionare in un certo senso l’in- tellettuale produttore-artista.

    Non è importante, secondo noi, l ’esasperante ricerca della novità, dell'ignoto, all'interno della dimensione del conosciuto. Spettrale imitazione della reale frantumazione vissuta attraverso la simbolica frantumazione tecnico-linguistica. Non è possibile una vera e propria disintegrazione della lingua se non attraverso un'esperienza veramente disintegrante; e, la sola possibile in quest’ultimo senso, è l ’esperienza reale della lotta di classe, della contrapposizione tra sfruttatore e sfruttato. Non trasformazione dell’artista in politico o tecnico della politica: pedagogo sostenitore della classe degli sfruttati in lotta, non assurdo livellamento dei valori estetici della libera ricerca dell’ignoto, della libera sperimentazione del mezzo espressivo, della libera condensazione dell’esperienza; ma, al contrario, rivalutazione di tutto ciò in una collocazione dinamica antistituzionale, diretta alla costruzione di un mondo diverso, attraverso la distruzione di quello attuale.

    Per chi riflette un poco sulla questione sarà chiaro il fatto che l’artista, anche quando è asservito per motivi di vanagloria o di vera e propria fame al potere, cerca sempre una dimensione distruttiva. Solo che, quando entra nella logica del potere, questa distruzione per lui diventa un fatto ideale, cioè staccato total

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  • mente dalla realtà storica e collocato su di una prospettiva di eternità (il mito di Prometeo o qualcosa del genere). Così egli può insistere sul tema della distruzione del linguaggio, della forma, della separazione contenuto-messaggio, e altri similari (musicalità del tema, incomunicabilità dell’assunto, condensazione o rarefazione del conosciuto). Esiste in ciò, anche se deformata, una certa carica distruttiva. Il fatto culturale, anche quando assume atteggiamenti utili al sistema è sempre in partenza un fatto di disturbo, una creazione che si pone accanto a quella dello Stato, per farsi inglobare nella grande maggioranza dei casi, ma che, comunque, si pone come alternativa.

    Occorre vitalizzare questa carica distruttiva, condurre i produttori-artisti al rispetto dell'arte, alla valorizzazione del loro mestiere, asservito e reso ignobile dalle cure che il potere rivolge a coloro che lo servono senza condizioni. Se l ’arte è il simbolo della creatività dell’uomo non dovrà mai trasformarsi nel simbolo della servitù e dell’oppressione.

    Affermazioni su cui tutti saranno d’accordo, affermazioni che tengono conto delle aspirazioni di tutti i produttori-artisti, ma che non devono essere considerate come un’apertura verso una ulteriore forma di disimpegno artistico. Se l’arte è il simbolo della creatività lo è perché essa è fatto storico, inserito nella storia, condizionato ed emergente da certi rapporti di produzione, dallo sviluppo ineguale della presa di coscienza e così via; non perché essa è « eternamente » il simbolo di una creatività assoluta.

    Ma la negazione dell’esorcismo idealista è possibile solo a condizione di non ricadere nella pretesa fattualità dell'idea, nella pretesa concretezza dello strumento linguistico. Il fatto non può essere scambiato con il simbolo. Il fatto è sempre concretezza agente, sempre azione, e l'azione può avere un richiamo simbolico nel linguaggio, purché in questo processo non venga smarrita (cioè istituzionalizzata) la carica di ribellione che è intrinseca al fatto liberatorio.

    Occorre avere chiare le idee su questo rapporto solo apparentemente reversibile. Anche il processo di sfruttamento è un fatto e anche in questo senso si potrebbe predicare un'attività

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  • fattuale dell’artista; ma, quando ben si consideri, il compito che la borghesia affida ai produttori-artisti non è tanto quello della illustrazione del fatto dello sfruttamento quanto del camuffamento di questo fatto. Quello che i gestori del potere chiedono non è un contatto reale tra interprete e fatto, anzi essi temono proprio questa presa di coscienza, ma al contrario una idealizzazione mercantile, una culturalizzazione dello spettacolo generale della società dei consumi. Se dal lato della povertà l’artista è chiamato ad un impegno concreto : significazione in termini estetici della sua esperienza all'interno dell'azione di liberazione; dal lato della ricchezza è chiamato ad un impegno ideale: trasposizione in termini astratti della sua esperienza all’interno dell’azione di sfruttamento. Bisogna evitare accuratamente simili confronti di tipo astratto tra « fatto » liberatorio e « fatto » di sfruttamento. Sul piano dell’« uguaglianza fattuale », piano dove tutto scompare nel vago confondersi dei controlli e dove la storia diventa eterno ripetersi di strutture e prospettive, non ha senso chiedersi «che fare?»; ma sul piano della concretezza storica, piano dove le cose assumono precisa delineazione e dove la storia risulta il dipanarsi delle esperienze umane, il « che fare? » ha un senso soltanto : restare dal lato degli sfruttati, dal lato del ghetto, per lottare contro gli sfruttatori, i gestori della « civiltà » di oggi.

    Ma, per dare inizio a questa trasposizione di valori, per cominciare a disporsi in « senso contrario », capovolgimento non trascurabile per i produttori-artisti, tradizionalmente compresi nella loro funzione di « portatori della verità », occorre documentarsi. La chiarezza che si contrappone alla nebulosità ha infatti bisogno di documentazione. Non si può continuare a barattare il probabile come il vero in una dimensione che pretende la chiarezza come essenziale componente della ricerca espe- rienziale. Il rapporto di classe preludia chiarezze sentite con la sofferenza e col sangue, non ammette sofismi sportivi di un nucleo privilegiato che intende trasferirsi, armi e bagagli, con le proprie visioni del passato in una nuova prospettiva.

    Ma chiarezza non significa necessariamente negazione della ricerca del valore estetico, della stessa tecnica del mezzo espres

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  • sivo, della difficoltosa approssimazione simbolica; significa solo negazione di quanto di artificioso e vacuo esiste in tutto ciò. Il resto, il processo esperienziale in prima persona, la sofferenza per abbattere schemi tecnico-linguistici tipici di una strategia socio-culturale del passato, la necessità di superare lo schema logico quotidiano rivivendolo in una rivalutazione personale ed estetica; non sono elementi di contrasto con ciò che intendiamo per chiarezza.

    Chiarezza e umiltà. Ecco l ’altro punto della questione sui bagagli da portarsi dietro. La precedente geometria artistico- commerciale prevedeva l ’esistenza del « grande » uomo, del « genio », dell’artista che riassumeva tutte le qualità del tempo e le estrinsecava nella sua opera. Tutto ciò tornava utile al sistema in modo unico, come torna utile una lotteria : indicando la persona del fortunato vincitore si indica una possibilità su qualche milione e si propone uno schema illusorio di rimozione delle difficoltà quotidiane : quanti sono i lavoratori che sottostanno in Italia all’oppio del Totocalcio? Così per l ’artista. Il mito del « genio » viene fornito dal potere (basta pensare all’incredibile messinscena del Nobel) per attrarre all’interno del processo integrativo. La scala dei valori è difatti fissata dalle centrali pubblicitarie del potere che provvedono anche ad emettere le scomuniche ufficiali o i silenzi, ancora peggiori delle scomuniche. In questo processo si crea l ’alterigia proverbiale del mondo degli artisti. Ognuno si crede migliore dell'altro, ognuno guarda con occhio critico e compassionevole insieme nel piatto dell’altro, sempre pronto ad adularlo quando la cosa può tornar comoda. Più che a lavorare la maggior parte pensa ad arrangiare masticature in modo che possano risultare gradite al critico o al selettore dei programmi televisivi. Tutto ciò ha ben poco a che vedere con l ’umiltà necessaria nella nuova prospettiva. Non solo umiltà di attese ma umiltà di esperienze, anticamera indispensabile a quell’esperienza comunitaria che rifiuta ogni solipsistica visione della realtà come fatto individualistico.

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  • L’estetica libertaria e la presenza di una dicotomia

    Studiando il materiale presentato in questa antologia, risulterà chiara la presenza di una dicotomia all’interno dell’estetica libertaria. Da un lato i sostenitori dell’arte « creativa », sublimata costantemente da una forza generatrice che arriva all’auto- giustificazione di qualsiasi atteggiamento; dall’altro i sostenitori dell’« arte sociale », cioè dell'arte in funzione dei compiti rivoluzionari.

    Tra lo scritto di Wagner e l'appello di Kropotkin, evidentemente, passa un abisso. A prescindere dalle evoluzioni del musicista romantico, è chiara nell’esaltazione dell’individuo creatore e distruttore l ’influenza di Bakunin, mentre in Kropotkin risulta evidente l’interesse alla costruzione di un movimento rivoluzionario che progetta il suo intervento sul fronte della lotta di classe a tempi molto più lunghi.

    Bisogna però sottolineare che 1’« utilizzazione » che alcuni scrittori anarchici, come Kropotkin, Goldman, Ryner, Pelloutier, Besnard, ecc., fanno dell’artista non intende in alcun modo « uccidere » l ’individuo creatore, ma vuole solo indirizzare la sua attenzione verso la realtà concreta della lotta sociale.

    Il contrasto riproduce, con chiarezza, il contrasto di fondo esistente aH'interno del movimento anarchico nelle sue forme più ampie, tra individualismo e comunismo libertario. Vediamo di esaminare brevemente il problema.

    L’anarchismo è il complesso delle dottrine politiche che si pongono come base l’abbattimento del potere costituito sotto qualsiasi forma esso si solidifichi (politica, morale, tradizionale, sociale ecc.) e la costruzione di una società nuova fondata sull'uguaglianza e sull’assenza di qualsiasi forma di governo e di potere.

    Dalle teorizzazioni di Godwin e di Stirner, alle realizzazioni rivoluzionarie e ai chiarimenti teorici di Bakunin e Kropotkin, agli ulteriori chiarimenti di Malatesta, fino alle grandi lotte della Spagna della guerra civile e dell’Ucraina di Mackno, l ’anarchismo è andato precisando la sua configurazione teorica e pratica, giun

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  • gendo, alle porte della nuova esplosione rivoluzionaria francese del Maggio 1968, con un grosso bagaglio di esperienze.

    Anche le teorie di Proudhon sull’autogestione e sull'organizzazione libertaria dei produttori, hanno ritrovato una nuova primavera con le esperienze, sempre parziali, comunque molto significative, della Jugoslavia, dell’Algeria, della Cina ; esperienze che con sfumature e caratteristiche ancora autoritarie e repressive, hanno comunque aperto un nuovo campo di ricerca e di discussione.

    Nel settore sindacale, a partire dal 1890, specialmente in Francia, l ’anarchismo aveva trovato un ampio consenso, arrivando a conquistare larghi strati di lavoratori all’ideologia del sindacalismo rivoluzionario.

    Contemporaneamente a questo sviluppo la costante individualista andava manifestandosi in azioni isolate e anche in azioni dettate da « gruppi di affinità », per lo più operanti nella fascia deH’illegalismo. Questi compagni sono stati accusati spesso di spontaneismo e di dilettantismo teorico. L’accusa quasi sempre non è sostenibile. L’individualista anarchico non afferma mai la prevalenza assoluta dell’azione sulla dottrina, ma la necessaria compenetrazione delle due cose. Se sostiene la distruzione, lo fa nella dimensione della volontà creatrice, volontà chiarificatrice e costruttrice nella stessa distruzione.

    Alla fine del secolo si avevano quindi, tra le molte sfumature, due posizioni chiaramente distinte, quella individualista e quella determinista. La prima aveva tendenze svariate (tra le quali emergeva come fatto veramente eccezionale l'interesse per il problema sessuale e per la liberazione della donna); la seconda si rifaceva all’insegnamento di Kropotkin.

    In effetti l ’insegnamento tradizionale di Bakunin presentava un sincretismo molto interessante tra il volontarismo stimeriano e l'analisi economica proudhoniana, analisi quest’ultima che chi è avvezzo alle opere di Stirner sa bene in che considerazione sia tenuta dal filosofo tedesco. È Malatesta, nel 1897, anno in cui scrive L’Anarchia, ad uscire dal bakuninismo e dalla dimensione kropotkiniana per costruire un'interpretazione originale, frutto della combinazione di volontarismo e organizzazione. Il teorico

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  • e rivoluzionario italiano, infatti, aggancia il volontarismo, rivalutando pertanto l’individualismo, all’organizzazione e dichiara che senza quest’ultima la società non può sussistere.

    Quindi la soluzione della dicotomia tra individualismo e comunismo, anche nel campo dell'estetica libertaria, può essere trovata nel volontarismo.

    È del tutto errata l’affermazione che la volontà rientri necessariamente nell’ambito dell’irrazionale e quindi vada considerata con circospezione. Evidentemente, attraverso la volontà possono essere rivalutati atteggiamenti molto diversi, come ad esempio quello della volontà di potenza, ma il problema, a nostro avviso, va posto in altri termini.

    Una volta che definiamo irrazionale la volontà dobbiamo avere le idee chiare nei confronti di cose la razionalità. Non possiamo essere d'accordo con Hegel e con la sua affermazione che tutto ciò che esiste è razionale, in quanto, se in questo modo la volontà, solo perché esistente, diventerebbe razionale, non ci sarebbe più possibilità di distinguerla da forme di azioni « veramente » irrazionali e quindi fasciste (come ad esempio la volontà di potenza).

    È opportuno quindi distinguere tra la razionalità nel senso di « ragion d’essere » e la razionalità nel senso di « ciò che ogni individuo, in una precisa situazione di classe, deve fare in base alla propria coscienza morale ». Il primo senso del termine « razionalità » è un senso statico, valido per ricercare motivi e connessioni nella realtà; il secondo senso è un senso dinamico, indispensabile per l ’azione pratica. Questa che suggeriamo potrebbe essere una strada per superare l’apparente separazione tra ragione e volontà, tra razionale e volontario, tra determinismo e volontarismo.

    In questo modo stabiliamo un rapporto preciso tra volontà e moralità, tutte determinate storicamente dalla situazione di classe. La volontà determina quindi un’azione che trova un limite nella moralità dell’individuo, che non è un’entità astratta, ma qualche cosa che nasce dalla modificazione dell’evento storico della lotta di classe, per cui finisce per trovare la sua giusta collocazione nella realtà concreta dove, appunto, questo evento

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  • è in corso di svolgimento. Così siamo riusciti a « razionalizzare l'irrazionale » con un procedimento identico a quello che viene impiegato, poniamo, nella giustificazione della violenza. La violenza, considerata in se stessa, come fatto primigenio, è un evento irrazionale, considerata in funzione di una limitazione morale (violenza difensiva di fronte all’attacco costante dello Stato) diventa evento razionale perché trasformato dall’altro evento razionale, molto più ampio e generale, che è la lotta di classe.

    In effetti il volontarismo anarchico esiste sia nella dimensione individualista che in quella comunista libertaria. Questa realtà è verificabile molto chiaramente nella dimensione estetica. Ed è proprio per questo che Proudhon diceva che « più si studia l'arte e più ci si rende conto della necessità della rivoluzione sociale ».

    Lo svolgimento storico dell’estetica libertaria

    Gli inizi accertati sono da collocarsi nei primi decenni del secolo XIX. L’eredità illuminista, personificata da Diderot in particolare, non può considerarsi determinante a stretto rigore storico. L'unico teorico del secolo XVIII che occorre tenere presente è Godwin. Diderot insiste molto sulla necessità di fare qualcosa per la classe indigente, punto di partenza di molte altre considerazioni che assumono forme riformiste e pietiste. Godwin, al contrario conclude per la condanna assoluta della funzione del Governo e per un suggerimento di autodifesa ed autorganizzazione delle masse. In questa prospettiva la funzione dell’arte gli pare non poco dubbia. Se l ’uomo deve educarsi a fare da sé non potrà più accettare il ruolo di « esecutore » di opere altrui. Da ciò l’esaltazione di una creazione artistica continuata e l ’apertura dei primi dubbi sulla possibilità reale di eseguire, tra l ’altro, opere sinfoniche.

    La problematica di Stirner è diretta ad approfondire il ruolo dell’individuo nei confronti della società repressiva e dello Stato. « Chi deve sprecar la vita per poter campare, non la può godere,

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  • e chi si limita a cercare la sua vita, vuol dire che non la possiede e tanto meno la può godere : entrambi sono poveri... ». In questo modo L’Unico indica ancora una volta la strada del « fare da sé », cioè la strada dell’autogestione, per usare una parola moderna. Tutti i compiti che la tradizione e la borghesia assegna all'uomo, compiti ideali e fittizi, compiti che lo portano sui sanguinosi campi di battaglia, sono falsi : l ’unico compito è quello di vivere, come un fiore o un uccello. Comincia l'aspirazione alla natura che, come vedremo, sarà un motivo costante dell’anarchismo in estetica. I figli dei fiori, ai giorni nostri, si ricollegano a questo « diritto alla gioia », alla « mia gioia » affermato da Stimer.

    In Proudhon la critica della società, lo studio delle contraddizioni della scienza economica che si pone come interprete ufficiale di questa società, sono gli elementi fondamentali di una critica parallela all'arte. Emerge il concetto di « arte parziale ». Lo sviluppo delle diverse attività artistiche è avvenuto nel caos e nello spontaneismo più brutale. La tragedia, la commedia e la musica sono arrivate ad un alto grado di perfezione, mentre altre attività artistiche sono più arretrate, ne consegue che l ’opera d’arte, oggi, non è possibile se non come prodotto individuale, staccato da una realtà oggettiva, collocato in una dimensione cortigiana. Questo è il concetto di « prodotto artistico collettivo » che, secondo Proudhon, sarà possibile solo in futuro. Diventa così un’assurdità l’idea dei grandi uomini, mentre la scomparsa del loro mito diventa una garanzia di affrancamento.

    Arte collettiva, quella suggerita da Proudhon, ma anche « arte in situazione ». Solo una situazione reale può far diventare reale il prodotto artistico, il resto rientra nel vuoto delle immaginazioni. Se il talento è una creazione della società, può estrinsecarsi in maniera positiva solo a contatto con quelli che sono i problemi della società che l’ha prodotto.

    Bakunin non sviluppò in scritti organici i propri pensieri sull’arte. Da ciò la difficoltà che si trova nel cercare di rintracciarli. Il punto di partenza è lo spirito distruttore e creatore insieme, messo in evidenza nello scritto giovanile La reazione in Germania. In sostanza, e qui dobbiamo distaccarci dalle inter

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  • pretazioni correnti, questo inizio non durò a lungo in Bakunin, anche il suo rapporto, invero più creditore che debitore, nei confronti di Wagner, fu solo una breve parentesi nella vita del rivoluzionario. La rivolta, di cui Bakunin si fece interprete, resta sempre nei limiti della prospettiva sociale, rivolta non metafisica ma concreta, perseguita con ostinazione in diversi momenti storici rivoluzionari e non soltanto sognata o descritta in alate pagine rivoluzionarie. Per Bakunin la rivoluzione è una festa. Questo è vero. Ed è quanto ritroviamo nei concetti dei più recenti tentativi rivoluzionari partiti dal 1968 francese. È la rivincita della gioia sulla mestizia e sulla contrizione, la rivincita della vita sulla morte. E la vita è sempre gioia. Riguardo le sue esperienze del 1848 Bakunin scrive : « Fu una festa senza inizio e senza fine, vedevo tutti e non vedevo nessuno, perché ognuno si perdeva nella stessa folla innumerevole ed errativa; parlavo con tutti senza ricordare né le mie parole né quelle degli altri, perché l’attenzione era costantemente assorbita da fatti e cose nuove, da notizie inattese ». È la tematica della guerriglia psicologica attuata in America e in Giappone : i rivoluzionari giapponesi che cantano il loro equivalente di « giro, giro tondo... » davanti ai poliziotti armati fino ai denti ; gli incitamenti di Albert, di Hoffman, di Rubin; lo spogliarsi davanti le urne elettorali; le manifestazioni politiche che diventano teatro nella strada e concerti di musica popolare all’aperto.

    Accanto a questo la coscienza che gli ingegni più illustri non hanno mai fatto nulla per il popolo e che la vita del popolo, l ’evoluzione del popolo, il progresso del popolo sono esclusiva- mente opera del popolo. Per Bakunin il rivoluzionario deve essere pronto a tutto per mandare avanti la sua lotta, pronto a qualsiasi cosa, anche a trasformarsi in buffone, tamburino, saltimbanco, prestigiatore... qualsiasi cosa purché sia capace di attirare la simpatia delle masse e trascinarle verso l’obiettivo rivoluzionario. È per questo che nelle Confessioni scrive: « ...ebbi sempre un difetto capitale : la mania del fantastico, delle avventure straordinarie e inaudite, delle imprese che aprono allo sguardo orizzonti illimitati e il cui esito nessuno può prevedere ».

    Coeurderoy occupa un posto a sé nella storia dell’anarchismo.

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  • Medico, rivoluzionario, scrittore tra i più arditi e prestigiosi (oltre che tra i più dimenticati) della letteratura francese, suicida. Un uomo straordinario, una vita straordinaria, straordinaria visione di se stesso e dell’arte. L’arte è verità, esattamente il contrario del calcolo e della previsione, della carriera e del desiderio di primeggiare. L’arte è umiltà, assenza di orgoglio, coscienza del proprio valore, certezza di quello che si vuole. L'arte non tiene conto dell'opinione altrui, procede diritta allo scopo, in questo modo « l’arte per i borghesi è come l ’acqua per i cani idrofobi ». Il valore dell’individuo è il punto di partenza del prodotto artistico e la sola possibilità di valutazione. La volontà di creare una trasformazione radicale nella società che ci circonda, di concorrere al processo rivoluzionario è l'altro parametro indispensabile. L'individualismo di Coeurderoy esalta la forza creatrice dell’artista che è capace da solo di superare i limiti assegnatigli dal potere, rompendo strutture e convenzioni, giudizi e tabù. Esaltazione della forza e della creatività, l ’opera di questo scrittore eccezionale è anche una calma analisi delle vere possibilità di una rivoluzione, quando, ad esempio, dopo avere analizzato i motivi del fallimento della rivoluzione del 1848 esclama: « E vi è ancora gente che crede nello spirito rivoluzionario dei droghieri! »

    Il « caso Wagner » può considerarsi una meteora borghese e, come tale, troppo rapida e violenta — nella sua stessa inutile consistenza — per dare il segno di una realizzazione rivoluzionaria. Nietzsche ha cercato a lungo le origini del periodo rivoluzionario di Wagner, ma non ha fatto riferimento a Bakunin. Il motivo è semplice. L’influenza di Bakunin su Wagner fu grande, all’inverso sul rivoluzionario russo gli atteggiamenti del musicista dovettero influire solo quel tanto necessario perché portasse a termine le sue trame che dovevano concludersi nel fallimento della rivoluzione a Dresda. Comunque, a parte gli scritti specifici sull’arte, che ci sembrano a dir poco troppo ripetitivi, il testo che abbiamo riportato nell’antologia, ci pare sufficiente a inquadrare i limiti di Wagner. La forza creatrice appare come qualcosa che dovrà modificare il mondo, abbattendo la miseria del crimine, l ’autorità, le leggi e la proprietà. Ma nessuno sforzo è fatto per

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  • individuare il corrispettivo reale di questa forza, cioè la sua componente storica (gli sfruttati). Lasciando il problema in questi termini, la forza creatrice sembra qualcosa di ideale o (peggio ancora) di biologico e quindi di astorico e, anche solo per questo, di reazionario. Wagner segna il limite estremo della riflessione individualista anarchica, oltre il quale non possiamo più seguire i non pochi simpatizzanti di questa forza primigenia, oltre il quale siamo certi di trovare il nulla assoluto. Non a caso Wagner finì i suoi giorni tra i peggiori dei reazionari.

    Con Reclus comincia a svilupparsi la tendenza determinista dell'anarchismo. Grande geografo, amico di Kropotkin, scienziato di fama mondiale, secondo di cinque fratelli tutti impegnati sul fronte della rivoluzione sociale, Reclus descrive la città del futuro, la città comunitaria che non poco posto occuperà nei disegni estetici dei teorici anarchici successivi. Questa città dovrà essere fatta a misura dell’uomo e la « casa del popolo » dovrà sostituire quello che oggi è il palazzo del re. L’infinita varietà degli stili e delle forme troverà una coordinazione estetica nell’ideale collettivo che finirà per distruggere l'elemento individuale nell’arte. La fraternità prenderà il posto della religione facendo risorgere l ’arte per lo stesso motivo per cui la religione l ’aveva uccisa.

    Tolstoi ha sempre rappresentato un contrasto aH’interno del movimento anarchico. Sebbene le sue idee sul governo e sul potere siano in linea con l'ideologia anarchica, la sua fede religiosa costituisce un ostacolo non trascurabile per poterlo considerare un anarchico. La distruzione dell’arte, nel suo pensiero estetico (distruzione che potrebbe aver ricavato dal nichilismo russo), può essere evitata solo a condizione che l’arte divenga autenticamente arte religiosa. La coscienza religiosa sostituisce quindi la coscienza collettiva di Proudhon. « C’è sempre, in ogni epoca e in ogni società umana, una coscienza religiosa del bene e del male comune a tutti gli uomini di tale società, ed è questa coscienza religiosa a determinare il valore dei sentimenti espressi dall’arte ». In questo modo la cattedrale medievale diventa espressione non solo della creazione collettiva ma anche della religiosità collettiva del popolo. L’edificio gotico simboleggia la solidarietà e l ’unità

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  • sotto la religione popolare. In questo modo arte significa innocenza. « La fanciulla che s’intreccia una coroncina di fiordalisi, la donna che infila una collana di conchiglie, di gemme o di perle, e il guerriero che per rendersi più temibile s’agghinda con una pelle d’orso o di leone, sono tutti artisti ».

    Kropotkin è forse il più grosso teorico dell’anarchismo, almeno il solo che abbia cercato di dare assetto sistematico alla dottrina anarchica sulla base delle ricerche scientifiche del suo tempo. La sua concezione risente, a nostro avviso, del determinismo della scienza del secolo scorso e quindi non può essere accettata in blocco. La critica avanzata da Malatesta può essere la base per una revisione molto interessante del suo pensiero. Questa sua stessa posizione lo porta ad accentuare l’utilizzazione dell'arte in senso rivoluzionario. All’artista viene chiesto un impegno preciso, la subordinazione del « fuoco sacro » ai bisogni dell'umanità. Su questa strada il cammino può essere molto pericoloso. Kropotkin spesso non si accorge delle limitazioni del suo discorso. Quando nell’Appello ai giovani scrive : « Dite alle donne quale nobile carriera è quella del marito che dedica la propria vita alla grande causa dell’emancipazione sociale! ». Come se le donne avessero solo la carriera di moglie e non anche quella altrettanto possibile di lottare per l'emancipazione sociale. Su questa strada si arriverà diritto alla firma del manifesto di adesione alla guerra (Manifesto dei Sedici). Lo sviluppo dell'arte è legato alla possibilità di ricostruire le autonomie locali. È per questo che l’arte medievale viene vista come l ’arte sociale per eccellenza. « Come l ’Acropoli di Atene, anche la cattedrale di una città del medioevo veniva innalzata col proposito di glorificare la grandezza della città vittoriosa, simboleggiare l’unione delle arti e mestieri, ed esprimere la fierezza di ogni cittadino per la città di sua creazione. Dalla città alfa federazione di città. Quindi l'arte del futuro si ispirerà alla federazione alle associazioni operaie e di comune. La sua condanna del realismo è fatta a nome dell’idealismo che deve guidare la descrizione della realtà. In questo modo Zola, lo scrittore contro cui dirige gli strali peggiori, costituisce una grave limitazione al compito rivoluzionario dell’artista, in quanto non supera il momento de

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  • scritto, non si interisce nel rapporto idee-realtà e quindi non arriva a fare comprendere in che modo questa realtà di miseria e di sopraffazione è prodotta.

    Armand, collaboratore di Libertad e del giornale individualista L’Anarchie, facente parte dello stesso gruppo di Victor Serge, accusato di connivenza con la banda Bonnot, è il teorico più conseguente dell'individualismo francese, possibilista e progressista. L’arte deve essere vista in funzione dell’artista in quanto è quest’ultimo il punto vitale del rapporto arte-artista. Al contrario l ’arte per l'arte e l ’artista per l ’arte significherebbero sacrifici e non sensi.

    Anche con Sorel il problema della città ideale resta al centro dell’attenzione. La sua città estetica è la città proletaria di domani. Quella di oggi, la città prodotta dagli sforzi dello sfruttamento e dalle idiozie borghesi non è altro che decadenza e morte. Non importa se si tratta di arte accademica o di arte d'avanguardia, ambedue queste soluzioni sono sotto il segno della morte. Anche in Sorel emerge il problema della ricostruzione dell’arte integrale e quindi collettiva, ricostruzione in quanto in passato, nell’architeturra dei templi, nelle tombe, nelle cittadelle, nei riti religiosi, questo senso del collettivo e del globale esisteva e si realizzava. « Nella più lontana antichità, l ’arte aveva chiamato a sé numerosissimi cittadini : la grande importanza delle danze sacre era in parte dovuta al fatto che esse radunavano tutti i cittadini in veste di esecutori, e lo stesso dicasi del valore attribuito ai cori e alle feste pubbliche ». Si vede qui, nel concetto di esecutore come totalità, come il pensiero estetico dell’anarchismo si ricollega addirittura a Godwin, mantenendosi sempre sulla costante dell’esperienza e della realizzazione collettiva. Il futuro dell’arte per Sorel verrà raccolto dall'unica forza viva attuale: il proletariato. La città estetica di domani sarà la città operaia. In questo modo l'arte ritorna al servizio della società.

    I sindacalisti, Pelloutier, Besnard, ecc. si trovano nella stessa direzione di Kropotkin, per loro l ’arte diventa un problema del dopo, cioè un problema di quando si saranno organizzate le strutture sindacali adatte a garantire il passaggio rivoluzionario alla società di domani. In questa prospettiva l’appello di Pellou-

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  • tier (il creatore delle Borse di Lavoro) è molto simile a quello di Kropotkin.

    In Rocker la superiorità della cultura è garantita dalla sua ineliminabile componente anarchica, ed è per questo che essa è superiore allo Stato e che può guardare con sufficienza qualsiasi manipolazione in senso nazionalistico. Anche per Rocker le grandi componenti creative dell’arte si stabilizzano nel momento in cui fiorisce l'autonomia della città e l'organizzazione federalista della società. Le riflessioni anarchiche sull’arte si rivolgono costante- mente al futuro. Questo sarà, tra gli altri, uno dei motivi della loro validità odierna.

    Camus segna con grande maestria il significato essenziale del rapporto arte-rivolta. Pone il parallelo tra rivolta dell’artista e dell’oppresso e, dall’altro lato, indica le reazioni parallelamente reazionarie del potere verso l'uno e verso l’altro. Il tema della creatività e della rivolta, il suo inserimento nell'arte contemporanea, il suo rapporto con la lotta di classe oggi, sono intesi da Camus con grande sensibilità. Wagner e Bakunin sonnecchiano accanto ad uno sbiadito Marx che la non ortodossia di Camus trascura attentamente di citare. Se « creare oggi, è creare pericolosamente », lo è perché l'uomo crea nella storia e, in questo modo, opera modificazioni che disturbano i programmi del potere.

    Tutto un capitolo avremmo potuto dedicare ai rapporti tra simbolismo e anarchismo, tra surrealismo e anarchismo, tra Dada e anarchismo ecc. Ma si tratta, per la maggior parte, di rapporti transitori e scontati, oltreché discutibili. I tentativi di Mallarmé riguardo l ’arte « totale » stabiliscono un filo logico che arriva fino a Duchamp e la sua « sposa », ma la base teorica di questi spunti è debole. Esaminando, ad esempio, una dichiarazione di Duchamp apparsa su Art News nel 1957 si scoprono limiti addirittura impensabili. Duchamp dichiara : « In ultima analisi, l ’artista può gridare ai quattro venti che è un genio, ma dovrà aspettare il verdetto del pubblico perché le sue dichiarazioni acquistino un valore sociale e che infine la posterità lo includa nei libri di Storia dell’Arte. Io mi rendo conto che questa affermazione non incontrerà l’approvazione di numerosi artisti... ». Si vede qui una grossa limitazione di certi aspetti dell'arte « glo-

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  • bale » : l'eccessivo tecnicismo che finisce per nascondere, spesso, un’aridità di idee che altrimenti sarebbe emersa prima, e abbastanza chiaramente.

    Cage è il compositore che scrisse 4 m e 33 s, che ha aperto le porte della nuova musica. Quattro minuti e trentatrè secondi fu suonata nel 1952 per la prima volta dal pianista David Tudor. Il pianista doveva restare perfettamente immobile davanti al pianoforte per la durata prescritta. La « musica » consisteva nel tossire e nel raschiarsi la gola, rumori del pubblico durante la « esecuzione » del pezzo. In questo modo questi « rumori » entravano nel concetto di musica non intenzionale, trasformando le strutture della musica tradizionale. Oggi, a detta dello stesso Cage, il pezzo suddetto è superato in quanto presenta una lunghezza prestabilita o determinata. Fare della musica consiste per Cage nell'esplorazione di sé partendo dall’interno di una collettività. Allo stesso modo di Bartòk, che cercava nella musica contadina l’essenza delle composizioni da ricostruirsi a prescindere da qualsiasi elaborazione tecnica, in quanto la musica contadina, dal punto di vista formale è quanto di più perfetto possa esistere, così, Cage, insiste nella perfezione di tutto ciò che risulta esterno alla composizione cristallizzata, cioè, nel caso specifico dell’esecuzione pubblica, tutto ciò che può considerarsi partecipazione inconscia dello spettatore. In questo modo la composizione diventa inutile, o occasionale, dove cerca di imporsi finisce per abortire come oggetto artistico. Secondo lo stesso Cage : « la composizione riguarda un tempo ideale in cui una scarpa è sempre una scarpa, mentre dobbiamo guardare ad un tempo reale in cui un agnello è qualche volta un leone ». In questo modo, per lui, la musica è estasi e intelletto. Siamo davanti ad una espressione individualista che cerca di fondare il momento della costanza interpretativa del singolo all’interno della dimensione collettiva. Per quanto possa essere pericolosa questa strada è la sola che conduce alla costruzione della società di domani, società che non potrà mai nascere dall’appiattimento dei valori, dall’uniformità del gusto e del sentire, ma, al contrario, dalla super- valutazione di ogni sforzo del singolo all’interno della dimensione di massa.

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  • Beck ripropone a livello teorico le realizzazioni del Living Theatre. Il problema è grosso ed è stato trattato ampiamente. Le limitazioni delle conclusioni in happening (in pratica il periodo di Paradise Now) sono note, ma non è in questo senso che dobbiamo affrontare la nostra analisi. Il fatto primordiale ed essenziale è stato il tentativo di rompere — con le proprie mani, come disse Malina — la barriera pubblico-attori, barriera che contrassegnava il teatro della morte, superando in questo lo stesso Artaud che avendo accettato le strutture stesse del teatro (modificate) finiva per essere un riformatore. Se si pensa alla collaborazione di Artaud con Roger Vitrac si comprende il passo fatto dal Living, possiamo dire, in perfetta autonomia. Il Living non ha tentato soltanto di riprodurre (imitare) la rivoluzione, ma di realizzarla. In questo modo diventa fase attiva, necessario passaggio al teatro nelle strade. Il rifiuto del teatro non è rifiuto di un certo teatro, è rifiuto del teatro come spettacolo e anche, sotto certi aspetti, del teatro come comunicazione. « Il teatro dell'anarchia è teatro dell’azione ». Proudhon non avrebbe detto diversamente. È arte totale in situazione. Arte dell'emergenza della coscienza rivoluzionaria, arte della consapevolezza, arte della violenza liberatrice, arte che distrugge la schiavitù del denaro, arte anti-polizia, arte che scava nella profondità della mente per cercarsi l ’un l’altro, arte che distrugge i sistemi della civiltà, arte che sviluppa il corpo e la mente, arte che distrugge il concetto di comprare e di vendere, arte-denuncia della vita e del suo orrendo aspetto.

    Bakunin e il suo concetto della gioia rivoluzionaria, Proudhon e il concetto di arte in situazione, Godwin e il concetto di impossibilità dell’esecuzione e della comunità creatrice, Sorel e il concetto di città estetica, Tolstoi e il concetto della religiosità dell'arte: tutti sono presenti, con una impressionante continuità logica che è testimonianza dell’autonomia e della vitalità dell’estetica libertaria.

    Stimolante lo scritto di Dubuifet, e per le sue conclusioni e per il rifiuto della dimensione costruttiva della cultura borghese. È la componente creatrice che ritrova la sua difesa ad oltranza, l ’ammissione della non possibile utilizzazione in sen

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  • so rivoluzionario della tradizione culturale borghese. Al contrario, questa, opera un condizionamento, che comincia con la scuola, che è specificamente diretto alla costruzione dei « funzionari della cultura ». Anche in Dubuffet emerge il concetto della città estetica futura di origine soreliana. In questa città tutti saranno attori, nessuno « eseguirà » qualcosa. Niente cultura, niente teatro, niente scena, niente pubblico. L'arte non sarà più delegata ma sarà gestita in proprio. È su quest'ultimo punto che si ferma in particolare Daniel Mothé, ripresentando le tesi notissime di Socialisme ou barbarie, l'importante rivista francese che ha saputo sviluppare le migliori componenti teoriche dei problemi autogestionari contemporanei.

    Con i fenomeni Yippie (Youth International Party) e col teatro di guerriglia di cui riportiamo nell’antologia un scritto di Ronnier G. Davis, direttore della San Francisco Mime Troupe, un gruppo teatrale impegnato in questi esperimenti ; si arriva agli anni del 1968. Su questa linea il raffronto e l ’approfondimento è tuttora in corso. Basta pensare alla guerra psicologica dichiarata dal movimento Yippie alla polizia americana per rendersi conto del concetto di gioia e del rapporto tra gioia e rivoluzione, concetto che, come abbiamo visto, era stato intravvisto da Bakunin. Le scritte murali della Parigi rivoluzionaria del Maggio 1968 concludono la nostra scelta senza che in questo modo si voglia intendere che un fenomeno si sia concluso. Il corso delle cose non ammette interruzioni, il ritmo rivoluzionario può non corrispondere ai contraccolpi del motore capitalista, ma procede costante verso la sua meta.

    Dobbiamo suonare il piffero per la rivoluzione?

    La classica domanda, dopo la scorsa allo svolgimento storico dell’estetica libertaria, non ha più ragione d’esistere. Eppure, anche aH’intemo della dimensione anarchica sussistono situazioni oggettive che spingono verso una strumentalizzazione delle forze

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  • disponibili per la rivoluzione. Non si tratta della stessa problematica marxista che coinvolge tutto in questa prospettiva, dovendo dar forza e consistenza ad un partito considerato avanguardia e rappresentante del proletariato. Più semplicemente si tratta di piccole concessioni, sacrifici ai quali l ’artista viene chiamato per assolvere il compito « essenziale » di aiutare i propri fratelli caduti nella miseria.

    Eppure in questo modo il discorso non funziona. Non possiamo accettare che qualche individuo, in questo caso l ’artista, speculi, organizzi, promuova, cerchi di dar forma ad una collettività nella collettività, abnorme ed assurda, immediatamente oggetto di « rigetto ». Non possiamo pensare ad un dialogo, por- tantesi dietro la propria falsa coscienza. Sorgerebbe una nuova forma di violenza, diretta alla mortificazione della libertà altrui, della stessa libertà di soffrire e morire in pace. È questo ciò che intendiamo una produzione artistica per il popolo: stabilire contatti tra sensibilità diverse, manipolare le reattività normali in assenza di difesa reale da parte del fruitore, vincolare ad una pretesa verità ideologica, dimostrare, ragionare, filosofare, costruire progetti estetici, ma non vivere.

    I fatti, le cose, gli oggetti, i rapporti che li garantiscono e li connaturano, restano lì, perduti nella mancanza di un tramite comune, nell'assenza di una comunicazione diretta delle cose. Con la stessa ottusità con cui viviamo gelosamente soltanto il nostro modo di vivere, con la stessa ostinazione con cui ci impediamo costantemente di aprirci a esperienze nuove, a quello che gli altri fanno, con la stessa pecorile adesione con cui accettiamo soltanto quello che l’organizzazione commerciale del sistema ci dice essere il prodotto ottimale; ci trasferiamo nel rapporto con la realtà esterna, con ciò che invece è realmente contratto in una appercezione delle cose che assume consistenza di lotta, di rivendicazione, di progressiva presa di coscienza, di necessitante affrontamento con l'altra parte della realtà. E pretendiamo assegnare ricette di lettura, ricette discorsive che i nostri maestri ci hanno imposto, che le mode ci hanno versato sul capo; pretendiamo assegnare ricette di masturbazione tecnico-linguistica, che

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  • ancora una volta le mode ci hanno indicato come esclusivo punto di riferimento di una afasia costruttiva.

    Un progetto estetico mutuato in questa prospettiva ci appare deforme e deformante non per le premesse (andare verso il popolo) che, orientativamente, potremmo dire geograficamente, possono essere esatte; ma per le precarietà prospettiche di una contemporanea liberazione. La chiusura di un simile progetto, la sua autorità indiscutibile, il suo intento didascalico, ci atterriscono. Tutte le migliori intenzioni finiscono per cedere all’idea che le guida quando questa è cieca obbedienza al sistema, al principio, alla norma onniregolante. In questo caso ci appare necessario sopprimere anche il progetto estetico, sopprimere le idee articolate, sopprimere le fasi comunicative, sopprimere le notazioni, le intenzioni, la stessa necessità di fissare la concordanza mentale del progetto. Se questo viene ridotto ad un’idea madre (educare il popolo in vista della rivoluzione) la decisione conclusiva e la gestione della comunicazione devono avvenire necessariamente da parte di una minoranza ben precisa, un’avanguardia padrona della verità, portatrice del bene, guida illuminata del popolo ottuso e incapace di ragionare. Tutta la problematica del progetto rivoluzionario di tipo autoritarista si trasferisce così nel progetto estetico. Il prodotto-artistico diventa semplice proiezione di tale idea guida, la sua coscienza liberatoria scade di livello, cessa ogni intenzionalità nella chiarezza e nell’umiltà, ci si avvia verso la costruzione di una nuova forma di dispotismo post-rivoluzionario, si gettano le basi del dispotismo artistico.

    Al di là della frantumazione del progetto estetico (soluzione indispensabile se pensassimo aìTimpossibilità di un’alternativa) insistiamo per la costruzione di un progetto estetico liberatorio, parallelo al progetto rivoluzionario elaborato dalle masse. In questo senso il compito dell’artista sarebbe quello di registrare questa elaborazione, nelle sue varie fasi, porla in relazione analitica con la documentazione causale, sviluppando su questa base il proprio progetto. Il rapporto finale tra progetto estetico, così inteso, e progetto rivoluzionario non sarà necessariamente univoco, cioè non sarà necessariamente l’artista ad andare verso il

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  • popolo portandosi dietro la sua cultura e le sue pretese dottrinarie, ma sarà un incontro: il popolo andrà verso l ’artista per suggerirgli la sua cultura, le proprie necessità, i propri punti di vista, le proprie scoperte : tutte questioni « reali » nascenti dal- l ’evolversi della lotta.

    Spetterà alla sensibilità dell’artista raccogliere questo patrimonio di purezza rivoluzionaria, separarlo da tutto quello che la macchina dell’integrazione borghese trasferisce al suo interno come scorie e deformazioni, assorbirlo a livello coscienziale. È in questo senso che intendiamo valida la sperimentazione tecnicolinguistica, la frantumazione della rappresentazione nel senso di salvare il continuo che è la vita negando l'artificiosità del testo completo, voluto e pensato da un solo autore. È in questo senso che riteniamo logica e legittima l’espansione del materiale culturale nel senso di tensione dell’oggetto verso la descrizione intesa come valore minoritario di fronte all’intuizione. È in questo senso che riteniamo ripresentabile sotto nuova forma anche il problema stilistico, notevole apporto al farsi concreto del progetto artistico.

    La mortificante evirazione della forza rivoluzionaria dell’artista, qualificante un certo disegno societario che intendiamo negare, sarà evitata se saremo capaci di mantenere quei termini di chiarezza e umiltà che ci impediranno di cadere da un problema grave in un altro più grave : dal totalitarismo all’estetismo, dalla massiccia negazione del valore liberatorio dell’arte alla sua altrettanto massiccia vanificazione nell’albume estetico. Riconoscere la forza liberatoria del prodotto artistico non significa abbandonarsi a deviazioni revisioniste sul problema centrale che è e resta quello rivoluzionario, significa riconoscere che dall’appiattimento dei valori e delle possibilità umane non potrà mai venire fuori la vera liberazione dell’uomo, al più potrà costruirsi un fantasma avvolto nella bandiera rossa della libertà proprio per nascondere le nefandezze di un nuovo tipo di dittatura.

    Così, nell’estraneità del messaggio dottrinario, il proletariato continua la sua lotta, ostacolato da ogni parte da catene integratrici : il potere centrale dello Stato, il potere periferico, le trovate pubblicitarie che lo vincolano al consumo, il riformismo dei tradizionali partiti della sinistra parlamentare, il freno dei

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  • sindacati. Occorre affinare la propria sensibilità per comprendere questo linguaggio nuovo che emerge dal quartiere come punto d’incrocio tra la problematica di fabbrica e quella della campagna e la problematica complessiva del contesto sociale. Il quartiere povero deve essere considerato come un grande laboratorio dove si costruisce la sensibilità rivoluzionaria di domani.

    Se lo stimolo alla produzione estetica è, come abbiamo detto, da considerarsi indirizzato verso il basso, nell’intenzione di una globalità che, al momento, può essere soltanto parziale, non possono essere poste alternative diverse da quelle sottolineate dalla collettività stessa che, in definitiva, pone l ’occasione estetica. Occorre smetterla con l ’offrire medicine prefabbricate, ricette infallibili ; al contrario bisogna mettersi al lavoro per sensibilizzare la massa attraverso azioni estetiche ed occasioni tecnicolinguistiche. Questa è un’alternativa storica : tra qualche decennio il silenzio calerà definitivamente sulla vecchia concezione del prodotto estetico.

    Il problema dell’Integrazione estetica.

    Occorre fare una piccola distinzione preliminare. Lo scopo dell'arte non può che essere rivoluzionario, le sue singole manifestazioni (varie specialità artistiche: poesia, narrativa, musica, pittura, scultura, teatro ecc.) possono, essendo appunto parziali, dare l’impressione di restare significanti anche non essendo rivoluzionarie, restando, cioè, legate al gioco del potere.

    Il problema non è di forma ma di sostanza. Non è infatti l ’integrazione scolastica delle arti che necessita alla creazione della nuova arte rivoluzionaria, ma l’integrazione tra l'arte e la realtà, che nel suo aspetto oggettivante diventa tecnica politica, cioè tecnica sociale di vita.

    Ricordando le affermazioni di Beck, nel definire il programma del Living Theatre, ci colpiscono le parole : « Lo scopo del teatro

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  • rivoluzionario è d’intensificare la violenza fino a quando esso si distrugge o fino a quando è il sistema a disintegrarsi ». Riteniamo personalmente che la parola « teatro » in questo contesto vada interpretata in senso, appunto, « integrativo », cioè nel senso che si tratti di un teatro comprendente tutte le diverse forme della manifestazione artistica nello stesso tempo, ridotte a prodotto artistico emergente da una situazione contingentale, affinata, via via, dalla sensibilità preveggente dell’autore.

    Cumuli di comportamenti derisori distruggerebbero la sottile azione liberatoria di un’arte parziale: la proiezione nostalgica della vita interverrebbe con la grazia di un bottegaio a chiederci perché. La scomposizione del fruitore in pubblico-lettore-cooperatore sarebbe un'azione fallita in partenza. Al contrario, quando si parte dal presupposto che la realtà è un fatto indissociabile nella sua contestualità, che la vita è spettacolo completo (un giorno di mercato è rappresentazione totale : mimica, arte scenica, musica, poesia, narrativa, teatro ecc.), allora ci rendiamo conto come i nostri piccoli pacchetti (prodotto-artistico) rappresentano solo la merce e sono, come tali, soggetti alla legge di mercato.

    Questo progetto può sembrare assurdo in quanto siamo condizionati dalla specializzazione delle parti. Ciascuno sa leggere solo nel proprio campo, altrove è incompetente. Ma l’integrazione estetica del prodotto artistico non deve intendersi come la contemporanea realizzazione di una poesia, un romanzo, un pezzo teatrale, una statua, un’opera musicale ecc., quanto come la realizzazione di qualcosa (veicolo di materializzazione) che volga gli elementi totali del quadro estetico completo (suggerimento del fatto reale) rivivendoli a livello creativo individuale (prima cellula propulsiva o nucleo di difesa dell’autenticità), per inserirli in un circuito di continua composizione-scomposizione operata dal « fatto » che abbiamo chiamato pubblico-lettore-cooperatore.

    Primo accorgimento : il veicolo di materializzazione non può considerarsi un prodotto finito. L’ideologia dell’opera d’arte è in via di disintegrazione. Nata nel secolo del consolidamento della borghesia bottegaia, veniva a sostituirsi — nella cristallizzazione delle lingue — al canovaccio popolare del cantastorie, al contesto polifonico delle esperienze orali e scritte, cantate e bal

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  • late, suonate e mimate. Il bottegaio aveva necessità di una lingua commerciale che lo aiutasse nella sua opera di dissodamento del contesto sociale primitivo, che lo rallegrasse (nella versione letteraria) nei momenti di riposo, che registrasse le sorti delle sue battaglie. È l’ideologia del prodotto finito che entra nel campo artistico, travolgendo, con la connaturata delicatezza, ogni tradizione vivace di improvvisazione. Qualcosa rimane, nascosta qua e là, considerata come una deleritta parente povera.

    Secondo accorgimento : il suggerimento del fatto reale non è un’attesa passiva, qualcosa che somigli all’ispirazione di stampo classico. Il produttore artistico deve muoversi verso il « fatto », coglierlo nella sua dinamica, informarsi, documentarsi, vivere all’interno della realtà che lo produce, soffrire con essa. Ciò comporta la fine di certi atteggiamenti classici : estasi estetica, distacco aristocratico, separazione tra arte e tecnica e così via. Comporta al massimo grado una indispensabile chiarezza e umiltà.

    Terzo accorgimento : la prima cellula propulsiva resterà sempre l ’individuo-artista, creatore, nella propria unicità, di quel veicolo di materializzazione che resta come la fase essenziale del progetto estetico. In assenza di questo nucleo di difesa dell’autenticità si cadrebbe nell’appiattimento meccanico dell’arte, nella produzione in serie, nel capovolgimento di tutta la nostra tematica. La libertà del singolo verrebbe negata in nome della libertà della comunità, ma sarebbe un’operazione falsa, negatoria della vera libertà perché negatoria del processo stesso di liberazione che deve necessariamente partire dal singolo. Si costruirebbe un mostro e nient’altro.

    Quarto accorgimento : inserimento in un circuito di continua composizione-scomposizione operata dal « fatto » pubblico-lettore- cooperatore. Inversione dell’andare verso il popolo, consentita dal trovarsi di già tra il popolo, cosa quest ultima garantita dalla dinamica del suggerimento del « fatto reale ». Negazione del processo di mercificazione. Costante vivificazione del prodotto artistico nell’ambiente creativo. Riduzione della attività del produttore artistico e continua proposizione di quel suggerimento iniziale. Interruzione della separazione tra creatore e prodotto.

    A questo punto appare chiaro quello che andiamo dicendo da

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  • anni : l ’impossibilità oggettiva di distinguere tra artista e rivoluzionario, tra artista e uomo. La pratica rivoluzionaria dell’artista consiste nella negazione sostanziale della fiducia ai suoi tradizionali strumenti di lavoro, nella ricerca (anche a livello tecnico-linguistico — insistiamo su questo) di nuove comunicative, nella vita stessa, nell'azione per cambiare l’istituzione, scegliendo una prospettiva migliore di quella presente. E tutto ciò può anche coinvolgere l ’esistenza stessa del mezzo espressivo, cioè può tutto ridursi a partire ancora una volta da zero. Ma il viaggio sarà molto avventuroso, le scoperte senz’altro interessanti ed essenziali. E se, come deve essere, l ’artista si identifica con il ribelle, non saprà sottrarsi al fascino di questo viaggio in un mondo ignoto, diretto alla percezione globale di una realtà mai percepita se non a tratti e con intenti didascalici o, peggio ancora, illustrativi del sistema.

    La corporeità del prodotto artistico deve essere superata nella frantumazione del pubblico-lettore-cooperatore ma nella tutela della coscienza dell'individuo creatore che compartecipa al processo di frantumazione, che collabora alla creazione di altri prodotti artistici — all’infinito — assistendo, levatrice interessata, alla nascita di altre individualità creatrici, produttrici di altri veicoli di materializzazione che a loro volta s’inseriranno nel circuito completo del processo pubblico-lettore-cooperatore, finendo per interagire nella consapevolezza indistinta del fare. È quello che chiamiamo « spettacolo completo ».

    Muore così il feticismo della merce, l’insensibilità della creazione artistica come attività separata. Muore il mondo del passato e uno nuovo se ne annuncia.

    Catania, 26 ottobre 1975

    ALFREDO M. BONANNO

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  • ANTOLOGIA

  • WILLIAM GODWIN (1756 - 1836)

    Filosofo ed economista inglese, pastore tra il 1778 e il 1783. Subisce l’influsso della rivoluzione francese e scrive il suo libro più importante: L ’in c h ie s ta s u l la g iu s t i z ia p o l i t ic a . Il libro venne molto letto negli ambienti radicali inglesi. La sua critica del governo è apertissima, mentre resta più sfumata la critica dello Stato.

    — E n q u ir y C o n c e rn in g P o l i t ic a l J u s t ic e a n d i t s I n f lu e n c e o n M o r a ls a n d H a p p in e s s , riproduzione dell’edizione del 1798, a cura di F. E. L. Priestley, Toronto, The University of Toronto Press, 1946.

    — Traduzione italiana parziale di Mariangiola Cortese in G li A n a rc h ic i, voi. 1°, a cura di G. M. Bravo, Torino, U.T.E.T., 1971, pp. 95-305.

    B ibliografia essen zia le

    Nettlau M., B r e v e s to r ia d e l l ’a n a r c h is m o , tr. it., Cesena 1964, pp. 15 sgg. Saitzeff H., W illia m G o d w in u n d d ie A n fä n g e d e s A n a r c h is m u s im 18. J a h r

    h u n d e r t , Heidelberg, 1907.Woodcock G., W illia m G o d w in . A B io g r a p h ic a l S tu d y , London 1946.— L ’A n a rc h ia , tr. it., Milano, 1966, pp. 51 sgg.

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  • WILLIAM GODWIN

    L a p o e s ia è in d is p e n s a b ile . . . m a v o r r e i s a p e r e p e rc h é .(Cocteau)

    Il regime istituzionalizzato della proprietà è il vero sistema livellatore del genere umano, in quanto l ’esercizio dell’intelletto ha maggior valore, ed è più caratteristico dell'uomo, che non l ’appagamento della vanità o dell’avidità. L'accumulazione della proprietà trascina nel fango le facoltà del pensiero, spegne le scintille del genio e impone alla grande massa dell'umanità squallide occupazioni ; oltre a privare il ricco, come abbiamo già detto, delle ragioni di attività più sane e valide. Se venissero bandite le cose superflue, non ci sarebbe più bisogno della maggior parte del lavoro manuale dell’umanità, e, dividendo amichevolmente la restante parte di lavoro tra i membri attivi e vigorosi della comunità, esso non sarebbe più gravoso per nessuno. L’alimentazione sarebbe per tutti frugale ma sana; ciascuno si dedicherebbe a quell’esercizio moderato delle proprie funzioni corporali che allietano lo spirito; nessuno sarebbe intorpidito dalla fatica, ma tutti avrebbero tempo di coltivare sentimenti generosi e filantropici e d’applicare le proprie facoltà per cercare di migliorarsi intellettualmente. Quale contrasto offre questa scena, se confrontata con lo stato attuale della società, nel quale il contadino e l ’operaio lavorano finché le menti sono paralizzate per lo sfinimento, i nervi contratti e resi insensibili dalla tensione continua, e i corpi in preda alle malattie e portati prematuramente alla tomba? Quale frutto ricavano da questa fatica sproporzionata e senza fine? A sera, tornando a casa, trovano una famiglia affa-

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  • mata, esposta mezza nuda alle inclemenze del tempo, mal riparata, alla quale viene negata la minima istruzione, se non in rari casi, in cui questa viene dispensata dalle mani di una carità ostentata e la cui prima lezione è il servilismo senza princìpi.

    Quali rapidi progressi farebbe l’intelletto se tutti fossero ammessi al campo della cultura? Attualmente 99 persone su 100 non vengono indotte a esercitare regolarmente la loro mente indagatrice più di quanto non lo siano i selvaggi. Quale sarebbe lo stato del pensiero pubblico di una nazione se tutti fossero saggi, se ciascuno si liberasse dai ceppi dei pregiudizi e della fede implicita, se tutti seguissero i suggerimenti della ragione con fiducia, e cessasse per sempre il letargo dell’anima? È da presumere che la disuguaglianza della mente permarrebbe fino a un certo punto ; ma è ragionevole credere che i geni di un’epoca simile supererebbero di gran lunga i massimi risultati dell ’intelletto finora raggiunti. Il genio non sarebbe soffocato da falsi bisogni e mecenatismi meschini. Non dovrebbe fare sforzi, avendo in cuore un senso di abbandono e di oppressione. Verrebbe sollevato da quelle preoccupazioni che ci portano continua- mente al pensiero del compenso personale; e, di conseguenza, potrebbe spaziare liberamente tra sentimenti di generosità e di bene pubblico.

    È conveniente esaminare più da vicino il senso del termine lusso. Il determinare se sia da ritenersi un vizio o una virtù dipende dal significato che gli si attribuisce. Se con lusso intendiamo un qualcosa di esclusivo godimento di pochi, a prezzo di privazioni ingiuste e di peso parziale per gli altri, concedersi dei lussi è un vizio. Ma, se nel lusso comprendiamo, come spesso accade, quegli agi non strettamente necessari per mantenerci forti e in buona salute, in tal caso, procurarli e offrirli agli altri può esser azione virtuosa. Scopo della virtù è la moltiplicazione delle sensazioni piacevoli. L’imparzialità deve regolare la virtù, perché l'attività, che avrebbe potuto essere svolta per procurare piacere a molti individui, non venga limitata al godimento di

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  • uno solo. Entro tali confini, chi rende accessibile il piacere a sé o agli altri opera in modo degno di lode; chi invece trascura tali occasioni è criticabile. Non dovremmo consumarci per vivere, ma vivere per riempire l’esistenza con il maggior numero di godimenti puri, efficaci e reali.

    Il lavoro di mezz’ora al giorno da parte di ciascun individuo della comunità sarebbe stato probabilmente sufficiente a fornire tutte le cose necessarie per la vita. Un'attività mantenuta entro tali limiti, dunque, anche se non prescritta da alcuna legge o fatta valere per mezzo di punizioni dirette, s’imporrebbe con estrema efficacia sulle menti forti per un senso di giustizia e su quelle deboli per un sentimento di vergogna. Dopo di che, gli uomini come occuperebbero il tempo libero? Probabilmente né in ozio integrale né totalmente alla ricerca di soddisfazioni intellettuali. Vi sono molti oggetti, frutto dell’operosità umana, i quali, benché non classificabili tra le necessità della vita, sono utili per il nostro benessere.

    La fatica è ora una sventura perché viene imposta con rigore agli uomini come condizione per vivere, e perché li esclude da un'equa partecipazione ai mezzi di conoscenza e di perfezionamento. Quando la si renderà volontaria nel senso più stretto, quando cesserà d’ostacolare il nostro progresso, ma diverrà piuttosto parte di esso, o, alla peggio, si trasformerà in fonte di divertimento e di distrazione, potrà non essere più una calamità, ma un beneficio. Si dimostra così che uno stato d’eguaglianza non comporta necessariamente una condizione di semplicità stoica, ma è compatibile con un grado elevato di agi e persino, in un certo senso, con il fasto : almeno, se con tale termine intendiamo l ’abbondanza di comodità e la varietà di invenzioni per procurarle. Si può concludere, pertanto, che sembrano avere ben poca ragione coloro che confondono questo stato con quello selvaggio, o pensano che l'acquisizione del primo debba essere ritenuta un prologo al secondo.

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  • Abbiamo davvero bisogno di concerti? Il meccanismo a cui sono ridotti in maggioranza gli esecutori è così evidente da costituire ancora oggi motivo di afflizione e di ludibrio... Abbiamo davvero bisogno di rappresentazioni teatrali? Le opere drammatiche fanno appello a una cooperazione tanto assurda quanto viziata. C e da ripetere parole e idee non loro. C e da chiedersi se esisteranno ancora musicisti disposti a suonare le composizioni altrui... Qualsiasi ripetizione formale delle idee altrui mi pare una coercizione, per tutta la durata dell’esecuzione, del libero esercizio dello spirito. Forse non è esagerato parlare a questo proposito di mancanza di sincerità, quella sincerità che ci chiede di esprimere all’istante tutte le idee utili e preziose che ci vengono in mente.

    Quando l’uomo era incolto, le malattie, l'effeminatezza e il lusso erano poco conosciuti ; e, di conseguenza, la forza di ciascuno era press’a poco simile a quella del vicino. Quando l'uomo era incolto, gli intelletti di tutti restavano limitati, e così i loro bisogni, le loro idee e le loro opinioni, quasi allo stesso livello. C’era da aspettarsi che, al primo dipartirsi da questo stadio, si sarebbero presentate grandi irregolarità; ed è scopo della saggezza e del miglioramento seguenti diminuire queste manifestazioni irregolari.

    In secondo luogo, nonostante gli abusi commessi nei confronti dell'eguaglianza dell’umanità, permane una rilevante eguaglianza sostanziale. Non v’è nella razza umana una differenza tale da permettere a un uomo di tenere in soggezione numerosi altri esseri, se non fino a quando questi si pongano spontaneamente come tali. Ogni governo è basato sul consenso. Attualmente gli uomini vivono in un dato modo, perché lo ritengono loro interesse. Invero, si può tener soggetta per forza parte di una comunità o di un impero ; ma questa non può esser la forza personale del loro despota; dev’essere la forza di un’altra parte della comunità, che ritiene proprio interesse appoggiarne l’autorità. Demo

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  • lite questa opinione e la struttura che vi è costruita sopra crollerà a terra. Ne consegue pertanto che tutti gli uomini per propria natura sono indipendenti.

    (In ch iesta su lla g iu s tiz ia p o litic a )

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  • MAX STIRNER (pseudonimo di Kaspar Schmidt) (1806-1856)

    Filosofo appartenente alla sinistra hegeliana, fondatore della tendenza individualista dell’anarchismo europeo. Il suo libro fondamentale L 'U n ic o , è stato da sempre oggetto di controversie anche all’interno del movimento anarchico. Sviluppa una delle più radicali critiche dell’esistenza di Dio, aprendo la strada alla giusta collocazione della critica antireligiosa come critica antiautoritaria.

    — D e r E in z ig e u n d s e in E ig e n tu m , Leipzig, Verlag von Otto Wigand, 1901. Riproduzione con grafia modernizzata dell’edizione originale del 1844.

    — Traduzione italiana più recente e migliore a cura di Luciana Primiani Zacchini in « Gli Anarchici », voi. I, a cura di G. M. Bravo, Torino, UTET, 1971, pp. 321-670.

    — M a x S t ir n e r 's k le in e r e S c h r i f te n u n d s e in e E n t g e g a n g e n a u f d ie K r i t i k s e in e s W e r k e s « D e r E in z ig e u n d s e in E ig e n tu m ». A u s d e n J a h re n 1842- 1847, a cura di J. H. Mackay, Berlin, Schuster und Loeffler, 1898. Diverse ristampe con qualche modifica nel 1898, 1923 e 1966.

    — Traduzione italiana: S c r i t t i m in o r i e r i s p o s te a i c r i t i c i d e « L ’U n ic o » r a c c o l t i d a J o h n H e n r y M a c k a y , traduzione di Angelo Treves, Milano, Casa editrice sociale, 1923.

    B ibliografia es s e n z ia l e

    Basch V., L ’in d iv id u a l i s m e a n a r c h is te , M a x S t ir n e r , Paris 1904.Calogero G., M a x S t i r n e r e t le p r o b lè m e d e la v ie , Milano 1909.Cantella F., L e o p a r d i e M a x S t ir n e r , Pavia 1904.D’Angiò R., L ’a n a rc h ia . R if le s s io n i s u l l ib r o o m o n im o d i E . Z o c c o li , La

    Spezia 1910.Marx K. - Engels F., L ’id e o lo g ia te d e s c a , tr. it., Roma 1968.Nettlau M., B r e v e s to r ia .. . , op. cit., pp. 57 sgg.Woodcock, L 'A n a rc h ia , op. cit., pp. 81 sgg.Zoccoli E., L 'A n a rc h ia , Milano 1949, pp. 9 sgg.

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  • MAX STIRNER

    G li s p i r i t i d e g n i d i g u a r d a r e n e l p r o f o n d o a c q u is ta n o v e r s o c iò c h e è in f in ito u n a in f in ita f id u c ia .

    (Goethe)

    Se il godimento della vita deve trionfare sul desiderio o sulla speranza della vita, è necessario che li sottometta nel loro doppio significato, che Schiller presenta nell'Ideale e la v ita (') , che distrugga la miseria religiosa e mondana, cancelli l ’ideale, e la necessità del pane quotidiano. Chi deve sprecare la vita per poter campare, non la può godere, e chi si limita a cercare la sua vita, vuol dire che non la possiede e tanto meno la può godere: entrambi sono poveri, « ma beati sono i poveri ».

    Ciascuno diventa ciò che può diventare. A un poeta nato le circostanze sfavorevoli possono certo impedire d’essere all’altezza dei tempi e di creare opere d’arte perfezionate, dopo aver compiuti tutti gli studi necessari; ma egli comporrà poesie, sia se dovrà lavorare i campi sia se sarà tanto fortunato da vivere alla corte di Weimar (1 2). Un musicista nato farà della musica, non importa se su tutti gli strumenti o solo su una canna. Chi è portato dalla natura alla speculazione filosofica può manifestarsi come filosofo d'università o filosofo da villaggio. Infine, uno che sia nato stupido e che, come spesso succede, sia anche

    1 F. Schiller, D a s I d e a l u n d d a s L e b e n .2 Si riferisce a Goethe che visse alla corte di Weimar dal 1775 alla morte.

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  • in pari tempo un furbacchione, resterà sempre uno stupido, anche se a forza di spinte diventerà capo-divisione, o il lustra- scarpe di un capo-divisione. Sì, le teste che per nascita sono dure